Il senso in più


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QUADERNI DI FILMCRITICA 12/BULZONI

IL SENSO IN PIÙ di EDOARDO BRUNO

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

© 1981 by Bulzoni Editore 00185 Roma - Via dei laburni, 14

premessa

Ho raccolto alcuni scritti apparsi nelle varie annate di Filmcritica, tra il 1965 e il 1980, per delineare un primo ab­ bozzo di lettura del film, cercando di cogliere il nesso tra l’esperienza teorica e l’esperienza pratica. E verificare come sia possibile entrare dentro il discorso del linguaggio filmico, superando le facili suggestioni di un parlare apparente, senza peraltro invischiarsi in una sorta di “culto” dell’immaginario,

oggi di moda. Rielaborare una teoria sulla base di alcune proposte avreb­ be richiesto un ulteriore passaggio, dalla costruzione analitica alla individuazione di una sorta di “esperienza” del film, pro­ cedimento che a me pare essenziale per meglio cogliere le pertinenze, tra visione e immagine e tra immaginario vissuto e immaginario pensato: che è un momento di riflessione al quale sto dedicandomi nel tentativo di approfondire lo stu­ dio di un aspetto del visionario e la complessa articolazione dell’esperienza. Qui mi premeva rintracciare le premesse e ve­ dere se le coordinate della ricerca militante, svolta sulle pagi­ ne della rivista, avessero finito col coinvolgere quei procedi­ menti tra ideologia e semiotica del guardare moderno, per cui oggi la critica è partecipe dell’atto del film. Queste pagine, quindi, restano spunti, presupposti di studi ma anche individuazione di tendenze, elaborazioni di apporti 7

— Barbaro e della Volpe — che ancora continuano ad assu­ mere un ruolo preciso per la conoscenza del film. Sono pagi­ ne di testimonianza che allargano lo schema di lettura, dal linguaggio del film agli elaborati della tecnica elettronica, senza disperdere il concetto di opera, meglio di oggetto este­ tico, con tutte le polemiche che questa connotazione com­ porta. Non ultima la negazione di un collegamento meccani­ co con i fatti puramente sociologici e la conseguente riduzio­ ne del film a oggetto di culto.

Edoardo Bruno

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proposte

Popolarità come struttura del film

«Fondamentale per la scienza linguistica», scriveva Dittrich nel 1900 ’, «è che il linguaggio non è soltanto un problema di espressione ma anche di impressione, e che la comunica * zione fa parte della sua essenza». Nel film i legamenti delle immagini (montaggio) e le corre­ lazioni interne ed esterne che si stabiliscono, mutano il carat­ tere univoco della fotografia in un polisenso il cui significato è il contesto e la cui caratteristica è l’interpretabilità, che fonda, la sua essenza, appunto *, sulla comunicazione.. Nel film l'immagine fotografica cessa di essere una tautologia (una sedia e la sua riproduzione) e acquista, con ¥ impressio­ ne di movimento, i tratti di un segno complesso, alla cui de­ finizione partecipa lo spettatore; e cessa pure di essere un dato che si impone per la sua presenziatiti, per acquisire i caratteri di una correlazione dialettica tra oggetto e pensiero. Nell’analisi condotta sulla retorica dell’immagine, Barthes 1 2* distingue la fotografia dal cinema, sottolineando la sostanzia­ le differenza tra ì'essere-stata-là propria della fotografia e il presentarsi in atto del cinema. Ma già Balàzs 1 aveva sottoli­

neato questo tratto caratterizzante quando scriveva: «Le im­ 1 O. Dittrich, Die Probleme der Sprachpsychologie, Berlin 1900. 2 R. Barthes, Rhéthorique de l’image, in «Communications» n. 4, Pa­ ris 1964. 1 B. Balàzs, Il film, Torino 1952.

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magmi filmiche riflettono, per così dire, soltanto il presente, solo dò che accade in un certo momento; non possono esprimere né il passato né il futuro. Nell’immagine in sé, non esiste alcun elemento che possa illuminata con esattezza ma­ tematica sulle cause o sulla formazione de! contenuto. Nell’immagine cinematografica si vede unicamente dò che accade dinanzi ai nostri occhi». Le immagini fotografiche rappresentano dunque il passato, sono la irrealtà reale (Barthes), che esclude ogni presenza at­ tiva (e interpretativa) dell’uomo, mentre l’immagine fìlmica rappresenta \'accadimento, coglie l’impressione metonimica di un muoversi che include ogni possibile modificazione; e rap­ presenta anche l’aspetto che «sfugge» alla superfìde, quello che Kracauer chiama della «realtà fisica». «Registrando ed esplorando la realtà fìsica, il cinema rivela un mondo prima mai visto, un mondo che sfugge, esattamente come la lettera rubata di Poe, invisibile proprio perché alla portata di tutti. Non parliamo qui naturalmente di quelle estensioni dei mon­ do quotidiano di cui si è appropriata la scienza, ma del no­ stro solito ambiente fìsico. Per quanto possa apparire strano, pure avendole costantemente sotto gli occhi, strade, volti, stazioni ferroviarie erano state finora per noi pressoché invi­ sibili.» 4. Ma la distinzione tra fotografìa e cinema non convince Brandi, che obietta che l’analisi di Barthes è stata esperita sulla recezione della fotografìa come presa d’immagine e del­ la fotografìa come restituzione di un’immagine in movimento nella sua durata temporale; mentre «dal punto di vista strut­ turale, interessa a noi di colpire fotografìa e cinema all’atto del prelievo dell’oggetto» J. Tuttavia accoglie l’aspetto di creazione artistica, accettando che nel cinema più avanzato si 4 S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà, Milano 1962. 1 C. Brandi, Le due vie, Bari 1966.

