Il termine fisso 8880634100, 9788880634102


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Il termine fisso
 8880634100, 9788880634102

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cop trollope (Utopia 12) 12-03-2005 11:12 Pagina 1 C

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Anthony Trollope

Il termine fisso A cura di Vita Fortunati Traduzione di Lucia Gunella

A. Trollope - Il termine fisso

Il romanzo di Anthony Trollope Il termine fisso che apparve nel 1882 suscita ancora oggi interesse nel lettore del ventunesimo secolo per le spinose questioni che solleva: il problema di una popolazione che invecchia, l’eutanasia e la cremazione. Opera per troppo tempo trascurata, viene oggi riletta e rivalutata, dandoci del suo autore un’immagine inedita rispetto a quella prevalente di uno scrittore del tutto integrato nella società vittoriana, che seppe descrivere con tanta precisione e accuratezza. Anthony Trollope che divenne popolare per le famose Chronicles of Barsetshire, con Il termine fisso si cimenta con il genere utopico descrivendo Britannula, una ex-colonia il cui presidente Neverbend vuole introdurre la nuova legge che stabilisce di terminare la vita ai cittadini che hanno raggiunto i sessantasette anni («il termine fisso»). Nonostante lo zelo fanatico del presidente, la popolazione insorgerà e la legge verrà abolita come pure l’istituzione del Collegio dove i cittadini dovevano trascorrere l’anno precedente la morte. Il linguaggio ironico, l’uso di eufemismi e di perifrasi per mascherare la brutalità della nuova legge e i metodi subdoli che si vogliono imporre, il modo di affrontare obliquamente problemi che erano già attuali nell’Ottocento (il pensionamento obbligatorio, la vecchiaia come fenomeno economico-sociale, le guerre imperialiste), rendono questa opera difficile da catalogare: utopia o distopia? Accanto ad aspetti chiaramente distopici e al pericolo di risolvere problemi legati ai valori umani con le statistiche e una filosofia utilitaristica, compare il tema della cremazione come soluzione a problemi pressanti quali il sovrapopolamento dei cimiteri e lo sfruttamento economico della morte. Trollope, paladino di questa pratica, ne discute i vantaggi, suscitando scalpore e scandalo tra i contemporanei. Il termine fisso, l’ultima opera scritta da un Trollope malato e vicino alla morte, si colloca a buon diritto tra le grandi antiutopie i cui maggiori rappresentanti nella tradizione inglese vanno da Swift a Butler, da Bulwer-Lytton a Orwell. È quindi un testo di grande attualità non solo per il dibattito sull’eutanasia e la cremazione, ma anche perché Trollope vede nella manipolazione del linguaggio e nel fanatismo integralista degli uomini al governo uno dei pericoli maggiori del totalitarismo nella nascente società di massa.

L130012

Forme dell’utopia - Testi

M

In copertina: Particolare della porta di ingresso tratto dal manifesto celebrativo della Società di cremazione di Torino, databile al 1911.

ISBN 88-8063-410-0

Longo Editore

15,00

Colori compositi

9 788880 634102

LONGO EDITORE RAVENNA

12. Anthony Trollope Il termine fisso a cura di Vita Fortunati

«Forme dell’Utopia» Sezione: Testi Collana del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia dell’Università di Bologna

Direttore della Collana Vita Fortunati (Bologna) Comitato scientifico Bronislaw Baczko (Ginevra) Krishan Kumar (Charlottesville, Virginia) Carmelina Imbroscio (Bologna) Nadia Minerva (Bologna) Silvia Rota Ghibaudi (Torino) Giuseppa Saccaro Del Buffa (Roma) Lyman Tower Sargent (St. Louis, Missouri) Raymond Trousson (Bruxelles) Comitato di redazione Raffaella Baccolini Vita Fortunati Nadia Minerva

Anthony Trollope

Il termine fisso a cura di Vita Fortunati Introduzione di David Skilton Traduzione e note al testo di Lucia Gunella

LONGO EDITORE RAVENNA

Questo volume è stato pubblicato con il contributo e nell’ambito del progetto ACUME Programma reti tematiche Socrates Si ringrazia la Fondazione Ariodante Fabretti per l’immagine della copertina.

ISBN 88-8063-410-0 Titolo originale The Fixed Period Traduzione italiana e note di Lucia Gunella  Copyright 2003 A. Longo Editore snc Via P. Costa, 33 - 48 100 Ravenna Tel. 0544.217026 - Fax 0544.217554 e-mail: [email protected] www.longo-editore.it I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale e parziale con qualsiasi mezzo (compresi film e copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi All rights reserved Printed in Italy

INTRODUZIONE

Sebbene pubblicato nel diciannovesimo secolo, Il termine fisso (The Fixed Period) suscita immediatamente l’interesse del lettore del ventunesimo. Le questioni che solleva − il problema di una popolazione che invecchia, l’eutanasia, la cremazione, le armi deterrenti, la disgregazione dell’impero e il ruolo dello sport nella politica internazionale − appaiono tutte attuali oggi e non le si avverte come questioni riesumate da intellettuali archeologi. Eppure di tutti i quarantasette romanzi di Anthony Trollope, questo è uno dei meno letti e studiati nel mondo anglofono. La ragione non è difficile da trovare. Per il lettore britannico, Trollope è un ritrattista superbamente abile della società vittoriana e l’incarnazione delle pretese borghesi verso il potere politico e l’autorità morale, mentre è soltanto marginalmente l’autore di un romanzo avveniristico. Celebrare Trollope nella sua patria come l’autore de Il termine fisso sarebbe come stimare Verdi principalmente quale compositore del quartetto per archi in Mi-minore. La visione più comune della narrativa di Trollope, che si era delineata assai presto nella carriera dell’autore, era quella di essere capace di presentare uno dei quadri più convincenti della vita della classe terriera e professionale con tutta la forza artistica e le debolezze associate a un’attenta osservazione dei valori borghesi. L’autore stesso aggravò il problema lasciando nella sua Autobiography postuma (1883) un resoconto sottile della propria vita che, letta sbadatamente, consentì ai suoi detrattori di costruirne l’immagine di scrittore meccanico, privo di immaginazione, che scriveva principalmente per i soldi e il prestigio sociale. In breve, questa versione presenta la carriera dello scrittore come un trionfo efficiente della forza di volontà sulle avversità. Trollope nacque a Londra nel 1815 in una famiglia borghese di professionisti con legami con la piccola nobiltà terriera e vi morì nel 1882. Dopo la bancarotta del padre avvocato, che avvenne quando Anthony era adolescente, la famiglia fu mantenuta dalla madre che nella mezza età avviò una carriera di grande successo

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David Skilton

come scrittrice. Sembra che nessuno nutrisse speranze di successo mondano per Anthony che fu uno scolaro e poi un giovane goffo e triste fino a quando l’ufficio postale dove era impiegato non lo spedì in Irlanda, dove cominciò una nuova vita e dopo un po’ si accinse a scrivere romanzi. Nel corso della sua esistenza godette di una considerevole stima, scrivendo quarantasette romanzi, otto libri di viaggio e molti racconti brevi mentre intraprendeva la sua carriera di impiegato pubblico, rappresentando il suo paese negli Stati Uniti in occasione di negoziazioni sui servizi postali transatlantici e il diritto d’autore internazionale. The Warden (1855), il suo primo romanzo di successo, fu il primo della serie immensamente popolare delle Chronicles of Barsetshire: Barchester Towers (1857), Doctor Thorne (1858), Framley Parsonage (1860-61), The Small House at Allington (1862-4) e The Last Chronicle of Barset (1866-7). Ugualmente famosi divennero i sei romanzi «Palliser»: Can You Forgive Her? (1864-5), Phineas Finn (1867-9), The Eustace Diamonds (1871-3), Phineas Redux (1873-4), The Prime Minister (1875-6) e The Duke’s Children (1879-80). Dei suoi molti altri romanzi, He Knew He Was Right (1868-9) e The Way We Live Now (1874-5) sono fra i più frequentemente citati come i più grandi romanzi del periodo vittoriano centrale. Per la maggior parte, questi libri venivano pubblicati mensilmente o a puntate su riviste. Come i romanzi di Dickens, questi venivano letti per periodi fino a diciannove mesi, insinuandosi nelle vite dei loro lettori come fanno oggi le serie televisive o le telenovelas. Molti dei contemporanei di Trollope confermano la forte attrazione che le sue storie avevano sui suoi lettori e la scrittrice Elizabeth Gaskell non fu la sola a esclamare: «Vorrei che il Signor Trollope continuasse a scrivere Framley Parsonage per sempre. Non vedo ragione perché debba finire e tutti quelli che conosco temono costantemente il sopraggiungere dell’ultimo numero»1. La storia della sua vita come lui la racconta mostra anche quanto fossero pratici i suoi atteggiamenti verso la composizione letteraria. Nessun romanziere fu mai più convinto di dovere la propria posizione sociale alla propria professionalità, fu mai più metodico nel processo di composizione, più esperto nel negoziare con gli editori o meno incline a pretendere per sé lo status di artista ispirato. Con l’intento di staccarsi dal mito dello scrittore come eroe ispirato dai principi estetici, affermò che la scrittura era un mestiere, praticato onestamente o disonestamente, ma molto simile al lavoro di un artigiano come il calzolaio. Nel 1861, anni prima di scrivere An Autobiography, James Russell Lowell sentì Trollope fare questo paragone a Boston, Massachusetts: «L’altro giorno ho cenato con Anthony Trollope... dice che lavora a un romanzo proprio come un calzolaio su una scarpa, facendo soltanto attenzione

1 Si veda D. Skilton, Anthony Trollope and His Contemporaries: a Study in the Theory and Conventions of Mid-Victorian Fiction, London, Macmillan, 1996; prima edizione 1972, p. 19.

Introduzione

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a mettere bene i punti»2. Quando il calzolaio fa la sua comparsa in An Autobiography, Trollope attacca apertamente quelli: che pensano che l’uomo che lavora con la propria immaginazione dovrebbe permettersi di aspettare fino a che non lo muova l’ispirazione. Quando ho sentito predicare tale dottrina non sono stato proprio in grado di reprimere il mio disprezzo. A mio parere non sarebbe più assurdo se il calzolaio aspettasse l’ispirazione, o il fabbricante di candele di sego il momento divino dello scioglimento. Se l’uomo il cui mestiere è scrivere ha mangiato troppe cose buone o ha bevuto troppo, o ha fumato troppo sigari − come talvolta fanno gli uomini che scrivono − allora la sua condizione può essere sfavorevole al lavoro; ma così sarà la condizione di un calzolaio che sia stato altrettanto imprudente. Talvolta ho pensato che la mancanza di ispirazione fosse la cura che il tempo avrebbe dato per i cattivi risultati di tale imprudenza3.

A una prima lettura, An Autobiography appare come la testimonianza di una vita prodigiosamente creativa e fertile che non bada al processo stesso della creatività e i lettori abituati a narrazioni di genio che soffrono agonie ed estasi per la causa dell’arte si chiedono cosa stia facendo Trollope e perché mai stia scrivendo la sua storia se non può evocare estasi di entusiasmo. Alcuni critici devono aver pensato che a Trollope mancasse l’immaginazione e che, pertanto, la sua narrativa fosse il prodotto non dell’invenzione, ma della riproduzione del mondo intorno a lui. A sostegno di quest’opinione, generazioni di critici hanno citato un passaggio nel quale Nathaniel Hawthorne esprime meraviglia all’apparente solidità del mondo romanzesco del suo scrittore fratello: ... il mio gusto personale è per un’altra classe di opere rispetto a quelle che sono capace di scrivere. Se dovessi imbattermi in libri come i miei, scritti da un altro scrittore, non credo che saprei leggerli. Avete mai letto i romanzi di Anthony Trollope? Sono assolutamente adatti al mio gusto − solidi e sostanziali, scritti con l’energia della carne e l’ispirazione della birra e tanto reali come se un gigante avesse estratto un grosso pezzo di terra e l’avesse messo sotto una teca di vetro, con tutti i suoi abitanti che sbrigano i loro affari quotidiani senza sospettare di essere protagonisti di uno spettacolo. E questi libri sono tanto inglesi quanto una bistecca. Sono mai stati letti in America? Occorre la residenza inglese per renderli completamente comprensibili, anche se dovrei pensare che la Natura umana gli darebbe successo ovunque4.

Ci sia consentito notare che nell’opinione di Hawthorne la «residenza

2 Lowell a un corrispondente sconosciuto, 20 Settembre 1861, in H.E. Scudder, James Russell Lowell: A Biography, 2 vols, London, Macmillan & Co, 1901, ii, pp. 82-83. 3 A. Trollope, An Autobiography, a cura di D. Skilton, London, Penguin, 1996, pp. 8182. I riferimenti successivi sono a questa edizione. 4 Ibidem, p. 96.

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inglese» e una comprensione totale della vita inglese sono requisiti essenziali per apprezzare la narrativa realistica di Trollope: questo fatto può spiegare la carenza delle traduzioni italiane delle opere di questo autore, perché contengono elementi appartenenti a un sistema culturale tanto diverso dal nostro come, ad esempio, la società terriera vittoriana, la Common Law inglese e la religione di stato protestante. Ma tralasciando ciò, si può notare che l’elogio di Hawthorne può essere usato a detrimento di Trollope, rinforzando il mito che egli «riproducesse» soltanto la società nella quale aveva vissuto senza nessun intervento dell’immaginazione. I molti ammiratori dell’autore si chiedono spesso se i suoi detrattori abbiano mai cercato di presentare un resoconto della loro società e con quanto successo. Il fatto è che Trollope ha costruito mondi narrativi che funzionavano secondo regole che i suoi contemporanei riconoscevano come operanti nelle loro stesse vite e la cui plausibilità scaturiva dalla chiarezza con la quale egli aveva compreso la società dalla quale si era sentito escluso così a lungo. Nel suo Studies in Early Victorian Literature (1895), Frederic Harrison spiega che riconosceva il mondo della narrativa di Trollope perché lui stesso ci viveva e ne conosceva le persone5. Anche Trollope viveva in quel mondo e la forza della sua narrativa è che lui vi apparteneva pur conservando quella sensazione di essere «un Paria» che gli consentiva di offrire una prospettiva critica su di esso persino mentre lo celebrava. In questo senso aveva la percezione di uno scienziato sociale moderno e venne elogiato da un contemporaneo perspicace come un grande «naturalista sociale» che «conosce realmente ciò che possiamo chiamare la storia naturale di ogni tipo di uomo o donna» e che presenta il proprio mondo per mezzo di un «linguaggio artificiale» costituito dalle maniere sociali6. Nel corso della sua carriera di scrittore, Trollope continuò a fare esperimenti con i concetti di personaggio e trama, con le convenzioni relative all’inizio e alla fine delle sue storie e con le nuove convenzioni del realismo letterario che si venivano articolando in quegli anni. Eppure il mito del romanziere senza fantasia si radicò saldamente. Abbiamo la parola dei suoi contemporanei su quanto apparisse loro come una persona diretta e abbiamo la sua stessa parola nella Autobiography sul fatto che lavorasse come un artigiano. Ma quale credito dovremmo dare a questo o ad altri aspetti del racconto di Trollope della propria vita? In ogni caso, la presentazione di se stesso come affidabile − anche se vera nel senso più letterale − non dovrebbe essere applicata acriticamente alla sua arte narrativa, romanzesca o non. Persino la narrazione non romanzesca è invenzione e ogni invenzione è inattendibile in un certo grado. Tutti i narratori sono bugiardi, come i proverbiali cretesi, e sempre da credere di meno proprio quando pretendono di dire la verità. Non

5 F. Harrison, Studies in Early Victorian Literature (1895), p. 201, in R.C. Terry (a cura di), Trollope: Interviews and Recollections, London, Macmillan, 1987, p. 188. 6 D. Skilton, Anthony Trollope and His Contemporaries, cit., p. 115.

Introduzione

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disposti a credere che la voce che si rivolge a noi in An Autobiography − franca ed amabile come è − potrebbe non fornirci un resoconto diretto, come lettori siamo riluttanti a vedere in Trollope un artista che sperimenta incessantemente con il soggetto romanzesco, la forma narrativa e il punto di vista. Il termine fisso, che è l’esempio più estremo della sua sperimentazione, è stato, di conseguenza, il romanzo meno compreso. La versione semplificata della vita del romanziere appare come la storia della sua accettazione trionfante nel mondo borghese vittoriano e l’immagine che presenta di creatività bloccata dalle convenzioni sociali ha contribuito a determinare questa visione critica predominante nel mondo anglofono. Trollope viene presentato come un membro essenzialmente conformista della società vittoriana, i cui romanzi non riescono a sollevare questioni perturbanti sull’epoca in cui queste sono state generate. Ma una disamina più attenta delle tecniche narrative di Trollope, insieme a una lettura più approfondita della sua Autobiography pubblicata postuma, rivela una storia di gran lunga più complessa di sperimentazione artistica e di messa in discussione dei valori sociali. L’Autobiography di Trollope è un libro indispensabile per ogni lettore della sua narrativa. Racconta la storia di un uomo eccezionale che ha fatto sforzi immensi per sembrare meno notevole possibile e il cui talento artistico era sostenuto da una resistenza fisica e una forza mentale prodigiose. La storia del trionfo finale dell’autore su un’infanzia triste e una gioventù senza distinzione ha raggiunto uno status pressoché mitico, di fama uguale al racconto di Dickens delle sofferenze della sua infanzia quando fu mandato a lavorare in un magazzino di lucido nero (per stivali) dopo la bancarotta di suo padre. Ma il mito è una semplificazione che presuppone sempre la possibilità di un assorbimento completo nella società borghese e un’amnesia totale riguardo al trauma che l’accompagna. Sebbene Trollope e Dickens celebrassero l’ascesa sociale dei loro personaggi, consentendo loro una sistemazione non problematica in nuove circostanze, entrambi i romanzieri furono perseguitati tutta la vita dalle proprie precoci sofferenze. I romanzi del periodo vittoriano centrale eliminano in gran parte quei ricordi che disgregherebbero la stabilità della loro conclusione. Il termine fisso è una delle rare creazioni artistiche che sembrano scaturire dai conflitti di appartenenza irrisolti. La storia personale di Trollope, come quella di Dickens, si incentra sul fallimento finanziario e il disonore sociale, con ciascuna fase della china discendente della famiglia che porta con sé una nuova fase di sofferenza per questo ragazzo senza amici, «grosso, goffo e brutto... malvestito e sporco»7. La mancanza di senso pratico e intrattabilità di suo padre condussero al debito e alla fuga della famiglia in Belgio, in modo che il padre potesse evitare la prigione che fu il destino di Dickens padre. Alla deriva a Londra, senza consiglio, disciplina o sostegno e perennemente indebitato, Trollope ricorda se 7

A. Trollope, An Autobiography, cit., p. 12.

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stesso come costantemente sull’orlo del precipizio sociale che divideva coloro che erano socialmente «rispettabili» da quelli al di sotto, sempre a rischio di precipitare in basso. La storia successiva di come il tardo successo letterario condusse alla sua accettazione nei club di Londra e alle amicizie coi ricchi e famosi, rende toccante il racconto e spiega l’importanza che, nella sua narrativa, egli associa al fatto che i suoi personaggi si comportino come «signore» o «gentiluomini» e siano qualificati ad appartenere a quella cerchia sociale dalla quale il giovane Anthony Trollope si sentì escluso. Se i personaggi dei romanzi si buttano dietro le spalle le loro lotte e sofferenze, il narratore di An Autobiography fu incapace di fare altrettanto. Il termine fisso è senza dubbio la presentazione di alcuni aspetti problematici dell’esperienza sociale dell’autore, ma non è neppure un romanzo calcolato per proiettare un’immagine di appagamento nei confronti del mondo nel quale lo scrittore si trova. In effetti, come vedremo, il germe dell’idea può bene essere stato il fatto che Trollope sentiva che a sessantacinque anni non era più considerato un membro utile della società. D’altra parte, anni prima aveva espresso la paura dell’infelicità che il futuro avrebbe potuto riservargli: [...] dal giorno in cui misi piede in Irlanda tutti questi mali si sono dileguati. Da allora chi ha avuto una vita più felice della mia? Guardando intorno a tutti quelli che conosco, non posso mettere la mano su nessuno. Ma non è ancora finita. E conscio di ciò e memore di quanto è grande l’agonia dell’avversità, quanto schiacciante lo sconforto della degradazione, quanto sono suscettibile all’infelicità che deriva dal disprezzo − e memore anche di quanto rapidamente le cose buone se ne possono andare e le cattive arrivare − sono spesso tentato di sperare, quasi di pregare che la fine sia vicina. Le cose possono andare bene ora; Sin aliquem infandum casum, Fortuna, minaris; Nunc, oh nunc liceat crudelem abrumpere vitam8. C’è un’infelicità così grande che proprio la paura di essa si amalgama con la felicità. Allora avevo perso mio padre, mia sorella e mio fratello − poi un’altra sorella e mia madre; ma non ho ancora perso una moglie o un figlio9.

Il termine fisso è una risposta elaborata alle assurde e scomode caratteristiche del mondo ottocentesco: il pensionamento obbligatorio, con l’implicita assunzione dell’inutilità della vecchiaia; una nuova ondata di imperialismo britannico, tenuta a galla dalla retorica della missione umanitaria e dalla benevolenza; il pericolo implicito nel risolvere i problemi umani tramite la statistica e l’economia politica e il dare importanza a sport nazionali ed internazionali di recente istituzione.

8 Virgilio, Eneide VIII, 578-9. La citazione significa: «Se tu minacci qualche caso nefasto, oh Fortuna, ora, oh ora, sia lecito spezzare la vita crudele». 9 A. Trollope, An Autobiography, cit., p. 43.

Introduzione

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Il termine fisso si basa sull’idea che nella seconda metà del ventesimo secolo una lontana colonia britannica ha perseguito con successo l’indipendenza e poi ha usato la propria nuova libertà legislativa per introdurre l’eutanasia obbligatoria all’età di sessantasei anni con il fine di sollevarsi dal carico di una popolazione che invecchia e sollevare gli stessi anziani dal fardello della loro vita che continua. Nonostante una rete di riferimenti personali e d’attualità, come si trova di solito in un romanzo vittoriano, quello che più immediatamente colpisce il lettore è l’insolito distacco di Trollope dal suo soggetto. In generale, leggendo un romanzo di Trollope, il lettore è preparato a giudicare ciò che viene presentato come qualcosa di parallelo al mondo «reale». Ci sono prove in abbondanza nel mondo narrativo dell’operare di leggi socioeconomiche familiari e di altre forze che plasmano le vite delle persone, e quei lettori che hanno un gusto per le più grandi costruzioni del pensiero umanista considerano i personaggi dei romanzi come esempi rappresentativi della «natura umana» in azione. Inoltre, molte delle frequenti discussioni sulla narrativa all’interno della narrativa stessa, il suo mondo e il suo operare, coincidono con le opinioni o l’esperienza proprie dell’autore come egli esprime altrove. Siamo pertanto cullati in un falso senso di sicurezza, basato sul presupposto che siamo in qualche modo in contatto con la mente dell’autore e che il narratore, sia esso onnisciente o un protagonista, sia in qualche misura Trollope stesso. Ma il filo della sua storia non è sempre così dritto. Uno dei suoi racconti brevi «A Ride across Palestine» disturba talmente le nostre presupposizioni sul suo autore da indurci a contemplare una situazione in cui un gentiluomo vittoriano si offre di strofinare la sella di una giovane signora con il brandy − ma persino questo narratore protagonista assomiglia all’Anthony Trollope dei suoi viaggi. Vi sono casi più estremi. Il narratore non attraente di «George Walker at Suez», per esempio, è uno dei pochi casi in cui Trollope riesce con successo ad assumere il ruolo di un personaggio estraneo e a costringerci temporaneamente a cambiare le abitudini di lettura che di solito abbiamo verso le sue opere. Il termine fisso va ben oltre. Il narratore di questo romanzo è la voce più completamente inattendibile che Trollope abbia mai assunto e il romanzo stesso è l’esercizio di ironia più complesso mai prodotto da questo grande prosatore realista vittoriano. È abbastanza facile conciliare molta dell’ironia de Il termine fisso con la sana moralità e il buon senso vittoriani. Nello sposare la causa dell’eutanasia obbligatoria, il Presidente Neverbend si oppone direttamente agli standard accettati della civiltà occidentale e l’ironia consiste in ciò che un critico letterario definì negli anni settanta come «una modalità di discorso che con la derisione dice esattamente l’opposto di ciò che vuole veramente dire; che elogia ciò che desidera biasimare... e biasima ciò che desidera elogiare»10.

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Da un riassunto delle idee dei romantici tedeschi contenuto in «A Smoking Satirist», una recensione di Erewhon di Samuel Butler, in Cope’s Tobacco Plant (July, 1871), p. 336.

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Analizzato in questi termini, il «significato» de Il termine fisso è per la maggior parte facile da localizzare. Lo schema politico che il narratore sostiene «consiste nell’abolizione delle miserie, della debolezza e imbecillità fainéant della vecchiaia mediante la prefissata cessazione dell’esistenza di coloro che altrimenti invecchierebbero» (p. 34). Con un semplice ribaltamento, scopriamo che si vuole che i lettori comprendano che questo modo legalizzato di uccidere è una cosa cattiva, che la vita umana sarà sempre rispettata, che i vecchi saranno curati teneramente dai giovani e così via. Lungo la strada prendiamo nota del fatto che Mr Neverbend si considera un benefattore della razza umana, ma che noi lo identifichiamo con un estremista pericoloso il cui fanatismo ha ottenuto una risonanza che Trollope non poteva aver previsto, dal momento che deforma la lingua in un modo che è divenuto paurosamente familiare in seguito alla nostra esperienza dei regimi autoritari nel ventesimo secolo. Nella soluzione finale di Neverbend ai problemi di una popolazione che invecchia, le parole «uccisione», «vittima» ed «esecuzione» sono bandite. La prigionia forzata diventa «la deposizione» mentre la morte per mano degli agenti dello stato diventa una «modalità di transizione» e «un atto di grazia» da raggiungere con una «graziosa e allettante» cerimonia. Una raggelante pseudo-ragionevolezza, caratteristica di certi tipi di espressione politica e burocratica, informa espressioni come «la prefissata cessazione dell’esistenza di coloro che altrimenti invecchierebbero» (p. 34). Sembra che qualcuno abbia inventato il verbo «termine-fissare» − un uso che mette in luce la stranezza di questa terra avveniristica di gran lunga più efficacemente della tecnologia immaginata da Trollope fatta di vapotricicli e telefoni senza fili. Fino a qui non vi è difficoltà di interpretazione. E allo stesso tempo è persino possibile fornire una spiegazione biografica plausibile: prossimo al suo «termine fisso» Trollope, sovrappeso, asmatico e sofferente di angina, scriveva ancora attivamente e «biasimando ciò che desiderava elogiare» dimostrava come era preziosa la vita dopo i sessantacinque anni e quanto tenacemente ci si rimaneva attaccati. Inoltre, se fosse rimasto dipendente pubblico, sarebbe andato incontro alla pensione obbligatoria in quanto presumibilmente troppo debole a causa dell’età per essere utile nel lavoro. È probabile che l’opera sia dunque alimentata da sentimenti personali sull’invecchiamento e che, attraverso la sua ironia, sia una celebrazione del permanere del valore della vita dopo l’età del pensionamento imposta dal governo. Il testo «elogia ciò che vuole biasimare» e crea i suoi effetti mettendo in mostra la retorica del fanatismo. Il passaggio seguente ne è un esempio eccellente: L’umanità ha commesso due errori verso la propria discendenza. Il primo è stato quello di permettere al mondo di essere oppresso dal mantenimento continuo di coloro le cui preoccupazioni si dovrebbero far cessare e ai cui problemi si dovrebbe porre termine. [...] Il secondo è stato di esigere da quelli che rimangono

Introduzione

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di vivere una vita inutile e dolorosa. (p. 34)

Il proponente principale del «Termine fisso» sostiene che per lui «la prospettiva politico-economica della questione è sempre stata molto forte», e che, come molti altri estremisti, è convinto che le persone possono essere «educate» ad accettare le sue opinioni: Di fatto, non vi era nulla da ribattere contro di noi eccetto ciò che riguardava i sentimenti dei giovani e dei vecchi. I sentimenti sono mutevoli [...] (p. 36) Dopo tutto, sapevo fin dall’inizio che la paura della morte era una debolezza umana. Cancellare quella paura dal cuore dell’uomo e costruire un’umanità perfetta che fosse liberata da una schiavitù così vile, era stato uno degli obiettivi principali del mio piano. (p. 56)

Tutto ciò − raggelante com’è nella sua eco per i lettori che conoscono la storia del ventesimo secolo − viene facilmente accettato come un rovesciamento diretto delle opinioni dell’autore e della sua società. Analogamente, non è difficile conciliare la serie di shock calcolati che Trollope somministra ai suoi lettori contemporanei che imparano, tra l’altro, che soltanto la «feccia della popolazione» aderisce alla causa britannica in questa ex-colonia. L’effetto generale di straniamento è rafforzato da riferimenti a una guerra navale anglo-francese contro la Russia e gli Stati Uniti, la lotta violenta della Nuova Zelanda per l’indipendenza e la secessione degli stati occidentali d’America. La situazione, tuttavia, è complicata dal fatto che Neverbend crede in un numero di cose che successivamente i lettori potranno trovare perfettamente accettabili e ad almeno una che si sa che l’autore stesso ha sottoscritto. A Britannula, per esempio, lo studio delle lingue moderne è universale nelle scuole, la cremazione è legale e la pena di morte è stata abolita. Queste cose servono sia a creare un mondo romanzesco sia a caratterizzare il Presidente Neverbend, ma l’ironia del libro è più sottile di quanto ciò suggerisca. Le ulteriori impressionanti deformazioni della lingua non provengono dall’idealismo sbagliato o dal fanatismo di Neverbend, ma dagli inglesi che mettono fine al «Termine fisso» con la forza. I benefici che si possono ricavare dall’uccisione degli anziani sono elencati con un effetto che ricorda più facilmente la Modest Proposal di Swift per risolvere il problema della sovrappopolazione e la carestia in Irlanda che consisteva nel cucinare e mangiare i ragazzi e i bambini, fornendo ricette appropriate allo scopo. Un altro grande scrittore satirico, George Orwell, balza alla mente come confronto per le perturbanti ironie politiche di Trollope ed è attraverso il «Grande Fratello» di 1984 di Orwell che il lettore moderno leggerà quasi inevitabilmente del «Ministro della Benevolenza», che ha sostituito il Ministro della Guerra in Inghilterra, il quale ha inviato una cannoniera, la HMS John Bright, intitolata a un famoso pacifista vittoriano, a soggiogare l’ex-colonia. La nave è armata di un

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enorme «cannone brandeggiabile da 250 tonnellate», un’arma estrema tanto potente da poter distruggere una città con un colpo e tanto devastante da non aver mai bisogno di essere usata. (L’idea di un’arma troppo potente per usarla può derivare dal romanzo fantascientifico di Bulwer Lytton The Coming Race (1871) in cui degli individui controllano una forza, il «vril», che ha un enorme potenziale per il bene o per il male e che ha sviluppato il loro senso di responsabilità morale a causa dell’effetto letale che il liberarla avrebbe). L’Inghilterra ne esce piuttosto male, anche se il suo atteggiamento verso la longevità può non essere censurabile: è il governatore inglese imposto di recente che «infioretta discorsi, pensando che possano sostituire la nostra indipendenza» (p. 41) − un’altra caratteristica della politica mondiale che è fin troppo riconoscibile oggi. Vi è poi un piega ironica. I rappresentanti di ciò che si suppone l’autore «voglia elogiare» vengono condannati moralmente. Inoltre, il sistema che «desidera biasimare» include uno dei progetti preferiti di Trollope: la cremazione. Vale la pena di seguire questa traccia. Anche se la cremazione è oggi un luogo comune in Inghilterra, quando Trollope scrisse Il termine fisso non era legale e non lo diventò fino al 1884, due anni dopo la sua morte, quando un medico generico gallese radicale, il Dottor William Price, fu assolto dall’accusa di aver cremato un neonato. Era un argomento dalla forte carica emotiva, in cui la cremazione era associata al paganesimo pre-cristiano in Europa e al politeismo indiano altrove nel mondo. In Inghilterra la cremazione attrasse, da un lato, figure dell’establishment e, dall’altro, politici estremisti e radicali. Lo stesso Price fu un fautore ardente del suffragio universale e un sostenitore del socialista liberale francese, Proudhon. Neverbend ricorda di aver letto: «come in Inghilterra fosse stato permesso ai sentimenti di intralciare il cammino del grande lavoro della cremazione» (p. 36). Da questo riferimento possiamo inferire che la questione era più profondamente radicata nella concezione de Il termine fisso di quanto non sembrasse in prima battuta. La resistenza al sistema di Neverbend è puntata in modo sorprendente non solo contro l’eutanasia obbligatoria ma contro la cremazione e, sebbene le due questioni ci sembrino oggi diverse, la violenta reazione pubblica contro quelli che sostenevano la cremazione nell’Inghilterra degli anni settanta dell’ottocento potrebbe aver suggerito all’autore nel 1880 l’idea del filantropo solitario (sebbene in questo caso fuorviato) che difende i suoi ideali a Britannula nel 1980. In seguito ad un’analisi più approfondita, questa idea non è poi così fantastica. Trollope, insieme al suo amico pittore John Everrett Millais e ad altri, fu uno dei firmatari di un documento che diede vita alla «Cremation Society of England» nel 1874, sotto la guida del chirurgo della Regina, Sir Henry Thompson. Nel gennaio e nel marzo 1874, Thompson pubblicò due articoli nella Contemporary: Review che furono ripubblicati come pamphlet nel marzo dello stesso anno con il titolo Cremation: The Treatment of the Body After Death. Gli scopi dei cremazionisti erano igienici, sociali ed eco-

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nomici − per esempio, ridurre il rischio di malattie infettive e alleggerire la pressione sulle terre intorno alle loro città. Un altro aspetto che doveva piacere particolarmente a Trollope, col suo disgusto per i funerali stravaganti e il lutto protratto, che celebravano il morto a spese del vivo, era la possibilità che un cambiamento nelle usanze funebri portasse finalmente una rivoluzione negli atteggiamenti sociali verso la morte. Per Sir Henry Thompson la cremazione offriva: l’opportunità... di fuga dall’orribile ma costoso cerimoniale che attende le nostre spoglie dopo la morte. Quanto spesso gli scarsi utili della vedova e dell’orfano diminuiscono per dare una testimonianza, e così inutilmente, della loro amorosa memoria del defunto, facendo mostra di pennacchi e fasce di seta intorno al corpo inerme11.

I cremazionisti avevano un sostegno letterario e filosofico per le loro opinioni. Nella sua Utopia (1515-16), Thomas More descrive celebrazioni gioiose per le cremazioni degli utopiani; in Erewhon (1872) Samuel Butler considera la cremazione e lo spargimento delle ceneri aspetti di un atteggiamento sano degli erewhoniani verso la morte, mentre in The Coming Race (1871) anche Bulwer Lytton associa la cremazione a una sana mancanza di un eccessivo lutto pubblico, sebbene la sua visione, diversamente da quella di Trollope o di Thompson, sia in fondo religiosa e non di un laico buon senso. Ma in tutti questi casi l’obiettivo è, nelle parole di Bulwer Lytton, non «investire la morte con associazioni tetre e orrende»12. I metodi di Neverbend sono più estremi, ma anche lui desidera produrre un cambiamento verso atteggiamenti pubblici «più sani» verso la morte attraverso la vittoria della ragione su sentimenti ereditati. C’è una stretta somiglianza tra i metodi di argomentazione di Neverbend e del chirurgo della Regina. Quando il Presidente di Britannula calcola il risparmio finanziario netto annuale grazie allo smaltimento di tutti i sessantasettenni (p. 35), può apparire meno attraente ma non è più ridicolo di Thompson quando calcola il risparmio nazionale sui fertilizzanti agricoli di «molto più di mezzo milione di sterline annue attraverso lo spargimento di ceneri umane sul terreno»13. Qualche cosa in questo modo molto vittoriano di argomentare in semplici termini monetari sembra avere colpito Trollope come assurda o sgradevole e la pesante solennità dei macabri calcoli di Neverbend assomiglia stranamente a quella di Thompson. La somiglianza finale tra il filantropo della vita reale e quello del romanzo ironico è che ciascuno viene coperto di insulti quando i propri oppositori l’accusano di «fero11

Sir Henry Thomson, The Treatment of the Body after Death, 2nd edition, London, 1874, p. 19. 12 E. Bulwer Lytton, The Coming Race, Edimburgh, 1871, p. 200. 13 Thomson, The Treatment of the Body after Death, cit., p. 11.

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cia e cannibalismo» nel caso di Thompson14, o di essere «un cannibale sanguinario» nel caso di Neverbend. Quello che Trollope ha fatto è stato prendere un insieme di reazioni pubbliche e personali verso un piano di riforma nel quale credeva e trasferirlo ironicamente in una proposta che il lettore doveva trovare repellente, pur conservando la narrativa, per tutta la sua durata, vicino al monomaniacale che difende la riforma. Naturalmente, se Trollope sperava di favorire la causa della cremazione, si sbagliava della grossa perché la cosa peggiore che avrebbe potuto fare era associarla nella mente pubblica con l’orrore maggiore dell’eutanasia obbligatoria. E poi Trollope non scriveva crociate narrative. Ciò che Il termine fisso presenta è uno studio su ciò che significa essere un sostenitore fanatico di una riforma che incontra con grande resistenza pubblica, e ciononostante credere costantemente che si poteva insegnare ai sentimenti dei propri oppositori «a ubbidire alla ragione». Alcuni dei contemporanei di Trollope giudicarono il libro un mero jeu d’esprit, ma un’analisi più ravvicinata lo rivela come un’opera dalla complessa ironia, o al minimo, una presentazione dei problemi morali e politici che coloro che cercano di realizzare ardite riforme sono chiamati ad affrontare. Chiaramente Il termine fisso non è ironico nel senso semplice e quotidiano che implica che un ribaltamento di tutte le opinioni espresse arrivi alla «verità» delle opinioni proprie dell’autore attraverso un qualche tipo «cambio di segno» matematico. Inoltre, come da buon ironico, Trollope oscurò ulteriormente la questione nella vita reale. Come abbiamo visto, il suo atteggiamento verso il suo stesso invecchiare è misto. Non era un giovane di sessantacinque anni e l’asma e l’angina gli davano sempre più problemi. Ma continuava a scrivere con la stessa energia e si dice che abbia detto adirato ad un interlocutore, un «amico intimo», che intendeva dire «ogni parola» de Il termine fisso15. La sua replica è decisamente inutile e ci induce a rivolgerci verso un altro concetto di ironia come «non soltanto un chiaro resoconto dei (pensieri sotto esame) ma... la necessaria controparte o il complemento dell’ispirazione artistica; il galleggiare dell’artista sopra la materia che tratta, il suo giocarci liberamente16. I biografi e i critici di Trollope fanno bene a ricordare che, per quanto attratti dall’invito a considerare i suoi testi come estensioni non problematiche del mondo, lo fanno a loro pericolo. L’idea dell’eutanasia obbligatoria fu probabilmente suggerita dall’opera teatrale di Massinger The Old Law che si sa che Trollope aveva letto alcuni anni prima, l’8 luglio 1876. The Old Law non è uno dei grandi drammi in lingua inglese e ci sono pochi collegamenti testuali stretti tra le due opere, ma

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Ibidem, p. 43. Anon. [W. Lucas Collins], «The Autobiography, of Anthony Trollope», Blackwood’s Magazine, 134 (Nov. 1883), pp. 577-96. 16 In «A Smoking Satirist», cit. 15

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quella di Massinger riguarda la ripresa di una «la vecchia legge» che consente ai figli di padri vecchi di farli mettere a morte in modo da ereditare la loro proprietà. I temi dell’avidità e dell’empietà del vecchio sono pertanto presenti in entrambi i testi, come lo è il conflitto tra le leggi scritte e la moralità. È certamente giusto considerare l’opera teatrale come una sorta di «donnée» (nel senso in cui Henry James usava la parola per descrivere il germe di uno dei suoi romanzi) piuttosto che come una fonte di dettagliata ispirazione per Il termine fisso. Il materialismo dei personaggi di Massinger è reso attuale dall’uso dell’evidenza statistica da parte di Neverbend: «Le statistiche dicono che il sostentamento sufficiente a un vecchio è più costoso di quello di un giovane» e l’opinione contraria è considerata «una delicatezza [...] inopportuna e avventata [...] non migliore di un’imperdonabile debolezza» (pp. ) − argomenti raggelanti che anticipano nuovamente la retorica della pseudo-ragionevolezza dei regimi totalitari del ventesimo secolo e che mostrano, in un modo che disturba, quanto siano radicati in qualche genere di analisi sociale e statistica dalle quali anche le democrazie permettono di farsi guidare nella formulazione della politica. Eppure (e qui il pericolo di «interpretare» le ironie complesse diventa apparente) questa stessa applicazione della ragione conduce all’abolizione della pena di morte a Britannula, una misura sulla quale il lettore di oggi la penserà probabilmente in modo diverso dalla maggior parte del pubblico dell’autore. Analogamente, la pratica della cremazione, non essendo stata accolta dalla maggior parte dei lettori originali di Trollope come un segnale «del progresso della civiltà», è oggi generalmente accettabile in tutto il mondo anglofono. E, non sapendo se queste cose rappresentano nel testo esempi di una riforma benevola e ragionevole o esempi di un idealismo fuorviato, veniamo lasciati incerti riguardo a come si sarebbe potuto leggere il testo quando apparve per la prima volta e siamo rigettati indietro verso le nostre risorse di negoziazione con il testo. Su alcune questioni conosciamo le opinioni personali di Trollope − ad esempio, la sua insistenza sul bicameralismo come salvaguardia costituzionale è evidente nelle discussioni politiche contenute nel suo libro Australia and New Zealand (1873) e nella sua ammirazione per le forze della Costituzione americana nella quale, come a Westminster, l’esistenza di una camera alta e una bassa conserva i controlli e il bilancio tanto amati dai costituzionalisti vittoriani, come Walter Bagehot. (Dobbiamo ricordare che Trollope era un grande viaggiatore interessato tanto alle questioni internazionali quanto a quelle nazionali). Possiamo anche immaginare un’accettazione interessata, nove anni dopo l’Education Act, del commento di Neverbend secondo cui sebbene «non vi è uomo o donna nelle Isole britanniche che sia ignorante delle proprie lettere [...] tale conoscenza raramente si avvicina ad un qualche gusto letterario (p. 41). Chiaramente Trollope si sta anche divertendo. I suoi rapporti personali con William Gladstone, il grande Primo Ministro liberale dell’epoca, erano turbolenti in quel periodo e quindi ritorna al suo precedente attacco in Au-

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stralia and New Zealand sulla scorrettezza grottesca (secondo gli standard «signorili» convenzionali dell’epoca) di intitolare a Gladstone la capitale proposta del Queensland, chiamando la capitale di questa prospera, ma ideologicamente scomoda, ex-colonia di Britannula come il suo discendente. (Purtroppo Trollope non inventa un termine per «il culto della personalità»!). Probabilmente si divertì anche a inventare la storia di un discendente di John Bright che reprime un ammutinamento stando seduto su un barile di polvere da sparo. L’autore sovrappeso deve essersi divertito a inserire anche William Banting, l’autore di A Letter on Corpulence (1863) che ha reso popolare la dieta per la riduzione del peso, alla pari, come benefettore dell’umanità, coi grandi filantropi Harvey, Wilberforce e Cobden. Sappiamo che Trollope aveva seguito le raccomandazioni di Banting, perché George Eliot ne parla in una lettera del 15 dicembre 1864: «ho visto persone molto cambiate dal sistema di Banting. Il signor A. Trollope è più snello grazie ad esso ... ed è in qualche modo migliore che auto-limitarsi»17. In questo aspetto minore, sebbene forse in pochi altri, Trollope appare nel Termine fisso come i suoi lettori inglesi si aspetterebbero di trovarlo, nel suo ruolo familiare di voce del periodo vittoriano centrale. La trama di base del romanzo è quella piuttosto prevedibile della storia d’amore, adorata dai romanzieri vittoriani di ieri come da Hollywood ora, tra la figlia di Crasweller e il figlio del Presidente; ad essa il narratore non da tanta importanza, come è sua caratteristica, poiché si nutre di emozioni umane piuttosto che di principi e calcoli. Sebbene non particolarmente avvincente, la storia d’amore è ben integrata formalmente nella vicenda. Il Presidente Neverbend, naturalmente, non solo non capisce ciò che accade nelle vite emotive della propria cerchia familiare, ma non riesce neppure ad afferrare le ragioni per cui i suoi membri non seguano le sue teorie politiche nella loro vita quotidiana. Le altre elaborazioni sono più o meno adeguate per i loro scopi. La tecnologia futuristica alla maniera di Jules Verne non era il forte di Trollope, mentre mostra il suo solito acume per l’invenzione sociale e politica. Persino una questione apparentemente sciocca come la partita di cricket ha una rilevanza comica per la sua epoca. In quel periodo i giochi di squadra − specialmente quelli di palla − vennero fortemente istituzionalizzati per prendere il loro posto vicino agli sport tradizionali come la caccia, il tiro al piattello e la pesca. Trollope, la cui vista era troppo debole per sparare e la cui pazienza era inadeguata per la pesca, era un patito della caccia alla volpe e il suo atteggiamento verso gli sport più nuovi come il calcio, il rugby e il cricket era improntato da una comica esasperazione e dall’incomprensione. La Football Association fu fondata nel 1864; la Coppa dell’Associazione venne introdotta

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R.C. Terry (a cura di), Trollope: Interview and Recollections, London, Macmillan, 1987, p. 164.

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nel 1871 e il primo torneo internazionale di calcio nel 1872. La English Rugby Football Association fu fondata nel 1870, l’anno del primo torneo internazionale di rugby. Nel 1868 una squadra di criket aborigena giocò a Londra e nel 1877 la prima squadra inglese ufficiale di cricket andò in trasferta in Australia. L’età del «Test Match» di cricket era appena cominciata all’epoca in cui Trollope scriveva, Londra era indaffarata con i preparativi della partita con l’Australia che doveva finire con l’umiliazione dell’Inghilterra e l’invenzione del termine «the Ashes» («le Ceneri»), coniato il 2 settembre 1882, ancora fonte di stupore per i lettori stranieri di giornali inglesi. In questo momento chiave nella storia del cricket, Il termine fisso tocca la questione della condizione professionale e dilettantistica dello sport ed è interessante notare che i Britannuli schierano una parte di «gentiluomini» dilettanti non retribuiti, mentre gli inglesi (certamente malvisti dai vittoriani) confidano nell’abilità dei loro giocatori professionisti pagati. L’ossessione per il cricket della gioventù di Britannula, specialmente di Jack Neverbend, va di pari passo con l’idée fixe di suo padre per l’eutanasia: «Mi stupì scoprire che il ragazzo fosse tanto ansioso per il suo cricket quanto lo ero io per il mio ‘‘Termine fisso’’». Lo sport può essere sul punto di diventare un ingrediente serio negli affari internazionali, in un mondo dove un appuntamento sportivo internazionale relega la politica in secondo piano, dato che il Presidente posticipa il suo piano preferito e il governo inglese attende fino alla fine della partita. Lo sport è importante anche per la questione dell’invecchiamento e del culto della giovinezza se un giocatore di quasi trentacinque anni viene descritto come «vicino al suo ‘‘Termine fisso’’ più di ogni altro giocatore» (p. 88). Se Trollope intendeva dire «ogni parola» de Il termine fisso, è ben lungi dall’essere chiaro in che modo l’intendesse. Ci resta l’acuta opinione del suo fratello più anziano, Thomas Adolphus, secondo cui Anthony non avrebbe desiderato sopravvivere se avesse perso la sua energia mentale. Il 6 dicembre 1882, un mese dopo il colpo che paralizzò Anthony e che si sarebbe dimostrato fatale, Thomas Adolphus scrive così da Roma: Posso affermare, non soltanto sulla base dei miei stessi sentimenti sulla questione ma dalle molte conversazioni che ho avuto con lui su questa tema, che sono sicurissimo che sarebbe molto meglio per lui andarsene piuttosto che vivere con la coscienza che le sue energie mentali l’abbiano abbandonato. Non riesco a immaginare infelicità più grande del suo ritrovarsi in simili circostanze e sono sicurissimo che si considererebbe fortunato di sfuggirvi lasciando la scena18.

Questo, naturalmente, non contribuisce a fornire un’interpretazione del testo. È il pericolo e il privilegio degli scrittori ironici l’essere fraintesi. Lo

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N.J. Hall (a cura di), The Letters of Anthony Trollope, Stanford, Ca, Stanford University Press, 1983, p. 1037.

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stesso fato ebbe un medico più umano, Sir William Osler, quando nel discorso pronunciato alla John Hopkins University nel 1905 in occasione del suo pensionamento, subì l’amara mortificazione della stampa per aver ironicamente approvato il piano di Mr Neverbend come soluzione al problema del pensionamento. L’oltraggio fu così grande che fu coniato il verbo «oslerizzare» (to oslerize) per significare «uccidere i vecchi con il cloroformio»19. Tale è il destino di coloro che si aspettano che il loro pubblico li capisca quando usano l’ironia. Trollope può ben aver detto la verità quando disse «all’amico intimo» che intendeva davvero ogni parola scritta. Ma l’amico sapeva, più dei critici di Sir William Osler, quello che quelle parole significavano? La scrittura e la pubblicazione de Il termine fisso non sono disgiunte dalla storia della sua interpretazione. Il 21 dicembre 1880, alcuni giorni dopo avere completato il suo precedente romanzo, Kept in the Dark, Trollope scrisse a suo figlio Henry: «Giovedì ho finito il romanzo che stavo scrivendo e venerdì ne ho cominciato un altro. Nulla mi spaventa tranne l’idea dell’ozio forzato. Finché potrò scrivere libri, anche se non verranno pubblicati, penso di poter essere felice»20. Completò il manoscritto il 28 febbraio 1881 e nello stesso giorno lo propose a William Blackwood, l’editore di Edinburgo21. Da un accordo datato 1 luglio 1881, Blackwood si impegnava a pagare 200 sterline in due rate per i diritti di pubblicazione a puntate sul Blackwood Magazine e 250 per la prima edizione in volume da pagarsi a tre mesi dalla pubblicazione22. Il 7 settembre 1881, William Blackwood scrisse a Trollope: «voglia provvedere a eliminare le frasi di carattere religioso − le menzioni di «Dio» e «Il Signore» che mi appaiono non necessarie e non aumentano l’effetto, mentre esse possono ferire i sentimenti di persone rigorose e fare abbattere su di noi una tempesta religiosa». Trollope rispose immediatamente: «Le restituisco il primo numero de Il termine fisso corretto e, nel proseguire, mi sforzerò di tenere fuori tutte le irriverenze»23. Così, questa storia apparve in una versione leggermente censurata nel Blackwood Magazine, ma Trollope ripristinò la maggior parte dei tagli per l’edizione in due volumi che è il testo su cui si basa la presente traduzione italiana. Il romanzo fu pubblicato a puntate dall’ottobre 1881 al marzo 1882 e apparve in due volumi all’inizi del 1882 per dodici scellini. Ciò che è interessante in questa storia è che Blackwood presuppose che i

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Si veda la prefazione alla seconda edizione di William Osler, Aequanimitas, London, H.K. Lewis, 1906, e H. Cushing, The Life of Sir William Osler, 2 vols., Oxford, Clarendon Press, 1925, i. pp. 664-672. 20 Letters, cit., p. 886. 21 Ibidem, p. 904. 22 Ibidem, p. 913n. 23 Ibidem, p. 923-924.

