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Italiano Pages [138] Year 2018
Esoterismo e Alchimia
Officinæ, AA.VV.
IL SIMBOLO
ISBN 978-88-272-2846-3
© Copyright 2017 by Edizioni Mediterranee, via Flaminia 109 – 00196 Roma
Prefazione Redazione di Officinæ
Officinæ è la rivista internazionale della Gran Loggia di Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori che, come dice il suo nome, rappresenta il laboratorio dove ogni aspetto della cultura può ritrovare un rapporto con la via iniziatica. Nata nel giugno del 1989, fino al 2016 aveva forma cartacea di rivista trimestrale. A oggi, invece, si è evoluta in una struttura telematica, completamente disponibile on-line e continuamente aggiornata. Della sua antica forma cartacea si è conservato, tuttavia, l’uso di pubblicare tramite la casa editrice Edizioni Mediterranee un libro all’anno contenente alcuni articoli non disponibili on-line e concernenti temi di particolare interesse per un pubblico non necessariamente iniziato alla Massoneria. Il tema del simbolismo con cui si è voluto principiare la collaborazione con la casa editrice Edizioni Mediterranee è stato volutamente scelto in memoria di quel lontano giugno del 1989 dove, a incipit della rivista L’Editoriale¹ si esplicitava, appunto, che nel dominio dei valori iniziatici la comunicazione ha caratteri del tutto particolari: non solo essa vi privilegia il simbolico, ma nel simbolico stesso riconosce una struttura semantica che è una variabile relativa al livello di gnosi raggiunto dall’adepto. Da ciò seguono sia la condanna della divulgazione, sia la condanna della trasformazione del simbolico in forma discorsiva. Peraltro, pur nel convincimento che là dove è stato raggiunto un considerevole approccio esistenziale alla iniziazione, là necessariamente è il silenzio e l’incomunicabilità; tuttavia, nel momento in cui l’iniziazione è obbligata a manifestarsi, dovrà trovare lo strumento adeguato a tale manifestazione e sarà quindi obbligata a generare una sua peculiare comunicazione. In ogni caso dovrà rispondere alle sollecitazioni esteriori, adeguarsi alle domande,
concedersi ai dubbi della società se presume concretarsi nel dovere – cioè nell’operatività – la sua presenza al mondo. E qua ci fermiamo un attimo. Giusto il tempo di evidenziare al Lettore che è proprio il senso del dovere, inteso quale lavoro posto al servizio del bene della patria e dell’umanità, il carattere irrinunciabile della Libera Muratoria che, se un tempo, quand’era operativa si esprimeva nella costruzione sacra, oggi si deve manifestare nell’apporto critico e ideativo al patrimonio culturale della società. Non solo. Per un massone questo apporto vale unicamente in quanto per suo tramite la società può raggiungere più facilmente quelle aree di libertà nelle quali soltanto può maturare un vero divenire morale e intellettuale dell’umanità. In effetti questo è il significato della filantropia massonica: soddisfare il bisogno del colloquio, non solo in seno all’Istituzione, ma anche fra i suoi membri e il mondo esterno. Una comunicazione che non può non avere un indirizzo di sollecitazione intellettuale e morale; non dando perciò risposte precise ai quesiti, ma orientando, tramite la critica, a una ricerca progressiva personale sui fattori impliciti agli avvenimenti che si desidera esaminare. Questa affermazione di L’Editoriale potrebbe richiedere un chiarimento al Lettore, in quanto non è che la Massoneria voglia comunicare con il mondo non-iniziato tramite sollecitazioni ed eludendo risposte precise sugli argomenti trattati per celare una ipotetica verità di cui è unica detentrice, ma perché, come precedentemente detto, essa mira a sviluppare in ogni individuo – sia esso o meno tra i suoi membri – una coscienza critica e libera, persino da se stessa e dai singolari punti di vista dei suoi scrittori. Ecco perché nel presente volume, come in quelli a seguire, il tema trattato viene proposto come semplice raccolta di testi di autori diversi che, liberamente, manifestano ciascuno un particolare punto di vista, utile – speriamo – al Lettore per dar forma in se stesso a una propria idea sul concetto di simbolo. L’Istituzione, proponendo un tipo di approccio analitico, critico e interpretativo, accoglie con gioia tutte le voci veramente genuine, fresche e innovatrici, purché dotate delle competenze necessarie per trattare i temi
proposti con animo colto, sincero, rispettoso di ogni tradizione, libero da luoghi comuni, dalla cultura d’accatto, da ideologie prefabbricate, da accademismi e ciechi dogmatismi, nella speranza, nostra come in quella originaria di Canova, che l’apporto intellettuale di massoni e non-massoni possa in qualche modo essere un contributo efficace alla soluzione degli immensi problemi sociali che ci stanno davanti. Si tratta – concludeva L’Editoriale del 1989 – di un progetto spirituale, universale ed eterno, che questa pubblicazione dovrebbe mostrare agli adepti, ai profani e a tutti coloro che della vita hanno una visione di trascendenza e di OFFICIUM.
1. L’Editoriale, Officinæ, giugno 1989, n. 1, Edimai, Roma. La Prefazione è stata scritta traendo liberamente parti del testo dall’op. cit.
Premessa alla lettura di Speranza Capenna
“La Natura è un tempio in cui colonne viventi lasciano talvolta trapelare parole confuse; l’uomo attraversa foreste di simboli che lo osservano con sguardi familiari…”².
LE COLONNE VIVENTI. Se il povero uomo, armato solo delle sue percezioni, si aggira nella realtà come in un bosco intricato, potendo servirsi, per farsi un’idea di chi è e dove si trova, solo degli sguardi che può scambiare con i simboli che lo osservano fino a che gli osservatori non gli siano diventati familiari come le occhiate che gli lanciano mentre passa, provate a pensare quale insondabile intrico di formule siano tutte le costruzioni che il poveretto può fare. Non c’è manifestazione umana che non sia permeata di simboli, indipendentemente dalle specifiche e incontestabili definizioni che la semiotica fornisca, precisando con esattezza la differenza fra segno, emblema, allegoria e simbolo. Ogni scienza esatta o inesatta, ogni pensiero espresso, ogni testimonianza che l’uomo lascia di sé, ogni idea che voglia comunicare hanno un impianto simbolico. Archetipo, totem, tabù, mema, mitologema, cifra, glifo, figura, qualunque termine ogni singola disciplina utilizzi nel proprio lessico tecnico, tutti sono comunque riconducibili agli osservatori dell’uomo della foresta baudelairiana, discendono irrimediabilmente dalle pitture di Lascaux e dai rituali mimetici che il primo nostro antenato, sceso dagli alberi e messosi eretto, ha usato per riuscire a comunicare con i suoi simili. E di mano in
mano che comunicava finiva col creare simboli nuovi, col popolarne le sue narrazioni, che poi inesorabilmente divenivano esse stesse fonte di simboli utilizzabili per ogni comunicazione successiva. In pratica la comunicazione umana è ancora in larga misura basata su simboli, il che rappresenta una bella sfida, a ben pensare. Nell’accezione comunemente accettata, infatti, il “simbolo” ha come caratteristica peculiare quella di far scattare una sorta di cortocircuito fra chi lo osserva e la realtà o il concetto a cui rinvia. Non esistono mediazioni fra l’uomo e il simbolo, il colloquio è diretto e diretta è la presa di contatto con l’“oltre” di cui il simbolo è ponte. Di fronte al simbolo è inevitabile una sorta di reazione emotiva, una lettura di ciò che si ha di fronte e, nello stesso tempo, di ciò a cui rinvia, che inevitabilmente coinvolge l’istinto, oltre che la ragione. In pratica si viene costretti a una riflessione non solo logica ma anche analogica, e non a caso “analogia” è uno dei sinonimi derivati che affollano l’area semantica della parola simbolo. Questo però rende impossibile l’univocità di interpretazione. La componente istintuale e analogica che scatta di fronte a un simbolo ne rende la comprensione necessariamente soggettiva e individuale, non trasmissibile per intero ad altri. Nessuna immagine simbolica potrà mai completamente essere intesa allo stesso modo da due persone diverse, nessun albero della foresta guarderà mai con la stessa espressione due diversi passanti. L’albero resterà lo stesso e il suo sguardo risulterà comunque familiare, ma un viandante si sentirà protetto e guardato con benevolenza, un altro si sentirà controllato, un terzo minacciato da occhiate ostili. In fondo il povero uomo basa la sua comunicazione su qualcosa dal significato mai del tutto trasmissibile. Questo tipo di riflessione spinge a riconoscere la profonda saggezza di ciò che un Libero Muratore si sente costantemente ripetere nella sua vita: la simbologia massonica è stata creata non per diffondere un insegnamento ma per nasconderlo. È inevitabile e innegabile, ma complica le cose orribilmente. Non sarebbe il caso di tentare almeno l’impresa, peraltro praticamente impossibile, di eliminare i simboli? L’abbattimento di una foresta simbolica non avrebbe alcuna conseguenza sul surriscaldamento della terra e una volta trasformata l’Amazzonia in Sahara l’uomo avrebbe visuale totalmente libera. Ma per guardare cosa? Troverebbe poi punti di riferimento? Riuscirebbe a
creare un sistema di comunicazione che escluda la soggettività dell’interpretazione? Non sembra molto probabile. Soprattutto, la deforestazione comporterebbe l’irrimediabile perdita del significato profondo e storico del simbolo, questo sì chiaro e univoco, del suo originario ed etimologico ruolo di tessera hospitalis, di oggetto che fa riconoscere fra loro uomini uniti da un legame. La sua insostituibile ed eterna funzione primaria è quella di far riconoscere fra loro come fratelli individui che leggono come simbolo la stessa cosa, che si tratti di un libro, di un’opera lirica, di un’equazione, di un mazzo di carte, di un modo di dire, di un vecchio giocattolo…
2. C. Baudelaire, Corrispondenze, vv. 1-4.
Premessa alla lettura di John Klapka … Come detto, è dunque possibile una scelta ampia e diversificata tra le varie teorie dei simboli, tra le loro molteplici interpretazioni, così come è possibile riscoprirli e indagarli in svariati campi: in costruzioni architettoniche, fiabe, testi sacri, riti iniziatici, ma anche nelle scienze umane, nelle arti letterarie, nella cultura generale e in molto altro ancora. Dopo una Introduzione al concetto di “simbolo” di Antonio Binni e uno scritto su L’esoterismo del simbolo dove Aristide Luca Ceccanti contestualizza l’argomento in ambito massonico, il presente volume invita a percorrere la suggestiva via dell’universo onirico e inconscio della psiche, attraverso l’elegante e affascinante teoria di C.G. Jung. Egli affronta in modo sistematico anche lo studio dell’alchimia e dimostra che i simboli utilizzati dagli alchimisti coincidono con il simbolismo dell’inconscio. Ce ne parla Paolo Maggi, nel suo I simboli fra scienza e tradizione iniziatica. In questo senso quindi esiste una tradizione simbolica che affonda le sue radici nelle prime manifestazioni della spiritualità umana, in particolar modo la tradizione iniziatica, quella che, come scrive Antonio Binni (Riflessioni sulla tradizione e sulla tradizione iniziatica), trasmette la verità iniziale, principale, primordiale, vero e proprio cordone ombelicale che unisce la manifestazione plurima della realtà al suo Principio unico, senza soluzione di continuità. Ma c’è un nesso profondo anche tra tradizione e tradimento, che non a caso hanno una stessa etimologia, provenendo ambedue dal verbo latino tradere, consegnare, e ci rimandano al concetto di Sacro, in tutte le sue possibili declinazioni simboliche e concettuali (Cinzia Salvioli, Tradizione e tradimento). Veronica Mesisca (Mademoiselle Connaissance: riflessioni e divagazioni su La traviata) ci fa riflettere con sottile ironia sul difficile rapporto con la conoscenza, apparentemente alla portata di tutti, come una prostituta, ma in realtà appannaggio di pochi, sebbene nessuno se ne dica privo, perché solo la
devozione e l’incessante lavoro possono portare, attraverso un percorso lungo, tortuoso e difficile, nella sua casa. La complessità di questo viaggio rimanda per analogia alla simbologia del labirinto, di cui ci parla Carlo Moscardi (Il labirinto quale archetipo segno di un percorso interiore), cioè alla necessità della scelta, di cui il percorso labirintico è ricco. E il concetto stesso di dualismo pervade tutta la simbologia iniziatica della Libera Muratoria, dalle colonne al pavimento a scacchi, conducendoci, attraverso l’analisi dei sistemi deterministici, alla teoria del caos e al concetto stesso di entropia (Michele Angiuli, Il dualismo e le equazioni differenziali di Laplace). Al concetto di caos si riallacciano le moderne teorie riduzioniste di Richard Dawkins secondo cui il mondo procede senza un disegno preordinato, sulla base di una cieca casualità, sia a livello biologico che culturale. Ce ne parla Paolo Maggi (Il gene, il meme e la parola) in un articolo provocatorio e molto originale: in pratica, la maggior parte delle idee che costituiscono la cultura di un popolo sarebbe funzionale a un vantaggio immediato e in genere un’idea resisterebbe nel tempo solo se la sua convenienza si rinnova di giorno in giorno. E quindi ciò che ha valore solo nel lungo periodo sarebbe destinato a finire nel dimenticatoio, come una parola perduta, se non fosse che ci sono sempre alcune persone che ne conservano la memoria in attesa di tempi migliori. Di tutt’altro tipo era il progetto rinascimentale: il sogno della magia naturale era infatti impossessarsi del linguaggio in cui è scritto il libro della natura e utilizzarlo per catturare e manipolare i flussi di simpatie che regolano il macrocosmo e il microcosmo, ma anche plasmare un uomo nuovo, padrone del proprio destino e signore della natura. Di ciò si occupò Girolamo Cardano, l’eclettico filosofo, medico, matematico e mago del Rinascimento di cui ci parla Ida Li Vigni (Girolamo Cardano e la teoria dei sogni). Ancor più antica l’arte della divinazione attraverso i tarocchi (Margherita Calzoni, Divinazione e tarocchi: una storia pop), che ci rimanda idealmente alla simbologia alto medioevale e all’arte combinatoria delle immagini. Di Immaginario ci parla invece Paolo Aldo Rossi, secondo il quale la coscienza immaginaria fa parte integrante del matematico come del poeta, dell’uomo religioso come dell’artista, del musicista come del fisico. Michele Angiuli invece prende atto che la presenza del Libro Sacro all’interno dei Templi Massonici ha sempre destato un sentimento di perplessità anche in considerazione della ferma laicità propugnata dalla
Libera Muratoria e si interroga quindi sulla sua presenza sull’ara. Veronica Mesisca trae spunto da una famosa fiaba di Andersen, Il soldatino di piombo, per riflettere sul significato simbolico del filo a piombo e sulla simbologia del piombo in quanto tale. Successivamente, ed è sicuramente un testo molto inquietante, soprattutto per chi ha una certa età, Paolo Aldo Rossi compie un’indagine sul riso sardonico, collegandone l’origine etimologica sia alla Sardegna che al sedano, ma soprattutto legando il concetto di sardonico ad antiche e crudeli usanze che prevedevano l’eliminazione fisica degli anziani giunti ai settant’anni. Infine, a conclusione del volume, Aldo Mola illustra il problema dell’antimassoneria, ovvero di quando un’intera istituzione – o almeno la parola con cui essa si identifica – viene assunta come simbolo negativo all’interno della società in cui è inserita. L’Autore, in particolare, illustra le radici politiche, religiose ed esoteriche dell’avversione contro la Massoneria che, nel corso del tempo, si è tradotta in scomunica da parte della Chiesa cattolica, nell’incompatibilità tra ideologie totalitarie e affiliazione all’Istituzione, nel divieto di esistenza delle logge e talvolta, in alcuni Paesi, in persecuzione ed eliminazione fisica dei massoni. “La Massoneria”, scrive il professor Aldo Mola, nel corso della storia “figurò nell’elenco degli errori del mondo moderno”, venne identificata addirittura con Satana, il Male incarnato, da cui i suoi iniziati dovevano essere salvati. Così, da un’associazione di Liberi Pensatori che si circondavano di simboli universali per poter comunicare tra loro al di là di ogni lingua, religione o ideologia politica, si è paradossalmente ritrovata a essere eretta a simbolo stesso di un Male che, lungi dall’essere Satana, rimane semplicemente il Male dell’ignoranza e della superstizione, troppe volte “comodo” nel corso della Storia per alimentare l’immaginario popolare.
Introduzione al concetto di “simbolo” del S.G.C.G.M. Antonio Binni
In una accezione linguistica comune, al vocabolo “simbolo” si fa riferimento in termini abbastanza frequenti. Si dice, così, ad esempio che l’oceano è il simbolo della profondità; che la rosa è il simbolo dell’amore; che l’ordine, che esiste nel mondo, è il simbolo dell’universo ordinato che esiste nell’essere; che il dubbio è la parola simbolo della nostra epoca; che “l’autentico simbolo della natura è il cerchio” (Schopenhauer). Il simbolo è, dunque, una entità che ne rappresenta un’altra, con la quale è in qualche modo collegata. In questo significato generalissimo, il simbolo si confonde così con il segno che, a sua volta, indica un oggetto, il suo “referente”. Anche se il simbolo sembra avere con la cosa rappresentata un nesso più concreto, o addirittura naturale, a differenza del segno nel quale pare predominare invece un legame prevalentemente convenzionale, oltre che eminentemente sociale. La differenza fra simbolo e segno presenta però eccezioni, visto che vengono definiti simboli i segni usati dalla matematica – ad esempio, p e g – che non hanno per certo alcun legame “naturale” con le entità rappresentate. Il dato che provoca la distinzione fra il simbolo, da un lato, e il segno, dall’altro, costituisce oggetto di approfondimento nella linguistica e nella semantica moderna. Al tema non si è, però, potuto dedicare che un semplice accenno, a motivo che queste note, com’è ovvio, sono invece dedicate allo studio del rapporto fra le realtà che il simbolo collega, cioè il simboleggiante e il simboleggiato. Una storia, sia pure succinta, del concetto di simbolo, propriamente filosofica, non può che aiutare a comprendere il passaggio dalla tessera hospitalis alla peculiarità propria del simbolo colta nelle sue varie definizioni
tematiche, che marcano differenze, nonostante l’essenza comune, pacificamente riconosciutagli. In origine il simbolo (a Roma, tessera hospitalis) era un oggetto che indicava il legame di ospitalità fra famiglie o città, spezzato in più parti, ciascuna delle quali rimaneva a uno dei contraenti il legame e che, nel loro combaciare, valevano come segno di riconoscimento di relativa appartenenza o il vincolo di un rapporto speciale, quale quello fra amici o sodali. Questo senso originario del termine fu, tuttavia, abbandonato già nella Chiesa primitiva, nella quale la parola “simbolo” sta a significare la professione di fede. Così, ad esempio, nell’opera del santo filosofo Agostino intitolata appunto De fide et symbolo. Il termine, nella sua ricostruzione storica e concettuale, con la sola eccezione di Aulo Gellio – autore della tarda classicità – è raramente usato negli scrittori latini; il significato moderno sembra doversi al senso che assume nei pensatori cristiani. La definizione più significativa e pregnante del simbolo per la mentalità medievale è quella proposta da Ugo di San Vittore: “Il simbolo è collazione di forme visibili allo scopo di mostrare cose invisibili”, dove, all’evidenza, il concetto è funzionale al fine di mostrare il mondo come manifestazione di Dio. È, tuttavia, nel XVIII secolo che la nozione di simbolo, distaccatasi da quella della allegoria, assume una connotazione propria. A differenza della allegoria, che è un discorso costruito per indicare qualcosa che le rimane estraneo, il simbolo incarna, invece, la cosa rappresentata completamente in se stessa. A far chiarezza sulla distinzione principia Goethe. Il dibattito su arte classica e romantica acuisce la distanza fra i due concetti, prima nella Filosofia dell’Arte di Schelling, poi in Kant, secondo il quale il simbolo rappresenta un concetto indiretto, per definizione, aperto e dinamico. Hegel, affrontando il tema del simbolo, sembra avvicinarsi alla nozione formulata da Kant nella Critica del Giudizio (paragrafo 59).
L’uso del termine che viene fatto nell’Ottocento dagli studiosi del mito merita di essere rammentato. In Creuzer, il simbolo rappresenta un momentaneo incarnarsi della “pienezza dell’essere”, proprio in quanto tale. Bachofen lo considera come “un raggio che giunge dalle profondità”, che richiama, dunque, l’interprete all’infinito quale rivelato nei racconti mitici. La cultura contemporanea ha poi dedicato al simbolo studi approfonditi, sottolineando, specie in L. Lévy-Bruhl, il legame, quasi naturale, fra immagine e cosa rappresentata. Il simbolo, nella nostra epoca, ha due accezioni caratteristiche. La prima, che trae la propria origine da F. Nietzsche e da S. Freud, concepisce il simbolo come occultamento e maschera. La seconda è quella del neo-kantiano E. Cassirer, secondo il quale sono simboli tutte le produzioni spirituali. Di gran lunga prevalente è la nozione di simbolo ispirata da Freud che, nel simbolo, ravvisa una forma che rappresenta in modo velato contenuti nascosti che la coscienza si rifiuta di accettare nella loro immediatezza, in quanto colpiti da censure morali e sociali. Concludendo questa rassegna, che costituisce, volutamente, un semplice abbozzo, ricordiamo P. Ricoeur, trattandosi dello studioso che ha più riflettuto sul simbolo, il cui pensiero riveste ai nostri fini una particolare importanza. Anche in Ricoeur, come in Freud, il simbolo occulta, o comunque contiene più di quanto non dica esplicitamente. Dove questo “di più” è, però, interpretato come una peculiare trascendenza che annuncia il Sacro. Il che spalanca la via al concetto di simbolo in Massoneria. Il simbolo, in questo ambito, è, infatti, in un rapporto di tale solidarietà con il contenuto che esprime, da porsi come il suo naturale ed esclusivo tramite. In Massoneria il simbolo è, infatti, lo strumento imprescindibile per la conoscenza di una realtà altrimenti insondabile. In particolare la Libera Muratoria insegna che il reale, o cosmo, inteso come un coacervo di Sacro/divino, da un lato, e uomo/creatura dall’altro, è costituito da una duplicità, che si esprime come visibile/invisibile, o, come altrimenti si dice, in manifesto/occulto. Questo perché una parte può essere percepita con i sensi, e un’altra, che non è sensibile, può essere invece compresa solo in senso speculativo e metafisico.
La comprensione, tanto del direttamente percepibile, quanto dell’invisibile nascosto, richiede processi cognitivi che permettono di cogliere particolarmente il mondo dell’occulto e della sua essenza, facendolo così apparire come esistente. Lo strumento, per antonomasia, che consente questo portare alla luce il mallo che esiste nel guscio, è costituito dal simbolo perché, in quanto unione di opposti, il simbolo è l’unico mezzo che consente una visione totalizzante della realtà, tanto esterna, quanto interna, perciò, dell’ordine che c’è nel mondo, nell’universo, nell’essere. Il simbolismo finisce così per essere il linguaggio proprio (anche se non esclusivo) del massone, che non si accontenta di una lettura superficiale del reale, proteso, invece, com’è a cogliere la verità dell’essere, o, per dirla con una espressione più facile e corrente, lo stato delle cose. Verità e essere sono, infatti, la stessa cosa, anche se lo stesso concetto viene poi espresso in due forme verbali differenti. Il massone, appropriandosi del simbolo, inteso come ossimoro, finisce, così, per assumere la veste di cittadino di due mondi: quello al quale appartiene effettivamente in quanto vive e opera in ambito fattuale e quello speculativoideale, nel quale, come un palombaro dello spirito, si immerge per cogliere l’essenza. Anche se poi, nella propria indagine, prende le mosse dall’uomo e dalla domanda nella quale l’uomo si risolve e si rivela, senza mai trascurare l’impegno culturale che deve, comunque, tendere a una sempre più approfondita conoscenza antropologica e questa a servizio della umanità.
L’esoterismo del simbolo Nel trattare il tema dell’esoterismo del simbolo, è facile scivolare nella banalità più vieta. I due termini sono talmente diffusi, talmente abusati in Massoneria, da aver perso ogni connotato di precisione. Troppo spesso ormai sono diventati termini inutili, incapaci di veicolare conoscenza o, almeno, informazione. Con il termine esoterismo oggi s’intende veramente di tutto. Se in libreria si entra nel reparto dedicato, si possono trovare – senza pretesa di essere esaustivo nell’elenco – libri d’astrologia, di cartomanzia, di radioestesia, di rabdomanzia, d’alchimia, di magia, stregoneria, ufologia, Massoneria, egittologia, tantra, cabala, negromanzia, teurgia, pranoterapia, lettura del pensiero, perfino di cucina! Insieme, ci troveremo cd e dvd, profumi, carte, amuleti, gemme, coralli, pendolini, zampe di coniglio, sfere di cristallo… È chiaro che se per “esoterismo” s’intende l’intero coacervo di scienze e arti esoteriche, rappresentate da personaggi tanto diversi quanto il Guénon e il mago Otelma, non si va da nessuna parte. Lungi dall’esprimere giudizi di valore sull’uno o sull’altro. Si vuole però qui tentare di precisare e circoscrivere strettamente l’ambito di quell’esoterismo che riguarda gli iniziati alla Massoneria. Una delle principali Obbedienze italiane, il Grande Oriente d’Italia, nelle sue Costituzioni si definisce come “la Comunione italiana [che] segue l’esoterismo nell’insegnamento e il simbolismo nell’Arte Operativa”. Non male come definizione. Anche se un equivoco resta possibile: l’esoterismo, infatti, potrebbe indicare tanto il metodo di lavoro che il contenuto dell’insegnamento. Ma, se esoterico fosse il contenuto, dovremmo essere in grado di individuare un certo numero di discipline che solo in una loggia massonica possono essere apprese, discipline quindi riservate o segrete come lo erano quelle dei Pitagorici o gli insegnamenti d’Aristotile ai suoi liceali paganti. Manifestamente, di queste discipline non ne esistono, anche perché per essere buoni alchimisti, cabalisti, astrologi, non è necessario
essere massoni e, naturalmente, viceversa. Ovviamente, quindi, s’intende una Massoneria che segue l’esoterismo come metodo di insegnamento, volto appunto all’indagine profonda, intima, sostanziale e non apertamente manifesta degli argomenti che essa prende in esame. Per quanto riguarda, poi, il senso del simbolo, solitamente si segue un ragionamento che invita a “non confondere il simbolo col segno. Mentre il segno è generalmente univoco, e istituisce una relazione precisa fra significante e significato, il simbolo è per sua natura multisignificante. Di conseguenza, l’interpretazione del simbolo non può che essere personale”³. Siccome, però, in Massoneria tutto è simbolo, il corollario di questo discorso parrebbe essere che tutto è soggetto a interpretazione personale. È una idea simpatica, ma che nasconde – e neanche poi tanto – la negazione di una qualsiasi oggettività all’esperienza massonica. Ovviamente, non è sulle fragilissime basi di un soggettivismo assoluto che la Massoneria moderna avrebbe potuto reggersi per tre secoli. È chiaro dunque che dovremo ridurre – e di molto – questo soggettivismo interpretativo! Riprendiamo allora quella definizione secondo la quale la Massoneria “segue il simbolismo nell’Arte Operativa”, ovvero l’Ars Aedificandi, il cui complesso di pratiche, conoscenze, strumenti, consuetudini associative, viene assunto a modello simbolico dell’associazione massonica speculativa. Notiamo che non abbiamo a che fare con un simbolo o con dei simboli, ma con un complesso simbolico, un sistema, che trova la sua unitarietà e coerenza nell’unitarietà e coerenza di pratiche, conoscenze, strumenti e consuetudini associative dell’Arte Operativa. Il valore di ciascun simbolo, così come quello del corpus simbolico nel suo complesso, devono essere non contraddittori coi valori operativi di riferimento. Già così di soggettivismo ce n’è meno. Ma facciamo un passo ulteriore, di contestualizzazione e storicizzazione. L’Arte Operativa che servì di riferimento ai codificatori della Massoneria moderna è quella dei costruttori del periodo che va dal Trecento ai primi del Settecento. Possiamo utilizzare gli strumenti simbolici che i padri fondatori dell’istituzione massonica hanno tramandato senza tener conto della loro ermeneutica, del modo in cui essi interpretavano e davano senso al simbolo? È su questa ermeneutica che bisogna porre l’attenzione perché
essa rappresenta la chiave essenziale per entrare nel mondo del simbolismo dalla stessa porta che i padri fondatori varcarono. Un’ermeneutica universale oggi non c’è più⁴: lo sviluppo delle scienze umane nel corso dei secoli XIX e XX ha moltiplicato gli strumenti dell’analisi, complicando spesso la sintesi. Un residuo ne rimane nel Catechismo della Chiesa Cattolica quando si tratta dell’interpretazione delle Sacre Scritture⁵. Ed è notevole il fatto che un codice interpretativo formalizzato nel XIII secolo da Agostino di Dacia, soddisfi così perfettamente le esigenze degli studiosi per cinquecento anni, senza essere tutt’oggi interamente sostituibile. La prima esposizione in lingua italiana è quella pressoché coeva di Dante Alighieri, che nel Convivio scrive:
“2. […] E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. 3. L’uno si chiama litterale, […] 4. L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. 5. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. 6. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare apostando per le scritture a utilitade di loro e di loro discenti: sì come apostare si può nello Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che delli dodici Apostoli menò seco li tre: in che moralmente si può intendere che alle secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. 7. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose dell’etternal gloria: sì come vedere si può in
quello canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israel d’Egitto Giudea è fatta santa e libera: che avegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che nell’uscita dell’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate”⁶.
Occorre notare nel testo di Dante i riferimenti tanto alle Scritture che alla poesia, cioè alla dimensione divina come a quella umana del sapere. Se applichiamo questa ermeneutica, ci rendiamo conto che il senso letterale del simbolo non può essere in alcun modo trascurato. In questo senso il simbolo è anche segno e dunque per praticare la Massoneria speculativa è necessaria una conoscenza per lo meno sommaria della Massoneria operativa: del disegno, dell’architettura, e perfino della pratica di cantiere. Per chiarire ulteriormente questa affermazione, riferirò un aneddoto che un illustre storico belga della Massoneria ha raccontato qualche anno fa in una mailing list di ricercatori. Costui aveva sentito un suo Fratello raccontare che, da giovane, aveva fatto uno stage in cantiere. Incaricato di portare dei mattoni a un muratore, si era trovato con le braccia ingombre a passare su un’asse sospesa e poco stabile. Aveva appena cominciato a mettere con precauzione un piede avanti all’altro quando il muratore gli gridò: “Ragazzo, ti vuoi rompere il capo? Metti i piedi a squadra!”. Così fece, e un piede dietro l’altro riuscì a passare senza incidenti. Quale non fu la sua meraviglia quando, anni dopo, durante la cerimonia d’iniziazione, gli fu insegnato il passo da apprendista in una loggia massonica, e si accorse che era uguale! Il senso letterale del “passo” illumina in maniera straordinaria quello allegorico. Come detto, esoterismo e simbolo sono concetti talmente legati l’un l’altro da darsi reciprocamente senso in Massoneria perché, per un Libero Muratore, il momento morale (che Dante apostrofa come “terzo senso”) e quello anagogico (indicato come “quarto senso”) nell’interpretazione del simbolo trovano il loro strumento di espressione proprio nel metodo, ovvero nell’esoterismo.
Il senso morale, in particolare, viene designato dal divino Poeta con il termine “apostare” che oggi contestualizziamo diversamente (svalutandolo), mentre l’anagogico resta fin troppo misterioso nel suo scritto⁷. Traducendo la parte di interesse in italiano corrente, si può leggere:
“Il terzo senso si chiama morale, ed è quello che gli insegnanti devono (apostare) trovare ricercandolo per le scritture, a utilità loro e dei loro allievi: così come si può (apostare) trovare ricercandolo nell’Evangelo, che quando Cristo salì il monte per trasfigurarsi, dei dodici Apostoli ne portò solo tre con sé. E da ciò si può capire moralmente che nelle cose più segrete dobbiamo avere poca compagnia”.
Dante usa la parola “apostare” nel senso di “mettersi in posta”, cioè praticare una forma di caccia nella quale si aspetta alla posta la selvaggina. Si può tradurre con “trovare ricercandolo”, ma “apostare” significherebbe proprio l’atto di mettersi nella condizione che l’evento possa realizzarsi. Ma che si realizzi o no, alla fine, non dipende da colui che “aposta”: sarà la selvaggina a decidere se venire o no a tiro. Dante richiama, quindi, la responsabilità dei maestri nei confronti degli allievi⁸, anzi, lega il destino degli uni a quello degli altri, con parole singolarmente simili a quelle di molti rituali massonici. Poi, a chiarimento del senso morale, ricorda l’episodio evangelico della trasfigurazione, uno dei più densi di significati simbolici, nel quale il Cristo si rivela nella sua natura divina e i tre Eletti sperimentano l’estasi del Paradiso. Infine, improvvisamente, abbassa il tono, e tronca il discorso: “Nelle secretissime cose dobbiamo avere poca compagnia”. Riassumendo, Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia⁹, ovvero: la lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere, il senso morale insegna che cosa fare, l’anagogia dove tendere. Poiché la realizzazione del senso morale in Massoneria è “l’ortoprassi”, ovvero il retto agire, ecco che la nota definizione inglese secondo la quale “la Massoneria è un sistema morale velato in allegorie e illustrato da
simboli”¹⁰ acquista una nuova luce dove il sistema morale non è altro che il metodo esoterico, applicato all’oggetto, il simbolismo tratto dall’Arte Operativa, per ricercare il “sovrasenso” (o senso anagogico) o la “Luce Inaccessibile”¹¹ che, per un Libero Muratore, è l’iniziazione realizzata nell’operare sempre per il bene del prossimo e dell’umanità, pur consapevole dei limiti, delle imperfezioni e degli sbagli che la condizione umana impone a ogni individuo di questo mondo.