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produca «un intervento diretto di interpretazione da parte dello spettatore, per cui-la vicenda si offre a essere manipo­ lata interiormente in vario modo e non accettata in una dire­ zione unica come la presentava la tradizione secolare del tea­ tro, del romanzo, del cinema stesso». La possibilità di interpretazione da parte dello spettatore delPimmagine filmica esclude la presenziatiti impositiva della realtà (inerte) rappresentata. Entra cioè tra l’oggetto e la sua rappresentazione quello scarto di intenzionalità differenti, che contraddice anche la teoria della suggestività delle imma­ gini, avanzata da Munier. Munier accomuna fotografia e ci­ nema, per quanto riguarda questo aspetto impositivo e ritie­ ne che la potenza esercitata dalle immagini, accompagnate con il movimento, sia totale. «La coscienza affascinata rima­ ne come inghiottita da questo fiotto del reale che si muove. Una fotografia può ancora essere contemplata, ma l’immagi­ ne in movimento perpetuamente ricreata non permette di ti­ rarci indietro. Il mondo si impone allo spettatore con una forza irresistibile, quasi con brutalità» *. Munier rifiuta il valore polisemia) dell’immagine filmica e la sua particolare complessità alla cui definizione partecipa in maniera creativa lo spettatore; trascura il collegamento tra immagini e pensiero, che esclude questo restare assente dello spettatore, che invece è, in ogni momento, chiamato a sce­ gliere e a comprendere i nessi di un continuo processo di mutazione. Sottolinea la fascinazione esercitata dall’immagine e ritiene irresistibilmente conclusa la sua definizione come oggetto-che-si-impone. Ma «l’immagine in movimento» ha una sua non-finitura che richiama — per analogia o contra­ sto — altre immagini che sollecitano il processo dialettico, escludendo una tale «brutalità» impositiva. Quando Rosselli­ ni segue con il suo occhio il cammino del piccolo Edmund di ♦ R. Munier, Cantre l’image, Paris 1963.

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Germania anno zero per le strade bruciate di Berlino, regi * strando le sue reazioni infantili anche di fronte alla morte, ristabilendo un contatto immediato tra le cose e il pensiero, richiede un nuovo procedimento di partecipazione allo spet * tatore. Lo spettatore «nuovo» (parafrasando un concetto sartriano) vive il mondo nuovo che contribuisce a creare. «La preoccupazione di Rossellini», scrive Bazin 7*, «davanti al viso del ragazzo di Germania anno zero è assolutamente opposta a quella di Kuleshov davanti al primo piano di Mosjukin». Rossellini si rimette alla libertà di scelta dello spettatore, Ku­ leshov alla teoria dei riflessi condizionati. L'esperimento di Kuleshov, che di volta in volta montava alla sequenza di un attore che guarda fuori campo, varie im­ magini (un piatto di minestra, una bara con una donna mor­ ta, una bambina che gioca) per dimostrare come forzatamen­ te queste finivano col conferire diverse espressività * è rac­ contato da Pudovkin come procedimento tipico del cinema per frantumare la recitazione teatrale e evidenziare l’impor­ tanza dei dati oggettivi. Ma in pratica finisce per diventare un procedimento per controllare una serie di emozioni, sug­ gerendo un potenziale codice di azioni e reazioni. Il valore deH’esperimento di Kuleshov resta come contributo storico, ma su quella linea si corre il rischio di una disumanizzazione del film. «La corsa», aveva detto Hitchcock in una intervista ’, «co­ stituisce l’espressione culminante del mezzo cinematografico»; si riferiva ai film comici primitivi, dove l’inseguimento e la

7 A. Bazin, Qu'est-ce que le cinémaf l. Ontologie et Language. Paris 1958. * V. Pudovkin, La settima arte, Roma 1961. * A. Hitchcock, intervista in «The New York Time Magazine», 20 ottobre 1950.

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fuga costituivano il momento più alto della composizione, ma anche a un modo diverso di concepire la funzione espres * siva del cinema, con l’occhio incollato al personaggio «inse­ guitore» di fatti, in una realtà immaginaria, libera di ricom­ porsi nella fantasia dello spettatore. Il cinema moderno si è appropriato dell’inseguimento, metaforicamente, ne ha fatto il gesto abituale di una poetica, che ripropone il ritorno alle cose ricreando un suo universo fantastico, senza imporre la sua presenzialità, ma lasciando in ogni momento libera l’in­ terpretazione. Lo sguardo prolungato della macchina da presa sposta l’at­ tenzione dail'elemento spazio all’elemento tempo, provocan­ do un affiorare delle caratteristiche meno appariscenti del personaggio, rivelando una gestica particolare e registrando trasalimenti improvvisi. Le esperienze del passato vengono riassorbite mutando i tempi brevi in sequenze più lunghe che alternano i piani spezzati di un volto con le panoramiche o le lunghe riprese di personaggi invitati liberamente a parlare, a svelarsi in una dimensione temporale abnorme, per la nor­ male dimensione del film. Viene cosi ridata una funzione creativa allo sguardo della macchina da presa (imparando a sfruttarne meglio le possibi­ lità tecniche, la profondità, la durata) nella costruzione di un immaginario capace di significati nuovi e di imprevedibili in­