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suoi lettori fossero forti per quanto riguarda la questione delle idee, ma ipersensibili riguardo al frasario scorretto. L’impatto della questione sui buoni protestanti di Scozia e Inghilterra non sembra averlo preoccupato. La risposta critica e immediata era che il libro fosse banale, sgradevole o semplicemente una presa in giro intelligente. Per noi, che lo leggiamo retrospettivamente attraverso la storia del ventesimo secolo, è un romanzo raggelante, tanto nella chiarezza con la quale Trollope diagnostica le abitudini politiche e retoriche che permettono al fanatismo di esprimersi, quanto nella luce non adulatoria nella quale ritrae le azioni e i motivi di coloro che si proclamano la parte «buona» che combatte la «cattiva». La distopia ironica di Trollope continua, di età in età, a essere sorprendentemente rilevante. (Traduzione di Lucia Gunella)

DAV I D SK I LTON

NOTA DEL TRADUTTORE

La traduzione di questo romanzo così anomalo e originale rispetto al canone trollopiano più conosciuto e tradizionalmente esplorato dalla critica, è stata condotta principalmente sull’edizione inglese dell’opera pubblicata nel 1993 nella collana dei World’s Classics della Oxford University Press a cura di David Skilton, noto studioso di Trollope, consigliere della «Trollope Society» e grande esperto di letteratura vittoriana della seconda metà dell’Ottocento. Si è tuttavia tenuto conto anche dell’edizione del 1997 della «Trollope Society», con l’introduzione di Graham Handley, a sua volta basata sull’edizione a cura di Robert H. Super pubblicata dalla University of Michigan Press nel 1990. Queste ultime due edizioni non presentano un corredo di note esplicative, a differenza dell’edizione di Skilton che chiarifica al pubblico inglese alcuni nodi concettuali presenti nel testo. Per questa traduzione italiana, in considerazione del fatto che è la prima, è parso fondamentale apporre un cospicuo apparato di note al fine di illuminare per il lettore italiano aspetti sconosciuti o meno immediatamente evidenti, ma proprio per questo di grande interesse, di quel sistema storico-culturale e linguistico-letterario anglo-americano, con implicazioni relative alla politica coloniale britannica, all’interno del quale Trollope rappresenta un pianeta e The Fixed Period una luna erroneamente considerata marginale. Le note esplicative all’interno del testo danno conto di aspetti tecnici specifici che hanno comportato problemi di traduzione e conseguenti soluzioni (parole che designano invenzioni mai realizzate, ma che rimandano a un’etimologia riconoscibile e ricostruibile, proverbi o frasi idiomatiche in uso nell’inglese di fine Ottocento, ma difficili da rendere nell’italiano corrente) e approfondiscono, motivano riferimenti ricorrenti, delucidando nodi concettuali e contestuali. In questa nota, invece, si è preferito portare alla luce l’organizzazione strutturale del romanzo attraverso le sue costanti linguistiche e retoriche che sono frutto di una precisa strategia comunicativa dell’autore alle prese con

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uno dei suoi ultimi appuntamenti con la scrittura. L’arsenale di cui dispone, infatti, è amplissimo, giunto com’è all’apice della sua cultura e forte di una consumata pratica del mestiere che gli ha, a pieno diritto, assicurato un posto fra i «grandi saggi» delle lettere inglesi. The Fixed Period sembra essere l’occasione, sia per il tema sia per le possibilità retoriche, di mostrare a tutti chi è Anthony Trollope e di cosa sia veramente capace. Le citazioni, innanzitutto, non sono mai mero sfoggio di erudizione, ma fungono da vessilli che fissano i parametri culturali e morali entro cui si snodano le azioni e le reazioni dei personaggi e sono sempre perfettamente aderenti all’intento concettuale dell’autore. Virgolettate, dunque esplicite e inequivocabili, o innescate come mine prive di spie della loro natura e provenienza e dunque tutte da riconoscere, nel campo di un periodare complesso e articolato, perché pieno di subordinate e a imitazione della retorica vittoriana aulica e ufficiale, le citazioni dalla Bibbia di King James e dall’opera di Shakespeare rappresentano, da un lato, la moneta culturale comune ai vittoriani colti, la lingua franca espressione di un sapere condiviso, ma, dall’altro, anche i due pilastri del canone con cui si esprime la morale comune ed entro cui si dispiega la forza ironica e critica, urbanamente, ma subdolamente destabilizzante, di Trollope all’interno di questo romanzo utopico. La mania citazionista dalla Bibbia, per esempio, gli è infatti funzionale a ridicolizzare chi se ne serve e a far sì che il lettore la interpreti come espressione di rigido, spesso assurdo e talvolta ipocrita dogmatismo. E che dire delle citazioni di classici latini come Ovidio e Cicerone, attraverso il Giovenale delle Satire, e della riproposizione di antiche istituzioni greche? Esse appaiono strumentali, in bocca ai personaggi che le utilizzano, a infiorare la vuota retorica del potere politico che si ammanta così di apparente autorevolezza, ma che, invece, viene poi smascherata. A un livello strutturale profondo, infatti, esse costituiscono le micidiali cannonate ironiche di un «vecchio veterano del mestiere» che ha studiato accuratamente i classici, li ha tradotti per tutta la vita e si diletta a farne risaltare la sostanza politica e istituzionale a discapito dell’interpretazione «imperialista» ufficiale che ne ha scialacquato la portata morale. Il titolo del romanzo merita una considerazione speciale, alla luce delle riflessioni che ha suscitato. Il termine inglese «period» è semanticamente carico della doppia valenza di «durata nel tempo» e «punto finale», «fine del periodo», per l’appunto. Ecco, dunque, che nell’originale designa, senza alcun sforzo nel funzionamento sintattico, sia la teoria che rappresenta, sia l’effettivo periodo di preparazione all’eutanasia, sia il termine vero e proprio della vita. Si è scelto di adottare la parola italiana «termine», invece che «periodo», perché, inserendosi perfettamente nella sintassi, ci consentiva di usare sempre la stessa parola, di non adottare alternativamente «termine» e «periodo» a seconda dei casi, rispettando così la reiterazione ossessiva del sintagma chiave «Fixed Period». Esso ricorre ventiquattro volte, soltanto nel primo Capitolo, per un totale di centoquaranta in tutto il testo, sempre fra vir-

Nota del traduttore

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golette e con le iniziali maiuscole che sono state rigorosamente mantenute nella traduzione italiana. Ben altra occorrenza ha, invece, la parola «eutanasia» (euthanasia) che l’Oxford English Dictionary attesta, con il significato etimologico dal greco di «morte buona e felice» leggermente mutato in «morte gentile e facile», a partire dal 1646, ma la cui storia in seno al dibattito filosofico e morale risale, invece, all’antichità classica. Più vicini a Trollope e grandi fari della tradizione letteraria e filosofica inglese, già Thomas More, come del resto Francis Bacon, avevano difeso la pratica dell’eutanasia rispettivamente nella Utopia (1516) e nella New Atlantis (1627). In Utopia chi è inesorabilmente malato ed è diventato un fardello per la società può scegliere la «morte volontaria» («voluntary death») consigliata, non imposta, dall’autorità religiosa e per questo considerata onorevole per se stessi e per la comunità. Bacon, dal canto suo, afferma che i medici non devono solamente ripristinare la salute, ma anche mitigare sofferenze e dolori; e non solo quando questo mitigare può condurre alla guarigione, ma anche quando può servire a garantire un «passaggio buono e facile» («a fair and easy passage»). Colpisce qui il fatto che entrambi ricorrano a perifrasi e non utilizzino una parola che pure nel greco esisteva, per quanto con significato un po’ diverso. L’idea che ci troviamo di fronte a un tabù antico e potente non sembra peregrina, ma, anzi, si fa strada con forza. In tutto il testo di Trollope, infatti, la parola «eutanasia» occorre soltanto due volte, per essere, di volta in volta, variamente occultata dal narratore con eufemismi che, esercitando una funzione emotiva, rispondono alla volontà del narratore di «moderarne» il potere terrificante, di esercitare una «captatio benevolentiae» nei confronti del lettore tale da riuscire a esorcizzare e smontare l’opposizione dei suoi connazionali i quali, invece, sono gli alfieri della disambiguazione che attuano, poco diplomaticamente, ma con grande efficacia e forza emotiva, mediante sinonimi sfavorevoli quali «assassinio» (che soltanto nel primo capitolo occorre cinque volte su un totale di sei). Confinato, dunque, alla sfera del non detto, o meglio del non più detto, il potenziale voltaico di questa forma di eutanasia, prevalentemente di tipo economico, ma proposta come pietosa, aumenta sempre di più fino a catalizzare, con la sua forza di tabù, la riflessione su una questione morale antica, l’antica diatriba tra logica economica, logica utilitaristica e principio etico, o, in altre parole, la questione della morale comune e di quanto i suoi principi si radichino nella lingua. È questa una questione tutt’altro che semplice, ma di fondamentale importanza per Trollope che vede il suo mondo mutare e insieme ad esso la sua lingua. The Fixed Period è l’unico romanzo ambientato nel futuro, un secolo dopo rispetto al tempo della stesura, in un luogo altro prossimo alla Nuova Zelanda, nell’isola dal simbolico nome di Britannula, immagine speculare in corso di de-formazione di quella primigenia rappresentata da una madre patria che domina, in modo più o meno occulto e sotto ogni aspetto, un impero. È un mondo, questo di Britannula che, nel processo di affermazione della

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propria identità e della propria capacità propositiva e legiferativa, ha bisogno di essere raccontato in prima persona. Ciò si verifica, per la prima volta nell’opera di Trollope, attraverso il personaggio del narratore, quell’emblematico Presidente Neverbend che è un «mai-mi-piego» di nome e di fatto, secondo quella regola del «nomen omen» che, in questo romanzo, agisce con ironia fatale e doppia. Ovvero, tanto contro il riformatore Neverbend, novello Colombo e Galileo, con la sua incrollabile fede nell’eutanasia come strumento formidabile di «rimozione» di tutti i mali della società, quanto contro la vecchia Inghilterra che difende i suoi interessi a suon di titoli, discorsi fioriti, buone maniere e cannoniere sparse per il mondo. La chiave satirica è qui cifra più marcata che in altre opere dell’autore, ferma, alla maniera di A Modest Proposal di Jonathan Swift, nel rifiuto del disumano progetto di Neverbend, ma diversa nell’essere quasi benevola nei confronti dell’uomo, come a riconoscerne la qualità morale di campione di un idea al di là dell’aberrazione cui egli la conduce; e ambiguamente «moderata», come il linguaggio che Neverbend usa per smorzare i toni del dibattito ed eludere il controllo sociale, ma con cui Trollope l’attanaglia e lo perseguita per tutto il romanzo. Il linguaggio è il campo di battaglia e l’ironia l’arma infallibile usata contro la deformazione linguistica, culturale e morale, prodotta dall’eufemismo. Il «Termine fisso», come si è detto, è una formula eufemistica che indica la legge promulgata dal Parlamento della Repubblica di Britannula per cui l’individuo viene «depositato» («deposited») e terminato fra il compimento del sessantasettesimo e il sessantottesimo anno di vita. Tale forma di interdizione, di rimozione dell’idea di omicidio legalizzato, dell’idea di eutanasia (parola che dall’Ottocento è un eufemismo al quadrato), fa sì che ogni enunciazione della teoria del «Termine fisso» da parte di Neverbend sia costantemente veicolata da perifrasi sostitutive. Così, si prevedono festeggiamenti solenni e gioiosi per la cerimonia della «deposizione» («deposition») che altro non è se non la reclusione prima dell’esecuzione che, a sua volta, viene definita «dipartita» («departure»), così come il luogo atto a «ospitare», per così dire, i «candidati» all’esecuzione, viene chiamato, dopo lungo dibattimento, «Collegio» perché lì, per un anno, si impara ad affrontare una «buona morte» imposta per una giusta causa: il bene comune. Ed è proprio l’antinomia tra le finalità di civiltà, progresso e potenziamento antropologico di una simile legge − garanzia di benessere economico e conservazione della dignità della persona, temi questi centrali nel dibattito culturale e politico dei secoli diciottesimo e diciannovesimo − e, invece, il barbaro mezzo scelto per perseguirli (anche se più «dolce» dei sanguinolenti sistemi cui siamo abituati), che fa sì che lo stesso riformatore umanitario non possa accettare quest’ultimo se non relegandolo nel non detto, nel mascheramento retorico e nell’iperbole eufemistica. È il mondo circostante, la comunità che, all’approssimarsi della prima applicazione della legge, percependo l’imposizione, la forzatura ingiusta e con-

Nota del traduttore

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traria ai principi della morale comune, strappa la maschera retorica che garantisce il distanziamento emotivo dalla teoria, per riconsegnare alla lingua tutto il suo potere di significazione diretta. In questo senso, più potente della cannoniera britannica − l’arma concreta di una società degenerata che non negozia più tramite la significazione diretta − è il sentimento comune dei britannuli che, per un misto di paura personale e impossibilità di accettare come giusto questo nuovo ordine razionale e «illuminato», abbandonano via via il proprio leader lasciandolo solo in balia della sua tormentata coerenza morale e verbale. Ciò che Neverbend considera un «atto di grazia» contro una natura impietosa che ci condanna a una vecchiaia inutile e indecorosa, viene restituito al «nonsense» che veramente è dalla moglie, vox populi, per la quale l’«inglese è l’inglese» («English is English») fino a una prova contraria che non arriva, che Trollope assolutamente non concede. È, infatti, al ritorno al senso morale della lingua inglese piuttosto che a quello legale e burocratico, che Trollope affida la salvaguardia della morale comune e la possibilità che la Englishness possa essere davvero sinonimo di civiltà e buona vita. È la lingua inglese che sembra insegnare ai britannuli (come dovrebbe ricordare agli inglesi) come vivere secondo i principi della morale comune, perché quei principi sono parte della struttura profonda del loro linguaggio e del loro pensiero. Il suo legame con la lingua spiega in parte anche la stabilità e la longevità della morale comune: non si possono attaccare gli assunti sui quali essa si basa senza usare le parole che invocano le distinzioni che si spera di eliminare. Il ritorno di Neverbend in Inghilterra è la chance del ritorno alla forza di significazione e realtà di quell’inglese − e con esso di una società − di cui Trollope teme l’eufemizzazione. Programmare la morte dei suoi connazionali, un tempo compagni nel sentimento di ribellione da un impero che impone usi e costumi, un tempo compagni di armi e lingua, lascia il riformatore utilitaristico solo, senza un pubblico che lo ascolti, isolato in costrutti formali e «periodi ipotetici fissi», che testimoniano il fatto che questo romanzo è, prima di tutto, la storia di una «teoria» che ha un suo «termine fisso»: il tempo inesorabile e fatale dell’ipotesi, dell’irrealtà. Lucia Gunella

Anthony Trollope

Il termine fisso

I. INTRODUZIONE

Si può mettere in dubbio che mai colonia più splendente, prospera e soprattutto più ordinata di Britannula sia stata istituita da coloni inglesi. Eppure, come la sua anziana sorella Nuova Zelanda, ha avuto un periodo di separazione dalla madrepatria, sebbene mai di ribellione. Anzi, in questo ha semplicemente seguito l’esempio delle colonie d’Australia le quali, allorché si misero per conto proprio, lo fecero con la piena cooperazione dell’Inghilterra. Indubbiamente, noi avevamo una ragione speciale che l’Australia non aveva e che venne compresa soltanto in parte dal Governo britannico quando a noi britannuli fu concesso di reggerci autonomamente. La grande dottrina del «Termine fisso» fu da esso ridicolizzata in principio, poi guardata con costernazione, ma, senza alcun dubbio, è stata la forte fede che noi di Britannula avevamo in quella dottrina a indurci alla nostra separazione. Nulla avrebbe potuto avere più successo degli sforzi da noi compiuti per vivere da soli nei trent’anni in cui siamo rimasti padroni di noi stessi. Non abbiamo ripudiato debito alcuno, come ha fatto qualche nostro vicino, né compiuto tentativi verso il comunismo, come è stato il caso di altri. Siamo stati laboriosi, soddisfatti e prosperi e se siamo stati riassorbiti dalla madrepatria, in accordo con ciò che non posso non chiamare la condotta pusillanime di certi nostri anziani britannuli, non è stato per via di alcun fallimento dell’isola, ma dell’ostilità con cui è stato avversato il «Termine fisso». Penso di dover cominciare la mia storia spiegando con linguaggio moderato alcuni dei vantaggi manifesti che deriverebbero dall’adozione del «Termine fisso» in tutti i paesi. Per quanto ha potuto la legge, esso è stato adottato a Britannula. La sua adozione è stato il primo punto discusso dalla nostra giovane Assemblea quando ci siamo ritrovati per conto nostro e, sebbene ci fossero dispute sull’argomento, in nessuna fu sollevata opposizione al sistema. Io stesso ero stato eletto Presidente di quel Parlamento all’età di trent’anni. Cionondimeno, ero in grado di discutere i meriti dei decreti in commissione e lo facevo con entusiasmo. Trent’anni sono passati da allora e il

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mio «termine» si sta avvicinando, ma sono ancora energico come sempre e, benché riconosca che gli uomini non sono ancora maturi per essa, sono certo che la dottrina prevarrà infine nel mondo civilizzato. Si è tanto discusso del «Termine fisso» finora da rendere quasi inutile che io ne spieghi i dogmi, mentre i suoi vantaggi possono necessitare di qualche parola d’argomentazione in un mondo che è attualmente insensibile al suo fascino. Esso consiste nell’abolizione delle miserie, della debolezza e imbecillità fainéant della vecchiaia mediante la prefissata cessazione dell’esistenza di coloro che altrimenti invecchierebbero. È forse necessario ch’io spieghi agli abitanti d’Inghilterra, per i quali principalmente scrivo, quanto estreme siano quelle sofferenze e quanto elevato il costo di quella vecchiaia che è del tutto incapace di supplire alle proprie carenze? Secondo noi britannuli, una simile vecchiaia non deve essere permessa e dovrebbe essere impedita nell’interesse sia dei giovani sia di coloro che invecchiano e sono obbligati a continuare a vivere oltre il «termine» del loro lavoro. L’umanità ha commesso due errori verso la propria discendenza. Il primo è stato quello di permettere al mondo di essere oppresso dal mantenimento continuo di coloro le cui preoccupazioni si dovrebbero far cessare e ai cui problemi si dovrebbe porre termine. Non dice altrettanto il salmista? «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore»1. Il secondo è stato di esigere da quelli che rimangono di vivere una vita inutile e dolorosa. Entrambi gli errori derivano da una delicatezza verso i giovani inopportuna e avventata, la delicatezza di non far ricorso a loro per provvedere alla decorosa e confortevole dipartita dei loro progenitori, e dalla delicatezza nei confronti dei vecchi per timore che l’uomo, quando non è istruito e inconsapevole del bene e del male, non sia disposto a lasciare il mondo per il quale non è adatto. Tale delicatezza non è tuttavia migliore di un’imperdonabile debolezza. Le statistiche dicono che il sostentamento sufficiente a un vecchio è più costoso di quello di un giovane, come lo è la cura, il nutrimento e l’istruzione del bambino che ancora non produce profitto. Ancora le statistiche ci dicono che i giovani che non producono profitto e i vecchi, non meno improduttivi, costituiscono un terzo della popolazione. Pensi il lettore di quale fardello è carica la forza lavoro del mondo. A questi vanno aggiunti tutti coloro che per malattia non possono lavorare e che per indolenza non vogliono. Come può un popolo prosperare quando è così gravato? E a che pro? Quanto ai bambini, sono ovviamente necessari e devono essere nutriti affinché possano lavorare bene quando verrà il loro tempo. Ma a vantaggio di chi si devono mantenere i vecchi e i deboli in mezzo a tutti questi guai e sof-

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Salmo 90:10 (Bibbia di King James). Si tratta della prima di una serie di citazioni bibliche contenute nel testo che testimoniano di una consuetudine di Trollope presente in tutta la sua produzione letteraria. Il narratore, dal carattere incline al dirigismo, citando direttamente le Scritture ne amplifica la tendenza e si espone immediatamente agli strali del ridicolo.

Introduzione

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ferenze? Vi fosse stato qualcuno nel nostro Parlamento in grado di mostrare di poter ragionevolmente desiderare ciò, il decreto non sarebbe stato approvato. Sebbene per me l’aspetto politico-economico di tale tema sia sempre stato molto forte, il sollievo da recarsi agli anziani costituiva il solo argomento al quale non si poteva replicare. Qualcuno che si opponeva al movimento avanzò l’idea che ai vecchi stessi non sarebbe piaciuto, della qual cosa non sono mai stato sicuro, né lo sono ora. Se la colonia fosse diventata avvezza al sistema del «Termine fisso», tanto i vecchi quanto i giovani vi si sarebbero abituati. Si intende che si sarebbe dovuto preparare loro una forma di eutanasia2 − e quanti ne aspetta questa, per quanti sono gli uomini ora? Ed essi se ne sarebbero andati con il pieno rispetto di tutti i loro concittadini. A quanti tocca ora quel destino? Negli ultimi anni di vita sarebbero stati risparmiati loro gli orrori della povertà. A quanti mancano ora gli agi che non si possono guadagnare da sé? Ed essi non proverebbero la degradante sensazione di beneficiare della carità. Verrebbero preparati alla loro dipartita, a beneficio del proprio paese, circondati da tutti gli agi ai quali, alla loro età, sono sensibili, in un Collegio mantenuto con denaro pubblico e ognuno, all’approssimarsi del giorno felice, verrebbe trattato con onore crescente. Io stesso mi ero addentrato nella questione della spesa e avevo rilevato che, mediante l’uso di macchinari, il Collegio poteva essere reso pressoché autosufficiente, facendoci risparmiare in media 50 sterline per ogni uomo e donna che se ne fossero dipartiti. Se la nostra popolazione dovesse arrivare a un milione, presumendo che solo uno su cinquanta avesse raggiunto l’età desiderata, la somma effettivamente risparmiata dalla colonia ammonterebbe a 1.000.000 di sterline l’anno, il che ci manterrebbe lontani dal debito, contribuirebbe alle nostre ferrovie, ci consentirebbe di rendere navigabili tutti i nostri fiumi, costruire i nostri ponti e, in breve, farebbe di noi il popolo più ricco sulla terra di Dio! E ciò sarebbe reso possibile da un provvedimento che fa il bene degli anziani più di quello di qualsiasi altra classe della comunità! Sono stati usati molti argomenti a noi contrari, ma vani e futili nella loro concezione. Si addusse quello della religione e nel parlare di ciò divenne d’uso comune la terribile parola «assassinio». Ricordo di aver fatto trasalire la Camera impedendo a ogni membro di utilizzare un modo di esprimersi così ripugnante nei confronti della sovranità del popolo. Assassinio! Non rammenta chi ha cercato di dissuaderci con l’uso di un linguaggio grossolano che l’assassinio, per essere tale, deve contrapporsi alla legge? Questa cosa si doveva fare secondo la legge. Non poteva esservi un altro tipo di assassinio. Se un assassino viene impiccato − intendo in Inghilterra perché a Britannula non abbiamo pena capitale, − questo può dirsi assassinio? Non lo è soltanto per-

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Compare qui per la prima di due sole volte in tutto il testo la parola «eutanasia» (cfr. Nota del traduttore).

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ché è la legge a decretarlo. Io e alcuni altri riuscimmo finalmente a bloccare l’uso di quella parola. Quindi ci parlarono di Matusalemme e tentarono di portare come argomento l’età dei patriarchi. In commissione chiesi loro se erano preparati a provare che i 969 anni cui si accenna nella Genesi rappresentavano la stessa misura di tempo dei 969 anni di oggi e affermai che se le condizioni igieniche del mondo avessero permesso di nuovo agli uomini di vivere quanto i patriarchi, con gioia avremmo spostato il «Termine fisso». Di fatto, non vi era nulla da ribattere contro di noi eccetto ciò che riguardava i sentimenti dei giovani e dei vecchi. I sentimenti sono mutevoli, dissi loro a quella grande e gloriosa riunione che si tenne a Gladstonopoli, e benché naturalmente governati solo dall’istinto, infine si insegnerà loro ad ubbidire alla ragione. Avevo letto di recente di come in Inghilterra fosse stato permesso ai sentimenti di intralciare il cammino del grande lavoro della cremazione3. Voi dite che a un figlio non piacerà condurre suo padre al Collegio. Non dovrebbe invece? E se così non fosse, la ragione non gl’insegnerà a farsi piacere ciò che egli deve fare? Immagino con estasi l’orgoglio, l’onore, l’affetto con cui, allorché il «Termine fisso» fosse arrivato, avrei condotto mio padre al Collegio, a godervi per dodici mesi quella preparazione all’eutanasia che nessuna preoccupazione al mondo dovrebbe disturbare. Tutte le idee di tomba esistenti verrebbero a mancare. Non vi sarebbero ulteriori lotte per prolungare il tempo di miseria che la natura stessa ha prodotto. Né sarebbe più incoraggiata nei giovani la tentazione di invidiare ai vecchi gli agi costosi che non hanno potuto guadagnarsi. Sarebbe un orgoglio per il giovane sentire il nome del proprio padre inscritto per tutto il tempo a venire nei radiosi libri del Collegio istituito per il «Termine fisso». Io stesso ho un figlio e con cura l’ho educato ad attendere impaziente, come a quello in cui essere più fiero nella sua vita, il giorno in cui là mi depositerà. Alcune circostanze di cui riferirò in questa storia hanno in qualche modo interferito con lui, ma confido che ritornerà al giusto modo di pensare. Il non poter più trascorrere l’ultimo anno felice fra le mura del Collegio è per me, da un punto di vista egoistico, l’aspetto più triste del fatto che l’Inghilterra sta riassoggettando la nostra isola come colonia.

3 A testimonianza di quanto il dibattito sulla cremazione stesse a cuore a Trollope, firmatario del documento che portò alla fondazione della «Cremation Society of England» nel 1874, la parola «cremazione» occorre per ben nove volte nel romanzo, sempre in modo diretto, mai mediata o evocata da giri di parole o eufemismi. La posizione favorevole dell’autore nei confronti di questa pratica cara da sempre agli utopisti trova la sua motivazione sia nell’avversione che egli nutriva verso pratiche funebri esagerate ed eccessive che incrementavano le ricchezze del mercato funerario a discapito di una soluzione razionale, igienica e di maggior beneficio per la società sia nella conseguente speranza che la cremazione potesse produrre un sostanziale mutamento dell’atteggiamento sociale verso la morte. La pratica della cremazione diventerà legale in Inghilterra nel 1884, due anni dopo la morte di Trollope e la pubblicazione del romanzo.

Introduzione

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I miei lettori avvertiranno che sono un entusiasta; vi sono, d’altronde, riforme così grandi che un uomo non può che esserne entusiasta quando, nel fondo della sua anima, ha ricevuto la verità di ogni progresso umano. Ahimè! Non vivrò tanto da vedere realizzata la gloria di questo provvedimento al quale ho dedicato i migliori anni della mia esistenza. Il Collegio, che è stato costruito sotto i miei auspici per la preparazione a una felice dipartita, verrà trasformato in una Camera di commercio. Quegli anziani che, come io credo davvero, attendevano con impazienza il giorno venturo della loro dignità perfetta, sono stati lasciati liberi nel mondo di avvilirsi di nuovo in pensieri mondani nell’indolenza di inutili anni. Non si provvede ai nostri ponti, alle nostre ferrovie, al nostro governo. I nostri giovani si stanno di nuovo intorpidendo sotto il peso loro imposto. In verità, avevo torto a pensare che una riforma così grande avrebbe potuto essere perfettamente completata al tempo dei primi riformatori. Un’idea divina deve essere resa comune alla mente degli uomini tramite una frequente riproposizione prima che la si consideri appropriata per l’umanità. Non hanno forse i primi cristiani sofferto l’afflizione, la povertà e il martirio? Quanti secoli della sua storia sono occorsi al mondo per indurlo a denunciare la non ancora abolita teoria della schiavitù? Troni, signori e vescovi ingombrano ancora la terra! Che diritto avevo io, allora, in quanto primo dei Terminefissisti, di sperare che avrei vissuto per vedere il mio progetto realizzato o che mi fosse concesso di andarmene fra i primi gloriosi beneficiari dei suoi vantaggi? Parrebbe assurdo dire che se vi fosse stata tale legge in vigore in Inghilterra, essa non ne avrebbe impedito l’adozione a Britannula. Questa è ovviamente una questione. Eppure è stato perché in Inghilterra i vecchi sono ancora vivi che i giovani di Britannula devono venire afflitti − i giovani come i vecchi. Il Primo Ministro a Downing Street aveva settantadue anni quando siamo stati interdetti dal realizzare il nostro progetto e il Ministro delle Colonie sessantanove. Fossero stati fra noi e a noi fosse stato permesso di usare la nostra saggezza senza l’interferenza della fiacca vecchiaia, dove sarebbero stati? Desidero parlare con ogni rispetto di Sir William Gladstone4. Quando abbiamo chiamato la nostra metropoli con il suo nome eravamo consci delle sue buone qualità. Non ha l’eloquenza del suo bisnonno, ma è, dicono, un uomo avveduto. Quanto al Ministro delle Colonie della Corona − della quale, ahimè, Britannula è tornata a esserne una − confesso di non reputarlo un grande statista. L’attuale Duca di Hatfield non ha nulla della classe, se ha più della prudenza, di suo nonno5. È stato eletto nell’attuale Camera alta come 4 Trollope fa discendere questo figura immaginaria da quella storica di William Ewart Gladstone (1809-98), statista liberale che ricoprì per ben due volte la carica di Primo Ministro durante la vita di Trollope. All’epoca della stesura del romanzo Trollope aveva avuto modo di «riconciliarsi» con Gladstone alla cui politica irlandese era stato fortemente avverso. 5 Trollope immagina qui a capo di un ufficio importante quanto quello che si occupa

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forte liberale anticlericale, ma non ha mai avuto lo spirito del vero riformatore. Ora è a causa dei «sentimenti», che senza dubbio riempiono il petto di questi due veterani anti-Terminefissisti, che la dottrina del «Termine fisso» è stata per breve tempo repressa a Britannula. È triste pensare che la forza, l’intelletto e lo spirito dell’umanità debbano essere così conquistati proprio da quell’imbecillità che è loro desiderio bandire dal mondo. Da due anni ero diventato Presidente di ciò che ci gloriavamo di chiamare il nascente Impero del Pacifico del Sud. A dispetto di ogni opposizione interna, il Collegio del «Termine fisso» era già completato. Ricevetti allora un brutale avviso dal governo britannico sul fatto che Britannula aveva cessato di essere indipendente ed era stata di nuovo riassorbita dalla madre patria fra le colonie della Corona. Del modo in cui tale informazione fu accolta, e con quale debolezza da parte dei britannuli, procedo ora a raccontare. Confesso che in principio non ero pronto a obbedire. Eravamo piccoli ma indipendenti e non dovevamo maggiore sottomissione alla Gran Bretagna di quanta ne dobbiamo alle Isole Salomone o a Otaheite. Spettava a noi fare le nostre leggi e fino ad allora le avevamo fatte in conformità alle istituzioni e, devo dire, ai pregiudizi della cosiddetta civiltà. Avevamo fatto allora un primo tentativo di progresso al di là di questi limiti e siamo stati immediatamente fermati dal fatuo oscurantismo dei vecchi che la Gran Bretagna, se avesse avuto cognizione dei propri interessi, avrebbe messo a tacere per parte sua approvando una legge del «Termine fisso». La storia del mondo, così come è già scritta, non riporta nessun esempio di maggiore, ingiustificata tirannia. Ma i miei fratelli britannuli non sono stati d’accordo sul fatto che, nell’interesse delle generazioni a venire, era nostro dovere morire ai nostri posti piuttosto che piegarci alle minacce del Duca di Hatfield. Una cannoniera britannica nel porto di Gladstonopoli, essi dichiararono, ci avrebbe ridotto ... all’ordine. Quale ordine? Un cannone brandeggiabile a vapore di 250 tonnellate poteva senza dubbio polverizzarci e farci cadere addosso il nostro Collegio del «Termine fisso» in prematura rovina. Ma, come si è detto, il capitano della cannoniera non avrebbe mai osato toccare l’innesco che avrebbe commesso una così ampia distruzione. Un inglese esiterebbe a sparare il colpo che mandasse forse cinquemila dei suoi simili alla distruzione prima del loro «Termine fisso». Ma persino a Britannula persiste ancora la paura. Si è deciso, a voce unanime dall’isola, lo confesso, che dovevamo accettare questo governatore e giurare di nuovo fedeltà alla Corona britannica. Si è permesso a Sir Ferdinando Brown di sbarcare e, dall’esultanza che hanno mostrato al primo ballo nella residenza del Governatore, come già ho appreso dacché ho lasciato l’isola, è parso che i britannuli gioissero, piuttosto che altrimenti, della loro schiavitù.

delle colonie della corona un discendente del terzo Marchese di Salisbury, politico conservatore che fu Ministro degli esteri dal 1878 al 1880, poi Primo Ministro dopo la morte di Trollope.

Introduzione

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Due mesi sono passati da allora, e a me, vecchio spossato, idoneo solamente alla gloria del Collegio, non resta null’altro che scrivere questa storia affinché le generazioni future possano vedere quanto nobili fossero i nostri sforzi. In verità, però, le difficoltà che si sono poste sulla nostra strada sono state molto dure. La verità filosofica sulla quale si fonda il sistema era troppo forte, troppo potente, troppo divina per essere adottata dall’uomo nel tempo del suo primo apparire. Ma è apparsa. E io, forse, dovrei sentirmi contento e gratificato, negli anni che sono condannato a vivere impotente nell’imbecillità, al pensiero di essere stato il primo riformatore del mio tempo, sebbene sia condannato a perire senza averne goduto i frutti. Prima di iniziare la mia storia, devo illustrare certi dettagli del nostro piano che tanta divisione ha creato fra di noi. In primo luogo, quale doveva essere il «Termine fisso»? Quando un gruppo di noi, in numero di tre o quattrocento, per primo emigrò dalla Nuova Zelanda a Britannula, eravamo quasi tutti giovani. Non avremmo acconsentito a misure relative al debito pubblico, che le Camere in Nuova Zelanda minacciavano di prendere e, dato che era stata scoperta quest’isola e una parte di essa coltivata, là ci risolvemmo ad andare. La nostra decisione fu molto popolare, non solo fra alcuni partiti in Nuova Zelanda, ma anche nella madre patria. Altri ci seguirono, e noi ci stabilimmo con grande prosperità. Essenzialmente, però, eravamo una comunità giovane. Fra di noi non vi erano più di dieci che avessero raggiunto un qualche «Termine fisso» e non più di altri venti che si potesse dire vi si stessero avvicinando. Mai avrebbe potuto esserci un tempo o una popolazione in cui o fra cui il sistema avrebbe potuto essere sottoposto a prova con così buone speranze di successo. Siccome ci volle tanto tempo prima che ci fosse permesso di essere indipendenti, il «Termine fisso» divenne un argomento di conversazione comune a Britannula. Molti lo attendevano con impazienza, come foriero di un’idea nuova di ricchezza e agio, e fu in quei giorni che si fecero i calcoli relativi ai fiumi e alle ferrovie. Ritengo che in Inghilterra pensassero che pochi, soltanto pochi di noi fossero dei sognatori. Avessero mai creduto che il «Termine fisso» sarebbe divenuto legge, non ci avrebbero mai permesso di diventare legislatori. Questo lo ammetto. Ma una volta indipendenti, ridurci di nuovo alla sottomissione con un cannone brandeggiabile da 250 tonnellate è stato un atto di flagrante tirannia. Quale doveva essere il «Termine fisso»? Questa era la prima domanda che esigeva una risposta immediata. Si ipotizzarono termini assurdi per la loro deliberata indulgenza − ottanta e persino ottantacinque anni! «Facciamo cento», dissi io ad alta voce, riversando su di loro tutta la batteria del mio ludibrio. Io suggerii sessanta ma il termine fu accolto con silenzio. Affermai che i pochi vecchi che c’erano nell’isola potevano essere esentati e che anche quelli che erano sopra i cinquantacinque potevano trascinare le loro esistenze, se erano tanto deboli per scegliere per se stessi una posizione così degradante. Questa seconda proposta fu subito accettata e gli esentati non mostrarono alcuna ripugnanza persino quando si mostrò loro che sarebbero stati la-

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sciati soli all’interno della comunità senza alcun onore e che non gli sarebbe mai stato permesso di accedere ai piacevoli giardini del Collegio. Ora io penso che sessant’anni fosse un’età troppo prematura e che i sessantacinque, ai quali, cortesemente, acconsentii, fosse il giusto «Termine fisso» per il genere umano. Guardi ognuno fra i suoi amici e veda se gli uomini di sessantacinque anni non intralciano la strada di coloro che ancora aspirano a elevarsi nel mondo. Il giudice sarà sordo sullo scanno, mentre sotto di lui gli uomini più giovani potranno sentire con precisione. La sua voce si sarà ridotta a un povero stridio o la sua vista sarà fioca e indebolita. In ogni caso, i suoi arti avranno perso tutta la gagliarda agilità della quale si ha bisogno al mondo per un’adeguata esecuzione del lavoro. È evidente che a sessantacinque anni un uomo ha fatto tutto ciò che gli si confà. Non dovrebbe più preoccuparsi del lavoro e perciò neppure della vita. «È tutta vanità e vessazione dello spirito», direbbe un uomo simile se fosse ancora coraggioso e desideroso di onore. «Mi si conduca al Collegio e là mi si permetta di prepararmi a quella vita più radiosa che non richiede forza mortale». Le mie parole furono di giovamento a molti, poi pretesero che il «Termine fisso» fosse settant’anni. Non è necessario raccontare quanto a lungo lottammo su questo punto, ma, infine, decidemmo di dividere l’intervallo. Sessantasette anni e mezzo furono chiesti dalla maggioranza nell’Assemblea come «Termine fisso». Di certo la colonia era determinata a invecchiare davvero prima di recarsi nel Collegio. Poi, però, sopravvenne un’ulteriore disputa. In quale momento del «Termine fisso» si doveva trascorrere l’anno di grazia? I nostri dibattiti furono lunghi e animati anche su questo argomento. Si disse che l’isolamento all’interno del Collegio equivaleva a una pena di allontanamento e che quindi si sarebbe dovuto permettere ai vecchi di prendere le loro ultime boccate d’aria, al di fuori, nel vasto mondo. Si decise infine che uomini e donne dovevano essere portati nel Collegio a sessantasette anni e che prima del loro sessantottesimo compleanno avrebbero dovuto dipartire. Poi si suonarono le campane e l’intera comunità si rallegrò, vi furono banchetti e i giovani, uomini e donne, si chiamarono l’un l’altro fratello e sorella e si sentì che fra di noi era stata inaugurata una grande riforma per il beneficio dell’umanità in generale. In patria, in Inghilterra, si dedicò poca attenzione al decreto quando venne approvato. Suppongo che, nelle stime degli inglesi, vi fosse tempo a sufficienza per pensarci. Per loro l’idea era così strana che consideravano impossibile che noi la realizzassimo. Senza dubbio, vennero a sapere del decreto, ma io sostengo che, siccome ci era stato permesso di separarci ed essere autonomi, ciò non li riguardava più che se fosse avvenuto in Arizona o Idaho, o in qualcuno di quegli Stati occidentali d’America che di recente hanno formato una nuova unione. Era da quest’ultimi, indubbiamente, che ci aspettavamo quella comprensione che, comunque, non abbiamo ricevuto. Il mondo, chiaramente, non era ancora sensibile alle grandi cose in serbo per esso. Ricevemmo anzi una violenta rimostranza dal vieto governo di Washington, ma

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in risposta affermammo che eravamo pronti a vivere o morire per il nuovo sistema, che ci aspettavamo gloria più che ignominia e di essere seguiti dall’umanità piuttosto che ripudiati. Tenemmo anche una prolungata corrispondenza con la Nuova Zelanda e l’Australia, ma l’Inghilterra all’inizio non ci credette e, quando le è stato dato di capire che facevamo sul serio, ci ha buttato addosso l’unico argomento che poteva avere forza e ha inviato nel nostro porto il suo cannone brandeggiale a vapore da 250 tonnellate. Senza dubbio si trattava di un argomento incontestabile, a meno che non fossimo stati pronti a morire per il nostro sistema. Io lo ero, ma non potevo trascinare la gente del mio paese con me. Ho dunque fornito il preludio necessario alla storia che devo raccontare. Non posso fare a meno di pensare che, nonostante gli atteggiamenti isolatori della Gran Bretagna, i lettori di quel paese siano venuti a conoscenza delle opinioni dei Terminefissisti. Uno schema con un tale potere di cambiamento e, posso dire, di miglioramento delle maniere e delle abitudini dell’umanità non può che essere conosciuto in un paese dove, in ogni caso, almeno una parte degli abitanti legge e scrive. Si vantano anzi che oggi non vi è uomo o donna nelle Isole britanniche che sia ignorante delle proprie lettere, benché mi si informi che tale conoscenza raramente si avvicina a un qualche gusto letterario. Può essere che una parte delle masse non conoscesse ciò che si stava facendo nell’Impero del Pacifico del Sud e perciò ho scritto questo capitolo preliminare, per spiegare loro quale fosse la condizione di Britannula riguardo al «Termine fisso» soltanto dodici mesi prima che l’Inghilterra prendesse possesso e ancora una volta si riappropriasse di noi. Sir Ferdinando Brown adesso ci governa, debbo dire non con il pugno di ferro, ma molto secondo la sua buona volontà. Ci infioretta discorsi, pensando che possano sostituire la nostra indipendenza. Raccoglie le tasse e ci informa che essere tassati è il privilegio più grande di una civiltà ornata. Al suo arrivo, indicò la cannoniera nella baia come la divina depositaria del benefico potere. Per un po’, senza dubbio, la «delicatezza» britannica prevarrà; ma io avrò sprecato i miei pensieri e invano versato la mia eloquenza riguardo al «Termine fisso» se questo, nel corso degli anni, non balzerà di nuovo in primo piano e si dimostrerà necessario prima che l’uomo possa portare a termine tutto ciò che è destinato a realizzare.

II. GABRIEL CRASWELLER

Ora comincerò la mia storia. Più di trent’anni sono passati da quando diedi inizio all’agitazione a Britannula. Eravamo un piccolo popolo, allora non benedetto dalla separazione, ma ritengo particolarmente intelligente. Eravamo la crema della crema, o, per così dire, la panna scelta dal secchio del latte del popolo di una colonia più grande, anch’esso dotato di un’intelligenza superiore all’ordinario. Eravamo l’élite della popolazione della Nuova Zelanda. Ritengo di poter dire che mai una stirpe così ben istruita aveva stabilito di fondare una nuova nazione. Ora sono prossimo ai sessant’anni − vicinissimo a essere idoneo per il Collegio che, ahimè! non si aprirà mai per me − e avevo quasi trent’anni quando ho cominciato a impegnarmi nel «Termine fisso». A quel tempo il mio più caro amico e coadiutore più fidato era Gabriel Crasweller. Era più vecchio di me di dieci anni e, perciò, oggi sarebbe idoneo alla deposizione nel Collegio, se il Collegio potesse riceverlo. Era uno di quelli che avevano portato con sé nella colonia le pecore merino. Con grande fatica e spesa aveva esportato dalla Nuova Zelanda un piccolo gregge di animali di prima qualità col quale ebbe successo sin dall’inizio. Prese possesso delle terre di Little Christchurch, a cinque o sei miglia da Gladstonopoli, e dimostrò grande giudizio nella scelta. Fu, infatti, evidente che un luogo più bello dove mettere bovini e ovini all’ingrasso e per la crescita della lana sarebbe stato impossibile da trovare. Tutto ciò che la natura umana desidera si trovava là, a Little Christchurch. I ruscelli che irrigavano la terra erano vivaci e rapidi e scorrevano regolarmente. I pascoli erano particolarmente ricchi e i vecchi alberi da frutta inglesi, che avevamo portato con noi dalla Nuova Zelanda, attecchivano con una fertilità esuberante sconosciuta, mi dicono, nella madrepatria. Aveva importato uova di fagiano e di salmone, giovani cervi, galli neri e galli di montagna e quelle belle, piccole mucche Alderney, non più grandi di un cane di buona taglia, che, a mungerle, non danno che panna. Con lui tutto prosperava in modo eccezionale, tanto che si poteva affermare

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che la sua sorte era caduta in luoghi deliziosi1. Ma non aveva un figlio e quindi, discutendo con lui, come facevo quotidianamente, della questione del «Termine fisso», gli promisi che sarei stato io a depositarlo nel sacro Collegio quando fosse arrivato il giorno del suo ritiro. Si era sposato prima che lasciassimo la Nuova Zelanda ed era senza figli quando costruì per sé e sua moglie la casa colonica a Little Christchurch; ma dopo alcuni anni gli nacque una figlia e io avrei dovuto ricordare, quando gli promisi quell’ultimo atto di amicizia, che poteva diventare dovere del marito di quella bimba assolvere per lui, con filiale venerazione, l’amorosa incombenza per cui io mi ero impegnato. Numerose e interessanti furono le conversazioni tra Crasweller e me sul grande argomento che riempiva i nostri cuori. Egli era fuor di dubbio concorde e si dilettava a spaziare su tutti quei benefici che il mondo avrebbe tratto da un’umanità che non conoscesse la debilitazione della vecchiaia. Egli vedeva la bellezza della teoria così come io la vedevo e avrebbe spesso parlato della debolezza di quella finta delicatezza che teme di dare inizio ad un’operazione nuova per riguardo ai sentimenti degli uomini e delle donne del vecchio mondo. «Può un uomo amarne un altro più di quanto io ami voi?», gli dicevo con vigore; «e ciononostante, mi farei per un attimo degli scrupoli a depositarvi nel collegio quando fosse giunto il giorno? Vi ci condurrei con quella venerazione perfetta che è impossibile che i giovani provino per i vecchi quando diventano deboli e incapaci». Ora dubito che egli gradisse queste allusioni al proprio isolamento. Rifuggiva dal suo singolo caso e generalizzava ampiamente su un tempo futuro. E quando giunse l’ora di votare, certamente votò per i settantacinque anni. Tuttavia non mi offesi per il suo voto. Gabriel Crasweller era il mio più caro amico e mentre la sua ragazza cresceva era per me motivo di rammarico che il mio unico figlio non fosse abbastanza vecchio per essere suo marito. Eva Crasweller era, penso, il più perfetto esempio di giovane bellezza femminile che io abbia mai visto. Non ho ancora rimirato quelle bellezze inglesi tanto decantate nei loro romanzi, ma che i giovani di New York e San Francisco che giungono a Gladstonopoli non sembrano ammirare moltissimo. Eva era perfetta per simmetria, tratti, incarnato e semplicità di modi. Tutti gli idiomi erano uguali per lei, ma questo talento è diventato così comune a Britannula che ci si fa poco caso. Non so se mandava in estasi i nostri orecchi più con l’antiquato pianoforte e il quasi desueto violino o col moderno musometono o il più perfetto melpomeneo2. Fu meraviglioso sentire come si pro1 L’allusione biblica si riferisce a un versetto del Salmo 16:6 ed è una delle più ricorrenti nell’opera di Trollope che ne fa uso come di un’espressione comune, semi-proverbiale. 2 Viene qui rappresentata la pratica tipicamente ottocentesca di fare musica con parenti e amici, pratica assai apprezzata da Trollope che animò varie occasioni di canto, esibendosi in prima persona. Si intuisce che la consuetudine di questo cerimoniale Trollope non vorrebbe mutata nel futuro da lui prospettato, dato che l’unico elemento straniante sembrerebbe sulle

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Capitolo secondo

nunciò alla riunione sulla costruzione degli edifici del Collegio quando aveva soltanto sedici anni, anche se penso che più di tutto mi conquistò con un semplice strudel di uvetta e marmellata che lei stessa aveva preparato con le sue belle mani per una nostra cena domenicale a Little Christchurch. E una volta che la vidi per caso dietro la porta ricevere un bacio dal suo innamorato, sentii che era davvero un peccato che l’uomo dovesse invecchiare. Forse, però, agli occhi di qualcuno il suo fascino più splendente risiedeva nella ricchezza che suo padre possedeva. Il numero delle sue pecore era notevolmente aumentato, le valli si erano riempite dei suoi bovini e poteva sempre vendere il suo salmone per mezza corona a libbra e i suoi fagiani per sette scellini e sei centesimi a coppia. Con Crasweller ogni cosa aveva prosperato e tutto sarebbe appartenuto ad Eva non appena lui fosse stato condotto al collegio. La madre di Eva era morta e non era nato nessun altro bambino. Crasweller aveva anche largamente investito il suo denaro nel commercio della lana ed era diventato socio della società Grundle & Grabbe. Era più vecchio di dieci anni di entrambi i suoi soci, tuttavia il figlio maggiore di Grundle, Abraham, era più vecchio di Eva quando Crasweller prestò i suoi soldi alla ditta. Presto si seppe chi sarebbe stato l’uomo più felice dell’impero. Era il giovane Abraham che aveva baciato Eva dietro la porta quella domenica in cui noi avevamo mangiato lo strudel all’uvetta e marmellata. Poi lei era entrata, e, con gli occhi al cielo e un alone di gloria quasi intorno alla testa mentre la sua voce si riversava nella stanza, aveva preso a toccare il musometono, offrendoci il Vecchio Salmo Cento3. Era una ragazza eccellente sotto tutti gli aspetti ed era stata piuttosto sensibile al fascino del sistema del «Termine fisso». Ma in quel momento, nella memorabile occasione di quella cena, per la prima volta cominciò a colpirmi il fatto che il mio amico Crasweller si stava avvicinando al suo «Termine fisso» e mi capitò di interrogarmi su quali fossero i desideri della figlia. Era piuttosto lo stato dei suoi sentimenti che occupava la mia mente. Negli ultimi tempi né lui né lei avevano detto nulla sulla questione. Quella domenica mattina mentre lui e sua figlia erano in chiesa − perché Crasweller era rimasto alla vecchia abitudine di dire le preghiere in un luogo speciale in un giorno speciale − avevo discusso la questione con il giovane Grundle. Nessuno era ancora stato nel collegio. Tre o quattro erano morti naturalmenprime costituito dagli immaginari strumenti musicali menzionati, i cui nomi classicheggianti evocano le Muse, e che, invece, testimoniano della tendenza diffusissima nell’Ottocento di dar vita a invenzioni musicali. Nel ritratto di Eva, sublime nel canto, vi è inoltre un riferimento alla nipote di Trollope, Bice, nota per la sua voce da soprano meravigliosamente pura a detta di esperti. 3 Si tratta di una armonia metrica da salmo di incerte origini. Il suo nome indica che fu adattata al salmo della vecchia versione metrica dei salmi, ovvero quella di Sternhold e Hopkins così come da quella di Tate e Brady. L’edizione di questa versione nella quale comparve per la prima volta risale al 1560-61. Versioni ancora precedenti la fanno risalire al 1540 nella raccolta Souter Liederkens.

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te, ma Crasweller stava per essere il primo. Stavamo organizzando in modo che visitatori gradevoli lo frequentassero fino all’ultima o penultima settimana e io feci un’allusione speciale alla legge che richiedeva che egli abbandonasse immediatamente ogni controllo della sua proprietà all’atto di entrare nel collegio. «Suppongo che lo farebbe», disse Grundle, esprimendo un interesse considerevole dal tono della voce. «Oh, certo», dissi io; «deve agire conformemente alla legge. Ma fino al momento in cui verrà depositato può fare testamento». Allora aveva ancora circa dodici mesi da trascorrere. Suppongo non vi fosse uomo o donna nella comunità che non fosse accuratamente informato del giorno della nascita di Crasweller. Avevamo già introdotto l’usanza di tatuare sulla schiena dei bambini il giorno della loro nascita ed eravamo riusciti a farlo anche su molti bambini che erano venuti al mondo prima della grande legge. Per il proprio interesse o quello dei propri figli qualcuno non si sarebbe sottoposto e noi guardavamo con ansia a qualche piccola confusione in questa questione. Naturalmente si era cominciato a tenere un registro e già c’era chi si rifiutava di affermare la propria età esatta; ma io stavo da tempo di vedetta su questo punto e avevo un mio libretto su cui erano scritti i «termini» di tutti coloro che erano venuti a Britannula con noi e da quando io avevo pensato per la prima volta al «Termine fisso» ero stato molto accurato nell’annotare fedelmente le nascite quando avvenivano. Il lettore noterà quanto diventi importante, con l’andare del tempo, avere un registro preciso, e io già allora temevo che vi potesse essere qualche mancanza di fedeltà dopo che io stesso fossi stato depositato. Ma il mio amico Crasweller era il primo della lista e nell’Impero non vi erano dubbi relativamente al giorno esatto in cui era nato. Tutta Britannula sapeva che sarebbe stato il primo e che lo si sarebbe depositato il 3 giugno 1980. Conversando col mio amico, avevo spesso alluso a quel giorno, al giorno felice, come ero solito chiamarlo prima che venissi a conoscenza dei suoi sentimenti veri e propri, ed egli non si era mai azzardato a negare che quel giorno avrebbe compiuto sessantasette anni. Ho tentato di descrivere sua figlia Eva e devo dire una parola sulle qualità personali di suo padre. Anch’egli era un uomo notevolmente bello e sebbene i suoi capelli fossero magnificamente bianchi, aveva meno sintomi dell’età di qualsiasi vecchio avessi conosciuto prima. Era alto, robusto e ben sviluppato e non vi era in lui neppure un accenno di incurvatura. Parlava sempre in maniera chiara e udibile ed era conosciuto per la voce ferma con la quale occasionalmente eseguiva una delle nostre letture per la raccolta delle decime. Avevamo fissato il nostro prezzo ad una di queste in modo che la somma così raggiunta potesse essere usata per la decorazione del collegio. La nostra popolazione a Gladstonopoli era così prospera che per noi era facile raccogliere tanto dieci penny quanto uno. Di queste letture Gabriel Crasweller era l’interprete preferito e alcuni vili, che avrebbero volentieri scombussolato l’intero sistema stellare per la propria immediata gratificazione, avevano cominciato a mormorare che, per la bellezza della sua voce, Crasweller non

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avrebbe dovuto essere depositato. La difficoltà della cosa cresceva poi in qualche modo per la cura e la precisione con le quali trattava i propri affari. Era attento come sempre alle sue greggi e nel tempo della tosatura stava tutto il giorno nel deposito della lana a occuparsi del suo imballaggio e della marchiatura delle balle di sua proprietà. «Sarebbe un peccato», mi disse un giorno un britannulo, un uomo più giovane di me, «rinchiudere il vecchio Crasweller e lasciare che gli affari passino nelle mani del giovane Grundle. Il giovane Grundle non ci capisce neppure la metà di pecore, nonostante la sua presunzione, e Crasweller è di gran lunga più adatto al suo lavoro che a vivere nell’ozio nel collegio finché voi non gli metterete fine». Molto in queste parole mi fece adirare. Per i sentimenti di questo uomo, l’intero sistema doveva essere fatto in modo da adattarsi alle peculiarità di una costituzione individuale. Un uomo che parlava in questo modo non poteva sapere niente della generale bellezza del «Termine fisso». E aveva alluso al costume della deposizione nei termini più irrispettosi. Avevo avvertito come fondamentalmente necessario mantenere la dignità della cerimonia in modo da farla sembrare il più possibile dissimile da un’esecuzione. E la deposizione di Crasweller doveva essere la prima e, secondo le mie intenzioni, doveva essere attesa con grazia e venerazione particolari. «Non so cosa intendiate per rinchiudere», dissi io con rabbia. «Se il signor Crasweller fosse stato lì lì per essere trascinato in una prigione da criminale, non avreste potuto usare un linguaggio più obbrobrioso e, riguardo a mettergli fine, ritengo che ignoriate il metodo proposto per conferire onore e gloria agli ultimi momenti in questo mondo di quei cari amici il cui destino felice sarà di essere tolti dai guai del mondo tra l’amore e la venerazione dei loro compagni». Quanto all’attuale modalità del passaggio, si erano tenute molte discussioni in Piazza del Presidente, e finalmente si era deciso che si dovevano aprire certe vene mentre si faceva dolcemente cadere in trance il moribondo, sotto l’influenza della morfina, in un bagno caldo. Come presidente dell’Impero, io ero stato d’accordo nell’usare il bisturi nei primi due o tre casi, intendendo con ciò di accrescere gli onori conferiti. In tali circostanze mi sentii amaramente punzecchiato quando egli parlò del mio mettergli «fine». «Ma non avete per nulla compreso lo spirito della cerimonia», dissi io. «Qualche parola mal detta, come quelle che avete appena pronunciato, ci faranno nelle menti di molti un danno maggiore di quanto bene ci avranno fatto tutti i vostri voti». In risposta a ciò, egli ripeté soltanto la sua osservazione che Crasweller era un pessimo campione col quale cominciare. «Lui ha in sé ancora dieci anni di lavoro», disse il mio amico, «eppure voi intendete sbarazzarvi di lui senza il minimo rimorso». Sbarazzarmi di lui! Che modo di esprimersi! E questo dalla bocca di uno che era un deciso Terminefissista! Mi faceva adirare pensare che gli uomini fossero così poco ragionevoli da trarre delle deduzioni riguardo ad un intero sistema da un singolo esempio. Crasweller poteva davvero essere forte e in

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buona salute al momento del «Termine fisso». Ma quel temine era stato scelto rispetto alla comunità intera e, sebbene potesse darsi che egli dovesse dipartire un anno o due prima che fosse stremato, lo avrebbe fatto, tuttavia, con ogni cosa intorno per renderlo felice e prima di aver mai conosciuto l’agonia di un mal di testa. Guardando all’intera questione con gli occhi della ragione, non potevo fare a meno di dire a me stesso che un esempio migliore d’inizio trionfante del nostro sistema non si poteva trovare. Eppure in esso vi era qualcosa di sfortunato. Se il nostro primo eroe fosse stato costretto ad abbandonare i suoi affari per la vecchiaia − si fosse rincitrullito, fosse diventato parsimonioso, o stravagante, o persino miope nelle sue speculazioni − il sentimento pubblico, del quale nulla è più ignorante, sarebbe insorto a favore del «Termine fisso». «Come è vero il ragionamento del Presidente», avrebbe detto la gente. «Guardate Crasweller. Avrebbe rovinato Little Christchurch se vi fosse rimasto più a lungo». Ma tutto ciò che faceva sembrava prosperare e mi accorsi infine che lui si costringeva ad una vivacità anormale, con l’intenzione di mettere in cattiva luce la legge del «Termine fisso». Se c’era un tale desiderio, certamente lo considero meschino. Il giorno dopo la cena in cui mangiammo lo strudel di Eva, Abraham Grundle venne da me nella Sala dell’Esecutivo e mi disse che aveva alcune cose importanti da discutere con me. Abraham era un bel giovane, capelli neri, occhi brillanti e dei gran bei baffi; ed era uno molto incline agli affari, nelle cui mani la ditta Grundle, Grabbe & Crasweller avrebbe probabilmente prosperato. A me, tuttavia, non era mai piaciuto molto. Pensavo che fosse un po’ manchevole di quella deferenza che doveva ai suoi anziani e, inoltre, che gli piacessero un po’ troppo i soldi. Era trapelato che sebbene fosse senza dubbio affezionato ad Eva Crasweller, lo era altrettanto a Little Christchurch e che, sebbene potesse baciare Eva dietro alla porta, secondo i modi dei giovani, mirava ancora di più alle greggi che alle sue labbra. «Voglio dirvi una parola, signor Presidente», cominciò, «su un argomento che disturba moltissimo la mia coscienza». «La vostra coscienza?», dissi io. «Sì, signor Presidente. Credo che siate consapevole del fatto che sono promesso sposo della signorina Crasweller». Può essere opportuno spiegare qui che mio figlio maggiore, un ragazzo tanto bello come mai se ne deliziarono gli occhi di una madre, era solamente due anni più giovane di Eva e che mia moglie, la signora Neverbend si era ultimamente messa in testa che era abbastanza vecchio per sposare la ragazza. Invano le dicevo che tutto era stato deciso quando Jack era ancora al didascaleion4. Era stato Colonnello del Curriculum, come chiamano ora il rap-

4 L’uso del termine greco, che significa scuola, luogo di istruzione, denota la familiarità di Trollope con la cultura e la letteratura della classicità, una consuetudine espressa abbondantemente nelle sue opere tramite allusioni, citazioni e traduzioni. Per la società vittoriana

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presentante della scuola, ma i Colonnelli del Curriculum non interessavano ad Eva, che aveva preferito i baffi del giovane Grundle. Mia moglie dichiarò che tutto era cambiato, che Jack era, di fatto, un ragazzo molto più virile di Abraham coi suoi lucidi ciuffetti di barba e che, se avessimo potuto arrivare al cuore di una fanciulla, avremmo scoperto che Eva la pensava così. In risposta a ciò la invitai a frenare la lingua e a ricordare che a Britannula una promessa equivaleva a un legame. «Suppongo che una giovane possa cambiare idea tanto a Britannula quanto altrove», disse mia moglie. Considerai tutto ciò nella mia mente, perché i pendii di Little Christchurch sono molto allettanti e presto sarebbero tutti appartenuti ad Eva. E poi sarebbe stato un bene, dato che stavo per eseguire per Crasweller una parte così importante della sua cerimonia finale, che la nostra stretta intimità fosse resa ancora maggiore da un legame di famiglia. Ci pensai; ma poi mi sovvenne che il fidanzamento della ragazza con il giovane Grundle era un fatto stabilito e non era appropriato sancire la rottura di un contratto. «Oh, sì», dissi al giovane, «sono consapevole che vi è un’intesa a quel fine tra voi e il padre di Eva». «E tra me ed Eva, posso assicurarvelo». Avendo osservato il bacio dietro alla porta il giorno precedente, non potevo negare la verità di questa affermazione. «Siamo intesi», continuò Abraham, «ed io ho sempre pensato che ciò dovesse aver luogo subito, cosicché Eva potesse abituarsi alla sua nuova vita prima che suo padre venisse depositato». A ciò reclinai semplicemente il capo a significare che era una questione che non mi riguardava personalmente. «Davo per scontato che il mio vecchio amico desiderasse vedere sua figlia sistemata e Little Christchurch nelle sue mani prima di dare l’addio ai suoi affari terreni», rimarcai io, quando mi accorsi che faceva una pausa. «Tutti noi la pensavamo così su al magazzino», disse lui, «io e papà, e Grabbe e Postlecott, il nostro capo impiegato. Sui registri, Postlecott è il quarto e sta diventando molto malinconico. Al momento è soprattutto ansioso di vedere come Crasweller sopporta la cosa». «Che cosa ha a che fare tutto ciò col matrimonio di Eva?» «Suppongo che la sposerò. Ma lui non ha ancora fatto testamento». «Che importa? Non vi è nessuno che interferisca con Eva». «Ma potrebbe scappare, Signor Neverbend», bisbigliò Grundle; «ed io dove sarei allora? Se egli raggiungesse Auckland o Sydney, e lasciasse qualcuno a gestire la proprietà per lui, cosa potreste fare? È questo che voglio sa-

avere una solida cultura classica rappresentava una buona credenziale sociale, un tratto distintivo della classe alto-borghese e il fatto che Trollope attribuisca a Neverbend tale competenza culturale getta sul personaggio e il suo operato una luce ambigua, contradditoria e non del tutto negativa dal momento che egli riesuma la dignità di antiche istituzioni e rituali nella breve parentesi post-coloniale della futuristica Britannula.