Aristide Luca Ceccanti 3. R. Alleau, La Science des Symboles, Bibliothèque scientifique Payot, Paris 1996. René Alleau, filosofo e storico della scienza, è autore di diverse opere sull’alchimia, le società segrete e i simboli. Ha diretto diverse collezioni, fra le quali la Bibliotheca Hermetica presso l’editore Denoël. 4. Già nella seconda metà del Settecento l’ermeneutica tradizionale aveva perso smalto. L’Encyclopædia Britannica, pubblicata a Edimburgo nel 1771, dà questa definizione di simbolo: “Un segno o rappresentazione di qualcosa di morale, per mezzo di raffigurazioni o proprietà di qualche oggetto naturale. I simboli possono essere di vario tipo, come geroglifici, schizzi, enigmi, parabole, favole eccetera. Fra i Cristiani, il termine simbolo denota il ‘Credo degli Apostoli’”, in R. Alleau, op. cit. 5. Catechismo della Chiesa Cattolica, sez. I, cap. II, art. III, I sensi della Scrittura: 115. Secondo un’antica tradizione, si possono distinguere due sensi della Scrittura: il senso letterale e quello spirituale, suddiviso quest’ultimo in senso allegorico, morale e anagogico. La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza. 116. Il senso letterale è quello significato dalle parole della Scrittura e trovato attraverso l’esegesi che segue le regole della retta interpretazione. “Omnes (sacrae Scripturae) sensus fundentur super unum, scilicet litteralem, Tutti i sensi della Sacra Scrittura si basano su quello letterale” [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 1, 10, ad 1]. 117. Il senso spirituale: data l’unità del disegno di Dio, non soltanto il testo della Scrittura, ma anche le realtà e gli avvenimenti di cui parla possono essere
dei segni. 1. Il senso allegorico. Possiamo giungere a una comprensione più profonda degli avvenimenti se riconosciamo il loro significato in Cristo; così, la traversata del Mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo, e così del Battesimo [Cfr. 1 Cor 10, 2]. 2. Il senso morale. Gli avvenimenti narrati nella Scrittura possono condurci ad agire rettamente. Sono stati scritti “per ammonimento nostro” (1 Cor 10, 11) [Cfr. Eb 3-4, 11]. 3. Il senso anagogico. Possiamo vedere certe realtà e certi avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce (in greco anagoghé) verso la nostra Patria. Così la Chiesa sulla terra è segno della Gerusalemme celeste [Cfr. Ap 21, 1-22, 5]. 118. Un distico medievale riassume il significato dei quattro sensi: Littera gesta docet, quid credas allegoria. Moralis quid agas, quo tendas anagogia. “La lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere”, ovvero: il senso morale che cosa fare, e l’anagogia dove tendere. 6. Dante Alighieri, Convivio, l. II, cap. 1, § 2-7. 7. Siamo comunque in buona compagnia. Anche Guénon, in L’esoterismo di Dante, afferma che il quarto senso dell’interpretazione rimane oscuro. 8. Che, nel Convivio, chiama “lettori” e “discenti”. 9. Tratto dal Catechismo della Chiesa Cattolica, sez. I, cap. II, art. III. 10. Gran Loggia Unita d’Inghilterra, Identità. 11. Il termine che usa Dante deriva direttamente dal neo-platonismo, e più precisamente dallo Pseudo-Dionigi Areopagita, il quale ebbe enorme fortuna nel Medio Evo cristiano. Diego Fusaro, in , afferma che Dionigi è il primo a tematizzare in modo sistematico l’apofatismo, ovvero a elaborare una “teologia negativa”. In sintesi ciò significa che è molto di più ciò che di Dio, Mistero infinito, non possiamo conoscere, che non ciò che di Lui possiamo conoscere. La sua teologia si scandisce in tre momenti: 1) teologia katafatica (o positiva): il Mistero è conoscibile mediante i suoi effetti, cioè la creatura, che Gli è in qualche modo simile; in questo senso possiamo dire che Dio è tutto ciò che nel creato è perfezione: ad esempio vita, piuttosto che morte, potenza, piuttosto che impotenza, intelligenza, amore, libertà, giustizia; 2) teologia apofatica (o negativa): le perfezioni che attribuiamo a Dio non sono tali quali le
conosciamo nella nostra esperienza di creature: tra Creatore e creatura vi è una distanza infinita, dunque una dissimiglianza maggiore della somiglianza; in questo senso possiamo dire che Dio è non-vita, nonpotenza, non-intelligenza ecc., nel senso che non è tali perfezioni come le conosciamo noi; 3) teologia superlativa: il Mistero ha in sé tutte le perfezioni presenti nel creato (katafatismo), ma non quali le conosciamo noi (apofatismo), bensì in grado infinitamente perfetto; in questo senso possiamo dire che Dio è super-vita, super-potere, super-intelligenza ecc. In Dionigi manca quello che per la cultura occidentale, da sant’Agostino in poi, è diventata una componente essenziale, la storia: l’immagine del mondo che egli trasmette è quella di una contemplante, pacificata adorazione liturgica. Ma, se tale concezione può integrare la frenesia attivistica tipicamente occidentale, non può eliminare il senso drammatico della storia come lotta.
I simboli fra scienza e tradizione iniziatica Uno degli argomenti più affascinanti e originali che ci riserva lo studio della tradizione iniziatica sono i simboli. I simboli, questi sconosciuti. Sono un argomento sempre poco (e male) affrontato nei consueti percorsi della cultura dominante. Eppure hanno un potere comunicativo e una capacità di stimolo intellettuale di impressionante efficacia. Il simbolo non utilizza la razionalità come unica modalità di pensiero, né si serve del linguaggio verbale come unico tramite di espressione, ma utilizza un meccanismo di pensiero che è insieme razionale e sovra-razionale e un linguaggio che è insieme verbale ed extraverbale. Grazie a questa capacità di coinvolgere differenti modalità di pensiero e di comunicazione, il linguaggio dei simboli veicola intuizioni profonde e risveglia piani di coscienza consuetamente dormienti. Il simbolo è davvero un universo degno di grande attenzione. Ma anche tra i suoi appassionati non mancano polemiche: come va interpretato il simbolo? L’interpretazione dei simboli è libera e soggettiva nella cultura iniziatica? E dobbiamo considerare degne di rispetto (se non addirittura sacre) tutte le possibili letture di un simbolo? È legittimo, qualcuno si domanda, avere un atteggiamento relativistico e persino oggettivistico nell’interpretazione del simbolismo? O esistono tradizioni e competenze sui simboli che non si possono bellamente ignorare e che, dunque, devono fungere da guida nella loro lettura? Per tentare di rispondere a tali domande non è sbagliato rivolgersi a chi ha affrontato questo argomento in modo scientifico.
Forse l’uomo di scienza che più ha approfondito lo studio dei simboli è stato Carl Gustav Jung. La sua elegante e affascinante teoria dei simboli, formulata nei primi anni del secolo scorso, è quella che più di ogni altra resiste alla prova del tempo. Jung si è imbattuto nei simboli quasi per caso, nel corso dei suoi studi sui sogni. Si dice che un giorno un suo paziente gli raccontò di aver visto in sogno una cattedrale in cui, in fondo a un pozzo profondo, un dragone faceva la guardia a una coppa d’oro che conteneva le chiavi della città. Jung, a questo racconto, ebbe un sussulto: proprio qualche giorno prima, in un manoscritto medievale, aveva letto di una visione del tutto simile al sogno del suo paziente. Era da escludere che il malato conoscesse il contenuto dello scritto medievale. Allora come si spiegava questa coincidenza? Jung fece un’ipotesi: forse gli stessi simboli possono manifestarsi nell’uomo in tempi e luoghi completamente diversi. Il medico doveva dimostrare questa ipotesi e, per farlo, iniziò a studiare i simboli, i miti, le leggende e i riti di ogni epoca e tradizione culturale. E iniziò dalle fonti più antiche: visitò il Marocco, l’India, il Kenia, l’Uganda, ma anche gli Stati Uniti, alla ricerca della cultura degli indiani Pueblos nel Nuovo Messico. Poi approfondì la storia delle religioni e l’occultismo. E scoprì che la mente umana ha creato in diversi tempi e luoghi gli stessi simboli¹². Secondo Jung nei miti, nelle leggende e nelle fiabe, indipendentemente dal luogo di provenienza, ricorrono costantemente temi e immagini dominanti. Queste stesse immagini riaffiorano anche nei sogni, nelle fantasie e nelle allucinazioni dei pazienti. Jung, inoltre, sostiene che, come il corpo umano si è evoluto nei millenni adattandosi alle necessità imposte dall’ambiente esterno, così la nostra psiche si è costruita nel tempo. Dunque, esplorando l’inconscio si possono trovare tracce del suo lontano passato, delle sue radici. Queste tracce sono i simboli. Essi rappresentano i mattoni costitutivi della nostra psiche e, contemporaneamente, il suo linguaggio, quello con cui l’inconscio prova a comunicare con la mente razionale, a volte senza riuscirci. Questo patrimonio comune di simboli, che lui chiama archetipi (letteralmente impronte originarie), da sempre fa parte della nostra psiche, andando a costituire quello che egli definisce l’inconscio collettivo, perché è un patrimonio comune dell’uomo.
In ogni tempo e in ogni cultura troviamo simbologie simili: il sole è benefico o distruttore, la madre è generatrice di vita ma anche portatrice di morte, l’eroe solare sale allo zenit per ridiscendere nel buio e poi risorgere in un continuo alternarsi di speranza e timori. In quest’ottica Jung affronta in modo sistematico anche lo studio dell’alchimia. Egli dimostra che i simboli utilizzati dagli alchimisti coincidono con il simbolismo dell’inconscio. E conclude che i simboli alchemici altro non sono che archetipi, esperienze del nostro inconscio antichissime e universali, nei quali l’alchimista era inciampato e che proiettava sui fenomeni della natura da lui osservati e utilizzava per descriverli. In sostanza, per Jung, l’alchimista, proiettando la propria psiche sulla materia su cui lavorava, cercava inconsapevolmente di raggiungere la sua unità interiore.
“Tendo perciò a supporre che l’effettiva radice dell’alchimia non vada ricercata tanto nelle concezioni filosofiche, quanto nelle esperienze di proiezione dei singoli indagatori. Con ciò intendo dire che durante l’esecuzione dell’esperimento chimico, l’adepto viveva certe esperienze che gli apparivano come un comportamento particolare del processo chimico. […] Ma ciò di cui viveva l’esperienza era in realtà il suo inconscio”¹³.
In realtà egli estende il suo giudizio a molta parte della scienza antica, soprattutto l’astrologia:
“L’astrologia è un’esperienza primordiale simile all’alchimia. Tali proiezioni si ripetono sempre dove l’uomo tenta di esplorare una vuota oscurità e la riempie di figurazioni vive”¹⁴.
Inoltre, analizzando i parallelismi fra i simboli alchemici e quelli delle diverse religioni, egli osserva che l’alchimia condivide una serie di simboli appartenenti a religioni molto diverse, poiché anche il simbolismo religioso utilizzerebbe archetipi innati provenienti dall’inconscio.
“Benché le forme d’esperienza individuali siano d’una molteplicità infinita, pure esse si muovono, come anche il simbolismo alchimistico dimostra, attorno a certi tipi centrali che sono universalmente presenti. Intendo riferirmi a quelle immagini primordiali alle quali le confessioni religiose attingono la loro verità, di volta in volta assoluta”¹⁵.
Insomma, per Jung, i simboli sono già dentro di noi, sono la modalità di espressione del nostro inconscio. Sono un linguaggio antichissimo e universale, prodottosi lentamente nel tempo, durante l’evoluzione della psiche. Per dirla con le sue parole sono “forme presenti universalmente ed ereditate che nella loro totalità costituiscono la struttura dell’inconscio”¹⁶. Il simbolo junghiano è una chiave di volta fondamentale perché è il tramite fra inconscio e coscienza, ma è anche il collegamento fra mondo interno e mondo esterno dell’individuo. E infine è il punto di incontro tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo. Le antiche culture hanno poi utilizzato gli archetipi per produrre i miti che altro non sono che l’esperienza di un popolo, reinterpretata alla luce dei simboli. Questi concetti sembrano difficili da spiegare, ma possono essere facilmente compresi con un esempio che Jung ci propone nella sua opera Simboli della trasformazione. Egli ci descrive una danza eseguita in primavera dalla tribù australiana dei Wakandi intorno a una buca scavata nel terreno e modellata in modo da imitare i genitali femminili. I guerrieri danzano intorno a questa fossa per tutta la notte tenendo le lance erette dinanzi a sé e conficcandole nella buca. In questo incantesimo di primavera è chiara l’evocazione sessuale. Ma si tratta solo dell’aspetto apparente del
cerimoniale. In realtà l’intera cerimonia è un rituale magico di fecondazione della terra. Il linguaggio del simbolo e del rito hanno permesso di incanalare l’energia che proviene da un istinto sessuale in un progetto culturale collettivo: quello di rendere fecondo il raccolto della propria terra. “Il segreto dell’evoluzione della cultura sta nella mobilità e nella dislocabilità dell’energia psichica”¹⁷, dice Jung. Ma se l’energia psichica può essere dislocata e utilizzata per un progetto, questo si deve alla potenza del simbolo e del rito. Lo studio degli archetipi ci porta inevitabilmente a parlare di inconscio. Jung ha un’originalissima idea dell’inconscio: potremmo paragonarlo a un albero che affonda le sue radici nella parte più istintiva, primordiale, animalesca del nostro io, ma le cui chiome si innalzano fino a toccare le vette del divino:
“Come la psiche si perde in basso nella base organico-materiale, così essa trapassa in alto in una forma cosiddetta spirituale, la cui natura ci è poco nota come ci è poco nota la base organica dell’istinto”¹⁸.
L’inconscio di Jung, che egli identifica con il concetto di anima, è un universo magmatico, privo di polarità dove coesistono indistinti il maschile e il femminile, il bene e il male, l’istinto animale e la pulsione al Sacro. L’inconscio è un’enorme fonte di energia e vitalità da cui la nostra mente può attingere forza, ma che ci può anche creare parecchi problemi. Infatti questo nostro lato oscuro della luna è costretto a una scomoda convivenza con un altro inquilino anche più ingombrante di lui: il nostro io razionale, quell’insieme di costumi e di valori sociali e culturali con cui la famiglia e la società ci hanno plasmato dalla nascita. L’anima e la razionalità, le due facce della nostra luna interiore, sono spesso in conflitto tra loro e la loro guerra genera disagio psichico e, a volte, malattia mentale.
L’uomo, per Jung, deve darsi un obiettivo: riuscire a plasmare una propria autonoma personalità in cui la faccia luminosa e quella oscura del nostro pianeta interiore convivano in armonia. Questo è possibile solo se si è disposti a esplorare il nostro inconscio, a imparare a conoscerlo e a portarlo alla luce del sole. Insomma, per plasmare la nostra personalità dobbiamo far dialogare inconscio e razionalità. Questo processo è definito da Jung come “percorso individuativo”, forse l’unica cosa, ci dice il grande medico svizzero, per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Ma perché la ragione possa immergersi in questo viaggio nel profondo di noi stessi è necessario conoscere il linguaggio con cui l’anima si esprime. Questo linguaggio è, appunto, fatto di simboli. Noi dobbiamo essere capaci di leggerli e di interpretarli. In questo consiste il dialogo con il nostro inconscio. Di questa materia è fatto, in sostanza, il percorso individuativo. La teoria di Jung resta tuttora la più completa e articolata analisi dei simboli mai prodotta. Certo, anch’essa ha dei limiti. Qualcuno potrebbe obiettare, ricordandosi della critica che muove Popper alla psicanalisi, che questa non è vera scienza, perché non può essere sottoposta alla prova della falsificabilità. Personalmente ho invece sempre pensato che un limite della teoria di Jung è quello di supporre che gli alchimisti si siano imbattuti casualmente nell’uso dei simboli per tracciare il loro percorso iniziatico. Credo invece che essi sapessero benissimo cosa stavano facendo e che, in generale, sottovalutare la consapevolezza delle tradizioni iniziatiche nell’uso del loro linguaggio sia un errore. Tuttavia, nonostante queste e altre critiche che si possono sollevare, le teorie di Jung ci possono aiutare a trovare molte risposte alle nostre domande iniziali. Dunque, se il simbolo è il linguaggio con cui il nostro io inconscio è in grado di comunicare con la parte razionale di noi stessi, è evidente che dobbiamo accettare un ampio margine di libertà interpretativa: il simbolo perde la sua efficacia comunicativa solo nel momento in cui smette di parlarci. Fino a quel momento è legittimo prendere in considerazione qualsiasi messaggio egli veicoli alla sfera razionale della nostra mente. Ma allora, come dobbiamo considerare, in quest’ottica,
l’immensa eredità che ci proviene dalla tradizione iniziatica? La competenza sul linguaggio dei simboli che la tradizione possiede è una bibliografia di valore inestimabile da cui poter attingere a piene mani. Il patrimonio di esperienza che le culture iniziatiche ci tramandano può orientarci nell’imparare a leggere e a utilizzare al meglio il linguaggio simbolico. Molti anni fa, a proposito dell’interpretazione dei simboli, Umberto Eco scrisse un aneddoto che, per quante ricerche abbia fatto, non sono più riuscito a rintracciare, ma che diceva pressappoco così: tre esperti sommelier assaggiavano del vino da una botte. Il primo diceva: “Io sento un aroma di legno di sandalo”. Il secondo: “Per me ha un retrogusto di pesca”. Il terzo: “Io avverto un sentore di mandorla”. Non riuscendo a mettersi d’accordo decisero di svuotare la botte ed esplorare il suo interno. Trovarono la suola di un sandalo e il nocciolo di un’albicocca, ma della mandorla nessuna traccia. Il simbolo non è come quella botte. Nessuno potrà mai guardarci dentro e darci il suo vero significato: funzionerà finché sarà in grado di trasmetterci sensazioni. O finché noi riusciremo ad assaporarle.
Paolo Maggi 12. M. Gauquelin, “Come Jung vedeva l’Uomo”, in Pianeta n. 3, Leup, Firenze luglio-agosto 1964, p. 32. 13. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, traduzione di R. Bazlen, rivista da L. Baruffi, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Bollati Boringhieri, Torino 1970, p. 237.
17. C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 202. 18. Ibidem.
Riflessioni sulla tradizione e sulla tradizione iniziatica Tradizione, s.f., dal latino traditione (m.) dal verbo tradire nel suo significato di base di “consegnare” (dare) “oltre” (tra)¹⁹. Secondo un significato predominante ormai invalso nell’uso, il termine indica “la trasmissione del patrimonio culturale e religioso delle generazioni passate” soprattutto “attraverso la parola e il costume”²⁰. La tradizione, in quest’ottica, costituisce un fenomeno sociale presente in tutte le culture. Nata dalla polemica contro l’individualismo, alla base della nozione sta la maturata convinzione della sua autosufficienza. Si insegna, così, che la tradizione – ogni tradizione – costituisce un sistema chiuso nel senso che ha in sé tutti gli elementi necessari per uno sviluppo totale e completo. Da questo profilo, non ammette, pertanto, né tollera il miscuglio di tradizioni diverse. Ogni altro elemento estraneo viene dunque ripudiato come autentica contaminazione. Nel contempo, la tradizione è, però, anche un sistema aperto. I principi, i valori trasmessi sono plasmati e riplasmati di generazione in generazione. Quando una nuova generazione incontra la tradizione, infatti, la modella e la rimodella. Il sistema, pur essendo volto alla totalità, è perciò pronto ad accogliere nel suo seno ogni frammento di verità fatto emergere dalla storia. Se è la storia a trasmettere il patrimonio tradizionale è sempre la storia a inverare e ad arricchire il deposito della tradizione, che diventa, così, la pietra angolare di una filosofia perenne, universale nel flusso del divenire storico. Non nostalgia del passato, né culto del tempo perduto, ma valori antichi che vanno storicizzati proprio perché consentono di affrontare situazioni nuove applicando principi perenni in modo originale alle condizioni attuali dell’umanità.
Sapere non depositato privo, all’apparenza, di punti di riferimento va, dunque, innanzitutto cercato, scoperto, compreso, conquistato, oltre che gelosamente conservato per essere, a sua volta, tramutato come una proposta di vita. In questo senso, non si è mai eredi della tradizione perché la stessa implica lo sforzo perenne di ognuno per completarla di nuovi apporti originali tali da renderla sempre più ricca e preziosa. Riallacciarsi alla tradizione, come ha acutamente inteso Bertrand Russell, “richiede una grande energia spirituale”²¹. Essere “uomini della tradizione” richiede, infatti, l’impegno, non comune, dell’esse quam videri²², un lavoro che non arriva mai alla fine perché non ha fine il continuo interrogarsi sulle ragioni per le quali debbono essere ancora mantenuti in vita alcuni valori: fedeltà faticosa, perché, una volta scoperto, non si deve mettere in pericolo un autentico patrimonio, nel quale si concentrano valori essenziali della storia passata, imprescindibili per il nostro futuro. In opposizione alla cultura del superfluo che serve per addormentare le coscienze, alla marea del vacuo, alle proposizioni che non diventano vere per il fatto di essere instancabilmente ripetute, alle irrisioni di chi non conosce la fatica della ricerca e il tormento del rigore che la sorregge, al secolo scellerato che, dell’ignoranza, si fa un vanto, occorre dunque spericolatamente riguardare l’isola perduta della tradizione come culla del futuro. È, infatti, soltanto cercandola che la si può vivere. Per concludere queste sintetiche riflessioni introduttive all’argomento, ci appare opportuno rimarcare che la tradizione è custodita soprattutto nell’atto educativo: è, infatti, in questo contesto che essa mantiene tutta la sua forza perché diventa capace di rispondere alle nuove sfide. Quando si parla della tradizione iniziatica, concettualmente, ci si muove, in primis, nello schema della trasmissione, quanto dire altrimenti ancora, nel paradigma della consegna in modo diretto di ciò che si è ricevuto, non potendosi, all’evidenza, trasferire ciò che invece non si possiede. In secundis, di una trasmissione qualificata, come designa l’aggettivo che la accompagna e la definisce.
Per tradizione iniziatica si deve intendere unicamente quella che trasmette interamente la Verità iniziale, principale, primordiale. Essa costituisce, di conseguenza, il cordone ombelicale che unisce la manifestazione plurima della realtà al suo principio unico, come il figlio alla madre, senza soluzione di continuità. Inerpicarsi alla fonte – verbo spermatico (= seminatore), come lo chiamavano i Padri della Chiesa – comporta l’arrampicarsi e il risalire lungo quel cordone ombelicale. Così come il ridiscendere. Via ascensionale la prima. Discensionale la seconda. L’attore è sempre e soltanto la tradizione perché è da essa che proviene il tutto, ossia, tanto l’inconoscibile, quanto il conoscibile. In questo ciclo di ascesa-discesa, e viceversa, troneggia la tradizione che è unica, primordiale, iperborea. Unica, perché, all’inizio, si è manifestata in una sola modalità, con la conseguenza che tutte le forme tradizionali ortodosse sono derivate da quest’unico ceppo, compresa quella della verità comunicata da Dio all’uomo, tramandata dalla storia, alla quale, nella sfera politico-religiosa, corrisponde l’esaltazione della infallibilità del papa e la sovranità del monarca. Tutte le forme tradizionali, al pari di tutte le loro esteriorizzazioni (ad esempio, l’exoterismo delle religioni), esprimono sostanzialmente lo stesso insegnamento, sia pure in forme diverse, perché sono tutte derivate dalla tradizione unica. Primordiale, perché proviene dai primordi, ossia da una origine tradizionale, nella quale tutto era pace. Si pensi all’Eden, al giardino terrestre, all’Età dell’Oro, alla Saturnia regina della tradizione italica, allo Swásthya Yoga della tradizione indù ecc. Iperborea, perché la sua origine si colloca al Nord. Esattamente nella terra sacra primordiale denominata “Thule”, parola non casuale, visto che, in sanscrito, bilancia si dice tula. A significare che la tradizione iperborea, per definizione, è giusta, di quella giustizia che determina la pace (Pax opus Iustitiae), di quella giustizia e quella pace che nel Salmo 84, 11 si sono bruciate (Iustitia et Pax osculatae sunt).
Le organizzazioni iniziatiche, per risalire lungo il cordone ombelicale della tradizione unica primordiale iperborea, come mezzi essenziali, si avvalgono dei simboli e dei riti, nozioni sulle quali, perché troppo note, ci limiteremo a semplici considerazioni essenziali. All’origine era una moneta o un anello o un coccio o altro che venivano spezzati al fine di potersi riconoscere mediante il ricongiungimento dei due pezzi. Nel concetto tradizionale, il simbolo (dal greco syn-ballo = “metto assieme”, “conchiudo”, “unisco”) riconduce all’Uno proprio perché racchiude i contrari. Espressione della contraddizione, opera nella realtà fattuale nonostante partecipi del Sacro, rivelandolo, senza, però, svelarlo. Compito, quest’ultimo dell’iniziato. Il linguaggio della tradizione è, per definizione, simbolico, quello della società proforma, invece, per antonomasia, diabolico. Quest’ultimo è il linguaggio della confusione babelica delle lingue che Dante ode negli inferi (“Diverse lingue, orribili favelle”, Inferno III, 25). Riassumendo. La verità scende dall’alto verso il basso mediante la sinteticità del simbolo. L’uomo, mediante l’intelletto pure trascendente, risale dal basso verso l’alto utilizzando il simbolo. Il cerchio così si chiude ogniqualvolta il particolare si ricollega all’universale e viceversa. Per rito, secondo l’accezione del termine sacro “rita”, deve intendersi “ciò che è conforme all’ordine”. I riti tradizionali sono simboli messi in azione, sono i veicoli dell’influenza spirituale che proviene dall’Uno. A loro è affidato il collegamento alla “catena” iniziatica. Attraverso i riti, l’uomo, sulla via della iniziazione, si trasforma da potenza in atto. I riti sono sempre e soltanto sacri e mantengono la loro validità anche se chi li compie non ne comprende affatto o anche soltanto parzialmente il significato o non crede nella loro efficacia. Ciò che rivelano non è infatti l’individuo come tale, ma la funzione che svolge, purché abbia ricevuto regolarmente il potere di compierli. I riti non vanno confusi con le cerimonie perché queste ultime hanno carattere meramente umano, mentre i primi comportano un elemento “nonumano”.
Concludiamo l’argomento, solo sommariamente trattato, ricordando che i simboli e i riti tramutati dalla Libera Muratoria moderna speculativa, riordinata nel 1717, sono sostanzialmente gli stessi della precedente Libera Muratoria operativa. Rimane ancora da chiedersi il ruolo e l’importanza che assolve la Storia in questo contesto così rigoroso. Dalla unicità della tradizione non discende, tuttavia, necessariamente la sua intangibilità. Di questa verità ci rende già avvertiti una semplice constatazione: i testi dei rituali massonici sono, da secoli, sempre uguali. Quella che cambia, però, è la lettura: il differente modo di leggerli dipende dal tempo che viviamo e dai segni che dal tempo ci provengono. Del resto, noi stessi siamo differenti dai nostri predecessori. Inevitabile diventa, pertanto, una sorta di tangibilità, pur nel rispetto del sogno di un mondo nuovo costruito sulla fratellanza e sulla solidarietà. Altro dalla tangibilità riflessa è, invece, il problema dell’intervento volontario sul testo del rituale proprio al fine di modificarlo per aggiungere o sopprimerne una parte. Siamo sommessamente, ma convintamente, dell’avviso che i rituali possano e debbano potersi modificare tutte le volte che ciò sia necessario per adattarli alle condizioni variabili del tempo e del luogo, beninteso, solamente nella misura in cui le modificazioni non tocchino alcun punto essenziale. I cambiamenti nei dettagli non hanno, infatti, rilevanza, laddove rimanga, invece, intatta la sostanza primigenia. In questa nostra conclusione siamo confortati dall’argomento che l’opposta soluzione finirebbe per corrispondere un prezzo troppo alto al formalismo esasperato, in aperto e conclamato contrasto alla reale natura della tradizione, che non ignora né l’evoluzione né il suo progresso. La Massoneria, per rimanere ortodossa, non è, perciò, costretta ad arroccarsi in uno sterile dogmatismo, pur dovendo tuttavia conservare con cura quei simboli e quei riti che sono il fondo essenziale della autentica tradizione. La legge cosmica della dualità è l’equilibrio, quell’equilibrio che determina l’armonia. Ponendo mano al rituale, si dovrà, pertanto, far capo e, soprattutto, osservare quella legge universale, la sola e unica in grado di consentire
interventi mirati, che si risolvono poi in felici innesti in un paradigma autenticamente tradizionale. Viviamo un tempo difficile. Abbiamo l’impressione che, dopo l’aurora, continui la notte, con il suo gelo, con il suo indistinto che tutto annulla, valori e disvalori compresi. Riflettere sulla tradizione ci è parso come immettere, in questi tempi bui, una luce tutt’altro che fioca; una sorta di velo alzato su radici solide alle quali ciascun lettore, colmo di oscure domande, può ancorare con profitto il proprio cammino terreno, dove la vita – che vive della vita – riesce sempre a scovarti.
Antonio Binni
19. Così Cortellazzo-Zolli in Dizionario etimologico della lingua italiana 5/S-Z, Zanichelli, Milano 1991, alla voce tradizione dove l’oggetto della trasmissione viene precisato essere: “notizie, memorie, consuetudini da una generazione all’altra attraverso l’esempio o testimonianze e ammaestramenti orali e scritti”. 20. Ad esempio, nella voce tradizione che si legge nella Enciclopedia Europea, Garzanti, Milano 1981, vol. XI, p. 396. 21. B. Russell, La saggezza dell’Occidente, Longanesi, Milano 1961, p. 169. 22. Dell’essere piuttosto che apparire.
Tradizione e tradimento Tradizione e tradimento sono, non a caso, originati da un unico verbo: tradere, “consegnare”. Verbo che, nel suo compiersi, consacra, simbolicamente, il divino erede. Proprio per questo, nella tradizione, tradito o traditore è sempre simbolicamente il Figlio, così come il popolo eletto, in quanto simbolici depositari di quel complesso di sapere e memoria primordiali – o paterni – che vengono consegnati di generazione in generazione, una sorta di passaggio della fiaccola del testimone lungo lo scorrere del tempo, allo scopo di tra-valicare la finitudine del singolo. Così, il Sacro si tra-duce al suo futuro destino, proprio nell’attimo di cessione del Verbo, là dove lo spazio è vuoto, lasciando sospesa la fiaccola di luce. È il momento in cui, alla penombra comoda e rassicurante della probabile verità di cui si è custodi, si sostituisce la certezza del dubbio. È il momento in cui la fede nel proprio sapere cede il posto al bisogno di conoscenza. Un’occasione imperdibile per il vero ricercatore. È l’attimo iniziatico. D’altronde, la parola tradimento, nascendo proprio in riferimento al Sacro, non si identifica con il profano infrangere di un patto o una promessa, di per sé di natura laica, ma con il venire meno a un giuramento di eterno silenzio che consente alle Scritture Sacre il trapasso iniziatico della luce in una serie ininterrotta di tradimenti fin dalla notte dei tempi. Perciò la storia del Sacro è concatenazione di simbolici eventi in cui l’uomo tradisce Dio (o chi per Lui, sia egli il Profeta, il Maestro, il Giudice ecc.) condannandolo alla morte, così come il dio tradisce l’uomo per iniziarlo alla vita, ovvero alla fede.