terpretazioni. Rossellini aveva scritto l0: «un film deve essere ben rac­ contato, è il meno che ci si possa attendere da un uomo di cinema, ma una sola inquadratura non deve essere bella. La sola cosa che importa è il ritmo, e il ritmo non si impara: lo si porta con noi. Io non credo all’importanza della scena sin­ gola; essa si risolve, si compie sempre in un punto. In gene10 R. Rossellini, Dieci anni di cinema italiano, in «Filmcritica» n. 52, settembre 1955. Ora in R.R., Bulzoni 1978.

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rale ci si compiace di sviluppare questo punto. Per quanto mi riguarda, io penso che così facendo dal punto di vista del risultato drammatico si sbaglia. Il neorealismo consiste nel seguire un essere, con amore, in tutte le sue scoperte, in tut­ te le sue impressioni. Questi può essere un individuo picco­ lissimo, sotto qualcosa che lo domina e che, a un tratto, lo colpirà irresistibilmente nel momento preciso in cui egli si trova libero nel mondo, senza aspettarsi alcunché. Ciò che importa a me è questa attesa; è questa, che deve essere svi­ luppata, mentre la chiusa deve restare intatta. Consideriamo, per esempio, la pesca del tonno in Stromboli. Per i pescatori è l’attesa sotto il sole; poi essi dicono tocca, tocca... perché hanno gettato le reti e bruscamente l’acqua si anima e la morte coglie i tonni. È il momento finale della scena. Allo stesso modo la mone del bambino in Europa ’SI. C’è stato il tentativo di suicidio, il bambino si è ripreso, tutto è tran­ quillo; ma d’improvviso, al momento in cui era impossibile aspettarselo, il bambino muore. Naturalmente questa attesa si manifesta nei miei film attraverso il movimento, giacché il mio lavoro consiste solamente nell’accompagnare il personag­ gio. Di solito, nel cinema tradizionale, si compone una scena in questo modo: in campo totale si determina l’ambiente, si scopre una persona, ci si accosta a essa; un campo medio, un piano americano, un primo piano, poi si comincia a rac­ contare la storia del personaggio. Io procedo esattamente nella maniera opposta: un uomo si sposta e seguendo il suo movimento si scopre l’ambiente dove egli si trova, lo comin­ cio sempre da un primo piano, mentre successivamente il movimento di macchina che accompagna l’attore scopre e in­ dividua l’ambiente. A questo punto si tratta di non abbando­ nare più Fattore e questi effettua dei movimenti complessi. Scelgo gli attori solamente in base al loro aspetto fisico. Si può scegliere uno qualsiasi dalla strada, lo preferisco gli in­ terpreti non professionali, purché vengano senza idee precon-

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cene. Guardo un uomo nella sua vita, lo fisso nella sua me­ moria. Quando si trova dinanzi all’obiettivo è completamen­ te smarrito e tenta di recitare; è ciò che bisogna evitare a ogni costo. Quest’uomo compie dei gesti, sempre gli stessi; sono gli stessi muscoli a lavorare; ma davanti alla camera si paralizza, si dimentica di se stesso — se pure si conosce — crede di essere diventato eccezionale per la ragione che lo meneranno in un film. 11 mio lavoro consiste nel riportarlo alla sua vera natura, nel ricostruirlo, rappresentandogli i suoi gesti abituali». Ritrovare i gesti del personaggio significa per Rossellini operare una indagine meta-fisica e riprodurre il trasalimento o stati quali la paura, la fame, la gioia, senza sfruttare mec­ canicamente gli effetti esterni. Quella che è una delle mag­ giori difficoltà del linguaggio cinematografico, e cioè la pos­ sibilità di rendere dei concetti astratti, viene superata con l’identificazione nel personaggio. Questa tendenza del cinema contemporaneo di giungere con vari mezzi a superare la realtà per arrivare a un appro­ fondimento del personaggio, ubbidisce a un’esigenza antro­ pologica. Uno degli aspetti principali del cinema contempo­ raneo infatti è quello di inseguire le ragioni finzionalì, in una ricerca condotta dentro e fuori la realtà dei fatti e di esami­ nare, fino alle estreme conseguenze, come da un potentissi­ mo occhio, i rapporti che ci collegano e ci legano all’immagi­ nario. Una dopo l’altra sono cadute le artificiose pareti della vecchia commedia, della convenzione delle ipotesi prima de­ scritte e quindi filmate, e il discorso si è spostato, dalla no­ stra realtà osservata negli aspetti interiori, motivati o segreti, alle più piccole incrinature, cosi che è piuttosto un risvolto dal quale la storia può riprendere l’avvio. Lo smarrimento di Irene in Europa ’SI come l’itinerario di Nanà in Vivre sa vie sono un’analisi antropologica di un meta-reale. La dissimula­ zione, l’allusione, il suggerimento non sono che tecniche per