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pere. La legge dice che egli sarà depositato un determinato giorno». «Diventerà nessuno agli occhi della legge», dissi io con tutta l’autorità di un Presidente. «Ma se lui e sua figlia sono d’accordo? E se saltasse fuori qualche documento per cui Little Christchurch fosse affidata ad amministratori? E se lui continuasse a vivere a Sydney pascendosi, ci si consenta di dire, del grasso del paese, prendendosi tutto il reddito e lasciando gli amministratori come legali proprietari, dove sarei allora?» «In quel caso», dissi io, prendendomi due o tre minuti per riflettere, «in quel caso, presumo che la proprietà verrebbe confiscata per legge e andrebbe alla sua erede naturale. Ora, se per quell’epoca la sua erede naturale sarà vostra moglie, sarà come se la proprietà fosse vostra». Il giovane Grundle scosse la testa. «Non so cosa vogliate di più. Ad ogni modo, non vi è altro di più per voi da ottenere». Confesso che, in quel momento, l’idea della possibilità per il mio ragazzo di avere successo con l’ereditiera si affacciò alla mia mente. Secondo quanto aveva detto mia moglie, Jack avrebbe preso la ragazza di volata con solo quello che aveva e quella mattina, quando gli era stato detto del bacio dietro alla porta, aveva giurato a sua madre che non sarebbero passati molti giorni prima che avesse staccato la testa di quel bruto dal collo. Guardando alla questione soltanto a favore di Jack, mi sembrò che, in quel caso, Little Christchurch fosse sicura, sia che Crasweller venisse depositato sia che scappasse a Sydney. «Voi non siete certo della confisca della proprietà», disse Abraham. «Signor Grundle, vi ho detto tanto quanto vi si conviene sapere», risposi con severità. «Per i termini precisi della legge dovete consultare lo statuto e non venire dal Presidente dell’Impero». Quindi Abraham Grundle se ne partì. Avevo assunto un’aria adirata, come se fossi offeso con lui per avermi importunato su una questione generale facendo riferimento soltanto ad un individuo. Ma in verità aveva dato adito a pensieri molto seri e solenni. Possibile che quel Crasweller, il mio confidente, colui al quale avevo affidato i segreti della mia stessa anima su questa importante questione, possibile che non fosse disposto ad essere depositato quando fosse giunto il giorno? Possibile che fosse ansioso di fuggire dal suo paese e dalle sue leggi proprio quando era arrivato il tempo in cui quelle leggi potevano agire su di lui per il beneficio del paese? Non potevo pensare che fosse così stolto, così avido, così egoista e così antipatriottico. Ma questo non era tutto. Se tentasse di fuggire, potremmo impedire la sua fuga? E se fuggisse, quale sarebbe il nostro passo successivo? Il governo del Nuovo Galles del Sud ci è ostile riguardo al «Termine fisso» e di certo non lo cederebbe in ottemperanza a qualsiasi legge di estradizione. Ed egli potrebbe lasciare la sua proprietà ad amministratori che la gestirebbero per suo conto; per quanto, per ciò che concerne Britannula, egli sarebbe fuori della portata della legge e persino considerato privo di un limite di vita. E se lui, il primo dei Terminefissisti, fuggisse, la moda della fuga diverrebbe comune. Così sa-

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remmo liberi dai nostri vecchi e il nostro obiettivo sarebbe raggiunto. Ma guardando avanti, vedevo all’istante che se uno o due ricchi membri della nostra comunità avessero dovuto scappare così, sarebbe stato quasi impossibile mettere in atto la legge nei confronti di coloro che hanno tali mezzi. Eppure ciò che più mi vessava era che Gabriel Crasweller desiderasse scappare, che fosse ansioso di mandare all’aria l’intero sistema per preservare quella sua misera rimanenza di vita. Se egli agirà così, chi si asterrà? Se dovesse rivelarsi falso quando giunge il momento, chi si rivelerebbe sincero? E proprio lui, il primo, il primissimo della nostra lista! Il giovane Grundle mi aveva lasciato e, mentre sedevo per rifletterci sopra, fui per un momento tentato di abbandonare del tutto il «Termine fisso». Ma rimanendo là in silenziosa meditazione, mi sovvennero migliori pensieri. Avendo osato considerarmi lo spirito migliore della mia epoca, dovevo dunque così retrocedere a causa dell’umana debolezza di quell’unica povera creatura che non ha raccolto forza sufficiente nel suo cuore per riuscire a guardare la morte in faccia e sconfiggerla con il riso? Era un ostacolo, un grosso ostacolo. Avrebbe potuto essere questo ostacolo insormontabile a porre fine al sistema per quanto riguardava la mia esistenza. Ma riflettei su quanti dei primi riformatori erano periti nello sforzo e su quanto raramente era stato dato al primo uomo di scalare le mura del pregiudizio e forzare la cittadella della ragione. Ciononostante non avevano ceduto quando le circostanze gli erano state avverse e, pur non avendo potuto rendere le loro visioni concrete per l’umanità, avevano comunque perseverato e i loro sforzi non erano andati del tutto perduti. «Così sarà per me» dissi io. «Sebbene possa non vivere fino a veder depositare un essere umano in quel santuario e possa essere condannato dallo stolto pregiudizio degli uomini a trascinarmi in un’esistenza misera fra i dolori e la debolezza della vecchiaia; sebbene possa non venirmi mai concesso di provare gli agi ineffabili di una trionfante deposizione, il mio nome sarà comunque tramandato nei secoli futuri e si parlerà di me come del primo che ha tentato di impedire che i capelli grigi scendessero nella tomba con dolore»5. Adesso sto scrivendo dalla cannoniera di Sua Maestà, la John Bright6, perché gli schiavi tirannici di un monarca moderno mi hanno prelevato in

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Genesi 42:38. La potentissima macchina da guerra con cui l’Inghilterra minaccia la sicurezza e l’autonomia di Britannula, la cannoniera inglese, porta emblematicamente il nome di John Bright (1811-1889), membro del Parlamento inglese che ricoprì importanti incarichi durante il primo mandato di Gladstone come Primo Ministro. Bright, pur essendo noto per la sua potente oratoria in difesa di cause liberali e democratiche, adottò strategie politiche nei confronti dell’Irlanda verso le quali Trollope si rivelò fortemente critico. Non sorprende, dunque, che tramite questa satireggiante personificazione della più potente cannoniera mai vista, l’autore esprima il suo atteggiamento di riprovazione nei confronti della faccia violenta dell’imperialismo britannico. 6

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carne e ossa e mi stanno portando in Inghilterra, cosicché, come essi affermano, quell’assurdità del «Termine fisso» possa estinguersi a Britannula. Pensano − poveri ignoranti combattenti − che si possa far morire una simile teoria soggiogando un individuo. Invece no! L’idea vivrà, e nei secoli a venire gli uomini prospereranno e saranno forti, e prospererà incontaminata dall’avidità e dalla codardia della seconda infanzia, perché John Neverbend è stato un tempo Presidente di Britannula. Poi, mentre sedevo a meditare sulle notizie di cui Abraham Grundle mi aveva riferito, mi sovvenne che sarebbe stato un bene vedere Crasweller e parlargli liberamente della questione. Qualche volta era accaduto che la mia forza rinvigorisse il suo incerto coraggio. Quest’ipotesi che egli avrebbe potuto fuggire all’approssimarsi del giorno della sua deposizione, o meglio che altri avrebbero potuto fuggire, era stato argomento di alcune conversazioni tra noi. «Che accadrà», aveva detto, «se se la svignano?», intendendo alludere alla possibile, prematura dipartita di coloro che erano in procinto di essere depositati. «Gli uomini non saranno mai così deboli», dissi io. «Prenderete tutta la loro proprietà, suppongo?» «Ogni pezzetto». «Ma la proprietà si può anche portare via». «Dovremmo vigilare bene su di loro. Potrebbe esserci un documento, sapete, ne exeant regno7. Se vi siamo costretti, quella sarà l’ultima cosa da fare. Ma mi dispiacerebbe essere forzato ad esprimere i miei timori sull’umana debolezza con un provvedimento generale di qualche genere. Sarebbe uguale ad un’accusa di codardia contro l’intero Impero». Crasweller aveva solo scosso la testa. Ma io avevo inteso che la scuotesse a favore del genere umano in generale e non a suo favore.

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La frase in latino significa «non escano dal regno». Sull’uso del latino e del greco in Trollope cfr. la nota 4.

III. IL PRIMO CEDIMENTO

Si era ora a metà dell’inverno e mancavano appena dodici mesi a quel 30 di giugno in cui, secondo tutti i nostri piani, Crasweller doveva essere depositato. Per sistemare i suoi affari terreni e vedere sua figlia sposata certamente un anno intero gli sarebbe stato sufficiente, ma non più che sufficiente. Sbrigava ancora i suoi affari con un’alacrità stupefacente per uno che tanto presto sarebbe stato in procinto di ritirarsi dal mondo. Il ricavato della produzione della lana, per cui tosava egli stesso le sue greggi, non sarebbe mai andato a lui. Lo avrebbero avuto sua figlia e suo genero; ma in queste circostanze sarebbe stato un bene per lui se avesse lasciato le greggi a suo genero per rivolgere il suo pensiero alla considerazione di altre questioni. «Occorrerebbe un anno da dedicare a quell’anno finale da passare nel collegio, in modo che la mente possa gradualmente disabituarsi all’ignobile arte del far soldi», gli avevo detto una volta, ma eccolo là, intento come non mai, con la mente fissa sui primati dei prezzi della lana che gli ritornavano dai mercati inglesi e americani. «Tutto per sua figlia», mi dicevo. «Se fosse stato benedetto da un figlio, sarebbe stato diverso». Così inforcai il mio vapotriciclo1 e in pochi minuti giunsi a Little Christchurch. Stava rientrando dopo una dura giornata di lavoro con le greggi e sembrava trionfante e guardingo allo stesso tempo. «Vi dico io che c’è, Neverbend», disse, «ci sarà un’epidemia di fasciola da queste parti se non badiamo a noi stessi». «Ne avete trovato i sintomi?» «Beh, non esattamente fra le mie pecore, ma ne conosco bene i segni. I miei pascoli sono particolarmente aridi e le mie greggi sono molto controllate, ma ne vedo le tracce. Provate a immaginare dove saremmo tutti se la fa-

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Mezzi di trasporto e di comunicazione alternativi e altre invenzioni sono segnali del futuro immaginato da Trollope per Britannula.

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sciola facesse la sua comparsa a Britannula! Se avanzasse non ce la passeremmo meglio degli Australiani». Poteva trattarsi di ansia per sua figlia, ma stranamente assomigliava a quel sentimento personale che ci si sarebbe aspettato in lui venti anni prima. «Crasweller», dissi io, «vi dispiace venire in casa a fare una chiacchierata?», e così scesi dal vapotriciclo. «Sarei molto impegnato», disse, mostrandosi riluttante. «Ho cinquanta giovani puledri in quel prato là e mi piace controllare che gli sia servito il pasto caldo». «Al diavolo i giovani puledri!», dissi. «Come se non aveste abbastanza uomini attorno per dar da mangiare alle mandrie senza che vi disturbiate voi stesso. Sono venuto da Gladstonopoli perché vi volevo vedere e ora devo essere rimandato via perché voi possiate attendere alla somministrazione di pappe calde! Entrate in casa». Quindi entrai sotto la veranda ed egli mi seguì. «Di certo avete la casa meglio arredata dell’Impero», dissi, sprofondando su una poltrona a due posti e accendendomi il sigaro nella veranda interna. «Sì, sì», disse lui, «è abbastanza comoda». Era manifestamente malinconico e conosceva lo scopo della mia venuta. «Suppongo che a nessuna ragazza nel vecchio paese si è mai provveduto meglio di quanto sarà stato per Eva». Dissi ciò sperando di confortarlo e allo stesso tempo di prepararlo a quello che andava detto. «Eva è una brava ragazza, una cara ragazza. Ma non sono affatto sicuro di quel giovane Abraham Grundle. È un peccato, Presidente, che vostro figlio non sia nato qualche anno prima». A quell’epoca, il mio ragazzo superava di mezza testa in altezza il giovane Grundle ed era un esempio di britannulo di gran lunga migliore! «Ma è troppo tardi ora, suppongo, per parlarne. Mi sembra che Jack non ci pensi neanche a guardare Eva». Questa era un’opinione sul caso che di certo mi suonava strana e sembrava indicare che Crasweller stava gradualmente diventando idoneo per il collegio. Se non riusciva a vedere che Jack era innamorato pazzo di Eva, non riusciva a vedere un bel niente. Ma al momento non ero venuto a Little Christchurch per parlare delle questioni d’amore dei due ragazzi. Ero intento a qualcosa di infinitamente più importante. «Crasweller», dissi, «voi e io siamo sempre stati perfettamente d’accordo su questa grande questione del Termine fisso». Mi guardò in faccia con occhi supplichevoli e deboli, ma non disse nulla. «Presto raggiungerete il vostro termine e io penso che sia bene che noi, da amici fraterni, impariamo a discuterne i dettagli mentre si avvicina. Penso che averne paura non si addica a nessuno di noi due». «Buon per voi», replicò. «Io sono più anziano». «Di dieci anni, credo». «Circa nove, mi pare». Poteva trattarsi di un suo errore riguardo alla mia età precisa e, sebbene ne fossi sorpreso, in quel frangente non ci feci caso. «Non avete obiezioni alla legge così com’è ora?», chiesi.

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«Avrebbe potuto essere settanta». «Di ciò si è discusso appieno e voi avete dato il vostro assenso. Guardatevi attorno, agli uomini di cui vi ricordate, e ditemi: su quanti di loro la vita non si è posata come un peso all’età di settant’anni?» «Gli uomini sono così diversi», disse. «Per quanto si possano giudicare le proprie capacità, io non sono mai stato tanto capace di gestire i miei affari come lo sono attualmente. È più di quanto possa dire per quel giovane Grundle che è così ansioso di mettersi nei miei panni». «Mio caro Crasweller», aggiunsi, «era fuori questione sistemare la legge in modo da variare il termine per assecondare le peculiarità dell’uno o dell’altro». «Ma in un cambiamento così drastico avreste dovuto assecondare il più anziano». Era spaventoso per me, che egli, il primo a ricevere dalle mani del suo paese il grande onore inteso per lui, avesse già permesso alla sua mente di ribellarsi contro di esso! Se egli, che un tempo era stato un così forte sostenitore del «Termine fisso», adesso si rivoltava e gli si opponeva, come ci si poteva aspettare dagli altri che avrebbero dovuto seguirlo che fossero nel giusto stato d’animo? Allora gli esposi liberamente i miei pensieri. «Temete la dipartita?», chiesi, «ciò che deve arrivare? Temete di andare incontro da amico a ciò cui, da amico o nemico, dovrete presto andare incontro?» Feci una pausa ma restò seduto a guardarmi senza rispondere. «Temere la dipartita; ma se è necessaria non dev’essere il male più grande di tutta la nostra vita. Può Dio averci messo al mondo e aver voluto che noi lo lasciassimo e che proprio l’atto di farlo venisse da noi considerato una maledizione così terribile da neutralizzare tutte le benedizioni della nostra esistenza? Può essere che Colui che ci ha creato abbia inteso che noi considerassimo così il nostro commiato dal mondo? Gli insegnanti di religione hanno tentato di riconciliarci con esso e, invano, di dipingere per la nostra immaginazione un inferno di fuoco nel quale novantanove devono cadere mentre ad uno sarà concesso di scappare in un paradiso che a fatica ci è reso più attraente! È questo il modo di mettere l’uomo a proprio agio di fronte alla prospettiva di lasciare questo mondo? Eppure è necessario per la nostra dignità di uomini che troviamo il modo di farlo. Giacere sul letto tremante e fremente nell’attesa dell’Angelo Nero della Morte non si confà alla mia virilità, che nulla temerebbe, che non ha e non avrà soggezione di alcunché se non dei miei peccati. Come ci prepareremo meglio per il giorno che sappiamo di non poter evitare? Questo è il dilemma che mi sono sempre posto, che voi e io ci siamo posti e a cui io pensavo avessimo dato risposta. Volgiamo l’inevitabile in ciò che sarà considerata una gloria per noi. Insegniamo al mondo a guardare ad essa con sguardo ardente e non con cuore debole. Pensavo di aver toccato alcuni, non con l’eloquenza delle mie parole, ma con l’energia dei miei pensieri e voi, oh, amico mio, siete sempre stato colui col quale è stata la mia più grande gioia condividere le mie aspirazioni».

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«Ma sono più vecchio di voi di nove anni». Ancora non mi curai di quell’anno aggiunto alla mia età. Non era niente un errore tanto irrilevante. «Ma siete ancora d’accordo con me sulla fondamentale verità della nostra dottrina». «Suppongo di sì», disse Crasweller. «Suppongo di sì!», ripetei. «È tutto ciò che si può dire della filosofia alla quale ci siamo dedicati e nella quale non si può trovare nulla di falso?» «Non insegnerà a nessuno a non pensare che sia meglio vivere che morire quando si è idonei ad assolvere a tutte le funzioni della vita. Andrebbe benissimo se poteste fare in modo che un uomo venisse depositato non appena diventasse assolutamente infermo». «Alcuni diventano infermi a quarant’anni». «Depositate quelli allora», disse Crasweller. «Sì, ma non ammetteranno di essere infermi. Se un uomo fosse debole a quell’età, penserebbe di riacquistare la forza della giovinezza con l’avanzare degli anni. Di fatto, deve esserci un «Termine fisso». Ne abbiamo discusso una cinquantina di volte e siamo sempre arrivati alla medesima conclusione». Sedeva immobile, silenzioso, infelice e confuso. Vedevo che c’era qualcosa nella sua mente che a stento osava esprimere a parole. Sperando di incoraggiarlo, proseguii. «Dopo tutto, hai ancora dodici mesi interi prima che giunga il giorno». «Due anni», disse caparbiamente. «Esattamente. Due anni prima della tua dipartita ma dodici mesi prima della deposizione». «Due anni prima della deposizione», disse Crasweller. A questo ammetto che rimasi esterrefatto. Niente si conosceva meglio nell’Impero delle età dei due o tre abitanti che per primi sarebbero stati depositati. Mi sarei impegnato a dichiarare che non un uomo o donna a Britannula era in dubbio riguardo all’età precisa del signor Crasweller. Era stata scritta nei registri e sulle pietre del collegio. Non vi era dubbio che entro dodici mesi dalla data odierna doveva esservi detenuto come primo abitante. E ora ero esterrefatto a sentirlo pretendere un altro anno che non poteva essergli concesso. «Quell’impudente di Grundle è stato qui», continuò, «e spera di farmi credere che può sbarazzarsi di me in un anno. Ad ogni modo, mi restano due anni di vita fuori e non intendo rinunciare ad un giorno né per Grundle né per chicchessia». Era già qualcosa vedere che riconosceva ancora la legge anche se era così meschinamente ansioso di eluderla. Fra gli uomini e le donne anziane dell’Impero si mormorava di un desiderio di ottenere l’assistenza della Gran Bretagna per metterla da parte. Per esempio, qualcuno aveva sentito Peter Grundle − il socio anziano di Crasweller − dire che l’Inghilterra non avrebbe

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permesso che nessun uomo depositato venisse massacrato. Molto di ciò mi aveva fatto adirare. La parola massacro era di per sé particolarmente sgradevole alle mie orecchie, a me che mi ero impegnato ad eseguire la prima cerimonia come un atto di grazia. E l’Inghilterra cosa aveva a che fare con le nostre leggi? Era come se la Russia si fosse rivolta agli Stati Uniti e avesse dichiarato che il loro Congresso doveva essere deposto2. A cosa servirebbe la voce più forte della Gran Bretagna contro la più piccola scintilla di una legge approvata dalla nostra Assemblea? − a meno che la Gran Bretagna non accondiscendesse ad avvalersi del suo grande potere e dunque schiacciasse la voce libera di coloro che essa aveva già riconosciuto come indipendenti. Mentre scrivo ora, essa lo ha già fatto e toccherà alla Storia raccontare la storia. Ma era particolarmente triste dover pensare che vi fosse un britannulo così ignobile, così codardo, così traditore, quale egli era, da proporre questo espediente per aggiungere qualche anno alla sua vita infelice. Ma, da quel che sembrava, Crasweller non intendeva avvantaggiarsi di queste dicerie. La sua mente era intenta ad escogitare una qualche falsità che gli consentisse di ottenere soltanto un altro anno di vita e il suo genero in attesa intendeva impedirglielo. Mentre rigiravo la faccenda nella mia mente, era difficile dire chi dei due fosse più sordido, ma penso che le mie simpatie si accordassero di più alla codardia del vecchio che all’avidità del giovane. Dopo tutto, sapevo fin dall’inizio che la paura della morte era una debolezza umana. Cancellare quella paura dal cuore dell’uomo e costruire un’umanità perfetta che fosse liberata da una schiavitù così vile era stato uno degli obiettivi principali del mio piano. Non avevo diritto di essere adirato con Crasweller perché, messo alla prova, non si era dimostrato più forte del mondo intero. Che fosse così era per me una questione di infinito rammarico. Egli era proprio l’uomo, l’amico nel quale confidavo! Ma la sua debolezza era soltanto una prova che io stesso ero in errore. In tutta l’Assemblea che aveva approvato la legge, che era costituita principalmente da giovani, c’era uno che potevo confidare adempiesse allo scopo della legge quando fosse arrivata la sua ora? Non avrei dovuto sistemare le cose in modo che io stesso fossi il primo, posporre l’uso del collegio fino al tempo in cui avrei potuto essere depositato? Ci avevo pensato spesso durante l’agitazione, ma poi mi era venuto in mente che forse nessuno mi avrebbe seguito, quando me ne fossi dovuto dipartire in tali circostanze! Ma nel mio cuore potevo perdonare Crasweller. Per Grundle non provavo altro che una personale antipatia. Era ansioso di affrettare la deposizione di suo suocero affinché il possesso di Little Christchurch passasse interamente nelle sue mani soltanto un anno prima! Senza alcun dubbio conosceva l’età esatta dell’uomo tanto quanto me, ma non era da lui aver affrettato la sua de-

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Colpisce qui la contrapposizione fra Russia e America che caratterizzerà poi veramente il ventesimo secolo.

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posizione. Poi non potei fare a meno di pensare, persino in questo momento di miseria pubblica, quanto Jack sarebbe stato disponibile ad appoggiare il vecchio Crasweller nella sua piccola frode in modo che Eva potesse esserne la ricompensa. Credo che egli avrebbe potuto giurare contro il padre stesso, spergiurare mentendo spudoratamente in faccia alla verità per ottenere da Eva quel piccolo privilegio di cui una volta avevo visto Grundle godere. Sedevo là silenzioso nella veranda di Crasweller mentre tutto ciò mi passava per la testa. Ma prima che parlassi ancora fui in grado di vedere chiaramente quale dovere mi veniva richiesto. Eva e Little Christchurch, con i sentimenti e gli interessi di Jack e tutte le aspirazioni di mia moglie, dovevano essere messi da parte e tutta la mia energia dedicata all’esecuzione alla lettera della legge. Era stato progettato un grande movimento mondiale e se adesso doveva fallire, proprio all’inizio, quando tutto era stato preparato, quando vi sarebbe stata un’altra speranza? Era una questione che richiedeva la ratifica legislativa di qualsiasi paese intendesse adottarla. Nessun despota avrebbe potuto tentare di farla passare, per quanto assoluto fosse il suo potere. L’intero paese sarebbe insorto contro di lui se, nella sua ignoranza, fosse stato informato di tale intenzione. Né poteva essere resa effettiva da qualche congresso di cui la larga maggioranza non fosse ad ogni modo sotto i quarant’anni. Avevo visto abbastanza della natura umana per comprendere la sua debolezza a questo riguardo. Tutte le circostanze si erano combinate per renderla praticabile a Britannula, ma tutte queste circostanze potevano non combinarsi più. E mi sembrava di dipendere ora interamente dal potere che io potevo esercitare nell’infondere coraggio nel cuore della timida creatura che mi sedeva di fronte. Sapevo che se Britannula avesse invocato a gran voce l’Inghilterra, questa, con il desiderio di interferire che l’ha sempre caratterizzata, avrebbe interferito. Ma se l’Impero in silenzio avesse permesso di cominciare a far operare la legge, allora il «Termine fisso» avrebbe potuto forse essere considerato come una cosa stabilita. Quanto, allora, dipendeva dalle parole che potevo usare! «Crasweller», dissi, «amico mio, fratello mio!» «Non so proprio fino a che punto. Non si dovrebbe essere tanto ansiosi di uccidere il proprio fratello». «Se potessi prendere il vostro posto, Dio m’è testimone, lo farei con passo pronto come quello di un giovane che va verso le braccia della sua amata. E se fossi disposto a farlo per me stesso, perché non per mio fratello?» «Voi non sapete», disse. «Non siete stato messo alla prova per davvero». «Magari poteste voi mettermi alla prova!» «E non siamo tutti fatti della vostra stessa stoffa. Voi ne avete parlato finché non vi siete innamorato della deposizione e della dipartita. Ma non si tratta della naturale condizione dell’uomo. Guardate indietro a tutti i secoli e noterete che la vita è sempre stata cara al migliore degli uomini. E noterete anche che coloro che si sono spinti al suicidio hanno incontrato il disprezzo dei loro simili».

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Non accennai a Catone e Bruto, avvertendo che non potevo incitarlo alla grandezza d’animo con esempi romani. Mi avrebbe detto che in quei giorni, per quanto ne sapevano i romani, «l’eterno aveva opposto la sua legge al suicidio»3. Dovevo raggiungerlo con argomenti diversi da questi. «Chi può essere più sensibile di voi al fatto che l’uomo, per paura della morte, è degradato a un livello inferiore dei bruti?», dissi io. «Se è così, che sia degradato», disse Crasweller. «È la sua condizione». «Ma deve rimanere tale? Non tocca a voi e a me sollevarlo ad un livello più alto?» «Non a me, non certo a me. Ammetto di non essere altro che un uomo. Little Christchurch è così piacevole per me e i sorrisi e la felicità di Eva, e i muggiti delle mie mandrie e il belare delle mie greggi così gradevole alle mie orecchie ed è così dolce ai miei occhi vedere come ho trasformato bene questo deserto in un paradiso che, confesso, ci starei volentieri un po’ più a lungo». «Ma la legge, amico mio, la legge, la legge che voi stesso avete attivamente elaborato». «La legge mi concede ancora due anni», disse, con quello sguardo di caparbietà che avevo osservato diffonderglisi sul viso. Ora, questa era una menzogna, un’assoluta, indubitabile e verificabile menzogna. Eppure era una menzogna che, semplicemente a dirla, poteva rendere accessibile il suo scopo. Se nella capitale si veniva a sapere che Crasweller era ansioso di ottenere un anno di grazia tramite una menzogna tanto disgustosa, l’anno gli sarebbe stato concesso. Allora sarebbe stata la fine del «Termine fisso». «Vi dirò cosa c’è», disse, ansioso di presentarmi i suoi desideri sotto una luce diversa. «Grundle vuole sbarazzarsi di me». «Temo che Grundle abbia la verità dalla sua parte», dissi, determinato a mostrargli che io, ad ogni modo, non mi sarei prestato al sostegno di una falsità. «Grundle vuole sbarazzarsi di me», ripeté nello stesso tono. «Ma scoprirà che non sono facile da trattare. Già Eva non lo gradisce tanto e poi pensa che questo piano di deposizione sia abominevole. Dice che nessun buon cristiano ci ha mai pensato». «Una bambina, una dolce bambina, eppure soltanto una bambina, cresciuta da sua madre con tutti i vecchi pregiudizi». «Non me ne intendo molto di ciò. Non ho mai conosciuto una donna rispettabile che non fosse di fede episcopale. Ad ogni modo, Eva è una buona ragazza a tentare di salvare suo padre e vi dirò una cosa: non è ancora troppo

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È questa la prima citazione shakespeariana di una serie contenuta nel testo. In particolare, come per le citazioni bibliche (cfr. nota 1, cap.1), questa famosa meditazione sul suicidio da Hamlet (I.ii.131-132) ricorre in tutta l’opera di Trollope con altre dalla stessa tragedia e da Macbeth, miniere sempre ricche di bellezza e saggezza.

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tardi. A mio parere, Jack Neverbend è dieci a uno un tipo migliore di Abraham Grundle. Naturalmente è stata fatta una promessa, ma le promesse sono come la crosta delle torte. Non pensate che Jack Neverbend sia abbastanza vecchio da prendere moglie e che ha solo bisogno che gli si dica di decidersi a farlo? Little Christchurch andrebbe benissimo tanto a lui quanto a Grundle. Se non pensa un gran che della ragazza, qualcosa deve pur pensare delle pecore». Non pensare un gran che della ragazza! Proprio in questo periodo, mattino, pomeriggio e sera, Jack non faceva che parlare a sua madre di Eva e minacciava il giovane Grundle di ogni sorta di punizione scolaresca se avesse perseverato nel suo corteggiamento. Soltanto il giorno prima aveva insultato Abraham orribilmente e, come ebbi motivo di sospettare, era stato più volte a Christchurch per un qualche obiettivo clandestino, riguardo al quale pensava fosse necessario tenere il vecchio Crasweller all’oscuro. E tutto ciò per sentirsi dire in questo modo che Jack non pensava un gran che della ragazza e che doveva essere di preferenza incoraggiato a badare alle pecore! Avrebbe sacrificato senza pensarci su ogni pecora in nome di mezz’ora con Eva da solo nel bosco. Ma aveva paura di Crasweller, che sapeva aver sancito il fidanzamento con Abraham Grundle. «Non penso che sia necessario far entrare Jack e il suo amore in questa disputa», dissi. «È solo che non è troppo tardi, sapete. Pensate che Jack potrebbe essere indotto a prestarvi orecchio?» Al diavolo Jack! Al diavolo Eva! Al diavolo la madre di Jack prima che mi faccia corrompere in questo modo ad abbandonare il grande obiettivo di tutta la mia vita! Era evidente che questo era l’intento di Crasweller. Stava cercando di tentarmi con le sue greggi e le sue mandrie. La tentazione, se avesse saputo, risiedeva in Eva, in Eva e l’amore genuino, assoluto, onesto del mio galante ragazzo. Sapevo anche che a casa non avrei dovuto osare dire a mia moglie che mi era stata fatta l’offerta e io l’avevo rifiutata. Mia moglie non poteva capire, Crasweller non poteva capire quanto forte potesse essere la passione fondata sulla convinzione di una vita. E l’onestà, la semplice onestà la impedirebbe. Stipulare un accordo con uno già destinato alla deposizione, perché venga ritirato dal suo stato glorioso, quasi immortale, in cambio di denaro per corrompere me e la mia famiglia! Avevo chiamato quest’uomo mio amico e fratello, ma quanto poco mi conosceva! Se avessi potuto salvare l’intera Gladstonopoli da un incendio imminente cedendo di un centimetro nelle mie convinzioni, non l’avrei fatto per quello che era il mio schema mentale di allora; eppure quest’uomo, mio amico e fratello, aveva supposto che io potessi essere comprato, affinché cambiassi il mio scopo, con le belle colline e le grasse greggi di Little Christchurch! «Crasweller», dissi, «teniamo queste due cose separate, o piuttosto, nel discutere la cruciale questione del ‘‘Termine fisso’’, dimentichiamo gli amori di un ragazzo e di una ragazza».

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Capitolo terzo

«Ma le pecore, i buoi, e i pascoli! Posso ancora fare testamento». «Anche le pecore, i buoi e i pascoli devono essere dimenticati. Non possono avere nulla a che fare con la conclusione di questo argomento. Il mio ragazzo mi è caro e anche Eva ma neppure per salvare le loro giovani vite potrei acconsentire ad una falsità sulla questione». «Falsità! Non vi è falsità premeditata». «Allora non occorre un accordo riguardo ad Eva o discutere delle greggi e delle mandrie in questa occasione. Crasweller, voi avete sessantasei anni adesso e ne compirete sessantasette di questi tempi il prossimo anno. Allora il periodo della vostra deposizione sarà arrivato e nell’anno seguente, due anni da ora, badate, il «Termine fisso» della vostra dipartita sarà giunto». «No». «Non è questa la verità?» «No. Calcolate troppi anni. Sono sempre stato non più di nove anni più vecchio di voi. Ricordo bene come se fosse ieri quando decidemmo per la prima volta di lasciare la Nuova Zelanda. Quando dovrete essere depositato?» «Nel 1989», dissi con attenzione. «Il mio ‘‘Termine fisso’’ è il 1990». «Esattamente. E il mio è nove anni prima. È sempre stato nove anni prima». Era tutto chiaramente falso. Sapeva che era falso. In nome di un singolo, povero anno implorava il mio assenso ad una vile menzogna e tentava di aggiungere forza alla sua preghiera mediante la corruzione. Come potevo parlare ad un uomo che scendeva così in basso in dignità umana? C’era la legge a sostenermi e la definizione della legge era in questo caso sostenuta da ampie prove. Occorreva solo andare davanti all’esecutivo, del quale io stesso ero il capo, desiderare che fossero cercati i documenti stabiliti e richiedere che il corpo di Gabriel Crasweller fosse depositato secondo la legge in vigore. Di fatto, però, non vi era nessun altro al quale potessi lasciare l’esecuzione di questo compito ingrato. Vi erano consiglieri a Gladstonopoli e magistrati nel paese il cui compito era senza dubbio di vigilare che la legge fosse messa in pratica. A questo scopo io stesso avevo attentamente studiato delle disposizioni che sarebbero state certamente messe in atto quando il «Termine fisso» fosse diventato un fatto stabilito. Ma da tempo avevo previsto che la prima deposizione dovesse essere realizzata con un qualche éclat di gloria volontaria. Andrebbe veramente a detrimento della causa vedere il mio amico speciale Crasweller trascinato via verso il collegio dalle guardie per le strade di Gladstonopoli, protestando che è stato forzato al suo destino dodici mesi prima del tempo stabilito. Crasweller era un uomo popolare a Britannula e alla gente i fatti non sono così familiari come per me, né essa avrebbe le stesse ragioni per essere ansiosa che la legge venisse accuratamente seguita. Eppure, quanto dipendeva dall’accuratezza con cui si seguiva la legge! Per il primo caso, un’obbedienza entusiastica era particolarmente desiderabile e dal mio amico Crasweller mi ero aspettato un tale tipo di obbedienza.

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«Crasweller», dissi, rivolgendomi a lui con grande solennità, «non è così». «Lo è, lo è. Io dico che lo è». «Non è così. I libri che sono stati stampati e sui quale si è giurato, che hanno avuto il vostro stesso assenso insieme con quello di altri, sono tutti contro di voi». «C’è stato un errore. Ho una lettera dalla mia vecchia zia nello Hampshire, scritta a mia madre quando sono nato, che lo prova». «Ricordo bene quella lettera», dissi, poiché avevamo passato in rassegna tutti quanti quei documenti nell’eseguire l’importante compito di decidere il «Termine fisso». Voi siete nato nel Nuovo Galles del Sud e la vecchia signora in Inghilterra non scrisse fino all’anno seguente. «Chi lo dice? Come potete provarlo? Non era per niente donna da lasciar passare un anno prima di congratularsi con la propria sorella». «Abbiamo la vostra stessa firma che conferma la data». «Come facevo a sapere quando ero nato? Tutto ciò non conta nulla». «E sfortunatamente», dissi come per stringere la questione, «esiste la Bibbia in cui vostro padre registrò la data con la sua solita accuratezza esemplare». Allora si fece silenzioso per un momento come se non avesse nessuna prova ulteriore da offrire. «Crasweller», dissi, «non siete uomo abbastanza da affrontare questa cosa in maniera diretta e virile?» «Un anno!», esclamò. «Chiedo solamente un anno. Penso che, come prima vittima, abbia il diritto di aspettarmi che mi sia accordato un anno. Poi Jack Neverbend avrà Little Christchurch e le greggi e i bovini e anche Eva per sempre, o per lo meno fino a che anche lui sarà condotto all’esecuzione!» Vittima. Esecuzione! Che linguaggio con cui parlare del grande sistema! Per parte mia ero determinato ad essere gentile con lui seppur senza cedere di un centimetro. In ogni caso, la legge era con me e io non pensavo ancora che Crasweller si sarebbe appoggiato a coloro che parlavano di invitare l’Inghilterra a interferire. La legge era dalla mia parte e così dovevano ancora essere tutti quelli che nell’Assemblea avevano votato per il «Termine fisso». C’era stato entusiasmo allora e le diverse clausole erano state sostenute da grandi maggioranze. Una dozzina di clausole diverse erano state sostenute, ciascuna in riferimento a varie articolazioni della questione. Non solo si fissò il termine, ma si votò di dare denaro per il collegio e si stabilì il tipo di vita da condurvi dentro; si sancirono i divertimenti per i vecchi e, ultimo aspetto, ma non di minore importanza, si fissò il metodo di dipartita. Ora c’era il collegio, un edificio aggraziato circondato da arbusti in crescita e passeggiate ampie e piacevoli per i vecchi, dotato di una cucina nella quale si dovevano assecondare i loro gusti e con una cappella per coloro che avrebbero richiesto di pregare in pubblico; e tutto ciò sarebbe esposto al ludibrio di Britannula se questo vecchio Crasweller rifiutasse di oltrepassarne i cancelli. «Si deve fare», dissi in un tono di ferma decisione.

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Capitolo terzo

«No!» esclamò. «Crasweller, si deve fare. La legge lo esige». «No, no; non da me. Voi e il giovane Grundle cospirate per liberarvi di me. Non verrò rinchiuso per un anno intero prima del mio tempo». Con questo si incamminò a lunghi passi in casa, lasciandomi solo sulla veranda. Non potevo fare null’altro che accendere il fanale elettrico del mio triciclo e vapociclare indietro verso la sede del Governo di Gladstonopoli con il cuore triste.

IV. JACK NEVERBEND

Passarono sei mesi, che, devo ammettere, furono un periodo di grande dubbio e infelicità, sebbene alleviato da momenti di trionfo. Naturalmente, con l’avvicinarsi del tempo, a Gladstonopoli la questione della deposizione di Crasweller divenne oggetto di discussione pubblica generale. E lo stesso fu per la storia d’amore di Abraham Grundle ed Eva Crasweller. Vi erano «Evaiti» e «Abramiti» nella comunità perché, sebbene la relazione non fosse stata completamente rotta, si sapeva che i due giovani avevano opinioni del tutto differenti sulla questione della deposizione del vecchio. I sostenitori di Grundle, per lo più uomini e donne giovani, dicevano che Abraham era semplicemente ansioso di applicare le leggi del suo paese. In questo periodo accadde che egli venisse eletto ad un seggio vacante nell’Assemblea cosicché, quando la questione fu portata alla discussione, fu in grado di spiegare pubblicamente i suoi motivi, cosa che, bisogna ammettere, fece con buone parole e una certa dose di giovanile eloquenza. Per quanto riguardava Eva, era semplicemente intenta a preservare gli sgoccioli di vita di suo padre e la si era sentita esprimere l’opinione che il collegio era «tutto un imbroglio» e che si sarebbe dovuto permettere alle persone di vivere tanto a lungo quanto piaceva a Dio. Ovviamente, aveva dalla sua parte le signore anziane della comunità e, per prima, la mia stessa consorte. La signora Neverbend non si era mai messa in vista in questioni pubbliche prima d’ora, ma questa sembrava starle molto a cuore. Che ciò nascesse dal suo desiderio di promuovere il benessere di Jack o dalla riflessione che il termine della sua stessa deposizione si stava gradualmente avvicinando, non sono mai riuscito del tutto a capire. Ad ogni modo, aveva dieci anni da passare e mai l’avevo sentita esprimere paura della dipartita. Era, ed è tuttora, una donna buona e coraggiosa, attaccata ai suoi doveri domestici, attenta all’agio di suo marito, ma fuori misura interessata a tutte le cose buone che possono capitare a quello scavezzacollo di Jack Neverbend, per il quale pensa che nulla sia sufficientemente ricco o grandioso. Jack è un bel ragazzo, lo ammetto, ma ciò è più o meno tutto quel che si può

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Capitolo quarto

dire di lui e in questa questione si è opposto diametralmente a suo padre dall’inizio alla fine. Si vedrà come, in tali circostanze, nessuno di questi momenti di trionfo ai quali ho alluso potesse venire da casa mia. Lì, la signora Neverbend e Jack, e dopo un po’ anche Eva, sedevano insieme in perpetuo concilio contro di me. Quando questi incontri cominciarono Eva riconosceva ancora di essere la promessa sposa di Abraham Grundle. C’erano le sue stesse promesse, l’assenso di suo padre e forse un residuo di amore. Ma poi riferì a mia moglie che non poteva che provare orrore per l’uomo che era ansioso di «assassinare suo padre» e a poco a poco cominciò ad ammettere che considerava Jack un bel ragazzo. A Gladstonopoli avevamo una magnifica squadra di cricket e Britannula aveva sfidato i giocatori inglesi a giocare sul campo di Little Christchurch, che essi dichiaravano essere l’unico campo di cricket sulla faccia della terra preparato con tutte le qualità possibili per il corretto svolgimento del gioco. Ora, Jack, sebbene molto giovane, era capitano della squadra e dedicava molto più tempo a quella occupazione che alla sua più legittima attività di commerciante. Eva, che fino ad allora non aveva prestato molta attenzione al cricket, ne divenne all’improvviso un’appassionata, mentre Abraham Grundle, con una costanza insolita per i suoi anni, si dedicava più che mai alle attività dell’Assemblea ed esprimeva un certo disprezzo per il gioco, benché fosse un ottimo giocatore. In questo periodo si era reso necessario portare in Assemblea l’intera questione del «Termine fisso», poiché si avvertiva che, allo stato attuale della pubblica opinione, non sarebbe stato conveniente mettere in atto la legge stabilita senza l’ulteriore conferma di approvazione che ad essa sarebbe derivata da una nuova votazione alla Camera. L’opinione pubblica ci avrebbe proibito di depositare Crasweller senza un’ulteriore autorizzazione; pertanto si ritenne necessario fare un’interrogazione in cui non si menzionava il suo nome, ma che potesse condurre ad un dibattito generale. Una mattina il giovane Grundle domandò se fosse intenzione del governo accertarsi che le diverse clausole riguardanti la nuova legge sulle deposizioni venissero messe in atto immediatamente. «La Camera», disse, «è consapevole, credo, che presto sarà necessario eseguire le prime operazioni». Posso altresì qui affermare che ciò fu riferito anche ad Eva e che lei finse di stizzirsi a questa domanda da parte del suo fidanzato. Disse che era assolutamente indecente e che, dopo tali parole, lo doveva lasciare per sempre. Dopo il fatto, ci volle qualche mese perché lei acconsentisse che il nome di Jack venisse menzionato con il suo, ma ero consapevole che ciò era stato in parte deciso fra lei, Jack e la signora Neverbend. Grundle dichiarò la sua intenzione a procedere, secondo le leggi di Britannula, contro il vecchio Crasweller in riferimento alla rottura del contratto, fatto di cui il partito di Jack non si curava per nulla. Raccontando ciò, tuttavia, sto andando un po’ oltre il punto della mia storia al quale avevo condotto il mio lettore. Poi, si sollevò un dibattito sull’intero principio del provvedimento, che fu

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portato avanti con grande calore. Io, come Presidente, naturalmente non vi presi parte ma, in accordo con la nostra costituzione, lo ascoltai tutto dalla sedia che di solito occupavo alla destra dell’oratore. Gli argomenti sui quali si metteva l’enfasi maggiore tendevano a mostrare che il «Termine fisso» era stato sostenuto principalmente con l’intento di alleviare le miserie dei vecchi. E si mostrò in maniera definitiva che, nella stragrande maggioranza dei casi, la vita oltre i sessantotto anni non era altro che vanità e vessazione dello spirito. L’altro argomento relativo al costo dei vecchi per lo Stato fu lasciato cadere per il momento. Se voi aveste udito il giovane Grundle insistere con tutta la veemenza della giovinezza sull’assoluta miseria alla quale erano stati condannati gli anziani dall’assenza di una tale legge, se aveste udito delle miserie dei reumatismi, gotta, calcoli e della generale debilitazione raffigurate nelle parole eloquenti del venticinquenne, avreste sentito che tutti coloro che potevano prestarsi a perpetuare tale stato di cose dovevano essere colpevoli di crudeltà diabolica. Raggiunse davvero un grande livello di eccellenza parlamentare e portò dalla sua la parte più giovane e fortunatamente più grande della Camera. Sull’altra parte non vi era veramente nulla da dire, se non che ripeteva i pregiudizi del Vecchio Mondo. Ma, ahimé, sono così forti le debolezze del mondo che il pregiudizio può sempre sbaragliare la verità con la mera forza dei suoi battaglioni. Finché non fu provato e riprovato una decina di volte, non si accettò il fatto che il sole non avrebbe potuto rimanere fermo su Gabaon1. Crasweller, che era un membro e teneva il suo seggio durante questi dibattiti senza osare parlare, sussurrava semplicemente al suo vicino che il giovane avido e senza cuore non intendeva aspettare ancora la lana di Little Christchurch. Le consultazioni vennero divise in tre parti e per tre volte i Terminefissisti batterono il vecchio partito con uno scarto di quindici voti in una Camera che consisteva di ottantacinque membri. Era così forte l’emozione nell’Impero che solo due membri risultarono assenti e il numero rimase uguale durante l’intera settimana del dibattito. Questo, pensai, era un trionfo e sentii che la vecchia patria, che non aveva davvero nulla a che fare con la questione, non poteva interferire contro un’opinione espressa in maniera così forte. Il mio cuore sobbalzò di piacevole emozione quando sentii la vecchiaia, alla quale io stesso mi stavo avvicinando, dipinta in termini tali da rendere la sua impotenza veramente cospicua, fino al punto di sentire che, se fosse stato proposto di depositare tutti noi che avevamo raggiunto l’età di cinquantotto anni, avrei dato davvero gioiosamente il mio assenso a un tale provvedimento e me ne sarei incamminato via subito per depositarmi nel collegio. Ma fu soltanto in questi momenti che mi fu concesso di provare un simile

1 Il riferimento è al passo di Giosuè 10:12-13 in cui durante la battaglia di Gabaon contro i nemici di Israele Giosuè, comandò al sole di fermarsi così da aver giorno sufficiente per sterminarli.

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sentimento di trionfo. Non soltanto in casa mia, ma anche in società e per le strade di Gladstonopoli mi si esprimeva l’opinione che si sarebbe impedito a Crasweller di ritirarsi nel Collegio allo scadere del suo «Termine fisso». «Cosa diavolo lo impedisce?», dissi una volta al mio vecchio amico Ruggles. Ruggles aveva allora più di sessant’anni ed era un agente in città dei produttori di lana della campagna. Non era attivo in politica e, sebbene non fosse mai stato d’accordo con il principio del «Termine fisso», non aveva esercitato opposizione ad esso. Era un uomo che io consideravo indifferente alla lunghezza della vita ma che poteva, nel complesso, affrontare il destino che la Natura poteva aver inteso per lui, piuttosto che migliorarlo con una qualsiasi nuova riforma. «Eva Crasweller lo impedirà», disse Ruggles. «Eva è soltanto una bambina. Pensate che si lascerà che la sua opinione interrompa le leggi dell’intera comunità e si frapponga al progresso della civilizzazione?» «Lo faranno i suoi sentimenti», disse Ruggles. «Chi resisterà ad una figlia che intercede per la vita di suo padre?» «Un uomo non può, ma ottantacinque possono». «Gli ottantacinque saranno per la comunità proprio come uno sarebbe per gli ottantacinque. Non sto dicendo nulla della tua legge. Non sto esprimendo un’opinione sul fatto che sia buona o cattiva. Mi piacerebbe vivere il mio tempo, benché riconosca che voi dell’Assemblea avete sulle vostre spalle la responsabilità di decidere se potrò farlo o meno. Mi potreste condurre via e depositarmi senza problemi perché non sono popolare. Ma la gente sta cominciando a parlare di Eva Crasweller e Abraham Grundle e vi dico che tutti i volontari che avete a Britannula non saranno sufficienti per portare il vecchio al Collegio e tenercelo dentro finché non lo avrete fatto fuori. Verrebbe ricondotto a Little Christchurch in trionfo e il Collegio rimarrebbe abbandonato come un relitto». Questa prospettiva sul caso era particolarmente penosa per me. Come capo magistrato della comunità nulla era tanto detestabile per me quanto la ribellione. A una popolazione che non è rispettosa della legge non si può predire che il male, mentre coloro che rispetteranno le leggi non potranno che prosperare. Mi addolorò moltissimo venire a sapere che gli abitanti di Gladstonopoli sarebbero insorti in tumulto e avrebbero distrutto il collegio soltanto per appoggiare le opinioni di una bella ragazza. Vi era qualche onore, o peggio ancora, poteva esserci qualche utilità nell’essere il Presidente di una repubblica in cui potevano accadere cose del genere? Lasciai il mio amico Ruggles in strada e procedetti verso la Sala dell’Esecutivo in uno stato mentale di grande dolore. Là mi giunsero notizie decisamente più tristi. Proprio nel momento in cui parlavo dell’argomento con Ruggles in strada, si era tenuta una riunione nel mercato con lo scopo dichiarato di destituire il «Termine fisso»; e chi era stato l’oratore principale? Jack Neverbend! Il mio stesso figlio aveva assunto su

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di sé questo nuovo incarico di tenere discorsi pubblici in diretta opposizione al proprio padre! E io avevo ragione di credere che lui vi fosse stato istigato dalla mia stessa moglie! «Vostro figlio, signore, ha parlato al popolo del ‘‘Termine fisso’’ e si dice che sia stato bello ascoltarlo». Fu così che mi venne raccontato l’accaduto da uno degli impiegati del mio ufficio e devo ammettere che mi diede un leggero piacere scoprire che Jack sapeva fare qualcos’altro oltre che giocare a cricket. Ma divenne immediatamente necessario prendere provvedimenti per fermare il male e io ero ancora più obbligato a farlo perché l’unico colpevole che mi era stato nominato era il mio stesso figlio. «Se è così», dissi ad alta voce in ufficio, «Jack Neverbend dormirà in prigione questa notte». In quel momento, però, non mi venne in mente che sarebbe stato necessario avere la prova formale che Jack stesse cospirando contro la legge prima che io potessi spedirlo in prigione. In questo caso, non avevo su di lui più potere che su qualsiasi altra persona. Se avessi dichiarato che doveva essere spedito a letto senza cena, mi sarei espresso meglio sia come padre che come magistrato. Andai a casa ed entrando la prima persona che vidi fu Eva. Ora, con il procedere della questione, mi riempii di collera con mio figlio, e con mia moglie, e con il povero vecchio Crasweller, ma non riuscii mai ad adirarmi con Eva. Aveva dei modi adulatori, dolci e femminili che superavano ogni opposizione. E io avevo già cominciato a considerarla come mia nuora e ad amarla affettuosamente in quel ruolo, anche se c’erano momenti nei quali l’impudenza di Jack e il suo nuovo spirito di contraddizione mi inducevano quasi a diseredarlo. «Eva» dissi, «cos’è questa notizia che ho sentito di una riunione pubblica nelle strade?» «Oh, signor Neverbend», disse lei prendendomi per il braccio, «sono soltanto ragazzi che parlano di papà». In tutte le voci e i tumulti di quei tempi c’era un’evidente determinazione a parlare di Jack come di un ragazzo. Tutto quello che aveva fatto e detto era soltanto l’emanazione del suo buon umore di scolaro. Eva parlava sempre di lui come di un fratello più giovane. Eppure scoprii presto che l’oppositore dal quale avevo più da temere a Britannula era proprio mio figlio. «Ma perché», chiesi, «questi sciocchi ragazzi dovrebbero discutere della seria questione del vostro caro padre nella pubblica strada?» «Non vogliono che sia... depositato», disse lei, pressoché singhiozzando mentre parlava. «Ma, mia cara», cominciai, determinato ad insegnarle l’intera teoria del «Termine fisso» con tutti i suoi vantaggi, dal primo all’ultimo. Ma lei subito mi interruppe. «Oh, signor Neverbend, io so che è un bene parlarne. So che, senza dubbio, il mondo sarà molto migliore grazie ad esso. E, se si depositassero i padri da cinquecento anni, suppongo che non dovrei preoccuparmi tanto. Ma essere il primo di tutto il mondo! Perché papà dovrebbe essere il primo? Dovreste cominciare con qualche debole, irascibile, povero vecchio

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zoppo, che starebbe molto meglio altrimenti. Ma papà è in salute eccellente e in possesso delle sue facoltà mentali molto più del signor Grundle. Gestisce tutto a Little Christchurch e lo fa molto bene». «Ma, mia cara...», stavo per spiegarle che in una questione di interesse pubblico tanto fondamentale quanto quella del «Termine fisso» era impossibile entrare nel merito dei casi individuali. Ma lei mi interruppe di nuovo prima che io potessi far uscire una parola. «Oh, signor Neverbend, non saranno mai capaci di farlo e io ho paura che poi voi ne soffrirete». «Mia cara, se la legge è...» «Oh sì, la legge è una cosa molto bella; ma qual è il vantaggio della legge se non può essere applicata? Là c’è Jack; naturalmente è solamente un ragazzo, ma lui giura che tutto l’Esecutivo e l’Assemblea e tutti i volontari di Britannula non condurranno il mio papà in quel collegio bestiale». «Bestiale! Mia cara, non potete aver visto il collegio. È assolutamente bello». «È solo quel che dice Jack. È Jack che lo chiama bestiale. Ovviamente lui non è ancora un uomo, ma è il vostro stesso figlio. E io penso, che per onestà di spirito, Jack sia un tipo eccellente». «Abraham Grundle, sapete, è altrettanto accalorato dall’altra parte». «Io odio Abraham Grundle. Non voglio mai più sentire il suo nome. So molto bene di cosa va in cerca Abraham Grundle. Non gli è mai importato un gran che di me; né a me di lui, se è per questo». «Ma c’è un contratto». «Se pensate che io sposerò un uomo perché i nostri nomi sono stati scritti insieme in un libro, vi sbagliate della grossa. È un tipo cattivo e meschino e io non gli parlerò mai più finché vivo. Depositerebbe papà all’istante, se ne avesse il potere. Jack, invece, è determinato a difenderlo finché avrà una lingua per gridare o mani per lottare». Queste erano parole terribili, ma avevo sentito lo stesso sentimento proprio dalle labbra di Jack. «Naturalmente Jack non è nulla per me», continuò lei, con quel mezzo singhiozzo che le era diventato abituale ogni qualvolta era costretta a parlare della deposizione di suo padre. «Lui è solamente un ragazzo, ma noi tutti sappiamo che potrebbe battere Abraham Grundle in un baleno. E, a mio parere, è molto più adatto ad essere un membro dell’Assemblea». Dato che non avrebbe ascoltato alcuna parola che le avessi detto ed era solamente intenta ad esprimere il calore dei propri sentimenti, la lasciai andare e mi ritirai nell’intimità della mia biblioteca. Là cercai di confortarmi meglio che potevo pensando alle brillanti prospettive di Jack. Lui era innamorato dalla testa ai piedi di Eva e mi era chiaro che anche lui piaceva ad Eva. E poi l’astuto furfante aveva trovato il modo sicuro di ottenere il beneplacito del vecchio Crasweller. Grundle aveva pensato che, se avesse visto suo suocero depositato, non avrebbe avuto nulla da fare se non entrare a Little Christchurch da padrone. Quella era l’accusa che gli si muoveva generalmen-

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te a Gladstonopoli. Ma Jack, al quale, per quel che potevo vedere, non importava un fico secco dell’umanità, aveva veementemente preso le parti degli Anti-terminefissisti come il modo più sicuro per ottenere il consenso del padre di Eva. Senza dubbio c’era un contratto di matrimonio e Grundle avrebbe avuto il diritto di un quarto dei possedimenti del padre di Eva se poteva provare che il contratto era stato rotto. Tale era la legge di Britannula in materia. Ma per tale legge nessuno aveva ancora chiesto un centesimo. E Crasweller senza dubbio era giunto alla conclusione che Grundle non sarebbe stato disposto a sopportare l’odio di essere il primo. E c’erano clausole nella legge che gli avrebbero reso molto difficile provare la validità del contratto. Già molti avevano asserito che non ci si poteva aspettare che una ragazza sposasse l’uomo che aveva cercato di distruggere suo padre e, sebbene nella mia mente non ci poteva essere dubbio sul fatto che Abraham Grundle avesse fatto solamente il proprio dovere di senatore, non si sapeva quale opinione sul caso avrebbe potuto assumere la giuria a Gladstonopoli. E poi, al peggio, Crasweller avrebbe rinunciato a un quarto della sua proprietà senza rimpianto e Jack si sarebbe accontentato di rendere la meschinità di Grundle evidente ai suoi concittadini. E adesso devo confessare che, seduto da solo nella mia biblioteca, esitai per un’ora riguardo la mia condotta futura. Non sarebbe meglio per me abbandonare il «Termine fisso» insieme a tutte le sue glorie? Anche il mondo della sola Britannula sarebbe troppo forte per me. Non dovrei forse prendere le cose buone che mi sono state offerte e permettere a Jack di sposare sua moglie ed essere felice a modo suo? In fondo al mio cuore lo amavo tanto quanto lo amava sua madre e pensavo che fosse il giovane più eccellente che Britannula avesse prodotto. E se questa situazione fosse andata avanti, era probabile che sarei stato indotto a litigare con lui e a punirlo secondo la legge, come un qualche vecchio Romano del passato. Devo confessare che le mie relazioni con la signora Neverbend mi rendevano molto inadatto ad imitare il paterfamilias romano. Lei non interferiva mai negli affari pubblici, ma aveva un modo di parlare delle questioni domestiche con il quale risultava sempre vittoriosa. A questo riguardo, nel passato mi sembrò che lei e Jack, che erano le due persone che amavo di più al mondo, erano stati i nemici che avevano sempre cospirato contro di me con successo. «Fatela finita con quell’assurdità del vostro ‘‘Termine fisso’’», mi aveva detto solamente ieri. «Può andar bene per l’Assemblea; ma se si tratta di uccidere il povero signor Crasweller veramente, è del tutto fuori questione». E poi, quando cominciai a spiegare nei dettagli l’immensa importanza dell’argomento, lei ripetè soltanto che quello andava bene per l’Assemblea. Farei dunque meglio ad abbandonarlo del tutto, prendere le cose buone che Dio mi ha offerto e ritirarmi a vita privata? Nel mio carattere convivevano due aspetti per cui riuscivo a immaginarmi seduto nel lusso in mezzo ai mobili della veranda di Crasweller con Eva e i suoi bambini intorno, mentre Jack se ne stava fuori in piedi con un sigaro in bocca a redigere le regole per i giocatori di cricket di

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Gladstonopoli. «Non sarebbe meglio fare come usano gli altri?»2, mi ripetei più e più volte mentre sedevo là esausto da questa contesa, pensando all’agonia molto più spaventosa che sarei stato chiamato a sopportare quando l’ora della dipartita del vecchio Crasweller fosse effettivamente arrivata. E poi ancora, se dovessi fallire! Per circa mezz’ora temetti di fallire. Ero sempre stato un magistrato popolarissimo, ma ora sembrava che fosse giunta l’ora di dover abbandonare tutta la mia popolarità. Jack, che era abbastanza veloce a capire l’aspetto delle cose, aveva già cominciato a chiedere alla gente se avessero voluto vedere il loro vecchio amico Crasweller assassinato a sangue freddo. Era una parola terribile, ma mi assicurarono che l’aveva usata. Cosa sarebbe accaduto allora quando fosse giunto il tempo per la deposizione e si fosse fatto il tentativo di condurre il vecchio per le strade di Gladstonopoli? Dovrei avere la forza di carattere per svolgere questo compito in opposizione ai desideri espressi a gran voce dagli abitanti? E che accadrebbe se i volontari si rifiutassero di agire secondo la legge e l’ordine? Non avrei fallito completamente, e dopo non si sarebbe detto di me che, come Presidente, ero caduto nel tentativo di mettere in pratica il progetto al quale il mio nome era associato da tanto tempo? Seduto là da solo mi ero quasi deciso ad arrendermi, quando improvvisamente mi ricordai di Socrate, Galileo, Hampden3 e Washington. Che grandi cose avevano fatto questi uomini con un’opposizione costante ai desideri e pregiudizi del mondo esterno! Quanto sembravano trionfanti ora per aver combattuto contro le ingenti contrarietà che il potere aveva messo loro contro! E quanto gradevole era adesso il suono stesso dei loro nomi per tutti coloro che amano i propri simili! In qualche momento di riflessione privata, in ansia quanto lo ero io adesso, anch’essi devono aver dubitato. Devono essersi chiesti se fossero forti abbastanza per sostenere le loro grandi riforme contro il mondo. Ma in questi stessi momenti la forza necessaria gli era stata data. Dev’essere accaduto che, quasi alla disperazione, siano stati confortati da una verità interiore e ispirati ad avere fiducia nella loro causa. Anch’essi erano stati deboli e avevano tremato e avuto paura, ma avevano trovato nei loro cuori ciò su cui potevano contare. Erano stati meno gravemente sotto pressione di quanto lo fossi io in quel momento? Non avevano creduto e avuto fiducia e speranza? Mentre riflettevo, compresi che non soltanto era necessario che un uomo immaginasse nuove verità, ma doveva anche resistere e soffrire

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È questo uno dei versi preferiti e più citati da Trollope del poema di Milton da lui forse più amato, Lycidas del 1638. Riferimenti, allusioni e citazioni da questo poeta, verso il quale Trollope sviluppò un grande entusiasmo sin dalla gioventù, sono numericamente inferiori in tutta la sua opera soltanto a quelli da Shakespeare. 3 Trollope si riferisce qui allo statista John Hampden (1594-1643), famoso per avere resistito nel 1636 al pagamento della Ship Money, un’imposta destinata alla copertura delle spese della flotta per la difesa delle coste, estesa anche alle regioni dell’interno dal re Charles I.