Il tradimento assume quindi le vesti della più antica consegna, lontana come l’inizio, lontana come l’origine, lontana come Adamo, che sceglie di non credere, per conoscere. Venendo meno all’ordine divino, Adamo accetta il malum, la mela, e distinguendo, così, il bene dal male dà inizio alla storia del Sacro, fino al culmine del mito occidentale della consegna di Gesù alle guardie: “Dico vobis: unus vestrum me traditurus est”²³: “Uno di voi mi consegnerà”. In perfetta analogia con il popolo eletto giudaico che, tra le dodici tribù, sarà il prescelto traditore dell’Antico Testamento, anche nel Nuovo Testo Sacro, tra i dodici, sarà Giuda il traditore del Maestro: lui, il discepolo prediletto o, più esattamente, quello “che Gesù amava”²⁴, di quell’amore che dal padre si tramanda al figlio con il bacio dell’apostolo. Secondo i Vangeli apocrifi il tradimento ha luogo su esplicito comando, così come pare trasparire anche dal testo di Giovanni²⁵, poiché comunque il messaggio sotteso – comune alla maggior parte dei racconti biblici – rimane insito nella necessità di sacrificare l’uomo per poter far rinascere il Dio. In questo tempo circolare, ove parabole e racconti si richiudono immancabilmente su se stesse, ruotando nello spazio e nel tempo sui medesimi perni, il Maestro sa cosa lo attende. Egli è predestinato, conosce il progetto, possiede la chiave: deve essere consegnato al nuovo giorno, all’Oriente eterno. E non uno, ma tre sono i traditori che compiono l’atto estremo, così come tre sono i tradimenti del Messia, identificati nella tradizione cristiana con l’atto di Giuda che, non a caso, lo consegna per trenta denari²⁶; la mancanza di fede dei discepoli dormienti; infine Simon Pietro, che rinnegherà il Maestro ancora altre tre volte, affinché il gallo del risveglio iniziatico possa finalmente compiere il suo canto²⁷. Come insegnano gli Egizi, il numero tre nell’antica tradizione è il segno della moltitudine, tre sta per tutti, perché non è il singolo discepolo, ma l’umanità intera che tradisce l’universo. Forse anche il creato altro non è se non la volontà divina di un enorme e colossale tradimento, l’atto di amore che consegna e assicura luce e verità all’Eterno.
Cinzia Salvioli 23. Gv 13, 21, “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. 24. Gv 13, 23, “Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù”. Il discepolo prediletto viene usualmente identificato dalla Chiesa cattolica non con Giuda, ma con Giovanni Evangelista che, sebbene non funga da traditore, assume ruolo di diretta testimonianza del Maestro e, pertanto, a livello volgare, è un simbolo della tradizione di più semplice intuizione. 25. Gv 13, 24-27, “Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: ‘Di’, chi è colui a cui si riferisce?’. Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: ‘Signore, chi è?’. Rispose allora Gesù: ‘È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò’. E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui”. 26. Mt 26, 15, “‘Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?’. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento”. 27. Gv 13, 38, “In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte”.
Mademoiselle Connaissance: riflessioni e divagazioni su La traviata Lev Nikolaevič Tolstoj sosteneva che la differenza tra le persone risiede solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza²⁸. Essa, per colui che la possiede, è un potere, un privilegio, ma anche una necessità, una tensione inevitabile, spesso definibile tentazione, come la donna, non quanto specifico essere umano, ma come espressione generica del femminile. La donna, conoscenza con vesti di celestiale angelo e oscuro demone, si manifesta duale quanto la luce che, nel suo aspetto ondulatorio, si lascia esplorare dal senso visivo umano apparendo bianca o nera, a seconda che si conceda nel suo complesso o che si neghi totalmente. Lei, Elena nei poemi, per timore o per venerazione è comunque innocente causa di guerre, roghi, bombe, mortai e quant’altro, mezzo di sterminio di simboli incarnati in libri, immagini, persone, abiti, edifici resi tutti ugualmente vittime del Minotauro che, incapace di gestire la forza attrattivo-repulsiva che inevitabilmente prova per essa, veste l’abito acromatico del boia. Uomini portatori di morte nera di kalashnikov o bianca di castità, kamikaze e catari, infatti, ugualmente rifiutano Mademoiselle Connaissance con il progresso di lei frutto. Donna, prostituta, tensione inevitabile, tentazione e, in quanto tale, simbolo di vita, dalla notte dei tempi essa è necessariamente dai saggi discussa, raccontata e tramandata, per far sì che la sua fenice possa rigenerarsi sempre pura dopo ogni inevitabile rogo appiccato per mano dei non-saggi dai quali è inevitabilmente condannata a essere deturpata o idolatrata, comunque violata. Nella nostra comune tradizione la possiamo cercare e ritrovare in Giovanna d’Arco o Maria-Maddalena, ma, senza scomodare troppo grandi figure, essa
è stata ben rappresentata, in letteratura così come a teatro, anche da colei che, unendo la comune cultura ottocentesca italo-francese, prende forma in Mademoiselle Marguerite di Dumas²⁹, tramutata oltralpe nella Violetta Valéry di Verdi. Colui che si imbatte in codesta figura “da quel dì tremante [vive] di ignoto amor”³⁰ nell’opera lirica o, come traduce in chiave moderna Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”³¹, pur nella consapevolezza di aspirare all’ignoto, a quel che è “l’anima / dell’universo intero, / misterioso, altero, / croce e delizia al cor”³², tornando a Verdi. Prostituta, ma d’alto bordo. Donna detta di mondo o d’esperienza, ergo universalmente riconosciuta donna di cono-scienza, viene nell’opera italiana malamente apostrofata con il termine “traviata”, sebbene né Verdi né Dumas avessero certo intento di degradarla, anzi il loro lavoro era tributo rispettoso, ben lungi dall’ergerla a santa, come dal ridurla a schiava; raccontarla in verità, senza giudizio, come ri-velatori in altra chiave di un simbolo ritrovato perché poi, come diceva Einstein, “nulla è buono o cattivo, a renderlo tale è [solo] il pensiero”³³. I grandi uomini di scienza – di qualsiasi scienza – sanno il potere che essa dà all’individuo nella società in cui vive, senza scomodare verità religiose da Marx in poi, troppo facili bersagli, basti pensare a quanto un’assunta verità della riconosciuta scienza naturale dia potere ai depositari di questo nuovo sapere, al punto da innescare rivoluzioni sociali di pensiero ad ampio spettro: dal meccanicismo, passando per l’evoluzionismo, fino al relativismo e oltre con la moderna indeterminazione. Eppure rari sono coloro che umilmente si sono accostati con studio approfondito a tali scienze. Quanti hanno voluto conoscere numeri, formule statistiche e fisico-matematiche che celavano il nuovo scibile? E in quanti invece si sono accontentati di ricamare su frasi fatte per il volgo, come “tutto è relativo” o “niente è definibile”, per non dire su un nome, fosse anche “particella di Dio”? In quanti hanno conoscenza del fatto che la relatività cela in grembo un assoluto? In quanti hanno preso coscienza del fatto che il teorema di indecidibilità di Gödel è, per sua natura, applicabile a se stesso? O più semplicemente, in quanti sanno che il fisico teorico padre della particella divina (Peter Higgs) non l’avrebbe mai definita in tal modo?
Elite scientifiche che occultano le loro scoperte in un simbolismo non meno ostico di quello usato da antiche tradizioni religioso-filosofiche o alchemico-esoteriche; elite di uomini che hanno posseduto quella conoscenza, quella “traviata” che si era data loro come si sarebbe potuta concedere a qualunque uomo di buona volontà che si fosse procurato i mezzi necessari per l’epoca e l’ambiente socio-culturale in cui si trovava. Gli altri, i non-iniziati, rimangono da sempre estranei ammiratori o contestatori di una conoscenza che inevitabilmente traviano: sia che idealizzino, cantino o sublimino; sia che sfregino, insultino, o attentino. Prostituta non per obbligo, o per schiavitù, o per costume. Prostituta per libertà, e per scelta, e per diritto, e per natura, e forse anche per necessità, comunque sia venduta per esercizio della volontà. Mademoiselle Connaissance (Violetta Valéry), come afferma Dumas, “non poteva essere stata fatta che poco alla volta e non era stato un solo amore a completarla” poiché servono uomini, tanti, per costruire il suo tempio: sia coloro che nel cielo stellato vedono un infinito irraggiungibile come numeri irrazionali e cantano la sventura umana in un viaggio in-completabile, sia coloro che con occhi tesi al firmamento prevedono una fine iniziale chiusa su se stessa come nastri di Möbius e sognano il ritorno a casa. Ma non tutti gli uomini sono suoi uomini, sono uomini di conoscenza. Inevitabilmente tutti la amano, “schiav[i] ciascun di sua bellezza”³⁴, ma Violetta, seppur comprabile, non si vende a chicchessia per una tensione propria di ogni essere umano. Lei, che – richiamando il dio Helios – ogni singolo giorno percorre gli Champs-élysées celandosi sobriamente su un coupé azzurro trainato da due valorosi cavalli, lei come divinità che sorride segretamente solo ai suoi iniziati, lei si priva dei suoi veli solo a caro prezzo. Ma quale prezzo ha la conoscenza? Seppur di fatto prostituta, lei è per Verdi “franca e ingenua”³⁵, e invita l’Alfredo che bussa al suo tempio a fuggire poiché, come essa stessa afferma, “solo amistade io v’offro”³⁶. Un invito a tornare sui propri passi che viene ritualmente tramandato anche dalla Libera Muratoria nelle massime che ornano il gabinetto del profano, anche se, di fatto, il fondamentalismo verbale della lirica mostra che si poteva essere più brevi!
Eppure, nonostante i moniti, l’uomo “eroico” non desiste ed entra nella “casa della conoscenza” mai facilmente o gratuitamente, ma conseguendone l’accesso moralmente e laboriosamente, proprio come Alfredo di Dumas, privo di denaro, conquista Violetta attraverso “interesse e perseveranza”³⁷. L’uomo a Mademoiselle Connaissance deve offrire tutti i suoi giorni e le sue notti, lavorando sotto il sole e la luna, con la promessa di non tramutarla mai per suo diletto o per profitto, ma di preservarla nella sua libertà, nella sua disponibilità. Ecco come si può comprare la conoscenza, con tutto questo che, nel suo complesso, Dumas definisce magistralmente “devozione”³⁸. Devozione, non amore che in quanto assoluto non ammette il moto del divenire necessario alla conoscenza. Devozione, non idolatria o ingiuria di un’icona non compresa (da cum-prehendere) ovvero presa con sé, ma usata per sé. Devozione nel suo essere etimologico di voto umano volto e rivolto alla divinità di luce in perenne viaggio tra Oriente e Occidente. Sguardo fisso sul mobile. Seguendo una tradizione che esige la tragedia, nell’opera Valéry, tossendo sangue, morirà soffocata per un male della cui causa è l’uomo incapace di reale devozione; e, poiché il palcoscenico altro non è che specchio concavo del quotidiano, in nome dell’uguaglianza, o dell’amore, o dell’odio, o della fede, o della morale, o di chissà cos’altro, la platea continuerà a lapidare adultere, a bruciare libri, a spogliare i muri di croci, khamsa, tao, menorah, calumet, mandala, ankh… Forse, in un’epoca in cui la conoscenza volgarmente riconosciuta è ormai solo quella della scienza matematica, qualcuno un giorno proporrà di togliere anche lo zero algebrico poiché colpevole anch’esso di essere simbolo occultamente nascosto nei numeri; simbolo appunto di quel nulla che non vale niente come una prostituta, ma che rende possibile l’elevazione di tutte le nove cifre.
Veronica Mesisca 28. L.N. Tolstoj, Avanzi popolo, Nuovi Equilibri, Viterbo 2002.
29. A. Dumas, La signora delle Camelie, in . 30. G. Verdi, La traviata, testi di F.M. Piave, musiche di G. Verdi, in . 31. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958. 32. G. Verdi, La traviata, cit. 33. A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Oscar Mondadori, Milano 2003. 34. G. Verdi, La traviata, cit. 35. Ibidem. 36. Ibidem. 37. A. Dumas, La signora delle Camelie, cit. 38. Ibidem.
Il labirinto quale archetipo segno di un percorso interiore Umberto Eco, nella sua prefazione all’interessante libro sui labirinti scritto da Paolo Santarcangeli, scrive che: “Una esposizione sul labirinto non può che essere labirintica perché, al suo ingresso, implica numerosi livelli di lettura e di interpretazione”. Aggiunge che: “Essa è, come nel labirinto stesso, semplice da cominciare, così come è facile addentrarsi nell’argomento, ma dal quale è difficile uscirne con la convinzione di averlo trattato in modo perlomeno sufficiente”³⁹. Dunque un argomento arduo da trattare e da esporre per il forte richiamo che il mito labirintico ha sui tantissimi recessi, infinite emozioni e sulle più profonde e nascoste vie della psiche umana. Per questo ho preferito distinguere la parte principalmente architettonica, storica e religiosa dall’aspetto che riguarda la mente e il suo accostarsi al significato del simbolo stesso. Il labirinto, se indagato nella sua edificazione architettonica, come nella sua rappresentazione pavimentale nelle chiese o nei disegni degli antichi manoscritti, può essere considerato di due tipi principali. Il primo è quello univiario, che ha un solo percorso, dall’esterno verso il centro e viceversa. In questo non ci sono dubbi sulla progressione da fare: la difficoltà è data dalla lunghezza e dalle continue svolte che incidono sulla volontà del viandante nel proseguire e raggiungerne la fine. È quello rappresentato nelle chiese perché uno era il cammino del pellegrino verso un traguardo ben determinato e uno, rigorosamente uno, il percorso religioso del fedele per la salvezza dell’anima, ben indicato dalla gerarchia ecclesiastica. Il secondo tipo di labirinto è quello pluriviario che impone delle scelte perché presenta bivi, fughe e percorsi secondari. Ogni scelta sbagliata può portare a ripercorrere i passi già fatti oppure a un punto morto. Solo uno dei tanti corridoi e solo scelte giuste permettono di arrivare al centro e a un
preciso percorso a ritroso verso l’uscita all’aperto. Questo labirinto può svolgersi su un piano oppure su più piani, come lo sono i corridoi nelle piramidi egizie, tesi a sviare il profanatore dalla camera del faraone. Sotto il profilo storico, il simbolo del labirinto appartiene all’uomo fino dall’alba dei tempi, archetipo segno dell’umanità, compreso, e compreso nello stesso modo, da tutte le popolazioni, qualsiasi sia stata e sia attualmente la loro cultura e civilizzazione. Così come archetipi sono i due triangoli contrapposti e sovrapposti, segno dell’equilibrio fra principio maschile e femminile, nell’uomo come nel cosmo, così come lo è la losanga⁴⁰, primigenio riferimento all’organo genitale femminile in omaggio alla Grande Dea, la Dea Madre e, come la spirale, forza generatrice di vita. Il labirinto è stato nel tempo disegnato, dipinto, inciso, edificato. Nei manoscritti ornati da disegni labirintici è chiaramente mostrata nei rigiri la preferenza per il sacro numero sette come vediamo nella successione dei cerchi che segue lo schema inciso sulle monete di Cnosso. È comparso in opere letterarie, proprio perché appartiene al nostro intimo sentire da sempre. Fra i tanti esempi, ricordo il più illustre: la Divina Commedia, che non è altro che una lunga peregrinazione del poeta che parte dalla damnatio, passa alla purgatio per arrivare, dopo lungo cammino, al summum bonum. Ma l’intera letteratura medievale è piena di allegorie, di percorsi intricati e strade seminate d’inganni, così come di castelli fatati con lunga successione di sale dove è facile perdere il cammino. Anche la “cerca” del Graal da parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda può essere interpretata come percorso labirintico, cioè cammino di iniziazione. Un segno comune dunque, e se non fosse così non si spiegherebbe la sua presenza in alcuni sigilli egizi, sulle rammentate monete di Cnosso, sulle tavole di argilla babilonesi, sulle incisioni rupestri di Old Bewych in Inghilterra, in Irlanda e Cornovaglia, in Messico e in India. Appare fin dai tempi antichi come disposizione di ciottoli sulle spiagge e scogliere del Nord Europa, dove è indicato come “cammino di Troia”⁴¹. In Italia sono conosciute le incisioni graffite nelle grotte della Val Camonica, dove, fra migliaia di altri segni, quello del labirinto è ben evidenziato. Molto nota è la pittura nella casa detta appunto “del labirinto” a Pompei, come i tanti pavimenti a mosaico delle ville romane.
L’etnologo Carl Schuster⁴² (1904-1969) ha dimostrato che questo segno fece la sua prima comparsa in Europa sui petroglifi nel II millennio a.C. e che da qui si spostò verso oriente, dal Caucaso all’India e Indonesia, per proseguire in Nuova Guinea, Melanesia e Polinesia. Esso fa parte delle tradizioni sacrali indiane degli stati occidentali degli USA e del Nord Messico, principalmente di quelle dedicate ai riti di iniziazione all’età adulta. Si ha quindi un segno che non è limitato a un mito dell’antichità, ma qualcosa che indica, appunto “significa” un messaggio a chi lo sa interpretare. Ciò fin dall’inizio della nostra civiltà. Nel Medioevo, principalmente nel XII-XIII secolo, il labirinto è apparso dipinto o pavimentato nelle chiese. Uno per tutti: quello splendido della cattedrale di Chartres. Esso acquista la funzione di richiamo a un viaggio di pentimento, di purificazione sia spirituale che fisica, dato che a quel tempo i due piani, lo spirituale e il fisico, andavano in stretta simbiosi. Simbolo del faticoso e pericoloso viaggio per antonomasia, cioè del pellegrinaggio verso luoghi santi, sacrificio che dava la possibilità, esso solo, di cancellare i peccati e, insieme, anche le affezioni fisiche. Ogni labirinto ha un suo centro, difficile ma insieme desiderabile, per raggiungere il quale si impone un cammino che non deve essere facile perché rappresenta il progresso spirituale del penitente. Non si avanza se non con fatica e sacrifici e se il pellegrinaggio ai luoghi santi è difficile e pericoloso, l’incedere sul tracciato nella chiesa deve essere almeno lungo e penoso, in ginocchio, accompagnato dal recitare di salmi, giaculatorie, petto battuto per evidenziare il rimorso per la vita trascorsa, fino a raggiungere il centro, la Gerusalemme Celeste. Il richiamo al sacrificio come espiazione è qui particolarmente evidente. Il labirinto non era soltanto simbolo del pellegrinaggio, ma anche epifania del continuo travagliare di ognuno nella quotidianità e che solo l’arrivo al centro, la morte fisica, ne consentiva la liberazione. Se nel centro del labirinto minoico stava la bestia e la difficoltà non era l’entrarci e il proseguire, ma il conflitto e l’uscita, nel centro di quello gotico stava il fine, il traguardo, la Gerusalemme, che per l’uomo medievale
rappresentava la città religioso-mistica per eccellenza. Gerusalemme, santa e sacrale, centro dell’opera del Redentore, meta ultima del pellegrinaggio in Terra Santa e simbolo tangibile della Città Celeste, la Perfetta, più volte rappresentata in pitture e miniature nella sua idealizzazione. Due peregrinazioni ugualmente difficili e pericolose: quella fisica del viaggio fino alla città terrena e quella spirituale del cammino dell’anima, disseminato di tribolazioni e tentazioni, di fallimenti e vittorie fino a raggiungere, con la grazia, la Gerusalemme ideale, la Pura, la Celeste. Molti labirinti che adornavano le chiese medievali sono andati distrutti, per incuria o integralismo religioso. Pochissimi ne rimangono in Italia, quasi nessuno in Germania e Inghilterra. Ne sono rimasti in numero maggiore, e splendidi, nelle cattedrali francesi, come quello di Chartres sopra ricordato, di Amiens, di Reims e di Saint Omer, tanto per ricordare i più famosi, ma anche altre piccole antiche chiese possono vantarne uno. L’uso di decorare le chiese con il segno del labirinto decadde, fu dimenticato. Cambiò veste e luogo spostandosi nell’architettura del giardino delle ville patrizie, perdendo la significazione di sacrificio espiatorio, mantenendo in alcuni casi quello di percorso iniziatico, come nel caso di quello di Bomarzo, ma nella gran parte mantenendo solo l’aspetto ludico di abbellimento del parco della villa, funzionale allo stupore degli ospiti e a favorire con l’intrico dei vialetti e siepi lo svolgersi di feste e galanti intrecci amorosi. Il suo centro è decaduto da traguardo di un cammino fisico e spirituale, difficile e penoso, a meta di arrivo dopo svaghi profani. Che cosa è rimasto oggi del segno del labirinto? Pochissimo o nulla nella decorazione di luoghi sacri dove ha perso la sua identificazione di percorso salvifico dell’anima, nulla nell’edificazione di percorsi ludici nei giardini moderni. Ha perso la sua contingenza temporale per riacquistare il suo significato arcaico di ricerca e iniziazione interiore. Che sia un viaggio pio, geografico e fisico, oppure una meditazione e un percorso interiore, esso non può essere dimenticato perché fa parte del più profondo inconscio dell’umanità. Storicamente è possibile che il termine “labirinto” abbia la sua origine nella parola labrys che indica l’ascia bipenne, insegna e attributo del minos (re) di Creta. Il mito di Teseo e il Minotauro è molto conosciuto, quindi non è
necessario qui ricordarlo. Su riti e credenze religiose particolari dell’isola si è innestata la leggenda dell’eroe greco che uccide il mostro, a significare la caduta del regno cretese per l’opera dei popoli della penisola ellenica che andavano estendendo i loro commerci e il dominio sul mare. Esso ha comunque mantenuto profondi legami con i rituali iniziatici precedenti e arcaici significati che, a un’attenta lettura, appaiono evidenti e mostrano legami, parentele e similitudini con quelle che da sempre sono state le cerimonie di iniziazione o di “passaggio”. Come nell’iniziazione massonica, Teseo, l’eroe che entra nel labirinto costruito da Dedalo, è l’iniziando “qualificato”⁴³ alla porta del suo cammino interiore, tortuoso e nascosto. Anche se difficile, il cammino è indicato, ma la difficoltà è raggiungere l’intimo centro per eliminare la materialità e tornare, cambiati, alla luce del sole. Non è tanto l’entrare e arrivare al centro, quanto trovare il lato oscuro e prenderne coscienza per poterlo vincere. Questo è il compito, questa la battaglia. Per vincerla non basta lo studio, la logica, la determinazione. Neanche la forza interiore è sufficiente a indicare l’uscita. Queste prerogative possono abbattere la materialità, ma per rivedere “il sole e le altre stelle” è necessaria la sottile preziosa intuizione femminile, il filo dall’innamorata Ariadne. Intuizione così preziosa che, una volta abbandonata, come la principessa su un’isola lontana, non potrà evitare di cadere nell’oblio della mente: la tragedia delle vele nere e la morte di Egeo. Anche qui, come nella Divina Commedia, i momenti sono tre o, se si preferisce, tre i gradi di iniziazione successiva: la purgazione (il cammino interiore), l’illuminazione (il prevalere sul lato oscuro, il trovare la pietra nascosta), la conquista della luce (l’uscita). Non sarà però possibile arrivare alla vera luce se non si tocca il centro, la piena coscienza del valore iniziatico del viaggio. Il centro del labirinto porta sempre a una mutazione del nostro senso della vita e della morte, al passaggio da una vita a un’altra, dal mondo delle apparenze a quello dell’essenzialità, dalla carnalità bestiale all’umanità spiritualizzata⁴⁴. Scrive René Guénon⁴⁵ che il termine “qualificato”, per chi si appresta a varcare la soglia della loggia, è molto importante perché indica una selezione, una ammissione all’iniziazione e l’accettazione del candidato
al volerla fare. Sotto questo aspetto il percorso del labirinto non è altro che una rappresentazione simbolica delle prove iniziatiche. È facile pensare che, quando nell’antichità esso serviva effettivamente come mezzo di accesso a certi santuari, poteva essere disposto in modo che i riti e le prove fossero compiuti nel suo stesso percorso. Il viaggio come prova, concetto che la Massoneria ha mantenuto nei suoi rituali. Il labirinto diviene segno concreto dei difficili passaggi che bisogna superare per penetrare in un mondo diverso, in uno stato diverso, arrivare a una nuova nascita. Appare quale segno segreto e misterioso nelle epoche maggiormente influenzate da un sentimento mistico-religioso, tra i popoli primitivi, nella civiltà minoica, nel Medioevo cristiano, diviene dissacrato ad abbellimento di giardini quando si è maggiormente rivolti al quotidiano. Perché il Minotauro è mezzo uomo e mezzo toro? Perché Teseo potrà vincerlo solo e solo se si identificherà con lui, solo se riuscirà a rendersi conto della propria materialità per poterla superare. Se nell’antico mito c’è una netta separazione fra l’eroe e il mostro per renderne più facile la lettura e la comprensione, in realtà c’è qualcosa di umano anche nell’animale, qualcosa di spirituale nella materialità di chi si presenta alla soglia. Questo è l’iniziando ed è ciò che lo rende qualificato per essere scelto alla cerimonia di iniziazione. È la ragione che lo spinge ad accettare di subirla. Ogni iniziando è un Teseo che deve uccidere il proprio Minotauro. L’uomo bestia, nell’oscurità, vuole erompere dal suo stato chiuso in se stesso, uscire dalla sua essenza animale, dalle terribili strettezze della vita istintiva, bramoso di luce. Il mito non parla della sua lotta con Teseo, parla della sua morte. E non poteva essere altro l’esito della lotta, perché solo la morte può cancellare la parte taurina per dare completa identità umana. Negli antichi riti l’uccisore non solo toglieva la vita alla vittima, ma anche ne acquistava le peculiarità e le potenzialità. Per questo, in fondo colui che esce vittorioso dal labirinto non è solo l’iniziato Teseo, ma è, con lui, il simbolo dell’intera umanità liberata. Le vele nere del suo navigare nel ritorno forse indicano la morte dell’uomo e la nascita dell’iniziato. Egeo, che come padre rappresentava il passato, non poteva sopravvivere all’avvenuta mutazione.
Il labirinto può avere un cammino centripeto, dall’esterno verso l’interno, conquista di un centro nascosto, come nelle rappresentazioni medievali, ma anche centrifugo con il ritorno alla luce e conquista di nuovi orizzonti come in quello minoico. Passare la soglia, iniziare il viaggio, è collocarsi in una solitudine volontaria, accettare i rigiri e i rigori ignoti del proprio inconscio. È voler toccare la meta fidando solo nelle proprie forze, con la speranza di poter stringere fra le dita il prezioso filo di Ariadne. Ma, come dice Friedrich Hölderlin, poeta tedesco, il pellegrino sarà in solitudine, non abbandonato. Un isolamento cercato, voluto e scelto quale via per spiegare a se stessi il proprio mistero, nel corso di una peregrinazione faticosa e impedita, compiuta con la massima attenzione, per arrivare alla liberazione. L’aver raggiunto il centro, per illuminazione iniziatica, per meditazione religiosa, averlo fatto anche per un attimo solo, cambia la coscienza per sempre⁴⁶. Qual è la forma simbolica di labirinto che meglio si adatta a una rappresentazione della via iniziatica massonica? Se nel labirinto della cattedrale di Chartres le figure che vi erano incise sono andate perdute, rimanendo solo il fiore nel centro, in quello di Reims sono presenti, intagliati agli angoli, angeli di marmo, una figura di vescovo e tre maestri architetti con in mano ciascuno un regolo, una squadra e un compasso con livella. Nel labirinto di Saint Omer i maestri costruttori intagliati agli angoli sono quattro, con in mano gli utensili per la progettazione e la costruzione della chiesa. Al centro c’è la figura del vescovo committente. Queste figure incise portano a un sicuro collegamento con gli usi e i riti dei costruttori delle grandi cattedrali, i Liberi Muratori del tempo. Non credo però che la rappresentazione del labirinto nelle cattedrali, né di quello minoico così come è stato idealizzato, sia quella giusta. Un’unica via, pericolosa e faticosa, ma che non pone dubbi a chi la percorre. È la forma prediletta dalla Chiesa trionfante per la quale solo un percorso, seppure difficile, è quello giusto. Al di fuori non c’è possibilità di redenzione e salvezza. Più adatto alla rappresentazione e identificazione della via massonica è il labirinto pluriviario. Un percorso che solleva dubbi, impone scelte a chi si presenta alla sua porta, anche se una sola sarà la scelta giusta per poter fruttuosamente proseguire. Non solo difficoltà nel
procedere, ma anche responsabilità nello scegliere. Maggiore impegno e forza nel proseguire, ma anche maggiore lucidità nelle decisioni. Rispetto alla via iniziatica delle cattedrali, questo labirinto aggiunge alla consapevolezza del fratello Libero Muratore, che idealmente si muove nel suo percorso, la coscienza di essere soggetto a errare, di dover recuperare gli errori fatti e di non ripeterli. La coscienza della possibilità di errore accresce in fin dei conti la sua libertà morale, etica e spirituale. Solo chi può sbagliare, ma ha la forza e la coscienza di riconoscere gli errori commessi perché ha toccato il centro del percorso, chi non ha altra guida che il suo essere iniziato, la sua ispirazione, può dirsi veramente e completamente libero. Scomparsi i percorsi iniziatici degli antichi santuari, persa la valenza salvifica di quei pochi rimasti nelle chiese, per il fratello Libero Muratore il labirinto è il mondo intero. è lì che deve muoversi e operare. Se in antico il percorrerlo era un’istanza morale, oggi non è più solo quella. Il labirinto mondano impone sì una ricerca di perfezionamento interiore ma a questa si aggiunge l’esigenza di un confronto con le nuove realtà sociali, con le sfide che giornalmente si pongono all’attenzione del fratello, con la necessità di operare in modo etico e sociale nella propria sfera di azione. Faticosamente deve proseguire per la strada che lui ha scelto, senza tuttavia trascurare di raggiungere il centro, la loggia, dove rigenerarsi in una nuova battaglia con la bestia, per essere pronto a riuscirne vittorioso. Il pavimento massonico, nella sua alternanza bianca e nera può essere pensato come estrema sintesi e astratta rappresentazione di un percorso labirintico, forse l’ultimo veramente iniziatico rimasto. Se il fedele medievale si muoveva su un’unica via segnata, circondato dagli insegnamenti religiosi, il Libero Muratore cammina sul pavimento del tempio, rappresentazione del mondo, che a ogni passo chiede una scelta e solo un procedere rituale, con l’attenzione e lo studio ai segni presenti nella loggia, lo rende consapevole del viaggio intrapreso e al tempo stesso fa di lui il massimo simbolo dell’iniziazione massonica. È possibile concludere in modo definitivo uno studio sul labirinto? Io non credo. Come scritto all’inizio l’argomento è troppo vasto e come il labirinto stesso pieno di trabocchetti, temi laterali, assunti che confermano e altri che
contrastano quanto appena scritto. È vero che è dentro di noi, nella psiche di ognuno dall’alba dei tempi, come è vero che moltissime, una per ogni nato, sono state le strade tentate per esorcizzare la bestia. Da qui la difficoltà a trarne ferme indicazioni, stabili linee guida, perché il rischio rilevante è sempre quello di ritrovarsi in un vicolo cieco. Il mito era patrimonio delle antiche scuole iniziatiche. La Massoneria che ne è diretta erede non poteva trascurare questo aspetto, anzi ne ha fatto principale insegnamento per i Liberi Muratori. La ricerca della perfezione è il cammino nel proprio labirinto interiore, cammino difficile e impegnativo. Ma se fosse facile, che soddisfazione sarebbe?
Carlo Moscardi 39. P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti, Frassinelli/CDE, Milano 1984, p. VII, IX e s. 40. R. Lomas, Il Segreto dei massoni, Oscar Mondadori Nuovi Misteri, Milano 2009, p. 146. 41. P. Santarcangeli, op. cit., p. 88 e s. 42. C. Schuster, Sozial Symbolismus, Schuster Archivieren, Basel Museum der Kulturen, in P. Santarcangeli, op. cit., p. 110. 43. R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1990. 44. P. Santarcangeli, op. cit., p. 245 e s. 45. R. Guénon, op. cit. 46. P. Santarcangeli, op. cit.
Il dualismo e le equazioni differenziali di Laplace Nel trattare questa esposizione è opportuno discutere innanzi tutto del simbolismo nel tempio massonico. Tutti noi sappiamo come ogni oggetto, ogni strumento ivi presente ha una sua valenza prevalentemente simbolica; valenza che inoltre si manifesta su strati (veli) sempre più profondi e sta a noi scoprirli e svelarli, pur sapendo tuttavia che non ci è dato di arrivare a una verità finale e assoluta (esiste sempre un ulteriore velo da togliere). Siamo sempre rimasti colpiti, lo siamo tuttora e lo saremo sempre, ogni qualvolta, entrando nel tempio, incontriamo il pavimento a scacchi, bianco e nero. Esso sta a ricordarci costantemente l’intimità, il collegamento e il compenetrarsi tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il buono e il cattivo ma anche il nostro continuo passarvi sopra in maniera del tutto casuale: ora siamo sulla mattonella bianca e un attimo successivo siamo su quella nera. Nel proseguire il nostro cammino iniziatico incominciamo a elevarci passando prima tra le colonne di settentrione e poi in quelle di meridione (poste alcuni gradini più in alto rispetto al pavimento a scacchi) e poi verso l’alto, verso il cielo stellato che però non raggiungeremo mai. Quanto più ci eleviamo tanto più guarderemo il pavimento a scacchi dall’alto e tanto più, dall’alto, questo ci apparirà di un unico anonimo colore uniforme: grigio, senza più distinzione alcuna tra il bene e il male. Questo concetto lo ritroviamo anche in altre culture e in alcune religioni ed è noto con il nome di yin e yang. Esso ha origine nella religione induista e si diffuse successivamente sia in quella buddhista che in quella taoista. A differenza del pavimento a scacchi, il concetto di yin e yang introduce un’ulteriore dimensione: il tempo.