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aggredire l’oggetto, per meglio scoprirne la razionale o irra­ zionale logicità. Quando si parla di personaggio o personaggio-vicenda si prende atto della necessità di rompere gii schemi e le conven­ zioni non tanto dalla apparente struttura narrativa quanto di quella convenzionale che relegava al ruolo di personaggio so­ lo una falsa ipotesi di verità. La costruzione di un cinema moderno nasce dal personaggio perché parte dallo sguardo oggettivo e soggettivo che il personaggio ripete sulle cose abituali, sui segni tangibili di una sua presenza, su quanto reifica, appropriandosene. La necessità di partire dal perso­ naggio porta l’autore, tramite l’uomo-personaggio, a compie­ re la sua scelta, a restituire allo sguardo la sua capacità di vedere. Viene ribaltata cosi quella convenzione elementare che passa ancora oggi per psicologia, I conflitti d’anima o drammi borghesi sono generi che girano a vuoto perché ne è decaduto il presupposto, l’abitudine di riguardare il perso­ naggio come ipotesi di questa falsificazione. Il personaggio come punto di partenza è invece il momento naturale di un ordine da indagare o costruire, l’oggetto per una analisi sog­ gettiva o il soggetto per una analisi oggettiva sulle cose. Il personaggio è dunque la vicenda-, o viceversa la vicenda è il personaggio, l’asse, cioè, di una determinata ricerca. La struttura di un’opera che tendenzialmente si pone in questa dimensione parte dallo «sguardo concreto», dal bisogno di sostituire i meccanismi spontanei e polisensi della fiction alla normatività di meccanismi organizzati sulla base dell’espe­ rienza esperita o di un codice di maniera. Se i punti di vista con i quali si può riguardare l’oggetto sono infiniti, infiniti sono pure i rapporti che si possono in­ staurare con l’oggetto e infinite le variazioni. L’autore trami­ te il personaggio-vicenda osserva, guarda, partecipa; non propone una dimostrazione, mostra quello che accade, lascia che la realtà si compia distruggendo la falsa dicotomia tra 18

teoria e pratica. L’eroe come modello di comportamento era conseguenza di questa dicotomia. Ma il personaggio di Irene di Viaggio in Italia o quello di Èva nel film omonimo di Lo­ sey, non sono «eroi»; vivono fuori da ogni definizione preco­ stituita, presentandosi in uno spazio e in un tempo che si compiono nel momento stesso in cui vengono presi in consi­ derazione. Tempo e spazio non sono più dati astratti ma esi­ stono solo in quanto definiti in rapporto al personaggio. Co­ me ha scritto Rossellini, «un uomo si sposta e seguendo il suo movimento si scopre l’ambiente» 11. Con l’attenzione al personaggio si ripropone un nuovo modo di intendere il montaggio nella linea dell’evoluzione tracciata dalla storia del film. La progressione teorica di Pu­ dovkin è nota; da base estetica del film (1928) il montaggio diviene via via composizione, pensiero, idea; «l’evoluzione del montaggio è la via dell’avvenire per l’arte del film» 12 (1946). Bazin aveva osservato che il montaggio gioca un ruolo «negativo» anche nel cinema muto, servendo come mezzo di «sottrazione» di un materiale troppo abbondante. Il regista toglie con il montaggio quel «più» che l’occhio del­ la macchina da presa vede disordinatamente; Stroheim è in­ dicato come colui che maggiormente si è opposto agli artifici del montaggio, potendosi «immaginare, al limite», scrive Bazin ”, «un suo film come composto di una sola inquadra­ tura lunga e ravvicinata». Era cominciata la fase dei tempi lunghi e già la profondità di campo dei film di Welles e di Wyler faceva parte non tanto del bagaglio tecnico di un ope­ ratore (Gregg Toland nel caso) quanto di un arricchimento capitale della regia, un progresso dialettico nella storia del linguaggio filmico. Ma profondità di campo, tempi lunghi

” Ibidem. 12 V. Pudovkin, op. cit. *’ A. Bazin, op. cit.

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nella ripresa, intere sequenze rivolte a ottenere oltre una ri­ cerca temporale, un nuovo spazio ristrutturato attorno al personaggio, non annullano l'esistenza del montaggio tra gli elementi primari. Recuperando la concezione di Kuleshov che nei pezzi filmati vedeva le parole e nel montaggio l'ele­ mento creativo, Welles 14 dichiarava che «il montaggio è il solo momento in cui il regista controlla completamente la forma del suo film. Quando giro, il sole determina qualcosa contro cui non posso lottare; l'attore fa intervenire qualcosa a cui sono costretto ad adattarmi; la trama anche; e io non faccio che cercare in qualche modo di dominare gli eventi. L'unico posto dove però esercito il mio potere assoluto è la sala di montaggio: per conseguenza è proprio allora che il regista può essere, in potenza, il vero autore». Stroheim impressionava migliaia e migliaia di metri di pel­ licola con il solo intento di poter disporre di materiale da montare. Se la osservazione di Bazin i giusta lo è solo para­ dossalmente in quanto mette in evidenza il carattere di osser­ vazione dilatata che tutti i film di Stroheim hanno. Qualcuno ha detto che i film di Stroheim danno l’impressione di essere una dilatazione delirante delle trame tipiche dei film degli anni Venti. «Tutto si svolge come se, partendo dal riassunto in forma di cineromanzo di un film standard, Stroheim lo nutrisse, lo gonfiasse» ,s. Ma questo bisogno di penetrare a fondo dentro la realtà per rovistarla, metterla a nudo, rap­ presentarla totalmente, si attua attraverso la ricostruzione di un universo fantastico, ricreato partendo dall’immagine pluri­ ma della realtà. Ne deriva l’impiego del montaggio non solo come momento negativo ma come momento creativo. Il di­