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per portarle alla maturità. E quanto spesso, prima che una verità sia portata alla maturità, deve essere necessario che colui che l’ha immaginata e vista e progettata debba dare la sua stessa vita per essa, e tutto invano? Ma forse non del tutto invano per il mondo, ma solamente rispetto ai sentimenti e alla conoscenza dell’uomo stesso. Nella lotta per il benessere dei suoi simili, un uomo deve avere il coraggio di sopportare di essere cancellato, deve accettare di non essere ascoltato o, peggio ancora, di essere esposto al ludibrio e forse ingiuriato da tutti affinché dopo possa rimanere qualcosa di quei cambiamenti che egli è stato capace di vedere, ma non di realizzare. Quanti sono i requisiti della vera grandezza! Ma, prima di tutto, è necessaria quella negazione di sé che è in grado di progettare nuove benedizioni, seppure nella consapevolezza che quelle benedizioni saranno considerate come maledizioni dal mondo intero. Poi mi alzai e, camminando intorno alla stanza, dichiarai a me stesso ad alta voce il mio intento. Sebbene potessi perire nel tentativo, avrei certamente tentato di attuare la dottrina del «Termine fisso». Sebbene la gente potesse essere contro di me e considerarmi come suo nemico − quella gente per il cui benessere avevo fatto tutto − avrei continuato a perseverare anche se fossi stato destinato a cadere nel tentativo. Sebbene la mia amata moglie e il figlio dei miei lombi possano rivoltarmisi contro e amareggiare con la loro ostilità i miei ultimi momenti, continuerei a perseverare. Quando si arriverà a parlare dei vizi e delle virtù del Presidente Neverbend, della sua debolezza e della sua forza, non si dovrà mai dire di lui che è stato dissuaso dalla paura della gente dall’attuare il grande provvedimento che aveva progettato esclusivamente per loro beneficio. Confortato da questa risoluzione, andai nel salotto della signora Neverbend, dove trovai suo figlio Jack seduto con lei. Stavano evidentemente parlando del discorso di Jack al mercato e io notai che la fronte del giovane oratore era ancora accesa dal trionfo del momento. «Padre», disse immediatamente, «non riuscirete mai a depositare il vecchio Crasweller. La gente non ve lo lascerà fare». «La gente di Britannula», dissi, «non interferirà mai per impedire al loro magistrato di agire secondo la legge». «Uffa!» esclamò la signora Neverbend, e quando mia moglie diceva così sapevo che a nulla serviva discutere con lei. Effettivamente, la signora Neverbend è un tipo con cui, per lo più, gli argomenti si buttano via. Forma la propria opinione dalle cose che le stanno intorno e, riguardo alla vita domestica, ai suoi vicini e alla condotta delle persone con cui vive, ha quasi sempre ragione. Ha acume veloce e un cuore affettuoso che, insieme, le impediscono di andare fuori strada. Sa come fare del bene e quando farlo, ma è ostinatamente cieca rispetto agli argomenti astratti e alla verità politica. Sentii che era necessario che io cogliessi questa opportunità per fare capire a Jack che io non avrei temuto la sua opposizione, ma ammetto che avrei desiderato che la signora Neverbend non fosse presente.

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«Non credete?» disse Jack. «È soltanto ciò che io immagino che essi faranno». «Vuoi dire che è ciò che voi vi auguriate che facciano, che voi pensate sia giusto che facciano?» «Io non penso che Crasweller debba essere depositato, se è questo che intendete, padre». «Nemmeno se la legge lo esige?», dissi con tono di autorità. «Vi siete fatti un’idea della sottomissione alla legge che è richiesta a tutti i buoni cittadini? Avete mai riflettuto sul fatto che la legge dovrebbe essere in tutte le cose...». «Oh, signor Presidente, vi prego di non tenere un discorso qui», disse mia moglie. «Non lo capirei mai e non penso che Jack sia molto più saggio di me». «Non so cosa intendete per discorso, Sarah» − così si chiama mia moglie − «ma è necessario che Jack venga edotto sul fatto che lui, in ogni caso, deve rispettare la legge. È mio figlio e, come tale, è assolutamente necessario che egli vi sia soggetto. La legge impone...». «Non potete farlo, chiuso l’argomento», disse la signora Neverbend. «Voi e tutte le vostre leggi non sarete mai capaci di dare una fine al povero signor Crasweller e sarebbe una grande vergogna se lo faceste. Non vi rendete conto, ma qui in città questo sentimento sta diventando molto forte. La gente non lo permetterà e, devo dire, che è soltanto ragionevole da parte di Jack stare dalla stessa parte. È un uomo ora e ha diritto alle proprie opinioni come chiunque altro». «Jack», dissi con molta solennità, «date valore alla benedizione di vostro padre?» «Ebbene, signore, sì», disse. «Una benedizione suppongo sia qualcosa di simile ad un assegno pagato trimestralmente». Voltai il viso in modo che non potesse vedere il sorriso che sentivo insinuarsi involontariamente. «Signore», dissi io, «la benedizione di un padre ha molto più di un valore pecuniario. Include quel genere di relazione tra un genitore e il proprio figlio senza il quale la vita sarebbe un fardello per me e, ritengo, molto penosa anche per voi». «Naturalmente spero che voi e io potremo sempre essere in buoni rapporti». Fui obbligato a prendere questa ammissione per quello che valeva. «Se desiderate rimanere in buoni rapporti con me», dissi, «non dovete opporvi a me in pubblico quando agisco da pubblico magistrato». «Deve vedere il signor Crasweller assassinato proprio davanti ai suoi occhi e non dire niente?», disse la signora Neverbend. Di tutte le parole della lingua non ce n’erano di tanto offensive per me quanto quella, così odiosa quando usata in riferimento alla cerimonia che io avevo voluto così bella e allettante. «Sarah», dissi, rivolgendomi a lei con rabbia, «quella è una parola assai impropria che non dovreste tentare il ragazzo ad usare, specialmente in mia presenza».

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«L’inglese è l’inglese, signor Presidente», disse lei. Mi chiamava sempre «signor Presidente» quando intendeva oppormisi. «Potreste anche dire che un uomo è stato assassinato quando è stato... è stato ucciso in battaglia». Ero stato lì lì per dire «giustiziato» ma mi ero fermato. Non si giustiziano uomini a Britannula. «No. Combatte la battaglia del proprio paese e muore gloriosamente». «Una fucilata gli porta via una gamba o un braccio e troppo spesso viene lasciato a morire miseramente sul campo. Qui gli verrà offerto ogni conforto in modo che possa lasciare questo mondo senza un tormento, quando, nel corso di anni, avrà vissuto oltre il termine in cui poteva lavorare ed essere utile». «Ma guardate il signor Crasweller, padre. Chi è più utile di lui?» Come promotore del «Termine fisso» nulla mi era stato più sfavorevole del particolare stato di salute fisica e sanità mentale di colui che per caso doveva essere il nostro primo martire. Poteva darsi che fosse possibile far capire a Jack che una regola che si era ritenuta applicabile al mondo in generale non si addiceva a qualche individuo particolare, ma era del tutto impossibile renderlo comprensibile alla signora Neverbend. Sentivo di dover cogliere qualche altra opportunità per esporre quell’aspetto dell’argomento. Per il momento avrei seguito l’esempio di mia moglie e sarei andato diritto al mio scopo. «Vi dirò io com’è la questione, giovanotto», dissi io, «non intendo essere ostacolato da voi nell’attuare la grande riforma alla quale ho dedicato la mia vita. Se, al momento, non potete trattenere la lingua e astenervi dal rivolgervi pubblicamente alla gente nel mercato, andrete via da Britannula. È bene che voi viaggiate e vediate qualcosa del mondo prima che cominciate il mestiere di pubblico oratore. Adesso che ci penso, il Club Alpino di Sydney sarà in Nuova Zelanda questa estate e vi farebbe molto bene andare a scalare il Monte Earnshawe e vedere tutte le bellezze della natura invece di dire sciocchezze qui Gladstonopoli». «Oh, padre, nulla mi piacerebbe di più», urlò Jack entusiasticamente. «Sciocchezze», disse la signora Neverbend, «avete intenzione di spedire il povero ragazzo a rompersi il collo fra i ghiacciai? Non rammentate che Dick Ardwinkle si perse là un anno o due fa e incontrò la morte in modo spaventoso?» «È successo prima che io nascessi», disse Jack, «o in ogni caso poco dopo. E allora non avevano inventato le nuove braccia d’acciaio brevettato per scalatori. Da quando ci sono, nessuno si è mai più perso fra i ghiacciai». «Allora fareste meglio a prepararvi ad andare», dissi, pensando che l’idea di liberarsi di Jack in questa maniera era stata molto felice. «Ma, padre», replicò, «di certo non posso fare un passo fino a dopo la grande partita di cricket». «Dovrete rinunciare al cricket per questa volta. Un’opportunità così buona per visitare le montagne della Nuova Zelanda potrebbe non presentarsi mai più».

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«Rinunciare alla partita!», esclamò. «Ma come! I sedici inglesi stanno venendo qui apposta per giocare con noi e giurano che ci batteranno con la nuova catapulta, ma io so che il nostro vapo-lanciatore stravincerà sulla loro catapulta. Ad ogni modo non posso andarmene via da qui fino a dopo la partita. Devo organizzare tutto io e, inoltre, contano sulla mia battuta. Verrei guardato come un traditore assoluto del mio paese se lasciassi Britannula mentre si sta giocando la partita. Il giovane Marchese di Marylebone, il loro capitano, starà a casa nostra e la nave che li sta portando qui arriverà alle undici del prossimo mercoledì». «Alle undici del prossimo mercoledì», dissi sorpreso. Non avevo ancora sentito parlare di questa partita, né dell’arrivo del nostro aristocratico visitatore. «Non avranno più di trenta minuti di ritardo al massimo. Sono partiti da Land’s End alle due di martedì tre settimane fa e da Londra alle dieci e trenta. Da quando sono partiti abbiamo ricevuto tre o quattro idrogrammi e non hanno perso dieci minuti nel viaggio. Naturalmente devo essere a casa per ricevere il Marchese di Marylebone». Tutto ciò mi fece pensare a molte cose. Era vero che in un momento del genere non potevo usare la mia autorità paterna per mandare via Jack dall’isola. I divertimenti infantili della giovinezza erano stati portati a un punto tale da avere tutta l’importanza della politica e della scienza sociale. Quello che avevo sentito dire su questa partita di cricket mi era entrato da un orecchio e uscito dall’altro, ma ora che mi veniva messo in casa, ero consapevole che tutta la mia autorità non sarebbe servita a bandire Jack fino a che non fosse finita. Non solo non mi avrebbe obbedito, ma nella sua disobbedienza sarebbe stato sostenuto persino dagli anziani della comunità. Forse, però, l’aspetto peggiore della cosa era l’arrivo a Gladstonopoli di una folla di inglesi colti proprio in questo momento, e quando dico colti voglio dire prevenuti. Si sarebbe trattato di inglesi privi di idee che non fossero quelle correnti nel secolo scorso e del tutto sordi alla saggezza del «Termine fisso». Mi avvidi immediatamente che avrei dovuto aspettare finché non fossero ripartiti e posporre il più possibile ogni ulteriore discussione della questione fino a quando Gladstonopoli non fosse stata lasciata alla sua naturale quiescenza dopo l’interferenza del cricket. «Benissimo», dissi, lasciando la stanza. «Può anche darsi che non potrete mai più visitare le meravigliose glorie di Monte Earnshawe». «Avrò un sacco di tempo per quello», disse Jack mentre chiudevo la porta.

V. LA PARTITA DI CRICKET1

Di recente ero stato così assorbito dalle faccende del «Termine fisso», che avevo del tutto dimenticato la partita di cricket e i nobili stranieri che stavano per raggiungere le nostre rive. Naturalmente ne avevo sentito parlare prima ed ero stato informato che Lord Marylebone sarebbe stato nostro ospite. Probabilmente mi era stato riferito anche che Sir Lords Longstop e Sir Kennington Oval sarebbero stati ospitati a Little Christchurch, ma, quando Jack me lo rammentò alcuni giorni più tardi, ciò mi era completamente sfuggito di mente. Ora, d’un tratto, cominciai a riconoscere l’importanza che avrebbe avuto per me quell’occasione e a realizzare che per i prossimi due mesi Crasweller, il Collegio e il «Termine fisso» dovevano essere banditi, se non dai miei pensieri, in ogni caso dalla mia conversazione. Non si poteva fare di meglio che bandirli dalla conversazione di tutto il mondo, non essen-

1 In questo capitolo, il più lungo del testo, tutto dedicato alla partita di cricket che nello sviluppo narrativo diventa il momento cruciale della lotta per l’affermazione della propria volontà di autonomia dall’impero britannico, si intrecciano vari motivi. In primo luogo, i nomi dei giocatori inglesi veicolano simbolicamente e satiricamente la forza e il potere sociale dell’Inghilterra attraverso le sue istituzioni e tradizioni fondamentali: l’aristocrazia e lo sport. Non a caso gli elementi di spicco della squadra britannica sono tutti aristocratici i cui nomi appartengono alla storia gloriosa del cricket inglese: Marylebone è un famoso club di cricket di Londra che ha di fatto dettato le regole del gioco fino al 1969, così come Oval è il nome di un famosissimo campo, quartier generale del Surrey County Cricket Club di Kennington nel sud di Londra, mentre Lords Longstop deriva il suo nome dal campo di Lord’s ancora oggi santuario del cricket. Inoltre la rappresentazione dello scontro tra la madre-patria e la colonia, tra una società ancora fortemente basata sul potere dell’aristocrazia e una repubblica borghese, attraverso lo scontro sportivo è altamente indicativa del modo di porsi dell’Inghilterra nei confronti delle colonie e dell’imposizione delle proprie abitudini di vita. Il fatto che sia Britannula a vincere la sfida − come fece veramente l’Australia in una partita registrata negli annali della storia del cricket −, rovesciando i pronostici e secoli di storia, anticipa e fa emergere l’inevitabile processo di dissoluzione del controllo dell’impero sulle colonie, processo di cui Trollope mostra di farsi portavoce.

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do certo ansioso di sentir ventilare l’argomento da una folla di giovani aristocratici inglesi di vecchio stampo e prevenuti, quali quelli che stavano arrivando da noi. La partita di cricket saltò così improvvisamente alla ribalta che Jack sembrava aver dimenticato tutta la sua energia riguardo al Collegio e avere trasferito tutta l’attenzione alle varie armi, offensive e difensive, con le quali il club londinese sarebbe stato, se possibile, battuto. Non siamo mai a corto di soldi a Britannula ma, guardando ai vari preparativi fatti per due o tre giorni di gioco a Little Christchurch, sembrava che l’Inghilterra dovesse inviare un altro esercito per prendere un’altra Sebastopoli2. Per far giocare questi trentadue ragazzi in modo acconcio ci voleva più armamentario di quanto ce ne sarebbe voluto per «depositare» mezza Gladstonopoli. Ogni inglese aveva un suo attendente che badava a mazze e palle, scarpe e gambali e, ovviamente, era necessario che i nostri ragazzi fossero serviti altrettanto bene. Ognuno di loro aveva due biciclette a disposizione e, siccome erano tutte costruite con i nuovi cambi a doppia azione, passavano avanti e indietro lungo la pista ciclabile fra la città e la casa di Crasweller con rapidità stupefacente. Continuavo a sentire che quelle sei miglia erano state coperte in quindici minuti. Poi vi fu una gara fra gli inglesi e i britannuli per chi si fosse avvicinato di più ai quattordici minuti, tanto che sembrava che fosse la corsa in bici, più che il cricket, lo scopo per cui gli inglesi avevano inviato lo yacht a vapore di 4000 tonnellate a spese di tutti i giocatori di cricket della nazione. Fu in questa occasione che la pista venne resa a doppio senso per chi andava e chi veniva e che si misero dei volontari a impedire ai ritardatari di attraversare se non dai ponti regolari. Scoprii che a me, il Presidente della Repubblica, era impedito di recarmi con il mio triciclo a casa del mio vecchio amico a meno che non lo facessi prima di mezzogiorno. «Ti investiranno e ti ridurranno in polpette», aveva detto Jack parlando di tale catastrofe con meno orrore di quanto ritenevo essa dovesse suscitare nella sua giovane mente. Il povero Sir Lords era stato investito dal nostro Jack, o come Jack stesso diceva, era «entrato in collisione». «Non ha avuto slancio a sufficienza per fare la curva angolata come avrebbe dovuto», aveva detto Jack, senza il minimo apparente rammarico per ciò che era accaduto. «Un altro centimetro e mezzo l’avrebbe salvato. Se riesce a sfiorare la palla del nostro vapolanciatore3 quando gliela manderò, penserò che le sue braccia valgono più delle sue gambe e i suoi occhi più dei suoi polmoni. Mandare un tipo così! Ha trent’anni e dicono che ha continuato a mangiare zuppa per tutto il viaggio». Questi giovani si erano portati dietro un dottore, il Dottor MacNuffery, per2 Il riferimento è alla famosa battaglia di Sebastopoli, assediata nel 1854-55 durante la Guerra di Crimea che vedeva francesi e inglesi in appoggio alla Turchia contro la Russia appoggiata dall’Austria. 3 Si tratta di una delle poche invenzioni introdotte da Trollope nel futuro di Britannula. Lo spunto per questa specie di catapulta a vapore l’autore può averlo avuto a un’Esposizione internazionale.

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ché prescrivesse loro cosa mangiare e bere ad ogni pasto e lo sfortunato baronetto che Jack aveva quasi macellato aveva suscitato il malumore dell’intera squadra perché aveva ordinato brodo di carne di montone quando aveva mal di mare. Dovevano stare un mese a Britannula prima di cominciare la partita; tanto era necessario perché ognuno fosse nelle migliori condizioni fisiche possibili. Poiché avevano portato con loro il Dottor MacNuffery, anche i nostri giovanotti sentirono immediatamente la necessità di avere un loro dottore. Penso che questa fosse una piccola finta perché, sebbene il Dottor Bobbs fosse da tempo un ufficiale del Club di cricket Southern Cross, per la verità non avevano pensato di portarlo e Bobbs fu nominato solamente la notte dopo che erano stati resi noti posizione e doveri di MacNuffery. Bobbs era un giovane che si stava accingendo a praticare a Gladstonopoli e che immagino si intendesse più di morbillo che di allenamento di atleti. MacNuffery era l’uomo più sgradevole del gruppo inglese e presto cominciò ad arricciare il naso con Bobbs. Ma penso che Bobbs ebbe la meglio su di lui. «Concedete il caffè alla vostra squadra?», chiese MacNuffery con una voce che mescolava ridicolo e biasimo con un tocco di satira, dato che aveva cominciato ad indovinare che Bobbs non si occupava da molto del suo attuale lavoro. «Scoprirete», disse Bobbs, «che con la nostra aria i nostri giovani non hanno bisogno delle limitazioni necessarie a voi inglesi. Prima di loro, i loro padri e le loro madri non erano molli e flaccidi, come penso sia stato nel vostro caso». Mi dicono che Lord Marylebone guardò all’estremità della tavola verso Lord Kennington Oval e che dopo non si parlò più di dieta. Accadde, però, un grosso guaio che, nel lungo periodo, fu tuttavia di aiuto a Jack nei suoi piani, anche se per un certo tempo sembrò avere un altro effetto. Sir Kennington Oval rimase molto colpito dalla bellezza di Eva e, vivendo nella casa di Crasweller, ebbe presto l’opportunità di dirglielo. Abraham Grundle era uno dei giocatori di cricket e, come tale, era spesso in campo a Little Christchurch, ma non entrava in casa di Crasweller, e l’intera comunità alla moda di Gladstonopli cominciava a ritenere che il fidanzamento si fosse concluso. Si era sentito Grundle dichiarare in tono imperioso che quando fosse arrivato il giorno Crasweller sarebbe stato depositato e aveva espresso l’opinione che non vi era potere in grado di opporre resistenza alla legge di Britannula. Se poi preferisse la legge ad Eva o agisse con rabbia contro Crasweller per aver interferito con le sue aspirazioni o ritenesse che non sarebbe valsa la pena sposare la ragazza se il padre fosse stato lasciato in vita o se fosse gradualmente precipitato nell’amarezza a causa dell’opposizione mostrata verso di lui, non potevo proprio dire. Era totalmente ostile tanto a Jack quanto a Crasweller, ma non sembrava affatto nutrire avversione per Sir Kennington Oval, come neppure Eva, per quanto ne sapevo. Sapevo che nell’ultimo mese la madre di Jack aveva sollecitato quest’ultimo a dichiarasi a Eva, ma lui, che non permetteva a me, suo padre, di aprire bocca senza contraddirmi e che in casa nostra ordinava tutto come se fosse il padro-

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ne, era così timido in presenza della ragazza che non le aveva ancora chiesto di diventare sua moglie. Ora Sir Kennington Oval si era messo sulla sua strada ed egli era tanto modesto da astenersi dal litigare con lui. Sir Kennington Oval era un giovane aristocratico di bell’aspetto, di tante parole, ma con nulla di speciale da dire. La sua raffinatezza nel cricket era notevole e quando si alzava per andare a battere sembrava un sommozzatore con addosso lo scafandro da immersione. Jack, però, diceva che non era bravo nel gioco. Anzi, per quanto riguardava il cricket, Jack giurava che gli inglesi non sarebbero arrivati da «nessuna parte» se non fosse stato per gli otto giocatori professionisti che avevano portato con loro. Occorre spiegare che la nostra squadra non aveva giocatori professionisti. Non eravamo ancora arrivati a questo, che un uomo si guadagnasse il pane giocando a cricket. Lord Marylebone e il suo amico avevano portato con loro otto «schiavi» professionisti4, come avevano presi a chiamarli i nostri giovani in modo molto scortese. Ma ogni «schiavo» richiedeva tanta cura quanto i loro padroni e di se stessi avevano una considerazione molto più alta di quanta non ne avessero i non-professionisti. Per la verità Jack aveva cercato di sorpassare Lord Kennington sulla pista ciclabile quando aveva travolto il povero Sir Lords Longstop e, a quanto diceva, aveva più di una volta concesso a Lord Kennington di partire in anticipo arrivando nella banchina per le biciclette di Little Christchurch prima di lui. Ciò non aveva generato il migliore dei sentimenti e io temevo che potesse verificarsi una lite prima che si giocasse la partita. «Uno di questi giorni assesterò un pugno sul muso di quell’individuo», disse Jack una sera di ritorno da Little Christchurch. «Che c’è ora?», chiesi. «Moccioso impudente! Crede che per il fatto di avere un titolo insignificante attaccato al suo nome tutti corrano al suo fischio. Mi dicono che suo padre sia stato fatto baronetto perché ha messo a posto il braccio rotto ad uno di quei venti duchi reali per i quali l’Inghilterra deve pagare». «Chi ha dovuto correre al suo fischio?» chiese sua madre. «È arrivato con il suo vapocalesse e ha fatto chiedere ad Eva se non avesse avuto voglia di fare un giro con lui sulle scogliere». «Non occorreva che lei andasse se non lo desiderava», dissi io. «Ma lei ci è andata ed è stata con lui per un paio d’ore. Lui è il più insignificante moccioso parvenu che io abbia mai incontrato. Non ha un’idea che sia un’idea nella testa. Dirò ad Eva quel che penso di lui». La disputa continuò per tutto il periodo di preparazione, tanto che sembrava che Gladstonopoli non avesse nient’altro di cui parlare. Il nome di Eva era sulla bocca di tutti tanto che mia moglie non era quasi più in sé dalla rab-

4 Siamo agli albori dello sport professionistico, inteso come mestiere retribuito a tutti gli effetti, e popolare al punto da mettere in secondo piano la politica, come sostiene Neverbend, e catalizzare l’attenzione dell’intera popolazione a scapito di più urgenti argomenti.

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bia. «Una ragazza», diceva, «non dovrebbe farsi parlare dietro in quella maniera da tutto il circondario. Non credo che l’uomo intenda sposarla». «Non vedo perché non dovrebbe», risposi. «Per lui non è altro che una graziosa provinciale. Chi sarebbe a Londra?» «Perché la figlia del signor Crasweller non dovrebbe essere ammirata tanto a Londra quanto qui?», risposi. «La bellezza è uguale in tutto il mondo e dei suoi soldi si terrà conto tanto là come qui». «Ma avrà una tale macchia su di sé». «Macchia! Che macchia?» «Come figlia del primo depositato fra i Terminefissisti, se mai ciò accadrà; o se no, si parlerà di lei come di quella che tale sarebbe stata. Non credo che nessun inglese penserebbe a sposarla». Ciò mi fece molto arrabbiare. «Cosa!», esclamai. «Voi, una Britannula e mia moglie, intendete trasformare la gloria speciale di Britannula nel disonore del suo popolo? Ciò che noi dovremmo essere pronti a rivendicare come l’onore più alto, essendo esso un avanzamento nel progresso e nella civiltà generale mai neppure pensato finora da altri popoli, concepito e preparato in ogni dettaglio per il suo perfetto coronamento, ciò deve essere considerato come un obbrobrio per i nostri figli proprio da voi, la moglie del Presidente della Repubblica! Non avete amore di patria, patriottismo, nessuno sentimento di ciò che la vostra stessa famiglia ha fatto per il benessere del mondo?» Ammetto che mi irritai molto quando parlò di Eva come di una cittadina britannula contaminata a causa della legge sul «Termine fisso». «È meglio che affronti tutto ciò a casa piuttosto che attraversare il mondo per sentire quello che la gente dice di noi. Potrà anche andar benissimo per quanto riguarda la saggezza dello stato, ma il mondo non è pronto per esso e ci derideranno soltanto». In ciò vi era del vero, glielo concedevo in un certo qual modo. Immagino che una cicala indolente rida della faticosa industriosità della formica; e avrei molta considerazione della cicala che ammettesse di essere stata solo una cicala perché era l’epoca delle cicale5. «I pochi saggi», ribattei, «sono sempre stati gli zimbelli degli stolti». «Ma Eva non è una saggia», rispose, «e le riderebbero dietro senza che lei abbia un briciolo della vostra filosofia a sostenerla. Comunque, non credo che l’uomo ci stia pensando». Il giovane, invece, ci stava pensando e si era risolto a chiedere ad Eva di sposarlo immediatamente prima di andarsene e di ritornare con lui in Inghil-

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Il riferimento potrebbe essere a «La cicala e la formica» di La Fontaine, favola esemplare sulla saggezza. Nell’originale si fa riferimento alle farfalle («easygoing butterflies») che però non hanno la medesima connotazione in italiano. Si è dunque scelto di rendere l’idea con l’immagine della cicala.

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terra. Ne sentimmo parlare quando venne il tempo e sentimmo anche che Eva aveva dichiarato che non poteva decidersi tanto rapidamente. Questo era ciò che si diceva all’approssimarsi della partenza dello yacht. Ma noi non venimmo a saperlo direttamente da Eva e neppure da Crasweller. Tutte queste notizie ci arrivavano da Jack e in questo caso Jack era in qualche maniera fuorviato. Il tempo passava e l’allenamento sul campo di Little Christchurch proseguiva. Ci furono molti incidenti, ma i giocatori di cricket ci badavano molto poco. Jack si tagliò una guancia con una palla che gli era schizzata dalla mazza ed Eva, che aveva visto l’incidente, fu riportata a casa svenuta. Lord Kennington si comportò in modo ammirevole e lo portò egli stesso a casa con il suo calesse. Ci dissero poi che aveva eseguito le indicazioni di Eva, perché il vecchio Crasweller sarebbe stato a disagio con il ragazzo in casa, dato che, nelle circostanze attuali, non poteva ricevere me o mia moglie. La signora Neverbend giurò solennemente che si doveva far abbandonare il cricket a Jack, ma il giorno dopo Jack giocava già con una benda repubblicana di seta nera di traverso sul viso. Quando vidi Bobbs intento a lavorare su di lui pensai che un lato del suo viso fosse perduto e che l’occhio gli sarebbe rimasto orribilmente fuori sede. «Ogni possibilità di sposare Eva è perduta», dissi a mia moglie. «Quella brutta, piccola donnetta egoista!», esclamò la signora Neverbend. Ma alle due del giorno dopo Jack era stato rappezzato e nulla avrebbe potuto tenerlo lontano da Little Christchurch. Bobbs restò con lui per l’intera mattina e assicurò sua madre che se fosse uscito ad allenarsi l’occhio si sarebbe completamente rimesso a posto. La madre si offrì di fare una passeggiata con lui nel parco cittadino, ma Bobbs dichiarò che ci voleva un allenamento violento per mantenere l’occhio in sede e nel pomeriggio Jack era a Little Christchurch a manovrare il suo vapolanciatore. In seguito, Littlebat, uno dei professionisti inglesi, si ruppe una gamba e fu messo da parte; il giovane Grundle venne ferito nella parte inferiore della schiena e non si fece più vedere sulla scena del pericolo. «Al momento la mia vita è troppo preziosa per l’Assemblea», mi disse scusandosi. Alludeva al dibattito sul «Termine fisso», che sapeva sarebbe stato ripreso non appena i giocatori di cricket se ne fossero andati. Senza dubbio io dipendevo molto da Abraham Grundle e assentii. Successivamente la partita riprese con quindici giocatori per ogni squadra, poiché, sebbene ognuna avesse dei giocatori di riserva, non riuscivano ad accordarsi su come utilizzarli. Il nostro prossimo uomo a entrare in campo era migliore del loro, dicevano, ed essi volevano che noi mettessimo in campo il nostro secondo uomo migliore, cosa su cui i nostri non erano d’accordo. La partita fu, quindi, giocata infine con trenta combattenti. «E così uno del nostro gruppo ritornerà quasi immediatamente per prendere moglie», disse Lord Marylebone alla nostra tavola il giorno prima che si giocasse la partita. «Oh, davvero, signore!» disse la signora Neverbend. «Sono felice di scoprire che una giovane britannula ha fatto un tale effetto. Chi è il gentiluo-

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mo?». Era facile leggere il viso di mia moglie e intuire dal suo tono di voce che la notizia la disturbava molto. «Sir Kennington», disse Lord Marylebone. «Suppongo che tutti ne abbiate sentito parlare». Naturalmente tutti noi l’avevamo sentito dire, ma Lord Marylebone non sapeva quali fossero le speranze della signora Neverbend per suo figlio. «Sapevamo che Sir Kennington era stato molto premuroso, ma non abbiamo modo di sapere cosa ciò significhi per voi gentiluomini stranieri. È un peccato far perdere la testa ad Eva che, a suo modo, è una brava ragazza». Questo fu ciò che disse mia moglie. «È Oval che ha perso la testa», continuò lui, «non ho mai visto un uomo tanto lanciato in vita mia. È terribilmente innamorato di lei». «Cosa diranno i suoi amici a casa?», chiese la signora Neverbend. «Sappiamo che la signorina Crasweller erediterà una grossa fortuna, otto o diecimila all’anno al minimo. Immagino che verrà ricevuta a braccia aperte da tutti gli Ovals e in quanto allo ‘straniero’... noi non vi chiamiamo stranieri». «Perché no?», chiesi io, piuttosto ansioso di provare che noi eravamo stranieri. «Cos’è che ci rende stranieri se non una lealtà diversa? Non chiamiamo gli americani stranieri? La Gran Bretagna e la Francia sono state coinvolte per anni nella grande contesa marittima con le flotte unite di Russia e America e hanno fatto solamente adesso quella pace gloriosa grazie alla quale, come dicono i politici, tutto il mondo verrà governato in futuro, e dopo ciò, non si deve mettere in dubbio che gli americani siano stranieri per gli inglesi. E se lo sono gli americani, perché non i britannuli? Noi ci siamo separati dalla Gran Bretagna senza arrivare a colpirci, ma tuttavia la nostra bandiera, la Southern Cross, sventola con orgoglio alle nostre brezze gentili tanto quanto la Union Jack all’inclemenza dell’inverno britannico». Era la bandiera di Britannula, con la quale la Gran Bretagna non aveva nulla a che vedere. Al momento, ero particolarmente ansioso di sentire un inglese distinto come Lord Marylebone ammettere che eravamo stranieri. «E se non siamo stranieri, cosa siamo, signore?» «Inglesi, naturalmente», disse lui. «Che altro? Non parlate inglese?» «Lo stesso fanno gli americani, signore mio», dissi con un sorriso che intendeva essere grazioso. «La nostra lingua si sta diffondendo nel mondo e non è segno di nazionalità». «A quali leggi obbedite?» «A quelle inglesi, finché non scegliamo di abrogarle. Siete consapevole che ci siamo già liberati dalla macchia della pena capitale». «Queste monete hanno corso nei vostri mercati?», al che tirò fuori un pezzo d’oro dalla tasca del panciotto e lo sbatté sulla tavola. Era una di quelle sterline che la gente continua a chiamare «sovrani», anche se il nome non aveva più valore legale. «Di chi è questa effige e questa iscrizione?», chiese lui. «Eppure queste sono state comprate oggi in una vostra banca e la signora

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della cassa mi ha chiesto se accettavo sovrani. Come la risolverete questa, signor Presidente?» Un popolo piccolo, numericamente piccolo, non può chiaramente fare tutto subito. Siamo stati forse un po’ lenti nell’istituire una zecca nazionale. Di fatto vi era una difficoltà relativa a quale utensile usare per battere una Southern Cross sullo stemma inglese e mettere il ritratto del Presidente di Britannula del momento − il mio per esempio − al posto del viso del monarca britannico. Non ho mai spinto molto la questione per timore di sembrare, come alcuni presidenti, troppo ansioso di mettermi in mostra. Ho pensato più alla gloria della nostra progenie piuttosto che a me stesso, come si può vedere da tutta la storia del Collegio. «Non cercherò di risolverla», dissi, «ma, secondo le mie idee, una nazione non dipende dai piccoli accidenti esterni rappresentati dalla sua moneta o dalla sua lingua». «Ma dalla bandiera che batte. Dopo tutto, un pezzo di tessuto da bandiera è facile». «Neanche dalla sua bandiera, Lord Marylebone, ma dai cuori della sua gente. Ci siamo separati dalla vecchia madre patria, senza litigi e cattiva volontà, ma con gli auspici amichevoli e reciproci di entrambi. Se vi è una traccia di sentimento di antagonismo nella parola ‘stranieri’ io non la userò; ma non siamo sudditi britannici e non lo saremo mai e non lo potremo mai più essere». Dissi ciò perché avvertivo, proprio come se fosse nell’atmosfera, la sensazione strisciante che si dovesse chiedere ancora all’Inghilterra di annetterci in modo da salvare i nostri vecchi dalla saggia decisione alla quale era giunta la nostra Assemblea. Oh, se ci fosse una legge assoluta per proteggere l’umanità dalla demenza, la debolezza, la scontentezza, la stravaganza della vecchiaia! Lord Marylebone, che era il più cortese dei gentiluomini, vide che ero onesto e cambiò argomento di conversazione. Avevo già notato che non parlava mai del «Termine fisso» in casa nostra, sebbene, per le circostanze nelle quali si trovava la comunità, doveva averne sentito parlare altrove. Era giunto il giorno della partita6. Il viso di Jack era guarito così bene che la signora Neverbend si era convinta a credere completamente nell’efficacia dell’allenamento violento per tagli e contusioni. La schiena di Grundle era ancora in cattive condizioni e il povero ragazzo con la gamba rotta poté solo essere portato in sedia a rotelle di fronte alla veranda, per guardare gli avvenimenti con uno di quei piccoli binocoli che permettono all’attento spettatore di vedere ogni movimento dei giocatori a mezzo miglio di distanza. Mi assicurò che la precisione con la quale Jack aveva predisposto il suo vapolanciatore era uguale a quella di uno di quei cacciatori Shoeburyness che riescono a colpire un passero tanto lontano quanto riescono a vedere, a patto che conoscano l’età precisa dell’uccello. Nella mia testa, davo grande credito a

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Un ringraziamento a Patrick Leech per la preziosa consulenza sulla terminologia tecnica relativa al cricket.

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Jack perché sentivo che al momento era molto giù di corda. Il giorno prima Sir Kennington aveva portato Eva in giro con il suo calesse e lui era ritornato a casa strappandosi i capelli. «Lo fanno apposta per metterlo fuori gioco», disse sua madre. Se era così, però, non conoscevano Jack. Né, fino a quel momento, lo avevo conosciuto io. Io stesso ero tenuto a vedere la partita, perché per il Presidente erano stati predisposti una tenda e un binocolo speciali. Crasweller entrò mentre prendevo il mio posto, ma scosse soltanto la testa tristemente e rimase in silenzio. Mancavano solo quattro mesi alla sua deposizione. Benché vi fosse un forte partito a suo favore, non sapevo se vi si immischiasse tanto. Avevo sentito da fonti diverse che continuava ad asserire che era più vecchio di me soltanto di nove anni, cosa con la quale intendeva guadagnare il favore di una proroga del suo termine di dodici miseri mesi; ma non credo che si sia mai venduto all’altro partito. Sotto i miei auspici aveva sempre votato per il «Termine fisso» e ora difficilmente poteva opporvisi, in teoria. Fecero il sorteggio per il primo turno di lancio e battuta che fu vinto dalla squadra inglese. Era l’Inghilterra intera contro Britannula! Si pensi alla popolazione dei due paesi. Tuttavia, ci era stato insegnato a credere che nessuna comunità aveva mai giocato a cricket come facevano i britannuli. Gli inglesi entrarono per primi con i due baronetti in battuta. Sembravano due prodi Minerve con enormi elmi di vimini. Conosco un dipinto della dea, tutta elmo, lancia e tunica, che porta la sua lancia sulla spalla mentre sorvola nell’aria le città della terra. Lord Kennington non volava, ma per altri versi assomigliava molto alla dea, così interamente avvolto nei suoi gambali di gomma e con il suo meraviglioso congegno sulla testa con il quale si proteggeva il cervello e i connotati. Grandi furono le acclamazioni quando entrò in campo. Il vapolanciatore fu poi portato in sede da un ingegnere attendente e Jack cominciò la sua opera. Riuscivo a vedergli il colorito andare e venire sul suo volto mentre posizionava attentamente la palla e sbirciava giù per valutarne la direzione. Mi sembrava che, con infinita attenzione, la puntasse direttamente alla testa di Sir Kennington. Mi dissero dopo che non aveva mai guardato Sir Kennington, ma che, calcolando la sua distanza con un mirino di mercurio, il suo obiettivo era stato di gettare la palla su un determinato punto di una zolla dal quale potesse rimbalzare nel wicket in modo tale da rendere molto difficile a Sir Kennington sapere cosa farne. Mi parve che ci volesse molto tempo, durante il quale i quattordici uomini intorno si guardavano come se ognuno intendesse balzare in qualche luogo diverso da quello in cui stava. Mi si dice che, di solito, c’erano solo undici di questi uomini, ma ora, in una partita di tale portata, i long-off e i long-on7 e il resto di loro erano stati tutti raddoppiati. Il doppio long-off era a una distanza tale che, trattandosi di un uomo

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Si tratta dei giocatori più lontani rispetto al battitore che sono schierati in difesa nei lanci ad effetto.

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piccolo, lo si riusciva a vedere soltanto con il binocolo che tenevo nella tasca del mio panciotto. Dopo averli guardati attentamente per quello che mi sembrò essere un quarto d’ora, dopo che gli uomini sembravano apparentemente stanchi del loro continuo saltellare e dopo che Jack si era chinato e inginocchiato e disteso con un occhio chiuso in tutti i modi possibili, all’improvviso ci fu uno schiocco netto, un po’ di fumo ed ecco... Sir Kennington Oval fu... eliminato! Non vi era dubbio su ciò. Io stesso vidi i due birillini volare via nello spazio infinito e immediatamente vi fu un risuonare di timpani, trombe, pifferi e clarinetti. Sembrava come se tutta la musica della banda della città risuonasse in quel momento con le sue note più acute. E una salva imponente venne sparata. ... che il tamburo conversi con la tromba, questa col cannoniere di fuori, i cannoni col cielo, il cielo con la terra. Ora il re brinda alla salute di Amleto8.

A questi grandi segnali di successo non potevo che immaginarmi come il padre di Amleto. Sir Kennington Oval era fuori, eliminato proprio alla prima palla. Non potevano esserci dubbi su questo e il trionfo di Jack era completo. Era triste vedere la Minerva inglese mettersi la lancia sulle spalle e ritornarsene indietro alla sua tenda. Nonostante il buon gioco di Jack e il successo dei miei connazionali, non potevo che dispiacermi al pensiero che il giovane baronetto era venuto dall’altra parte del mondo per essere eliminato alla prima palla. Vi era un che di crudele in questo, un’inospitalità che, a dispetto delle esigenze del gioco, era innaturale. Poi, quando le grida e le acclamazioni erano ancora in corso e si era ripreso il lancio mi ricordai che, dopo tutto, egli avrebbe trovato la sua consolazione in Eva e il povero Jack, una volta terminato il suo breve trionfo, avrebbe dovuto riflettere sul fatto che, sebbene fortunato nel cricket, era infelice nel suo amore. Mentre pensavo a ciò, guardai verso la casa e là, da una piccola vetrata alla fine della veranda, vidi sventolare il fazzoletto di una signora. Era forse Eva che lo sventolava così per confortare il suo innamorato inglese sconfitto? Nel frattempo Minerva ritornò alla sua tenda e si nascose fra amici comprensivi e mi dissero successivamente che il dottor MacNuffery gli aveva concesso mezza pinta di birra amara. Dopo venti minuti spesi in ciò che mi sembrava essere una vera ostentazione di successo, un altro uomo andò a battere. Si trattava di Stumps, uno dei professionisti, che non sembrava tanto una Minerva sebbene anch’egli fosse prodigiosamente bardato. Jack sistemò di nuovo la sua palla, la mac-

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Seconda citazione da Amleto (II, 267-270).

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china scattò e Stumps girò la sua mazza. Colpì la palla che volò via dietro al wicket. Cinque Minerve repubblicane le corsero dietro, veloci quanto potevano le loro gambe, e un gentiluomo che sedeva vicino a me a segnare i punti mi disse che erano stati fatti una dozzina di punti. Spese molto tempo a spiegarmi come ai vecchi tempi non se ne segnavano mai più di sei alla volta. Ora tutto era cambiato. Un colpo di striscio contava sempre di più di un buon colpo diretto perché la palla oltrepassava il wicket. Da tutte le parti del campo si alzarono numeri per mostrare che Stumps ne aveva segnati una dozzina e due clarinetti inglesi suonarono con gran vigore. Stumps era un uomo tarchiato, solido, dall’aria solenne, che i nostri avevano preso in giro per il fatto che era troppo vecchio per il gioco; egli, però, sembrava non tenere in nessun conto la macchina precisa di Jack. Continuò a colpire la palla, che andava sempre al di là, finché non fece un gran punteggio. Ci vollero due ore prima che Jack lo colpisse dolorosamente alla gamba e l’arbitro lo giudicasse legbefore-wicket9. E lo era veramente leg-before-wicket, proprio come il poveretto sentì quando lo riportarono alla sua tenda. Comunque, aveva segnato 150 punti. Anche, Sir Lord Longstop aveva ottenuto un buon punteggio prima di essere preso al volo dal middle long off 10 − una presa meravigliosa a detta di tutti − e le nostre trombe suonarono per ben cinque minuti. Ma il grande cannone sparava solamente quando una palla veniva catapultata dalla macchina direttamente sul wicket. Dopo tre giorni gli inglesi erano stati tutti eliminati e i punti venivano numerati a quattro cifre. Guardando la partita avevo dei dubbi sul fatto che rimanesse qualcuno di loro a portarla a termine. Mi informarono che avrei dovuto occupare la poltrona presidenziale ogni giorno, ma quando sentii che ci sarebbero stati due inning per ogni squadra rifiutai decisamente. Ma Crasweller prese il mio posto e mi dissero che un barlume di gioia gli attraversò il volto consunto e addolorato quando Sir Kennington cominciò il secondo inning con dieci punti. Poteva veramente sperare, nella sua condizione, di mandare sua figlia in Inghilterra semplicemente per farla diventare la moglie di un baronetto? Quando i britannuli entrarono per la seconda volta, dovevano fare 1500 punti per vincere e in seguito si disse che Grundle aveva scommesso quattro ad uno contro i suoi. Ciò venne considerato molto meschino da parte sua, anche se non vedo perché, se tale era la scommessa, dovesse perdere i suoi soldi scommettendo sui suoi amici. Jack mi disse all’orecchio che non ci avrebbe puntato su uno scellino. Non voleva né perdere i suoi soldi né scommettere contro se stesso, ma era notevolmente scoraggiato quando mi disse che

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Si tratta di un tipo di eliminazione che si ha quando un battitore utilizza una parte qualsiasi del suo corpo, tranne le mani, per proteggere il wicket da una palla che l’arbitro giudica sicuramente diretta sui bastoni (stumps) che compongono il wicket. 10 La posizione in campo del middle-long off è subito prima del long-off.

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non sarebbe entrato il primo giorno del loro secondo inning. Non aveva segnato molto quando i britannuli erano stati in campo prima; aveva fatto solo trenta o quaranta punti e, peggio ancora, Sir Kennington Oval ne aveva segnati più di 300. Mi dissero che il suo elmo da Pallade fu scosso da una tremenda energia come fece il suo inning. E ancora, quello Stumps era sembrato invincibile sebbene ancora zoppo ed era risultato sempre non eliminato con un punteggio altissimo. Si trascinò via senza nessun segno di trionfo, ma Jack disse che il professionista era l’uomo migliore che gli altri avevano. Il secondo giorno del secondo inning dei nostri, il penultimo giorno della partita, Jack andò a battere. Avevano fatto solamente 150 punti il giorno precedente e c’erano già tre eliminazioni. I nostri timpani avevano avuto poche opportunità di farsi sentire. Jack era molto demoralizzato e aveva avuto qualche dissapore con Eva. Le aveva chiesto se non stesse per andare in Inghilterra ed Eva aveva risposto che forse lo avrebbe fatto se qualche britannulo non avesse fatto il proprio dovere. Jack aveva preso questa affermazione come una genuina impertinenza che lo aveva molto addolorato. Era Stumps a lanciare dalla catapulta inglese e quasi mise fine ai giorni di Jack durante il primo over. Girava selvaggiamente e quattro palle lo oltrepassarono senza colpire il suo wicket. Poi venne di nuovo il suo turno ed egli colpì la prima palla con la mazza a molla Neverbend − che lui aveva inventato − con una tale forza che, come diceva lui stesso, nessuno è ancora riuscito a trovare la palla. La storia dice che è finita sulla veranda, che Eva l’ha raccolta e ne fa tesoro da allora. Comunque sia, durante tutto quel giorno e il successivo, nessuno riuscì ad eliminarlo. Ci fu un continuo battere di timpani che sembrò dargli una nuova carica. Ogni palla che gli arrivava veniva spedita nello spazio infinito. Tutti gli inglesi furono costretti a ritirarsi più lontano dal battitore e a stare vicino all’estremità del campo. La gestione delle catapulte fu invano affidata ad un uomo dopo l’altro. Poi ritirarono le catapulte e tentarono il lancio lento alla vecchia maniera. Per Jack era lo stesso. Non si faceva tentare fuori dalla base, ma restava lì ad aspettare la palla anche se arrivava lentissima. Durante il primo dei due giorni restò davanti al suo wicket colpendo a destra e a sinistra finché la speranza sembrò ritornare nel cuore dei britannuli. Io vedevo che gli inglesi si stavano innervosendo anche se le circostanze erano ancora fortemente in loro favore. Alla fine del primo giorno Jack aveva segnato più di 500 punti, ma c’erano undici eliminazioni e solamente tre dei giocatori più scarsi rimanevano con lui. Si fece la considerazione che Jack doveva ancora segnarne 500 prima di vincere la partita e ciò ne lasciava soltanto venti ciascuno agli altri tre giocatori. «Ma non riusciranno mai a farne venti ognuno», mi disse Eva quella sera. «E da quale parte state, Eva?», chiesi con un sorriso, poiché in verità in quel momento la credevo fidanzata con il baronetto. «Come osate chiederlo, signor Neverbend?», rispose indignata. «Non so-

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no una britannula come voi?», e mentre se ne andava potei scorgere una lacrima nei suoi occhi. L’ultimo giorno l’emozione toccò un apice che era più appropriato all’ultima battaglia di una grande guerra, una Waterloo di altri tempi, piuttosto che al termine di una prolungata partita di cricket. Gli uomini guardavano, si muovevano e parlavano come se fossero tutti in pericolo. Non posso dire che gli inglesi ci odiassero o che noi odiassimo loro, ma di certo la faccenda era troppo seria per ammettere parole scherzose fra le parti. E quegli sfortunati che dovevano battere con Jack erano così spaventati da sembrare giovani oratori in procinto di fare il loro primo discorso. Jack era silenzioso, determinato eppure intimamente orgoglioso di se stesso; sentiva che l’intero successo futuro della repubblica era sulle sue spalle. Si impose di svegliarsi ad una certa ora e i domestici della nostra casa ascoltarono le sue parole come se sentissero che tutto dipendeva dalla loro obbedienza. Non sarebbe andato fuori in bicicletta, temendo di avere un incidente. «Eppure, non dovrei augurarmi di cadere morto?» disse, «così tutto il mondo saprebbe che sarei stato battuto dalla mano di Dio e non dal nostro errore». Mi stupì scoprire che il ragazzo fosse tanto ansioso per il suo cricket quanto lo ero io per il mio «Termine fisso». Alle undici sedevo nella mia poltrona e guardandomi intorno vidi che tutta la gente di rango e alla moda di Britannula si trovava al campo, anche se vi ci si sarebbero trovati per nulla a meno che non fossero venuti armati di binocolo. Lo spazio necessario ai giocatori era talmente vasto che, diversamente, non avrebbero potuto vedere nulla del gioco. Sotto al mio baldacchino vi era posto per cinque e si supponeva che io occupassi le poltrone di mezzo. Nelle altre due sedevano i segnapunti ufficiali del gioco. Una poltrona era stata riservata per la signora Neverbend. «Assisterò al suo destino, che sia la sua gloria o la sua caduta», disse la madre con vero spirito romano. L’altra l’aveva richiesta Eva e naturalmente le era stata concessa. Quando il gioco cominciò, Sir Kennington era alla catapulta e Jack dalla parte opposta a battere e a stento riuscivo a dire per chi ella sentisse l’estremo interesse che chiaramente esibiva. Io, dal canto mio, con il progredire del giorno, mi scoprii talmente eccitato che a stento riuscivo a tenere il cappello in testa e a comportarmi con dignità presidenziale. Ad un dato momento, devo confessare, ho del tutto disonorato me stesso. Sembrava circolasse l’opinione che Jack o si sarebbe subito dimostrato non all’altezza dell’occasione e quindi immediatamente eliminato, opinione che ritengo tutta Gladstonopoli fosse incline ad avere, o che altrimenti sarebbe «entrato in partita», come si suol dire, finché gli altri tre fossero stati in grado di difendere. So che egli condivideva l’opinione diffusa in città e temevo che la sua cautela all’inizio potesse essergli dannosa. Il nostro grande obiettivo era che Jack avesse sempre lo strike, per quanto possibile. Doveva ricevere le prime quattro palle facendo solo un punto dall’ultima palla, iniziando così un altro over all’estremità opposta e fare di nuovo la stessa cosa.