Infatti il bianco e il nero in questo caso si inseguono, si compenetrano appunto per dimostrare l’estrema vicinanza e commistione tra il bene e il male. In aggiunta, all’interno della parte nera più estesa è presente un punto bianco e viceversa; ciò sta a ricordare che proprio all’interno del male cova il bene e proprio all’interno del bene cova il male. Quanto ora detto per il binomio bene-male vale anche per il giusto-ingiusto e qualsiasi coppia di contrari; lo stesso ovviamente può anche riportarsi nella vita materiale nell’avvicendarsi dei periodi positivi e negativi. Questa cultura induistataoista ha fatto sì che le popolazioni orientali siano più capaci, rispetto a quelle occidentali, di accettare e sopportare epoche storiche negative e contestualmente siano meno galvanizzate dall’incontrare periodi positivi; sanno bene che proprio nel momento più positivo bisogna prepararsi ad accettare epoche oscure e viceversa. Nel mondo orientale si è soliti ruotare velocemente questo simbolo attorno al proprio asse verticale e perpendicolare al piano del disegno (a mo’ di ombrello), il quale così facendo assume, anche esso, un unico colore grigio. Con l’evolvere del tempo, quindi, il complesso diventa indefinito: bene e male si mescolano in un tutto unico. Nello scoprire questo dubbio, questo mistero, del contrapporsi (o sovrapporsi) del bene e del male vengono subito alla memoria alcuni brani della Bibbia: nel Libro di Isaia (Is 45, 7) “Io sono il Signore e non v’è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo”; nel Libro dei Salmi (Sal 137, 8-9): “Sui fiumi di Babilonia là sedevamo piangendo al ricordo di Sion […] Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sfracellerà contro la pietra”; nel Libro dei Salmi (Sal 58, 11): “Il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue dei malvagi”. In altri punti della Bibbia si afferma anche che Dio si arrabbia e si ingelosisce (Adamo ed Eva e la mela). Sorge spontanea la domanda, alla quale proporrò una risposta in seguito: ma come può Dio, in quanto Dio, arrabbiarsi, ingelosirsi e provare sentimenti umani? E com’è possibile che lo stesso Lucifero appaia a Gesù nel deserto come “principe”, inteso non solo come “padrone”, ma anche come “principio, regola”?
Quanto appena detto ci apre le porte sull’argomento della distinzione tra Dio e il Demiurgo⁴⁷, concetto già sviluppato dalla cultura ellenica, da quella gnostica, dal primo Cristianesimo e da quella ebraica. Quest’ultima, in particolare, fa una netta diversificazione tra El/Elohim e Yahweh. Giova anche ricordare come nasce quest’ultimo nella religione ebraica: Mosè nel suo ritorno verso la terra promessa fa sosta nel Sinai ove trova moglie, la figlia di un re locale, e adotta come propria divinità quella adorata dal suo novello suocero come dio della guerra, Yahweh. Per proseguire i concetti finora espressi è necessario affrontare alcuni argomenti scientifico-matematici⁴⁸. In natura possiamo individuare tre sistemi: deterministico, caotico (da caos) e casuale (da caso). Come l’universo si inserisce in questa suddivisione? Un sistema deterministico è disciplinato da precise leggi matematiche ove le situazioni sono del tutto ripetibili. In qualsiasi esperimento o prova scientifica, se si riconfermano le condizioni di partenza e si dovesse ripetere il test, tutto si svolgerebbe pedissequamente senza alcuna modifica. Ad esempio, presa una pallina che rotola su una tavola inclinata, ogni qual volta si dovesse ripetere la prova, confermando l’inclinazione della tavola, il coefficiente di attrito, le condizioni atmosferiche, la massa e tipologia della pallina, e ogni altro parametro, le risultanze sarebbero sempre le stesse. Tutto viene costantemente confermato con leggi fisico-matematiche. Il caos, invece, si presenta quando un sistema deterministico si comporta in maniera stocastica (casuale) e quindi non più disciplinabile con precise leggi matematiche. Lo studio del caos ha portato alla nascita di una nuova recente materia (da circa trent’anni) denominata “teoria del caos” o “dinamica non lineare”. Poniamoci una domanda: nell’universo esistono dei casi di sistemi che si comportano come sistemi caotici? La risposta è sì. Ad esempio, il pianeta Terra si presenta schiacciato sui poli, da cui il particolare movimento del suo asse e le variazioni geologiche; oppure un altro sistema caotico è dato da Iperione, il satellite di Saturno noto come la “patata” per la forma particolare e i tre assi di diverse dimensioni, la cui rotazione attorno ai suoi assi e attorno a Saturno è completamente indeterminabile. Nella teoria del
caos, se un sottosistema è caotico, l’intero sistema è caotico, di conseguenza possiamo e dobbiamo dedurre che l’intero universo è caotico. Anche il concetto termodinamico di entropia è una dimostrazione di quanto appena detto: entropia maggiore significa maggiore disordine del sistema. L’universo evolve sempre verso uno stato a entropia maggiore. L’entropia non può mai procedere all’indietro (secondo principio della termodinamica). È utile ricordare che le vibrazioni e la turbolenza sono fasi intermedie, di passaggio, tra un sistema deterministico e uno caotico. Va quindi ripetuto e rimarcato che l’universo è un sistema caotico. Esso tuttavia è nato dal Big Bang, dall’esplosione di un solo punto. Cosa è un punto? È l’unico sistema perfetto, con precisione infinita in quanto non esistono, al suo interno, le dimensioni spaziali e quella temporale; la distanza tra due parti di un punto (ammesso per assurdo che siano definibili al suo interno due parti) è pari a infinito e contemporaneamente pari a zero. Uno dei simboli più noti nella Libera Muratoria è proprio la piramide, con base quadrata (simbolo dell’uomo, imperfetto) e con vertice un punto (Dio, Perfetto); da questo si è generata l’umanità, guardando la piramide dall’alto verso il basso, e al punto l’umanità volge il suo percorso, guardando la piramide dal basso verso l’alto. L’universo, sistema caotico, è stato generato da un punto, sistema perfetto. Esiste invece un altro campo che non può essere studiato con le metodologie ora descritte ed è lo studio degli insiemi stocastici (casuali). L’unico approccio a tali sistemi è quello probabilistico-statistico. Il moto delle infinite particelle presenti all’interno di una qualsiasi massa di gas è un esempio di sistema stocastico (casuale) a cui ci si può approcciare unicamente con uno studio probabilistico. Anche le stime, con le quali ormai conviviamo, dell’intensità di traffico su una determinata strada o relative alle previsioni di voto nelle campagne elettorali sono tutte determinate in base a calcoli probabilistici di sistemi stocastici. In questi casi è possibile studiare unicamente l’insieme, l’intera massa di gas, i risultati elettorali di ciascun partito politico, il numero di autovetture su quella strada in quella data e a quella ora (questo in quanto il tutto è ricompreso nella famosa curva di Gauss, la cui area sottesa è pari a 1, quindi al 100%), ma non riusciremo mai a determinare il moto di ciascuna
particella all’interno della massa di gas, né a determinare il voto effettivo di ciascun elettore, né il momento di passaggio di ciascuna autovettura su una specifica strada in un determinato momento. Un grande matematico della seconda metà del Settecento, Laplace, anche egli Libero Muratore, pensò le equazioni differenziali che da lui presero il nome. Per chi si interessa di matematica le equazioni differenziali di Laplace sono forse l’argomento di studio più ostico che possa esistere; esse studiano la variazione infinitesimale delle dimensioni spaziali (dx, dy, dz) rispetto alla variazione infinitesimale del tempo (dt). Le stesse hanno applicazioni in qualsiasi campo, in chimica, in termodinamica (le equazioni di Fourier hanno origine da esse) ecc. Douglas Adams, nel suo testo Guida galattica per gli autostoppisti, riprende alcune nozioni già introdotte da Laplace e applicabili nelle sue equazioni: sono i concetti di “vasta intelligenza” e “intelligenza considerevole”. Che cosa sono queste? La vasta intelligenza è immensa, infinita, perfetta, al di fuori del sistema universo. Non può guardare all’interno del sistema perché così facendo interferirebbe con esso e lo modificherebbe ogni qualvolta dovesse anche solo riflettere su un qualsiasi oggetto o sua parte infinitesima. L’intelligenza considerevole è invece interna al sistema universo (che ricordiamo è un sistema caotico) e lo disciplina da dentro. Tuttavia per poterlo valutare, studiare, determinare ecc., trovandoci in un sistema caotico, si ha bisogno di definire il punto zero di partenza con una precisione infinita. Ma, per avere una identificazione con precisione infinita di un punto, si ha bisogno di una intelligenza infinita, esterna al sistema: la vasta intelligenza. La vasta intelligenza definisce il punto zero (Big Bang). L’intelligenza considerevole segue lo sviluppo dell’universo dal punto zero. Quanto detto sopra è il messaggio contenuto nelle equazioni differenziali di Laplace. Sorgono spontanee alcune domande: possiamo identificare la vasta intelligenza con il grande Architetto dell’Universo e l’intelligenza
considerevole con il Demiurgo? Chi è il Demiurgo? Yahweh? Lucifero? O forse gli ultimi due si identificano in un’unica entità? A riguardo si ricordi Giosuè Carducci in Inno a Satana, ove con Satana l’autore parrebbe identificare il Demiurgo, l’intelligenza considerevole: “A te, de l’essere Principio immenso, materia e spirito, ragione e senso”. Quella di Laplace non è stata una espressione isolata di pensiero. Nel Settecento nacque in Inghilterra un nuovo pensiero teologico, quello dei deisti. Essi affermavano l’esistenza di Dio ma ritenevano che quest’ultimo, dopo aver dato inizio all’universo, si fosse completamente disinteressato del suo sviluppo. Certo questa convinzione va a combaciare quasi perfettamente con il pensiero di Laplace in quanto alla vasta intelligenza non è data la possibilità di intervenire nello sviluppo di una realtà pluridimensionale. Successivamente questo pensiero ha visto l’apporto di Kurt Gödel, logico matematico austriaco del Novecento, il quale, in sintesi, ha dimostrato matematicamente che, dato un qualsiasi sistema⁴⁹ basato su un determinato numero di assiomi (ipotesi di partenza), esisteranno sempre delle congetture indimostrabili. Per dimostrarle si dovrà sempre far ricorso a ulteriori nuovi assiomi ma, introducendoli, si creeranno ulteriori congetture indimostrabili. Come sono comiche tutte quelle distinzioni create dall’uomo tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra buono e cattivo all’interno del nostro mondo! A maggior ragione se le rapportiamo allo sviluppo temporale dell’universo: ricordiamoci della rotazione, a mo’ di ombrello, dello yin e yang. Sono ancora più comiche tali distinzioni se consideriamo il bene collegato a Dio. A quale Dio? Alla vasta intelligenza che non può collegarsi a noi o alla intelligenza considerevole, al Demiurgo, al Satana di Carducci? Concludo con due frasi. La prima di un prete del tardo Ottocento: “Non penso che l’Universo sia disciplinato dal Caso, viste le ingiustizie presenti al suo interno. Infatti di per sé il Caso è giusto”. La seconda è di Anatole France in Il giardino d’Epicuro: “Caso è lo pseudonimo usato da Dio quando non vuole firmare col proprio nome”⁵⁰.
Michele Angiuli 47. V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano 2011. 48. I. Stewart, Dio gioca a dadi?, Bollati Boringhieri, Torino 2017. 49. Vedasi l’universo. 50. In quanto non vuole o non può interferire (Laplace).
Il gene, il meme e la parola perduta “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Spesso utilizziamo questa celeberrima frase del Gattopardo per descrivere come, nonostante le apparenze, molte volte nulla cambi nella società e nei comportamenti degli uomini. Ma sarà poi vero? Certo è stato drammaticamente vero nel caso degli eventi narrati da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando l’annessione del Regno delle Due Sicilie all’Italia sabauda ben poco cambiò della sua struttura arretrata e feudale e, se cambiamenti vi furono, non si trattò certo di miglioramenti. Ma è giusto generalizzare? La contesa è assai antica, e risale ai tempi della Grecia classica, quando già c’era chi sosteneva che la mente dell’uomo è troppo pigra per poter essere soggetta a una reale evoluzione. In realtà, oggi la maggior parte di noi ritiene che cambiare è possibile, e su questo assioma (che sembra uno slogan politico) sono costruiti molti pilastri della nostra società. Su di esso si fonda il concetto di giustizia, da Cesare Beccaria in poi, basato sul presupposto che il reo possa essere recuperato e rieducato. Se non credessimo a ciò non avremmo altro da fare che incarcerare a vita o decapitare tutti i criminali. Sul presupposto che cambiare è possibile si fonda anche la moderna pedagogia, la psicanalisi e, naturalmente, il percorso massonico. Se le possibilità di cambiamento della mente umana sono oggetto di discussione, nessun dubbio sembra esservi ormai sul fatto che le caratteristiche fisiche degli esseri viventi possano, anzi debbano essere suscettibili di cambiamento. Sono le mutazioni che conferiscono loro la capacità di adattarsi alle condizioni ambientali più diverse, persino a quelle estreme. A parte qualche irriducibile creazionista, la maggior parte di noi crede nell’evoluzione della specie. A proposito di evoluzione, dall’epoca di Charles Darwin si era sempre pensato che il soggetto principale della selezione naturale fosse l’individuo, uomo o animale che fosse. Nel 1976 invece fece la sua comparsa una nuova teoria sull’argomento che vedeva nel gene l’unità fondamentale del processo evolutivo. Questa teoria, detta del “gene egoista” fu illustrata in un libro dall’omonimo titolo (The Selfish
Gene). Il suo autore, Richard Dawkins, è un simpatico biologo inglese nato a Nairobi, divenuto sempre più celebre negli anni successivi, anche per le sue posizioni di ateismo a oltranza. Perché i geni, secondo Dawkins, sono degli egoisti? Perché il loro unico obiettivo è quello di garantirsi in ogni modo possibile la sopravvivenza. In questa visione, l’uomo e gli altri esseri viventi sarebbero semplicemente un passivo veicolo dei loro geni, o per usare le parole dell’autore: “Macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per conservare quelle molecole egoiste note col nome di geni”. Dunque l’evoluzione non garantirebbe affatto la sopravvivenza dell’individuo, ma solo quella dei loro geni. Non può stupire nessuno che Richard Dawkins sia un feroce oppositore di qualsiasi “disegno intelligente” che guida il mondo che ci circonda. Per lui non esiste alcuna architettura dell’universo, ma tutto è mosso da un “orologiaio cieco”, appunto l’evoluzione del gene:
“La selezione naturale è l’orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine. Eppure, i risultati viventi della selezione naturale ci danno un’impressione molto efficace dell’esistenza di un disegno intenzionale di un maestro orologiaio. Che alla base della complessità della natura vivente ci sia un disegno intenzionale, è però solo un’illusione”⁵¹.
Ma in The Selfish Gene, Dawkins ci propone una teoria ancor più affascinante e controversa: secondo lui la cultura umana si trasmetterebbe con un meccanismo molto simile a quello dei geni, e con le stesse finalità. È questa la teoria dei “memi”, gli analoghi culturali dei geni. Cos’è un meme? A dirla molto semplicemente è l’unità elementare della cultura, un pacchetto d’informazioni residente nel cervello capace, come un gene, di propagarsi autonomamente e di difendere strenuamente la propria sopravvivenza. Un meme può essere un’idea, una lingua, una musica, un oggetto, un’abilità, un valore morale o estetico; può essere, in genere, qualsiasi cosa comunemente imparata e trasmessa ad altri come unità d’informazione.
Per capire meglio questo concetto facciamo qualche esempio pratico di unità d’informazione che possano essere definite memi. Una tecnica utile è un meme (ad esempio, l’uso della ruota nelle sue mille applicazioni, o la tecnica di costruzione di una volta in pietra). Un’idea che ci aiuta ad affrontare un problema insolubile è un meme (ad esempio, un’idea dell’aldilà come il paradiso e l’inferno). Ma anche un poema epico, un’idea politica, una religione, una leggenda, un mito, un proverbio, uno slogan pubblicitario, un film celebre, un brano d’opera, e, naturalmente, la tecnologia: sono tutti esempi di memi. I memi si diffondono da un uomo all’altro per trasmissione culturale o per semplice imitazione e, a volte, la loro velocità di propagazione è talmente elevata da poter essere paragonata a quella di un virus. Più un meme si adatterà all’ambiente, più si diffonderà velocemente, e più tenacemente sopravvivrà. I memi più vantaggiosi saranno destinati a soppiantare quelli meno vantaggiosi. Proprio come accade ai geni. Infatti, come per i geni, le idee che si trasmettono da una generazione alla successiva possono aumentare o diminuire le possibilità di sopravvivenza degli individui che le ricevono e che, a loro volta le trasmetteranno ai loro figli. Ad esempio, quel popolo che avrà sviluppato armi di difesa più potenti, tecniche di coltivazione e allevamento più efficaci, o un sistema di governo più solido avrà più probabilità di prosperare e svilupparsi sugli altri. Non solo, col passare del tempo anche gli altri popoli tenderanno ad adottare le stesse unità culturali. Così i memi si diffonderanno e sopravvivranno guidando con la propria presenza o assenza il futuro di molte culture. Quando parlo di cultura a proposito dei memi però, uso questo termine in senso molto lato: spesso accade che un popolo si accorga che è più conveniente, in termini di sopravvivenza, rimanere nell’ignoranza: in questo caso, ahimè assai frequente, l’ignoranza diventerà un meme. Sia i geni che i memi hanno ovviamente la caratteristica di poter sopravvivere molto più a lungo del singolo organismo che li reca in sé. Un gene vantaggioso (ad esempio un gene che protegge da una data malattia) può rimanere inalterato nel corredo genetico per centinaia di migliaia di anni. Un meme vantaggioso (come può essere una idea politica di successo
o una grande religione) può propagarsi da un individuo a un altro per tempi molto lunghi dopo la sua comparsa. Secondo Dawkins, al pari del gene, il meme non persegue alcuno scopo prefisso e non ha nessun progetto a lungo termine. Semplicemente è un “replicatore di se stesso”: vuole sopravvivere il più a lungo possibile, e potrà farlo in un solo modo, replicandosi, appunto. In realtà, i memi qualche differenza rispetto ai geni ce l’hanno: il successo di un meme è legato a fattori più sottili, come gli effetti della moda, della pressione del gruppo, la capacità di resistere alle obiezioni o di persuadere il prossimo. Tuttavia, secondo Dawkins, anche nel caso dei memi, gli uomini spesso sarebbero null’altro che passivi contenitori destinati a garantire la sopravvivenza di queste piccole e invadenti unità d’informazione comportamentale. Da molti anni Richard Dawkins è uno dei più prestigiosi rappresentanti internazionali del pensiero materialista e riduzionista. La sua teoria del gene egoista prevede un universo che si muove senza alcuna direzione, né criterio né senso. Ed è legittimo dissentire. Ma quando, con i memi, egli estende questa idea anche al mondo dei comportamenti umani e della cultura, per quanto ci possa sembrare provocatorio, non si può negare che qualche solida ragione ce l’abbia: la maggior parte delle idee che costituiscono la cultura di un popolo è funzionale a un vantaggio immediato, la progettualità a lungo termine è assai rara e si applica a pochi capolavori della mente umana, noti solitamente solo a una elite intellettuale. In genere un’idea resiste nel tempo se la sua convenienza si rinnova di giorno in giorno. Chi si propone con idee che potranno avvantaggiare le generazioni future, ma non portano un vantaggio nel presente, si sa, è destinato ad avere poco successo. Insomma, i memi non sono soltanto degli egoisti invadenti, ma sono anche molto miopi! Quello di cui Dawkins non tiene debito conto è che vi sono grandi valori che, nati in un certo momento della storia, vengono dimenticati o addirittura avversati, per tempi anche lunghissimi. Queste idee, che potremmo chiamare le “parole perdute”, sono a volte gelosamente custodite da ristretti gruppi di uomini saggi, spesso anch’essi avversati, come le loro idee, che si danno il compito di tramandarle alle generazioni successive. Ma facciamo qualche esempio. Una parola perduta è stata il patrimonio culturale
dell’antichità classica che ha attraversato i tempi, bui e lunghissimi, del Medioevo, perché custodita da pochi saggi, chiusi nei conventi europei. Altre parole perdute sono i dialoghi intellettuali e spirituali tra civiltà diverse fra loro, conservati anche mentre imperversano sanguinose guerre ideologiche o di religione che sembrano compromettere per sempre ogni contatto tra loro. E, naturalmente, una parola perduta è la tradizione iniziatica, da secoli messa ai margini della cultura ufficiale, ma sopravvissuta in ogni campo del sapere umano grazie a un silenzioso passaparola. Si tratta di idee che non hanno nessuna apparente “convenienza”, se giudicate con i parametri convenzionali e che, anzi, possono sembrare francamente dannose, ma che possono avere un valore immenso se proiettate molto in là nel futuro della società, oppure se sono viste nell’ottica di un percorso individuale, sia esso culturale, spirituale o filosofico, non remunerativo nell’accezione corrente del termine. Insomma, la parola perduta sfugge alla logica egoista e utilitaristica dei memi, e ha la vista assai più lunga rispetto a essi. Le molte parole perdute che la mente umana ha generato in ogni tempo sono un patrimonio d’immenso valore e la loro sopravvivenza si deve solo ai suoi pochi illuminati e coraggiosi custodi.
Paolo Maggi 51. R. Dawkins, L’orologiaio cieco, Mondadori, Milano 2017.
Girolamo Cardano e la teoria dei sogni Anno 1562, Bologna: Girolamo Cardano dà alle stampe il Somniorum Synesiorum omnis generis insomnia explicantes libri IIII (Quattro libri che spiegano tutti i generi di insonnia trattati nel libro di Sinesio Sui sogni). È un anno critico per l’eclettico filosofo, medico, matematico e “mago”, costretto a lasciare l’incarico di professore di medicina all’Università di Pavia e ad accettare un analogo incarico, nonostante l’opposizione di molti colleghi, a Bologna. Due anni prima la sua vita era stata travolta da una terribile tragedia famigliare, peraltro annunciatagli in sogno per ben due volte: l’arresto e la condanna a morte del primogenito Gianbattista per uxoricidio. A questo terribile evento era seguita una feroce campagna diffamatoria nei suoi confronti da parte dei colleghi invidiosi e dei numerosi nemici che col suo carattere polemico e superbo si era assicurato. Furono formulate accuse pesanti, fra cui quelle di pederastia e di eresia, si giunse probabilmente anche a complottare la sua eliminazione e solo l’intervento di due potenti protettori, il cardinale Morone e il giovane Carlo Borromeo, appena salito agli onori grazie allo zio Pio IV, salvò Cardano da una situazione ormai incontrollabile. Grazie alla mediazione del Borromeo, Girolamo lasciò Pavia nel 1562 per un incarico di professore di medicina presso l’Università felsinea per 521 scudi all’anno. E proprio a Carlo Borromeo è dedicato il Somniorum Synesiorum, ma la dedica non deve trarre in inganno, come neppure il riferimento al libro di Sinesio di Cirene. Sinesio in realtà è per così dire l’ombrello ideologico sotto il quale si ripara Cardano, che si fa forte anche del nome del suo potente protettore. Il fatto è che ciò che sta a cuore a Cardano non è tanto la trattazione sistematica (la prima, come orgogliosamente puntualizza) del materiale onirico, della sua logica grammaticale e del suo simbolismo ai fini della fondazione di una corretta arte interpretativa, quanto l’analisi della natura dei sogni e in particolare di un genere di sogni: quelli profetici. E la sua chiave interpretativa non è certo quella del vescovo di Tolemaide. Né va sottaciuta la rilevanza che i sogni, al pari delle premonizioni o illuminazioni e degli eventi prodigiosi, hanno nella vita e persino nella genesi delle opere di Cardano, come lui stesso testimonia in più luoghi dei suoi scritti, ma in particolare nella straordinaria autobiografia e nel quarto libro appunto del Somniorum Synesiorum. Da qui l’utilità di fare qualche riferimento alla sua straordinaria vita onirica. I sogni premonitori entrano prepotentemente nella vita di Cardano, a suo dire, nel 1534 quando, come racconta nel De propria vita liber:
“Cominciai a sognare eventi che dovevano verificarsi a breve scadenza e se avevano luogo nel giorno stesso li vedevo dopo l’alba in modo distinto e circostanziato. Così sognai la causa con il Collegio dei Medici e lo svolgersi del giudizio, gli accordi e la condanna e sognai anche che avrei ottenuto l’incarico di insegnamento a Bologna. Questa proprietà cessò […] nel 1567 […] e durò quindi circa trentatré anni”.
In realtà già due anni prima aveva avuto un sogno importante per la sua vita privata che gli annunciava non solo il vicino matrimonio, ma i successivi tragici eventi che avrebbero colpito i due figli maschi:
“Ma ecco che una notte […] mi ritrovo in un giardino ridente, bellissimo, ornato di fiori e ricco di frutti d’ogni specie, in cui spirava un’aria soave. […] All’ingresso, la porta era aperta e un’altra dava sul lato opposto; entro e mi si presenta una fanciulla vestita di bianco: l’abbraccio, la bacio ma ecco che al primo bacio un giardiniere corre a chiudere la porta. Lo supplico di lasciarla aperta ma senza risultato: mesto, allacciato alla fanciulla, mi vedo chiuso dentro”.
Pochi giorni dopo per strada vede una fanciulla, Lucia Bandareni, in tutto eguale a quella del sogno, se ne innamora e la sposa.
“Ma il significato premonitore e veritiero del sogno non si era esaurito nell’incontro con la fanciulla e doveva dispiegarsi per intero nella sorte che sarebbe toccata ai nostri figli. Visse con me solo quindici anni e tuttavia quell’incontro doveva essere la causa di tutti i mali della mia vita”.
Ancora più importante per la sua vita privata è il famoso sogno del 1534 che, in una fase negativa della sua vita, quando ogni strada sembra preclusa, gli annuncia sia la gloria futura, sia il dramma del figlio Gianbattista, destinato a macchiarsi dell’omicidio della moglie e a essere condannato per questo a morte. È un passo lungo che merita di essere citato per intero dal momento che fa luce anche sul metodo seguito da Cardano per l’autointerpretazione dei contenuti onirici:
“Una volta, sul far dell’alba, sognai di correre verso la base di un monte che era alla mia destra insieme con una folla enorme di persone di ogni condizione, sesso, età, donne, uomini, vecchi, bambini, infanti, poveri, ricchi, vestiti in fogge svariate. Chiesi dove stessimo correndo tutti e uno di loro mi rispose: ‘Alla morte’. Il monte era ora alla mia sinistra. Atterrito mi giro per averlo a destra e comincio ad afferrare delle viti – per metà di quel monte e fin dove mi trovavo c’erano dei tralci aridi e senza uva, così come appaiono d’autunno – e a salire. Dapprima faticavo perché il monte, o piuttosto il colle, era molto ripido all’inizio, poi, superato quel tratto, cominciai ad ascendere agevolmente grazie a quegli appigli: quando ero già sulla cima e, come spinto da un impulso della volontà, stavo per passare dall’altra parte, ecco apparire dei massi neri e scoscesi: poco mancò che non precipitassi in una voragine tetra, profonda e tenebrosa, tanto che il ricordo di questo sogno mi rattrista e insieme mi terrorizza ancora adesso che sono passati quarant’anni. Mi volto allora a destra verso un campo coperto solo di erica e procedo spinto dal terrore, senza sapere dove vado, finché non m’accorgo di essere all’entrata di un tugurio di campagna costruito di paglia, giunchi e canne, e di tenere per mano con la destra un bambino dall’apparente età di dodici anni, dalla veste color cinereo: allora finirono insieme il sonno e il sogno”.
A prescindere dalle suggestioni dantesche che le immagini iniziali della folla che corre verso la morte, dell’ascesa faticosa del monte-colle e del senso di terrore ancora impresso nel sognatore dopo tanti anni possono suscitare in chi legge e che potrebbero essere interpretate come archetipi rappresentativi di una condizione di smarrimento esistenziale o di umore melanconico, se volessimo tentare un’interpretazione a posteriori e in absentia dell’attore non riusciremmo ad andare oltre alla sensazione di trovarci dinanzi a un sogno che scaturisce dalla vita psichica del sognatore, ovvero – per attenerci alla classificazione di Cardano – un sogno provocato da cause incorporee preesistenti, veritiero ma non predittivo. Le presenze negative – il lato sinistro del monte, i “massi neri e scoscesi”, la “voragine tetra, profonda e tenebrosa”, i tralci d’uva appassiti, il “tugurio” e la “veste cinerea” del fanciullo – ci appaiono come raffigurazioni di uno stato angoscioso di fallimento esistenziale su cui si accende una timida luce di speranza (il lato destro del monte, il campo di erica, il fanciullo). Non così nella lettura che ne dà l’interessato, convinto che il primo e migliore interprete sia il sognatore stesso, anche se poi in altri passi delle sue opere Cardano dichiara che, essendo l’onirocrazia un’arte congetturale al pari della medicina, è necessario rivolgersi a un interprete saggio, abile e oggettivo, capace di osservare dall’esterno senza farsi coinvolgere emotivamente, forte di una molteplice esperienza e della conoscenza di innumerevoli casi (peraltro da ricompensare lautamente!). Ecco dunque la sua interpretazione ed è un illuminante esempio delle capacità associative necessarie a una corretta onirocrazia: non solo l’attribuzione di significato agli elementi presenti nel sogno, primo passo elementare della decifrazione, ma il significante sotteso al loro relazionarsi con il contesto onirico e con la personalità e la vita del sognatore. Spiega Cardano:
“Con quanta chiarezza faceva riferimento alla fama immortale del mio nome, alle fatiche immense e senza fine, al carcere, al timore, alla tristezza, quel luogo aspro a causa delle selci, infruttuoso per mancanza di alberi e di erbe utili ma pure lieto, tranquillo e pianeggiante! Fu dunque un preannuncio della gloria perenne che mi attende nel futuro: così ogni anno la vigna dà la sua vendemmia. Se quel ragazzo indicava lo spirito buono, si trattava di un presagio fausto e infatti lo tenevo ben stretto; se indicava mio nipote, lo era un po’ meno. Quella capanna eretta nella solitudine indicava poi la speranza della quiete. Ma un tale terrore congiunto all’immagine del precipizio poteva anche significare il destino di mio figlio, poiché non è verosimile che il suo matrimonio e la sua morte siano stati trascurati”.
I sogni parlano a Cardano non solo della sua vita privata e sociale, ma lo indirizzano anche negli studi e addirittura gli suggeriscono o dettano i contenuti delle sue opere. Così, sempre nel 1534, sogna la propria anima smarrita nel cielo della luna e soccorsa dall’intervento del padre scomparso che lo consola indicandogli i percorsi dei suoi futuri studi:
“Dio mi ha assegnato a te come custode, tutto questo luogo è pieno di anime ma tu non le puoi vedere, come non puoi vedere me, né puoi parlare con loro; resterai in questo cielo settemila anni, altrettanti in ciascuna delle sfere, fino all’ottava, poi entrerai nel regno di Dio”.
Parole che Cardano puntigliosamente interpreta:
“L’anima di mio padre indicava il mio nume tutelare […], Mercurio indicava la geometria e l’aritmetica, Venere la musica, la divinazione e la poesia, il Sole la morale, Giove la filosofia naturale, Marte la medicina, Saturno l’agricoltura, la scienza delle erbe e le altre arti meno nobili, l’ottavo orbe le osservazioni varie, la sapienza naturale e gli studi diversi; dopo tutto questo avrei trovato un giorno riposo in chi guida queste sfere”.
Quanto ai libri, il De rerum varietate, il De Subtilitate, gli Opuscola Medica et Philosophica, per fare solo qualche esempio, sono nati da un’esortazione onirica che lo spinge ripetutamente a scrivere, “un ammonimento che si ripeté in sogno una, due, tre, quattro volte e altre ancora”. Il caso più significativo lo si ha con il De Subtilitate, la cui genesi si ha nel sogno e dal sogno si materializza, per così dire, sulla carta. Ce ne parla Cardano, proprio nel trattato in questione, ricordando di aver visto, dormendo, l’opera divisa in ventuno parti, di aver preso coscienza della materia in essa trattata, del titolo del libro, dello stile elegante e fluido; non solo, vede il libro stampato e diffuso in qualche esemplare in città. E sempre in sogno legge quello che al risveglio fissa sulla carta, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, fino al compimento e alla pubblicazione:
“Dormendo, sono stato incitato più di una volta a scrivere questo libro diviso, per quel che vedevo, in 21 parti. […] Ovunque vi erano dissertazioni varie e originali, di grande eleganza […] la brillantezza della lingua non aveva niente di mediocre e si accompagnava a una piacevole oscurità; per la fluidità dello stile e la finezza dei ragionamenti la cosa mi appariva pressoché divina al punto che nel sonno ero assalito da un piacere mai conosciuto. Avevo l’impressione di essere rapito fuori di me e, una volta sveglio, il ricordo di quel diletto mi suscitava un piacere straordinario. Presi coscienza della materia generale da trattare, del titolo del libro, dei caratteri belli e fini. Vidi in lontananza il libro stampato e diffuso in qualche esemplare in città. Questo sogno si ripeté molte volte e io scrissi prima quattro pagine, poi sette e infine trentacinque. Mai cessavano quelle stesse
immagini e quel piacere che provavo leggendo, nel sonno, ma più il libro procedeva, meno si ripresentava il sogno. Raggiunti quindi i 57 fogli, poi i 76, ai quali cui fu aggiunta una tavola, il libro fu edito”.