14 O. Welles, Entretìen auec O. W., in «Cahiers du cinéma» n. 84, 1958. ’* B. Amengual, Stroheim entre la légende et l’histoire, in «Études cinématographiques» nn. 48-50, 1966.

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scorso tra Nanà e Brice Parain in Vivre sa vie è una dilata­ zione del tempo nello spazio fisico; è la pausa che determina la durata, il ritmo, il respiro. La conversazione sulla memo­ ria, sul tempo e sul ricordo di La femme mariée aiuta Fanalisi del personaggio, e l’elemento montaggio diviene, per un concreto traslato, il personaggio stesso. In The Rope di Hitchcock la costruzione del film è divisa in due soli blocchi. La macchina da presa, anticipando la tecnica televisiva, se­ guiva ininterrottamente i personaggi nel chiuso della stanza dove Stewart cercava di capire, psicologicamente, la situazio­ ne, data in partenza, di un omicidio; ma anche quello sno­ darsi progressivo, sinuoso, drammatico del lungo sguardo in­ collato ai personaggi, era inseguimento, cioè montaggio rav­ vicinato, eseguito in partenza dagli stessi attori. Era il loro incrociarsi, riguardarsi, sospettarsi, difendersi che proponeva la scelta di una forma stilistica, che suggeriva una struttura realizzantesi nel momento stesso in cui si proponeva. «L’im­ magine — la sua struttura plastica, la sua organizzazione nel tempo — proprio perché si appoggia su un maggiore reali­ smo, dispone di molti più mezzi per piegare e modificare, dall’interno, la realtà»; l’osservazione di Bazin, anche se im­ propria per quel «maggior realismo» dell’immagine, prelude l’esigenza di un cinema sperimentale, che, apparentemente, si arresta alla definizione, ma modifica la significazione al di là del dato testuale. IL significato di ogni organizzazione di immagini (sequenza) sarà diverso se lo si riguarda in relazione al suo contesto o fuori dai sistema in cui è inserito; ma non per questo cesserà di avere un suo significato interno, che ripete dalFautore la sua ragione stilistica. Il cinema diretto e lo sperimentalismo contribuiscono, al di là dei possibili equivoci, a una strutturazione o ristruttura­ zione del linguaggio. Lo sperimentalismo elabora una forma che tende a diven­

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tare una struttura, un facto propedeutico a un altro, per arri­ vare a nuove forme di linguaggio. «Infiniti cambiamenti di ritmo o l’improvviso inserimento di allitterazioni, metafore, simboli o qualsiasi soluzione di continuità introdotti nella struttura del film consentono di fermare l'attenzione dello spettatore non solo a vedere e ad ascoltare, ma a partecipare a ciò che si viene creando sullo schermo, sia sul piano narra­ tivo che introspettivo. I meravigliosi paesaggi dell’emozione, dai colori più vivaci di quanto lo spettatore abbia mai visto, cominciano a esistere. L’urto degli incontri, delle strette di mano, dei baci e le ore .senza di essi, si rivelano in tutta la loro stupefacente semplicità e si scopre una scala di valori totalmente nuova che crea una ricca, potenziale forma narra­ tiva nel cinema». Secondo Markopoulos, che è fra i più in­ telligenti sperimentalisti del gruppo del New America Cine­ ma, la narrazione fìlmica trae profitto da queste esperienze, da nuovi modi di sorprendere la realtà che vengono verificati e proposti alla interpretazione dello spettatore. È interessante constatare questa ricerca del coinvolgimento proprio da parte di chi opera in campo apparentemente chiuso. Ricerca che sottintende una volontà comunicante, un bisogno di stabilire una complicità per significati non univoci. Del resto la co­ stante preoccupazione di Paul Klee “ non era stata quella di una intesa comune, di una esigenza di stabilire dei contatti comunicanti? «Deve ben esistere un terreno comune a profa­ ni e artisti», scriveva, «un terreno sul quale sia possibile un incontro, sul quale l’artista cessi di apparire un estraneo. E appaia invece come un essere che al pari di voi, non richie­ sto del suo parere, è stato gettato in un mondo proteiforme, in cui bene o male gli tocca raccapezzarsi. Un essere che dif­ ferisce da voi, solo perché sa cavarsi d’impaccio coi soli suoi specifici mezzi». •• P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Milano 1959.