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Era impossibile gestire questa azione in modo preciso, ma si poteva fare qualcosa per renderla possibile. C’erano i tre uomini con i quali lavorare durante il giorno. Sfortunatamente, il primo venne costretto a ritirarsi molto presto, ma Jack che era salito da me durante il tempo concesso per far arrivare in campo il battitore successivo, mi disse che «era entrato in partita» e io vidi uno sguardo fermo di determinazione sul suo viso. Fece un grazioso inchino ad Eva, la quale era così emozionata da non concedersi neppure una parola. «Oh Jack, prego per te; io prego per te», disse sua madre. Jack, immagino, pensava più al silenzio di Eva che alla preghiera di sua madre. Jack tornò al suo posto e colpì la prima palla con tale energia da spedirla contro l’altro ticket e mandarlo in pezzi. Tutti dissero che niente di simile si era visto nel cricket: la palla rimbalzò e vennero segnati otto o dieci punti, dopo di che Jack sembrò come invasato di energia crickettistica. Si tolse i gambali, dicendo che gli impedivano di correre, e gettò via il suo elmo. «Oh, Eva, non è bello?», disse sua madre in estasi sporgendosi dalla mia poltrona. Eva sedeva quieta senza un cenno. Non mi venne di dire neanche una parola, ma pensai che era molto bello; pensai anche quanto sarebbe stato difficile trattenerlo se gli fosse riuscito di vincere la partita. Qualunque orazione avesse fatto contro il «Termine fisso», tutta Gladstonopoli l’avrebbe seguito se avesse vinto questa partita di cricket per essa. Non posso descrivere tutte le scene di quel giorno, né l’ansia crescente degli inglesi mentre Jack continuava a segnare un cento dopo un altro. Aveva già segnato quasi 1000 punti quando il giovane Grabbe fu preso al volo. Il giovane Grabbe era molto popolare, perché era così diverso dal suo socio Grundle. Era un giovane franco e fine ed era il grande amico di Jack. «Non voglio dire che sappia davvero giocare a cricket», aveva detto Jack quella mattina parlando con grande autorità, «ma è il miglior ragazzo al mondo e farà esattamente quello che gli si chiede». Ora, però, era fuori e Jack, con ancora 200 punti da segnare, dichiarò la partita quasi persa. «Non dite così, signor Neverbend», aveva bisbigliato Eva. «Ah sì, siamo spacciati. Neppure la vostra partecipazione può rimetterci in gioco. Magari qualcosa potesse!» «Secondo me», aveva continuato Eva, «Britannula non sarà mai battuta finché il signor Neverbend sarà in battuta». «Sir Kennington è stato troppo per noi, temo», disse Jack con un sorriso forzato mentre si ritirava. Era rimasta solo una speranza. Restava il signor Brittlereed, ma era tutto. Il signor Brittlereed era un gentiluomo vicino al suo «Termine fisso» più di ogni altro giocatore di cricket. Aveva quasi trentacinque anni ed era considerato da tutti loro come un vecchio. Si supponeva conoscesse tutte le regole del gioco e che fosse abbastanza veloce al turno di battuta. Ma Jack aveva dichiarato quella mattina che non riusciva a colpire una palla da un’eternità. «Non dovrebbe essere qui», aveva sussurrato Jack; «ma sapete come vanno queste cose». Io non sapevo come andavano quelle cose, ma mi dispiaceva

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che si trovasse là perché Jack non sembrava volerlo. Il signor Brittlereed andò a battere e fu costretto a ricevere la prima palla, cosa che fece. Segnò un punto quando avrebbe potuto segnarne due e quindi dovette ricominciare la guerra. Sembrava quasi che l’avesse fatto apposta. Dalla rabbia Jack spezzò il manico della sua mazza a molla, al che gliene vennero portate una mezza dozzina affinché ne scegliesse un’altra. «Era la sua preferita», disse sua madre, seppellendo il viso nel fazzoletto. Non ho mai capito come fu che il signor Brittlereed sopravvisse a quell’over, ma sopravvisse, anche se senza toccare mai la palla. Poi venne il turno di Jack che subito segnò trentanove durante l’over e prese lo strike per ricominciare l’operazione. Penso che questo gli diede nuova vita. In ogni caso, diede nuovo fuoco ad ogni britannulo in campo e devo dire che in seguito il signor Brittlereed gestì la faccenda con piena soddisfazione di Jack. Over dopo over Jack andò avanti e ricevette ogni palla lanciata. Provarono la loro catapulta con azione singola, doppia e persino tripla. Sir Kennington fece del suo meglio, lanciando la palla con tremendo impeto e rollandola poi in alto con quello che a me pareva il più provocante languore. Per Jack era lo stesso. Era davvero «entrato in partita» e, come arrivava la palla, la rispediva di sicuro in qualche punto distante del campo. Gli inglesi erano impazziti dallo sgomento mentre Jack si faceva strada verso gli ultimi cento punti. Era penoso vedere gli sforzi che il povero signor Brittlereed faceva correndo avanti e indietro attraverso il campo. Penso cercassero di affannarlo con la rapida successione dei loro lanci. Ma l’unico risultato era che la palla veniva mandata sempre più lontano quando arrivava al wicket di Jack. Alla fine, proprio quando ogni orologio sul campo batteva le sei con quella meravigliosa unanimità che i nostri orologi avevano raggiunto da quando erano stati regolati con Greenwich, Jack spedì una palla in aria perfettamente noncurante se venisse presa o meno, sapendo bene che il punto che ora era necessario sarebbe stato segnato prima che essa ricadesse dal cielo nelle mani di un qualsiasi inglese. Venne giù e fu presa da Stumps, ma a quel punto Britannula aveva vinto la sua vittoria. Il punteggio totale di Jack in quell’inning fu di 1275 punti. Dubito che negli annali del cricket sia registrato un inning migliore di quello che aveva fatto. E fu allora che, nell’assenza di quella prontezza di spirito che il Presidente di una repubblica dovrebbe sempre avere, mi tolsi il cappello e lo lanciai in aria. Il trionfo di Jack sarebbe stato completo, se non fosse stato ridicolo per coloro che non potevano fare a meno di pensare da quale piccola questione la contesa si fosse sollevata; solo una partita di cricket che due gruppi di ragazzi avevano giocato e che avrebbe dovuto essere considerata non più di un passatempo con il quale rilassarsi dal lavoro. Ma loro lo consideravano come un grande combattimento nazionale e i britannuli guardavano a loro stessi come vittoriosi contro l’Inghilterra. Era assurdo vedere Jack portato a Gladstonopoli come l’eroe del momento e sentirlo fare i suoi discorsi alla cena che vi sarebbe stata quel giorno e alla quale gli era stato chiesto di prendere par-

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te. Ero contento di vedere, comunque, che non aveva la stessa parlantina che aveva dimostrato rivolgendosi alla gente. Esitò parecchio, quasi crollò quando brindò alla salute di Sir Kennington Oval e dei sedici inglesi; fui compiaciuto di sentire Lord Marylebone dichiarare a sua madre che lui era un «ragazzo meraviglioso». Penso che gli inglesi tentassero di smorzare un po’ i toni, come se fossero venuti quaggiù soltanto per il divertimento del viaggio, ma Grundle, che era nel frattempo diventato orgoglioso del suo paese e che si lamentò a gran voce per aver ricevuto una ferita così grave durante la preparazione del gioco, non gliela fece passare. «Mio signore», disse, «a quanto ammonta la vostra popolazione?». Lord Marylebone accennò a sessanta milioni. «Noi non siamo che duecentocinquantamila», disse Grundle, «e guardate cosa abbiamo fatto». «Ma noi abbiamo combattuto in casa», disse Jack, «e questo fa una bella differenza». Mi venne riferito che, tuttavia, Jack aveva parlato con Eva con uno spirito diverso prima di lasciare Little Christchurch. «Dopo tutto, Eva, Sir Kennington non ci ha schiacciati sotto i suoi piedi», disse. «Chi ha mai pensato che lo facesse?», aveva detto Eva. «Il mio cuore non ha mai titubato, qualunque cosa altri possano aver fatto».

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Fui sorpreso di vedere che Jack, che era stato così audace a giocare la sua partita e tanto bravo a vincerla contro gli inglesi, che era diventato un eroe e se l’era cavata così bene con il suo eroismo, fosse tanto vergognoso e timido nei confronti di Eva. Sembrava uno sciocco che quasi non osava guardarla in viso, invece del valoroso capitano della squadra che aveva trionfato su tutti gli ostacoli. Ma io avvertivo, sebbene lui non sembrasse percepirlo, che Eva era pronta a darsi a lui e che non vi era un ostacolo reale fra lui e tutte le greggi e le mandrie di Little Christchurch. Grundle non si era sentito né visto molto durante la partita e, per quanto riguardava Eva, egli aveva ceduto il passo non appena era comparso sulla scena Sir Kennington Oval. Teneva in tale considerazione il baronetto inglese, da farsi intimidire e spegnere dal suo splendore. E Sir Kennington stesso era stato, credo, onesto nei giorni precedenti la partita di cricket, ma ora vedevo che Eva l’aveva messo contro Jack soltanto per indurre il corteggiatore più giovane a dichiararsi. Ciò aveva reso Jack impegnato più che mai a battere Sir Kennington, ma non aveva ancora avuto l’effetto che Eva intendeva. «Andrà tutto bene», dicevo a me stesso, «non appena questi inglesi avranno lasciato l’isola». Ma poi la mente ritornava al «Termine fisso» e al veloce approssimarsi del tempo della deposizione di Crasweller. Eravamo quasi alla fine di marzo e il tredici di giugno era il giorno in cui doveva essere condotto al Collegio. La mia prima preoccupazione era di sbarazzarmi di questi inglesi prima che si ventilasse di nuovo l’argomento. Ammetto che desideravo che essi non tornassero nel loro paese con i loro pregiudizi rafforzati da quanto avrebbero potuto sentire a Gladstonopoli. Se solo avessi potuto farli partire prima che la questione venisse nuovamente dibattuta sarebbe stato possibile che in Inghilterra non si producesse un effetto pubblico forte fino a che non fosse stato troppo tardi. Quello era il mio primo desiderio, ma ero poi anche ansioso di sbarazzarmi di Jack per un po’. Più pensavo a Eva e alle greggi, più ero determinato a non permettere agli affari personali del mio ragazzo, e quindi ai miei, di scontrarsi in qual-

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siasi modo con l’esecuzione dei miei doveri pubblici. Sentii che gli inglesi non se ne sarebbero andati se non dopo un’altra settimana, necessaria per riprendere le forze e impacchettare mazze e biciclette. Né le une né le altre vennero però impacchettate fino al giorno prima della loro partenza, perché la pista giù a Little Christchurch era ancora affollata da loro, che si stavano allenando come se si dovesse giocare un’altra partita. Fui molto contento di ospitare Lord Marylebone nella nostra casa, ma riconosco che ero ansioso che facesse qualche accenno alla loro partenza. «Siamo stati molto orgogliosi di avervi qui, mio signore», dissi. «Non posso dire altrettanto di noi», rispose, «perché ci hanno stracciato terribilmente. A parte ciò non ho mai trascorso due mesi più piacevoli in vita mia e non mi dispiacerebbe passarvene un altro. Il vostro stile di vita qui mi sembra delizioso e abbiamo tanto pensato al cricket che fino ad ora non ho avuto un attimo per conoscere le vostre istituzioni. Cos’è tutta questa storia del «Termine fisso?» Jack, che era presente, si fece serio in volto e assunse quell’aria di determinazione che cominciavo a temere, la signora Neverbend si sigillò le labbra e non disse nulla, ma sapevo cosa le passava per la testa. Riuscii a cambiare argomento di conversazione ma ero consapevole di averlo fatto in modo poco convincente. «Jack», dissi a mio figlio, «ieri ho ricevuto una cartolina dalla Nuova Zelanda». Le navi avevano appena ripreso a navigare fra le due isole per sei giorni alla settimana e, dato che il loro ritmo regolare era di venticinque miglia all’ora, si trattava soltanto di un viaggio di un giorno. «Cosa diceva la cartolina?» «C’è ancora tutto il tempo per Mount Earnslaw. Dicono tutti che l’autunno è la stagione migliore, la neve adesso sta scomparendo rapidamente». Un vecchio uccello, tuttavia, non si prende con la paglia e Jack, come scoprii, era determinato a non andare nelle Alpi orientali quest’anno, non finché la questione del «Termine fisso» non fosse sistemata. Gli dissi che era un pazzo. Anche se sarebbe stato in torto a spingere per la deposizione di suo suocero al fine di ottenere mandrie e greggi, come avrebbe fatto Grundle, ciononostante non era obbligato da nessun senso dell’onore o dalla coscienza a trattenere il vecchio Crasweller a Little Christchurch in opposizione diretta alle leggi dello Stato. Ma questo non riuscii a spiegarglielo e fui costretto a prendere come un dato di fatto che non si sarebbe unito alla squadra alpina per andare a Monte Earnslaw quest’anno. Nel pensare a tutto ciò, temetti quasi di più la presenza di Jack a Gladstonopoli che quella dei giovani inglesi. Era chiaro, tuttavia, che nulla poteva essere fatto finché gli inglesi non se ne fossero andati, e dato che avevo un giorno a mia disposizione, risolsi di salire fino al Collegio a meditare sulla condotta che sarebbe stato mio dovere seguire nei due mesi successivi. Il Collegio era a circa cinque miglia dall’abitato, al lato opposto dell’entrata della città da Little Christchurch, e un po’ di tempo prima mi ero immaginato che nei giorni luminosi del nostro inverno

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avrei io stesso accompagnato il signor Crasweller attraverso la città in una carrozza aperta per condurlo, fra folle dei suoi concittadini in ammirazione, al luogo della sua deposizione. Non pensavo allora che si sarebbe ricreduto o che il timore della dipartita lo avrebbe distolto dal godere degli onori che gli sarebbero stati tributati. Ma come era diversa ora la sua posizione da quella condizione gloriosa alla quale avevo tanto aspirato nelle mie ottimistiche speranze! Se si fosse trattato di me, quanto sarei stato orgoglioso del mio paese e della sua saggezza se fossi stato condotto, quale primo eroe, all’eutanasia per me predisposta. Affittai, così, una carrozza coperta e, nascondendomi nell’angolo, fui portato al Collegio senza che nessuno mi vedesse. Il luogo veniva chiamato Necropoli. Il nome non mi era mai piaciuto perché non avevo mai voluto associarlo con il sentimento della morte. Erano stati proposti vari nomi. Il giovane Grundle aveva suggerito Sala della Cremazione perché tale era la fine ultima alla quale i gusci dei cittadini erano destinati. Ma vi era qualcosa di non dignitoso nel suono, come se parlassimo di una sala da ballo o da musica, ed io non ne avevo voluto sapere. La mia idea era di dare il senso dell’approssimarsi a cose buone e avevo proposto di chiamare il luogo «Adito», ma gli uomini dissero che non significava nulla e dichiararono che i britannuli non si sarebbero mai vergognati della verità. Necropoli suonava meglio, dissero, e sostennero che sebbene lì non vi sarebbero state le spoglie effettive, sarebbero rimaste le lapidi. Così lo si chiamò Necropoli. Avevo sperato che alle sue porte si sviluppasse un paesino abitato da coloro che avrebbero fatto fronte alle necessità dei depositati, ma avevo dimenticato che questi avrebbero prima dovuto arrivare. Il villaggio non era ancora sorto e intorno ai bei cancelli non vi era nulla al momento se non il deserto. Anche se a Britannula c’era terra in abbondanza, nessuno si era preoccupato di scegliere un terreno vicino a quei forni spaventosi nei quali l’argilla mortale sarebbe stata trasportata in aria. Dai cancelli fino al tempio che stava in mezzo ai campi, quel tempio in cui si sarebbe svolta l’ultima scena della vita, correva un ampio sentiero di ghiaia che sarebbe dovuto diventare un bel viale. Al momento vi erano stati piantati eucalipti e lecci in alternanza, gli alberi della gomma per la generazione attuale e le quercie verdi per quelle a venire. Ma persino gli alberi della gomma non avevano fatto ancora gran ché per dare un’apparenza ornata al luogo. Alcuni avevano chiesto che venissero piantati dei cedri e dei tassi e mi ero dato un gran da fare a spiegare loro che il nostro obiettivo doveva essere rendere il luogo gioioso piuttosto che triste. Dietro al tempio, vi erano i gruppi di stanze in cui dovevano vivere i depositati durante il loro anno di prova. Alcune di queste erano molto belle e, senza dubbio, erano state fatte così per allettare i primi venuti. Per educare i bambini alla saggezza è necessario avvolgere i precetti in dolci canditi. Ma, per quanto belle, al momento non erano altro che dimore piacevoli. Non una di esse era stata ancora abitata. Nel guardarle, e conoscendo Crasweller come lo conoscevo, smisi quasi di meravigliarmi della sua ritrosia. Ci sarebbe voluto un eroe, ma Crasweller non lo era. Poi, ancora più in

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là ma sempre all’interno del cerchio intorno al tempio, vi erano delle case più piccole, meno lussuose ma sempre confortevoli, che nel giro di pochi anni sarebbero state abitate anch’esse se il «Termine fisso» fosse stato portato avanti secondo il mio progetto. Erano state messe le fondamenta per altre più piccole ancora, perché un’intera città di vecchi e vecchie sarebbe accorsa a cercare l’ultima dimora nel Collegio nel corso dei prossimi trent’anni. Ne avevo già scelta una per me e mia moglie, non certo la più bella e la piu grande, in cui avremmo potuto prepararci alla grande dipartita. Ma per quanto riguardava la signora Neverbend nulla l’avrebbe indotta a mettere piede nel Collegio. «Prima che passino i prossimi dieci anni», diceva, «il buon senso avrà interferito per permettere alla gente di vivere la propria vita come si deve». Era stato inutile per me cercare di farle capire quanto fosse fuori luogo parlare così per la moglie del Presidente della Repubblica. L’opposizione di mia moglie era stato un fastidio per me sin dal principio ma mi ero consolato pensando che era sempre impossibile far entrare nella testa di una donna un’idea logica e, benché in tutti gli aspetti della vita domestica la signora Neverbend fosse la migliore delle donne, era la più illogica persino fra di esse. Ispezionai gli edifici in uno stato di tristezza, chiedendomi se sarebbero mai stati abitati per il loro scopo. Quando l’Assemblea, in accordo con il mio consiglio, rese effettiva la legge del «Termine fisso», era stata destinata una grande somma per erigere questi edifici. Una volta scemato l’entusiasmo, gli uomini si chiesero se non si fosse sprecato denaro e dichiararono che, per una comunità così piccola, il Collegio era stato progettato su scala assolutamente eccessiva. Eppure ero andato avanti e li avevo guardati crescere di giorno in giorno, non permettendo che si risparmiasse uno scellino per perfezionarli. Nei miei primi anni avevo avuto un grande successo nel commercio della lana e avevo accumulato quella che si suole chiamare una grande fortuna. Durante gli ultimi due o tre anni ne avevo dedicata gran parte all’ornamento esteriore del collegio non senza che la signora Neverbend spendesse parecchie parole sulla questione. «Jack sarà rovinato», aveva detto, «affinché vecchi e vecchie vengano uccise in modo artistico». Fui costretto a sopportare altri commenti del genere; erano parte delle difficoltà che un grande riformatore doveva sopportare. Ma ora, mentre camminavo dolente fra gli edifici deserti e lasciati a metà, non potevo che chiedermi a quale scopo fosse stato speso il mio denaro. E non potevo che dire a me stesso che, se negli anni a venire, questi edifici fossero rimasti disabitati, il mio paese mi avrebbe considerato come uno che aveva sprecato il frutto delle proprie giovani energie. Ma, di nuovo, mi sovvenne di Colombo e Galileo e giurai che sarei andato avanti o sarei perito nel tentativo. E mentre questi dolorosi pensieri agitavano la mia mente, mi venne incontro un vecchio gentiluomo decrepito e lento che mi salutò come signor Presidente. Mi diede il braccio in modo familiare e disse che sembrava che il Collegio non avrebbe ricevuto abitanti ancora per molto tempo. Si trattava del signor Graybody, il curatore, che era stato appo-

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sitamente nominato per occupare una certa residenza, badare ai campi e tenere i registri dell’edificio. Graybody ed io eravamo venuti insieme a Britannula da giovani ma mentre io avevo avuto successo in tutte le mie iniziative personali, lui aveva avuto sfortuna. Aveva la mia stessa età, come del resto sua moglie, ma sotto i colpi della sfortuna erano invecchiati in modo innaturale ed erano finiti rovinati e senza speranza, senza uno scellino su cui contare. Ero sempre stato sinceramente amico di Graybody, benché fosse un uomo con cui era molto difficile essere amici. Sulla maggior parte degli argomenti la pensava come me, se si poteva dire che avesse qualche opinione. Ad ogni modo, era stato d’accordo riguardo al «Termine fisso», affermando che sarebbe stato un bene se egli avesse potuto essere depositato all’età di cinquantotto anni, e aveva sempre dichiarato che doveva essere benedetto quel tempo quando fosse giunto per lui e la sua vecchia. Non penso che gli importasse molto del principio che avevo in mente; non aveva grandi idee riguardo all’imbecillità e la debolezza della vita umana quando veniva protratta oltre i suoi giusti limiti. Sentiva soltanto che sarebbe stato un bene abbandonarla e che se egli l’avesse fatto altri potevano essere indotti a fare altrettanto. Non appena fu pronta una residenza nel Collegio, gli offrii di occuparla e ora ci viveva insieme a sua moglie, con un’aiutante, percependo un salario come curatore da tre anni. Pensavo che sarebbe stato il posto giusto per lui. Di solito era malinconico, scoraggiato e immiserito, ma era sempre felice di vedermi ed andavo di frequente al Collegio per trovare un anima comprensiva con cui conversare sul futuro dell’impianto. «Bene, Graybody», dissi, «penso che siamo quasi pronti per il primo inquilino». «Oh, sì. Noi siamo sempre pronti, ma non lo sarà il primo che arriverà». Non gli avevo detto molto negli ultimi mesi riguardo a Crasweller, il cui nome ricorreva prima in tutte le mie conversazioni con Graybody, ma di recente gli avevo parlato in toni più generici. «Non sapete quando sarà, signor Presidente? Troviamo il luogo un po’ noioso». Ora, lui conosceva tanto quanto me il giorno e l’anno di nascita di Crasweller. Intedevo parlargli di lui ma avevo sperato che fosse lui a fare per primo il nome del nostro amico. «Suppongo sarà a metà inverno», dissi. «Oh, non sapevo se il termine sarebbe stato posposto». «Come avrebbe potuto accadere? Non si può posporre il trascorrere degli anni. Se vi fosse una dilazione come questa dubito che si possa trovare il tempo perché i nostri cittadini vengano al collegio. No, Graybody, non può esservi dilazione per il Termine fisso». «Avrebbe potuto essere sessantanove o settanta», disse. «In origine, certo. Ma la saggezza dell’Assemblea ha preso una decisione in proposito. L’Assemblea ha dichiarato che a Britannula coloro che fossero stati vivi a sessantasette anni avrebbero dovuto essere portati al Collegio. Voi stesso avete ancora dieci anni, penso, e non sarete lasciato a trascorrerli in solitudine». «Devo confessare che è noioso stare qui tutti soli. La signora Graybody

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dice che non potrebbe sopportarlo per altri dodici mesi. La ragazza che abbiamo ci ha dato il preavviso ed è la nona in un anno. Nessuno prenderà il suo posto perché dicono che sentono l’odore dei cadaveri». «Sciocchezze!», esclamai arrabbiato; «solenni schiocchezze! L’argilla evaporerà nell’aria senza lasciare traccia per l’occhio o il naso». «Tutti dicono che quando avete testato i forni c’era un odore di maiale bruciato»1. Si dà il caso che ci si era dati un gran da fare sulla questione della cremazione e avendo ottenuto dall’Europa e dagli Stati Uniti tutta la migliore attrezzatura allo scopo, avevo destinato quattro enormi suini per testare il sistema e li avevo fatti ingrassare a tale scopo − i vecchi non sono di solito molto corpulenti. Questi furono bruciati nei forni tutti contemporaneamente e i quattro corpi si dissolsero nei loro atomi originari senza lasciare traccia dietro di essi che permettesse di riconoscere la loro precedente condizione di vita. Ma una botola in uno dei camini era stata lasciata aperta per caso, oppure apposta da un nemico, ed era indubbiamente fuoriuscito un leggero odore di maiale. Ero stato lì sul posto sapendo che potevo fidarmi solo dei miei sensi e potei dichiarare che la fragranza che si era sprigionata era leggerissima e per nulla sgradevole. Fui in grado di mostrare che la botola era stata lasciata aperta, o per caso o apposta, proprio quella botola che doveva prevenire fughe del genere durante i momenti di piena cremazione, cosicché non si doveva temere il ripetersi dell’incidente. Avrei davvero dovuto provare con altri quattro suini e ritentare l’esperimento, ma la questione era sgradevole ed io pensai che il test aveva avuto successo tanto da rendere non necessario sostenere di nuovo quella spesa. «Dicono che uomini e donne non abbiano lo stesso odore», disse. «Come fanno a saperlo?», esclamai con rabbia. «Come fanno a sapere che odore fanno gli uomini e le donne. Non hanno mai fatto una prova. Non ci sarà alcun odore. Neanche un po’, e il fumo si consumerà tutto tanto che persino voi che vivete qui non vi accorgerete di quando avrà luogo una cremazione. Possiamo consumare tutta Gladstonopoli, come spero sarà un giorno, senza che anima viva lo sappia. Ma i pregiudizi dei cittadini costituiscono sempre intoppi alla civilizzazione». «Ad ogni modo, la signora G. mi dice che Jemima se ne va perché nessun giovane viene fin qui per incontrarla». Questa era un’altra difficoltà, seppure piccola, e decisi che sarebbe stata risolta. «I cespugli sembrano crescere molto bene», dissi, determinato ad apparire più gioioso possibile. 1 Trollope fa riferimento ai primi esperimenti di cremazione in Inghilterra in cui vennero usati dei maiali per testare i forni e i cui risultati non furono dissimili da quelli cui deve far fronte Neverbend. Favorevole alla cremazione, Trollope fu uno dei firmatari del documento che condusse all’istituzione della Cremation Society of England nel 1874. È tuttavia difficile per i lettori di oggi non associare a questa immagine l’eco sinistra e terribile dell’utilizzo che è stato fatto dei forni crematori durante il nazismo.

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«Sono quasi tutti vivi», disse Graybody, «e danno al luogo un aspetto simile a quello del cimitero di Little Christchurch». Intendeva la capitale nella provincia di Canterbury. «Nel corso di pochi anni starete proprio bene qui». «Non so, non so, signor Presidente. Non sono sicuro di voler essere felice da nessuna parte. Se solo avessi qualcuno con cui parlare qualche volta, basterebbe. Credo che il vecchio Crasweller sarà il primo». «Suppongo di sì». «Sarà un momento macabro quando dovrò andare a letto presto per non vedere il fumo venire fuori dal suo camino». «Vi dico che non accadrà nulla del genere. Penso che non saprete neppure che lo stanno cremando». «Sarà il primo, signor Presidente, e senza dubbio sarà guardato a vista. Il vecchio Barnes sarà qui per quel tempo, non è vero, signore?» «Barnes è il secondo e arriverà solo tre mesi prima della dipartita di Crasweller. Ma Tallowax, il droghiere in High Street, sarà qui per quel tempo e poi arriveranno tanto velocemente che dovremo ultimare presto gli altri edifici. Exors, l’avvocato, sarà il quarto ma non arriverà se non un giorno o due dopo la dipartita di Crasweller. Arriveranno, arriveranno tutti, non è vero, signore?», chiese Graybody. «Arriveranno? Devono farlo. È la legge». «Tallowax giura che si farà legare al tavolo di cucina e che si difenderà fino all’ultimo respiro con un coltello da macellaio. Exors dice che la legge non è valida e che non potete toccarlo. Quanto a Barnes, per la paura ha perso quel po’ di senno che aveva mai avuto e la gente sembra pensare che non potete toccare un pazzo». «Barnes non è più pazzo di me». «Vi dico soltanto cosa mi dice la gente. Suppongo che l’applicherete con la forza, se necessario. Non vi siete mai aspettato che la gente arrivasse e si depositasse spontaneamente». «L’Assemblea nazionale si aspetta che i cittadini di Britannula obbediscano alla legge». «C’è un domanda che volevo farvi, signor Presidente. Naturalmente sono completamente dalla vostra parte e non desidero sollevare difficoltà, ma cosa farò se prendono a scappare via dopo che sono stati depositati, se il vecchio Crasweller scappa nella sua vapocarrozza2, come farò a inseguirlo e a chi chiederò di aiutarmi a riportarlo indietro?» Ero stupito, ma non intendevo mostrarlo. Senza dubbio sarebbero stati necessari un centinaio di piccoli arrangiamenti prima che le faccende dell’istituzione prendessero una piega tale da svolgersi regolarmente. Ma il nostro primo obiettivo era depositare Crasweller, Barnes e Tallowax in modo che i 2

Altra invenzione del futuro di Britannula.

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cittadini si abituassero al costume di depositare i vecchi. Vi erano, a quel che sapevo, due o tre vecchie che vivevano in varie parti dell’isola e che al momento opportuno sarebbero entrate verso la fine dell’anno di Crasweller. Ma si rumoreggiava che avevano già incominciato a inventare falsità rispetto alla loro età ed ero consapevole che ci potevano ostacolare. Ero preparato ad accettare questo fatto come inevitabile, ma ora con l’avvicinarsi del tempo non potevo che vedere quanto fosse difficile applicare con la forza la legge contro uomini noti e quanto era facile permettere alle donne di sfuggirvi con l’aiuto della falsità. Exors, l’avvocato, avrebbe sostenuto che non abbiamo neppure cercato di applicare la legge e Barnes, pazzo come fingeva di essere, sarebbe stato molto difficile da gestire. La mente mi si riempì di brutti presentimenti al pensiero di tutti questi ostacoli e sentivo che mi sarei volentieri depositato subito e persino dipartito senza aspettare il mio anno di prova. Ma era necessario che mostrassi una fronte risoluta al vecchio Graybody e gli facessi percepire che, in ogni caso, ero determinato a rimanere fermo nel mio proposito. «Il signor Crasweller non vi darà i problemi che suggerite», dissi. «Forse se n’è fatto una ragione». «È un gentiluomo che entrambi conosciamo intimamente da molti anni, è sempre stato un sostenitore del Termine fisso e penso che lo sia ancora anche se vi è qualche disputa relativa al tempo esatto in cui dovrà essere depositato». «Solo dodici mesi, dice». «Naturalmente», replicai, «è certo che la differenza sia un anno. Egli sembra pensare che vi siano soltanto nove anni fra lui e me». «Dieci, signor Presidente, dieci. Conosco bene il tempo». «Ho sempre pensato così, ma darei via volentieri un anno se in questo modo potessi far andare lisce le cose. Ma questo è un dettaglio di cui non dobbiamo preoccuparci qui». «Solo che il tempo si sta accorciando e la mia vecchia crollerà se le dico che deve vivere qui un altro anno da sola. Crasweller non sarà affatto più pronto il prossimo anno di quanto non lo sia adesso e naturalmente se egli viene graziato lo dovranno essere anche Barnes e Tallowax e vi sono tante vecchie intorno che stanno cominciando a dire menzogne terribili sulla loro età. Pensate a tutto ciò, signor Presidente». Non avevo mai pensato ad altro, tanto la mia testa era piena di questo argomento. Quando mi svegliavo la mattina, prima di poter affrontare la luce del giorno, dovevo fortificarmi con Colombo e Galileo. Cominciavo ad immaginare, mentre il pericolo si avvicinava sempre di più, che nessuno di quei grandi uomini era stato circondato dagli ostacoli che circondavano me. O solcare le onde e annegare o avere successo! Dire una nuova verità sui cieli e perire o diventare grandi per sempre! Entrambe erano alla portata di un uomo che aveva solo la propria vita da rischiare. La mia vita: come correrei volentieri il rischio se soltanto la questione fosse rischiare. Quanto spesso in quei giorni sentivo che era necessaria una forza d’animo molto più grande di quel-

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la richiesta per mettere a repentaglio la propria vita. La vita, cos’è? Ecco là il povero Crasweller che metteva a repentaglio se stesso e tutte le sue convinzioni solo per guadagnare un anno di vita in più, per poi, trascorso l’anno, ritrovarsi ancora davanti alla propria deposizione! Non è forse così per noi tutti? Per quanto mi riguarda, ho sentito per anni la tentazione di affrettarmi a passare per i cancelli della morte. Che l’uomo rabbrividisca al suo pensiero non mi sembra sbagliato. L’ignoto futuro è sempre spaventoso e il futuro ignoto di un altro mondo, a cui ci si avvicina con un così grande cambiamento di circostanze, attraverso la perdita della nostra carne, del nostro sangue e del corpo stesso, ha in sé qualcosa di così spaventoso per l’immaginazione che l’uomo che ci pensa non può che essere colpito dall’orrore nel riconoscere che anch’esso deve andarvi incontro. Eppure vi si deve andare incontro e sebbene il cambiamento sia spaventoso non sarà, a un sano giudizio, necessariamente in peggio. Conoscendo la grande bontà dell’Onnipotente, non dovremmo essere pronti ad accettarlo come un probabile cambiamento in meglio, come un’alterazione delle nostre circostanze per la quale la nostra condizione possa essere incommensurabilmente migliorata? Allora si è risospinti a riconsiderare le circostanze per le quali tale cambiamento può essere reso effettivo. A me pare razionale supporre che, lasciando questo corpo, entreremo in quella nuova fase della vita nella quale siamo destinati a vivere, ma con tutte le nostre più alte risoluzioni in qualche modo rafforzate e con tutte le nostre più basse passioni anch’esse, ahimè, riacutizzate. Quella teoria per la quale l’essere umano salterà immediatamente alla perfezione della benedizione o cadrà in un’eternità di male e miseria non ha mai avuto credito presso di me. Per quanto mi riguarda devo dire che, nel riconoscere i miei molti difetti, ho vissuto tentando di fare del bene agli altri piuttosto che del male e quindi guardo alla mia dipartita da questo mondo con spavento ma anche con soddisfazione. Ma non posso guardare con soddisfazione a una condizione di vita in cui, per la mia stessa imbecillità, devo necessariamente retrocedere all’egoismo. Può essere che colui che ci giudica con una saggezza cui non mi posso avvicinare tenga tutto ciò in considerazione e che forgi così il mio futuro in modo da essere adeguato al meglio che ho raggiunto in questo mondo; eppure non posso che temere che una macchia di quell’egoismo che ho evitato finora, ma che sopraggiungerà se concedo a me stesso di invecchiare, possa rimanere e che sarà meglio per me che vada in quel luogo quando le mie povere necessità non hanno ancora preso il sopravvento sulla mia mente. Nel sistemare la questione, lo faccio però per i miei concittadini e non per me stesso. Devo sforzarmi di pensare che la mente di Crasweller può essere condizionata più della mia. Egli trema di ringhiosa paura per la sua dipartita e difficilmente gli farei del bene se lo dovessi forzare a dipartire in uno stato mentale così miserevole e pietoso. Ma poi, ancora, non è a Crasweller che devo pensare; né a lui né a me stesso. Come saranno condizionate le età degli uomini a venire da un cambiamento tale come quello che io propongo, se tale cambiamento dovesse diventare la normale condizione della morte? Non

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può accadere che gli uomini organizzino la loro stessa dipartita prima di andare in quel luogo in modo da non cadere nella debolezza senile, nell’egoismo pantofolaio, nelle brutte lamentazioni di necessità indefinite, e che non ci si pensi più? Queste sono le idee che mi hanno messo in azione e ad esse sono giunto osservando la vista della condotta di quelli intorno a me. Questa sarà una cosa buona non per Crasweller o Barnes o Tallowax, né per quei vecchi che stanno trascinando la loro età nelle loro case, né per me stesso che sono, lo so, troppo prono a vantarmi del fatto che, anche se la vecchiaia mi dovesse raggiungere, sarei in grado di evitarne gli effetti peggiori, ma per quelle generazioni ignote a venire le cui vite possono essere modellate dalla conoscenza che a un dato «Termine fisso» essi dipartiranno con ogni onore e gloria. Ero, tuttavia, consapevole che sarebbe stato inutile spendere le mie energie dicendo questo al signor Graybody. Era semplicemente desideroso di spogliarsi del suo involucro mortale perché lo trovava scomodo da portare. In tutta probabilità, se il suo tempo fosse arrivato vicino a quello di Crasweller, anch’egli, come quest’ultimo, avrebbe implorato inutilmente la grazia di un altro anno. Avrebbe scimmiottato la pazzia come Barnes o si sarebbe ferito con un coltello come Tallowax o avrebbe giurato che vi era un difetto nella legge, come era disposto a fare Exors. Anch’egli avrebbe clamorosamente giurato che era molto più giovane come facevano le vecchie. Non era forse il mondo popolato di Crasweller, Tallowax, Exors e donne anziane? Avevo io diritto di sperare di cambiare i sentimenti che la natura stessa aveva impiantato nella mente degli uomini? Eppure poteva ancora essere fatto con la pratica, con la pratica; se solo si fosse potuto arrivare al tempo della messa in pratica. Poi, mentre stavo per uscire dalla porta della casa di Graybody, sussurrai ancora a me stesso i nomi di Galileo e Colombo. «Pensate che arriverà il tredici?», disse Graybody, stringendomi la mano. «Penso», ribattei, «che voi ed io, in quanto cittadini fedeli della Repubblica dobbiamo supporre che egli farà il suo dovere di cittadino». Quindi me ne andai lasciandolo sulla porta, nel dubbio.

VII. COLOMBO E GALILEO

Avevo lasciato Graybody con una menzogna sulle labbra. Gli avevo detto che dovevo supporre che Crasweller avrebbe fatto il suo dovere di cittadino, intendendo con ciò fargli capire che mi aspettavo che il mio vecchio amico si sottomettesse alla deposizione. Si dà il caso che non mi aspettassi nulla del genere e il pensiero di dover essere spinto a false scuse mi addolorava. Cominciai a dubitare che la mia mente potesse mantenere la propria inclinazione sotto il peso che le era stato imposto e a chiedere a me stesso se fossi sano, sotto ogni punto di vista, a nutrire le idee che mi riempivano la testa. Galileo e Colombo; Galileo e Colombo! Tentai di confortarmi con questi nomi, ma in modo vano e deludente, e benché li usassi di continuo cominciai ad odiarli totalmente. Perché non potevo ritornarmene alla tosatura delle mie pecore e ad accontentarmi delle mie balle di lana e delle mie greggi e dei miei crediti come un tempo, prima che questa teoria si impossessasse completamente di me? Avevo successo, allora, non derubavo nessuno e assistevo tante persone nel corso della loro vita. Ero felice degli elogi dei miei concittadini, la mia salute era buona e avevo grandi energie allora, quasi come oggi. Ma sopraggiunse un giorno di successo − un giorno, potrei dire, di gloria o sfortuna, o non dovrò dire, a onor del vero, di entrambe? − in cui persuasi i miei concittadini a intraprendere questo triste lavoro del «Termine fisso». Da quel momento ogni pace mi abbandonò e con essa ogni felicità. Non è necessario, però, che un uomo sia felice. Dubito che Cesare lo fosse con tutti quei nemici intorno, Galli e Britanni e Romani. Se un uomo deve fare il proprio dovere, che non pensi troppo a quella condizione della mente denominata felicità, che la disprezzi e lo faccia; allora, in un certo senso, sarà felice. Ma se in lui si insinua un dubbio riguardo al proprio dovere, se comincia a sentire che forse può essere in torto, allora addio tranquillità della mente, poiché giungerà a quella condizione in cui un uomo è tentato di chiedersi se è davvero sano di mente. Cosa avrei dovuto fare dopo? Sapevo che i giocatori di cricket inglesi

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erano in partenza. Ancora due o tre giorni e la loro nave avrebbe lasciato il porto. Tornando in città nella mia carrozza, vidi i colori inglesi che sventolavano dall’albero di gabbia e la bandiera del club inglese di cricket che oscillava dalla poppa. Sapevo bene che essi avevano discusso la questione del «Termine fisso» fra di loro e che vi era ancora tempo perché tornassero a casa e rimandassero qualche ordine inglese che non sarebbe stato vincolante, ma a cui non saremmo stati in grado di disobbedire. Avrebbero potuto essere state scritte delle lettere prima, lettere traditrici che chiedevano l’assistenza di un altro paese in opposizione al governo del proprio. Ma cosa avrei dovuto fare dopo? Non potevo applicare la legge vis et armis contro Crasweller. Lo ammettevo con tristezza ma con certezza. Eppure pensavo di aver visto segni di intenerimento nell’uomo, sintomi di tristezza che sembravano rivelare uno spirito condiscendente. Chiedeva un anno soltanto. In teoria era ancora un sostenitore del «Termine fisso» che tuttavia perorava la sua piccola causa sulla base di un’evidente falsità. Non potevo indurlo a un generoso assenso? Avrebbe avuto ancora un anno. E ai vecchi tempi vi era un guizzo di virilità nel suo petto alla quale forse avrei potuto riportarlo. Sebbene la speranza fosse sottile al momento, era la mia unica speranza. Al ritorno passai per i moli lasciando la carrozza all’angolo della strada. Vi era una folla di inglesi che andavano su e giù dal vascello per controllare la sistemazione delle loro mazze e biciclette e tra loro vi era Jack l’eroe. Stavano a pelo d’acqua ad aspettare tre scialuppe destinate a portarli via. «Ecco il Presidente», disse Sir Kennington Oval; «non ha ancora visto il nostro yacht; facciamolo salire a bordo con noi». Furono così gentili che salii su una scialuppa, mentre Jack salì su una seconda e il vecchio Crasweller, che era venuto con i suoi ospiti da Little Christchurch, nella terza. Venimmo spinti verso lo yacht. Jack, me ne accorsi, vi si sentiva a casa. Vi aveva cenato frequentemente, aveva dormito a bordo, mentre per me e Crasweller era del tutto nuovo. «Sì», disse Lord Marylebone, «se si deve fare del mare la propria casa per un mese è bene che sia il più confortevole possibile. Ciascuno di noi ha la sua cuccetta con bagno e tutto il resto. Qui è dove mangiamo: non è male». Guardandomi intorno pensai che non avevo mai visto niente di più bello e grandioso. «Qui è dove dovremmo sederci − continuò Lord Kennington − a scrivere lettere e a leggere libri. E qui», disse aprendo un’altra porta, «è dove ci sediamo davvero per fumare la pipa e bere brandy e acqua. Siamo arrivati qui sotto la regola del tiranno Re MacNuffery. Intendiamo tornare indietro come Repubblica. Ed io, essendo l’unico Lord, intendo eleggermi Presidente. Potete darmi qualche consiglio circa un modo piacevole di governare? A ognuno è concesso di fare ciò che gli aggrada e non si deve interferire nelle questioni di nessuno a meno che qualcuno non interferisca nelle questioni di qualcun altro. Intendiamo prendere consiglio da voi, gente di Britannula, dove tutti, sotto la vostra Presidenza, sembrano essere felici e contenti». «Non abbiamo la Camera Alta, milord», dissi io.

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«Vi siete sbarazzati di una noia terribile. Oso dire che ce ne sbarazzeremo tra non molto in Inghilterra. Non vedo perché dovremmo continuare a sedervi solo per avallare gli editti della Camera dei Comuni e sentirci dire che siamo un branco di pazzi quando esitiamo». Gli dissi che era lo sfortunato destino della Camera dei Lord accorgersi della propria inadeguatezza al lavoro legislativo. «Ma se veniamo aboliti, continuò, allora posso entrare nell’altra e fare qualcosa. Bisogna essere eletti membri del Parlamento o non si può sedere da nessuna parte. Una nave può essere solo una nave, dopotutto, ma se dobbiamo vivere su una nave non stiamo affatto male qui. Venite a colazione». Gli inglesi, quando vengono dalla nostra parte del globo, chiamano sempre il proprio pranzo «colazione». Tornai nell’altra stanza con Lord Marylebone e quando presi posto al tavolo sentii che i giocatori di cricket lì riuniti discutevano del «Termine fisso». «Che mi venga un colpo», disse il signor Puddlebrane, «se mi depositano per farmi sanguinare a morte e cremarmi come un grosso maiale». Poi si accorse che ero entrato nel salone e sopraggiunse un improvviso silenzio. «Quale vento soffierà venerdì alle due?», chiese Sir Lords Longstop. Era evidente che Sir Lords si era sforzato di cambiare argomento di conversazione per via della mia presenza, ma non mi si addiceva permettergli di pensare che mi spaventava l’idea di parlare del «Termine fisso». «Perché dovreste obiettare a essere cremato, signor Puddlebrane», dissi io, «che sia come un grosso maiale o qualsiasi altra cosa? Nessuno intenderebbe cremarvi mentre siete in vita». «Perché mio padre e mia madre sono stati sepolti, come tutti i Puddlebrane, nella chiesa di Puddlebrane ed io vorrei comparire tra loro». «Suppongo che sia solo il loro nome che compare e non i loro corpi, signor Puddlebrane. E un uomo cremato può avere una lapide tanto grande come se gli fosse stato concesso di marcire nella maniera ortodossa». «Ciò che Puddlebrane vuole dire», disse un altro, «è che vorrebbe avere le stesse chances di vita dei suoi avi». «Se guardiamo indietro ai registri della vostra famiglia, vedrete che essi morivano generalmente prima dei sessantotto anni. Ma noi non abbiamo intenzione di invadere il vostro Parlamento e di imporvi la nostra legge». «Prendete un bicchier di vino, signor Presidente», disse Lord Marylebone, «e lasciate Puddlebrane ai suoi avi. È un esterno abilissimo, anche se non ha stoppato Jack quando ne ha avuto l’occasione. Consentitemi di consigliarvi un po’ di sorbetto. I manghi vengono dalla Giamaica e sono freschi come il giorno in cui sono stati raccolti». Mangiai il mio dolce di mango, ma non lo gustai, perché ero sicuro che l’intera squadra sarebbe tornata in Inghilterra carica di pregiudizi nei confronti del «Termine fisso». Non appena riuscii ad andarmene tornai alla spiaggia, lasciando Jack tra i miei nemici. Era impossibile non sentire che mi erano nemici, perché ero sicuro che stavano per op-

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porsi all’intima convinzione del mio cuore e della mia anima. Crasweller era rimasto seduto perfettamente in silenzio, mentre il signor Puddlebrane parlava della sua possibile cremazione. Eppure Crasweller era un Terminefissista dichiarato. Venerdì alle due il vascello salpò con tutto il plauso che si poteva produrre con un miscuglio di timpani e trombe e una salva di artiglieria. Era il miglior gruppo di ragazzi che avesse mai indossato un vestito di flanella rosa e il più generoso fra quelli nati per vivere di paté e champagne. Dubito che tra di essi ve ne fosse uno in grado di guadagnarsi il pane in un ufficio di contabilità, ad eccezione di Stumps, il professionista. Dopo aver tributato tutto l’onore al vascello in partenza andai subito a Little Christchurch e là trovai il mio amico sulla veranda con Eva. Durante gli ultimi due mesi sembrava essere molto più invecchiato di quanto l’avessi mai visto prima e ora sedeva con la mano nella mano della figlia. Non lo vedevo dal giorno in cui eravamo stati a bordo dello yacht e ora sembrava più grigio e più abbattuto di allora. «Crasweller», dissi io prendendogli la mano, «è triste che noi si debba litigare dopo tanti anni di perfetta amicizia». «È così, è così. Io non voglio litigare, signor Presidente». «Non ci saranno litigi. Ebbene, Eva, come sopportate la perdita di tutti i vostri amici inglesi?» «La perdita dei miei amici inglesi non mi ferirà se solo posso mantenere quelli che ero solita avere a Britannula». Non ero sicuro se alludesse a me o a Jack. Poteva essere a me, ma pensai alludesse a Jack. «Eva, mia cara, è meglio se ci lasci. Penso che il Presidente voglia parlarmi di affari». Allora ella mi guardò in viso, mi toccò la mano e capii che stava per chiedermi la grazia per suo padre. La sensazione non fu piacevole, perché ero vincolato a non concedergliela dal più forte giuramento che una mente possa concepire. Sedetti per alcuni minuti in silenzio, pensando che dal momento che Crasweller aveva mandato via Eva sarebbe stato lui a cominciare. Ma non disse nulla e sarebbe rimasto in silenzio se glielo avessi consentito. «Crasweller», dissi, «non è certo un bene che voi ed io litighiamo su questa questione. In vostra compagnia io ho imparato a concepire questo progetto e per molti anni siamo stati d’accordo che con esso si sarebbe trovato il modo migliore per porre rimedio alla condizione dell’umanità». «Non sapevo allora cosa significhi essere trattato come uno che è già morto». «Eva vi tratta così?» «Sì; con tutta la sua tenerezza e tutto il suo amore, Eva sente che i miei giorni sono contati, a meno che io non mi dichiari arditamente contrario alla vostra teoria. Già ella mi considera alla stregua di un visitatore dall’altro mondo. E la sua gentilezza estrema è intollerabile». «Ma Crasweller, le vostre convinzioni non possono essere mutate». «Non so. Non dirò che sia avvenuto un qualche cambiamento, ma è certo che le convinzioni diventano vaghe quando operano contro di noi. Il deside-

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rio di vivere è umano e quindi a immagine di Dio. Quando la mano di Dio colpisce qualcuno con la morte, il sofferente, sapendo che il colpo è inevitabile, può riconciliarsi con se stesso, ma è molto difficile andarsene verso il proprio lungo riposo quando salute, lavoro, e felicità perdurano». Vi era qualcosa in tutto ciò che pareva implicare che egli avesse abbandonato la debole affermazione riguardo alla sua età e che non volesse più chiedere un anno di grazia servendosi di quella falsità. Ma era necessario che io fossi sicuro di questo. «Riguardo alla tua età ho guardato i registri», cominciai. «I registri hanno ragione», disse. «Non dovete preoccuparvi ulteriormente riguardo ai registri. Eva ed io ne abbiamo discusso». Da ciò mi persuasi che Eva lo aveva convinto della bassezza di tale falsità. «Poi c’è la legge», dissi io con invacillabile durezza. «Sì, c’è la legge, se si tratta veramente di una legge. Il signor Exors è pronto a confutarla e dice che chiederà il permesso di discutere il caso con l’Esecutivo». «Discuterebbe su qualunque cosa. Sapete come è fatto Exors». «E poi vi è quel poveruomo di Barnes che è andato del tutto fuori di testa ed è diventato un idiota farneticante». «Mi hanno detto ieri che è diventato pazzo scatenato, ma so da voce autorevole che, prenda egli una parte o l’altra, sta solo recitando». «E Tallowax è pronto a scatenarsi contro quelli che lo andranno a prendere. Giura che nessuno riuscirà a condurlo al Collegio». «E voi?» Allora vi fu una pausa e Crasweller rimase seduto in silenzio con il volto sepolto nelle mani. Era comunque in una condizione mentale molto più incline alla persuasione rispetto a quella in cui l’avevo trovato l’ultima volta. Aveva abbandonato l’idea dell’anno fittizio e aveva riconosciuto che aveva aderito alla dottrina alla quale ora gli veniva richiesto di conformarsi. Ma era un compito duro quello di doverlo pressare in tali circostanze. Pensai ad Eva, alla sua disperazione, e a lui con quel naturale desiderio di vita nel cuore. Mi guardai intorno e vidi la bellezza del paesaggio e pensai quanto peggiori della dipartita stessa fossero, per un uomo del genere, le ombre melanconiche del Collegio. Io non sono per natura un duro di cuore. Non ho affatto quella fibra di acciaio che consentirebbe ad un uomo veramente forte di star saldo nelle sue convinzioni anche quando i suoi stessi affetti vi facciano opposizione. Pur di liberare Crasweller all’istante, quanto volentieri mi sarei incamminato verso il Collegio io stesso! Il mio cuore si stava lacerando, ma mi ricordai di Colombo e Galileo. Di sicuro nessuno di loro era stato messo alla prova quanto lo ero io in questo momento. Ma la cosa andava fatta o dovevo cedere, e per sempre. Se non fossi riuscito a essere forte per prevalere sul mio amico e compagno, su Crasweller, che era il primo e che sarebbe entrato nel Collegio con pompa da eroe, come avrei potuto anche solo sperare che qualunque altro vi si segregasse? Come avrei persuaso uomini come Barnes o Tallowax o quell’azzeccagarbugli di Exors ad essere

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condotti tranquillamente lungo le strade della città? «E voi?», domandai ancora. «Sta a voi decidere». Che agonia in quel momento! Ma penso che mi risolsi per il giusto. Benché il mio cuore sanguinasse, so che feci bene. «In nome dei benefici che deriveranno a migliaia di sconosciute creature nostre compagne è vostro dovere obbedire alla legge». Dissi ciò a bassa voce, tenendogli la mano. In quel momento sentii un grande amore per lui e in un certo senso ammirazione, poiché egli aveva vinto la sua paura di un futuro sconosciuto tanto da promettere di fare questa cosa semplicemente perché aveva detto che l’avrebbe fatta. Non vi era un alto sentimento riguardo alle future generazioni, né la grandiosa idea che stava per compiere un grande dovere per il benessere dell’umanità in generale, ma semplicemente la consapevolezza che, per il fatto di aver sempre sostenuto la mia teoria in quanto mio amico, non se ne sarebbe adesso allontanato, qualsiasi fosse stato il costo per se stesso. Mi rispose sottraendomi soltanto la sua mano. Ma sentii che nel cuore mi accusava di crudeltà e di folle aderenza ad una teoria. «Non dovrebbe essere così, Crasweller?» «Come volete, Presidente». «Ma non è così che dev’essere?» Poi ritornai a lungo su tutti i miei argomenti preferiti e mi sforzai con tutta la foga della mia eloquenza di raggiungere la sua mente. Ma sapevo, mentre lo facevo, che era tutto invano. Ero riuscito − o forse Eva vi era riuscita − a indurlo a ripudiare la falsità con la quale aveva tentato di sfuggire, ma non ero minimamente riuscito a fargli vedere il bene che sarebbe derivato dalla sua deposizione. Egli era pronto a diventare un martire, perché anni addietro aveva detto che lo sarebbe divenuto. Ora lasciava a me decidere se richiamarlo a mantenere la sua promessa ed io con un’ostinazione insensibile avevo messo il caso contro di lui. Questa era la luce nella quale il signor Crasweller guardava alla cosa. «Non pensate che io sia crudele, vero?», domandai. «Lo penso», disse Crasweller. «Voi domandate, io rispondo. Penso che voi siate crudele. È una questione di vita e di morte − questo è chiaramente il problema − ed è la vita ed è la morte del vostro più intimo amico, del padre di Eva, di colui che anni or sono venne con voi da un altro paese e con voi ha vissuto tutte le battaglie e i successi di una lunga carriera. Ma avete la mia parola e non mi allontanerò da essa, neppure per salvare la mia vita. In un momento di debolezza sono stato tentato di dire una debole bugia. Non mentirò. Non sminuirò me stesso in questo modo per pretendere un misero anno di vita, anche se non mi mancano le prove per sostenere l’affermazione. Sono pronto a venire con voi»; e fece per alzarsi dalla sedia come se intendesse incamminarsi per essere depositato immediatamente. «Non ora, Crasweller». «Sarò pronto quando verrete per me. Non lascerò mai più la mia casa fino

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a quando non la lascerò per l’ultima volta. Giorni e settimane non significano nulla ora. L’amarezza della morte si è abbattuta su di me». «Crasweller, io verrò e vivrò con voi e sarò per voi un fratello, per tutti i dodici mesi». «No, non sarà necessario. Eva sarà con me, e forse anche Jack verrà a trovarmi, anche se non debbo consentirgli di esprimere il calore della sua indignazione all’orecchio di Eva. Jack farebbe forse meglio a lasciare Britannula per un po’ di tempo e a non tornare fino a che tutto non sia finito. Allora potrà godere dei pascoli di Little Christchurch in pace, a meno che un’idea non lo disturbi, ossia che sia entrato nel loro immediato possesso per un atto di suo padre». Poi si alzò dalla sedia e se ne tornò dalla veranda in casa. Tornando in città quasi mi pentii di quanto avevo fatto. Pensavo nel mio cuore di ritornare indietro e di cedere, di dirgli che avrei assentito ad abbandonare tutto il mio progetto. Non era da par mio dire che avrei risparmiato il mio amico per applicare la legge nei confronti di Barnes e Tallowax; né era da par mio dichiarare che sarebbero state risparmiate le vittime del primo anno. Potevo facilmente lasciar cadere la legge, ma non potevo decidere una sua parziale sospensione. Lo feci quasi, ma quando avevo già svoltato per la strada verso Little Christchurch ed ero già pronto a gettarmi tra le braccia di Crasweller, l’idea di Galileo e di Colombo e del loro definitivo successo mi riempì nuovamente il petto. Era giunto ora il momento in cui potevo riuscire. Il primo uomo era pronto ad andare al sacrificio ed io avevo sempre sentito che la grande difficoltà sarebbe stata quella di ottenere il consenso del primo martire. Poteva ben essere che tali accuse di crudeltà fossero parte della sofferenza senza la quale la mia grande riforma non poteva essere portata al successo. Anche se avessi dovuto essere considerato crudele come Cesare, cosa sarebbe contato se avessi potuto condurre i miei Galli alla civiltà? «Caro Crasweller», mormorai a me stesso dirigendomi di nuovo verso Gladstonopoli e, tornato in fretta indietro, mi seppellii nell’oscurità delle stanze dell’Esecutivo. Il giorno seguente accadde un fatto molto spiacevole nella mia casa all’ora di cena. Jack entrò e prese posto a tavola in un torvo silenzio. Poteva darsi che si dolesse perché i suoi amici inglesi se n’erano andati via e che quindi non volesse parlare. Anche la signora Neverbend consumò la sua cena senza dire una parola. Cominciai a temere che ci dovesse essere qualcosa da dire, qualche motivo per un litigio e, come al solito in questi casi, mi sforzai di essere particolarmente gentile e comunicativo. Parlai della nave, che era partita per il suo viaggio verso casa, elogiai Lord Marylebone e irrisi il signor Puddlebrane; ma non ebbe l’effetto desiderato. Né Jack, né la signora Neverbend dicevano nulla. Mangiarono cupamente la loro cena finché il domestico non lasciò la stanza. Allora Jack iniziò: «Penso che sia giusto dirvi, signore, che vi sarà un incontro pubblico a Town Flags dopodomani». Town Flags era un luogo aperto sul quale, sostenuto da archi, era stato eretto il municipio. Era qui che la gente era solita tenere queste assemblee all’aria aperta che troppo

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spesso influenzavano la responsabile Assemblea nel Senato. «E di che cosa parlerete tutti quanti là?». «C’è un unico argomento», disse Jack, «che al momento occupa l’attenzione di Gladstonopoli. La gente non intende consentirvi di depositare il signor Crasweller». «Considerando la vostra età ed esperienza, Jack, non credete di star prendendo troppa responsabilità su voi stesso a dire se la gente permetterà o meno all’Esecutivo del paese di compiere il proprio dovere?» «Se Jack non è abbastanza grande», disse la signora Neverbend, «io lo sono e dico la stessa cosa». «Naturalmente ho detto soltanto ciò che pensavo», continuò Jack. «Quello che voglio spiegare è che io stesso sarò là e farò tutto quello che posso per sostenere l’incontro». «In opposizione a vostro padre?», dissi io. «Ebbene, sì; temo di sì. Vedete, è una questione di pubblico interesse e non penso che padre e figlio abbiano nulla a che vedere con questo. Se io fossi nell’Assemblea non credo che sarei costretto a sostenere mio padre». «Ma voi non siete nell’Assemblea». «Tuttavia ho le mie convinzioni e mi sento chiamato a prendere parte». «Buon Dio, sì; e per salvare la vita del povero vecchio signor Crasweller da questa legge disumana. Egli è adatto a vivere tanto quanto voi ed io». «L’unica questione è se sia adatto a morire, o piuttosto a essere depositato. Ma non voglio discutere l’argomento qui. È stato stabilito dalla legge e questo dovrebbe essere sufficiente per voi due così come è sufficiente per me. Quanto a Jack, non gli consentirò di andare a un simile incontro. Se dovesse fare ciò incorrerebbe nella mia disapprovazione e nella conseguente punizione». «Che cosa intendete fare col ragazzo?», chiese la signora Neverbend. «Se cessa di comportarsi con me come un figlio, cesserò di trattarlo come un padre. Se egli andrà a questo incontro, dovrà lasciare la mia casa ed io non lo vedrò mai più». «Lasciare la casa?», gridò la signora Neverbend. «Jack», dissi con la voce più gentile che ero in grado di assumere, «farete le vostre valigie e ve ne andrete in Nuova Zelanda dopodomani. Ho per voi degli affari di una certa importanza da svolgere con Macmurdo e Brown. Vi fornirò i particolari quando vi vedrò in ufficio». «Naturalmente non ci andrà, signor Neverbend», gridò mia moglie. Ma, sebbene le parole fossero determinate, vi era un certo vacillare nella sua voce che non mi sfuggì. «Vedremo. Se Jack intende rimanere mio figlio deve obbedire a suo padre. Sono stato gentile e forse troppo indulgente con lui. Io ora pretendo che se ne vada in Nuova Zelanda dopodomani. La nave salpa alle otto. Sarò felice di scendere con lui e accompagnarlo a bordo. Jack scosse soltanto la testa, gesto dal quale compresi che intendeva ri-

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bellarsi. Ero stato un padre molto generoso con lui e l’avevo amato come la luce dei miei occhi, ma ero determinato a essere duro. «Avete sentito il mio ordine», dissi, «e avrete domani per pensarci. Vi consiglio di non rifiutare, e per sempre, l’affetto, la cura e tutte le comodità, sia pecuniarie che di altro tipo, che avete avuto da un padre indulgente». «Non vorrete dire che intendete diseredare il ragazzo?», chiese la signora Neverbend. Sapevo che era letteralmente al di là del mio potere fare ciò. Non potevo diseredarlo, non potevo neppure derubarlo di un singolo lusso senza provare una sofferenza più grande di quella che egli avrebbe sentito. Non pensavo forse a lui, giorno e notte, mentre sistemavo i miei affari terreni? E nel momento in cui aveva abbattuto il wicket di Sir Kennington Oval non ero stato altrettanto orgoglioso quanto lui? Quando le trombe avevano risuonato non avevo sentito l’onore più di lui? Quando aveva fatto il suo ultimo run trionfante ed io avevo gettato il mio cappello in aria, non era stato per me più dolce che se l’avessi fatto io stesso? Non lo amavo persino di più perché aveva giurato che avrebbe combattuto per Crasweller? Ma ora era necessario che io gli imponessi obbedienza e inducessi in lui la subordinazione con la paura. Parliamo del potere di un padre e sappiamo che gli antichi romani potevano punire la disobbedienza dei figli con la morte. Ma un padre britannulo ha nel petto un cuore più potente della legge e persino dei costumi, e penso che anche per i Romani fosse lo stesso. «Mia cara, non discuterò delle mie future intenzioni di fronte al ragazzo. Sarebbe disdicevole. Gli ordino di partire per la Nuova Zelanda dopodomani e si vedrà se mi obbedirà o meno. Gli raccomando decisamente di farsi governare da suo padre su questa questione». Jack scosse soltanto la testa e lasciò la stanza. In seguito venni a sapere che quella notte aveva dormito a Little Christchurch. La stessa notte subii una tale predica dalla signora Neverbend nella nostra camera da letto che avrebbe potuto far provare vergogna a quella signora Caudle1 di cui si legge nella storia inglese. Odio tali prediche, non perché le ritenga inadatte, ma perché particolarmente spiacevoli. Mi scopro sempre assolutamente impotente mentre avvengono. Sono consapevole che è del tutto inutile pronunciare una parola e che posso soltanto lasciare che l’orologio si scarichi. Quello che la signora Neverbend dice in tali momenti ha sempre molto buon senso, ma è anche sprecato perché io so già tutto in precedenza e potrei buttare giù con penna e inchiostro la predica che ella ha intenzione di pronunciare in quel momento particolare. E non temo cattivi risultati dalla 1 Trollope fa qui riferimento al personaggio di Mrs Caudle reso popolare dalla serie intitolata Mrs Caudle’s Curtain Lectures pubblicata sulla rivista Punch dal suo autore, il drammaturgo, amico di Charles Dickens, Douglas William Jerrold (1803-1857). Le «lectures», prediche di una moglie al marito, diedero grande popolarità alla rivista e apparvero in volume nel 1846. Il loro versatile autore scrisse poi una serie di romanzi e degli studi di «uomini di carattere» − Men of Character (1838) − illustrati da W.M. Thackeray.