È una sorta di “invasamento” divino destinato a ripresentarsi nel 1557 allorquando, dopo aver ascoltato in sogno una “melodia celeste”, fonte di grande piacere, al risveglio comprende di doversi finalmente dedicare alla stesura di un completo trattato di medicina, quello che sarà l’Opuscola Medica et Philosophica, in cui dimostrare tra le altre cose le cause per le quali alcuni uomini muoiono inevitabilmente per le febbri e altri si salvano, un problema che lo aveva tormentato per lungo tempo e che di colpo, in sogno, gli si chiarisce.
“Correva l’anno 1557 quando ebbi un sogno in cui ascoltavo una melodia celeste, fra le più dilettevoli al punto che il suo stesso ricordo mi suscitava piacere; al risveglio compresi immediatamente la ragione per la quale certi uomini muoiono ineluttabilmente a causa delle febbri e altri no. Mi ero applicato per circa 25 anni per risolvere questa questione. Dunque, essendomi risolto, mi misi subito, alla mattina, a scrivere questa magnifica Artis parve medendi che dopo 4 anni, e dopo o averla ripresa, o provato a riprenderla, più di venti volte, ho portato a conclusione: la medicina vi è trattata nella sua completezza. Così, attraverso la melodia, era un sapere divino che mi veniva annunciato”.
Così intimamente legato all’universo onirico, Cardano non poteva non interrogarsi sulla natura misteriosa dei sogni, sulla loro utilità e soprattutto sull’arte onirocratica, da cui molto può dipendere il dipanarsi di un’esistenza. Di primo acchito sembra che per lui l’onirocrazia occupi un posto per così dire inferiore rispetto alle altre arti divinatorie, tanto che nel De Libris Propriis (in parte forse per indirizzare il lettore verso opere da lui ritenute più significative) non esita a dichiarare che:
“La più prestigiosa delle arti divinatorie è la Fisiognomica, tanto da richiamare da vicino il giudizio dei saggi. La più vicina a essa è la Metoscopia; viene poi l’Astrologia, poi la Chiromanzia seguita dalla scienza dei Prodigi, in sesta posizione viene la scienza dei sogni, se essi vengono esaminati come si deve”.
In realtà, è proprio su quel “come si deve” che bisogna soffermarsi, dato che la natura magmatica e sfuggente dei sogni può generare errate interpretazioni, può mascherare l’origine “naturale” sotto la veste di una predizione e viceversa. Il linguaggio onirico non è mai univoco, ma è soggetto a molteplici variazioni a seconda che agiscano cause fisiche, impressioni della memoria o “influssi celesti”, ma anche a seconda di chi sogna, dell’ambiente e dell’ora. Non esistono regole assolute per l’interpretazione dei sogni, non si hanno calcoli come accade in astrologia o linee geometriche come nel caso della metoscopia o della chiromanzia, né mappe del volto e del corpo come nella fisiognomica. E tuttavia l’onirocrazia è un’ars interpretandi naturale, ovvero trova nella natura le diverse chiavi interpretative, ed è anche, al pari della medicina, dell’agricoltura e della navigazione, una doctrina coniecturalis in virtù della quale l’uomo può correggere tanto la propria natura, quanto il proprio destino, dato che non solo “nei sogni non vengono mostrati gli avvenimenti ma, attraverso immagini, le loro cause”, ma l’interpretazione porta con sé l’azione e non si ferma alla predizione. Al pari del medico, del marinaio e dell’agricoltore, l’onirocrate comprende il significato reale dei “segni” e immediatamente agisce, aiutando o aiutandosi a prendere buone decisioni con prontezza e accortezza:
“A maggior ragione ci si deve comportare con cautela nelle arti congetturali. Se uno, come ho detto, utilizza questo sapere e questa capacità di interpretare pensando più all’azione che alla previsione, sarà stimato assai sapiente e abile. Ad esempio un medico accorto quando riconosce l’imminenza di una crisi, non tanto si limita a predirla quanto piuttosto impone al malato l’astensione dal cibo, dalle medicine e dal salasso e lo porta in un luogo caldo. E
il marinaio, quando s’accorge d’una tempesta imminente, cala la vela, prepara l’ancora, e conduce la nave in porto o, se non può, in alto mare. Così l’agricoltore esperto, quando teme la brina, non pota gli alberi, e se teme le piogge, non sparge i semi per evitare che marciscano. Ciò significa che non basta conoscere ciò che è bene, ma bisogna impararne anche l’uso più conveniente”.
A differenza, però, del medico, dell’agricoltore e del marinaio l’onirocrate deve confrontarsi con segni che continuamente rimandano a significati differenti, ovvero con un linguaggio fondato solo sulle leggi della similitudine, il che rende particolarmente difficile estrapolare dalle immagini “universali” il significato univoco a esse sotteso. I primi, infatti, possono utilizzare conoscenze non solo codificate e verificate nel tempo, ma altresì dotate sia di un alto grado di previsione (ogni volta che si ha quel sintomo o si verifica quel fenomeno ne consegue che…), sia di un’attendibile correlazione fra previsione e azione conseguente (prevedendo che accadrà questo so che posso intervenire in questo modo). L’onirocrate, invece, deve fare i conti con il fatto che “in ogni sogno vi sono molti aspetti generali e che ogni aspetto generale è rivelatore di molte cose”; deve, cioè, essere consapevole che la scienza dei sogni, pur essendo il sogno soggetto alle leggi della natura (ogni fatto onirico ha infatti una causa naturale), non può mai darsi né una sistematicità rigorosa, né principi oggettivi di riferimento, anche se è necessario tendere alla sistematicità e all’oggettività. Dichiara Cardano: “In generale, dunque, tutta l’arte dell’interpretazione consiste nel collegare più aspetti generali e nel capire qual è l’unica cosa a cui convengono con le loro caratteristiche, e sarà questa la cosa significata dal sogno”. Occorre quindi rifondare l’arte dell’onirocrazia su nuove basi per strapparla alla mancanza di metodo sia degli auctores antichi, sia dei ciarlatani che improvvisandosi interpreti gettano discredito su un’arte così nobile. È qui la genesi e la ragione d’essere del Synesiorum somniorum (e in particolare del Libro I), l’opera con cui Cardano si propone di stabilire in via definitiva i principi e le regole di questa particolare ars interpretandi. Vediamo quindi preliminarmente la struttura del trattato. L’opera è costituita da quattro libri in cui la materia è così ripartita:
Libro I
Teoria generale (cap. I-XV) e significato delle cose che vediamo in sogno (ad esempio, vesti, case, suppe
Libro II
Tipi di sogno (oscuri, incompiuti, complessi, ricorrenti, angosciosi ecc.)
Libro III Classificazione dei sogni in base alla condizione famigliare, sociale e alla natura del sognatore Libro IV Raccolta di esempi di sogni dei diversi generi avuti da personaggi celebri. Cinquantacinque sogni di Card
A prescindere dagli altri libri, che costituiscono un vero e proprio manuale di consultazione rivolto a chi voglia tentare la difficile arte dell’interpretazione dei sogni, dove si trovano peraltro sia originali spunti interpretativi meritevoli di un’analisi approfondita accanto a un repertorio più tradizionale e “popolare” (si pensi alla “smorfia” napoletana), sia elementi suggestivi per ricostruire la complessa personalità di Cardano, magari alla luce della sua autobiografia, quello che riveste una maggiore importanza dal punto di vista teorico e filosofico è il Libro I, limitatamente ai capitoli I-XV. Qui viene esposta la teoria generale, ovvero classificazione e cause dei sogni, origine dei sogni veritieri, come riconoscerli e come averli, regole generali per l’interpretazione. In polemica con gli autori che lo hanno preceduto, Artemidoro e lo stesso Sinesio, ma anche Niceforo Gregoras, Urso di Calabria e Salomone Ebreo, ritenuti fonte di informazioni utili ma privi di un impianto sistematico, Cardano dà avvio alla sua trattazione con l’individuazione dei diversi generi di sogno in base alle loro cause specifiche. L’assunto di base è che i sogni nascono da un movimento moderato (movimento di natura moderato ma secondo gradi diversi, dall’agitato e perturbato a quello più lieve) degli spiriti i quali, quando ci si addormenta, si contraggono al cuore e quando si sogna muovono dall’anima e generano immagini: “Se il sonno è la quiete degli spiriti e la veglia è il prodotto del loro moto veemente, l’aver sogni rimanda invece a un moto tremolante e imperfetto”, il quale è provocato da cause diverse, come appunto il cibo e le bevande, gli umori, la memoria e le passioni, gli agenti celesti. Quattro sono dunque i generi di sogno poiché quattro sono le cause e queste si distinguono in due gruppi: corporee e incorporee, nuove e preesistenti (“constatate in precedenza”). A seconda della combinazione delle cause si hanno i quattro generi, ordinabili secondo una scala che alterna i sogni più imperfetti e confusi, di scarso o nullo valore predittivo, a quelli più coerenti e ordinati, di portata predittiva o profetica. Sintetizzando:
I genere
Sogni provocati da cause corporee nuove
II genere
Sogni provocati da cause corporee preesistenti
III genere
Sogni provocati da cause incorporee preesistenti
IV genere
Sogni provocati da cause incorporee nuove
Nei sogni del primo genere le cause corporee nuove sono i cibi e le bevande ingeriti prima di dormire i cui vapori spessi e turbolenti provocano un movimento violento e agitato e dunque sogni perturbati, confusi e incoerenti, di nessun valore rispetto alla predizione del futuro. E questo avviene per cinque cause:
“O perché i cibi sono quelli che hanno la natura della testa del polipo, del cavolo, della cipolla, dell’ossimele, del coriandolo fresco […] e possiamo aggiungere il frutto del giunco, quasi tutte le specie di erba mora, il giusquiamo, la mandragola, il vino denso e abbondante; insomma tutto ciò che provoca il sonno e genera la bile nera come i legumi e specialmente le fave. Oppure a causa della quantità e della varietà delle cose ingerite, o a causa dell’ordine sbagliato, quando si mangia molto e cibi di diverso genere, e si mescolano diverse bevande; oppure se a cibo crudo si aggiunge altro cibo: o se il cibo assunto genera disturbi di digestione”.
Se compaiono sogni più coerenti e ordinati, ricorrenti e sempre uguali, suscitati da un moto meno violento perché meno violenti sono i vapori, ci troviamo di fronte ai sogni di secondo genere, quelli le cui cause sono corporee e già presenti nel sognatore. Più specificatamente si tratta dei sogni che sono generati dagli umori presenti nel sognatore in forma più o meno equilibrata. Questo tipo di sogni non ha nessun valore rispetto alla conoscenza del futuro, ma ha una grande importanza per il medico poiché consente di formulare diagnosi e di individuare le terapie; si tratta di sogni veritieri (ci parlano delle reali condizioni fisiche del sognatore) che fanno parte per così dire della costituzione del soggetto sognante e quindi concorrono a delinearne la complessione, al pari dei sogni di terzo genere che riguardano la sfera psicologica e “storica” del sognatore. Spetta al medico interpretarli secondo la scala galenica dei gradi umorali, partendo dall’assunto che sogni con presenze serene come prati, luoghi ameni, profumi soavi, bei dipinti, suoni armoniosi, sensazioni di piacere rimandano a una condizione di equilibrio e dunque di buona salute, mentre immagini violente e paurose sono spie di uno squilibrio umorale. Così, seguendo le indicazioni di Cardano medico, scopriamo le corrispondenze fra umori, elementi naturali e sogni:
Bile gialla (fuoco)
paura, ira, corsa, battaglia, fuochi
Bile nera (terra)
incendi, tenebre, terremoto, lampo e tuono, fuga, melma, carceri, morte, lutti, disperazione
Flegma (acqua)
inondazioni, fiumi, pioggia, tempeste, grandine, neve, ghiaccio, paludi
Sangue (aria)
lago di sangue, rose rosse, porpora, vino
Anche i sogni del terzo genere, che derivano da cause incorporee preesistenti, sono veritieri (ci parlano della reale vita psichica dell’uomo) e non hanno valore predittivo. Si tratta, infatti, dei sogni che nascono dalla memoria, ovvero dal ricordo del passato o dalle impressioni del presente, ossia dalle “affezioni veementi”, intendendo con ciò gli stati d’animo che arrecano turbamento nello stato di veglia. Essi sono prodotti non da agenti corporei (cibi e bevande o umori), ma da un riscaldamento degli spiriti che, sotto la spinta delle affezioni, provocando un lieve moto, suscita immagini che altro non sono che il ricordo del vissuto personale. Questi sogni, espressione di sette affezioni (timore, speranza, gioia, tristezza, ira, odio e amore), ci proiettano nella sfera psicologica, portando alla luce tutte quelle esperienze che ci hanno turbato o che ancora ci turbano. In essi non troviamo indicazioni sul futuro, ma la chiave per comprendere di volta in volta gli eventi perturbatori e dunque concorrono a completare il quadro della nostra complessione psico-fisica. Le immagini oniriche di questo genere di sogno appartengono talvolta agli idoli, ovvero sono copie più o meno fedeli delle immagini/affezioni percepite nello stato di veglia che vanno a “specchiarsi” nell’anima portando alla luce significati sfuggiti alla conoscenza sensibile (ricordi, desideri, emozioni). In questo caso il sogno si presenta come una risposta introspettiva o compensatoria a un desiderio o a una passione che non trova soddisfazione nello stato di veglia e in quanto tale parla direttamente al sognatore, l’unico in grado di decifrare i sostrati simbolici delle presenze oniriche che popolano i suoi sogni. Ben più complessa è invece la natura dei sogni del quarto genere, suscitati da cause incorporee nuove, ovvero da agenti di ordine superiore, celeste (angeli e demoni, ma anche Dio stesso) che durante il sonno entrano nella nostra mente per rivelarci il futuro, per ammonirci, per guidarci. È qui che il discorso di Cardano si fa più complesso, allontanandosi pericolosamente da Sinesio e mostrando chiaramente i fini ultimi di questo trattato: da un lato dimostrare che il sogno predittivo ha basi naturali e non sovrannaturali e che dunque è un perfetto esempio della necessità da parte delle potenze celesti (anche Dio) di agire secondo le leggi causali che reggono la natura; dall’altro legittimare, in base a quelle stesse leggi causali di natura, la possibilità tutta umana di indurre sogni che ci parlino del futuro, ovvero gettare le basi per una “divinazione naturale” operativa, tale cioè da consentire di riprodurre le cause e gli effetti dell’azione celeste. Circa il primo punto, Cardano dichiara inizialmente che i sogni:
“Che provengono da una causa superiore sono […] provocati da un’alterazione di moto dovuta all’intervento di corpi celesti e questa alterazione è disposta in modo tale che essa, secondo ordine, muove nell’anima le specie adatte all’effetto che deve essere creato, producendo così una specie simile a quell’effetto”.
E poco più avanti specifica:
“Causa del moto degli spiriti sarà comunque qualcosa di fisico, poiché i corpi sono […] deboli, e perciò possono essere mossi solo da qualità fisiche, e non direttamente da influssi celesti […] questi influssi sono incorporei, ma non possono penetrare in noi senza la mediazione delle qualità corporee”.
Ciò significa che alla base di ogni genere di sogno c’è una causa “meccanica”, che può essere naturale e “necessaria” – come accade nei primi tre generi – o celeste, sicché l’esperienza del sognare risulta essere sempre, al di là della natura delle cause, la conseguenza di un moto moderato degli spiriti che dà forma alle diverse immagini che si riflettono nell’anima del sognatore. È questo il meccanismo fisiologico del sognare, comune a tutti i quattro generi; un meccanismo che, proprio in quanto fondato sulle leggi di natura, può essere indotto o riprodotto, a condizione che si conoscano sia le differenti condizioni ambientali e psico-fisiche che accompagnano la comparsa dei sogni, sia i segni che ci permettono di distinguere i sogni che ci parlano del futuro (gli idoli veri e propri o le visioni oniriche) da quelli che, pur se veritieri, forniscono indicazioni sulla salute o sulle affezioni che ci hanno tormentato o che ancora ci turbano.
Vediamo per prima cosa come si riconoscono i sogni veritieri. In apertura al capitolo V del Libro I Cardano afferma che, se inizialmente è dai sensi che proviene la distinzione tra i sogni, è poi la ragione che sistematizza questa conoscenza in base a tre categorie di segni: specifici, comuni e congetturali. I segni specifici sono quelli che riguardano la sensazione che si prova sognando, ovvero una “impressione forte, chiara e distinta per cui ci sembra di vedere e udire davvero”, laddove nello stato di veglia “il segno è lo stupore che afferra l’anima”. I segni comuni riguardano invece “la natura delle persone, l’età, le azioni, i costumi, l’abitudine, il clima, la stagione, la struttura del sogno, la causa e l’ora”. In sintesi, possiamo affermare che i sogni veritieri sono una manifestazione poco frequente che solo persone particolarmente meritevoli, ovvero oneste e pure, che vivono una condizione di tranquillità d’animo, lontane dagli eccessi dei piaceri della vita, possono sperimentare. Di solito si tratta di vecchi o di persone mature (i sogni dei fanciulli e dei giovani sono incostanti, trattano di cose irrilevanti e quindi sono di norma falsi) che hanno nell’oroscopo natale:
“Giove e ancor più Venere come pianeta dominante, mentre si trova nella nona casa (ovvero la “casa del lontano”), quando la Luna sarà vicina a Mercurio, in Ariete, nella Bilancia o nel Leone, allontanandosi dal Sole, ed essa sarà signora della casa significante lavoro”.
L’età, i costumi e l’oroscopo natale non sono però di per sé sufficienti a garantire la veridicità di un sogno; ulteriori elementi devono essere presenti, ovvero la stagione più idonea (l’estate o l’inverno, in quanto stabili), il clima sereno (il vento suscita sogni vani), l’ora propizia (dal sorgere del sole all’ora terza, mentre vani sono i sogni che si hanno al meriggio e al tramonto), la struttura del sogno (breve e ordinato, collegato ad altri sogni ma distinto da essi). Infine i segni congetturali si hanno quando il sogno si presenta a chi è preoccupato per un pericolo incombente, ovvero quando coincide con il dubbio di chi sogna e con le questioni affrontate. Questo prova che il sogno indica un’attività e non un’affezione e dunque non appartiene al terzo genere, ma al quarto. Date queste conoscenze, prosegue Cardano, è possibile operare per via naturale in modo da avere sogni veritieri al pari di quelli inviati dagli agenti celesti. Basta eliminare gli ostacoli e tutte le fonti di turbamento, “il cibo e le bevande, l’incontinenza e il disordine erotico, i tormenti, le alterazioni dell’animo, i fastidi e specialmente il vino”. Si può fare ricorso anche ai poteri naturali delle gemme e delle piante; così tra le gemme “il diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, l’ametista e il Hiacynths, che non ostacolano i sogni, ma anzi ne respingono l’aspetto vano e portano tranquillità d’animo”, l’Eumetris, una pietra simile al silicio che, secondo Plinio, posta sul capo genera sogni veri e il Nicolus, una pietra opaca bicolore, cerulea e nera (di essa parla Cardano nel suo Liber unus de gemmis), mentre fra le piante è consigliato l’elleboro, il cui potere è quello di contrastare i vapori della bile nera (a differenza delle piante delle streghe – morella e giusquiamo per prime – che provocano sogni falsi). La sfida è lanciata e anche molto chiaramente per chi voglia coglierla, al di là del leggero velo di contraddizione:
“Noi […] che abbiamo insegnato come tutti i sogni, o per lo meno la maggior parte, posseggano una causa naturale, non riteniamo assurdo procurarsi i sogni, se ne abbiamo bisogno ed essi vengono spontaneamente”.
Ed è il sogno della magia naturale rinascimentale: impossessarsi del linguaggio in cui è scritto il libro della natura e utilizzarlo per catturare e manipolare i flussi di simpatie che regolano il macrocosmo e il microcosmo, ma anche plasmare un uomo nuovo, padrone del proprio destino e signore della natura. Si completa così il discorso del mago Cardano sull’uomo: dopo l’astrologia, la fisiognomica, la teoria umorale, una quarta arte perfeziona la conoscenza sulla natura dell’uomo, quella appunto dell’interpretazione dei sogni. Dopo aver letto nel libro delle stelle e dei pianeti le simpatie e antipatie che legano l’uomo al cosmo, dopo aver individuato nel volto i legami fra mondo
animale e mondo umano e aver indagato le relazioni fra elementi naturali e umori, Cardano scende nelle profondità dell’essere per ritrovare nel labirinto del linguaggio onirico il filo di Arianna che permetta di infrangere le barriere fra umano e divino. Sogna Cardano, circondato dagli strumenti delle sue arti manipolatorie, e dietro di lui, nel chiaroscuro dell’alba, si stagliano due profili: quello tagliente e indagatore del Borromeo e quello scarmigliato di una vecchia dal naso adunco, la strega, il teologo e il mago-scienziato. Da lì a otto anni i destini della strega e del mago si incroceranno sotto lo sguardo severo dell’Inquisitore.
Ida Livigni
Divinazione e tarocchi: una storia pop Questo scritto ha lo scopo di mostrare l’origine della divinazione e quanto questa sia inserita nel tessuto del nostro quotidiano. Considerando in particolare le carte dei tarocchi e nello specifico gli Arcani Maggiori, ho voluto mostrarne la loro versatilità e i possibili significati, che sono molteplici. Una storia “pop”, perché popolare sono ora come allora i mazzi di carte, anche se usati con diverse funzioni nelle varie epoche. Molto è il materiale scritto, molte sono le interpretazioni che le singole persone possono dare a questi, così come molti sono gli artisti che hanno messo a disposizione la loro arte per disegnare le lame, dall’antichità fino ai giorni nostri. Da oggetto in passato perseguitato a strumento visibile e affascinante di uso quotidiano, a oggetto da collezione e d’arte. Così mettiamo in luce aspetti diversi: il significato intrinseco, psicologico e archetipico della carta e uno estetico, quello della sua raffigurazione. Sta a noi scegliere se restare affascinati dai colori della lama e dai suoi disegni o cercarne significati, più o meno profondi. Chi non crede nel potere degli Arcani o ha paura che una stesa di carte possa influenzare le proprie decisioni, potrà sempre tenere presente un vecchio detto popolare: “Le carte sono di cartone”. Anche se queste parlano, siamo liberi di non udirle. L’ignoto: unica costante nel quadro delle nostre esistenze. Vivere significa ogni giorno prendere decisioni e quindi fare previsioni, cioè predire, mantenendo uno sguardo nel presente e uno nel futuro. Predire è una caratteristica tipica dell’uomo, dimensione fondamentale nella sua esistenza. Cercare di conoscere il futuro fa presupporre che questo sia conoscibile e quindi, così, già determinato e non modificabile. A che cosa servirebbe conoscere qualcosa di già noto? Inutile tormentarsi e dannarsi per qualcosa di notorio. Preannunciare il futuro ha senso solo se questo non è determinato e quindi imprevedibile. In questo caso la previsione è una attività che assume carattere magico, con lo scopo di produrre il futuro da noi desiderato. Se gli uomini si sono ostinati a perseguire questo scopo è perché il futuro riveste molteplici funzioni, consce e inconsce, legate alla condizione umana. Lo scopo è quello di eliminare le angosce rispetto
all’avvenire, riempiendolo di punti di riferimento. Anche ai giorni nostri, in cui il tempo presente e futuro sono pianificati all’inverosimile, si sente la necessità di predire gli eventi prima che si producano. In questo caso la previsione porta con sé un potere magico di autorealizzazione, fenomeno conosciuto sul piano psicologico: convincersi di una vittoria è il mezzo migliore per ottenerla. Predire, quindi, ha anche il significato di agire: significa fornire i mezzi per arginare eventuali eventi a noi sfavorevoli. Il ruolo di astrologo, cartomante, veggente è sostanzialmente quello di psicologo, psicoanalista, se non confessore. Tramite questo tipo di contatto umano, questi medici dell’anima spingono i credenti, più interessati al lato salvifico che magico della profezia, a esaminare la propria condotta, a riflettere. Allora, in un certo modo, predire significa anche guarire. La predizione, mai neutra né passiva, corrisponde sempre a un desiderio, una intenzione, una paura. In questo senso è rivelatrice della mentalità, della cultura di una civiltà e società. Ripercorrere la storia della predizione è ripercorrere la storia della civiltà. L’uomo si è da sempre dedicato alla predizione del futuro: l’uomo preistorico, il primo indovino, disegnando sulle pareti di caverne, compiva con lo stesso disegno un atto magico volto a garantire il successo delle sue gesta. Il dominio del tempo rimane, ora come allora, un’illusione perpetua. “Poiché la tua richiesta è mossa dal desiderio delle cose oneste, diciamoti che Palamede nello assedio di Troia ci trovò”. Così nel testo dell’Aretino le stesse carte, parlanti, spiegano le loro origini a un interlocutore padovano.
“Ai giorni nostri sussiste un’opera degli antichi Egizi sfuggita alle fiamme che hanno distrutto le loro biblioteche, un’opera che contiene la più pura dottrina degli Egizi. Libro tanto prezioso, Libro tanto straordinario è molto diffuso in gran parte dell’Europa, da secoli va per le mani di tutti e nessuno ha mai supposto che questo libro è egizio e il risultato di tanta squisita sapienza viene riguardato come un mazzo di strane figure. Esso è talmente comune che nessun Filosofo lo ha ritenuto degno di essere studiato. Questo libro è composto di 77 o 78 fogli, divisi in cinque classi, ognuna delle quali tratta un argomento specifico. Questo libro è il gioco dei tarocchi”.
Scrivendo così, nel saggio Il gioco del tarocco, George de Gébelin nel 1783 creava uno dei falsi storici più famosi. La leggenda che questi siano parte del perduto libro di Toth, il dio egizio della sapienza occulta, nasce dal fatto che de Gébelin riconobbe nelle figure dei tarocchi temi della mitologia egizia. A distanza di due secoli, alla luce della dottrina degli archetipi, sappiamo che l’immaginario umano è cosparso di figure universali e che le civiltà sono attraversate da strutture psichiche immateriali più che da oggetti concreti. Gli archetipi e non i movimenti di popoli creano reti di connessione nella psiche collettiva. De Gébelin vide nei tarocchi una via per cui la psiche si rende manifesta attraverso figure arcane, pronta e disposta a rivelarsi, desiderosa di una mente fertile che raccolga la sua manifestazione. Possiamo così pensare ai tarocchi non solo come gioco di carte, strumento di magia o divinazione, ma come un compendio di immagini simboliche. Accanto alla lettura divinatoria delle carte dei tarocchi è possibile una lettura psicologica e analitica, che li considera come archetipi della personalità e del suo processo di individuazione. È considerabile che le carte da gioco nascano verso l’VIII secolo d.C. in Cina, dove furono inventate anche la carta e la stampa. Alla fine del Trecento, in Europa, si hanno numerosi riferimenti a queste. In Italia si annota nella Cronaca di Viterbo del 1379 il “gioco delle carte che in saracino parlare si chiama nayb”: naipes è a tutt’oggi il nome spagnolo per le carte da gioco e naibi fu usato come sinonimo di tarocchi. Verso il 1440 alla corte di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, si hanno numerose testimonianze di un particolare mazzo di carte “da zugare” chiamato con il nome di trionfi, giunti a noi come i Tarocchi dei Visconti. Il primo mazzo completo che ci è pervenuto è veneto, datato 1461, detto dei Sola-Busca, dai nomi dei loro possessori. Il mazzo più conosciuto è il Tarocco di Marsiglia, fra i più antichi si ricordano quelli di Carlo VI che, per alcuni autori, erano i custodi del segreto del Graal secondo l’eresia albigese. Scrive lo storico Andrea Vitali:
“I tarocchi sono un gioco italiano formato da 56 carte numerali dette a semi italiani, ma di origine araba (coppe, denari, spade e bastoni), arrivate in
Italia nel XIV secolo, e da 22 immagini chiamate Trionfi. Questo gioco rimanda ai Triumphi di Francesco Petrarca, in cui il poeta trecentesco descriveva le sei principali forze che governano gli uomini attribuendo loro un valore gerarchico”.
Si ritiene che il tarocco unisca due mazzi di carte che inizialmente erano slegati tra loro: le carte numerate, poi detti Arcani Minori da J.B. Pitois nel 1870, nate con scopo ludico e le immagini allegoriche, dette Arcani Maggiori, che univano al gioco uno scopo dottrinale di ordine morale. Troviamo infatti le virtù Giustizia, Forza e Temperanza accanto alle quali si affiancano le gerarchie a cui il giocatore era soggetto: quella sociale formata da Bagatto, Imperatrice, Imperatore, Papa e Matto; i corpi celesti Stella, Luna, Sole fino al compimento della perfezione divina descritta nel Mondo. Fino al Quattrocento il gioco fu chiamato Ludus Triumphorum e solo nel Cinquecento apparve la parola “tarocco”, coincidente con il definitivo abbandono del significato dottrinale a favore di quello ludico. Oggetto di divieti, ritenuto immorale e pericoloso in quanto gioco d’azzardo, giungono a noi notizie sul diverso impiego dei tarocchi nella seconda metà del Settecento, quando si spensero i roghi di streghe ed eretici. Allora apparì la cartomanzia, in contemporanea a un movimento occultista ed esoterico per cui le carte cominciarono a essere studiate con le moderne modalità della tarologia. Nell’immaginario collettivo il tarocco fa riferimento alla divinazione ma una profonda differenza separa cartomanzia da tarologia. La prima alimenta la sete di potere, la seconda l’insegnamento di trovare in sé il centro del comando. Il punto cruciale di questa svolta si trova nel riconoscimento della propria forza interiore quale luogo di partenza per una umanità consapevole. Fra i primi a dare corpo a questo postulato troviamo il già citato J.B. Pitois, convinto che gli Arcani descrivessero il destino di ognuno, a patto di esplorare le valenze dell’evoluzione psichica della persona, alla conquista della piena individualità. Il tarocco si esprime attraverso la maieutica, metodo di insegnamento proprio di Socrate, basato su dialogo e discussione attraverso cui l’allievo scopre gradualmente e autonomamente la verità, poiché ogni immagine è parte del percorso di
risveglio che conduce all’illuminazione. “Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei” era l’avvertimento che sovrastava il tempio dell’oracolo di Delfi, ripreso poi dai socratici per risvegliare le coscienze. Questo è il compito degli Arcani Maggiori, dove la parola “arcano” suggerisce un mistero da svelare attraverso il processo evolutivo operato dal Bagatto che si trasforma in Matto. Come ogni strumento iniziatico, il tarocco si relaziona con altri elementi conoscitivi, creando un flusso energetico fatto di informazioni, vibrazioni, colori, suoni e immagini. Fra i principali troviamo le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico che possono essere definite archetipi costruttori, i miti attraverso l’uso della mitopsicologia, le vibrazioni dei cristalli, i chakra, suoni ed essenze. Tra i primi a intuire che il tarocco è impregnato da un profondo simbolismo, chiave di accesso alla conoscenza, furono gli esoteristi francesi fra cui il già citato Antoine Court de Gébelin che, nel 1783 con il saggio Il gioco del tarocco, diffondeva l’idea che i tarocchi fossero legati al libro di Toth, contenente una antica dottrina egizia. Alphonse Luis Constant (1810-1875), noto con lo pseudonimo di Eliphas Lévi, per la prima volta collega i ventidue Arcani Maggiori alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico e ai ventidue sentieri dell’albero della vita, promuovendoli come strumenti di comprensione dell’intellegibile. Per oltre un secolo gli esoteristi proseguirono questo percorso: il più noto fu Gérard Anaclet Vincent Encausse, conosciuto con lo pseudonimo di Papus. Nel 1889 affermò che ci fu un momento nel passato in cui gli iniziati capirono che questo sapere poteva andare perduto per sempre insieme al declino della loro civiltà. Decisero così di salvarne l’essenza tramite tre vie: le società segrete sorte da Alessandria in poi, i culti che erano la traduzione simbolica degli alti misteri rivolti al popolo, il Libro della conoscenza, dato direttamente al popolo che diventava così depositario inconsapevole della scienza. Il vantaggio di affidare al popolo il libro fu che, non riuscendo questo a interpretarlo, non avrebbe cercato di modificarlo secondo la propria dottrina o metodi, come avvenne nei primi due casi. Il popolo degli zingari fu il depositario del libro e lo mantenne intatto per secoli, trovando in questo svago e fonte di sostentamento. Diverso è il significato del libro per chi è pronto a comprenderne l’essenza, il profondo insegnamento. Questo libro è il tarocco, la Thorà, la Rota ed è la base di una informazione sintetica che unisce tutti i popoli. Gli alfabeti arcaici, così come il tarocco,
erano strumenti iniziatici e per questo l’alfabeto ebraico, i cui maestri sono i cabalisti, mantiene importanza. In questo millennio, Mario Pincherle indicava l’alfabeto ebraico, e ancor prima il suo predecessore aramaico, come strumenti iniziatici archetipici.
“Quando saprete scoprire i vostri 22 Archetipi, i 22 Segni Viventi che non muoiono e non nascono, non si deteriorano e non spariscono, né si manifestano, ma semplicemente ed eternamente sono, i segni che un giorno erano in voi e che in voi ritorneranno, allora sì che sarete abbagliati e stupefatti”.