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Al personaggio si può ricondurre l’inseguimento, la frantu­ mazione e la ricomposizione di un tempo e di uno spazio, in un accadimento i cui valori non precostituiti lasciano un mar­ gine di ambiguità che conferma il senso plurimo deirinterpretazione. Del resto significativo del cinema moderno è proprio questo suo saper essere ambiguo, lasciando che gli avvenimen­ ti accadano come per la prima volta, senza voler imporre un giudizio (mostrare e non dimostrare). L’ammutinamento dei marinai ne La corazzata Potemkin di Ejzenstejn e i sottili ra­ gionamenti sul vestire e sulla moda di Luigi XIV ne La prise du pouvoir di Rossellini, sono esempi di fatti riproposti nel lo­ ro accadimento, non imposizioni e giudizi precostituiti. Lo spettatore ritrova, in questo modo ambiguo, interpreta­ bile, della fiction, lo straniamente che Brecht, in teatro, per­ segue col tener separate la verità dalla rappresentazione. Nel cinema l’effetto di straniamente si ottiene quanto più quel che viene mostrato appare vero. La verosimiglianza poggia su questa apparenza del vero, redama la finzione come pun­ to di riferimento per una costruzione ipotetica, fuori del rea­ le, possibile ma fantasticante. L’immedesimazione tra attore e personaggio porta in teatro alla mancanza di disucco, alla identificazione realtà-illusione, alla suggestione; nel film por­ ta alla definizione di un atteggiamento critico, al recupero del giudizio come interpretazione (critica) del dato. Nel film, Jean-Marie Patte è Luigi XIV; e quanto più questa conven­ zione appare vera unto più lo spettatore saprà trarre dalle immagini proposte il «tempo storico», la riflessione che gli conviene. I marinai ammutinati de La corazzata Potèmkin, chiamati a rapporto sulla tolda della nave e costretti sotto un tendone per non conursi e acquistare coscienza del loro numero, sono una falsificazione storica: in realtà l’episodio è stato inventato di sana pianta 17. Ma, come osserva acuta­ 17 U. Barbaro, Poesìa del film, Roma 1955, p. 185.

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mente Barbaro, l’invenzione diviene più vera della stessa real­ tà, proprio perché l’episodio appare vero. La forza coesiva per l’autore resta questa certezza che il suo personaggio (o i suoi personaggi) possa compiere con l’oggetto tutti quei possibili rapporti che sono la realtà acca­ dente nei suoi molteplici significati. «Più vado avanti nel mio mestiere», diceva Renoir, «più sono indotto a concepire la regia come un andare in profondità, in rapporto allo scher­ mo». L’identificazione tra attore e personaggio muove dalla riflessione che il personaggio è quei che appare; che la sua realtà fisica è quella rappresentata. Per questo motivo «net cinematografo un giudizio sulla rappresentazione colpisce inesorabilmente anche il testo. Dire, per esempio, che quel personaggio sarebbe apparso più coerente nelle spoglie di Ri­ chardson che di Laughton», come scrive Ciarletta1*, «signifi­ ca rigettare totalmente, su questo punto, il racconto cinema­ tografico», poiché il personaggio è elemento primario nell’elaborazione della struttura filmica. È il tramite attraver­ so cui si esprimono le ragioni espressive dell’autore. Si è già detto che nel cinema il personaggio-vicenda ha fat­ to decadere la struttura convenzionale del film, le artificiose pareti della commedia. Ma c’è un tipo di film, ugualmente interessante, che utilizza queste convenzioni, accettandole nella loro funzione di tramite, come mezzo comunicante, cioè il «genere». L’autore può servirsi degli elementi costanti del genere prescelto per individuare il pubblico cui tenden­ zialmente rivolgersi e della sua struttura mobile — suggeri­ mento, allusione, polisenso — per definire una sua ipotesi. Arthur Penn con Bitty the Kid ha scelto il «western»; la re­ cezione del film ha mostrato la fragilità delle stesse definizio­ ni. Eppure non può negarsi l’esistenza della struttura del «ge­ nere» nel film. Il bisticcio è apparente. In realtà il «genere» 11 N. Ciarletta, Cinema, teatro, romanzo, in «Filmcritica» n. 6-7, giugno-luglio 1951.

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western ha dato l’opportunità a Penn di liberare l’eroe dalla convenzione restituendo verità a un personaggio che la leg­ genda aveva «distrutto». La tradizione orale di Billy the Kid aveva distorto la consistenza «fisica» del personaggio; ne aveva operato una deformazione, togliendo all’eroe il senso di una dimensione alterna. Aveva fissato, cioè, il carattere violento dei bandito escludendo l’elemento melico del canto, della tristezza, della malinconia, il carattere della sua solitu­ dine, l’ambiguità dei modi, i difficili rappòrti con gli altri. È questa una deformazione tipica della tradizione, al mo­