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Capitolo settimo

sua rabbia in futuro, perché la sua condotta verso di me, lo so per esperienza, sarà sempre attenta e gentile. Se un’altra persona dovesse usare un linguaggio crudo con me, si alzerebbe irata per difendermi. E in verità non intende dire un decimo di quello che dice. Ma in quei momenti sono come se mi trovassi dentro la macina di un mulino e la sua rabbia continua a crescere perché non riesce mai a tirar fuori una parola da me. «Signor Neverbend, vi dico questo. Vi state mettendo in ridicolo. Penso sia mio dovere dirvelo, perché sono vostra moglie. E tutti lo penseranno. Chi siete voi per mettervi al confronto con Galileo? Un vecchio che è vissuto migliaia di anni fa, prima che la cristianità fosse inventata. Voi avete in testa brutti pensieri omicidi e volete uccidere il povero signor Crasweller solo per orgoglio, perché avete detto che lo avreste fatto. Ora Jack è determinato a impedirvelo e io dico che ha ragione. Non vi è motivo per dire che Jack non dovrebbe obbedire a me quanto a voi. Non sarete mai in grado di depositare il signor Crasweller, neanche se provaste per un centinaio di anni. La città non ve lo lascerà fare e se avete un granello di sale rimasto nella vostra testa non vi attenterete. Jack è determinato ad incontrare gli uomini a Town Flags dopodomani e io dico che ha ragione. E riguardo al vostro diseredarlo e allo spendere tutti i vostri soldi in congegni per arrostire maiali, vi dico che non lo farete. Vi sarà una commissione che indagherà se non baderete a voi stesso e in seguito vi ricorderete di quanto vi dico. Il povero signor Crasweller, che conoscete da quarant’anni! Mi chiedo come possiate pensare di uccidere il pover’uomo il cui pane avete mangiato tanto spesso. E se pensate di spaventare Jack vi sbagliate della grossa. Jack farebbe due volte di più per Eva Crasweller che per voi o per me ed è naturale. Potete stare certo che non mollerà e alla fine avrà Eva per sé. Credo sia andato a dormire». Diedi, allora, a me stesso credito infinito per la pertinacia del mio silenzio e per il modo in cui avevo messo su una parvenza di sonnolenza senza esagerare la parte. La signora Neverbend si addormentò veramente, ma io rimasi sveglio per tutta la notte pensando ai problemi che avevo innanzi a me.

VIII. LA «JOHN BRIGHT»

Jack, naturalmente, non andò in Nuova Zelanda e io fui costretto a litigare con lui − temporaneamente. Tennero il comizio a Town Flags dove senza dubbio furono pronunciate molte parole eloquenti. Ovviamente non andai né ritenni giusto leggerne i resoconti. La signora Neverbend si mise in testa di parlarmi soltanto riguardo alle necessità materiali della vita. «Volete un’altra zolletta nel vostro tè, signor Presidente?» Oppure «se volete una seconda coperta sul vostro letto, signor Neverbend, e l’ordinerete, vi sarà fornita». A mia volta le riservavo lo stesso umore ed ero dignitoso, cauto e silenzioso. Si supponeva che avessi proprio litigato con Jack ed era molto doloroso per me non essere in grado di parlare con il ragazzo né di mattina né di sera. Ma non sembrava stare molto peggio per questo. Riguardo poi al cacciarlo fuori di casa o smettere di dargli la paghetta, avrebbe significato portare lo scherzo più in là di quanto potevo fare. Di fatto, mi sembrava che in questo momento fosse particolarmente felice, perché non si recava in ufficio. Trascorreva le sue mattine a tenere discorsi per poi andare giù in bicicletta a Little Christchurch. Il tempo trascorse così e venne il giorno in cui Crasweller doveva essere assolutamente depositato. Lo avevo visto costantemente nelle ultime settimane ma non aveva parlato con me dell’argomento. Aveva detto che non avrebbe lasciato Little Christchurch e non lo aveva fatto. Non penso che fosse uscito dalle sue terre neppure una volta durante queste sei settimane. Era sempre cortese con me, offrendomi tè e pane tostato quando arrivavo, solennemente civile come se non vi fosse stato nessun argomento di discordia cocente fra di noi. Vedevo Eva raramente. Che lei ci fosse lo sapevo ma non venne mai in mia presenza fino alla sera prima del giorno stabilito, come racconterò tra breve. Tentai di condurlo sull’argomento una o due volte, ma mostrò una riluttanza a discuterne tanto invincibile da zittirmi. Lasciandolo il giorno prima che venisse depositato lo assicurai che sarei andato da lui la mattina.

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Capitolo ottavo

«Non disturbatevi», disse, ripetendo le parole due volte. «Non farà differenza che voi ci siate o meno». Allora scossi il capo per fargli capire che sarei andato da lui e mi congedai. Devo spiegare che durante le ultime settimane le cose non erano state tranquille a Gladstonopoli, ma non vi era stato nulla di simile a una grave sommossa. Ero contento di scoprire che, nonostante i comizi di Jack, la parte più giovane della popolazione mi era ancora fedele e non dubitavo che avrei ancora avuto la maggioranza dei voti nell’Assemblea. Si diffuse in giro la voce che i dodici mesi del periodo di prova di Crasweller sarebbero stati dedicati a discutere la questione e mi venne detto che la mia teoria riguardo al «Termine fisso» in verità non sarebbe stata messa in pratica soltanto perché il signor Crasweller aveva trasferito la sua residenza da Little Christchurch al Collegio. Per l’occasione avevo ordinato un calesse scoperto e avevo preso un paio di splendidi cavalli adatti a una marcia trionfale. Con questi avevo intenzione di recarmi a Little Christchurch a mezzogiorno e accompagnare su al Collegio il signor Crasweller stando seduto alla sua sinistra. In tutte le altre occasioni il Presidente della Repubblica sedeva nella sua carrozza dalla parte destra e, per la dignità della mia posizione, mai vi avevo abdicato. Ma questa occasione rappresentava un’eccezione a tutte le regole. La sera prima, mentre sedevo in biblioteca a casa pensando dolorosamente alla circostanza e dicendo a me stesso che, dopo tutto, non potevo votare il mio amico a quella che alcuni potevano ritenere una morte prematura, si aprì la porta e fu annunciata Eva Crasweller. Portava uno di quei cappelli da uomo tondi e aderenti che le donne portano oggigiorno, ma con sotto una veletta che le copriva del tutto il volto. «Mi sto prendendo la libertà, signor Neverbend», disse, «di disturbarvi in questo momento. «Eva, mia cara, come si può definire così qualsiasi cosa facciate?» «Non so, signor Neverbend. Sono venuta da voi perché sono molto infelice». «Pensavo che voleste evitarmi ultimamente». «Così ho fatto. Come potevo non farlo quando eravate così ansioso di depositare il povero papà in quel luogo orribile». «Lui stesso lo era un po’ di anni fa». «Mai! Si disse d’accordo perché voi glielo avevate detto e perché voi siete un uomo capace di persuadere. Non che lo fosse con tutta l’anima, neppure quando l’eventualità non era abbastanza vicina da allarmarlo. Ed egli non è un uomo che teme la morte nel modo comune. Papà è un uomo coraggioso». «Mia cara bambina, è bello sentirvi dire questo di lui». «Verrà con voi domani semplicemente perché vi ha fatto una promessa e non desidera che si dica di lui che ha ritirato la sua parola anche se per salvarsi la vita. Non è coraggio questo? Per lui non è come per voi che avete messo il vostro cuore nella questione, perché pensate di fare qualcosa di grande affinché il vostro nome possa essere ricordato dalle generazioni future». «Non è per quello, Eva. Non mi importa affatto che il mio nome venga ricordato. È per il bene di molti che agisco».

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«Lui non crede a quel bene, ma intende andare in nome della sua promessa. È giusto fargliela mantenere in queste circostanze?» «Ma la legge...» «Non voglio saperne della legge. La legge significa voi e la vostra influenza. Papà deve essere sacrificato alla legge per accontentarvi. Papà deve essere distrutto non perché la legge lo voglia, ma per adeguarsi ai gusti del signor Neverbend». «Oh, Eva!» «È vero». «Per adeguarsi ai miei gusti?» «Beh, per cos’altro? Vi siete messo in testa quest’idea e non la abbandonerete. E lo avete persuaso perché lui vi è amico. Oh, che fatale amicizia! Sarà sacrificato perché, avendo altri pensieri, non si è premurato di dissentire con voi». Fece allora una pausa come per vedere se avrei ceduto alle sue parole. E se le parole di qualcuno potevano convincermi a cedere, penso che sarebbero state proprio quelle che disse in quel momento. «Sapete cosa dirà la gente di voi, signor Neverbend?», continuò. «Che dirà?» «Se solo sapessi come dirvelo meglio? Vostro figlio mi ha chiesto... di essere sua moglie». «Da tempo sapevo che vi ama molto». «Ma non potrò mai diventarlo», disse, «se mio padre sarà portato via in quel luogo pauroso. La gente dirà che vi siete affrettato a metterlo fuori affinché Jack...» «Ci credereste, Eva?», dissi con indignazione. «Non importa cosa crederei io. Il signor Grundle già lo dice e accusa anche me. E il signor Exors, l’avvocato, sta diffondendo la voce. È diventato di dominio pubblico a Gladstonopoli che Jack diventerà subito il proprietario di Little Christchurch. «Al diavolo Little Christchurch!», esclamai. «Mio figlio non sposerà nessuna per i soldi di suo padre». «Non lo credo di Jack», disse, «perché so che è generoso e buono. Ecco! Lo amo più di qualsiasi altro al mondo. Ma per come stanno le cose, non potrò mai sposarlo se papà sarà rinchiuso in quell’orribile Città dei morti». «Non Città dei morti, mia cara». «Oh, non posso sopportarne il pensiero! Tutto solo senza nessuno con lui se non io a custodirlo giorno dopo giorno, mentre l’ora spaventosa in cui sarà bruciato in quei terribili forni si avvicina sempre di più!» «La cremazione, mia cara, non ha nulla a che vedere con il «Termine fisso». «Aspettare finché il giorno fatale sarà arrivato e poi sapere che a un’ora stabilità egli sarà distrutto solo perché voi avete detto così! Potete immaginare quali saranno i miei sentimenti quando quel momento sarà venuto?» In verità non ci avevo pensato. Ma ora che l’idea mi si presentava all’occhio della mente, riconoscevo che sarebbe stato impossibile lasciare che ella

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restasse lì in quell’occasione. Come o quando o dove sarebbe stata portata via, non riuscivo a pensare al momento. Erano domande queste alle quali era molto difficile rispondere. Dopo un certo numero di anni, diciamo, quando la comunità si fosse abituata al «Termine fisso», potevo capire che una figlia o una moglie lasciassero il Collegio e si ritirassero in quella solitudine richiesta dall’occasione, forse una settimana prima che giungesse l’ora stabilità per la dipartita. L’abitudine l’avrebbe resa relativamente facile, così come aveva predisposto un periodo di lutto per una vedova e un altro per un vedovo, un figlio o una figlia. Ma qui, con Eva, non vi erano usi. Non avrebbe avuto nulla a guidarla e avrebbe potuto rimanere là fino all’ultimo momento fatale. Avevo sperato che sposasse Jack, o forse Grundle, durante l’intervallo, non avendo previsto che l’anno, che nelle intenzioni doveva essere un anno d’onore e gloria, potesse diventare un tempo di pianto e tribolazione. «Sì, mia cara, è molto triste». «Triste! Vi è mai stata nella vita posizione tanto infelice, luttuosa, così indicibilmente desolata?» Rimasi lì di fronte a scrutare il vuoto senza riuscire a dire nulla. «Che intendete fare, signor Neverbend?», chiese. «È tutto nel vostro cuore. La vita o la morte di mio padre sono nelle vostre mani. Qual è la vostra decisione?» Potevo soltanto rimanere saldo, ma sembrava impossibile dirlo. «Allora, signor Neverbend, vi pronunciate?» «Non sta a me decidere. Tocca al paese». «Il paese!», esclamò, alzandosi; «è il vostro stesso orgoglio, la vostra vanità e la vostra crudeltà insieme. Non cedete su questa questione con me, la figlia del vostro amico, perché la vostra vanità vi dice che una volta detta una cosa quella deve accadere». Quindi si mise la veletta sul volto e uscì dalla stanza. Per un po’ sedetti immobile cercando di ripensare a tutto ciò che mi aveva detto, ma sembrava come se le mie facoltà fossero letteralmente annullate nella disperazione. Eva era stata per me quasi una figlia e, tuttavia, ero obbligato a rifiutare la sua richiesta per la vita di suo padre. E quando mi aveva detto che erano stati l’orgoglio e la vanità a farmi agire così, non ero riuscito a spiegarle che non erano quelli la causa. Ma ero proprio sicuro di me stesso sul fatto che non era così? Mi ero vantato di aver agito per il bene pubblico, ma ero sicuro che l’ostinazione non derivasse dalla mia ansia di essere annoverato fra Colombo e Galileo? O, se non questo, non vi era qualcosa di personale nel mio desiderio di essere conosciuto come uno che aveva recato benefici alla propria specie? Considerando tali questioni, era così difficile separare i motivi, dire quanto scaturiva da qualche anelito glorioso ad assistere gli altri nella loro lotta verso il progresso dell’umanità e quanto ancora dalla meschina ambizione personale. Avevo pensato di aver fatto tutto al fine di recare sollievo alle forze che vengono meno nella vecchiaia e perché la razza potesse migliorare d’epoca in epoca. Ma ora dubitavo di me stesso e temevo che la vanità di cui parlava Eva avesse trionfato su di me. Con mia moglie e mio figlio potevo ancora essere coraggioso, persino con Crasweller potevo

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essere coerente e duro. Ma essere ostinato con Eva era proprio una lotta e quando mi aveva detto che agivo così per orgoglio era stato difficilissimo sopportarlo. Eppure non ero arrabbiato con la ragazza. Più forte parlava in aiuto a suo padre, più mi affezionavo a lei. Proprio la sua indignazione me la rendeva cara e mi faceva sentire quanto fosse eccezionale, che moglie nobile sarebbe stata per mio figlio. Ma stavo forse per cedere dopo tutto? Dopo aver portato la questione a un punto tale, avrei mollato tutto per le suppliche di una ragazza? Ero ben conscio, persino allora, che la mia teoria era vera. I vecchi e i deboli dovevano andarsene affinché uomini forti e virili prendessero il loro posto e lavorassero per il mondo, con la ricchezza del mondo a loro disposizione. Se si fa la media di tutta l’umanità, si tratta di una diminuzione di un anno o due della vita di ognuno. Tenendo conto anche di coloro che sono arrivati a venticinque anni, a quanti pochi sono concessi più di quarant’anni di vita! E tuttavia quanta parte della ricchezza del mondo resta nelle mani di quelli che hanno passato quell’età e, a causa dell’imbecillità della vecchiaia, sono incapaci di utilizzare quella ricchezza come si dovrebbe! Mentre pensavo a ciò, dissi a me stesso che le preghiere di Eva non sarebbero state esaudite e mi confortai un poco pensando che tutto veniva fatto in nome della posterità. Poi di nuovo, pensando alle sue suppliche e alle parole dure che le avevano seguite, a quell’accusa di orgoglio e vanità, dissi a me stesso che questi non erano assenti. Adesso se ne era andata e sentii che avrebbe detto e pensato cose cattive di me per tutto il resto della mia vita. Sarebbe forse giunto il tempo in cui, condotto anch’io via, e suo padre già a riposo da lungo tempo, più tenui pensieri avrebbero popolato la mente di Eva. Se soltanto fosse stato possibile che andassi io, Jack avrebbe potuto sposare la ragazza che amava e sarebbe stato un bene. Poi mi asciugai gli occhi e procedetti a fare preparativi per l’indomani. Arrivò il mattino, il 30 giugno, una mattina d’inverno luminosa, tersa, fredda ma mite e piacevole, in cui salii sul calesse e mi diressi a Little Christchurch. Dire che il mio cuore era triste non rende l’idea giusta della mia condizione. Ero così distrutto dal dolore, così annullato dall’agonia del momento, che a stento vedevo ciò che accadeva davanti ai miei occhi. Sapevo soltanto che era giunto il giorno, il giorno terribile al quale, nella mia ignoranza, avevo anelato, e che ero completamente incapace di passare attraverso le sue cerimonie con dignità e persino con compostezza. Osservai, tuttavia, mentre guidavo lungo le strade, ferma sul mare molte miglia a sinistra, una piccola macchia di fumo all’orizzonte, come se qualche nave fosse di passaggio. Non risvegliò minimamente la mia attenzione, ma là era e ricordo di aver pensato, mentre passavo oltre, a quanto erano benedetti coloro che navigavano inconsapevoli di quel terribile cimento del «Termine fisso» che ero costretto ad affrontare. Andai a Little Christchurch e lì incontrai il signor Crasweller che mi attendeva nell’ingresso. Entrai e presi la sua mano fiacca nella mia e mi con-

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gratulai con lui. Oh, quanto vane e desolate suonavano quelle congratulazioni alle mie stesse orecchie! Ed erano state pronunciate, ne ero conscio, in un tono di voce pietoso e con fiato flebile e sospeso. Scosse solo il capo e cercò di passare oltre. «Non prendete il vostro cappotto pesante?», chiesi, vedendo che andava fuori all’aria aperta senza protezione. «No, perché dovrei? Non sarà necessario lassù». «Non conoscete il posto», replicai. «Vi sono venti acri di luoghi di ricreazione in cui potete passeggiare». Allora, mi rivolse un sguardo... oh, che sguardo!... e proseguì prendendo posto nel calesse. Ma Eva lo seguì e gli stese un panno sulle ginocchia e un mantello sulle spalle. «Eva non verrà con noi?», chiesi. «No, mia figlia nasconderà il suo viso in un giorno come questo. Tocca a voi e a me attraversare la città, a voi perché siete orgoglioso dello spettacolo e a me perché non lo temo». Anche questo aggiunse qualcosa al mio dolore. Poi guardai e vidi che Eva entrava in una piccola carrozza chiusa sul retro e che veniva condotta per una strada tortuosa ad incontrarci, senza dubbio, al Collegio. Mentre Crasweller ed io venivamo condotti via, non avevo parole da dirgli e lui sembrava raccogliersi nella sua ferocia e rimanere ostinatamente silenzioso nella sua rabbia. Procedemmo in questo modo finché, giunti a una curva della strada, il mare si aprì davanti a noi. Di nuovo osservai una piccola nube di fumo che si innalzava dalla macchia che avevo visto prima e capii che una nave grande stava entrando nel porto di Gladstonopoli. Volsi il viso verso di essa e osservai e, allora, un pensiero improvviso mi colpì. Che ne sarebbe stato di me se questo fosse stato un qualche grande vascello inglese che entrava nel nostro porto proprio il giorno della deposizione di Crasweller? Un anno prima mi sarei rallegrato di una tale occasione e mi sarei assicurato di mostrare agli stranieri la grandezza di questa cerimonia che doveva essere nuova per loro. Ma ora un terrore strisciante si impossessò di me e sentii il cuore cedermi dentro. Non volevo inglesi né americani a vedere il primo giorno del nostro «Termine fisso». Era evidente che Crasweller non aveva visto il fumo, ma ai miei occhi, mentre procedevamo, esso diventava sempre più vicino, finché infine lo scafo del grande vascello divenne manifesto. Allora, mentre la carrozza passava nella strada principale di Gladstonopoli nel punto in cui da un lato forma la banchina, il vascello entrò con estrema rapidità ed io potei vedere oltre il porto che si trattava di una nave da guerra. Un certo senso di sollievo mi colse proprio allora perché fui certo che fosse venuta a interferire con il lavoro che dovevo svolgere; ma quanto bassa doveva essere la mia condizione se potevo godere al pensiero che fosse stato interrotto! A questo punto, ci avevano raggiunto circa otto o dieci carrozze che avevano formato, come si dice, un corteo funebre dietro di noi. Sapevo, tuttavia, che erano piene di giovani e che non si vedeva l’ombra di un coetaneo di Crasweller. Salendo sulla collina potei scorgere Barnes che farfugliava sulla

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sua porta di casa, Tallowax che brandiva un grosso coltello ed Exors che sventolava un foglio sulla testa che ben sapevo essere una copia dell’Atto della nostra Assemblea: potevo soltanto fingere di non vederli mentre la nostra carrozza procedeva. La strada principale di Gladstonopoli, che corre attraverso il centro della città, discende una collina fino al livello del porto. Mentre il vascello entrava, cominciammo a salire la collina, ma i cavalli procedevano molto lentamente. Crasweller sedeva perfettamente in silenzio al mio fianco. Procedevo con un sorriso forzato sul viso, parlando di quando in quando a questo o quell’altro vicino quando ne incontravamo uno. Dovevo essere allegro in una certa misura, ma di un’allegrezza grave e solenne. Stavo conducendo quest’uomo nella casa in cui avrebbe trascorso l’ultimo glorioso anno, prima della gioiosa anticipazione di una vita più felice; e dunque dovevo essere allegro. Ma questa era soltanto una recita, la commedia che doveva essere recitata da me, il commediante. Dovevo anche essere solenne − silenzioso come un cimitero e dolente come una tomba − in verità. Perché ero così indotto a recitare una parte che era falsa? In cima alla collina incontrammo un assembramento di giovani e vecchi ed io fui contento di vedere che questi ultimi erano venuti a incontrarci. Ma gradualmente la folla divenne così numerosa che la carrozza dovette arrestare il suo cammino e alzandomi incitai quelli intorno a noi a lasciarci passare. Tuttavia ci trovammo sempre di più accerchiati dalla massa e infine dovetti chiedere a voce alta che essa si aprisse e ci lasciasse procedere. «Signor Presidente», mi disse un vecchio gentiluomo, un conciatore della città, «c’è una nave da guerra inglese che è entrata nel porto. Penso abbiano qualcosa da dirvi». «Qualcosa da dirmi! Cosa mai possono avere da dirmi?», replicai con tutta la forza di cui ero capace. «Stiamo a vedere; dobbiamo solo attendere pochi minuti», disse un altro anziano. Era un barista dal naso rosso che mentre parlava si parò davanti ai cavalli. Era inutile fare fretta al vetturino. Sarebbe stato sconveniente farlo in questo momento e ad ogni modo si doveva rispetto alla posizione di Crasweller. Egli rimase in silenzio nella carrozza, ma io pensai di scorgere, guardandolo in viso, un notevole interesse per ciò che stava accadendo. «Saliranno la collina, signor Bunnit», disse il barista al conciatore, «non appena salteranno giù dalle scialuppe. «Che Dio benedica la vecchia bandiera per sempre!», disse il signor Bunnit. «Sapevo che non avrebbero permesso che ne depositassimo nemmeno uno». Così fu svelato il loro segreto. Questi vecchi, il conciatore, il commerciante di whisky e altri come loro, avevano interpellato l’Inghilterra per ottenere aiuto contro il loro stesso governo! Tra la popolazione vi era sempre stata della gentaglia − la sporca e inutile schiuma che affiora −, uomini come il vecchio barista ubriacone, che erano rimasti sottomessi alla vecchia patria, che non sapevano nulla di progresso e civiltà, che si accontentavano di man-

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giare e di bere, principalmente di bere. «Ecco che arrivano. Che Dio benedica le loro fasce dorate», disse quello dal naso rosso. In effetti stavano salendo su per la collina tre ufficiali britannici in alta uniforme circondati da una folla di britannuli. Crasweller ascoltò tutto senza muoversi dal suo posto, ma si protese in avanti mordendosi il labbro e io vidi che la mano destra gli tremava mentre afferrava il bracciolo della carrozza. Non vi era altro da fare per me se non rimettermi indietro e rimanere tranquillo. Ero comunque ben consapevole che per me questo era un momento di disperazione, di scontro e di sconfitta. Essi arrivarono in cima e furono ricevuti con tre saluti assordanti dalla folla attorno alla carrozza. «Vi chiedo scusa, signore», disse uno dei tre, che appresi dopo essere il tenente di vascello in seconda. «Siete voi il Presidente di questa Repubblica?». «Sì», risposi, «E voi chi siete?». «Sono il tenente di vascello in seconda sulla cannoniera di Sua Maestà, la John Bright». Avevo sentito parlare di questo vascello, che aveva preso il nome da un prode ufficiale che, all’inizio del secolo, sedendosi su un barile di polvere da sparo aveva da solo sedato un ammutinamento. Era stato nominato Conte di Bright per quello che aveva fatto in quella occasione, ma il vascello veniva ancora chiamato J.B. durante il servizio. «E cosa vi porta qui signor tenente di vascello in seconda?». «Il nostro capitano, il capitano Battleax, vi porge i suoi omaggi e spera che voi non obietterete a posporre questa interessante cerimonia per un giorno o due, finché egli possa venire a vedere. Egli è sicuro che al signor Crasweller non dispiacerà». Quindi si tolse il cappello per salutare il mio vecchio amico. «Il capitano sarebbe venuto egli stesso, ma non può lasciare la nave prima di essersi accertato che il grande cannone sia stato posizionato e gli sia stata messa la sicura. È veramente dispiaciuto di essere così poco cerimonioso, ma il cannone brandeggiabile da 250 tonnellate richiede una grande attenzione». «Posizionato?», dissi. «Ebbene, sì. È sempre necessario, quando la nave getta l’ancora, puntare il cannone nel modo più efficace». «Non sparerà, vero?», chiese Bunnit. «Non senza provocazione, penso. Il capitano chiude a doppia mandata l’innesco e chiude a chiave anche la sua cabina. Se soltanto toccasse la molla noi tutti in questo luogo saremmo ridotti in pezzi in meno tempo di quanto ne occorrerebbe a voi per pensarci. Di fatto tutto questo versante della collina diventerebbe seduta stante una rovina senza traccia umana da nessuna parte». Vi era una minaccia in queste parole che non potevo sopportare. E davvero, visto che, quanto a me stesso, non mi importava di essere eliminato presto. L’Inghilterra con tirannia insuperabile ha inviato una delle sue moderne e brutali invenzioni per spaventarci con sangue, violenza e assassinio se non

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abbandoniamo la nostra moderna e benevola teoria. È stata la malevola influenza dell’intelletto applicata alla forza bruta a dominare la sua influenza benevola applicata alla filantropia. Che cosa rappresentava per me il fatto che la John Bright fosse giunta qui pronta a spedirmi all’altro mondo per l’eternità con il suo congegno assetato di sangue? È un cattivo segno dei tempi, che per tanti aspetti sono pieni di speranza, che le più grandi invenzioni del giorno debbano sempre assumere la forma di motori di distruzione. Ma che potevo fare in quel momento d’agonia? Non potevo che mostrare la freddezza del mio coraggio chiedendo al vetturino di procedere. «In nome di Dio, no!», disse Crasweller balzando in piedi. «Non muoverà un passo», disse Bunnit al barista. «Non può muoversi di un centimetro», replicò l’altro. «Sappiamo quale è il valore delle nostre preziose vite, non è vero signor Bunnit?» Che cosa potevo fare? «Signor tenente di vascello in seconda, vi devo ritenere responsabile di questa interruzione», dissi. «Esattamente. Sono responsabile di aver fermato questa carrozza. Se tutta la città si fosse rivelata in vostro favore e se questo gentiluomo avesse insistito per essere portato alla sepoltura ...». «Niente del genere», disse Crasweller. «Allora posso presumere che il capitano Battleax non farebbe fuoco con il suo cannone. Ma se mi permettete vi farò una domanda». Quindi si mise un minuscolo fischietto in bocca e, per la prima volta, vidi che vi pendeva il filo di metallo più sottile che esistesse, un filo di seta, avrei detto, solo molto meno palpabile, che cadeva dal fischietto e con il quale adesso comunicava con il vascello. Naturalmente avevo sentito parlare del filofono1, ma non l’avevo mai visto usare con tale perfezione. Mi venne assicurato dopo che l’ufficiale della nave poteva addentrarsi per dieci miglia e continuare a tenere la comunicazione con il suo capitano. Egli metteva lo strumento alternativamente alla bocca e all’orecchio, quindi mi informò che il capitano Battleax desiderava che tornassimo tutti nelle nostre case. «Mi rifiuto di fare ritorno alla mia casa», dissi. Il tenente scrollò le spalle. «Vetturino, non appena la folla si sarà dispersa, proseguirete». Il vetturino, che era un vecchio domestico della mia casa, si voltò e mi guardò terrorizzato. Ma venne presto sollevato da questa preoccupazione. Bunnit e il barista staccarono i cavalli e procedettero a condurli giù per la collina. Crasweller, non appena vide ciò, disse che presumeva di poter tornare indietro dal momento che non poteva proprio proseguire. «Ma è soltanto a tre miglia di cammino», dissi. «Mi è proibito permettere a questo gentiluomo di procedere, sia a piedi sia in carrozza», disse il tenente. «Devo chiedergli se farà l’onore al capitano

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Non sorprende che Trollope, che aveva lavorato tanti anni alle poste, preconizzi un futuro sistema di comunicazione senza fili che tanto ricorda la fibra ottica.

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Battleax di salire a bordo e fare colazione con lui, se posso convincervi, signor Presidente». Al che io scossi il capo in segno di diniego. «Proprio così, ma spera di vedervi presto in un’altra occasione». Allora pensai ben poco a quanti lunghi giorni avrei dovuto trascorrere col capitano Battleax e i suoi ufficiali o a quali piacevoli compagni avrei trovato in loro quando il ricordo dell’attuale sdegno si fosse in qualche modo affievolito col tempo. Crasweller girò sui tacchi e s’incamminò giù per la collina con gli ufficiali e con tutta la folla che li accompagnava, mentre Bunnit e il barista se ne erano andati con i cavalli. Non ero sceso dalla carrozza, ed eccomi lì, piantato in asso: il Presidente della Repubblica lasciato in cima alla collina nella sua carrozza senza mezzo di locomozione. Guardandomi attorno vidi Jack e con lui una donna, avvolta dalla testa ai piedi in abiti neri, con un velo sopra il volto, e che dal piccolo cappello tondo sul capo riconobbi essere Eva. Jack venne verso di me, ma dove andò Eva non riuscii a vederlo. «Scendiamo a piedi verso casa», disse. Sentii che il suo venire da me in questo momento era un gesto gentile, perché tutto il mondo mi aveva abbandonato. Allora aprii lo sportello della carrozza e scesi. «Strano che questa gente sia giunta proprio in questo momento», disse Jack. «Quando le cose accadono in maniera così strana, come dite voi, sembrano essere state premeditate». «Non il loro arrivo oggi. Quello non è stato premeditato minimamente, per quanto ne so. Anzi non sapevo affatto ciò che stavano per fare gli inglesi». «Vi sembra giusto mandare a chiamare i nemici del vostro paese in aiuto contro il vostro stesso paese?» Chiesi ciò con molta indignazione e ancora mi rifiutavo di prendergli il braccio. «Ma, signore, l’Inghilterra non è il nostro nemico». «Non quando arriva e interrompe la tranquilla esecuzione delle nostre leggi con la minaccia di farci saltare tutti per aria, la nostra città e i nostri cittadini, in un’istantanea distruzione!» «Non lo avrebbe mai fatto. Non penso neppure che il cannone sia carico». «Tanto più disprezzabile è la sua posizione. Ci minaccia con in bocca una menzogna». «Non ne so nulla, signore. Il cannone, invece, può ben essere là con la sua polvere da sparo e con le venti tonnellate di munizioni. Ma sono sicuro che non sparerà nel nostro porto. Dicono che ogni colpo costi duemila cinquecento sterline e che l’usura per il vascello ne costi altre duemila. Vi sono cose così terribili che è sufficiente soltanto crederci senza bisogno di altro. Suppongo che possiamo incamminarci. Crasweller se ne è andato e voi non potete fare nulla senza di lui». Questo era vero e mi preparai a scendere la collina. La mia condizione di Presidente della Repubblica richiedeva una certa dignità personale; e come avrei affrontato ciò nelle circostanze presenti? «Jack», dissi, «è segno di una nobile mente sopportare l’onta senza petulanza. Dato che i nostri cavalli se

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ne sono andati davanti a noi e Crasweller e la folla anche, noi li seguiremo». E quindi lo presi sottobraccio e mentre discendevamo la collina quasi mi rallegrai al pensiero che Crasweller fosse stato risparmiato. «Signore», disse Jack mentre camminavamo, «vi voglio dire qualcosa». «Che cosa?» «Qualcosa della più estrema importanza per me. Mai ho pensato che sarei stato così fortunato da annunciarvi ciò che ho da dirvi ora. A malapena so se sogno o son desto. Eva Crasweller ha promesso di diventare mia moglie». «Davvero!». «Se ci farete tanto felici da darci il vostro permesso». «Non avrei mai pensato che lei me lo avrebbe chiesto». «Deve chiederlo a suo padre ed egli è d’accordo. Ha detto, quando gli ho parlato questa mattina, che il suo permesso non valeva nulla, perché egli stava per essere condotto via e depositato. Ovviamente gli ho detto che ciò non significava nulla». «Nulla! Che diritto avevi di dire ciò?». «Beh, signore, avete visto che una parte di noi era del tutto determinata. Eva aveva detto che non mi avrebbe neppure permesso di parlarle fino a che la vita di suo padre fosse stata in pericolo. Odiava quel meschino di Grundle perché voleva sbarazzarsi di lui. Io le ho giurato che avrei fatto del mio meglio ed ella ha detto che se fossi riuscito, allora, pensava che avrebbe potuto amarmi. Che cosa poteva fare un uomo?» «Che cosa hai fatto?» «Ho raccontato tutto a Sir Kennington Oval, che è il principe dei buoni amici. Ed egli ha telegrafato a suo zio, che è il segretario del Ministro della Benevolenza, o qualcosa del genere, in patria». «L’Inghilterra non è la tua patria», dissi. «È il modo in cui noi tutti parliamo di essa». «Ed egli cosa ha detto?» «Si è messo al lavoro e la John Bright è stata inviata qui. Ma è stato solo un caso che sia arrivata proprio oggi». E questo era il modo in cui le cose venivano gestite a Britannula! Per il solo fatto che un ragazzo si era innamorato di una bella ragazza l’intera ricchezza dell’Inghilterra doveva essere utilizzata per il fine più turpe e una grande nazione doveva esercitare la sua tirannia su una piccola nazione nella quale si parlava la medesima lingua e si seguivano i medesimi costumi! Ad ogni modo l’Inghilterra aveva ragione di essere orgogliosa della sua più giovane figlia. Noi britannuli eravamo diventati rinomati per il nostro intelletto, per la morale, la salute e la prosperità. Avevamo fatto un passo avanti nel progresso e avevamo adottato il «Termine fisso». Poi, per ordine di questo giovane, un Leviatano di guerra doveva essere inviato per distruggerci, a meno che non avessimo acconsentito ad abbandonare le amate convinzioni dei nostri cuori. Mentre ci pensavo, camminando lungo la strada, al braccio di Jack, dovetti chiedere a me stesso se davvero il «Termine fisso» fosse una

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amata convinzione dei nostri cuori. Lo era senza dubbio di alcuni ed ero stato in grado, grazie all’intensità della mia volontà e anche, in parte, grazie alla cupidigia e alla fretta dei giovani, di far sì che i miei desideri prevalessero nella comunità. Ma non ritengo di essermi dato allo sfruttamento di questa cupidigia con il fine di raggiungere uno scopo che credevo essere del tutto positivo. Ma questa convinzione sentita nel cuore non era stata forte nella gente. Fui costretto ad ammetterlo. Era stata davvero forte in qualcuno, oltre che in me? Non ero nella posizione di un pastore che guida il gregge in un pascolo per esso sgradevole? Pascetevi, oh pecore e amerete il cibo a tempo debito, voi o gli agnelli che verranno dopo di voi! Quale gregge pascolerebbe in prati insipidi senza altre speranze se non queste che gli erano state date? Eppure ero nel giusto. Il pascolo era il migliore che l’ingegno umano avesse trovato per il mantenimento del gregge. «Jack», dissi, «che povero stupido romantico sei!». «Oso dire che lo sono», disse Jack teneramente. «Tu anteponi i baci di una ragazza carina, che forse potrà essere per te una buona moglie, come pure una cattiva, a tutto il mondo in armi». «Sono del tutto certo di ciò», disse Jack. «Certo di cosa?» «Che non vi è un giovane in tutta Britannula che avrà una moglie come Eva». «Ciò significa che tu sei innamorato. E poiché tu sei innamorato, devi buttare all’aria non solo tuo padre, perché in questa faccenda non conta nulla...» «Sì che conta. Ci ho pensato tanto». «Ti sono molto obbligato. Ma tu stai per metterti contro al più grande movimento in favore della razza umana da secoli; ti stai mettendo contro...» «Galileo e Colombo», disse, citando le mie parole con grande crudeltà. «Il moderno Galileo, signore; il Colombo di quest’epoca. E tu stai per conquistarli! Io, il padre, devo sottomettermi a te, il figlio. Io, il Presidente di cinquantasette anni, a te, lo scolaro di ventuno. Io, il pensatore, a te, il ragazzo irriflessivo. Mi congratulo con te, ma non mi congratulo col mondo per l’estrema follia che ancora guida le sue azioni». Poi lo lasciai e mi recai nella camera dell’Esecutivo, sedendomi e piangendo nell’agonia del mio cuore infranto.

IX. IL NUOVO GOVERNATORE

«Così», dissi fra me e me, «a causa di Jack e del suo amore, tutte le aspirazioni della mia vita devono essere distrutte! Il sogno di tutta la mia esistenza, che è giunto così vicino al coronamento, deve essere violentemente infranto per il fatto che il mio stesso figlio e Sir Kennington Oval hanno deciso fra loro che una bella ragazza deve aver la meglio». Pensandoci bene, sembrava che vi fossero una crudeltà e una potenza mostruose nella Sorte, ma questa non avrebbe mai permesso che esse venissero esercitate in un mondo che non fosse del tutto consegnato all’ingiustizia. Era per questa ragione che avevo pianto. Avevo pianto al pensiero che lo spirito di onestà avesse fino a oggi prevalso così poco nel mondo. Qui, nelle nostre acque, era alla fonda un terribile motore della potenza britannica, inviato da un Ministro del Gabinetto inglese − il cosiddetto Ministro della Benevolenza, per un amaro caso − su istanza del nipote di quel Ministro, con lo scopo di abbattere con la forza bruta il progetto assolutamente più benevolente per il governo del mondo che la mente dell’uomo abbia mai progettato. Era questo colpo che mi dava agonia. Rimasi lì solitario per molte ore, ma devo riconoscere che prima di lasciare le stanze mi ero gradualmente volto a guardare alla questione sotto un’altra luce. Se Eva Crasweller non fosse stata bella, se Jack fosse andato ancora a scuola, se Sir Kennington Oval fosse restato in Inghilterra, se il signor Bunnit e il barista non fossero riusciti a fermare la carrozza sulla collina, sarei riuscito a organizzare la dipartita finale del mio vecchio amico? Era questa la domanda che dovevo fare a me stesso. E anche se fossi riuscito a portare il mio successo fino a quel punto, non sarei apparso come un assassino ai miei concittadini? E la sua dipartita sarebbe stata seguita regolarmente da quella di tutti gli altri finché non fosse arrivato il mio turno? Se Crasweller fosse dipartito e il sistema fosse stato fermato, non sarei sembrato un assassino persino a me stesso? E quale speranza poteva esserci, quale ragionevole aspettativa che al sistema sarebbe stato concesso di giocare lealmente?

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Si deve capire che io, io stesso, non ho mai vacillato neanche per un momento. Ma sebbene sia stato forte abbastanza per dare origine all’idea, non lo sono stato altrettanto per sopportare la terribile durezza delle opinioni di quelli intorno a me quando avrei dovuto esercitare gli obblighi della nuova legge contro coloro che mi erano cari. Se con lo spirito potessi saltare un arco di trent’anni e venire io stesso depositato, vedrei la mia memoria immortalata insieme a coloro che hanno fatto grandi cose per i loro concittadini. Colombo e Galileo, Newton e Harvey e Wilberforce e Cobden e quel grande Banting1, che ci ha preservato tutti dagli orrori dell’obesità, non verrebbero nominati con onore più glorioso di quello tributato al nome di Neverbend. Questa era stata la mia ambizione. Questa era stata la mia speranza. Tuttavia è necessario che un’intera epoca venga elevata al livello del riformatore prima che vi sia uno spazio sufficientemente ampio per le sue operazioni. Se il telegrafo fosse stato inventato all’epoca dell’antica Roma, i romani l’avrebbero accettato o avrebbero lapidato Wheatstone2? Così pensando, decisi che ero in anticipo sul tempo e che ne dovevo pagare lo scotto. Al mio arrivo a casa trovai il nostro salone pieno di una brillante compagnia. Di solito non usavamo quella stanza, ma entrando in casa avevo sentito il parlottio della conversazione ed ero entrato. Seduto lì c’era il Capitano Battleax, bello nel suo tricorno, spalline e passamaneria d’oro. Si alzò per venirmi incontro e vidi che era un uomo alto e bello di circa quarant’anni, con un viso determinato e un sorriso ammaliante. «Signor Presidente», mi disse, «sono al comando della cannoniera di sua Maestà la John Bright e sono venuto a porgere i miei rispetti alle signore».

1 Alle figure universalmente note di Colombo, Galileo e Newton, Trollope affianca, con ironia, personaggi meno noti ma importanti nel retroterra storico e culturale inglese, per i risultati da essi ottenuti in campo sociale e politico − fondamentali e strettamente associati per Trollope −, e in quello scientifico, in cui progressi sostanziali si sarebbero concretizzati subito dopo la morte dell’autore. Così, William Harvey (1578-1657) deve la sua fama di medico alla scoperta della circolazione del sangue di cui venne dato annuncio nel saggio De motu cordis del 1628, tradotto poi in inglese nel 1653. Fu medico dei re James I e Charles I. William Wilferforce (1759-1833), membro del Parlamento associato a Pitt il giovane, fu un riformatore noto per la sua battaglia per l’abolizione del commercio degli schiavi che sfociò prima in un decreto promulgato nel 1807 che metteva fuori legge tale pratica nell’Indie occidentali inglesi e poi, dopo campagne allargate in tutto l’impero britannico, nello Slavery Abolition Act del 1833. Richard Cobden (1804-1865), fu uno dei più influenti portavoce del movimento per il libero mercato in Inghilterra. Dal 1838, insieme a John Bright, capitanò con successo la Lega contro la Corn Law. William Banting (1797-1878) è autore del «pamphlet» Letter on Corpulence in cui propone una delle prime diete dimagranti che Trollope stesso seguì per cercare di ridurre il suo peso considerevole. 2 Sir Charles Wheatstone (1802-1875), fisico, inventore e costruttore di strumenti musicali, è noto soprattutto per aver dato impulso alla telegrafia sottomarina e aver sviluppato negli anni ’30 dell’ottocento il telegrafo elettrico in collaborazione con Sir W.F. Cooke. Oltre a progettare il ponte Wheatstone, uno strumento per misurare la resistenza elettrica, inventò anche lo stereoscopio e il reostato.

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«Sono certo che le signore hanno un grande piacere nel vedervi». Guardai intorno alla stanza e là, con altri dei nostri bei concittadini, vidi Eva. Mentre parlavo gli feci un grazioso inchino, mostrandogli, credo, in questo modo di non avere alcun rancore personale nei suoi confronti. «Sono giunto sulle vostre rive, signor Presidente, con l’intento di vedere come procedono le cose in questo distante quartiere del mondo». «Le cose, Capitano Battleax, procedevano piuttosto bene prima di questa mattina. Abbiamo le nostre piccole lotte qui come altrove e non si può fare ogni cosa all’acqua di rose. Ma in generale siamo una popolazione prospera e soddisfatta». «Completamente soddisfatta», disse Eva. «Sono certo che siamo tutti deliziati di sentire le signore parlare in modo così piacevole», disse il tenente di vascello in prima Crosstrees, un ufficiale con il quale da allora sono entrato particolarmente in confidenza. Vi fu poi una piccola pausa nella conversazione e mi sentii in obbligo di dire qualcosa riguardo alla violenta interruzione cui ero stato sottoposto questa mattina. Qualcosa che, tuttavia, doveva essere scherzosa nella sostanza. Con tale compagnia non dovevo affatto mostrare i sentimenti forti che mi pervadevano la mente. «Avvertirete, Capitano Battleax, che vi è una piccola differenza di opinione fra noi tutti riguardo alla cerimonia che si sarebbe dovuta svolgere questa mattina. Le signore, in accordo con quella tenerezza di cuore che è loro caratteristica, stanno da una parte e gli uomini, dai quali il mondo deve essere gestito, stanno dall’altra. Senza dubbio, col procedere del tempo, le donne seguiranno...» «I loro padroni», disse la signora Neverbend. «Di certo lo faremo quando dovremo sacrificare soltanto noi stesse, ma mai quando la questione riguarda i nostri mariti, i nostri padri e i nostri figli». Questo fu un bel discorso, che ricevette i complimenti entusiasti degli ufficiali della John Bright. «Non intendevo», disse il Capitano Battleax, «toccare argomenti pubblici in un momento tale. Sono qui soltanto per porgere i miei rispetti come messaggero dalla Gran Bretagna a Britannula, per congratularmi con voi tutti per la vostra recente vittoria a cricket e per dirvi quanto siano grandi gli elogi diretti al signor John Neverbend junior per la sua abilità e il suo valore. La potenza del suo braccio è già argomento di discussione in tutti i club e i salotti in patria. Avevamo ricevuto tutti i dettagli del caso via idrogramma prima che la John Bright partisse. Signora Neverbend, dovete davvero essere orgogliosa di vostro figlio». Jack era rimasto in piedi nell’angolo della stanza a parlare con Eva ed era ora ridotto al silenzio dalle lodi. «Sir Kennington Oval è un bravissimo giocatore», disse mia moglie. «E il mio Lord Marylebone si comporta quasi come un pari inglese», disse la moglie del sindaco di Gladstonopoli, una signora che egli aveva sposato in Inghilterra, e che là non aveva frequentato l’alta società. Cominciammo quindi a pensare all’ospitalità dell’isola e gli ufficiali della

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John Bright furono invitati a cenare con noi il giorno seguente. Mia moglie ed io e i due Crasweller e tre o quattro altri accettammo di cenare a bordo della nave il giorno ancora successivo. A me personalmente fu mostrata un’estrema cortesia. Sembrava mi trattassero con onore quasi regale. Ritenevo che ciò mi fosse tributato in quanto Presidente della Repubblica e mi sforzai di comportarmi con umiltà combinata alla dignità che si addice a una simile occasione, ma non potevo non sentire che la semplicità della mia vita ordinaria veniva privata di qualcosa. Nella fretta del momento mia moglie riuscì ad offrire ai gentiluomini un’ottima cena. Inclusi il cappellano e il chirurgo, erano in dodici, ed ella chiese a dodici tra le più carine ragazze di Gladstonopoli di venire a conoscerli. Questa, disse, era vera ospitalità e non sono sicuro di non essere d’accordo con lei. Poi vi erano tre o quattro uomini di punta della comunità, con le loro mogli, che erano per la maggior parte i padri e le madri delle giovani signore. Ci sedemmo a cena in trentasei e penso che si sia data prova di una grande distanza da quei soliti banchetti coloniali nei quali soltanto gli anziani sono invitati a incontrare gli ospiti illustri. Gli ufficiali erano principalmente giovani e non si era mai sentita una babele di voci provenire da una sala banchetti più grande di quella che si sentiva dal nostro tavolo. Eva Crasweller fu la regina della serata ed era così gioiosa, bella e piena di spirito come sempre dovrebbe essere una regina. Una o due volte, durante il festeggiamento, diedi un’occhiata al vecchio Crasweller. Egli rimase quieto e posso dire quasi silenzioso durante tutta la serata; ma dalla sua espressione alterata potevo vedere quanto forte sia la passione per la vita che dimora nel cuore umano. «La vostra promessa sposa sembra fare di testa propria», disse il capitano Battleax a Jack quando le signore si erano ritirate. «Si», disse Jack, «e io non sono che fra gli ultimi. Ma intendo guadagnare i miei inning presto». Di quello che la signora Neverbend aveva fatto per fornire uccelli, bestie e pesci, per non parlare di crostate e marmellate per la cena di quel giorno, nessuno tranne me può averne un’idea; ma bisogna ammettere che ha assolto il suo compito con un successo completo. Mi fu anche detto che, dopo che gli inviti erano stati scritti, nessuna modista a Britannula poté dormire un solo momento se non mezz’ora prima che le signore fossero riunite nel nostro salone; ma anche i loro sforzi ebbero un notevole successo. Il giorno successivo alcuni di noi andarono a bordo della John Bright per una cena che gli ufficiali resero molto piacevole. La vita a bordo della John Bright è estremamente buona, come ho avuto occasione di apprendere dalle molte cene consumatevi da quel giorno. Quando mi sedetti alla destra del capitano Battleax, in quanto Presidente della Repubblica, con mia moglie alla sua sinistra, non pensai che avrei trascorso più di un mese a bordo della nave o che vi avrei scritto questo resoconto di tutti i miei pensieri e di tutti i miei guai rispetto al «Termine fisso». Dopo cena il capitano Battleax propose un brindisi alla mia salute, offrendomi molti complimenti insignificanti, nei quali tuttavia osservai che non veniva fatto alcun riferimento agli atti speciali

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della mia presidenza. Ed egli terminò dicendo che, sebbene per cortesia e con la più grande alacrità possibile aveva brindato alla mia salute, non mi avrebbe chiesto di replicare. E sedendosi immediatamente si alzò un gentiluomo al quale non ero stato in precedenza presentato e che brindò alla salute della signora Neverbend e delle signore di Britannula. Ora, nonostante ciò che il capitano aveva detto, avevo indubbiamente intenzione di fare un discorso. Quando si brinda in favore del Presidente della Repubblica, credo sia suo compito farlo. Ma a questo punto il gentiluomo si alzò con una rapidità che sembrava essere premeditata. Ad ogni modo la mia eloquenza fu del tutto bloccata. Il gentiluomo si chiamava Sir Ferdinando Brown. Vestiva in modo semplice, di nero e chiaramente non era uno degli ufficiali della nave. Ma non potevo che sospettare in quel momento che egli fosse in qualche misura speciale coinvolto nella missione per la quale era stata inviata la cannoniera. Sedeva alla sinistra della signora Neverbend. In qualche modo pareva che in quell’occasione egli fosse il capo. Tuttavia brindò alla salute della signora Neverbend e delle signore e il capitano immediatamente chiamò la banda a suonare qualche melodia prediletta. Dopodiché non vi fu alcun tentativo di prendere la parola. Sedemmo con gli ufficiali ancora un po’ di tempo dopo cena e poi andammo a riva. «Sir Ferdinando ed io», disse il capitano mentre ci davamo la mano, «ci faremo l’onore di farvi visita alle camere dell’Esecutivo domani mattina». Andai a letto a casa con un cattivo presentimento che mi attraversava il cuore. Un presentimento davvero! Quanto male, quanto male reale, mi era capitato negli ultimi pochi giorni. Ogni speranza per la quale avevo vissuto, come dissi a me stesso, era stata portata a improvvisa estinzione dall’arrivo di questi uomini con i quali ero stato così affabile e che, a loro volta, erano stati tanto affabili con me. Cosa potevo fare ora se non stendermi e morire? E la morte della quale avevo sognato non poteva, ahimè, essere quella vera morte intorpidente che noi pensiamo possa porre fine o, ad ogni modo, dare un cambiamento a tutti i nostri pensieri. Morire non sarebbe nulla, ma vivere come l’ultimo Presidente della Repubblica che ha spinto le sue aspirazioni tanto in alto sarebbe davvero una reale tristezza. Come Presidente avevo ancora due anni, ma mi accorsi ora che non potevo proprio tollerare quei due anni di prolungato potere nominale. Sarei stato lo zimbello della gente e, come tale, sarebbe stato appropriato per me nascondere il capo. Quando questo capitano se ne fosse ritornato in Inghilterra insieme con il suo vascello mi sarei ritirato in una piccola fattoria che possedevo nell’estremità più remota dell’isola e là, in isolamento, avrei terminato i miei giorni. La signora Neverbend sarebbe venuta con me, o sarebbe rimasta, se così le avesse fatto piacere, a Gladstonopoli. Jack sarebbe divenuto il felice marito di Eva e sarebbe rimasto in mezzo ai frettolosi doveri del mondo bramoso. Crasweller, il trionfatore, sarebbe vissuto e infine morto tra le greggi e le mandrie di Little Christchurch. Anch’io avrei avuto una piccola mandria e un piccolo gregge, circondato da nessuna delle glorie di Little Christchurch, non dovendo nulla

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alla ricchezza, allo scenario e al circondario, e là, finché Dio non mi avesse preso, avrei trascorso le serate dei miei giorni. Pensando a tutto questo andai a dormire. La mattina seguente Sir Ferdinando Brown e il capitano Battleax furono annunciati nelle stanze dell’Esecutivo. Ero già al lavoro da un paio d’ore, ma Sir Ferdinando si scusò per la precocità della sua visita. Mi sembrò, nel momento in cui entrò nella stanza e prese la sedia che gli venne offerta, che nell’occasione fosse l’uomo più importante dei due, o forse dovrei dire dei tre. Eppure non era venuto a riva prima per farmi visita, né l’aveva fatto in occasione della nostra piccola cena. «Signor Neverbend», cominciò il capitano − e io osservai che fino a quel momento si era generalmente rivolto a me come Presidente − «non si può negare che siamo venuti qui per una spiacevole missione. Voi ci avete ricevuti con tutta quella cortesia e ospitalità per la quale il vostro carattere viene tanto considerato in Inghilterra. Ma dovete comprendere che è stata nostra intenzione interferire in ciò che voi dovete considerare come l’esecuzione di un dovere». «È un dovere», dissi io. «Ma il vostro potere è così superiore a qualsiasi altro che io posso spingermi fino al punto di sentire che non vi è ignominia nel cedere ad esso. Quindi possiamo essere cortesi mentre ci sottomettiamo. Non vi è alcun dubbio che, se la vostra forza fosse stata solo doppia o tripla rispetto alla nostra, avrei ritenuto mio dovere combattere contro di voi. Ma come può un piccolo stato, vecchio di pochi anni, situato su una piccola isola remota da tutti i centri di civiltà, contendere su qualsiasi questione con il proprietario di un grande cannone brandeggiabile da 250 tonnellate?» «Ciò è del tutto vero, signor Neverbend», disse Sir Ferdinando Brown. «Posso permettermi di sorridere, perché sono assolutamente impotente di fronte a voi; ma non di meno sento che in una questione nella quale il progresso del mondo è coinvolto io, o piuttosto noi, siamo stati abbattuti con forza bruta. Siete venuti da noi minacciandoci di distruzione assoluta. Che il vostro cannone sia carico o meno importa poco». «È certamente carico», disse il capitano Battleax. «Allora avete sprecato la vostra polvere da sparo. Come un bandito, sarebbe stato per voi sufficiente dire al debole e al codardo che la vostra pistola avrebbe potuto sparare al bisogno. Per dire la verità, capitano Battleax, non penso che voi ci superiate nel coraggio più di quanto facciate nel pensiero e nella saggezza pratica. Quindi mi sento del tutto in grado come Presidente della Repubblica di ricevervi con tutta la cortesia dovuta ai servitori di un alleato amico». «Molto ben detto», disse Sir Ferdinando. Semplicemente gli accennai un inchino. «E ora», continuò, «volete rispondere ad una mia domanda?» «A una dozzina, se vi aggrada». «Il capitano Battleax non può rimanere qui a lungo con quel gioco costoso che tiene chiuso a chiave da qualche parte tra i suoi tricorni e guanti bianchi. Vi posso assicurare che non ha permesso neppure a me di vedere l’inne-

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sco da quando sono a bordo. Ma i cannoni da 250 tonnellate costano soldi e la John Bright deve andarsene via e fare la sua parte in altre regioni del globo. Che cosa intendete fare quando avrà messo via la sua pistola da tasca?» Pensai un poco a quale risposta mi convenisse dare a questa domanda, ma esitai solo per un istante o due. «Procederò immediatamente ad eseguire il «Termine fisso». Sentivo che il mio onore richiedeva che non dessi altra risposta. «E questo in opposizione ai desideri, da quanto capisco, di una larga parte dei vostri concittadini?» «I desideri dei nostri concittadini sono stati dichiarati da ripetute maggioranze nella nostra Assemblea». «Avete soltanto una Camera nella vostra Costituzione», disse Sir Ferdinando. «Una Camera ritengo sia del tutto sufficiente». Stavo per procedere a spiegare la teoria sulla quale la Costituzione britannula era stata formata, quando Sir Ferdinando mi interruppe. «A ogni modo ammetterete che non c’è una seconda Camera che controlli le azioni improvvise della prima. Ma non dobbiamo discutere di ciò ora. È vostro proposito dare esecuzione al ‘‘Termine fisso’’ non appena la John Bright sarà partita?» «Certamente». «E voi siete, sono consapevole, sufficientemente popolare tra le persone qui per essere in grado di farlo?» «Penso di esserlo», dissi, con una modesta indulgenza verso un’asserzione che sentivo essere tanto a mio onore. Ma arrossii per la sua falsità. «Quindi», disse Sir Ferdinando, «non vi è altro da fare se non che egli vi porti con sé». Ebbi uno shock improvviso quando sentii queste parole che eccedevano qualunque cosa avessi provato fino ad allora. Io, il Presidente di una nazione straniera, il primo ufficiale di un popolo con il quale la Gran Bretagna era in pace, sarei stato condotto via da un capitano di una delle loro cannoniere, trascinato via come un prigioniero, non sapevo dove, e avrei lasciato il Paese ingovernato senza un Presidente ancora eletto a prendere il mio posto! Ed io, guardando la questione dal mio punto di vista, ero un marito, un capo famiglia, un uomo grandemente impegnato negli affari, e dovevo essere condotto via in catene, io, che non avevo fatto nulla di sbagliato, che non avevo disobbedito ad alcuna legge, che ero stato veramente notevole per la mia aderenza ai miei doveri! Nessuna opposizione mai mostrata a Colombo e Galileo si era avvicinata a questa per audacia e oppressione. Io, il Presidente di una Repubblica libera, l’eletto di tutto il suo popolo, il depositario scelto della sua vita ufficiale, dovevo essere rapito e portato via in una nave da guerra perché, udite bene, ero ritenuto troppo popolare per governare il paese! E ciò mi fu detto nella mia stanza nelle camere dell’Esecutivo, nel vero santuario della vita pubblica, da uno stolto florido gentiluomo in cappotto nero, del

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quale fino ad ora non sapevo nulla ad eccezione del fatto che il suo nome era Brown! «Signore», dissi dopo una pausa, voltandomi verso il capitano Battleax e rivolgendomi a lui, «non posso credere che voi, come ufficiale della Marina britannica, possiate commettere un atto di tirannia tanto oppressivo e di ingiustizia così grossolana quanto quella che ha nominato questo gentiluomo». «Avete sentito che cosa ha detto Sir Ferdinando Brown», replicò il capitano Battleax. «Non conosco il gentiluomo, se non perché gli sono stato presentato alla vostra tavola ospitale. Sir Ferdinando Brown è per me semplicemente Sir Ferdinando Brown». «Sir Ferdinando è stato recentemente il nostro Governatore ad Ashanti, dove, in verità, devo dire che ha ottenuto un’alta considerazione da ogni sorta di persone3. Ora è stato inviato qui per questa delicata missione e non poteva essere affidata a nessuno che la eseguisse con onore più scrupoloso». Questa era semplicemente l’opinione del capitano Battleax, per giunta espressa in presenza del gentiluomo stesso che egli lodava tanto. «Ma qual è la delicata missione?», chiesi. Allora Sir Ferdinando raccontò la sua storia per intero, storia che, penso, avrebbe dovuto essere esposta prima che mi venisse chiesto di sedermi a cena con lui in compagnia del capitano a bordo della nave. Dovevo essere portato via, in Inghilterra o in qualsiasi altra parte, o annegato durante il viaggio, questo non importava. Quello era il primo passo da effettuarsi verso l’esecuzione dell’intenzione tirannica, illegale e del tutto ingiuriosa del Governo britannico. Poi la Repubblica di Britannula doveva essere dichiarata inesistente, la bandiera britannica sarebbe stata innalzata e un Governatore britannico si sarebbe installato nelle camere dell’Esecutivo! Quel Governatore avrebbe dovuto essere Sir Ferdinando Brown. Ero perso in un labirinto di stupore mentre tentavo di guardare a ciò che accadeva tutt’intorno. Ora, sul finire del ventesimo secolo, si poteva portare l’oppressione a tali altezze? «Signori», dissi, «voi siete potenti. Quel piccolo strumento che avete nascosto nella vostra cabina vi rende padroni di noi tutti. È stato preparato per l’ingenuità degli uomini, in grado di dominare la materia sebbene del tutto impotente sulla mente. Su di me, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, sarebbe inefficace. Anche se mi riduceste in atomi, da essi salterebbero fuori quelle opinioni che basterebbero a zittire la vostra artiglie-

3 Citazione da Macbeth (I. vii, 32-33) non inserita fra virgolette probabilmente perché assolutamente riconoscibile come tipica formula shakespeariana per introdurre formalmente un eminente personaggio che, a dispetto della sua fama e indubbia competenza, combinerà qualche malefatta che lo rivelerà come villain o andrà incontro al suo destino di eroe tragico.