Ritroviamo gli archetipi con Carl Gustav Jung (1875-1961), padre dell’inconscio collettivo. L’inconscio collettivo si differenzia dall’inconscio personale perché non deve la sua esistenza a memorie individuali; è già insito nella mente di ciascuno, chiunque noi siamo, ovunque viviamo e nel tempo in cui viviamo. Questo inconscio comunica tramite immagini, sorta di rappresentazione collettiva, da cui discendono anche fiabe e miti. Gli archetipi sono stati definiti da Jung “modelli di comportamento istintuale” e due sono gli aspetti principali del lavoro con essi. Il primo è la creazione di una comunicazione consapevole tra conscio e inconscio allo scopo di dare un senso al nostro cammino, che Jung definisce “individuazione”, della quale il mandala è il simbolo. Bisogna andare incontro al sé: la prima tappa è il contatto con la propria ombra, una porta stretta che consente la discesa verso la sorgente. Trovare il senso del percorso permette di migliorare i nostri passi; la prima trasformazione è passare dall’essere determinati all’essere determinanti. La seconda tappa consiste nell’uso sapiente dei ventidue archetipi, che consentirà all’iniziato di diventare creatore, colui che è capace di plasmare la materia. Per realizzare i percorsi descritti, occorre comprendere chi siamo nella materia, la nostra struttura visibile: questo è possibile attraverso l’uso degli Arcani Maggiori, simboli delle ventidue porte che occorre aprire per accedere a stati di coscienza superiore. Sono innumerevoli le modalità di utilizzo, dalla divinazione alla ricerca interiore: quest’ultima ha lo scopo di condurre fuori da schemi comportamentali determinati, all’incontro col sé e infine alla dimensione di
iniziato, rappresentato dalla carta del Matto, il libero artefice del proprio destino. Prendiamo ora in considerazione i ventidue Arcani Maggiori dei Tarocchi di Marsiglia. Un modo per interpretarli è quello di seguire il percorso del Bagatto, lama numero uno, che rende ogni Arcano il proseguo del precedente. Ogni Arcano contiene in sé ciò che contenevano quelli che lo hanno preceduto; i numeri romani che segnano le carte indicano un percorso additivo, di crescita, una somma di esperienze. Motivo per cui, ad esempio, l’Arcano dell’Eremita è segnato dal numero romano VIIII e non IX. Il tarologo è colui che costruisce un percorso con questi strumenti, elaborandolo con le proprie esperienze, sentimenti, conoscenze e interessi. Il libro dei tarocchi è un’opera alchemica che, attraverso tre iniziazioni, consente a colui che intraprende il percorso di trasmutare, trasformando il proprio piombo interiore in oro. La prima iniziazione, asse della formazione, considera le carte dal Bagatto (numero I) al Carro (numero VII) e corrisponde a chi siamo nel corpo. La seconda iniziazione, asse della trasformazione, dalla carta della Giustizia (numero VIII) alla carta della Temperanza (numero XIIII), è l’incontro con l’intelligibilità dell’anima come entità fisica, supporto energetico non impregnato dalla personalità. È il divino in noi; consente di riconoscere la nostra identità a livello energetico. La terza iniziazione, asse della trasmutazione alchemica, dalla carta del Diavolo (numero XV) alla carta del Mondo (numero XXI), sul piano psicologico conduce l’iniziato all’incontro con l’inconscio collettivo; conoscere se stessi permette di conoscere il Tutto, poiché la realtà è unica e ogni parte di essa contiene la radice di ciò che l’ha creata. Rimane fuori da questo percorso l’Arcano del Matto: l’unità, colui che ha compiuto il percorso e che è libero artefice del proprio cammino. La mancanza del numero nella carta rivela la libertà posseduta dal Matto: egli è contemporaneamente inizio e fine del percorso, unità che si divide per vivere esperienze, unità che si ricompone al termine di queste. All’ingresso di ogni iniziazione compare nelle carte una spada, che simboleggia la coscienza portata alla luce; impugnare le spade nei tarocchi significa quindi prendere coscienza, dunque tutte le iniziazioni invitano a farlo⁵².
Margherita Calzoni 52. Per approfondimenti consultare: S. Secchi, A. Atti, Tarocchi e archetipi, vol. I, Hermatena, Bologna 2012.
Immaginario “In noi c’è infinita varietà di semi: semi del samsara, semi del nirvana, dell’illusione, dell’illuminazione, semi di sofferenza e di felicità, semi di percezioni, di nomi, di parole. […] Compreso che le afflizioni non sono che illuminazione, possiamo cavalcare le onde di nascita e morte, in pace, solcare l’oceano dell’illusione sulla barca della compassione, sorridendo senza paura alcuna”⁵³.
Immaginare (o rappresentare dentro di sé), ossia configurare (evocare o produrre) immagini nella propria mente indipendentemente dalla presenza dell’oggetto a cui si riferiscono (senza la partecipazione effettiva della sensazione). Questa è l’azione la cui definizione ha diviso i filosofi fino dall’età di Platone e di Aristotele (oppure ha diviso le nostre interpretazioni delle loro parole). Il primo pensa l’immaginare come un’imitazione della copia della realtà soprasensibile (il verbo è mimèomai e il sostantivo mimòs o l’imitatore) o, per meglio dire, noi sappiamo che le cose sensibili sono una “immagine” dell’eterno paradigma dell’Idea e immaginare qualcosa che non c’è più, ma che c’è stata tra le sensazioni, è una riproduzione di un’imitazione cioè un qualcosa “tre volte lontana dalla verità”; il secondo (De Anima, III, 3), che sottopose l’immaginare a indagine precisa, trova che le immagini non sono il prodotto dei sensi perché esistono quando manca la sensazione (sogno, ricordo, visione…) e neppure delle opinioni (che implicano una credenza in qualcosa), quindi l’immaginare è un movimento (kìnesis) generato dalla sensazione, ma dissimile da questa in quanto avviene in tempi diversi, ossia l’immaginazione è una fantasia o segno delle cose che può conservarsi indipendentemente dalle medesime cose, perché le immagini non hanno materia (De Anima, III, 8, 432 a9).
“Le immagini sono originate dalle cose corporee e per mezzo delle sensazioni: le quali, una volta ricevute, si possono con grande facilità ricordare, distinguere, moltiplicare, ridurre, estendere, ordinare, sconvolgere, ricomporre in qualunque modo piaccia al pensiero”⁵⁴.
L’eikòn o icona, immagine che percepisco, e l’èidos o forma ideale sono concetti molto differenti, e la differenza fra le parole salta agli occhi appena si vedono i verbi da cui le espressioni hanno origine: l’icona deriva da eoika o “sono simile”, mentre l’idea proviene da orào (che significa “vedere con la mente”). Nella stessa lingua greca èidos (id che rimanda al sanscrito vedah e al latino video) inizialmente vuol dire “aspetto esteriore”, ma ben presto (con i filosofi) diventa anche “idea o forma ideale”. Il termine immagine, che in latino fa imago e in greco fa eikòn (da cui icona e icastico), sembrerebbe voler dire la forma con la quale una cosa appare a chi la guarda (come copia del vero o come modo di presentarsi della realtà). Ma qualunque dizionario riporta anche “forma che assumono nella mente le cose pensate, ricordate o sognate” e cioè le idee o le visioni (ma anche le orgìa o ergòn, i misteri, gli arcana sacra, i teletè che vengono eseguiti ossia ergòn in modo da essere chiusi o serrati, essendo il mistero l’indicibile). E dunque il termine deriva da orào/èidos, sia per le idee, che per le visioni e per i sogni⁵⁵, ma deriva anche da eikòn per una cosa che assomiglia a ciò che ci appare una icona. È chiaro che mi posso immaginare la chimera, l’ippogrifo o l’unicorno⁵⁶ (il cavallo alato o cornuto e il leone-capra con coda serpentina che non ho mai visto e lo so perfettamente!); la fantasia mi mette di fronte migliaia di immagini che la sensazione non riconosce come ricevute globalmente ma singolarmente (ali, corno, cavallo, leone, serpe, capra con la barba…), e quindi le ricompone, le ricostituisce e le riunisce in innumerevoli immagini. Ora l’immagine da un lato è il prodotto dell’immaginazione, dall’altro è la sensazione o percezione stessa vista dalla parte di chi la riceve ossia la fantasia, impronta della cosa sull’anima (o sulla mente per i moderni) mentre il fantasma è il pensiero immaginativo. Gli stoici la definivano come “ciò che viene impresso, formato e contraddistinto dall’oggetto esistente in
conformità della sua esistenza e che perciò è tale che non sarebbe se l’oggetto stesso non esistesse”⁵⁷. Tra imitazione e immaginazione c’è una grande differenza: l’immaginazione produce immagini proprie, ed è, quindi, una facoltà creativa presente negli uomini, mentre l’imitazione riproduce immagini già prodotte da qualcun altro e preesistenti a me. “L’arte è una magia – diceva Theodor W. Adorno – liberata dalla menzogna dell’essere verità”, il che è molto meglio della insulsa frase “fra le varie cose che avrebbero inventato i moderni è l’immaginazione”. La mimesis secondo i moderni è tipicamente non immaginativa, perché ci si limita a copiare le cose; e qui vi è un doppio gravissimo errore:
a) Platone pensa che il poeta usi un irrazionale intuito da invasato, una specie di sorte divina che gli ri-vela la verità (a-letheia ossia “non nascondo”, “svelo”) a cui si è svelata come a un esaltato fuori di sé (la follia dell’estasi o l’avere dentro di sé un dio) e per poterne parlare la deve velare⁵⁸ (è chiaro che la conoscenza mistica, il cammino sapienziale basato sull’intuizione estatica, che tende alla comunicazione diretta con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale, c’è sempre stata e principalmente in Platone). b) Aristotele ritiene che quando i sensi non lavorano, la percezione non scompare, ma permane l’immaginazione sotto forma di fantasia creatrice.
In una citazione famosa, Robert Musil afferma che “la matematica è una meravigliosa apparecchiatura spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili”. E, infatti, anche Kant sosteneva che, mentre la filosofia è legata alla presenza dell’oggetto sensibile o al dato di fatto, la matematica è una scienza sovrana perché, considerato che è un’attività squisitamente immaginativa, fa quello che desidera. E ha ragione! Per il pitagorismo il numero (arithmòs) è l’archè, il principio, la natura ultima della realtà, come se “il mondo intero fosse armonia e numero”. Il
numero è qualche cosa di partecipe e presente in ogni luogo, a questo dobbiamo infatti far ricorso se vogliamo descrivere in maniera oggettiva una qualsiasi realtà. Un numero razionale è un numero ottenibile come rapporto tra due numeri interi, il secondo dei quali diverso da 0 e ogni numero razionale quindi può essere espresso mediante una frazione. Ma, quasi subito, il pitagorico Ippaso di Metaponto scoprì i numeri “irrazionali” mentre tentava di rappresentare la radice quadrata di 2 come frazione (irrazionale in greco è alogos, che significa “senza rapporto” o “incommensurabile”, ma potrebbe significare anche “ineffabile” o “indicibile”…). Ma come la matematica “appena nata” ha a che fare con dei numeri “senza ragione”? Il problema non sussiste: basta dire che i numeri irrazionali sono quei numeri reali che non sono razionali! No, non vi vogliamo prendere in giro! Chiediamoci se esiste un numero reale, il cui quadrato è 2. Sì, è la radice quadrata di 2 (la lunghezza della diagonale di un quadrato di lato 1) e si trova fra 1 e 1,5 su una retta divisa in due semirette partenti dallo 0. I numeri razionali sono rapporti (divisioni) fra numeri interi m/n dove m e n sono due numeri interi qualunque eccetto che per il denominatore n che deve essere sempre diverso da zero. I numeri decimali che si ottengono possono avere un numero finito di decimali (dopo la virgola, ad esempio 1/2 ossia 0,5) oppure un numero infinito di decimali ma periodici (1/3 ossia 0, 333…). Ma esiste la possibilità di avere numeri decimali con infiniti decimali non periodici. Si chiamano numeri irrazionali (ad esempio, π = 3, 14159265…). La “rivoluzione degli irrazionali” iniziata nel V secolo trovò la sua codificazione definitiva nel libro X degli Elementi di Euclide e quindi gli irrazionali entrarono di diritto nella matematica. Ma è possibile estrarre la radice quadrata di un numero negativo? Certamente, purché si sia disposti a estendere ancora il concetto di numero, introducendo quelli che sono chiamati numeri immaginari (in verità, non meno reali dei “numeri reali”). Prendiamo ora il numero √–25. Non posso fare la radice perché non esiste nessun numero reale che elevato al quadrato mi dia –25. Ora distacco il segno meno √–1 · √25 (prodotto fra i radicali) e la parte √–1 mi limito a chiamarla i (iniziale di immaginario), quindi √25 la risolvo normalmente e vale +5 o –5 (come sappiamo √–1 è la i). Quindi posso scrivere √(–25) = 5i (un numero seguito dalla i si dice numero immaginario). Il numero complesso è quello formato da una parte reale e una immaginaria. Per
definizione, l’unità immaginaria i è una soluzione dell’equazione x² + 1 = 0. Sono i numeri che non dovrebbero esistere, ma esistono! Come il sogno! Per cui li si chiama immaginari per separarli dai reali. Georg Cantor, padre della moderna teoria degli insiemi, diceva nell’ultimo ventennio del XIX secolo: “L’essenza della matematica è nella sua libertà”. Il viaggio iniziatico che conduce l’uomo alla presenza dell’ineffabile mistero divino ha come proprie condizioni essenziali l’esser puri e liberi dai vincoli corporei: “Senza essere sigillati nella tomba che appunto portiamo in giro e chiamiamo corpo, avvinti strettamente a lui come l’ostrica al suo guscio”⁵⁹, e l’esser genuinamente folli:
“Onde appunto la follia, rivolgendosi alle purificazioni e alle iniziazioni, liberò dal pericolo per il tempo presente e per quello futuro chi di essa partecipava, e procurò a chi era folle in modo autentico, ed era posseduto dal dio, la liberazione dai mali presenti”⁶⁰.
L’estasi – nel senso letterale del termine – è “l’uscir fuori da sé”, uno stato di autentica alienazione dove il posseduto dal dio ha la visione di quello che gli altri non vedono; l’estasi è, in ultima analisi, il modo per “liberare il sovrappiù di conoscenza”⁶¹ dall’azione inibitrice dei sensi. È qui che la coscienza immaginaria fa parte integrante del matematico come del poeta, dell’uomo religioso come dell’artista, del musicista come del fisico. E allora si sente che: “Morte è quanto vediamo da svegli; sogno (visionario), quanto vediamo dormendo” (Eraclito 22B21 DK).
Paolo Aldo Rossi 53. Thich Nhat Hanh, La via della trasformazione, Mondadori, Milano 2004.
54. Aristotele, De Anima, III, 8, 432 a9. 55. Nella letteratura arcaica il sogno è solitamente considerato come una visita che un’immagine, indipendente dal sognatore, fa a un dormiente per scopi diversi. Per la spiegazione razionale del come si produca l’attività onirica valga per tutti Pindaro, fr. 16b: “Viva rimane ancora un’immagine di vita che viene dagli dei. Dorme mentre le membra agiscono, ma quando l’uomo dorme spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura”; e Senofonte: “Nel sonno l’anima mostra meglio la sua natura divina, nel sonno gode di una certa intuizione circa l’avvenire, perché nel sonno essa gode della massima libertà” (Ciropedia, 8, 7, 21). 56. “È questo l’animale che non c’è. Non lo sapevano, eppure l’hanno amato – l’andatura, la forma, la criniera, fino alla mite luce dello sguardo. Certo, non era. Ma amandolo, divenne un animale puro. Gli fu lasciato spazio. E in quello spazio chiaro conquistato senza bisogno d’essere, levò leggero il capo. Non lo nutrivano di biada, ma sempre e solo dell’esser possibile
e forza tale gli diede il possibile che crebbe un corno sulla nuda fronte, e fu unicorno. Si avvicinò, bianco, a una vergine e fu nello specchio d’argento, e in lei” (R.M. Rilke, Die Sonette an Orpheus, parte II, sonetto IV). 57. Diogene Laertio, Vitae et placita philosophorum, VII, 50. 58. La complessa articolazione semantica della verità come disvelamento e rivelazione si istalla nella presa di coscienza che il mettere a nudo tutta la verità offusca la mente, così come quando gli occhi sono colpiti da una luce abbacinante, per cui è necessario schermare la verità, ri-velandola, ossia nascondendola di nuovo onde proteggerla. 59. Ivi, 244e e 245b. Si noti che Platone mette in chiaro il legame fra l’esser folli in modo autentico e l’esser posseduti dal dio. 60. G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977. 61. Platone, Fedro, 250c.
Il Libro Sacro sull’ara La presenza del Libro Sacro all’interno dei templi massonici ha sempre destato un sentimento di perplessità anche in considerazione della ferma laicità propugnata dalla Libera Muratoria. Nella quasi totalità dei templi, infatti, il Libro Sacro è posto sull’ara, tipicamente di forma triangolare, adagiato nella parte inferiore di essa (guardandola dall’alto, in corrispondenza della base del triangolo). È opportuno evidenziare come l’ara, con le caratteristiche ora succintamente descritte, vada a riflettere il delta triangolare posto all’oriente di un tempio massonico. Il delta, tuttavia, presenta sulla sua base inferiore una scritta in ebraico, Yahweh, o in alternativa un occhio. Qual è, quindi, il legame tra i due triangoli (l’ara e il delta) e tra il Libro Sacro e la scritta Yahweh o l’occhio? Per rispondere a questa domanda bisogna immaginare una piramide, costituente anche essa un particolare delta. La base più larga della piramide può simbolicamente rappresentare tutta l’umanità in lotta perenne con le asperità del quotidiano, mentre solo una parte di essa comprende l’inutilità di questa lotta e, in ordine o, meglio ancora, in armonia, si indirizza verso il punto, verso l’Uno, adempiendo al suo scopo: “il ritorno a casa” come lo definisce Hermann Hesse. A questa immagine si associa in maniera consequenziale la frase “ordo ab chao”. Verso l’armonia, il punto, partendo dal caos. Ma qual è il mondo del caos? È il mondo della materia, della natura, del bianco e del nero, del bene e del male. È il mondo dove l’uomo crede di detenere la capacità e il potere di distinguere il bene e il male. È appunto su questa convinzione presuntuosa di poter distinguere il bene dal male che è sorto il sistema delle religioni: va ricordato che tale parola deriva da religo che sta a indicare “relegare”, “richiudere al suo interno”, definendo in modo unilaterale e obbligatorio il metodo di pregare, di pensare. Religo sta anche a indicare il termine “trattenere”, fermare in basso, non consentire di capire
e ricercare l’armonia, trattenere l’umanità impedendone l’elevazione e il miglioramento. Nella Bibbia, in particolare nella Genesi, il suo primo libro, si parla del paradiso terrestre e al suo centro è posto l’albero della vita eterna; nei pressi di esso è posto un altro albero, quello della “conoscenza del bene e del male”. Solo nell’ipotesi di non cogliere i frutti di quest’ultimo albero ad Adamo ed Eva viene concessa la vita eterna. Essi tuttavia coglieranno il frutto (credendo quindi di poter distinguere il bene e il male) e verranno cacciati dal paradiso. Alcune leggende, in particolare asiatiche, e che possono essere collegate temporalmente allo stesso periodo di stesura della Bibbia (a parere dello scrivente ne facevano anche parte ma successivamente ne furono espulse), riferiscono che i due presuntuosi, scacciati, portarono con sé un ramo dell’“albero della conoscenza”; giunti sulla terra lo piantarono e da esso nacque un nuovo albero, sotto la cui ombra furono concepiti ed ebbero vita Caino e Abele e, sempre in questo luogo, Caino uccise suo fratello. Ritengo che questa leggenda, questo mito, vada così interpretata. Con l’acquisizione da parte dell’uomo della presunzione di poter distinguere tra il bene e il male, comparve per esso la dimensione tempo con i concetti di nascita, vita e morte. Qual è il mondo dove fu esiliato l’essere umano? È il mondo del bene e del male, dell’esistenza del tempo, della lotta continua tra gli uomini, tra nazioni, tra schieramenti politici, tra religioni in quanto ciascuno ritiene di conoscere e detenere il bene. Molte volte nel delta, in particolare nella sua parte inferiore, viene scritta la parola Yahweh, il Dio della guerra ebraico, il Dio che sovrintende il mondo delle lotte e dei dissidi tra gli uomini. In alcuni delta la scritta in ebraico di Yahweh è sostituita da un occhio. Si vuole soltanto ricordare che quando Lucifero (che in taluni brani della Bibbia può essere assimilato a Yahweh, inteso quale Demiurgo⁶²) fu cacciato dal paradiso perse lo smeraldo a forma di occhio posto al centro della sua fronte. L’occhio quindi posto nella parte bassa del delta sta appunto a ricordare il potere del principe, Lucifero, sul mondo della materia, il mondo della lotta tra gli uomini, il mondo del bene e del male, il mondo del tempo. Quel delta si riflette sul pavimento a scacchi del tempio
massonico per il tramite dell’ara ove è posta la Bibbia, in corrispondenza della scritta Yahweh o dell’occhio. Lascio quindi a voi lettori la conclusione di cosa possa effettivamente rappresentare il Libro Sacro sull’ara. Chi di noi ha potuto visitare a Napoli la Cappella del Principe di San Severo, Raimondo di Sangro, ha potuto ammirare delle opere scultoree meravigliose. Una di esse, posta lungo il lato maggiore dell’ambiente principale e di fronte al Cristo Velato, è denominata Lo Zelo della Religione; questa è costituita da un uomo anziano che conduce in una mano una fiaccola accesa, rappresentante la Conoscenza, ed è accompagnato e aiutato nella sua opera da un fanciullo, la Ragione. L’uomo con un piede schiaccia un Libro Sacro, chiuso, e da questo fuoriescono delle serpi. Il significato di questa scultura è abbastanza chiaro: la ricerca della conoscenza solo per il tramite della ragione e del suo spirito trainante, il dubbio, abbandonando invece i perfidi insegnamenti, obblighi, imposti dal Libro Sacro. Per concludere, con il dare al Libro Sacro la sola valenza di libro simbolico e trasmettitore di messaggi allegorici, sgravandolo da quel macigno di sacralità, si farebbe un primo importante passo verso l’annullamento della dimensione temporale (nascita, vita e morte) per addivenire a quell’“eterno presente” adimensionale dell’Uno, del punto, di quell’altrove, così come lo interpreta il grande uomo di scienza Albert Einstein, così come lo definisce un altro famoso scienziato, Minkowski, relativista anche egli, e così come ce lo ricorda il regista Sorrentino nel recente film La grande bellezza. Consentitemi di citare una frase di Russell: “La conoscenza richiede coraggio: il coraggio di guardare l’inferno negli occhi”. Coloro che hanno capito o intuito, con la conoscenza effettuata esclusivamente con l’ausilio della ragione, hanno la forza di sfidare l’inferno guardandolo negli occhi ma per fare questo occorre grande coraggio. Siamo quindi arrivati alla stessa conclusione già raggiunta da Nietzsche: “Al di là del bene e del male”. Bisogna allora avere il coraggio di abbandonare la ricerca presuntuosa e ossessiva di uno schieramento “giusto” da contrapporre a uno “sbagliato”, cosa questa che ci costringe ad abbracciare un modo di essere, di pensare, in
qualsiasi campo (dal religioso al culturale, al sociale, e così via). È necessario quindi incominciare a porsi al di sopra del pavimento a scacchi, prendendo le distanze dal bianco e dal nero, ricordando che più in alto ci si pone per osservarlo, più lo stesso pavimento apparirà un unico ammasso di colore grigio. Per fare questo, tuttavia, così come detto da Russell, occorre avere grande coraggio, il coraggio di sfidare l’inferno.
Michele Angiuli 62. Vedi M. Angiuli, “Il dualismo e le equazioni differenziali di Laplace”.
C’era una volta il filo a piombo “C’erano una volta venticinque […] fratelli, tutti uguali. Tenevano il fucile in mano e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu” a emblema del lavoro sociale cui l’aplomb li richiamava. Nel racconto ottocentesco di Hans Christian Andersen, i soldatini, perfettamente ordinati e rigidamente disposti, “si assomigliavano in ogni particolare, solo l’ultimo – ovvero il nuovo arrivato – era un po’ diverso: aveva una gamba sola”⁶³.
Proprio a questo particolare fratello, zoppo, imperfetto e vacillante, ma teso a quell’amore sublime che assume forma di principessa turchina di carta splendente, sarà riservata, nella fiaba iniziatica, una “strana sorte”⁶⁴, inevitabile: quella di caduta libera, simbolicamente preannunciata dalla sua stessa materia di forgiatura, di fatto, plumbea. Aspramente criticato da Kierkegaard per la sua mancanza di capacità di visione del mondo – profano, val la pena di aggiungere – l’indigente scrittore danese, figlio di una vedova, si improvviserà autore di un genere di fiabe definite “piccanti”, in quanto non scritte per intrattenere un pubblico infantile, ma per celare misteriosi insegnamenti che, nel “tenace soldatino”⁶⁵, assumono la parodia di quella via iniziatica del piombo che, fin dai più remoti testi antichi, condanna l’uomo alla discesa oltre l’Acheronte. Presente in tutte le ere dei metalli, la storia del piombo procede, difatti, di pari passo con la storia della civiltà. Conosciuto già in Anatolia nel 6500 a.C.; usato dagli antichi Egizi; citato nel 1400 a.C. nel Libro dell’Esodo; a partire dal 500 a.C. si diffonde velocemente in Grecia, Mesopotamia e nell’Impero Romano, assumendo i più disparati impieghi grazie alla facile plasmabilità e al basso punto di fusione, che lo rendono un materiale incredibilmente tenero, malleabile, potenzialmente di colore bianco
azzurrognolo, che, però, se esposto all’aria – ovvero chiamato in vita – assume il tipico tono tenebroso, da cui il nome. Tuttavia, dal punto di vista applicativo, ciò che rende questo prezioso materiale costante in tutte le varie epoche storiche è il suo impiego tecnicoscientifico – pressoché invariato fin dall’antichità – in campo edilearchitettonico: come filo a piombo, regolo di base, strumento di rilievo diretto della dimensione normale che, nel suo essere pesante delatore di ogni minimo sbilanciamento strutturale, esige sempre un perfetto equilibrio statuario verticale, come ben dimostra il David, nel quale, se lo strumento viene posto al centro del capo della statua, il filo, passando per l’ombelico, scende direttamente sul piede di appoggio, ove Michelangelo Buonarroti stabilisce, con forza, l’intera struttura. Ed è proprio in quella miracolosa caduta perfettamente lineare del piombino, sempre rigorosamente ortogonale alla superficie equipotenziale del campo gravitazionale, che, incurante del baricentro terrestre, lo strumento di verifica si pone a squadra con la legge – nel caso scientifico – di gravitazione (G) universale. Questa qualità fa sì che negli antichi testi sacri l’utensile sia assunto come simbolo di rettitudine morale assoluta, mai individuale, tant’è che spesso viene posto in mano del divino, o del giudice profeta che ne fa le veci, per indicare all’uomo che la salvezza esige la tenace volontà di misurarsi con l’archipendolo del silenzio, il cui piombino indica vettorialmente la via del V.I.T.R.I.O.L.⁶⁶, una via di connessione verticale cielo-terra che, lungi dall’essere percorribile con rovinose arrampicate, come è simbolica immagine l’arrogante Torre di Babele, è agibile solo con la discesa infernale, poiché all’uomo non è mai dato di elevarsi al Sacro, se non per assunzione. Emblematico, a questo proposito, appare il testo scritto oltre cinquecento anni prima di Cristo, nell’undicesimo libro del Tre Asar della Tanàkh, ove viene riportata la profetica visione del “Signore [con] in mano un filo a piombo [che cala] in mezzo al popolo”⁶⁷ per misurarlo, affinché nessuno sia più risparmiato dalla corruzione o, forse, dalla correzione. Nessun uomo tra quelle genti poteva, infatti, mancare di rettitudine, poiché essi, secondo la profezia di Aggeo, avrebbero dovuto ergere le mura del nuovo tempio
sotto la guida di Zorbabele, a cui sarà affidato il più antico strumento edile a sorveglianza dei lavori. Solo una volta ultimate le mura dell’edificio in perfetta verticalità, a ricompensa dello zelo degli operai, la profezia annuncia che: “I sette occhi […] dell’Eterno che percorrono tutta la terra” potranno finalmente “rallegrarsi”⁶⁸ nella speranza – e non nell’avvento! – di una nuova era. Per la speranza, quindi, si cala il filo a piombo. Non per altro. E proprio a questa saggezza del Tanàkh, oltre mille anni dopo, farà da cassa di risonanza anche Il Mercante di Venezia, ove il candidato, posto innanzi all’enigmatica scelta fra tre scatole, delle quali le prime d’oro e d’argento, potrà scoprire il volto dell’amore proprio in quello scrigno di “vil piombo” con inciso, a monito, che colui che lo sceglierà “sarà obbligato a dare e arrischiare tutto quel che ha”⁶⁹ nell’auspicio che gioia venga. Ancora a rimarcare l’antico insegnamento che sempre e solo speranza, mai promesse, reca il piombo. Questa è, infatti, la via della fede, non cieca, ma razionalmente folle, poiché audace e autentico salto nel buio che, nell’azzardo cosciente e consapevole, conduce a nozze il mercante tratto da Ser Giovanni Fiorentino, non diversamente dal soldatino di Andersen che, rinunciando all’amor proprio, viene iniziato, nella fiaba, grazie alla profezia corvina di un troll fuligginoso che annuncia la condanna, come impiccato delle carte, a cadere rigorosamente a testa in giù. Un destino, quello del piombo, noto anche ai “signori della materia” dalla notte dei tempi sino ai giorni nostri. Assunto a simbolo di speranza nell’avvento dell’utopica epoca aurea, l’antico sogno alchimista di trasmutazione del metallo non appare insensato nemmeno agli occhi degli scienziati di oggi, consapevoli – almeno dalla catalogazione del chimico russo Dmitrij Ivanovič Mendelev in poi – che il cosiddetto “plumbum-82” si trova fisicamente a soli tre passi di distanza dall’oro, poiché, con tre protoni in meno, il lugubre metallo di transizione sarebbe effettivamente aureo. Elemento pesante, non grave, in quanto caratterizzato da quel peso vero, proprio e intrinseco della massa nucleare che, con la tracotanza propria
della forza nucleare forte, è capace di legare 82 protoni a 122 neutroni e più, per la sua alta densità, il piombo tende naturalmente a convergere verso il centro del pianeta, tant’è che si può trovare nella crosta terrestre quasi esclusivamente legato a elementi più leggeri (zinco, argento o rame) e, sovente, per essere estratto, richiede lo scavo in miniere che, per l’oscurità propria del materiale, assumono la forma di autentici pozzi iniziatici. Tutt’oggi si trovano ancora colossali cave carsiche, ove un ingresso titanico accoglie il recipiendario nel vestibolo arcato di petrosi e sdrucciolevoli macigni. Da questo varco, se il postulante è “saldo sulle gambe e coraggioso in cuore, [può] arrischia[rsi] di procedere oltre, [laddove] l’accesso è assai incomodo e pericoloso, dovendosi ascendere […] per un’angusta scala scavata dalla natura nel greppo, di qualità saponacea, senza alcuna sbarra che difenda il salto”⁷⁰ lungi dall’essere una promessa, il “buco del piombo” è una minaccia, ancora una volta analoga – e decisamente più incisiva! – ai noti moniti iniziatici. Questi antri sono miniere senz’oro, luoghi tetri con “pareti scoscese di un bigio ferruginoso, ove cessa ogni vegetazione e manca il più debole raggio di lume”⁷¹ poiché anche le fiaccole dell’audace che ardisce procedere, via via che le grotte si stringono, si spengono, avvertendo il viaggiatore che la morte è certa per chi osa oltrepassare il varco. È qui che, quindi, ancora oggi il postulante si ricovera per rogare l’atto testamentario⁷². Senza cielo e senza fiato, al buio e in silenziosa solitudine, il recipiendario si spoglia, così, del mondano – mondandosi, appunto – nell’acqua fetale che, nelle grotte, gocciola dalle pareti, formando rivoli convergenti in oscure fosse, analoghe alle fognature cittadine nelle quali sprofonda, rovesciato, il soldatino della fiaba danese… e, ovviamente, in questi abissi tetri, il giocattolo – parimenti al burattino di Lorenzini – non può che essere inghiottito da un pesce, divenuto perfetto “gabinetto di riflessione” nel panorama simbolico-letterario dal Libro di Giona in poi. Per il giovane Andersen, fermamente convinto che la perfezione è propria, non delle vicende che si vivono, ma solo di quelle che si raccontano poiché simboliche espressioni di vie evolutive universali, il personaggio della fiaba, nel suo essere intrinsecamente filo a piombo, incarna idealmente il
V.I.T.R.I.O.L. lungo tutto quel percorso romanzesco che, dalla folata d’aria iniziale, getta l’iniziato nell’acqua del pozzo fognario, per concludersi, infine, nel fuoco dell’ardente caminetto, purificandosi nel tentativo di spogliarsi di quei tre – ma simbolicamente infiniti – elementi di corruttibilità che impediscono la trasmutazione in oro. Il soldatino, racconta l’autore, “vide una luce abbagliante e sentì un gran calore, insopportabile. Non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell’amore”⁷³, ciò che è certo, è che il plumbeo suo colore era ormai sbiadito, quando “si sentì sciogliere”⁷⁴ nel cuore della platonica Anima Mundi, ovvero in quel crogiolo ove il piombo finalmente muore nella speranza di un mondo migliore… almeno per chi sa ancora leggere le fiabe.