mento del passaggio dalla fase popolare a quella populista. Nei canti popolari il polisenso è insito. Le varianti non sono altro che la rappresentazione fisica di un significante almeno bi-senso, bene e male, amore e odio, nascita e morte. Nella letteratura populista (che resta sostanzialmente di iniziativa borghese ma che — come annotava Gramsci — per quelle astuzie della natura, può anche rappresentare una fase neces­ saria di transizione e un episodio dell’educazione popolare indiretta) i modelli popolari vengono alterati a favore di una fissità degli schemi e, perdendosi il significato ambiguo, resta definito il motivo centrale e più appariscente, quello che dà all’eroe un significato univoco, un comportamento-simbolo. Arthur Penn ha restituito al personaggio un suo spessore polivalente e non si è accontentato della leggenda populista, che tramandava Billy il Mancino come un eroe della violenza gratuita; come Nicholas Ray non si era accontentato della leggenda su Jessie e su Johnny Guitar. Ma più intensamente di Ray, che aveva badato nei due film {La vera storia di Jes­ sie il bandito e Johnny Guitar) a costruire una serie di solidi momenti filmici, accennando solo tangenzialmente al perso­ naggio, Penn scandaglia nel fondo del suo eroe, rilevandone verità e umanità, disperazione e rabbia. 11 «gesto» di Billy, ** A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1950.

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tratto dalla leggenda, è restituito al modello, recuperandone gli aspetti contraddittori. Cosi il «genere» western è servito a Penn per «comunicare» una sua ipotesi e fornire un materiale ricco di allusioni e di più significati. I generi possono costituire allora un momento essenziale del discorso sulla comunicazione. Il giallo, l'avventuroso, il cappa e spada, non sono che estensioni di un unico concetto selezionatore, di un mezzo per individuare il pubblico poten­ ziale e farsi individuare. Così, sviluppando i «generi», l'indu­ stria cinematografica ha messo in atto un meccanismo sele­ zionatore già collaudato dalla letteratura e dal teatro dell’Ottocento, come capace di raggiungere una comunicazione ef­ fettiva. È naturalmente nel cinema americano che il «genere» trova la sua epopea. Hitchcock è l’autore che ha usato il «genere» suspense con più ambiguità, riflettendovi tutte le sue con­ traddizioni. Basta l'esempio già citato di The Rope per spie­ gare lo stile di questo narratore netto, addirittura ossessiona­ to dal racconto del fatto, senza sbavature e contorni. L’azio­ ne si svolge tutta dentro una stanza e procede lentamente con il tempo reale sino a innalzare una sorta di costruzione metafisica della realtà, divenuta simmetrica come una tela di Mondrian. Le volute della psicologia dei due giovani Oxford boy esaltati dall’amicizia di collegio, da idee nietzschiane del super-uomo, vengono perfettamente rese in un gioco di chia­ roscuro. Il buon senso di un professore abbastanza scaltro per non prendere sul serio certe storture filosofiche scioglierà il nodo del delino nascosto e confermerà la responsabilità della libertà individuale. La morsa dialettica è tradotta in una morsa figurativa, dove ogni cosa acquista superfici nuo­ ve, e porta alla scoperta di una realtà, che è finzione, pro­ prio dove più ogni elemento sembra essere ben provato nella sua veridicità. Si è visto come tutti gli elementi della struttura del film 26

tendono alla comunicazione. Per Schonberg 20 «la forma nel­ le arti e specialmente in musica, mira soprattutto alla com­ prensibilità». Nel cinema la forma ha dato un contributo no­ tevole alla costruzione di un discorso comunicante, sia attra­ verso la riproposizione dei «generi», sia soprattutto attraver­ so la continua ristrutturazione dei linguaggio. Dreyer e Go­ dard non solo coesistono criticamente ma recuperano — co­ me presenze estreme — il classicismo nella modernità e la modernità nel classicismo. La nitidezza figurativa, l'ordine espressivo, ancor più delle discendenze letterarie e filosofiche, che è possibile riscontrare in Dreyer, si discostano dalla ricerca «letteraria» o «teatrale» del film convenzione, sono i segni significanti di una impressione linguistica. Nelle loro opere, la parola e l'immagine dilatano il senso di una parte­ cipazione fisica a una realtà non fenomenologica ma immagi­ naria, per respingere ogni forma di epoché e cercare, al con­ trario, di «mutare» il reale. Lo stesso rifiuto di una messa tra parentesi della realtà contingente muove Godard, nella ri­ cerca dei segni della quotidianità. I titoli dei giornali, le frasi di pubblicità, i frammenti di una cultura di massa, sono tutti elementi che entrano nella composizione con precise finalità espressive. Per arrivare alla mutazione, e quindi alla critica, bisogna partire dallo scandaglio della realtà per «rinvenire i nessi causali della società», come diceva Brecht21, «e sma­ scherare i punti di vista dei dominati come i punti di vista dei dominatori»: ma quel che occorre è fisicizzare l'immagi­ nario. Quando Godard afferma: «questo momento universale del­ la presa di coscienza degli uomini, che è la guerra del Viet­ nam, va verificato qui da noi», si propone una indagine più24 24 A. Schonberg, Stile e idee, Milano 1960, p. 162. 21 B. Brecht, Popolarità e realismo, in P. Chiarini, L’avanguardia e la poetica del realismo, Bari 1961, p. 131.