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ria. Ma la paura di esso è per la maggioranza molto più potente della realtà del suo possesso». «Potete essere del tutto sicuro che c’è», disse il capitano Battleax, «e che io posso usarlo in modo da cancellare metà della vostra città in due minuti dal mio ritorno a bordo». «Voi vi proponete di rapirmi», dissi. «Che cosa accadrebbe del vostro cannone se io dovessi rapire voi?» «Il tenente di vascello Crosstrees ha degli ordini sigillati e ha una conoscenza pratica dei meccanismi del cannone. Il tenente di vascello Crosstrees è un ufficiale molto valoroso. Uno di noi rimane sempre a bordo mentre l’altro è a terra. Non ci penserebbe un istante a farmi saltare in aria, se dovesse eseguire degli ordini». «Stavo per osservare», continuai, «che, benché questo potere sia nelle vostre mani e in quelle del vostro paese, il suo esercizio tradisce non soltanto una disposizione tirannica, ma povertà e meschinità di spirito». E qui mi inchinai prima a un gentiluomo e poi all’altro. «È semplicemente una contesa tra la forza bruta e l’energia mentale». «Se guardate alle contese nel mondo», disse Sir Ferdinando, «scoprirete generalmente che il rispetto maggiore viene tributato ai battaglioni più grandi». «Quale globale iniquità disvela tale discorso!», dissi rivolgendomi ancora al capitano, perché, benché avrei distrutto entrambi con le mie mani se avessi potuto, il mio disgusto si incentrava soprattutto su Sir Ferdinando. Era un uomo che sembrava pensare che tutto dovesse cedere alla sua povera filosofia e mi sembrava che godesse all’esercizio della tirannia che il caso aveva messo in suo potere. «Mi permetterete di suggerire», disse, «che questa è una questione di opinione. Nel frattempo il mio amico capitano Battleax ha sotto di sé una guardia di cinquanta marinai che vi tributeranno il rispetto di scortarvi a bordo con due lance della nave. Tutto ciò che può essere fatto per la vostra sistemazione e la vostra comodità, ogni lusso che può essere fornito per allietare il Presidente di questa recente Repubblica, sarà fornito. Ma, Signor Neverbend, è necessario che voi andiate in Inghilterra, e permettetemi di assicurarvi che la vostra dipartita non può essere prevenuta né ritardata da parole incivili pronunciate nei confronti del futuro Governatore di questa prospera colonia». «Le mie parole sono, in ogni caso, meno incivili dei marinai del capitano Battleax ed esse, ammetto, sono state rese necessarie dalla condotta del vostro paese in questa circostanza. Se dovessi ubbidire ai vostri ordini senza esprimere la mia opinione, sembrerebbe che io l’abbia fatto volontariamente. Io dico che il Governo inglese è un tiranno e che voi siete gli strumenti della sua tirannia. Ora potete procedere a fare il vostro lavoro». «Avendo sistemato tutto così piacevolmente», disse Sir Ferdinando con un sorriso, «vi chiederò di leggere il documento con il quale questo dovere è

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stato posto nelle mie mani». Prese quindi dalla tasca una lettera a lui indirizzata dal Duca di Hatfield in quanto Ministro delle Colonie della Corona, e me la porse affinché io la leggessi. La lettera diceva così: Ufficio coloniale, Colonie della Corona, 15 maggio 1980 Signore, ho in ordine di informare Vostra Eccellenza che siete stato nominato Governatore della Colonia della Corona denominata Britannula. Le circostanze peculiari della colonia sono a conoscenza di Vostra eccellenza. Qualche anno fa, dopo la separazione della Nuova Zelanda, gli abitanti di Britannula richiesero che venisse loro concesso di gestire i loro affari e il Ministro di Sua Maestà dell’epoca ritenne opportuno acconsentire alla loro richiesta. Il paese da allora ha indubbiamente prosperato e da un punto di vista materiale non ci ha dato ragioni di rammarico. Ma nella loro scelta di una Costituzione i Britannuli si sono sfortunatamente concessi soltanto un’assemblea deliberativa e da questo fatto sono derivate le loro difficoltà attuali. Si dà il caso che, in tali circostanze, crudeli consigli debbano passare come leggi senza la salvaguardia che viene dall’ulteriore discussione e riflessione. Al momento presente è stata approvata una legge che, se portata in azione, diverrebbe ripugnante per l’umanità in generale. Contempla di distruggere tutti coloro che avranno raggiunto una certa età stabilita. Gli argomenti avanzati per giustificare una misura tanto strana non occorre che io spieghi qui per esteso. Si fonda sulla riconosciuta debolezza di coloro che sopravvivono a quel periodo di vita nel quale gli uomini cessano di lavorare. Questa dottrina terribile è stata adottata su proposta di un eloquente cittadino della Repubblica, che al momento è il suo Presidente, la cui generale popolarità sembra essere così grande che, in accordo con le sue opinioni, persino questa misura verrà realizzata a meno che la Gran Bretagna non interferisca. Si desidera che voi procediate immediatamente alla volta di Britannula per riannettere l’isola e assumerne i compiti di Governatore propri di una colonia della Corona. Sembra di capire che un anno di prova sarà concesso a quelle vittime che hanno acconsentito alla loro immolazione. Arriverete, dunque, là con ampio anticipo per prevenire questo spargimento di sangue. Ma si presuppone che troverete delle difficoltà sulla vostra strada per entrare in controllo del Governo. Così grande è la popolarità del loro Presidente, il signor Neverbend, che se egli venisse lasciato sull’isola Vostra Eccellenza avrebbe un pericoloso rivale. Si desidera pertanto che voi tentiate di ottenere informazioni sulle sue intenzioni e che, se il «Termine fisso» non viene abbandonato del tutto con chiara convinzione sulla sua crudeltà da parte degli abitanti in generale, dovrete far sì che egli sia catturato e condotto in Inghilterra. Per mettervi in grado di effettuare ciò, il capitano Battleax della cannoniera di Sua Maestà, la John Bright, ha avuto istruzioni di condurvici. La

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John Bright è armata con un’arma di grande potenza contro cui è impossibile che la popolazione di Britannula possa prevalere. Porterete con voi cento uomini del reggimento Birmingham Nord-nord-ovest, che probabilmente sarà sufficiente alla vostra sicurezza, in quanto si pensa che, se il signor Neverbend verrà fatto espatriare, la popolazione ritornerà facilmente alla proprie vecchie abitudini di obbedienza. Riguardo allo stesso signor Neverbend è desiderio speciale del governo di Sua Maestà che egli venga trattato con tutto il rispetto e che gli vengano tributati quegli onori dovuti al Presidente di una Repubblica amica. Ci si aspetta che non si concederà una visita forzata in Inghilterra senza una qualche opposizione, ma si considera tanto essenziale nell’interesse dell’umanità che questo schema del «Termine fisso» non sia eseguito, che il governo di Sua Maestà prevede di garantire per qualche tempo la sua assenza da Britannula. Voi la garantirete, dunque, ma baderete che, per quanto è nel potere di Vostra Eccellenza, egli sia trattato con tutto il rispetto e l’ospitalità che gli sarebbe dovuta se fosse ancora il Presidente di una Repubblica alleata. Il capitano Battleax della John Bright riceverà una lettera allo stesso scopo dal primo Lord dell’Ammiragliato e voi lo troverete pronto a cooperare con Vostra Eccellenza in ogni riguardo. Ho l’onore di essere, Signore, il più obbediente servitore di Vostra Eccellenza, Hatfield4 Lessi ciò con grande attenzione mentre sedevano in silenzio. «Capisco, e penso che ciò sia tutto quello che occorre dire sull’argomento. Quando intendete far partire la John Bright?» «Abbiamo già acceso i fuochi e i nostri marinai stanno levando le ancore. Mezzogiorno vi aggrada?» «Oggi!», gridai. «Penso che dobbiamo muoverci oggi», disse il capitano. «Se è così, dovrete accontentarvi di prendere il mio cadavere. Sono quasi le undici ora». «Le dieci e trenta», disse il capitano guardano il suo orologio. «E non ho nessuno pronto al quale possa passare gli archivi del governo». «Sarò felice di incaricarmene», disse Sir Ferdinando. «Senza dubbio, non sapendo nulla delle forme del nostro governo, o ...». «Naturalmente devono essere tutte cambiate». «O delle abitudini del nostro popolo. È del tutto impossibile. Anch’io ho i complicati affari di tutta la mia vita da sistemare e mia moglie e mio figlio

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Vi è in questa lettera tutta l’ironia dell’autore verso le carte bollate e, in generale, il registro formale della politica.

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da lasciare ... sebbene non dovrei neppure per un momento mettere avanti queste questioni private quando il servizio pubblico è coinvolto. Ma il tempo che voi indicate è così irragionevole da generare un sentimento d’orrore verso la vostra tirannia». «Un sentimento d’orrore si creerebbe dall’altra parte dell’oceano», disse Sir Ferdinando, «all’idea di quello che potreste fare se ci scappate. Non considererei sicura la mia testa sulle mie stesse spalle se dovesse accadere che, mentre sono sull’isola, un vecchio andasse all’esecuzione in obbedienza al vostro sistema». Ahimè! Non potevo che sentire quanto poco sapeva del sentimento che prevaleva a Britannula, quanto falsa fosse l’idea del mio potere e quanto potente fosse quell’amore per la vita che si era manifestato in città quando l’ora della deposizione si era avvicinata. Difficilmente potevo spiegargli tutto ciò, in quanto gli avrei fornito la prova più forte contro la mia stessa filosofia. E tuttavia era necessario che dicessi qualcosa per fargli capire che questa improvvisa deportazione non era necessaria. In quel momento poi mi venne improvvisamente l’idea che potesse essere un bene che io compissi questo viaggio in Inghilterra e là cominciassi di nuovo la mia carriera, come Colombo dopo vari impedimenti aveva ricominciato la sua, e che dovevo tentare di trascinare con me il popolo della Gran Bretagna così come avevo già fatto con gli abitanti più intelligenti di Britannula. A tal fine ho preparato queste pagine, scrivendole a bordo della cannoniera di Sua Maestà, la John Bright. «Il vostro potere è sufficiente», dissi. «Non siamo sicuri di questo», disse Sir Ferdinando. «È sempre bene stare sul sicuro». «Siete così spaventato da quello che un solo vecchio può fare? Voi con il vostro cannone da 250 tonnellate e la vostra guardia di fanteria di mare e la vostra soldatesca del Birmingham Nord-nord-ovest?» «Dipende da chi e da cosa può essere il vecchio». Questo era il primo discorso elogiativo che Sir Ferdinando Brown faceva e devo confessare che era efficace. In seguito non sentii più per l’uomo quel disgusto che avevo provato prima. «Non desideriamo renderci sgradevoli nei vostri confronti, signor Neverbend». Mi strinsi nelle spalle. «Inutilmente sgradevoli, avrei dovuto dire. Siete un uomo di parola». A ciò mi inchinai. «Se ci darete la vostra promessa di incontrare qui il capitano Battleax a quest’ora domani, faremo uno strappo e ritarderemo la partenza della John Bright di ventiquattro ore». A ciò obiettai ancora violentemente e infine, come estremo favore, mi furono concessi due giorni interi. La maestria degli uomini versati negli affari del vecchio mondo orientale è nota. Imparai poi che i fuochisti a bordo della nave facevano soltanto finta di tenere accesi i loro fuochi e i marinai di levare le ancore, con lo scopo di rendere visibili le operazioni e far sì che io supponessi di aver ricevuto un grande favore dai miei nemici. E questo piano fu adottato anche per estorcermi la promessa che sarei partito in pace. Ad ogni modo feci la mia promessa

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e diedi ai due gentiluomini la mia parola che sarei stato presente nel mio ufficio nelle Stanze dell’Esecutivo alla stessa ora del giorno pattuito. «E ora», disse Ferdinando, «che questa questione è fra di noi sistemata, concedetemi di darvi il più cordialmente la mano e di esprimere la mia grande ammirazione per il vostro carattere. Non posso dire di essere d’accordo con voi in teoria riguardo al «Termine fisso». Mia moglie e i miei bambini non potrebbero, sono certo, sopportare di vedermi condurre via al sopraggiungere di un certo giorno. Ma posso capire che si può discutere molto su questo punto e ammiro molto l’eloquenza e l’energia che avete dedicato alla questione. Sarò felice di incontrarvi qui a qualsiasi ora domani e ricevere gli archivi di Britannula dalle vostre mani. Voi, signor Neverbend, sarete sempre considerato il padre del vostro paese. Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit»5. Con questo i due gentiluomini lasciarono la stanza.

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La citazione, che significa «La libera Roma definisce Cicerone padre della patria», è contenuta nelle Satire di Giovenale (viii, 244).

X. IL MUNICIPIO

Quando tornai a casa e dissi loro cosa si sarebbe dovuto fare, rimasero naturalmente sorpresi ma, apparentemente, non molto infelici. La signora Neverbend propose di accompagnarmi per potersi occupare della mia biancheria e di altre comodità personali. Ma io le dissi − vero o no che fosse, difficilmente lo sapevo allora − che non ci sarebbe stato posto per lei a bordo di una nave da guerra come la John Bright. Da che vivo a bordo ho scoperto che avrebbero facilmente sistemato, su mia richiesta, una famiglia molto più grande della mia. La signora Neverbend si mise subito al lavoro per provvedere alla mia assenza forzata e nel corso della giornata Eva Crasweller arrivò ad aiutarla. I modi di Eva nei miei confronti erano del tutto cambiati dalla mattina precedente. Nessuna poteva essere più affezionata, più graziosa o più ammaliante di lei ora ed io invidiai a Jack i brevi momenti di ritiro tête-à-tête che di quando in quando sembravano necessari per eseguire i preparativi della giornata. Si può anche dire che da questo momento Abraham Grundle si mostrò come un nemico dichiarato e che fra lui e Crasweller si sciolse la società. Intentò immediatamente una causa contro il mio vecchio amico per recuperare quella parte della sua proprietà che si riteneva gli fosse dovuta sulla base delle nostre leggi matrimoniali. Crasweller si offrì immediatamente di ripagargliela, ma alcuni dei nostri avvocati più rispettabili interferirono e lo persuasero a non fare tale sacrificio. Vi fu, quindi, una lunga causa, con un appello, entrambi sfavorevoli a Grundle, che quasi mandarono in rovina la sua famiglia. A me sembrava, per quanto potessi discernere addentro la faccenda, che Grundle avesse la legge tutta dalla sua parte; ma vennero sollevati cavilli e questioni, che Jack conosceva a menadito, dalla cui forza lo sfortunato giovane fu annientato. Da quanto appresi dalle lettere che Eva mi scriveva, Crasweller era stato per tutto il tempo ansioso di pagarlo. Ma gli avvocati non volevano e quindi quella parte di proprietà di Little Christchurch fu risparmiata a beneficio finale di quel felice ragazzo, Jack Neverbend.

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Nel pomeriggio di quel singolo giorno che per grazia mi era stato concesso, Sir Ferdinando Brown manifestò la sua intenzione di tenere un discorso per la popolazione di Gladstonopoli. Disse di essere desideroso di spiegare alla comunità intera gli obiettivi del governo di Sua Maestà nell’averlo inviato a Britannula e nel richiedere agli abitanti di ritornare alla loro vecchia forma di governo. «Richiesta davvero», dissi a Crasweller, gettando tutto il disprezzo possibile nel mio tono di voce, «richiesta! Con il reggimento Birmingham Nord-nord-ovest e il suo cannone brandeggiabile a vapore di 250 tonnellate nel porto! Quel Ferdinando Brown sa come nascondere i suoi artigli sotto un guanto di velluto. Dobbiamo essere schiavi, schiavi perché l’Inghilterra vuole così. Siamo derubati della nostra Costituzione, la nostra libertà d’azione ci viene tolta e siamo ridotti alla deplorevole condizione di una colonia della Corona britannica! E tutto ciò deve essere fatto perché ci siamo sforzati di sollevarci al di sopra dei pregiudizi dei tempi». Crasweller sorrise e non disse una parola per contrastarmi e accettò tutta la mia indignazione con assenso; ma non mostrava certamente entusiasmo. Un vecchio gentiluomo più felice o più attivo per i suoi anni non lo avevo mai conosciuto. Soltanto ieri lo avevo visto così assolutamente intimorito da non essere quasi capace di proferire parola. E tutto questo cambiamento era avvenuto semplicemente perché gli era concesso di morire fuori nel mondo aperto invece che di godere dell’onore di essere il primo ad andarsene in conformità con la nuova teoria. Lui ed io, comunque, trascorremmo così un giorno ancora in dolce amicizia ed io non dubito che quando ritornerò a Britannula lo troverò a vivere in grande agio a Little Christchurch. Alle tre andammo tutti al nostro grande municipio per sentire ciò che Sir Ferdinando Brown aveva da dirci. La stanza è molto spaziosa, corredata di un grande organo e tutto il necessario per una sala da musica, ma mai avevo visto una folla più grande di quella che vi si era raccolta in questa occasione. Non c’era un angolo libero ed io sentii che molti degli abitanti se ne erano andati molto dispiaciuti per non essersi potuti accomodare. Sir Ferdinando era stato molto scrupoloso nel chiedere la presenza del Capitano Battleax e di quanti ufficiali della nave si potevano reperire. Mi dissero che l’aveva fatto affinché un po’ dell’éclat della sua orazione potesse raggiungere l’Inghilterra. Sir Ferdinando era un uomo che confidava molto nella sua eloquenza e molto anche nel vantaggio che poteva mietere da essa nell’opinione dei suoi compatrioti in generale. Scoprii che mi era stato riservato un posto d’onore alla sua destra e uno per mia moglie alla sua sinistra. Devo confessare che in questi ultimi momenti del mio soggiorno fra la gente che avevo governato fui trattato con la più splendida cortesia. Ma, come continuavo a dire a me stesso, dovevo essere bandito nel giro di poche ore come uno le cui deliberate crudeltà erano troppo abominevoli perché gli si consentisse di rimanere nel proprio paese. Nel primo posto dietro la sedia sedeva il Capitano Battleax, con quattro o cinque dei suoi ufficiali alle sue spalle. «Così avete lasciato il tenente di vascello Crosstrees al comando del vostro giocattolino», sussurrai al Capitano Battleax.

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«Con un cannocchiale», rispose, «con il quale potrà vedere se lasciate l’edificio. In quel caso ci farà esplodere tutti quanti in atomi». Allora Sir Ferdinando si alzò e cominciò il suo discorso. Non avevo mai sentito prima un saggio di quella speciale oratoria alla quale si poteva propriamente applicare l’epiteto di fiorita. Ha tutta la raffinatezza perfetta dell’Inghilterra, unita alla fervida immaginazione dell’Irlanda. Scorre senza pause e senza alcuna fine necessaria se non quella che può dettare la convenienza del tempo. Viene senza il minimo sforzo e va senza produrre alcun grande effetto. È dolce sul momento. Piace a molti e non offende nessuno, ma dopo difficilmente la si ricorda ed è efficace soltanto a lisciare in certa misura i modi grezzi di questo mondo aspro. Ho tuttavia osservato che in ciò che avevo letto dei dibattiti inglesi coloro che erano stati eloquenti secondo questa moda hanno generalmente un fermo proposito di interesse personale. Per questa occasione Sir Ferdinando si era vestito con cura minuziosa e, sebbene nell’ora precedente fosse stato molto diligente nel manipolare certi appunti, ora era attento a non mostrare pezzi di carta, ed io devo rendergli giustizia dichiarando che filava le parole dall’arcolaio della sua memoria come se gli venissero alla lingua tutte spontanee e pronte. «Signor Neverbend», disse, «gentili signore e signori, oggi ho per la prima volta il grande piacere di rivolgermi a un intelligente assembramento di cittadini di Britannula. Confido che, prima che la mia conoscenza di questa prospera comunità giunga al termine, potrò avere molte altre opportunità di rivolgermi a voi. È stato mio destino nella vita di servire la mia corona in varie parti del mondo e di rappresentare umilmente il trono d’Inghilterra in ogni quartiere del globo. Ma per ammessa testimonianza di tutte le popolazioni − i miei compatrioti in patria in Inghilterra e coloro che ugualmente sono miei compatrioti nelle colonie nelle quali sono stato mandato − si riconosce che in prosperità, intelligenza e civiltà non vi supera nessuna regione di lingua inglese del mondo. E se non qualcuno che parla inglese, chi potrà allora aspirare ad eccellere al di sopra di voi? Tale, come ho appreso, è stato il verdetto comunemente dato; e mentre mi guardo intorno in questa vasta stanza, in un luogo che cinquant’anni fa era sotto il dominio delle razze dei marsupiali, e vedo la bellezza femminile e la grazia maschile che mi salutano da ogni parte, posso ben credere che vi sia stato all’opera qualche capriccio particolarmente gentile della natura e che abbia teso a produrre una popolazione tanto forte quanto bella, d’ingegno intelligente e di azioni garbate». A questo punto, l’oratore fece una pausa e tutto il pubblico applaudì e batté i piedi, cosa che mi sembrò un modo molto improprio di testimoniare assenso agli elogi che gli erano rivolti. Ma Sir Ferdinando accettò tutto di buon grado e continuò il suo discorso. «Sono stato mandato qui, gentili signore e signori, per una missione particolare, per un compito su cui, sebbene desideri spiegarvi ogni dettaglio, trovo difficile dire una singola parola». «Termine fisso» gridò da una delle balconate una voce che riconobbi come quella del signor Tallowax. «Il mio ami-

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co in galleria», continuò Sir Ferdinando, «mi fa rammentare proprio quella parola con la quale mi sarei invano lambiccato il cervello. Il «Termine fisso» è l’oggetto sul quale sono stato chiamato a dirvi alcune parole, il «Termine fisso» e l’uomo che, credo, è stato fra voi l’autore principale di quel sistema di vivere e, se mi è permesso dirlo, anche di morire». Qui, l’oratore affievolì la sua voce in una cadenza malinconica, mentre volgeva lo sguardo verso di me e con una movenza gentile metteva la sua mano destra sulla mia spalla. «Oh, amici miei, è, a dir pochissimo di esso, un progetto sbalorditivo» «Insolito se foste voi il prossimo», disse Tallowax dalla galleria. «Sì, davvero», continuò Sir Ferdinando, «se il prossimo fosse il mio turno! Devo ammettere che sebbene considererei un affronto se mi dicessero che sono vigliacco, che mi saprei oggetto di malignità se mi dicessero che ho una paura codarda della morte, ancora mi sentirei lungi dall’essere a mio agio se giungessi all’età che questo sistema ha definito e se vivessi in un paese nel quale esso si è affermato. Benché confidi nel fatto che sarò in grado di incontrare la morte da uomo coraggioso quando arriverà, vorrei ancora che venisse per mano di Dio e non per la saggezza di un uomo. «Non ho nulla da dire contro la saggezza di quest’uomo», proseguì voltandosi ancora verso di me. «Conosco tutti gli argomenti con i quali si è fortificato. Sono giunti fino alle mie orecchie, ma mi azzardo a usare l’esperienza che ho raccolto in molti paesi per dirgli che, in accordo con i propositi di Dio, il mondo non è ancora maturo per la sua saggezza». Non potei fare a meno di pensare, mentre parlava così, che forse non era a conoscenza di tutti gli argomenti sui quali si fondava il «Termine fisso» e che se mi avesse fatto l’onore di ascoltare le poche parole, che mi proponevo di dire al popolo di Britannula prima di lasciarlo, avrebbe avuto idee più chiare su di esso di quante ne avesse mai avute nella testa. «Oh, amici miei», disse, ascendendo le altitudini della sua eloquenza, «è opportuno per noi lasciare queste cose nelle mani dell’Onnipotente. È comunque opportuno per noi che lo facciamo finché Egli non ci conduca a uno stato di conoscenza simile al divino, infinitamente superiore a quella che ora possediamo». Potei qui percepire che Sir Ferdinando si dilettava al suono delle sue stesse parole e che aveva preparato e imparato a memoria i toni della sua voce e persino le movenze delle mani. «Noi tutti sappiamo che non ci è permesso di affrettarci al Suo cospetto per mezzo di un nostro gesto. Voi tutti ricorderete cosa dice il poeta: Oh, se l’Eterno non avesse opposto la sua legge al suicidio1

Non è questo suicidio? Questa teoria secondo la quale un uomo si immo-

1 Di nuovo ricorre questa citazione da Hamlet; si veda in proposito la nota 3 del Capitolo 3. L’originale inglese recita: «Or that the Everlasting had not fixed His canon ’gainst selfslaughter!».

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lerà alla morte a un certo termine? E se un uomo non può uccidersi, come potrà allora, nell’esercizio del suo povero intelletto umano, immolare una creatura a lui simile a una data morte?» «E che sta bene così come è sempre stato nella sua vita», disse Tallowax dalla galleria. «Il mio amico fa bene a ricordarmelo. Sebbene il signor Neverbend abbia indicato un «Termine fisso» per la vita umana e forse ha scelto quello in cui le energie solitamente si scoprono diminuire, chi può dire che si sia anche solo avvicinato alla certezza di quella morte che il Signore manda a tutti noi secondo il Suo termine? Il poveretto con il quale la natura è stata scortese se ne va decrepito e consunto a quarant’anni, mentre un altro a settanta è ancora vigoroso e forte nell’esecuzione del lavoro quotidiano della sua vita». «Sono forte abbastanza per fare quasi tutto da solo e dovevo essere il prossimo ad andarmene, proprio il prossimo». Con voce tremante, questo fu ciò che pronunciò Barnes che aveva quasi sofferto gli spasimi stessi della morte per via del «Termine fisso». «Sì, davvero; in risposta a un simile appello, chi si azzarderà a dire che il «Termine fisso» deve essere eseguito con tutta la sua sbalorditiva audacia? La tenacia di intenti che contraddistingue il nostro amico qui presente è nota a tutti. La fama del suo carattere a questo riguardo è giunta alle mie orecchie persino fra gli abitanti dalla labbra grosse dell’Africa centrale. Ammetto che mi sono chiesto se ciò fosse vero. ‘Justum et tenacem propositi virum!’2 Niente può distorglierlo dal suo intento o indurlo a mutare la sua inflessibile volontà. Voi lo conoscete ed io lo conosco ed egli è noto in Inghilterra. La persuasione non lo tocca mai. La paura non ha potere su di lui. Egli da solo è forte contro un milione. È invincibile, imperturbabile e sempre sicuro di sé». Mentre sedevo lì ad ascoltare questa descrizione del mio carattere, in qualche modo eroico ma assolutamente dissimile a quello della persona cui veniva attribuito, sentii che l’Inghilterra sapeva pochissimo di me e gliene importava ancor meno, e non potevo che essere arrabbiato che il mio nome venisse usato in questo modo per adornare le frasi del discorso di Sir Ferdinando. Qui a Gladstonopoli ero ben conosciuto e ben noto per non essere né imperturbabile né sicuro di me. Ma tutti sembravano accettare quello che egli diceva ed io non potevo interromperlo. Adesso aveva la sua opportunità e forse io avrei potuto avere la mia di lì a poco. «Amici miei», continuò Sir Ferdinando, «in patria, in Inghilterra, dove, sebbene siamo potenti in ragione della nostra ricchezza e del numero...» «Proprio così», dissi io. «Dove siamo potenti, ripeto, in ragione della nostra ricchezza e del numero anche se forse meno avanzati di voi nell’assetto filosofico della vita, ci è sembrato impossibile che si lasciasse portare la teoria

2

La citazione, che significa «L’uomo giusto e di fermo proposito», è contenuta nelle Odi di Orazio (III.iii.I), poeta che Trollope cita frequentemente nella sua opera.

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alla sua legittima conclusione. L’intero paese sarebbe inorridito se si fosse sacrificata una vita a questa teoria». «Lo sapevamo, lo sapevamo», disse la voce di Tallowax. «E tuttavia la vostra Assemblea si è spinta fino a dare al sistema stabilità di legge. Se la John Bright non fosse approdata nel vostro porto ieri, uno dei vostri più validi cittadini sarebbe già stato... depositato». Dopo aver parlato così, si voltò verso il signor Crasweller che sedeva alla mia destra e gli fece un inchino. Crasweller guardava dritto di fronte a sé e non si avvide di Sir Ferdinando. Al momento era più dalla mia parte della questione e avendo garantita la sua libertà non si curava di Sir Ferdinando. «Ma ciò è stato impedito grazie alla straordinaria rapidità con cui il mio eccellente amico Capitano Battleax si è fatto strada attraverso l’oceano. E devo dire che ognuno di questi eccellenti compagni, i suoi ufficiali, ha fatto del proprio meglio per portare la nave di Sua Maestà, la John Bright, in posizione di comando con il minor ritardo possibile». A questo punto si voltò e si inchinò agli ufficiali e occhi attenti avrebbero potuto osservare attraverso la finestra che si inchinava anche al vascello che si trovava un miglio lontano in porto. «Ad ogni modo, per il momento non sarà posto alcun «Termine fisso» alla vita umana a Britannula. Quel sogno è già stato sognato, se non altro per il presente. Chi può dire se una tale filosofia potrà avere la meglio in età future? Al presente dobbiamo tutti aspettare la nostra morte dalle mani dell’Onnipotente». «Basti a ciascun giorno la sua pena»3. «E ora, gentili signori, devo chiedere la vostra attenzione per qualche istante su un’altra questione molto differente da quella che abbiamo discusso. Devo dire alcune parole del passato e del presente, della vostra passata Costituzione e di quella che è mio proposito inaugurare». A questo punto si sollevò un mormorio assai udibile attraverso la stanza che minacciava di disturbare l’oratore. «Chiedo il vostro favore per pochi minuti e per avermi ascoltato oggi, io vi ascolterò domani. La Gran Bretagna, su vostra richiesta, vi ha concesso il potere dell’auto-governo. Ciò non era mai stato concesso prima a una comunità di lingua inglese così piccola. E devo dire che per molti rispetti vi siete mostrati adatti alla responsabilità che vi è stata imposta. Siete stati intelligenti, industriosi e prudenti. L’ignoranza è stata espulsa dalle vostre rive e avete forzato la povertà a nascondere il capo». Qui l’oratore fece una pausa per ricevere l’applauso che riteneva gli fosse dovuto; invece, coloro che occupavano le panche di fronte a lui rimasero rigorosamente in silenzio. Erano in molti là a essere stati contenti di vedere una nave da guerra arrivare a fermare il «Termine fisso», ma ce n’era a malapena uno che fosse compiaciuto di perdere la propria indipendenza. «Ciononostante», disse Sir Ferdinando un poco piccato dalla mancanza di ammirazione con la quale erano state accolte le sue parole, «il governo di Sua Maestà ha la necessità di porre fine alla Costituzione sotto la quale viene permesso al «Termine fisso» di 3

Matteo 6:34. Un’altra delle citazioni preferite e ricorrenti nell’opera di Trollope.

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trionfare. Se avete fatto leggi per voi stessi, leggi siffatte devono avere tutta la forza della legge». «Non è così sicuro», disse una voce da una distanza che scaltramente sospettai essere quella del mio speranzoso figlio Jack Neverbend. «Dato che la Gran Bretagna non può e non permetterà che il ‘‘Termine fisso’’ venga attuato fra le popolazioni di lingua inglese...» «E gli Stati Uniti?», chiese una voce. «Gli Stati Uniti non hanno fatto un simile tentativo, ma ora procederò. Mi ha pertanto inviato a prendere le redini e assumere il potere e a sopportare la responsabilità di essere il vostro Governatore per un breve periodo di qualche anno. Chi può dire ciò che il futuro ci dischiuderà? Per il presente io governerò qui. Ma governerò con l’aiuto delle vostre leggi». «Non la legge del ‘‘Termine fisso’’», disse Exors che sedeva sul pavimento immediatamente sotto l’oratore. «No; quella legge verrà espunta in via speciale dal vostro statuto. Per altri aspetti, le vostre leggi e quelle della Gran Bretagna sono quasi le stesse. Possono esserci delle divergenze, come la non applicazione della pena capitale. In tali questioni cercherò di seguire i vostri desideri e di governarvi così che voi sentiate di vivere ancora sotto il governo di un Presidente di vostra scelta». Non potei fare a meno di pensare che qui Sir Ferdinando era stato un po’ precipitoso. Non conosceva il grado della mia popolarità né aveva scandagliato l’antipatia che lui stesso avrebbe certamente incontrato. Aveva sentito poche voci nella sala che per paura della morte avevano espresso la loro avversione al «Termine fisso», ma non aveva idea dell’amore che il popolo sentiva per la propria indipendenza o, credo di poterlo dire, per il proprio Presidente. Si sollevò un certo clamore in mezzo al quale Sir Ferdinando si sedette. Allora vi fu uno scalpiccio di piedi come di una folla che se ne andava. Sir Ferdinando si rialzò e mi diede calorosamente la mano. Ricambiai il suo saluto con il mio miglior sorriso poi rivolsi due o tre parole alla gente che se ne andava. Dissi loro che sarei partito l’indomani a mezzogiorno per l’Inghilterra, su mia promessa al loro nuovo Governatore, e che, prima di andare, mi ero proposto di spiegargli in quali circostanze avevo fatto quella promessa e cosa intendevo fare una volta raggiunta l’Inghilterra. Accettavano di incontrarmi quella sera alle otto in quella sala per sentire le ultime parole che avrei loro rivolto? La sala si riempì allora di un grido potente e una grande furia di esclamazioni si sollevò. Vi furono sventolii di fazzolletti e lanci di cappelli e tutti quei segni d’entusiasmo che sono di consuetudine quando si saluta l’uomo popolare del momento. E in mezzo a questi, Sir Ferdinando Brown rimase in piedi continuando a inchinarsi senza sosta. Alle otto la sala straripava di nuovo. Ero stato occupato e scesi un po’ in ritardo, incontrando qualche difficoltà nel farmi strada verso la sedia che Sir Ferdinando aveva occupato alla mattina. Non avevo avuto tempo per preparare le mie parole anche se i pensieri erano accorsi velocemente, troppo velocemente alla mia mente. Era come se capitombolassero fuori dalla mia bocca

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con precipitosa energia. Alla mia destra sedeva il Governatore, come ora dovevo chiamarlo, e alla mia sinistra mia moglie. Gli ufficiali della cannoniera non erano presenti, essendo senza dubbio occupati ad aggiungere combustibile ai loro fuochi. «Miei concittadini»4, dissi, «a una fine improvvisa è stato portato quell’auto-governo del quale eravamo orgogliosi e dalle cui rive Sir Ferdinando vi ha detto che è stata espulsa ‘l’ignoranza e la povertà costretta a nascondere il capo’. Confido che sotto la sua esperienza di Governatore, che ci dice essere grande, quei mali non ricadano su di voi. Siamo, tuttavia, dolorosamente consapevoli che essi trionfano ovunque il potere reale della Gran Bretagna si trovi ad essere nel pieno della sua forza. Un uomo che ci governa dall’altra parte del globo, noi e molti altri milioni di sudditi, non può vedere le nostre necessità e guardare il nostro progresso come noi stessi facciamo. E persino Sir Ferdinando che viene da noi con tutta la sua esperienza difficilmente può essere in grado di accertare come ci si può rendere felici e prosperi. Ha, comunque, con sé una compagnia di un celebrato reggimento inglese con i suoi ufficiali attendenti che, con le loro giubbe rosse e le lunghe spade, aggiungeranno senza dubbio allegria ai raduni sociali. Spero non abbiate a scoprire che interferiscono con voi in modi più rudi. «Ma su di me, miei concittadini, è scesa la grande disgrazia di avervi derubato della vostra indipendenza». A questo punto la sala fu percorsa da un mormorio che dichiarava che ciò non era così. «Così vi ha detto il vostro nuovo Governatore, ma non vi ha detto l’esatta verità. In chi si originò dapprima la dottrina del ‘Termine fisso’ non indagherò ora. Assumerò io tutta la responsabilità, sebbene divida onore e gloria con i miei compatrioti». «Il vostro Governatore vi ha detto che è a conoscenza di tutti gli argomenti con i quali si sostiene il ‘Termine fisso’, ma credo che qui si sbagli, dato che non si è azzardato ad attaccarne alcuno. Ci ha detto che si conviene lasciare la questione della vita e della morte nelle mani dell’Onnipotente. Se è così, perché tutta l’Europa pullula di armi, pronta, a quel che supponiamo, ad accorciare la vita, e perché c’è un boia attaccato al trono della Gran Bretagna fra i suoi necessari ufficiali esecutivi? Perché nel Vecchio Testamento venne comandato a Joshua di assassinare re potenti? E perché il Faraone e i suoi eserciti furono annegati nel Mar Rosso? Perché così voleva l’Onnipotente, dirà il nostro Governatore, dando per scontato che Egli abbia voluto tutto ciò di cui si dà un resoconto nel Vecchio Testamento. In quelle battaglie che hanno violentato l’India nord-occidentale durante l’ultima metà del secolo, 4 Nel discorso che il Presidente Neverbend pronuncia nel momento cruciale del confronto con il popolo di Britannula e il nuovo governatore, nel reiterato rivolgersi ai britannuli come ai suoi concittadini, risuona molto forte l’eco del famosissimo discorso di Antonio ai romani al funerale di Cesare nel Julius Caesar di Shakespeare. In questo caso, il capo non è morto ma è stato deposto e con lui si è proceduto a «terminare» la sua amata dottrina. L’ironia di Trollope è qui molto sottile e penetrante.

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desiderava forse l’Onnipotente che gli uomini perissero a decine e ventine di migliaia? Finché ognuno di noi non può imparare di più di quanto sappiamo ora della volontà dell’Onnipotente, consiglierei al nostro Governatore, se egli me lo consente, di tacere su quel capo». «Signore e signori, sarebbe un compito lungo, che non si concluderebbe prima dell’ora di andare a dormire, se dovessi raccontarvi, a suo vantaggio, alcuni degli argomenti che sono stati usati a favore del ‘‘Termine fisso’’ e sarebbe inutile dato che voi tutti ne siete a conoscenza. Ma evidentemente Sir Ferdinando non è consapevole che il generale prolungamento della vita media è uno degli effetti che si otterrebbero e che, sebbene egli stesso potrebbe non vivere più a lungo se fosse destinato a rimanere qui a Britannula, i suoi discendenti potrebbero farlo e vivrebbero una vita più sana, più utile e bastevole agli scopi umani». «Per quanto posso leggere la volontà dell’Onnipotente, o piuttosto il progresso dei modi della natura umana, sta all’uomo tentare di migliorare le condizioni dell’umanità. Sarebbe come dire che non permetteremmo fuochi nei nostri stabilimenti perché di quando in quando una vita è andata perduta per via del fuoco, tanto per usare un argomento come quello or ora contrapposto al ‘‘Termine fisso’’. Se vorrete pensare alla linea di ragionamento di Sir Ferdinando, ricorderete che dopo tutto vi ha soltanto rigettato addosso i vecchi pregiudizi dell’umanità. Se mi dice che non è ancora pronto a disfarsene e che io sono in errore a pensare che il mondo lo sia, posso forse essere d’accordo con lui. La John Bright nel nostro porto è la prova più schiacciante possibile che tali pregiudizi esistono ancora. Sir Ferdinando Brown è ora il vostro Governatore, un fatto che è di per sé una prova forte. In opposizione a ciò non ho nulla da dire. L’ignoranza che ci hanno detto di aver espulso dalle nostre rive ci è ritornata indietro e la povertà temo che stia mostrando il capo». A ciò Sir Ferdinando si alzò e protestò vivacemente. Ma la gente lo sentì a malapena e su mia richiesta si sedette di nuovo. «Penso di aver tentato di progredire troppo velocemente in questa materia e che Sir Ferdinando sia stato mandato qui come necessaria reprimenda a questa follia. Ha richiesto che io sia bandito verso l’Inghilterra e, dato che il suo ordine è sostenuto da una doppia fila di giubbe rosse, uno strumento che a Britannula non possediamo, mi ripropongo di obbedirgli. Andrò in Inghilterra e là userò quel poco di forza che mi resta nel tentativo di diffondere questi argomenti per vincere i pregiudizi della gente che qui hanno trionfato, ma che sono sicurissimo non avranno effetto su Sir Ferdinando Brown. Non posso fare a meno di pensare che Sir Ferdinando si è dato una pena non necessaria nel cercare di dimostrarci che il ‘‘Termine fisso’’ è un assetto cattivo. Ma era sicuro di riuscire a dirci che l’avrebbe reso impossibile per mezzo della doppia fila di uomini armati dai quali è accompagnato e dal cannone brandeggiabile da 250 tonnellate con cui, come mi ha informato, è in grado di ridurci tutti in atomi, a meno che io non parta domani con il Capitano Battleax. Non è la sua religione ad aver prevalso, ma la sua forza. E che

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la Gran Bretagna sia più forte di Britannula nessuno di noi può dubitarne. Fino a ieri io dubitavo che avrebbe usato la forza per perpetuare i suoi stessi pregiudizi e abbattere il progresso ottenuto da un altro popolo. Ma, concittadini, dobbiamo guardare la verità in faccia. Probabilmente in questa generazione il ‘‘Termine fisso’’ deve restare sospeso». Quando pronunciai queste parole ci fu una grande allegria e alti suoni di trionfo, dovuti probabilmente all’aver posposto il sistema che induceva terrore; ma fui in grado di accettare questi rumori amichevoli come se fossero stati assegnati al sistema stesso. «Dunque, dato che voi tutti amate il ‘‘Termine fisso’’, occorre ritardarlo finché Sir Ferdinando e gli inglesi non si siano... convertiti». «Mai, mai!», gridò Sir Ferdinando; «un’idea tanto empia non albergherà mai in questo petto» e si colpì il torace violentemente. «Sir Ferdinando probabilmente non è consapevole di quali idee potranno trovare rifugio in quel petto. Se guarderà indietro di trent’anni, scoprirà che aveva a malapena contemplato persino il climaorologio5 che ora indossa costantemente nel taschino del panciotto. Su ordine del suo Sovrano potrà ancora realizzare il «Termine fisso» da qualche parte nel centro dell’Africa!» «Mai!» «In quale Collegio fra i negri potrà essere depositato, è cosa troppo stravagante da ipotizzare. Io, amici miei, lascerò queste rive domani e potete stare certi che, finché sarà in mio potere lavorare, non desisterò mai dal proposito che mi sta a cuore. Confido di vivere per poter tornare e darvi un resoconto di ciò che ho fatto per voi e per la causa in Europa». A questo punto mi sedetti e fui salutato dall’applauso assordante del pubblico e sentii al momento che in qualche modo avevo avuto la meglio su Sir Ferdinando. Ho potuto dare le parole esatte di questi due discorsi, così come sono state trascritte grazie ai rapporti telefonici che per l’occasione sono stati di grande accuratezza. Le parole, così come sono cadute dalla bocca degli oratori, sono state composte dalla macchina e il mio discorso è apparso sui quotidiani di Londra entro un’ora da che era stato pronunciato.

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Si tratta di un’altra invenzione che Trollope immagina. Una specie di barometro da taschino.

XI. ADDIO!

Me ne andai a casa in trionfo, ma avevo molto da fare prima di mezzogiorno del giorno seguente e molto poco tempo per farlo. Avevo trascorso la mattina di quel giorno nei preparativi per la mia partenza e a sistemare faccende con i miei collaboratori in modo che l’accesso di Sir Ferdinando ai suoi nuovi doveri fosse facile. Non avevo detto nulla del «Termine fisso» e avevo cercato di pensarci il meno possibile. Un mio vecchio segretario, anziano per anni di servizio, sebbene non per età, aveva cercato di confortarmi dicendo che il Collegio sulla collina avrebbe potuto essere usato entro poco tempo. Ma io gli avevo detto francamente che noi tutti a Britannula avevamo avuto troppa fretta e avevamo scioccamente tentato di realizzare un sistema in opposizione ai pregiudizi del mondo e che tale sistema, una volta affermato, si sarebbe diffuso nel mondo intero. «E non si farà nulla con quei begli edifici?», chiese il segretario, aggiungendoci la parola bello per adulazione verso di me. «I camini e i forni forse possono essere usati», risposi. «La cremazione non fa parte del ‘‘Termine fisso’’. Ma, come per le abitazioni, meno ci pensiamo meglio è». E così mi risolsi di non turbare ulteriormente i miei pensieri con il Collegio. E sentii che vi poteva essere qualche consolazione per me nell’andare via in Inghilterra, così da scappare dalla grande depressione e dal dolore alla vista del Collegio vuoto. Ma dovevo dire addio a mia moglie e mio figlio e ad Eva e Crasweller. Il primo compito sarebbe stato il più facile, perché non ci sarebbe stata alcuna necessità di alludere, con conseguente dolore, alla mia mancanza di successo. Per quel poco che potevo dire alla signora Neverbend sull’argomento, avrei potuto continuare in quel tono di sarcastico trionfo con quale avevo risposto a Sir Ferdinando e ignorare quanto di patetico vi era nella questione. E Jack aveva un’indole così felice e così poco incline a guardare il lato doloroso delle cose, che tutto gli sarebbe andato bene. Ma con Eva e con suo padre le cose sarebbero state diverse. Sarebbe stato necessario pronunciare parole dolorose ed io avrei dovuto esprimere rimpianti che lui non poteva di certo con-

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dividere. «Sono affranto e calpestato, ogni gloria ha lasciato il mio nome ed io sono diventato uno zimbello di cui vergognarsi piuttosto che il modello d’onore del quale le epoche future avrebbero potuto allietarsi, perché non sono stato capace di realizzare il mio proposito, a lungo curato, depositandoti e garantendo infine almeno la tua dipartita!» Allora Crasweller mi avrebbe risposto col suo solito sentimento gentile ed io al momento di lasciarlo avrei sentito il vuoto delle sue parole. Lo avevo amato di più perché avevo cercato di cominciare il mio esperimento con il suo corpo. Avevo sentito un religioso riguardo per l’onore che gli sarebbe stato fatto, quasi considerandolo come se fossi io a dover andare al suo posto. Tutto questo aveva subito una brusca frenata quando lui nella sua debolezza aveva implorato un altro anno. Ma aveva ceduto e, sebbene lo avesse fatto senza coraggio, lo aveva fatto per assecondare i miei desideri ed io non potevo che sentire per lui un affetto straordinario. Stavo per andare in Inghilterra e probabilmente non lo avrei mai più visto; e stavo andando con aspirazioni nel mio cuore così diverse da quelle che egli nutriva! Dalle ore riservate al sonno qualche minuto poteva essere sottratto per dare l’addio a mia moglie. «Mia cara», dissi, «tutto ciò è molto improvviso. Ma un uomo impegnato nella vita pubblica deve adeguarsi alle esigenze pubbliche. Se non avessi promesso di andarmene oggi, mi avrebbero portato via ieri o il giorno prima». «Oh John», disse, «penso che sia stata organizzata ogni cosa per farvi stare comodo». «Grazie, sì, sono sicuro che sia così. Quando sentirete pronunciare il mio nome dopo che io me ne sarò andato spero che diranno di me che ho fatto il mio dovere come Presidente della Repubblica». «Certo che lo diranno. Ogni giorno siete andato in quelle brutte stanze dell’Esecutivo dalle nove alle cinque, tranne quando sedevate in quella stupida Assemblea». «Mi prenderò una vacanza ora, ad ogni modo», dissi ridendo sotto le lenzuola. «Sì, e sono sicura che vi farà bene, se solo mangerete regolarmente. Qualche volta penso che siate stato incoraggiato a soffermarvi su questo orribile ‘‘Termine fisso’’ dalla malinconia di uno stomaco vuoto». Fu triste sentire tali parole dalle sue labbra dopo i due discorsi che aveva udito e accorgersi che nella sua mente non era rimasta traccia del trionfo che avevo ottenuto su Sir Ferdinando; ma lasciai perdere e decisi di risponderle secondo i suoi canoni. «Mi avete sempre dato un panino da portarmi all’Esecutivo». «I panini non sono nulla, ricordatevelo. Alla vostra età dovreste mangiare sempre qualcosa di caldo, qualcosa di croccante, o una cotoletta, e non dovreste mangiare senza pensarci. Ciò che mi ha fatto odiare il ‘‘Termine fisso’’ più di qualsiasi altra cosa è che voi non avete mai pensato ai vostri pasti. Avete prestato più attenzione a bruciare quei maiali che a cucinare

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qualsiasi cibo nella vostra cucina». «Beh, mia cara, andrò in Inghilterra ora», dissi cominciando a stancarmi dei suoi ricordi. «Sì, mio caro, lo so; e ricordatevi che quando sarete più vicino a quel freddo paese il tempo si farà sempre più rigido. Vi ho preparato quattro paia di mutandoni di flanella e una piccola sacchetta che dovete indossare sul petto1. Ho notato che quando Sir Ferdinando si stava preparando per il suo discorso aveva anche lui una borsa simile e per tutto il tempo ho cercato di spiare come la indossava. Quando sono tornata a casa mi sono messa immediatamente al lavoro e insisto che voi ve la proviate come prima cosa domani mattina, così che possa controllare che stia aderente». Quella di Sir Ferdinando stava aderente ma sembrava gonfia. Pensai fra me e me che Lady Brown non aveva fatto bene il suo dovere. «Se mi permetterete di venire con voi, potrò controllare che ve la mettiate sempre giusta. Per come va, so che la gente dirà che è tutta colpa mia se salta fuori e si vede». A quel punto mi addormentai. Così, le parole di saluto fra me e mia moglie erano state pronunciate. La mattina seguente, presto, vidi Jack nel mio spogliatoio e gli dissi arrivederci. «Jack», dissi, «in questa piccola contesa che c’è stata fra noi tu hai avuto la meglio in tutto». «Nessuno ha avuto questa opinione quando vi hanno sentito rispondere a Sir Ferdinando la notte scorsa». «Beh, sì, penso di essere riuscito a rispondergli, ma non ho avuto la meglio su di te». «Non intendevo fare nulla», disse Jack, con un tono di voce malinconico, «è stata tutta opera di Eva; non mi è mai importato niente se il vecchio veniva depositato o no, ma penso che se si fosse avvicinato il vostro tempo non mi sarebbe piaciuto molto». «Perché no? Perché no? Se solo pensassi alla questione da tutti i punti di vista scopriresti che è un falso sentimento». «Non mi piacerebbe», disse Jack con determinazione. «Sì, ti piacerebbe, una volta che tu ti fossi abituato». Sembrò molto incredulo. «Ciò che voglio dire, Jack, è che una volta che i figli si fossero abituati a vedere i loro padri venire depositati a una certa età e fossero consapevoli che verrebbero trattati con ogni rispetto, questo tipo di sentimento che tu descrivi scemerebbe, e avresti l’idea che al tuo genitore venisse tributato un qualche onore». «Che farei se sapessi che qualcuno lo ucciderà il giorno dopo?». «Potresti ritirarti per qualche ora nei tuoi pensieri, entrare in lutto, per così dire». Jack scosse la testa. «Ma ad ogni modo in questa questione del signor Crasweller hai avuto la meglio su di me». 1

Si tratta del proteggi-sterno spesso fatto di flanella e pelle di camoscio.