Veronica Mesisca 63. H.C. Andersen, Il soldatino di piombo, . 64. Ibidem. 65. Ibidem. 66. Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem. 67. Am 7, 8 e Zc 4, 9-10. 68. Ibidem. 69. W. Shakespeare, Il Mercante di Venezia, . 70. P. Ferraio, Tre giorni di peregrinazione nel piano d’erba e nei paesi circonvicini, Giuseppe Crespi, Milano 1840. 71. Ibidem.
72. Ibidem, riferimento all’atto testamentario redatto nel 1506 dal nobile milite Guelfo Pallavicini nello scavo dall’Alpe Turati. 73. H.C. Andersen, Il soldatino di piombo, cit. 74. Ibidem.
Il riso sardonico nella tradizione antica: il sedano acquatico e i vecchi ultrasettantenni Sairo significa “digrigno i denti aprendo le labbra e contorcendo il viso”, dal sanscrito ksāra (“caustico” e “acre”) kack (“ridere” o “cacchinno” con tono di scherno), ma può anzitutto derivare da Sardon o sardonios ghelos (“riso”), ovvero come “sardoni(c)o” (sia σαρδάνιος sia σαρδώνιος) della Sardegna (come la famosa pietra preziosa sarda o sardonia) e forse la spina sardonica (tarda leggenda sarda in cui Ulisse viene ucciso dal figlio Telegono [sic!] con la spina sardonica a forma di spada). Il riso sardonico è quel ghigno alterato da una ruga particolare della bocca e da un tono derisorio e beffardo, manifestazione di sarcasmo e scherno, oppure di un’amara risata sprezzante verso l’interlocutore. La figura ha la bocca semiaperta, con le labbra tirate e contratte agli angoli in una smorfia agghiacciante indefinibilmente di riso o di pianto; sotto i sopraccigli arcuati e la fronte corrugata gli occhi sono sbarrati a forma di luna o mandorla falcata in una perfida intenzione maligna. Maschere analoghe grottesche di riso-pianto “sono alquanto frequenti; ne sono state ritrovate a San Sperate (Cagliari), a Tharros (Oristano), a Cartagine e a Ibiza”⁷⁵. Sono maschere punico-fenice dell’età in cui la Sardegna venne invasa dai Cartaginesi (VII secolo a.C.), ma furono gli invasori a essere condizionati dai Sardi o al contrario? Le maschere di pianto-riso sono la raffigurazione più adeguata, concreta, tragica, terrificante di quell’ignoto rito che prevedeva il gerontocidio, l’uccisione dei pazzi e degli inutili socialmente, l’immolazione di bambini malati… comunque un culto e un rituale praticato in Sardegna.
Erodoto nel Libro 1, parte III delle Storie (metà del V secolo a.C.) usa per la prima volta l’espressione “mare di Sardegna” parlando di battaglia navale tra i Focesi e i Tirreni con i Cartaginesi, ma le testimonianze più arcaiche del nome dell’isola e della sua popolazione, in lingua sarda e in caratteri fenici, sono anteriori di parecchi secoli. L’antica Sardi era invece una città dell’Asia Minore che divenne capitale del regno di Lidia nel VII secolo a.C. – ed Erodoto le attribuisce una lunga storia fin dall’età del ferro – ed è comprensibile che il lino sardonico faccia parte degli Eraclidi di Lidia, ma il riso sardonico era qualcosa che proveniva dalla Sardegna sia che esso facesse parte della preesistente civiltà nuragica sia che provenisse dalla Lidia, supposto fondamento della civiltà etrusca. I Sardi-Nuragici e gli Etruschi erano due popoli strettamente apparentati, discendenti di stirpi probabilmente provenienti dalla Lidia o dalla Colchide o dall’Anatolia in Asia Minore, ma probabilmente i Shardana, di cui parlano le fonti egizie, sono i re delle Isole dell’Occidente, che è la posizione della Sardegna rispetto all’Egitto, mentre la città di Sardi, che non è un’isola, è posta a oriente. Il sardonios ghelos (“il riso sardonico”) compare nel libro XX dell’Odissea: “μείδησε δὲ θυμῷ σαρδάνιον μάλα ποῖον” (meidese de thumo sardanion mala poion), ossia “nel cuore sorrise sardonico, aspro e amaro assai”⁷⁶; Ulisse, a seguito dell’offesa subita da parte di Ctesippo, uno dei pretendenti di Penelope, ride nel suo animo in modo sardonico, consapevole che Telemaco ha ben previsto il destino di morte che attende Ctesippo. “Ridere in modo sardonico” è un detto che ha provocato forti controversie e disquisizioni negli ultimi anni, in ambito accademico e di storia e di lingua locale, fra coloro che respingono un legame e un’attinenza con gli antichi abitanti dell’isola e coloro i quali dichiarano che l’aggettivo “sardonico” fosse riferito proprio ai Sardi. Leggendo l’Odissea si trova, come s’è visto, sardanion mala poion e Platone nella Repubblica (337a) dice che “scoppiò in un riso mala sardanion”; Plutarco aggiunge nel Caio Gracco (12, 8e) σαρδάνιον γέλατα γέλαν o “rise di un ghigno sardonico”. Non troviamo nulla che fa riferire alla città della Lidia e c’è una bella differenza fra sardionos (abitante di Sardi) e sardonicos (sardo).
Veniamo a Timeo, il quale avrebbe riferito nelle sue Storie: “In Sardegna i figli sacrificano a Kronos i genitori di settanta anni e questi venivano uccisi a bastonate e sassate e precipitati in dirupi profondi e nel perire i vecchi ridevano di un riso ‘sardonio’”⁷⁷. Aggiunge poi la notizia più importante che riprenderemo alla fine del nostro lavoro: “Vicino alle Colonne d’Ercole c’è l’isola di Sardegna nella quale cresce una pianta simile al sedano. Molti dicono che quando l’assaggiano vengono colpiti da uno spasmo che li fa ridere involontariamente, e così muoiono”. Allora veniamo al dunque: il poeta lirico Simonide di Ceo (VII secolo) assunse, in un componimento poetico andato perduto e riferito dal paremiografo Zenobio⁷⁸, il racconto di come Talo, prima di giungere a Creta, risiedesse in Sardegna e che uccidesse molti di coloro che erano in essa⁷⁹; le vittime morivano nell’atto del “seserenai”, ossia il digrignare e stringere i denti (οὔς τελευτῶν ταϛ σεσῃρέναι). “Simonide dice che Talo prima della sua partenza per Creta dimorasse in Sardegna e molti ne uccidesse che portati alla fine digrignavano i denti mostrando il riso sardonico”⁸⁰. Il mitico automa gigantesco forgiato nel bronzo (da Efesto o da Dedalo) per il re di Creta, Minosse, perché fosse guardiano dell’isola, allontanando i nemici che tentavano di toccare terra, quotidianamente percorreva l’isola armato di mastodontiche pietre e si buttava nel fuoco ardente e rovente e tutto infiammato si schiantava sui suoi nemici schiacciandoli e carbonizzandoli. Alcuni però dicono che l’isola fosse la Sardegna e Talo il suo guardiano. Ma sia come sia dobbiamo capire come questi uomini morissero, e non certamente ridotti in cenere. C’è però nel lessico della Suida⁸¹ un fraintendimento: non è possibile che uno che arde o va a fuoco, carbonizzato dal gigante di bronzo, mostri il riso sardonico. Ma allora che cosa è il sardonios ghelos?
“Altre varianti imputano la soppressione dei settantenni non ai Sardi, ma ai Cartaginesi coloni in Sardegna. […] Il teatro del rito si sposta nella stessa Cartagine secondo la notizia attribuita a Clitarco […] che scrive nel III secolo a.C., ove il sacrificato, qui fanciullo, è posto ad ardere tra le braccia di un Crono di bronzo e viene recuperata la spiegazione lessicografica che esclude la Sardegna; ma la Sardegna riappare in Filosseno (I secolo a.C.), a proposito dello stesso rito, avente per vittime sacrificali ancora una volta i fanciulli, rito che si svolgerebbe appunto in (Sardegna)”⁸².
Ritornano i Cartaginesi che mettono ad ardere i fanciulli in un Crono di bronzo o in un Moloch. “C’era una statua di Cronos in bronzo – racconta Diodoro Siculo (circa 90 a.C.-circa 27 a.C.) – dalle mani stese con le palme in alto e inclinate verso il suolo, in modo che il bambino posto su esse rotolava e cadeva in una fossa piena di fuoco”. Ma di quell’infanticidio rituale se ne parlava secoli prima: “Hanno costruito gli alti luoghi di Tofet, nella valle di Ben Hinnom, per bruciare i loro figli e le loro figlie” (Ger 7, 31). “Vi hanno edificato gli alti luoghi di Baal, per bruciare a lui i loro figli in olocausto” (Ger 19, 5). E quando i Cartaginesi arrivarono in Sardegna era chiaro che le due culture si integrassero e quindi il sardonios ghelos e i sacrifici degli infanti, le maschere ghignanti e i mamuthones fossero la stessa roba – a detta di una cultura che era rivale e nemica, ovvero quella greca, ebraica e romana. Il loro Moloch era il nostro Crono; la dea Tanit e il dio Baal Hammon erano come il dio vendicativo o come JHWH Zebaoth (Signore degli eserciti). Termino con un’idea peraltro risaputa. I vecchi Sardi settantenni – come nelle culture indiane pellerossa o negli esquimesi – sanno che la loro esistenza è terminata e allora si tolgono la vita scendendo al fiume dove cresce una pianta simile al sedano (l’herba sardonia, ossia Oenanthe crocata⁸³ o “Prezzemolo del diavolo”) con la quale fanno un infuso e lo bevono. “Molti dicono che quanti la assaggiano vengono colpiti da uno spasmo che li fa ridere involontariamente, e così muoiono”⁸⁴. Questa erba diminuiva le
sofferenze dei vecchi e ne affrettava la morte e i principi attivi ad azione neurotossica ed enterotossica definiti oenanthetoxine provocano la chiusura delle labbra, evidenziano i denti, imitando la maschera facciale di chi ride. Il riso dei vecchi durante l’attuazione del rituale vuol dire che la morte è accettata con il riso sardonico, con sarcasmo e ironia. Poi vennero le leggende del geronticidio; ancora oggi a Gairo, in Ogliastra, si usa l’espressione “is beccius a sa babaieca”, dove babaieca sta per “roccia a punta”, a Orotellisi si racconta di vecchi fatti cadere da un dirupo, “Iskerbicadorzu o Impercadorzu de Sos Betzos”, “scervellatoio o dirupo dei vecchi”, a Urzulei, la cima di montagna è chiamata Su Pigiu de su Becciu, cioè “il picco del vecchio” e per finire a Baunei si dice “leare su’ ecciu a tumba o a ispéntuma”, cioè “portare il vecchio alla tomba o alla grotta ovvero al dirupo”. Per non dimenticare poi la accabadora in Gallura, di cui si conserva il martello di “colei che finisce” come Talo le vittime che morivano nell’atto del seserenai, o anche “i campi tetanigeni” dove i vecchi e i bambini che rimanevano nel villaggio si infettavano del tetano⁸⁵. Ma vorrei finire con una frase di una donna novantenne (per noi tutti la nonna Nerina) di un’altra area, quella della Calabria: “Ormai sto aspettando il mazzuolo”, per ricordare un rito senza confini, quello della morte.
Paolo Aldo Rossi 75. Ciasca, I Fenici, Bompiani, Milano 1988. 76. Odissea XX, 301. 77. K. Müller (a cura di), Fragmenta Historicum Graecorum, Paris 1885, p. 199. Timeo (gr. Τίμαιος, lat. Timaeus) storico greco siracusano (356 a.C. circa-260 a.C. circa). Visse ad Agrigento e poi ad Atene per cinquant’anni. La sua opera, di cui restano circa 150 frammenti, era una storia dei Siciliani e degli Italioti in 33 libri.
78. Zenobio, V, 85 in Corpus paroemiographorum graecorum, vol. I, Hildesheim 1958. 79. Ivi, V, 85, 7-10. 80. Σιμονίδηϛ δέ φησὶ τὸν Ταλώ πρό τῆϛ εἰς Κρήτεν ἀφίξεως οἰχῆσαι τὴν Σαρδώ χαί πολλοὺς τῶν ἐν ταύτῃ διαφθεῖραι οὔς τελευτῶν ταϛ σεσῃρέναι χαί ἐχ τοὺτου ὁ Σαρδάνιον γὲλως. 81. X-XI secolo, una tarda compilazione bizantina. 82. I. Didu, I Greci e la Sardegna, il mito e la storia, Scuola Sarda Editrice, Cagliari 2003. 83. Il vocabolo oenánthe significa vino-fiore, dal greco οἶνος, vino, e ἄvϑos, fiore, poiché parrebbe idoneo a produrre una modificazione dello stato mentale simile alla condizione di ebbrezza vigile e stordimento. 84. K. Müller (a cura di), Fragmenta Historicum Graecorum, op. cit. 85. Il tetano (dal greco τέτανος, contrattura) è un batterio ospite commensale del tratto gastroenterico di molti erbivori ovini e la rimozione delle spore di Clostridium tetani assieme alle feci di questi animali fa sì che vi siano i “campi tetanigeni” in prossimità di un villaggio. Si presenta come una paralisi spastica che inizia dal viso e l’infezione è innescata dalla contaminazione di ferite da parte delle spore del batterio e qui s’imbatte nell’ambiente adatto per la crescita e la produzione della tossina tetanica. Il periodo ha inizio con il trisma, che è una contrattura spastica dei masseteri, muscoli della mandibola, che ostacola l’apertura delle arcate dentarie e poi altre contrazioni dei muscoli mimici (riso sardonico, facies tetanica), dorsali e articolari che si uniscono sul continuo spasmo tonico (accessi tetanici).
Tre secoli di antimassoneria. Radici politiche, religiose ed esoteriche Benedetto Croce, famoso filosofo, storico e politico italiano, affermò che la storia è sempre storia contemporanea poiché è legata al presente, nella persona e nell’ambiente dello storico. Oggi in Italia studiare la storia della Massoneria significa indagare la Massoneria universale ma anche la sua dimensione “locale”, propriamente italiana che chiama a misurarsi con il nostro Paese attuale. Per indicare quali problemi affronta in Italia lo storico della Massoneria bastano alcune informazioni. In questi mesi sono stati depositati in Parlamento due disegni di legge per escludere i massoni dai pubblici impieghi (magistratura, forze armate, impieghi civili, insegnamento…). Il primo disegno di legge (24 febbraio 2017, n. 2328, firmatari on. Mattiello e altri, esponenti all’epoca del Partito Democratico, che è il principale partito di governo) propone la condanna da tre a sette anni di carcere per chi organizza, dirige o promuove una “società segreta” e l’interdizione dei suoi affiliati dai pubblici uffici per cinque anni. Rientrano nelle società segrete le “associazioni che comportino un vincolo di obbedienza assunto in forme solenni come richiesto dalle logge massoniche o da associazioni similari”. Esso precisa che “i professori e ricercatori universitari non possono partecipare o affiliarsi ad associazioni che comportino un vincolo di obbedienza assunto in forme solenni come richiesto dalle logge massoniche o da associazioni similari”. Il secondo disegno di legge (11 aprile 2017, n. 4422, “incardinato” a metà giugno, firmatari Fava e altri deputati del Partito Democratico Popolare, nato dal Partito Democratico e tuttora parte della maggioranza di governo) propone il divieto per magistrati, forze di polizia, forze armate, dipendenti pubblici e quanti ricoprono incarichi pubblici (anche elettivi, dunque) di far
parte di “associazioni massoniche o similari che creano vincoli gerarchici, solidaristici e di obbedienza”. Se approvate nel trecentesimo anniversario della Costituzione della Gran Loggia di Londra⁸⁶, tali proposte di legge metterebbero fine alla Massoneria in Italia, nonché alla libertà di associazione, perché (come già accaduto in passato) il giudice ordinario può indagare la natura di una associazione, sospettandola expost come “segreta o similare” e pubblicare i nomi dei suoi membri, con loro gravissimo e irreversibile danno personale. Tutto ciò avviene nel clima segnato dal successo del libro di uno dei più autorevoli giornalisti italiani (Ferruccio De Bortoli, Poteri forti (o quasi), La nave di Teseo, Milano 2017), il quale lamenta l’“odore stantio della Massoneria” nella vita pubblica e insinua che “le appartenenze massoniche” hanno giocato e giocano un ruolo ai vertici dell’economia (specie delle banche), della proprietà dei giornali ecc. Affermazioni prive di prova, basate su “sussurri”, sospetti, ipotesi, fantasie… Scrivere una storia della Massoneria in Italia è dunque impegnativo e, così stando le cose, abbastanza “pericoloso”, soprattutto se la si scrive da storici, cioè liberi da pregiudizi, sulla base di documenti, di studio, senza nihil obstat preventivi di partiti, Chiese ecc.: se si scrive sine ira et studio. Detto ciò, è bene quindi iniziare dall’indagare le radici politiche dell’antimassoneria. La Costituzione di Anderson e Desaguliers della Fraternity dei massoni accettati (1723) enuncia la posizione della Massoneria nei confronti delle questioni religiose e politiche, ovvero delle Chiese, depositarie di verità assolute, e dello Stato. Essa afferma che dalle riunioni di loggia va escluso qualsiasi tema di religione, cioè “confessionale”, o di Nazione, perché potrebbe suscitare dissensi tra i Fratelli. La Costituzione precisa che i massoni sono non solo “della religione universale […] ma anche di tutte le nazioni, lingue, ascendenze, espressioni e risolutamente contro ogni faziosità politica, giacché questa non ha mai concorso e non contribuirà mai al benessere della loggia. Questo obbligo perpetuo è stato sempre prescritto e osservato, ma specialmente dopo la Riforma in Gran Bretagna dopo la separazione e la secessione di queste Nazioni (britanniche: inglesi, con le loro ripartizioni, scozzesi, irlandesi, NdA) dalla Comunione di Roma” (cap. VI, art. 2). Il rigoroso
divieto ai massoni di occuparsi in loggia di “Stato” e di “religioni” fu ed è una scelta politica e religiosa: non significò, però, che la Massoneria divenisse una religione a sé o una sorta di religione al di sopra delle altre o una confessione sincretistica, né che si ergesse a superpotere politico. Semplicemente esso pose la Massoneria al di fuori delle fazioni, dei governi (transitori), e dei conflitti tra “Chiese”, cioè tra organizzazioni istituzionali della religiosità. Quel precetto (charge) è connesso agli articoli I e II della Costituzione, che prescrivono al massone di essere suddito pacifico dei poteri civili, ovunque risieda o lavori, di non immischiarsi in cospirazioni contro la pace e il benessere della Nazione: principi rispondenti alle condizioni della Gran Bretagna che usciva dalle guerre dinastiche e di religione, dal sanguinoso conflitto tra la Corona e il Parlamento (costato la testa a Carlo I), dalla guerra di successione al trono di Spagna e da tre cambi di Case regnanti in pochi decenni. A quel modo la Massoneria si collocò all’esterno delle lotte contingenti, in nome di un disegno umanistico. La Fraternity si propose quale spazio autonomo rispetto allo Stato moderno, che non riconosce alcun potere al di sopra di sé e quindi non avrebbe le logge se queste si fossero prospettate quale attore politico. Nei confronti del Potere la Massoneria si dichiarò leale ma al tempo stesso rivendicò la propria identità e autonomia. Scommise sulla “benevolenza”: mostrò la propria e ottenne l’altrui. Nel corso del tempo, in Inghilterra essa divenne consustanziale alla Corona e, suo tramite, venne accettata dalla Chiesa anglicana. Rimase nei propri confini e ottenne tacitamente che questi non fossero travalicati dal potere costituito: un caso raro di coesistenza tra associazionismo privato e potere pubblico, forse propiziato dalla loro somma nel sovrano, re e capo della chiesa di Stato: un caso unico nell’ambito dei regimi europei dal Seicento in poi. Le logge via via sorte all’estero su impulso della Gran Loggia di Londra e di quanto ne nacque furono raggi suoi e, al tempo stesso, della Gran Bretagna: nelle colonie, nei porti, in terre lontane da Londra, alle quali l’Inghilterra guardava con attenzione, forte di rapporti marittimi che andavano anche molto oltre i confini del suo già vasto impero.
Tra i molti esempi possibili ricordiamo le logge sorte in Italia, un Paese ove Londra non aveva né possedimenti territoriali né influenza diretta. A Firenze la Massoneria inglese si insediò quando era chiaro che la dinastia dei Medici si stava estinguendo e il Granducato di Toscana sarebbe entrato nel grande gioco della spartizione dei “piccoli Stati” da parte delle Grandi Potenze continentali: gli Asburgo e i Borbone, di Francia e di Spagna, mentre da poco erano stati costituiti i regni di Prussia e di Sicilia (poi di Sardegna) a beneficio degli Hohenzollern e dei Savoia. Malgrado le illusioni di molte famiglie toscane e degli eredi della tradizione repubblicana, i Medici dovevano il granducato al Sacro Romano Imperatore, che ne disponeva ad libitum, come “merce di scambio”, al pari delle Corone della Sardegna e della Sicilia, e di vari ducati, mentre i Borbone di Spagna riconquistavano posizioni, da Parma al Mezzogiorno d’Italia (1734). Altrettanto avvenne infatti a Napoli, ove la Massoneria inglese si incuneò tra la Corte e Madrid, tra la Corona e la dirigenza che guardava oltre i confini del regno. Casi analoghi si registrarono a Venezia, Modena, Chambéry, Torino… le logge funsero da antenne della diplomazia internazionale e da centri di preparazione e di mediazione di nuovi scenari europei. Sospettata di maneggi politici, sin da quando si affacciò sul continente e nel Mediterraneo la Massoneria fu pertanto osteggiata dal potere costituito, nelle sue varie forme (la Repubblica di Venezia, lo Stato pontificio…) con i mezzi e i metodi dell’epoca: spionaggio e controspionaggio, infiltrati, delatori prezzolati, arresti (a volte arbitrari), torture per estorcere rivelazioni, condanne anche di rei non confessi o dopo ammissioni parziali o fantasiose di colpevolezza. Tollerata sino a quando parve innocua, essa venne perseguitata se e quando risultò pericolosa per il potere assoluto, che per definizione non consente l’esistenza di spazi al di fuori del proprio controllo. Gli Stati Sovrani non lo permettono neppure oggi. Anche i regimi più democratici configurano la libertà di associazione nell’ambito della legge. All’epoca il potere era intollerante e repressivo, ma solo nei confronti di chi costituiva una minaccia effettiva, perché infiltrata da interessi stranieri.
La “cultura” beneficiava di ampia tolleranza. La scienza, del resto, divenne uno strumento privilegiato del potere, che creò accademie, biblioteche, ordini di benemeriti, e lasciò maglie larghe agli scambi tra i sapienti, anche perché libri e riviste erano “merce” redditizia per gli Stati. Seppur non sempre “illuminati”, anche sovrani assoluti alternarono tolleranza, indulgenza e repressione. La macchina poliziesca (talora sommata a quella delle Chiese, in specie la cattolica) non arrivava dappertutto. La svolta giunse con la Rivoluzione francese, che generò e ingigantì il mito del complotto politico ordito da lunga mano, la “grande paura”, sconvolgimenti istituzionali, sociali ed economici totalmente imprevisti anche dagli illuministi più audaci. Quasi nessuno previde che le grandi stragi del 1792, la legge sui sospetti e il Terrore giacobino (17931794) e il Termidoro avrebbero condotto al Consolato e all’Impero e che nel continente la Massoneria sarebbe risorta solo dopo drastica epurazione e all’ombra di Napoleone, quale instrumentum regni, subordinato all’Ordine Nuovo. Al di là di quanto ne scrissero molti storici nel Novecento, alla luce della rivoluzione sovietica e dei regimi totalitari, generati da reti di nuclei organizzati ma inizialmente né omogenei né univoci (i bolscevichi, il fascismo, il nazionalsocialismo), per i contemporanei fu chiaro che la Massoneria si pretendeva protagonista politico. Nell’età franco-napoleonica lo fu a tutti gli effetti sia nel continente sia in Gran Bretagna, ove la Gran Loggia Unita d’Inghilterra chiuse decenni di tensioni proprio nell’anno di Lipsia, la “battaglia delle Nazioni”. Pertanto alla Restaurazione la Massoneria venne vietata sotto gravi pene nell’Impero d’Austria, in Russia e in Prussia e negli Stati che direttamente o indirettamente ne dipendevano. Chiuso nella tenaglia tra l’Austria, la Francia di Luigi XVIII (ove la Massoneria era strettamente sorvegliata) e la Svizzera, sospettata di ospitare cospiratori, anche il Regno di Sardegna proibì le logge e istituì premi per i delatori che denunciassero i massoni e i loro “simpatizzanti”: una situazione paradossale perché sino alla primavera del 1814 tanta parte della classe dirigente era stata affiliata. Sino al 1859 in Italia e al 1868 in Spagna la Massoneria rimase al bando. In Austria lo rimase fino al crollo dell’Impero asburgico, nel 1918. L’accusa
nei suoi confronti era identica in tutti i Paesi: la cospirazione politica, a vantaggio degli irredentismi nazionali e di principi di libertà inconciliabili con la stabilità; la sua subordinazione ai progetti di “repubblicanizzazione” dell’Europa, coltivati dalla Francia in concorso con il Grande Oriente, o agli interessi imperiali britannici. Le logge rimasero vietate in Paesi (come l’Austria) dove fiorirono partiti socialisti e sindacati contadini e operai: questi, però, operavano nell’ambito delle leggi. I massoni, invece, ne rimanevano fuori. Non solo. Proprio alcuni partiti socialisti, a cominciare da quello italiano, accusarono le logge di svuotare dall’interno il socialismo della sua vera vocazione: la rivoluzione proletaria, il libero amore (in alcuni Paesi rivendicato da frange dell’Ordine), la distruzione dei troni e degli altari, rimasta incompiuta per opera della borghesia e della Massoneria che ne era la rete occulta. Anche il pacifismo massonico risultò sospetto: sia ai governi, che non intendevano lasciarsene condizionare e lo ritenevano diretto da “internazionali” o comunque da interessi stranieri; sia dai movimenti rivoluzionari che lo giudicavano anti-storico e ritenevano inevitabile il ricorso alla violenza per abbattere l’ordine costituito. Agli occhi dei socialisti rivoluzionari essa era l’altra faccia dell’imperialismo borghese. Doveva essere eliminata con il “grande bagno di sangue purificatore”. Dopo la conflagrazione europea del luglio-agosto 1914 i massoni fecero da battistrada dei socialisti rivoluzionari e dei nazionalisti nel chiedere l’intervento in guerra dei Paesi ancora neutrali. Fu il caso dell’Italia ove i fasci interventisti (che minacciavano: “Guerra o Rivoluzione”) furono finanziati dalla Massoneria francese, che fornì a Mussolini i mezzi per fondare Il Popolo d’Italia. I rivoluzionari conobbero quindi da vicino e dall’interno le massonerie, le accettarono come compagne di strada, ma con l’obiettivo di liberarsene appena possibile. In rapida sequenza, nel 1922 su proposta di Trotzky (che qualcuno ritiene abbia avuto contatti con massoni) la Terza Internazionale detta “di Mosca” inserì l’incompatibilità tra partiti comunisti e logge tra i suoi punti programmatici fondamentali e vincolanti. Dal canto suo dal 1923 il Partito Nazionale Fascista, ideologicamente dominato dai nazionalisti e da alcuni
fanatici (alcuni clericali, altri spretati: uniti da anni nella lotta contro la Massoneria), deliberò l’incompatibilità tra fasci e logge. Due anni dopo, nel novembre 1925, il Parlamento approvò la legge che vietò ai pubblici impiegati di ogni ordine e grado l’appartenenza ad associazioni segrete. Poiché le comunità massoniche avevano aspetti organizzativi non solo riservati ma effettivamente segreti (a cominciare dall’iscrizione di personalità note esclusivamente al vertice, relazioni con comunità estere al riparo da controlli indiscreti da parte dello Stato, l’assetto finanziario effettivo) i grandi maestri sciolsero le logge per non applicare le nuove norme e per non esporre i propri adepti a rappresaglie. L’antimassoneria divenne un luogo comune della propaganda dei regimi totalitari o autoritari (ai quali dal 1933 si aggiunse la Germania nazionalsocialista) e, anche su tale piano, li differenziò dalle “democrazie”. Nei Paesi ove continuarono liberamente a fiorire, le logge non furono però tutte ispirate a principi autenticamente e unicamente liberali (tolleranza delle confessioni religiose, rispetto delle minoranze ecc.). Lo si era già veduto in Portogallo dopo la cruenta liquidazione della monarchia; lo si constatò in Messico, sconvolto dalla persecuzione dei cattolici. In molti casi, come in Spagna, dopo il crollo di Miguel Primo de Rivera la lotta contro l’autoritarismo (la monarchia, i militari, il falangismo…) cedette spazio a forme di intolleranza, contraria ma uguale, a cominciare dall’anticlericalismo militante, in molti casi sfociante in persecuzione del clero e dei credenti, nell’incendio di chiese e in vari eccessi e persino in crimini efferati. L’antimassonismo politico non cessò con la fine della seconda guerra mondiale e con la sconfitta del nazismo. Alleato militare degli angloamericani e, in seconda fila, della Francia, che tornò a essere capofila della rete massonica in terraferma, l’Unione Sovietica mantenne il divieto delle logge al proprio interno e lo estese agli Stati dell’Europa orientale, via via occupati, soggiogati e incorporati nel “Patto di Varsavia”. In Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Ungheria, l’URSS completò il “lavoro” avviato dall’occupazione nazista, sicché anche dopo il crollo del “socialismo reale” la Massoneria stentò a risorgervi.
D’altra parte l’antimassoneria ebbe anche profonde radici religiose. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, la Massoneria non fece nulla per attirarsi la scomunica. Però i massoni fecero molto per farsela confermare. Dal suo punto di vista, papa Clemente XII, vicario di Cristo, pontefice romano e sovrano dello Stato Pontificio, ebbe validi motivi per “condannare” i massoni nel 1738. A parte i vincoli canonici (per esempio contrarre matrimonio con persone di altra confessione cristiana o, addirittura, di altra religione) la Chiesa di Roma vietava ai propri credenti di avere rapporti con eretici e infedeli senza assistenza ecclesiastica. Poiché aveva (e ha) per missione la salute delle anime, temeva venissero irretiti. Il papa e alti dignitari ecclesiastici debitamente autorizzati intrattenevano relazioni politiche, diplomatiche e di affari con eretici e infedeli. Ma li consideravano in peccato mortale, nemici della verità, dannati alla pena eterna e ne detestavano e combattevano l’errore. Li escludevano dalla loro “mensa” e non solo da quella eucaristica. Gli Annali della Santa Sede non ricordano che il papa abbia condiviso il pane nei Sacri Palazzi con ospiti di confessioni eretiche (evangelici, riformati, ortodossi…) o di altre religioni, con agnostici professi e atei conclamati. Poiché, per loro norma e di propria scelta, i massoni si radunavano senza alcuna assistenza spirituale, i cattolici che frequentavano le loro adunanze si ponevano ipso facto al di fuori della comunità. Nella Costituzione apostolica In eminenti apostolatus specula, una “lettera”, non una “enciclica”, papa Clemente XII prese atto di una evidenza: i massoni si riunivano per motivi ignoti, occulti e quindi sospetti. La Storia premessa ai Charges, da leggere all’ammissione di ogni nuovo fratello, ridonda di miti, tradizioni, leggende e riferimenti storici che ne fanno un testo radicalmente estraneo al Cattolicesimo tridentino. La Chiesa di Roma condivideva certo la deplorazione dell’Islam, lì ricorrente, il cui unico gran disegno è di convertire il mondo con il fuoco e la spada anziché coltivare le arti e le scienze, ma non riconosceva il primato di “Asiatici”, Greci e Romani, promotori di logge e protettori dei massoni, né il primato degli Inglesi celebrato da Anderson e Desaguliers, specialmente dopo l’avvento di Guglielmo I d’Orange (1688) e della regina Anna. La Storia ignora Enrico VIII ed Elisabetta I, l’atroce guerra di religione che divise la Gran Bretagna, la decapitazione di Maria Stuarda, ribadisce la condanna di Goti
(sinonimo di barbari) e di musulmani e conclude con la celebrazione delle società e degli ordini cavallereschi militari e di quelli religiosi, che nel corso del tempo avevano introdotto nella Fraternity un gran numero di consuetudini (o rituali) solenni: un mondo che la Chiesa di Roma aveva disciplinato, previa epurazione dei devianti (come l’Ordine dei Templari). José A. Ferrer Benimeli ha ampiamente illustrato le “radici religiose”, propriamente cristiane, della Massoneria. Il Cristianesimo massonico, però, non è quello della Chiesa di Roma. Esso è, sì, radicato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ma è altresì conciliato con le civiltà preromane, con l’elogio di Augusto, Vitruvio e dell’ordine o stile augusteo. Esso, infine, esige dai fratelli di riconoscersi solo nella religione sulla quale tutti gli uomini concordano, lasciando a ciascuno “le proprie opinioni”: una posizione totalmente eretica agli occhi di Roma. Il teismo massonico andava oltre i confini della stessa Chiesa anglicana, dei presbiteriani e delle altre denominazioni evangeliche che si contendevano i credenti. Era latitudinarismo: che non significava né agnosticismo, né miscredenza, ma non era neanche fede cattolica. Era libertà di credere. Sotto questo profilo, il passaggio dal teismo al deismo segnato dalla nuova versione della Costituzione di Anderson (1738) anziché innovare (come sostenuto da molti, tra i quali Giuliano Di Bernardo), si limitò a chiarire. Sotto il profilo canonico è del tutto secondario stabilire se Clemente XII fosse pienamente compos sui quando, cieco e con mano tremante, firmò la “scomunica” della Massoneria e di quanti le danno il nome: questa fu e rimane un atto del Sommo Pontefice. Altrettanto vale per la sua efficacia sacramentale negli Stati i cui poteri politici non la recepirono, negandole efficacia civile e penale. I papi non avevano mai preteso che la scomunica degli anglicani venisse ratificata dai re d’Inghilterra, né che la condanna dei calvinisti fosse sottoscritta dalla città di Ginevra o quella dei riformati dai principi che avevano condiviso la “protesta” di Martin Lutero, ora per fede, ora per opportunismo. La scomunica era (ed è) un atto concernente il rapporto tra la Chiesa e i propri fedeli, ovvero quanti se ne proclamano e vogliono esserne figli devoti. Il coltissimo e spesso benevolmente tollerante Benedetto XIV a sua volta ribadì l’esclusione dei massoni dalla Chiesa cattolica. Sotto l’incubo dell’Editto emanato dal cardinale Ercole Firrao, ai cattolici irretiti nelle logge massoniche e desiderosi di tornare nell’ecclesia
originaria non rimase che pentirsi, confessare la propria colpa, consegnare ogni carta e corredo, denunziare i nomi dei compagni di loggia, implorare e subire la giusta pena terrena per scampare a quella eterna. La Chiesa cattolica del Settecento non fu anti-massonica. Semplicemente segnò il solco tra sé e una comunità che non era cattolica e che da sé se ne poneva al di fuori. Esercitò il suo magistero affinché i fedeli non potessero dire di non essere stati avvertiti: nulla salus extra ecclesiam. Si registrarono molti comportamenti labili. La dottrina però rimase chiara. Non mutò neppure quando Pio VI andò “pellegrino apostolico” a Vienna in visita a Giuseppe II d’Asburgo, sacro romano imperatore; né quando Pio VII siglò il Concordato con Napoleone primo console (1801) o quando si recò a Parigi per l’incoronazione imperiale del 2 dicembre 1804. Dopo l’età franco-napoleonica la “scomunica” assunse requisiti nuovi. Anziché mero “avvertimento” dell’estraneità delle congreghe massoniche dalla Chiesa, essa divenne esplicita condanna della Massoneria in quanto tale, sotto il profilo dottrinale. Mentre per Clemente XII e Benedetto XIV la Libera Muratoria era “sospetta”, da Pio VIII in poi essa fu esplicitamente bollata quale organizzazione malvagia, sorta per cospirare contro la Chiesa di Cristo, e dedita a diffondere l’errore. La sua condanna divenne ancora più netta con Gregorio XVI. Con Pio IX essa assunse toni estremi, sino alla formula celebre (o famigerata), che la bollò quale “sinagoga di Satana”. Contrariamente a quanto spesso è stato detto, la condanna totale e radicale della Massoneria da parte di Pio IX non dipese dall’assassinio del suo primo ministro, il liberale moderato Pellegrino Rossi (ucciso con rituale massonico), e dalla sua decisione di lasciare Roma per mettersi al sicuro a Gaeta (all’epoca sotto dominio del re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone), né dalla proclamazione della Repubblica Romana (9 febbraio 1849) sotto la guida del triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini. Il primo e fondamentale documento antimassonico di Pio IX è infatti l’enciclica Qui pluribus, pubblicata quando il pontefice era circondato dall’aura di papa liberale. Essa mirò appunto a segnare il solco tra la Chiesa di Roma e gli “errori del secolo”, dilaganti non solo in Germania, prevalentemente luterana, ma anche in Paesi cattolici
quali Belgio e in Francia, un tempo “nazione primogenita della Chiesa”, ma ormai ai suoi occhi tralignante. Dal 1848-1849 le motivazioni politiche e quelle religiose della condanna/scomunica dei massoni si intrecciarono e sommarono indistricabilmente. Con l’Allocuzione del 28 aprile 1848 Pio IX dissociò lo Stato Pontificio dalla guerra contro l’impero d’Austria. Dall’anno seguente ribadì costantemente la condanna della setta. Nel 1859-1860 scomunicò Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, il governo e quanti avevano concorso a sottrargli le Legazioni Pontificie, le Marche e l’Umbria. Dall’8 dicembre 1864, decennale della proclamazione del dogma della Immacolata Concezione, la Massoneria figurò nell’elenco degli “errori del mondo moderno” denunciati nel Syllabus pubblicato in appendice all’enciclica Quanta cura. La debellatio del potere temporale pontificio con l’invasione del Lazio e l’irruzione dell’esercito italiano in Roma, il 20 settembre 1870, convinse il papa che la nascita del regno d’Italia era frutto di un complotto massonico internazionale volto ad abbattere la Fede. I suoi documenti successivi ribadirono centinaia di volte gli stessi concetti. Dal canto loro il re, il governo, il parlamento, la classe dirigente diffusa costruirono lo Stato moderno fondato su due principi garantiti dallo Statuto del regno di Sardegna promulgato da Carlo Alberto, re di Sardegna, il 4 marzo 1848, e fatto proprio dal regno d’Italia instaurato il 14 marzo 1861: i cittadini sono uguali dinnanzi alle leggi, la religione cattolica è la religione di Stato ma i cittadini sono liberi di praticare i culti ammessi (valdesi, israeliti ecc… o di non praticarne alcuno), mentre erano vietati nello Stato Pontificio e nel regno delle Due Sicilie. A differenza di quanto ritenevano Pio IX e molti scrittori di La Civiltà Cattolica, i massoni, sia italiani sia stranieri, ebbero un ruolo del tutto secondario nelle guerre per l’indipendenza e l’unificazione. In Italia essi erano poche centinaia, disorganizzati, senza alcun programma univoco e in posizioni politiche di modesto rilievo. La prima riunione a Torino della loggia “Ausonia”, considerata Loggia Madre del futuro Grande Oriente, ebbe luogo l’8 ottobre 1859, quattro mesi dopo l’armistizio tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II da un canto, Francesco Giuseppe d’Asburgo dall’altra, e un mese prima della pace di Zurigo: eventi nei quali i massoni
non ebbero alcun ruolo. Il regno d’Italia nacque da accordi diplomatici internazionali nei quali la Massoneria non ebbe alcuna parte da protagonista. Il papa e la curia romana, però, rimasero convinti che fossero in gioco due Entità Universali: la Chiesa di Roma da una parte e il suo Avversario dall’altra, Satana, storicamente incarnato nella Massoneria. Tra fine Settecento e inizio Ottocento François Lefranc e, ancor più, Augustin Barruel non erano stati autori di fiabe. Avevano additato la contrapposizione inconciliabile e irrudicibile tra la Rivelazione e la Rivoluzione, il Bene e il Male, fra la Luce e le Tenebre. Tutte formule che piacevano anche a molta parte dei Fratelli… In quei decenni la Massoneria europea era terreno di passaggio (o di caccia) di estremisti di vario tipo: repubblicani, socialisti, anarchici e terroristi, convinti che le Tenebre accelerano l’avvento della Luce. Nulla di nuovo, ma era in contrasto con la pace istituita col Congresso di Vienna del 1815 e via via rincalzata malgrado guerre locali e con il Congresso di Parigi del 1866 all’indomani della “guerra di Crimea”. Dopo la guerra franco-germanica del 1870-1871 la Massoneria dell’Europa continentale fu al bivio: schierarsi a fianco delle istituzioni nazionali o per un ordine universale. La quasi totalità delle comunità liberomuratorie optò per lo stato di appartenenza: massoni francesi contro i tedeschi e dal 1877 in conflitto con gli inglesi. Il nuovo papa, Leone XIII (1878-1903), ribadì l’incompatibilità Chiesa/Massoneria nell’enciclica Humanus genus, nella quale (come già avevano fatto Lefranc, Barruel e altri autori cattomassonici) distinse tra i massoni “in buona fede” e i loro manipolatori: il Male non erano i singoli iniziati (da recuperare) ma la Massoneria, ontologicamente perversa. Nel 1892 il papa compì un passo decisivo: proclamò che per la Chiesa non è importante la forma dello Stato (monarchia, sino a quel momento privilegiata, o repubblica) ma la legislazione dei governi. Tese la mano alla Terza Repubblica francese, ove i monarchici avevano ormai perso definitivamente la partita. Gli scritti di Léo Taxil e di Domenico Margiotta negli stessi anni (1885-1896) screditarono la Massoneria profanandone i
rituali. Anziché temibile risultò ridicola e non seppe rispondere in modo convincente. In generale tacque per non ingigantire lo “scandalo”; ma in tal modo si rivelò debole. Dopo il Congresso antimassonico di Trento (1896), con tremila partecipanti, e l’auto-denuncia di falso da parte di Taxil, la Chiesa tacque. Il gesuita Herman Gruber ammonì che bisognava scegliere tra le congreghe settarie e l’unico ordine vero: la Chiesa cattolica. Gli attentati di quegli anni provavano che l’Europa intera era sotto attacco da parte dell’internazionale anarchica e che questa aveva l’obiettivo di scatenare il caos, ma non proponeva alcuna terapia: prometteva un “nuovo mondo” dal profilo nebuloso. Il codice di diritto canonico promulgato da papa Benedetto XV nel 1917 si occupò marginalmente della Massoneria. Ribadì la scomunica e, al tempo stesso, aprì le porte al ravvedimento: pentimento, confessione, penitenza; indulgenza ampliata nel 1925, anno giubilare. La Chiesa di Roma non fu l’unica confessione cristiana nell’OttoNovecento a vietare ai propri fedeli l’ingresso in loggia. L’Islam fu e rimane nettamente avverso alla Massoneria, sia per ragioni “politiche” sia per motivi fideistici: ciò che non è nel Corano è male, ciò che qualcuno vorrebbe aggiungervi è superfluo. Alcuni famosi “grandi iniziati” occidentali cercarono nell’Islamismo approfondimento e persino perfezionamento, anche per talune assonanze come l’esclusività dell’iniziazione maschile. Non consta però che le logge abbiano attratto islamici in cerca dell’Occidente, ovvero della marginalità delle credenze rispetto alla “religione nella quale concordano tutti gli uomini”. Per i musulmani l’Islam è irrinunciabile: la conversione non è solo apostasia ma reato perseguito da pene severe, inclusa la morte. La distanza incolmata tra Islamismo e Massoneria non significa affatto che le logge siano state o siano precluse a musulmani. Vari islamici si sono sentiti attratti dalle logge, sono stati e sono iniziati e ne fanno parte. Però, nella quasi totalità dei casi noti si tratta di intrecci di natura politica, dettati da opportunità nei rapporti tra colonizzatori e colonizzati e sono compatibili solo in logge rigorosamente ispirate ai principi originari della Costituzione di Anderson.
In molti casi storicamente documentati, l’ingresso in loggia configurò la doppia lealtà: fece da pedana per future guerre di indipendenza o per strategie politiche. È il caso dei Giovani Turchi ascesi nell’Impero Ottomano con un progetto di modernizzazione materiale: economia, armi, la corteccia burocratica dello Stato, senza però intaccarne il sostrato religioso identitario, come è emerso dalla catastrofe della Turchia attuale, ove la Massoneria non è affatto gradita. Non solo, proprio i Giovani Turchi, che molti massoni dell’Europa occidentale ritenevano frutto maturo della tolleranza liberomuratoria furono spietati artefici del massacro degli Armeni e di altre comunità cristiane nei confini dell’Impero Turcoottomano. Ancora più complesso è il rapporto tra Ebraismo e Massoneria. Altre religioni o “civiltà” (dal Giappone alla Cina all’India) sono indifferenti nei confronti della Massoneria, considerata una sub-cultura di un Occidente che non ha avuto molto di profondo da proporre e da insegnare. Contrasta con tale indifferenza la passione che molti massoni hanno messo nella ricerca di nessi fra la propria identità e le forme più ampie e articolate di spiritualità e di sperimentazione religiosa, sino allo sciamanesimo, ai dervisci rotanti e a tante altre forme di “ricerca” spazio-temporale, nella maggior parte dei casi lontanissima dai principi basilari della Costituzione di Anderson. Mentre per la vita della Massoneria nelle sue terre di origine e di radicamento poco rileva il benvolere di altri mondi, conta invece che l’attuale pontefice, Francesco, dal suo insediamento si è pronunciato due sole volte sulla Massoneria: poche parole di dileggio (l’ha definita una lobby) e di scostante condanna. La scomunica è in atto, come ha ricordato, a freddo, la pubblicazione del volumetto Dichiarazione circa le associazioni massoniche pubblicato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2015) e come lascia trasparire il silenzio nel quale sull’argomento è tornato il cardinale Gianfranco Ravasi dopo la pubblicazione dell’articolo Cari fratelli massoni in un importante quotidiano economico italiano. Nel terzo centenario della Gran loggia di Londra la posizione della Chiesa rimane quella di Clemente XII, mitigata con la lettera del cardinale Ferenc
Seper del 1974, ma riveduta e corretta con la Declaratio de associationibus massonicis (26 novembre 1983) firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, successore di Seper quale prefetto della Congregazione, e con la Nota “Riflessioni a un anno dalla dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede”, pubblicata dal quotidiano della Santa Sede L’Osservatore Romano il 23 febbraio 1985 previo esplicito placet del Santo Padre, Giovanni Paolo II. L’editoriale di La Civiltà Cattolica su “La Chiesa e la Massoneria oggi” chiuse il discorso così: “Vogliamo presentare questa sostanziale inconciliabilità, che è poi la chiave che apre l’intelligenza dei più recenti interventi ecclesiastici sulla materia”: un esplicito ritorno al magistero di Leone XIII, che per ora fa testo. Si può concludere che da secoli esiste un antimassonismo non “religioso” ma di “religioni” o, più correttamente, di Chiese, di organizzazioni ecclesiastiche. Riesce difficile infatti stabilire che cosa possa essere l’antimassonismo “religioso” per una questione di logica: poiché la Massoneria non è una religione, nessuna religione ha argomenti validi per negarne la legittimità. Se questo vale sul piano filosofico, su quello storico la realtà è diversa. La Massoneria è il bersaglio anche di chi non la conosce o ne ha una conoscenza distorta, non solo per causa propria ma perché la Massoneria stessa ne ha dato o consentito una visione infondata, errata e deviata. È il caso della confusione tra Massoneria ed esoterismo. Per quanto, appunto, riguarda le radici esoteriche dell’antimassonismo, la Costituzione di Anderson e Desaguliers non contiene alcun riferimento a una “filosofia della Massoneria”, a una ideologia politica, né, meno ancora, a un suo contenuto a carattere iniziatico o addirittura esoterico. I suoi membri vengono denominati “fratelli”, accettati all’interno della loggia. I loro lavori hanno norme semplici e chiare. L’esoterismo, inteso quale sapere misterico o occulto, riservato solo ad alcuni adepti e comunicato in forme riservate dal suo depositario a discepoli privilegiati, è estraneo alla Massoneria, fondata, anzi, sulla uguaglianza dei suoi componenti proprio sul terreno della Fraternity: la conoscenza di cognizioni scientifiche raggiunte con la ricerca – e quindi confutabili con ricerche ulteriori – e la loro trasmissione in forme limpide, comprensibili e condivise, anche attraverso i simboli.
Dall’uguaglianza nel sapere nasce anche quella della corresponsabilità dei massoni nel governo dell’Ordine, fondato sulla elettività delle cariche, secondo norme generali e regolamenti specifici. Il Venerabile della loggia e il Gran Maestro non sono depositari di sapere arcano, ma “amministratori” della comunità. In Massoneria l’esoterismo è una superfetazione posticcia rispetto alle regole originarie dell’Ordine, una vera e propria interferenza, che in molti casi l’ha snaturato avviandolo su sentieri sempre più remoti e pericolosi, facendone il campo aperto di scorrerie da parte di dottrine, scuole di pensiero, tradizioni sapienziali, riti ed esperienze estranee alla sua identità. E anche di molti ciarlatani. Molti l’hanno considerato il terreno più agevole per coltivarvi il settarismo, sia politico sia di altra natura: a tacere, naturalmente, della sua confusione con spiritismo, magia sessuale e altre “fantasie” che non hanno nulla a che vedere con la Libera Muratoria. L’esoterismo è la malattia infantile e senile della credulità. Ha contaminato tutte le religioni sedicenti rivelate, “del Libro”, e tutte le dottrine religiose, filosofiche, politiche ecc., perché i loro “amministratori” hanno sempre promesso (anzitutto a se stessi) di raggiungere una vetta più alta. Vale per tanti aspetti dell’esperienza umana: la certezza degli Angeli, il sonnambulismo, le rivelazioni, le visioni, le apparizioni, i fantasmi..., che non riguardano solo massoni in confusione, come Joseph de Maistre, ma la miriade di persone non rassegnate alla fine della vita e quindi in cerca di dialogo con l’“aldilà”.
Senza dubbio, dalla loro costituzione le corporazioni di mestiere, come poi le logge dei massoni operativi, tutelarono cognizioni riservate con misure ferree, indicate nei loro statuti. Il “segreto” riguardava però l’“arte” e la sua applicazione nella “Costruzione del Tempio” (come ricordato dalla Costituzione del 1723), non un insieme misterico soggiacente, una supposta eredità sapienziale trasmessa da Superiori Incogniti per via esclusivamente o prevalentemente orale. L’esoterismo trasformò la leggenda della “parola perduta” in una nuova “lingua di Babele”: il simbolismo, utilizzato in tutte le sue fantasiose e
filologicamente gratuite varianti. La Massoneria ne fece le spese perché venne sommersa da prestiti altrui e, salvo rari casi, vide compromessa la propria identità. L’esoterismo e il simbolismo costituirono pilastri portanti dell’avversione del pensiero moderno nei confronti della Massoneria e finirono per giustificare l’antimassonismo militante non solo dei poteri civili e delle Chiese fondate sul Libro, sulla patristica, sui Concili e su Codici di diritto canonico ma anche di pensatori così liberi che non si iscrivevano alle associazioni del Libero Pensiero, basate sul catechismo laicistico o anticlericale. Tra le forme più significative dell’esoterismo paramassonico ebbe particolare peso la leggenda delle origini religioso-cavalleresche dell’Ordine libero-muratorio enunciata dal cavaliere Michel (de) Ramsey nel 1737 e ripresa decenni dopo con l’ipotesi della sua presunta origine dall’Ordine dei Templari, prospettata dalla Stretta Osservanza. Entrambe le ipotesi sostituivano la modernità della Fraternity, cioè la tolleranza nei rapporti interpersonali almeno nell’ambito di circoli riservati ma non in contrasto con le leggi, con una missione del tutto diversa, universale, ma arcaica: la crociata. Ramsay, invero, spesso frainteso, propose i cavalieri crociati quali precursori della Massoneria per indicare la costruzione dell’unità del sapere, la futura Enciclopedia delle scienze e delle arti, capace di ricomporre la divisione tra le conoscenze in subordine alla specializzazione delle discipline e alla loro mercificazione. Il suo messaggio attecchì al di fuori delle logge, nella sfida culturale proposta dai Lumi proprio contro le fumisterie esoteriche. A differenza di quanto avveniva in Inghilterra, ove le logge rimasero indenni da infezioni misteriche, nel continente l’esoterismo dilagò proprio nelle file della Massoneria. Per comprenderlo occorre richiamare almeno due precedenti: il settarismo politico clericale contro le monarchie a suo avviso devianti (Enrico III di Valois, Elisabetta d’Inghilterra ed Enrico IV di Borbone) e il movimento di Porto Reale. Entrambi avevano diffuso l’inclinazione a intravvedere una verità ulteriore, sublime, al di là degli insegnamenti catechistici ordinari e a sperimentare pratiche mistiche per raggiungerla a costo di mortificazioni, dell’isolamento, del conflitto con lo Stato, del sacrificio della propria persona con pratiche oggi ripugnanti per la generalità delle persone (ma ancora in uso in certi ambienti “religiosi”).
Nel 1742 in Nouvelles Obligations et Statuts de la Très Vénérable corporation des Francs-Maçons de la Tierce insinuò che la Massoneria racchiudesse una dottrina segreta, riservata ai soli adepti, celata al di sotto dell’apparente “onestà” verso l’esterno. Poco dopo Perau pubblicò l’ancor più celebre libretto sulla Massoneria svelata e annientata. La Massoneria risultò, così, uno spazio aperto alle incursioni dei “cavalieri” più diversi. La Stretta Osservanza Templare andò oltre Ramsay. Propose la discendenza della Massoneria moderna dai Templari. Significava porla in implicito conflitto con la Chiesa di Roma e con i troni, in specie con quello di Francia, sorretto dal “patto di famiglia” fra gli Stati governati dai Borbone. Si comprende che la proposta potesse attecchire in Paesi prevalentemente riformati ed evangelici, mentre in Francia la monarchia era in grave affanno. Essa, però, aprì un conflitto destinato a durare nel tempo, anche all’interno della Massoneria. Il fallimento del Convento di Wilhelmsbad, indetto da Guglielmo di Brunswich proprio per accertare, documenti alla mano, l’ascendenza templare della Massoneria non mise fine alle polemiche. Esso lasciò dietro di sé l’illusione e il sospetto (due facce di una stessa medaglia) che davvero al di là della banalità della vita di loggia (un “gioco” nel Settecento dei salotti, delle accademie e delle società culturali, di ciarlatani e di memorialisti che scrissero non quanto fecero, ma quanto avrebbe incantato i lettori e soprattutto le lettrici: fu il caso di Giacomo Casanova) vi fosse ben altro: un piano politico-religioso universale. Poiché nessuno poteva impedirlo, le logge massoniche furono identificate con Saint Martin, Martinez de Pasqually, il mesmerismo, Swedenborg e – perché no?! – con il conte di Cagliostro e una quantità di avventurieri che proponevano di salire verso soglie sempre più remote per accedere al sapere iniziatico sublime, mescolando medicamenti d’accatto, scetticismo e credulità. Soprattutto in Francia nella seconda metà del Settecento si diffusero logge di adozione, Massonerie femminili e una fungaia di riti poi raccolti nel Tuileur général de la Franc-Maçonnerie ou Manuel de l’Initié contenant l’origine identique de l’Ecossisme et de Misraim, les nomenclatures de 75 Maçonneries, 52 Rites, 34 Ordres dits Maçonniques, 26 Ordres Androgyns,
6 Académies Maçonniques etc. et plus de 1400 grades (Parigi, 1861). Quella proliferazione non giovò alla credibilità della Massoneria. Altrettanto avvenne ai confini tra Francia, Germania e in Baviera, con un brulichio di invenzioni: Illuminati non Illuministi, un Illuminatismo contrapposto all’Illuminismo, come l’alchimia alla chimica e alla fisica appena albeggianti. Negli stessi anni in Italia vennero insediate comunità massoniche che fecero capo a organismi centrali esteri in declino. Fu il caso della Provincia della Stretta Osservanza, documentata da Pericle Maruzzi in opere pressoché esaustive. Nel decennio precedente la Rivoluzione del 1789 era ormai difficile distinguere tra la Massoneria originaria e le sue innumerevoli “imitazioni”. Queste erano ormai prevalenti, a parte la divisione e il conflitto tra diverse comunità, l’esoterismo aveva ormai creato una babele che suscitò diffidenza all’esterno e disincanto all’interno. La Rivoluzione accelerò la disgregazione. Dinnanzi alle “novità”, le comunità massoniche dei diversi Paesi reagirono senza alcun coordinamento né una visione unitaria, non per incapacità hic et nunc ma perché non avevano alcuna dottrina, nessun evangelo. La Massoneria inglese tacque. Molti suoi adepti, anche prestigiosi, come Edmund Burke, deplorarono quanto avveniva. L’Ordine imboccò la via che nel 1813 condusse alla costituzione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, formalmente libera da tentazioni esoteriche, fermo restando che ogni suo affiliato intraprende e percorre il cammino che preferisce, ma al di fuori della loggia e senza quindi metterne in forse identità e reputazione. Dal 1804 venne insediato a Parigi il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato, secondo in ordine di tempo rispetto a quello sorto a Charleston nel 1801, e ottenne il riconoscimento di legittimità da parte del Grande Oriente di Francia, sotto la tutela di Cambacérès, Arcicancelliere dell’Impero. La pluralità dei riti fece da copertura alla diffusione di nuove forme esoteriche miranti a dare contenuto al deludente formalismo delle tenute di loggia. A parte le manifestazioni di devozione spesso plateale nei confronti dell’imperatore, Napoléon de touts les Rites, esaltato quale “eroe dispensatore di felicità”, esse celebrarono un “naturalismo” neopagano, con
sfilate (o processioni) nelle quali venivano esibiti i simboli molto espliciti della riproduzione, come risulta dai loro Récits. Nel continente la Restaurazione soffocò la genuinità massonica originaria e impresse all’Ordine due indirizzi: uno politico, come ulteriormente diciamo, e uno esoterico. Il Rito di Memphis Misraim venne costituito a Parigi dopo il crollo definitivo dell’Impero napoleonico. Nel 1839 Etienne Marconis de Négre pubblicò L’Hiérophante. Développements complets des Mystères maçonniques, che ripropose la catena misteriosofica dall’Antico Egitto ai Greci, tra dottrina chiesastica e sapienza occulta, tra essoterismo ed esoterismo. Quest’ultimo era riservato alla ristretta cerchia degli Eletti, come ripeterono la Histoire pittoresque de la franc-maçonnerie et des Sociétés secrètes anciennes et modernes (Parigi 1843), tradotto in Spagna nel 1847 e a Buenos Aires nel 1860, ma letto anche in Belgio e in Italia. Da quegli anni entrò nell’uso il termine stesso di esoterismo, prima appena accennato. Se ne valsero anche molti autori italiani sia massoni o paramassoni, sia clericali e anche gesuiti. Tra fine Ottocento e inizio Novecento l’esoterismo paramassonico divenne prevalente rispetto alla regolarità, in linea, peraltro, con le tendenze delle arti, dalla poesia alla pittura e alla musica. Al positivismo si contrappose il misticismo nelle sue molteplici forme, incluso lo spiritismo che sembrava debellato dall’età dei Lumi. Del resto il ritorno a Tommaso d’Aquino, promosso da papa Leone XIII, venne sommerso dalle apparizioni, dal culto mariano e dall’industria dei miracoli che in Europa ebbe varie “centrali”, incluso il Santuario di Pompei, organizzato da Bartolo Longo, massone pentito (o ravveduto). Negli stessi anni, a parte l’istituzione dell’Ordine massonico Le Droit Humain, guidato da Marie Deraisme, che rispose alla urgenza di regolarizzare e/o inalveare le sempre più numerose richieste femminili di iniziazione, pressanti anche prima della guerra franco-germanica, dilagò la teosofia, parte innestata su logge, parte sorgente al di fuori della cerchia massonica, dal confronto, in termini nuovi, fra il Sapere Orientale (proposto in vari modi e termini, talora bizzarri) e lo sperimentalismo iniziatico premassonico occidentale.
L’Ordine dell’Alba Dorata, promosso da Madame Blavatsky, oscurò le comunità massoniche tradizionali con l’adesione di artisti, poeti, filosofi. Aleister Crowley, la Grande Bestia, vi aggiunse riti ispirati alla potenza sessuale, suscitando irritazione e riserve anche da poteri civili che preferivano fingere di non sapere se non si superava di troppo il confine delle leggi. Quale fu il limite esatto tra lo sperimentalismo poetico e l’esoterismo stupefacente di Gabriele d’Annunzio ai tempi della Reggenza del Carnaro e soprattutto dopo il suo definitivo ritiro dalla scena politica? Proprio l’attuale carenza di documentazione sui suoi pur accertati rapporti con Ordini massonici e correnti esoteriche indica che il suo archivio ha subìto una “pulizia” tanto mirata quanto ingenua: come quella praticata ai danni delle carte di massoni illustri da parenti timorosi. È emblematico il caso di Giovanni Pascoli, tra i più importanti poeti e letterati italiani del Novecento, massone rimasto preda di una sorella bigotta (Maria, detta Mariù). Nel Primo Novecento in tutta l’Europa continentale (e non solo) fermentarono nelle logge pulsioni esoteriche. Eduardo Frosini ideò una “nuova” Massoneria tradizionale, in relazione con una delle molte comunità spagnole. Arturo Reghini intraprese dall’interno il cammino verso la riscoperta del pitagorismo. Altri risalirono a pretese origini di una sapienza italica arcaica, mescolando avanguardia artistica, neopaganesimo e visioni cangianti nel tempo. Fu il caso di Jiulis Evola, tuttora circondato da fama durevole e da una sorta di culto. Anche per l’esoterismo paramassonico la svolta venne con la Grande Guerra. Milioni di famiglie in tutta Europa persero i loro parenti: figli, mariti, fratelli, amici, compagni di scuola, di lavoro, di loggia. Un massacro senza alcuna spiegazione plausibile e poco comprensibile per i Paesi che se ne tennero ai margini. La guerra di trincea e le grandi battaglie “dei materiali” (Verdun, Somme…) comportarono decine di migliaia di cadaveri abbandonati, prigionieri dalla sorte ignota, dispersi, inabissati nel mare in battaglia o per la guerra sottomarina. Significò anche la totale mancanza di notizie, l’attesa di un segnale, la speranza a tempo indeterminato. Come ricorda Yves Hivert-Messeca, le comunità massoniche europee non fecero nulla di rilevante per fermare la catastrofe e poco per rimediare. In
molti casi, anzi, incitarono a schiacciare la testa dei pacifisti come fossero serpi. Fu il caso dell’Italia, per ostilità nei confronti di papa Benedetto XV che aveva esortato a fermare la “inutile strage”. Molti parenti delle vittime del conflitto si rifugiarono nel misticismo, ancora ignorato dagli studi sull’esoterismo, che si occupava di giardini del Settecento, di antichi processi per l’accusa di stregoneria o di eresia (ricorrente il caso di Giordano Bruno, indebitamente assunto a modello massonico) e di altre derive extramoenia. L’eterodossia, il magismo, la superiorità dell’alchimia sulla chimica, dell’affabulazione sulle scienze ebbe e ha tre conseguenze principali. In primo luogo presenta un’immagine deforme della Massoneria (ne prende alcune schegge come fossero il tutto). Inoltre incrementa a dismisura la confusione tra l’Ordine e le sue imitazioni e contraffazioni. Infine, legittima sul piano polemico (se non su quello storiografico e scientifico) l’affermazione secondo la quale la Libera Muratoria ha due volti, in quanto è composta da due entità distinte e tuttavia coese o complici: la “corrente calda” (cioè la Massoneria “regolare”, inoffensiva per l’ordine pubblico e per gli equilibri tra gli Stati, impegnata nelle opere benefiche, riferimento ideale dei circoli di servizio, quali Rotary e Lions, impegnata negli studi e nella promozione del dialogo tra culture e civiltà, insomma ineccepibile) e quella “fredda”: con un piede nella rivoluzione, l’altro in culti trasgressivi, incluso il satanismo. Questo dualismo (o doppio livello?) è stato codificato in anni recenti da Massimo Introvigne, sociologo delle religioni. La sua, però, non è una interpretazione del tutto nuova. Riecheggia quella di Augustin Barruel, che a fine Settecento distinse tra le logge “ordinarie” (di cui, egli dichiarò, era stato membro) e le arrières loges, dedite alla cospirazione. Essa venne riproposta in forme più romanzate ma anche più efficaci da Léo Taxil a fine Ottocento ed è ripetuta dall’immensa letteratura incardinata sulla leggenda infantile della Loggia Propaganda massonica n. 2 (P2), solitamente descritta quale centrale di potere votata a creare disordini, attentati devastanti, colpi di Stato: chiacchiere prive di fondamento come dichiarato in sentenze definitive e tuttavia ancora credute e ripetute.
La “fiaba” della Massoneria prosegue, ovviamente, fino ai giorni nostri, ma da qui in poi la Storia è ancora in costruzione, nelle mani di tutti coloro che vorranno raccontarla in fede e verità, con uno studio storico-scientifico libero da pregiudizi, o solo usarla per alimentare l’immaginario collettivo…
Aldo A. Mola 86. La Massoneria come la conosciamo oggi, chiamata Massoneria moderna, nacque ufficialmente il 24 giugno 1717 con la Gran Loggia di Londra, pertanto nel 2017 l’istituzione massonica festeggia il trecentesimo anniversario.