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«È stato per Eva». «Suppongo di sì. Ma adesso che sto andando in Inghilterra e potrei non ritornare più su queste rive desidero farti capire...» «Non dite così, padre». «Beh, sì. Avrò molto da fare là, e naturalmente può accadere che non ritorni. E desidero che tu capisca che non ti lascio con rabbia. Ciò che hai fatto rivela uno spirito alto e una grande devozione alla ragazza». «Ma non è neppure del tutto per Eva». «E allora perché?», domandai. «Mah, non lo so. Le due cose sono andate insieme. Se non vi fosse stato il problema del ‘‘Termine fisso’’ penso che avrei tagliato fuori Abraham Grundle. Quanto a Sir Kennington Oval, comincio a credere che sia stato tutta una finzione di Eva. Mi piace Sir Kennington, ma ad Eva non gliene è mai importato un fico secco di lui. Si è invaghita di me perché io ho dimostrato di essere un antiterminefissista. All’inizio l’ho fatto solamente perché odiavo Grundle. Grundle voleva fissare il ‘Termine’ del vecchio Crasweller per la proprietà, e quindi io ero naturalmente dall’altra parte. Non è stato perché mi piacesse contrastarlo. Se voi aveste dovuto iniziare con Tallowax o con Exors, avreste potuto bruciarli senza che io dicessi una parola». «Sono gratificato dal sentirlo». «Anche se il ‘‘Termine fisso’’ sembra orribile, l’avrei accettato su vostra richiesta. Ma vedete come ci sono caduto dentro e come Eva mi ha istigato, e quanto più la cosa si approssimava più ero costretto a combattere. Ci credete? Eva ha giurato solennemente che se suo padre fosse stato messo nel Collegio non avrebbe mai sposato anima viva. E fino a quel momento, quando il tenente di vascello ci ha incontrati in cima alla collina, è stata fredda come la neve». «E adesso la neve si è sciolta?». «Sì, sta cominciando a sciogliersi». E mentre diceva ciò mi ricordai del bacio dietro alla porta del salotto che le era stato dato da un altro pretendente prima che cominciassero questi problemi e della mia impressione che anche Jack lo avesse visto. Ma sull’argomento non dissi nulla. «Naturalmente va tutto benissimo per quanto mi riguarda», Jack continuò, «ma desidero dirvi, prima che andiate, quanto mi rende infelice pensare di essermi opposto a voi». «Va bene, Jack, va bene. Non dirò che non avrei fatto lo stesso alla tua età se Eva me lo avesse chiesto. Desidero che tu ti ricordi sempre che ci siamo lasciati da amici. Ti sposerai molto presto». «Fra tre mesi», disse Jack in tono malinconico. «In una questione di tale importanza è come se fosse domani. Non sarò qui per augurarti gioia al tuo matrimonio». «Perché dovete andare se non lo desiderate?» «Ho promesso che sarei andato quando il capitano Battleax parlava di portarmi via l’altro ieri. Con un centinaio di soldati, non c’è dubbio che sarebbe riuscito a portarmi a bordo».

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«Vi sono molti più di cento uomini a Britannula che valgono quanto i loro soldati. Portare via un uomo con la forza! E per di più il Presidente della Repubblica! Non si è mai sentito di una cosa del genere! Non mi muoverei se fossi in voi. Dite una parola e mi impegnerò a far sì che non uno di questi uomini vi tocchi». Pensai alla sua proposta; più ci pensavo, più mi sembrava irragionevole che io, che non avevo commesso offesa contro la legge, dovessi essere costretto a bordo della John Bright. Non dubitavo che Jack avrebbe mantenuto la sua parola, ma vi erano due ragioni che mi avevano persuaso sul fatto che facessi meglio ad andare. Avevo impegnato la mia parola. Quando era stato suggerito che dovessi essere portato a bordo all’istante, cosa che senza dubbio i soldati avrebbero potuto fare, avevo detto che se mi fosse stato concesso un certo tempo mi avrebbero trovato nello stesso luogo. Se fossi stato là semplicemente circondato da una folla di britannuli pronti a combattere per me, difficilmente avrei mantenuto la mia promessa. Ma una ragione più forte di questa mi aveva forse messo in azione. Era meglio per me andare per un po’ in Inghilterra, piuttosto che restare a Britannula. Qui sarei l’ex Presidente di una Repubblica abolita e come tale soggetto all’attenzione di tutti, mentre in Inghilterra sarei nessuno e fuggirei alla costante mortificazione di vedere Sir Ferdinando Brown. E poi in Inghilterra potrei fare di più per il «Termine fisso» che non nella patria Britannula. Qui la battaglia era finita ed ero stato battuto. Cominciai a percepire che il posto era troppo piccolo per compiere quei primi sforzi per una causa così grande. Proprio la facilità con cui era stata approvata la legge nell’Assemblea ci aveva reso impossibile realizzarla. E quindi, con un senso di forte fallimento in me, sarei stato meglio altrove piuttosto che in patria. Il desiderio di pubblicare un libro in cui potessi dichiarare la mia teoria, proprio questo libro che ho quasi portato a conclusione, mi faceva desiderare di andare. Che potevo fare pubblicandolo a Britannula? E anche se fosse stato inviato in Inghilterra, chi lo avrebbe dato alle stampe con qualche possibilità di successo? Ora avevo delle speranze, che erano alte, ed ero in grado di guardare di giorno in giorno al modo in cui i miei argomenti a favore del «Termine fisso» venivano accolti dal pubblico inglese. E fu così quindi che rifiutai la gentile offerta di Jack. «No, ragazzo mio», dissi dopo una pausa, «non so, ma nel complesso preferisco andare». «Certo, se lo desiderate». «Sarò portato là a spese degli inglesi, il che è di per se stesso un trionfo, e presumo che sarò rimandato indietro allo stesso modo. Se no, avrò motivo di lagnanza per la loro parsimonia, che è già di per sé un conforto per me. E sono sicuro che sarò trattato bene a bordo. Sir Ferdinando non sarà lì con la sua eloquenza e gli ufficiali sono tutti bravi ragazzi. Ho deciso, andrò. La prossima cosa che sentirai di tuo padre riguarderà la pubblicazione di un libretto che scriverò in viaggio perorando il ‘‘Termine fisso’’. La questione non è mai stata spiegata in Inghilterra e forse le mie parole trionferanno». Jack, scuotendo il capo tristemente, sembrava voler dire che non era questo il caso,

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ma Jack è risoluto e non si piega mai. Se fosse stato al mio posto e avesse avuto le mie convinzioni, credo che avrebbe depositato Crasweller nonostante Sir Ferdinando Brown e il capitano Battleax. «Verrai a salutarmi a bordo quando parto, Jack». «Non mi porteranno via, vero?». «Avrei detto che ti sarebbe piaciuto vedere l’Inghilterra». «E lasciare Eva! Dovrebbero bloccarmi in fretta prima di poterlo fare. Ma certo che verrò». Quindi gli diedi la mia benedizione, gli spiegai le disposizioni che avevo impartito per la sua rendita e scesi per la colazione, che doveva essere il mio ultimo pasto a Britannula. Quando ebbi terminato, mi dissero che Eva era nel mio studio che aspettava di vedermi. Avevo avuto l’intenzione di andare a Little Christchurch, e ancora l’avrei avuta, per dire addio a suo padre. Ma non mi dispiaceva che Eva fosse qui nella mia casa, dato che stava per diventare mia nuora. «Eva è venuta a dirvi arrivederci», disse Jack, che era già nella stanza quando vi entrai. «Eva, mia cara», dissi. «Vi lascio», disse Jack. «Ma le ho detto di essere molto amabile con voi. Ciò che è stato è stato, soprattutto se non è stato fatto del male». Poi lasciò la stanza. Aveva ancora il piccolo cappello rotondo ma quando Jack se ne andò se lo tolse. «Oh, signor Neverbend», disse, «spero che non pensiate che sia stata scortese». «Sono io, mia cara, che dovrei esprimere questa speranza». «Ho sempre saputo quanto amavate il mio caro padre. Sono sempre stata sicura di questo e lui ha sempre detto così. Ma...» «Eva, è tutto finito ora». «Oh sì, ed io sono così felice! Devo dirvi quanto sono felice». «Spero che amiate Jack». «Oh», esclamò, e in un attimo era tra le mie braccia e io la stavo baciando. «Se sapeste quanto odio quel signor Grundle; e Jack è tutto, tutto quello che deve essere. Una delle cose che me lo fa piacere di più è il suo grande affetto per voi. Non c’è nulla che non farebbe per voi». «È un giovane bravissimo», dissi, pensando al modo con cui aveva parlato contro di me alla Town Flags. «Niente di più vero!», disse Eva. «Niente che non farebbe per voi, mia cara. Ma questo è come deve essere. È un bravo ragazzo, pieno di spirito e se penserà un po’ più agli affari e un po’ meno al cricket sarà un marito eccellente». «Ovviamente ha dovuto pensare un po’ alla partita quando gli inglesi erano qui; e ha giocato bene, non è vero? Li ha battuti tutti». Potei percepire che Eva era altrettanto dedita al cricket quanto il suo innamorato e probabilmente teneva in altrettanto poco conto gli affari. «Ma, signor Neverbend, dovete proprio andare?»

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«Penso di sì. Non è solo perché sono determinati a prendermi, ma io stesso sono ansioso di andare in Inghilterra». «Desiderate ... predicare il ‘‘Termine fisso’’». «Ebbene, mia cara, ho le mie convinzioni, che alla mia età non posso mettere da parte. Cercherò di farle circolare in Inghilterra e di vedere ciò che ne dice la gente». «Non siete arrabbiato con me?». «Bambina mia, come potrei essere arrabbiato con voi? Quello che avete fatto, lo avete fatto per amore di vostro padre». «E papà? Non sarete arrabbiato con papà perché non ha voluto lasciare Little Christchurch e il bel luogo che aveva preparato per sé per andare nel Collegio ... ed essere ucciso?» Non potei risponderle in quel momento perché in verità ero in qualche modo arrabbiato con lui. Pensai che egli avrebbe dovuto capire che vi era qualcosa di più elevato da raggiungere che un anno o due extra fra le piacevolezze di Little Christchurch. Non potevo che essere rattristato, perché aveva dimostrato di essere meno uomo di quanto mi aspettassi. Ma, mentre rimanevo in silenzio per qualche momento, Eva teneva la mia mano nelle sue e mi guardava in viso con occhi imploranti. Allora la mia rabbia se ne andò e mi ricordai che non avevo ragione di aspettarmi dell’eroismo da Crasweller semplicemente perché era stato mio amico. «No, cara, no. Tutti i sentimenti di rabbia sono finiti. Era naturale che egli desiderasse rimanere a Little Christchurch; ed era più che naturale, era bello, che voi desideraste salvarlo con l’uso dell’unica arma femminile a vostra disposizione». «Oh, ma io amavo Jack», disse. «Ho ancora un’ora o due prima di partire e voglio correre a Little Christchurch per prendere la mano di vostro padre ancora una volta. Potete stare certa che ciò che gli dirò non sarà negativo. E ora arrivederci, mia cara bambina. Il mio tempo qui a Britannula è breve e non posso concederne di più neppure alla mia figlia prediletta». Allora mi baciò ancora una volta e, indossando il suo piccolo cappello, se ne andò dalla Signora Neverbend, o da Jack. Erano ora quasi le dieci e presi il mio triciclo per recarmi il più velocemente possibile a Little Christchurch. Alla porta della mia casa trovai una dozzina di soldati inglesi con un sergente. Questi toccò il suo cappello e mi chiese molto civilmente dove stessi andando. Quando gli dissi che andavo solo cinque o sei miglia fuori dalla città, mi chiese il permesso di accompagnarmi. Gli dissi che poteva di sicuro, se aveva un veicolo pronto e se era pronto ad usarlo. Ma dato che in quel momento i miei bagagli venivano portati fuori dalla casa per essere caricati a bordo della nave, l’uomo pensò che sarebbe stato meglio e molto più semplice seguire i bagagli; e i dodici soldati marciarono via per controllare che i miei bauli fossero assicurati a bordo della John Bright. E mi ritrovai ancora − e non potevo che dire a me stesso che probabilmente era per l’ultima volta − sulla strada per Little Christchurch. Nei venti

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minuti che ci vollero per giungervi, non potei fare a meno di pensare alle camminate che avevo fatto su e giù con Crasweller ai vecchi tempi, parlando delle glorie di un «Termine fisso» e della necessità assoluta che la razza umana aveva di un progresso simile nella civilizzazione. Probabilmente in tali occasioni la maggioranza delle parole pronunciate erano venute dalla mia stessa bocca, ma mi era sembrato allora che Crasweller fosse risoluto quanto me. Il termine che allora avevamo contemplato alla distanza era arrivato, e Crasweller aveva deplorevolmente compiuto la sua secessione. Non potevo che sentire che, se egli gli fosse stato fedele e avesse concesso a se stesso di essere depositato, non solo volentieri, ma con gioia, avrebbe fissato un esempio che non avrebbe potuto non essere efficace. Barnes e Tallowax lo avrebbero probabilmente seguito e la cosa sarebbe stata realizzata. Il mio nome avrebbe raggiunto i posteri come quelli di Colombo e Galileo e Britannula sarebbe stata conosciuta come la più importante delle nazioni della terra, invece che diventarne lo zimbello in quanto Repubblica depauperata e riannessa alle colonie della Corona. Ma tutto ciò doveva essere dimenticato in questa occasione e dovevo salutare il mio amico con affetto sincero, come se non avessi ricevuto dalle sue mani una tale crudele rovina di tutte le mie speranze. «Oh, signor Presidente», disse venendomi incontro sul viale verso casa, «è gentile da parte vostra. Voi che dovete essere così impegnato proprio prima della vostra partenza». «Non potevo andarmene senza dirvi una parola di addio». Non avevo parlato con lui da quando ci eravamo lasciati in cima alla collina sulla strada per il Collegio, quando i cavalli erano stati staccati dalla carrozza ed egli aveva camminato verso la vita e verso Little Christchurch invece di fare la strada per la sua ultima dimora e verso la deposizione finale con tutta la gloria di un grande nome. «È molto gentile da parte vostra. Entrate. Eva non è in casa». «Ci siamo appena lasciati a casa mia. E così lei e Jack faranno coppia. È inutile che vi dica quanto sia contento che mio figlio abbia una moglie simile. Eva mi è sempre stata cara, quasi come una figlia. Ora è come se lo fosse». «Sono sicuro di poter dire lo stesso di Jack». «Sì, anche Jack è un bravo ragazzo. Spero che baderà agli affari». «Non occorre che si preoccupi di quello. Avrà Little Christchurch e tutto ciò che appartiene ad esso non appena me ne sarò andato. Ero deciso a concedere a Eva soltanto una rendita mentre pensava a quel tipo, Grundle. Quell’uomo è una canaglia». Non potei fare a meno di pensare che Grundle era stato un terminefissista e che non mi si addiceva maltrattarlo; ero consapevole che sebbene Crasweller fosse mio amico sincero, ultimamente aveva cominciato a nutrire un odio assoluto per tutti coloro, oltre a me stesso, che avevano sostenuto la sua deposizione. «Ad ogni modo Jack è felice», dissi, «come anche Eva. Voi ed io,

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Crasweller, abbiamo avuto i nostri piccoli problemi ad amareggiare le serate della nostra vita». «Voi siete ancora in pieno giorno». «La mia ambizione è stata disillusa. Non posso nascondermi questo fatto, e neppure a voi. È accaduto che durante l’ultimo anno o gli ultimi due abbiamo vissuto con speranze diverse. E queste speranze si fondavano sulla posizione che voi avreste potuto occupare». «Sarei impazzito in quel Collegio, Neverbend». «Sarei stato con voi». «Sarei impazzito ugualmente. Mi sarei suicidato». «Per salvarvi da un’onorevole... deposizione?». «Un giorno fisso, che viene ad una determinata ora conosciuta; il sentimento che deve arrivare, sebbene arrivi così lentamente, eppure così velocemente; ogni giorno sempre più vicino, giorno dopo giorno, e ogni stagione, mese dopo mese; la vista di quei camini...» «Quello è stato un errore, Crasweller; è stato un errore. La cremazione avrebbe dovuto avvenire altrove». «Un uomo avrebbe dovuto essere un angelo per sopportarlo, o molto meno di un uomo. Ho lottato, per amor vostro. Chi altro avrebbe lottato come ho fatto io, per obbligo verso un amico?» «Lo so, lo so». «Ma la vita sotto un tale peso è diventata impossibile per me. Non sapete cosa ho sopportato l’ultimo anno. Credetemi che l’uomo non è fatto in modo da essere in grado di sopportare tali sforzi». «Ci si abituerebbe; l’umanità ci si abituerebbe». «Il primo non si abituerebbe mai. Quel Collegio diventerebbe un manicomio. Dovrete pensare a qualche altro modo per far loro trascorrere quell’ultimo anno. Ubriacateli, così che non sappiano ciò che fanno. Drogateli e privateli dei sensi; o, meglio ancora, abbattetevi su di loro con potere assoluto e portateli a morte istantanea. Lasciate che il velo dell’annichilimento cada su di loro prima che sappiano dove sono. Il «Termine fisso», con tutta la sua condannabile certezza, è un errore. Ho provato e lo so. Quando ripenso all’ultimo anno, che doveva essere l’ultimo, non della mia vita assoluta ma della mia vita reale, rabbrividisco mentre penso a ciò che ho passato. Sono stupefatto dalla forza della mia mente per non essere impazzito. Nessuno avrebbe fatto un tale sforzo per voi come ho fatto io. Gli altri uomini avevano deciso di ribellarsi dal momento in cui la sensazione del «Termine fisso» gli si era avvicinata. È impossibile che la natura umana sopporti una tale lotta senza ribellarsi. Sono stato salvato da quegli inglesi che sono venuti qui inorriditi e che hanno usato la loro forza per impedire la barbarie della vostra benevolenza. Ma a stento posso mantenermi calmo quando penso alle sofferenze che ho patito nell’ultimo mese». «Ma, Crasweller, voi avevate assentito». «Vero; avevo accettato. Ma è stato prima che avessi la sensazione che il

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mio destino si stesse avvicinando. Voi potete essere forte abbastanza da sopportarla. Non vi è nulla di così duro che l’entusiasmo non renda tollerabile. Ma difficilmente troverete qualcun altro che non soccomba. Chi farebbe di più per voi di ciò che ho fatto io? Chi sosterrebbe una lotta maggiore? Quale uomo di vostra conoscenza in questa comunità sarebbe più onesto? Eppure avete indotto persino me ad essere bugiardo. Pensate a quanta forza devono aver avuto i fatti contro di voi se hanno avuto un tale effetto. Morire su vostro ordine all’istante sarebbe stato nulla. Qualsiasi pericolo, qualsiasi immediata certezza sarebbe stato un gioco da bambini, ma salire in quello spaventoso Collegio e rimanere là per quell’anno che si sarebbe così lentamente − eppure così velocemente − sprecato, avrebbe richiesto un eroismo che, credo, nessun greco, nessun romano, nessun inglese ha mai avuto». Poi fece una pausa e mi resi conto che mi ero trattenuto oltre il mio tempo. «Pensateci», continuò, «pensateci a bordo di quel vascello e cercate di capire cosa significhi un simile periodo nella vita». Quindi mi afferrò la mano e, portandomi fuori, mi mise sul mio triciclo e se ne ritornò in casa. Tornando indietro a Gladstonopoli ci riflettei e per un momento o due la mia mente vacillò. Mi aveva convinto che vi era qualcosa di sbagliato nei dettagli del mio sistema, ma non − quando ne ridibattei la questione tra me e me − che il sistema stesso fosse sbagliato. Ma ora, al momento presente non avevo tempo per meditare. Ero rimasto sorpreso dall’onestà di Crasweller e anche dalla sua eloquenza, e in verità ero più pieno delle sue parole che delle sue ragioni. Ma sarebbe presto venuto il tempo in cui sarei stato in grado di dedicare ore tranquille alla considerazione dei punti che aveva sollevato. Le lunghe ore di ozio forzato a bordo della nave sarebbero state sufficienti per mettermi in grado di passare al setaccio le sue obiezioni, che nella fretta del momento sembravano risolversi nella necessaria pazienza di un anno di quiescenza. Crasweller aveva dichiarato che la natura umana non poteva sopportare tanto. Non era forse per il fatto che la natura umana non si era mai sforzata di allenarsi? Tornato a Gladstonopoli mi era già venuta la brillante idea che dovevamo cominciare prima con la natura umana e insegnare agli uomini sin dalla prima infanzia a prepararsi all’indubbia benedizione del «Termine fisso». Ma dovevano essere dati certi aiuti, e i forni crematori dovevano essere rimossi in modo che occhio non li vedesse e naso non li odorasse. Andando verso casa trovai la consueta guardia di soldati, una dozzina di uomini con fucili abominevoli ed elmetti militari sul capo. Ero così arrabbiato dalla loro guardia che avevo quasi una mezza intenzione di voltare il mio triciclo e di farmi inseguire per l’isola. Non avrebbero mai potuto prendermi se avessi deciso di evitarli, ma una tale fuga non sarebbe stata all’altezza della mia dignità. E inoltre desideravo andare. Pertanto, non prestai loro attenzione quando presentarono le armi, ma entrai in casa per dare a mia moglie l’ultimo bacio. «Ora, Neverbend, ricordate di indossare i mutandoni di flanella che ho preparato per voi non appena oltrepasserete l’altro Tropico. Ricordatevi che diventa terribilmente freddo quasi all’improvviso; e qualunque co-

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Capitolo undicesimo

sa facciate, non dimenticate la piccola borsa». Queste furono le ultime parole della signora Neverbend. Trovai Jack che mi aspettava e insieme ci incamminammo verso il molo. «Anche la mamma avrebbe voluto venire con voi», disse Jack. «Non sarebbe stato appropriato. Ci sono molte cose qui che avranno bisogno della sua attenzione». «Ciononostante avrebbe voluto venire». Sentivo che era così, ma allo stesso tempo non aveva fatto pressioni. A bordo trovai Sir Ferdinando e tutti gli ufficiali della nave in grande uniforme. Come supponevo, era venuto per controllare che partissi veramente, ma mi assicurò, togliendosi il cappello mentre si rivolgeva a me, che il suo motivo era stato di tributare gli ultimi rispetti al Presidente della Repubblica. Nulla poteva essere ora più cortese della sua condotta, o meno simile al bullo che mi era sembrato quando aveva inizialmente preteso di rappresentare la corona inglese a Britannula. E devo confessare che era assente anche quel tono di supremazia che aveva caratterizzato il suo discorso riguardo al «Termine fisso». Il «Termine fisso» non venne più menzionato mentre io ero a bordo, ma si dedicò ad assicurarmi che sarei stato ricevuto in Inghilterra con ogni riguardo e che sarei stato di sicuro invitato al Castello di Windsor. Io stesso non mi curavo molto del Castello di Windsor, ma a tali discorsi civili non potevo che dare risposte civili. Rimasi per mezz’ora a fare smorfie e complimenti, ansioso del momento in cui Sir Ferdinando sarebbe salito sulla scialuppa a sei remi che lo stava aspettando per riportarlo a riva. Per me fu la mezz’ora più tediosa di tutta la mia vita, ma per lui era come se far smorfie e complimenti fosse la sua seconda natura. Infine giunse il momento in cui uno degli ufficiali salì dal capitano Battleax a dire che il vascello era pronto per partire. «Ora, Sir Ferdinando», disse il capitano, «temo che la John Bright debba lasciarvi alla gentilezza dei britannuli». «Non potrei essere lasciato in mani più generose», disse Sir Ferdinando, «né in quelle di amici più calorosi. I britannuli parlano inglese bene quanto me e sono sicuro che ammetteranno che veniamo da un paese comune». «Ma non da un governo comune», dissi io, determinato a sparare un colpo di addio. «Ma Sir Ferdinando ha ragione nell’aspettarsi di ricevere ogni cortesia dai britannuli. Né si disobbedirà in nessun riguardo al suo governo finché l’isola, con l’accordo dell’Inghilterra, non avrà riacquistato la sua condizione di repubblica». A questo punto mi inchinai, egli si inchinò e tutti ci inchinammo. Poi partì, portando Jack con sé, e appoggiandosi alle sue braccia scese nella scialuppa. Quando gli uomini misero i remi in acqua trasalii all’improvvisa esplosione di un cannone ausiliario che continuò a sparare una dozzina di volte finché non era stato raggiunto il numero giusto, appropriato per un ufficiale di tale importanza.

XII. IL NOSTRO VIAGGIO IN INGHILTERRA

La scialuppa era andata a riva e ritornata prima che la John Bright fosse uscita dal porto. Allora ogni cosa sembrò cambiare e il capitano Battleax si raccomandò che facessi come se fossi a casa mia. Confidava, disse, che avrei cenato sempre con lui durante il viaggio ma che fossi lasciato indisturbato in tutti gli altri periodi del giorno. Cenava alle sette, ma io potevo dare mie disposizioni riguardo alla colazione e al pranzo. Si disse sicuro che il tenente di vascello Crosstrees avrebbe avuto il piacere di mostrarmi le mie cabine e che se vi fosse stata qualunque cosa a bordo che non ritenessi confortevole sarebbe stata cambiata immediatamente. Il tenente di vascello Crosstrees avrebbe detto al mio servitore di accudirmi e di mostrarmi tutti gli agi e i disagi del vascello. Con ciò lo lasciai e fui condotto sotto coperta con la guida del tenente di vascello. Dal momento che il signor Crosstrees divenne mio amico personale durante il viaggio, in modo più particolare degli altri ufficiali, i quali erano tutti miei amici, ne darò una breve descrizione. Era un uomo giovane, forse di ventott’anni, il cui grande dono agli occhi di tutti quelli che erano a bordo era il coraggio personale. Dagli ufficiali più giovani mi vennero fatti racconti di cose meravigliose che egli aveva fatto, che sebbene mai menzionate in sua presenza, né da lui né dagli altri, sembravano costituire il suo carattere speciale. Cosicché, se fosse stato necessario saltare fuori bordo per attaccare uno squalo, tutti sulla nave avrebbero pensato che sarebbe stato compito del tenente di vascello Crosstrees. Di fatto, come appresi successivamente, aveva una fama particolare nella marina britannica. Era un uomo chiaro di capelli, piccolo, con il volto pallido e gli occhi luminosi, la cui peculiarità era quella di concepire che la vita di bordo fosse infinitamente superiore a quella di terra in tutti i suoi aspetti. Se mai vi fu un uomo completamente devoto alla sua professione, quello era il tenete di vascello Crosstrees. Non sembrava importargli nulla delle donne, né dei vescovi, né dei giudici, né dei membri del Parlamento. Erano tutti bambini che saltellavano per il mondo nella loro sciocca ignoranza giocosa, che era compito del marinaio

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proteggere. Subito dopo il marinaio, ma con un grande distacco, veniva il soldato, in quanto aveva un impiego affine. Fra i marinai, il marinaio inglese − cioè il marinaio inglese combattente − era l’unico veramente meritevole d’onore. E fra i marinai inglesi, gli ufficiali a bordo della cannoniera di Sua Maestà John Bright erano i pochi felici che si erano arrampicati in cima all’albero maestro. Il capitano Battleax era da lui considerato come il sultano del mondo; ma egli era il suo visir e avendo nelle sue mani l’intera disciplina della nave, ne era, a mio parere, il vero padrone. Avrei detto in precedenza che un uomo di tali sentimenti ed emozioni non fosse di mio gusto. Tutto ciò che egli amava io lo avevo sempre odiato e tutto ciò che egli disprezzava io l’avevo sempre riverito. Nonostante ciò cominciò a piacermi molto e trovai in lui un oppositore del «Termine fisso» che fece vacillare la mia opinione più di Crasweller con tutte le sue emozioni o di Sir Ferdinando con tutti i suoi argomenti. E ciò egli aveva ottenuto con poche e brusche parole alle quali avevo trovato quasi impossibile opporre resistenza. «Venite di qua, signor Presidente», disse. «Qui è dove dormirete; e considerando che si tratta solo di una nave, penso che lo troverete piuttosto confortevole». Non avrei potuto immaginare, a bordo di una nave, niente di più lussuoso del luogo che mi era stato assegnato. In seguito venni a sapere che le cabine erano state progettate per un ammiraglio in viaggio e compresi, dal fatto che mi erano state assegnate, che l’Inghilterra intendeva fare ammenda per l’ingiuria fatta al paese, mostrando rispetto personale per l’ultimo Presidente della Repubblica. «Starò comodo ad ogni modo mentre sono qui. Questo è già qualcosa. Tuttavia mi devo sentire un prigioniero». «Non più di chiunque altro a bordo», disse il tenente di vascello. «Questa mattina è venuta a cercarmi una pattuglia di soldati. Cosa avrebbe fatto se io fossi fuggito via?» «Avremmo dovuto attendere fino a che non vi avessero preso. Ma nessuno riteneva che ciò fosse possibile. Il Presidente di una Repubblica in persona non fugge mai. Il tè sarà servito nella mensa degli ufficiali alle cinque. Sino ad allora vi lascerò a ciò a cui desidererete dedicarvi». Immediatamente dopo salii sul ponte e guardando indietro, oltre la ringhiera del coronamento, potei vedere soltanto le guglie luccicanti di Gladstonopoli in lontananza. Ora era tempo di pensare. Trovai una comoda sedia a poppa del vascello e mi sedetti a considerare tutto ciò che Crasweller mi aveva detto. Lui ed io ci eravamo salutati, forse per sempre. Non andavo in Inghilterra da quando ero bambino, e ora non potevo che sentire che le circostanze avrebbero potuto trattenermi là, o avrei potuto morire là, o che Crasweller, che era di dieci anni più vecchio di me, poteva morire prima che ritornassi. Eppure, fra noi due non vi era stato un addio comune. In quelle ultime sue parole si era limitato al «Termine fisso», tanto il suo cuore era colmo di quella questione e tanto era stato intenzionato a convincermi. E quale era stata la conclusione di ciò che aveva detto? Non che la dottrina del ‘‘Termine fisso’’ fosse sbagliata in sé, ma che era impraticabile a causa degli orrori che caratterizzavano i suoi ultimi mo-

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menti. Questi erano la solitudine in cui doveva essere trascorso l’ultimo anno, la vista di cose che avrebbero ricordato all’anziano la morte imminente e il sentimento generale che gli affari e i piaceri della vita fossero finiti e che la calma della tomba fosse cominciata. A ciò si doveva aggiungere la certezza che la morte sarebbe arrivata in un giorno prefissato. Tutto ciò si riferiva manifestamente alla condizione di colui che se ne doveva andare e non riguardava in alcun modo il benessere di coloro che dovevano rimanere. Egli non aveva tentato di dire che per il beneficio del mondo intero il sistema fosse un cattivo sistema. Che quei mali avrebbero colpito Crasweller stesso non vi era dubbio. Sebbene una dozzina di amici avrebbero potuto fargli visita quotidianamente, egli avrebbe provato solitudine nel Collegio perché non gli sarebbe stato consentito di scegliere compagni in modo indiscriminato come nel mondo esterno. Ma l’abitudine avrebbe senza dubbio prodotto un rimedio per quel male. Quando un uomo avesse compreso che avrebbe dovuto essere così, la dozzina di visitatori sarebbe stata sufficiente. Il giovane di trent’anni viaggia per tutto il mondo, ma il vecchio di settanta si accontenta del relativo confino nella sua stessa città o forse nella sua casa. E riguardo alla bruttezza delle cose da vedere, esse potevano essere senza dubbio rimosse dalla vista. Ma persino quello sarebbe stato risolto dalla consuetudine. Gli affari e i piaceri della vita per un periodo a termine erano in generale una finzione degli affari e una reminescenza del piacere. L’uomo saprebbe che il giorno fatale starebbe arrivando e si preparerebbe ad esso con un dolore infinitamente meno angoscioso per l’incertezza che non nel mondo esterno. Il fatto che la morte debba arrivare in un giorno stabilito genererebbe senza dubbio orrore, fino a che l’uomo non fosse in grado di confrontare la sua attuale posizione con quella dei pochi favoriti che, nella sua memoria, avevano vissuto felicemente fino all’età più avanzata. Ma se arrivasse il tempo in cui non ci fossero tali vecchi, non potrei che pensare che si determinerebbe uno schema mentale non recalcitrante alla contentezza. Sedendo là e ripensando a tutto ciò nella mia mente, mentre gli occhi si soffermavano sulla luminosa ampiezza del mare trasparente, percepii che il «Termine fisso» con tutti i suoi vantaggi era di una tale natura che necessariamente doveva essere posposto a un’epoca a esso preparata. L’eloquenza di Crasweller aveva avuto quell’effetto su di me. Vidi che sarebbe stato impossibile indurre la generazione attuale a un sentimento di soddisfazione per il sistema. Avrei dovuto dichiarare che non sarebbe cominciato se non con coloro che non erano ancora nati al momento o, addirittura, per mitigare il naturale timore delle madri, non con coloro che sarebbero nati nei successivi dodici anni. Sarebbe stato positivo posporlo di un altro secolo. Ammisi questo con me stesso, con la piena comprensione che una teoria applicata con così tanto ritardo poteva essere messa in pericolo dal suo stesso differimento. Come dovevo rispondere per lo zelo di coloro che sarebbero venuti tanto dopo di me? Talvolta pensavo a una data più immediata in cui io stesso avrei potuto essere il primo a essere depositato e che così mi sarebbe stato permesso di fissare l’esempio di un felice anno finale passato nel Collegio. Ma poi fino a che punto il

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mio esempio avrebbe indotto i Tallowax, i Barnes e gli Exors del tempo a seguirmi? Al mio arrivo in Inghilterra dovevo rimodellare del tutto il ‘‘Termine fisso’’ e nominare un giorno così lontano che persino i figli di Jack non avrebbero potuto vederlo. Fu con triste dolore nel cuore che decisi così. Tutti i miei sogni di ambizione personale si infransero immediatamente al suolo. Nulla sarebbe restato di me, se non il nome dell’uomo che aveva causato la distruzione della Repubblica di Britannula e la riassunzione del suo governo da parte della sua vecchia padrona. Dovevo mettermi al lavoro con penna, inchiostro e carta, con argomentazioni diffusamente scritte e con una logica studiata, sforzarmi di provare all’umanità che il mondo non doveva concedersi di sopportare l’indegnità, la debolezza e la miseria egoista della vecchiaia estrema. Confesso che la mia fede nell’efficacia di parole pronunciate, di parole che come una scintilla d’elettricità corrono dalle labbra dell’oratore fino al cuore di chi l’ascolta, era più forte della fiducia negli argomenti scritti. Questi mancavano del calore che le altre possedevano ed entravano solamente nella mente degli studiosi, mentre le altre toccavano le emozioni del mondo intero. Avevo già superato nel cuore di molti ascoltatori le difficoltà di cui io ora facevo esperienza. Avrei ancora tentato di fare ciò con il pubblico inglese. E mi sarei ancora soffermato sulla meschinità dell’uomo che non riusciva a fare un sacrificio tanto piccolo dei suoi ultimi anni per il beneficio della generazione successiva. Ma anche le parole pronunciate mi sarebbero giunte fredde e sarebbero cadute neglette nei cuori degli altri se si fosse sentito che la dottrina sostenuta non poteva in nessun modo avere effetto sull’essere vivente. Pensare a tutto questo mi aveva molto intristito, quando fui chiamato giù per il tè da un assistente di bordo che serviva alla mensa degli ufficiali. «Signor Presidente, volete tè, caffè, cacao, cioccolato o datteri in conserva? Ci sono muffins e crumpets1, pane tostato semplice e imburrato, plum cake, dolce al cumino, frittelle di pesca, marmellata di mele e pane e burro. Ci sono frutti di ogni tipo che sembrano appena arrivati da vigneti e frutteti, ma non li mettiamo in tavola perché pensiamo che dopo non riusciremmo a mangiare molto a cena». Questo fu l’invito che mi giunse da un giovane marittimo che sembrava avere circa quindici anni. «Trattieni la lingua, Percy», disse un ufficiale più anziano. «I frutti non li abbiamo perché Lord Alfred se ne è abbuffato tanto da star male e avevamo paura che sua madre, la duchessa, lo avrebbe ritirato dal servizio se fosse venuta a saperlo». «C’è del curaçao, del liquore alle erbe, pepperwick, mangostino2 e brandy russo nella credenza», suggerì un terzo.

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Tipi di focaccine tradizionalmente consumate nella prima colazione inglese e all’ora

del tè. 2

Possibili liquori derivati da frutti tropicali.

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«Prenderò un bicchiere di Madeira, solo un goccio», disse un altro che sembrava essere di pochi anni più vecchio di Lord Alfred Percy. Allora uno degli assistenti di bordo portò il Madeira, che il giovane bevve di gran gusto. «Questo vino ha fatto sette volte il giro del mondo», disse, «e l’unico momento in cui lo si beve è per il tè delle cinque. Questo per chi comprenda cosa significhi vivere bene». Chiesi semplicemente una tazza di tè, che trovai particolarmente buona, in parte per la panna che lo accompagnava. Poi salii al piano di sopra per fare la salutare passeggiata sul ponte con il signor Crosstrees. «Vi ho visto sedere là, molto pensoso, per un paio d’ore», disse, «e non ho voluto disturbarvi. Spero che non vi renda infelice essere portato via in Inghilterra». «Se così fosse stato, non so se sarei venuto via ... vivo». «Hanno detto che quando ve lo hanno suggerito, avete promesso che sareste stato pronto in due giorni». «L’ho detto perché mi aggradava. Ma riesco a fatica a immaginare che mi avrebbero portato a bordo con la violenza o che avrebbero passato tutta Gladstonopoli a fil di spada se mi fossi rifiutato di salire a bordo». «Brown ci aveva detto che dovevamo portarvi via vivo o morto e vivo o morto credo che vi avremmo preso. Se non ci fossero riusciti i soldati lo avrebbero fatto i marinai». Quando gli chiesi perché ci fosse questa grande necessità di rapirmi, mi garantì che in Inghilterra l’emozione era salita molto riguardo alla questione e che vari vescovi avevano dichiarato che niente di così barbaro doveva essere permesso nel ventesimo secolo. «Sarebbe stato un male», dissero, «quanto i cannibali della Nuova Zelanda». «Ciò dimostra l’ignoranza assoluta dei vescovi sull’argomento». «Oso ammetterlo; ma c’è un pregiudizio riguardo all’uccisione dei vecchi o delle donne. I giovani non contano». «Permettetemi di assicurarvi, signor Crosstrees», dissi, «che il vostro sentimento vi sta allontanando dalla ragione. Per lo Stato la vita di una donna dovrebbe essere esattamente uguale a quella di un uomo. Lo Stato non può permettersi di indulgere in romanticherie». «Prendete un marinaio e ditegli di colpire una donna e vedrete che cosa dirà». «Il marinaio è irrazionale. Naturalmente noi supponiamo che sia per il bene pubblico che la donna debba essere colpita. Con un vecchio è lo stesso. Il bene della comunità, e il suo stesso bene, richiede che oltre una certa età non gli venga concesso di esistere. Non lavora e non può godersi la vita. Consuma più della sua quota di necessità vitali e nel complesso diventa un peso intollerabile. Leggete in Shakespeare la descrizione dell’uomo in quest’ultima fase: ‘‘Seconda infanzia e mero oblio, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza tutto’’3; e la fase prima non è altro che quella del ‘Pantalone magro e in cia3

La citazione è da As You Like It di W. Shakespeare (II, vii, 165-166).

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batte’. Per il suo bene, non salvereste l’umanità dal dover andare incontro a tali miserie?» «Non potete farlo, signor Presidente». «Sono andato molto vicino a farlo. L’Assemblea britannula, nella solennità del suo giudizio, ha approvato una legge in tal senso». Successivamente mi dispiacque di aver parlato della solennità del giudizio dell’Assemblea, perché la cosa sapeva di fandonia. Il giudizio della nostra Assemblea non era particolarmente solenne, ma avevo voluto alludere alla presunta solennità associata al consiglio più alto dello Stato. «La vostra Assemblea, nella solennità del suo giudizio non poteva fare nulla del genere. Poteva passare una legge, ma la legge poteva essere eseguita soltanto da uomini. Il Parlamento in Inghilterra che è, lo ammetto, tanto solenne quanto l’Assemblea a Britannula ... «Mi scuso per la parola, signor Crosstrees, che sa di ridicolo. Non ho del tutto spiegato la mia idea al momento». «Dimenticata», disse, e devo riconoscere che non usò mai più quella parola contro di me. «Il Parlamento in Inghilterra può ordinare che un bambino di tre mesi venga trucidato, ma non riuscirebbe a farlo fare». «Neppure se fosse per il bene della Gran Bretagna?» «Neppure per salvare la Gran Bretagna dalla distruzione. La forza è molto potente ma non è potente neanche la metà della debolezza. Con la più grande alacrità del mondo potrei far sparare quel grosso cannone su battaglioni di uomini armati in modo da disperderli tutti al vento. Ma non potrei puntarlo in direzione di una sola fanciulla». Continuammo a discutere la questione a lungo e le sue convinzioni erano salde quanto le mie. Egli era sicuro che in nessuna circostanza un vecchio potesse essere privato della vita in conformità con il «Termine fisso». Dal canto opposto, io ero altrettanto sicuro, o ad ogni modo fingevo di esserlo, e gli dissi che non stava tendendo conto del progresso della saggezza dell’umanità. Ma ci salutammo da amici e poco dopo andammo a cena. Rimasi sorpreso di scoprire quanto poco il capitano avesse a che fare con gli ufficiali. A bordo della nave viveva quasi da solo, intrattenendosi con il suo tenente di vascello in prima per un quarto d’ora ogni mattina. Per l’occasione del mio primo giorno a bordo diede una festa in onore del mio arrivo fra loro e due o tre giorni prima che raggiungessimo l’Inghilterra ne diede un altra. Cenai con lui regolarmente ogni giorno, ad eccezione di due volte in cui fui invitato alla mensa degli ufficiali. Facevo colazione da solo nella mia cabina, dove mi veniva fornito tutto ciò che potevo desiderare e pranzavo sempre e prendevo il tè delle cinque con gli ufficiali. Restavo da solo fino all’una e durante tutto il viaggio trascorsi quattro ore ogni mattina a comporre questo volume così come appare ora stampato. L’ho messo in forma di storia perché penso di poter così rappresentare meglio i sentimenti delle persone intorno a me mentre cercavo di realizzare il «Termine fisso» a Britannula e perché così posso descrivere il tipo di opposizione evidenziata dall’espressione di quei

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sentimenti dai quali era influenzato il tenente di vascello Crosstrees. In questo momento non dubito che Crasweller sarebbe stato depositato se la John Bright non fosse apparsa. Del fatto che Tallowax o Barnes lo avrebbero seguito pacificamente si può dubitare. Essi, tuttavia, non sono uomini di grande peso a Britannula e gli ufficiali della legge avrebbero potuto costringerli a seguire l’esempio di Crasweller. Ma confesso che dubito che sarei stato in grado di procedere con i preparativi per la dipartita finale di Crasweller. Guardando avanti mi figuravo Eva inginocchiata ai miei piedi e riconoscevo la forza invincibile della debolezza alla quale Crasweller aveva alluso. Ci sarebbe voluto un eroismo divino, un eroismo disposto a essere chiamato brutale, e questo sapevo di non possederlo. Se il Parlamento inglese avesse ordinato di trucidare un bambino di tre mesi, non sarei stato l’uomo per farlo neppure se avessi giurato di servire il Parlamento inglese. In generale ero contento che la John Bright fosse giunta nelle nostre acque e mi avesse portato via nel suo ritorno in Inghilterra. Era una via di fuga immediata dai miei problemi, contro i quali ero in grado di fare rimostranze e mostrare con qualche verità dalla mia parte che ero stato ferito. Sono disposto ad ammettere tutto ciò nella forma del racconto, che ho adottato per questa mia opera e con la quale spero di ottenere un po’ di popolarità in Inghilterra. Una volta giunto a riva, mi metterò a lavorare a un volume di natura del tutto diversa e cercherò di essere argomentativo e statistico, quanto qui sono stato immaginoso sebbene fedele ai dettagli. Durante l’intero corso del mio viaggio verso l’Inghilterra il Capitano Battleax non mi disse mai una parola sul «Termine fisso». Era indubbiamente un ufficiale valoroso e possedeva tutti i talenti necessari per gestire un cannone brandeggiabile a vapore da 250 tonnellate, ma mi sembrava che fosse in qualche modo un persona pesante. Non fece allusioni a Britannula neppure nella conversazione e parlava sempre dell’arsenale di Devenport come se ogni suo angolo mi fosse stato familiare. Era molto pignolo nell’abbigliamento e sin dal primo giorno il tenente Crosstrees mi disse che si sarebbe risentito, come di una aspra offesa, se fossi sceso a cena senza la cravatta. «Ha ragione, sapete; queste cose contano», Crosstrees mi aveva detto quando avevo tentato di scherzare su questi puntigli. Ebbi comunque cura di indossare sempre la cravatta bianca sia con il Capitano sia con gli ufficiali. Dopo la cena con il Capitano, servivano sempre il caffè in una caffettiera d’argento su un vassoio d’argento. Lo si consumava senza fretta e poi, come compresi presto, il Capitano si aspettava che mi congedassi. Appresi successivamente che metteva immediatamente i piedi sul sofà e dormiva per il resto della serata. Io mi ritiravo nella cabina del tenente e là discutevo l’intera storia di Britannula per la durata di molti lunghi sigari. «Intendevate davvero uccidere i vecchi?», mi chiese un giorno Lord Alfred Percy, «tagliar loro la gola regolarmente, voglio dire, e portarli via per bruciarli?» «Non lo intendevo io, ma la legge».

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«Avreste posto fine a ogni povero vecchio senza la minima pietà?» «Non senza pietà», replicai. «Ora, il padre del mio tutore», disse Lord Alfred. «Sapete chi è?» «Mi si informa che è il Duca di Northumberland». «È un’eccellenza. Possiede tre castelli, metà di una contea e ha una rendita di mezzo milione all’anno. A stento posso dirvi che tipo di anziano sia a casa. Non vi è nessuno che non gli tributi il più profondo rispetto ed egli fa sempre il bene di tutti. Intendete dire che qualche connestabile o crematore o una specie di primo carnefice sarebbe andato da lui, lo avrebbe preso per la collottola e gli avrebbe tagliato la gola soltanto perché aveva sessantotto anni. Non posso credere che qualcuno lo avrebbe fatto». «Ma il Duca è un uomo». «Sì, è un uomo, senza alcun dubbio». «Se commettesse omicidio sarebbe impiccato, nonostante il suo ducato». «Non so come sarebbe», disse Lord Alfred esitando. «Non riesco a immaginare che mio nonno possa commettere un omicidio». «Ma sarebbe impiccato; ve lo posso assicurare. Sebbene sia molto improbabile − impossibile come io e voi pensiamo −, la legge è la stessa per lui come per gli altri. Perché non dovrebbe essere lo stesso per tutte le altre leggi?» «Ma sarebbe omicidio». «Quale è la vostra idea di omicidio?». «Uccidere la gente». «Allora siete assassini, visto che ve ne andate in giro con questo grande cannone al solo scopo di uccidere tanta gente». «Non abbiamo ancora ucciso nessuno». «Non siete meno assassini, se avete l’intenzione di uccidere. I soldati che uccidono altri soldati in battaglia sono assassini? Assassino è l’uomo che uccide illegalmente. Ora, secondo noi, ogni cosa sarebbe stata fatta legalmente, e temo che se vostro nonno fosse vissuto fra di noi sarebbe stato depositato come gli altri». «Non se Sir Ferdinando fosse stato lì», disse il ragazzo. Non potei andare avanti a spiegargli che in questo modo fuggiva dal suo vecchio argomento relativo al Duca, ma sentii che una nuova difficoltà sarebbe sorta dalla venerazione estrema tributata a certi personaggi. In Inghilterra cosa sarebbe accaduto con la famiglia reale? Sarebbe stato necessario esentarla, sino ai cugini più lontani e, se così, quanti cugini sarebbero stati generati! Temetti che il «Termine fisso» potesse andar bene solo per una Repubblica dove non vi fossero classi violentemente distinte dai loro subalterni confratelli. Se era così, sarebbe stato meglio per me andare negli Stati Uniti e cominciare a predicare là la mia dottrina. Nessun’altra Repubblica sarebbe stata sufficientemente forte da resistere a quei pregiudizi dalla testa di idra, con i quali l’ignoranza del mondo si fortifica abbondantemente. «Non credo», continuò il ragazzo portando a termine la conversazione, «che su questa nave vi sia qualcuno che

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prenderebbe mio nonno e lo ucciderebbe a sangue freddo». Nel mio viaggio verso l’Inghilterra fui disturbato in qualche modo dallo scoprire che gli uomini a bordo, i marinai, i fuochisti e gli assistenti mi consideravano una persona crudelissima. I pregiudizi della gente di questa classe sono così forti da essere assolutamente invincibili. È necessario che una nuova razza nasca prima che i pregiudizi vengano sradicati. Erano abbastanza civili nei loro comportamenti verso la mia persona, ma era stato insegnato loro che io mi dedicavo a massacrare i vecchi; mi consideravano con tutto quell’orrore che le nazioni moderne hanno riservato al cannibalismo. Un giorno udii un bisbiglio tra due degli assistenti: «Avrebbe di sicuro ucciso quel vecchio che era salito a bordo con lui, di sicuro se non fossimo arrivati in tempo per impedirglielo». «Non con le sue mani», disse uno che ascoltava. «Sì, con le sue mani. Era proprio questa la cosa. Non avrebbe lasciato che nessun altro lo facesse». Era così che essi consideravano il sacrificio che avevo pensato di fare delle mie stesse emozioni riguardo a Crasweller. Senza dubbio avevo suggerito che io stesso avrei usato il bisturi in modo da salvarlo da qualsiasi altro tocco meno amichevole. Successivamente credetti che quando fosse arrivato il tempo mi sarei trovato incapace di eseguire l’operazione. La naturale debolezza accidentale delle mie emozioni avrebbe prevalso. Ma ora quella promessa, un tempo fatta così dolorosamente, e che da allora pensavo dimenticata da tutti tranne che da me stesso, veniva ricordata contro di me come una prova della diabolica disumanità della mia disposizione. «Credo che pensino che intendiamo mangiarli», dissi un giorno a Crosstrees. Era diventato gradualmente il mio confidente al quale avevo reso noti tutti i dolori e i dispiaceri che mi erano caduti addosso durante il viaggio a causa dell’ignoranza degli uomini attorno a me. Non posso vantarmi di avere neppure minimamente condizionato la sua opinione con i miei argomenti, ma ad ogni modo egli aveva abbastanza sensibilità da percepire che non ero un cannibale sanguinario, ma che ero attivato da un vero sentimento di filantropia. Sapeva che il mio fine era quello di fare del bene, anche se non credeva nel bene che si sarebbe dovuto fare. «Dovete sopportarlo», disse. «Intendete dire che quando arriverò in Inghilterra sarò considerato con sentimenti personali dello stesso tipo?». «Sì, immagino di sì». Vi era un’onestà in Crosstrees che non gli permetteva mai di addolcire nulla. «Sarà difficile da sopportare». «I primi riformatori devono sopportare tali difficoltà. Non ricordo esattamente cos’era che Socrate voleva fare per i suoi ingrati compagni mortali; ma pensavano tanto male di lui che lo costrinsero a ingoiare del veleno. Il vostro Galileo ha avuto tempi duri quando disse che il sole restava fermo. Perché dovremmo essere superiori a Gesù Cristo, tanto per fare un esempio?

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Capitolo dodicesimo

Se non siete in grado di sopportare gli accidenti, non dovreste intraprendere l’affare». Ma in Inghilterra non avrei avuto un singolo discepolo! Non vi sarebbe stato nessuno a confortarmi o a incoraggiarmi! Non sarebbe stato meglio gettarmi nell’oceano e farla finita con un mondo così ingrato? A Britannula avevano conosciuto la mia vera disposizione. Là avevo ricevuto il credito dovuto ad un cuore tenero e a sentimenti amorevoli. Là nessuno aveva pensato che volessi mangiare le mie vittime o che avrei tratto godimento nel versare il loro sangue con le mie stesse mani. E simili notizie, che tanto male mi rappresentavano, avrebbero raggiunto l’Inghilterra prima di me e non avrei avuto nessun amico là. Non avrei più visto neppure il tenente di vascello Crosstrees una volta raggiunta la riva. Allora, per la prima volta, mi sovvenne l’idea che non ero affatto voluto in Inghilterra; che semplicemente dovevo essere portato via dalla mia stessa patria per evitare lo scempio che là avrei potuto fare e che per tutti gli scopi inglesi sarebbe stato meglio che venissi gettato in mare o lasciato su una qualche isola deserta. Ero stato portato via dal luogo dove, come ufficiale di governo, ero stato indubbiamente di qualche utilità, cosa che non potevo più essere ora. Nessuno in Inghilterra mi avrebbe voluto e gli sarebbe importato di me e sarei stato completamente senza amici là e solo. Per quanto ne sapevo potevano mettermi in prigione e tenermici, così da essere sicuri che non sarei tornato tra la mia gente. Se avessi chiesto la mia libertà, mi avrebbero potuto dire che a causa della mia sete di sangue sarebbe stato per il benessere generale che io ne fossi privato. Quando Sir Ferdinando Brown mi aveva detto che sarei stato certamente invitato a Windsor avevo preso le sue fiorite promesse come se non valessero nulla. Non avevo desiderio di andare a Windsor. Ma cosa avrei fatto di me stesso dopo il mio arrivo? Non sarebbe stato meglio ritornare immediatamente in patria, se solo me lo avessero permesso? Tutto ciò mi rese molto malinconico, ma più di tutto il sentimento che sarei stato considerato da tutti come un mostro di crudeltà. Non potevo che pensare alle parole che mi aveva rivolto il tenente di vascello Crosstrees. Il Salvatore del mondo aveva i suoi discepoli che credevano in Lui e una cara gioventù che Lo amava tanto. Quasi dubitai che la mia forza quale maestro di progresso potesse farmi attraversare la miseria che vedevo in serbo per me. «Non avrò tempi brillanti quando arriverò in Inghilterra», dissi all’amico Crosstrees due giorni prima del nostro arrivo. «Sarà tutto nuovo e vi saranno parecchie cose da vedere». «Vi imbarcherete per qualche altro viaggio?» «Sì; siamo richiesti nel Baltico immediatamente. Siamo buoni amici della Russia; ma nessun cane è veramente rispettato a questo mondo a meno che non mostri di poter mordere tanto quanto abbaia». «Io non sarò rispettato perché non posso né abbaiare né mordere. Che cosa faranno di me?». «Vi faremo scendere a Plymouth e vi manderemo a Londra, con una guardia di onore».

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«E che farà la guardia d’onore con me?» «Ah! Non posso rispondere di questo. Vi tratterà con ogni tipo di rispetto, senza dubbio». «Non vi è accaduto di pensare», dissi, «dove mi depositerà? Perché dovrebbe farlo? Ma per me la questione ha importanza. Là nessuno mi vorrà, nessuno mi conosce. Coloro per i quali io devo essere la causa di qualche guaio mi vorranno semplicemente fuori dai piedi e il mondo intero, se avrà sentito parlare di me, sarà stato semplicemente informato della mia malvagità e crudeltà. Non intendo distruggere me stesso». «Non fatelo», disse il tenente di vascello in tono pietoso. «Ma sarebbe meglio, se non fosse che certi scrupoli lo impediscono. Che cosa mi consigliereste di fare di me stesso, tanto per cominciare?» Fece una pausa prima di rispondere e mi guardò dolorosamente in viso. «Mi perdonerete se lo chiedo, perché, per quanto poca sia la conoscenza che ho di voi, di tutti gli inglesi voi siete l’unico di cui ho una qualche conoscenza». «Pensavo che foste intento a scrivere il vostro libro». «Che cosa farò con il mio libro? Chi lo pubblicherà? Come farò a creare un interesse per esso? Vi è qualcuno che, in un modo o nell’altro, crederà che io credo davvero nel ‘Termine fisso’»? «Io», disse il tenente di vascello. «Questo è perché voi mi avete conosciuto per la prima volta a Britannula e perché da allora avete passato un mese con me in mare. Siete il mio unico e solo amico e state per lasciarmi; e anche voi non credete in me. Dovete riconoscere che non avete mai conosciuto nessuno la cui posizione nel mondo fosse più pietosa o le cui difficoltà fossero più gravose». Poi lo lasciai e scesi a completare il mio manoscritto.

BIBLIOGRAFIA

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Bibliografia

Michael Wheeler, Heaven, Hell, and the Victorians., New York, Cambridge University Press, 1994. Su Anthony Trollope: David Skilton, Anthony Trollope and His Contemporaries. A Study in Theory and Conventions of Mid-Victorian Fiction, Basingstoke and London, Macmillan, 1996. First edition Longman 1972. Oxford Reader’s Companion to Trollope, ed. By R.C. Terry, Oxford University Press, 1999.

INDICE

David Skilton Introduzione

p.

7

Lucia Gunella Nota del traduttore

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25

Anthony Trollope Il termine fisso

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31

I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII.

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Introduzione Gabriel Crasweller Il primo cedimento Jack Neverbend La partita di cricket Il Collegio Colombo e Galileo La «John Bright» Il nuovo governatore Il municipio Addio! Il nostro viaggio in Inghilterra

Bibliografia

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2003 per A. Longo Editore in Ravenna da Edit Faenza