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sottile delle ragioni da effettuarsi in tempi, luoghi e modi del tutto liberi ed è un riconoscimento del valore conoscitivo che il cinema e i suoi film hanno nei suoi stessi confronti. Così il cinema è entrato nel bagaglio della nostra conoscen­ za,' e i giovani autori, più degli altri, ne risentono l'influenza dominante. Non ci si accosta più al cinema come fatto occa­ sionale, prendendo a prestito dagli altri fenomeni culturali mo­ duli espressivi o contenuti, ma si arriva ai film «formati» di cultura cinematografica. «Fare dei film» diventa un modo di comprendere la realtà, uno stimolo al ragionamento. Dice Bertolucci 22 a questo proposito: «Faccio i film non per espri­ mere pensieri ma per pensare, ed è questo il caso di Prima della rivoluzione, assolutamente, ed è per questo che il film continua ancora a divenire in me. È molto importante questa meccanica; fare i film per capire prima che per imporre». Se per Bertolucci Prima della rivoluzione ha costituito un momento della ricerca, della organizzazione intellettiva, l'oc­ casione di un incontro con il mondo polivalente delle cose e dell’ideologia, per lo spettatore il film è apparso come un'analisi appassionante, un discorso soggettivo sull’età pre­ sente, un arresto nei tempo, nel momento fuggevole della giovinezza, in cui memoria e rimpianto diventano elementi di una crisi ideologica in atto. Se La comare secca ci è parso più incidente in questa nostra realtà contemporanea, per lo stupefacente senso carnale delle immagini, legate alla scoper­ ta dolorosa di certi canti pasoliniani, dei visi, dei gesti fisicamente riproposti, Prima della rivoluzione apre un discorso che effettivamente continua nella sua incessante interrogazio­ ne a proporci attivamente il valore dell’ambiguità 2J. Anche 22 B. Bertolucci, intervista in «Filmcritica» nn. 156-7, aprile-maggio 1965. 2* Si pensi ai valori ambigui di Novecento e alla invenzione della sto­ ria, come «patto di complicità» con il cinema della vita (cfr. il mio No­ vecento, in «Filmcritica» n. 226, luglio 1976.

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Marco Bellocchio avverte la necessità dell’ambiguità, ma ne I pugni in tasca essa sfugge dalle premesse ideologiche. La struttura del racconto è definita, nei suoi elementi compositi­ vi; la riduzione simbolica è univoca. La «famiglia» ha tròppi segni di riconoscimento — bandiera, ritratti, giornali — per restare allusiva e l'uccisione della madre (che sostituisce qui in maniera più insidiosa, perché sentimentalmente più debo­ le, la figura del padre) è l’equivalente del parricidio, già in­ vocato nella letteratura espressionista a indicare la rivolta all’ordine costituito. Ma le immagini restituiscono al film il senso di uno smarrimento ritrovato nell’ordito stilistico; il personaggio — Lou Castel — rompe la linea fisica del suo stereotipo in tanti scatti nervosi che ripropongono una lettu­ ra differenziarne dei caratteri e delle motivazioni. Il perbeni­ smo del fratello «assente» agghiaccia di significati originali la predeterminazione del «matto»; e la disperata crisi epilettica, eccitata dalle note di Verdi, recupera l’ambiguità del com­ portamento della sorella, forse in grado di recare un suo aiu­ to, e chiude il racconto rovesciando la responsabilità morale.

È vero che la prima forma di comunicazione diventa, in un secondo momento, allusione e simbolo; ma già il segno filmico è «simbolo», è, per sua natura, allusivo; la compren­ sibilità deve quindi anche tener conto dell’elemento della de­ codifica. I sistemi linguistici si modificano attraverso le opere e gli autori e così le scritture e gli stili. «La comprensibilità di un’opera letteraria», scrive Brecht14, «non i assicurata soltanto quando essa sia scritta nella esatta maniera di altre opere che venivano comprese. Anche queste parole, che veni­ vano comprese, non sempre furono scritte alla maniera delle opere che le precedettero. Qualcosa era stato fatto per ren­ derle comprensibili. Così anche noi dobbiamo fare qualcosa 24 B. Brecht, op. cit.

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per fare comprendere le nuove opere. Non c’è soltanto Tesser popolare, ma anche il diventar popolare». Si è visto come nel cinema ogni singola opera contribuisca alla formazione del linguaggio. Aver individuato la necessità di uno specifico sottintende la esigenza di effettuare una scel­

ta dei mezzi stilistici e di appropriarsi della loro tecnica. Se non è possibile costruire un dizionario delle immagini, è pos­ sibile definire una retorica del linguaggio filmico, cioè l’insie­ me di immagini, di segni connotativi che ritornano con più frequenza, sino a formare un linguaggio abituale. Utilizzare la retorica può significare accettare un sistema di comunica­ zione, inserendovi altri segni, che tendono alla sua modifica­ zione e trasformazione anche dall’interno. Godard ha rotto lo schema del linguaggio tradizionale, ha proposto la «cita­ zione», il taglio ellittico del racconto, la metafora, l’insegui­ mento fisico del personaggio-spazio; ma è costretto ancora a muoversi nella retorica del linguaggio, che pure ha contribui­ to a rinnovare. «11 cinema si è nutrito di cinema», ha scritto recentemente 2S, «ha imitato se stesso. Nei miei film mi sono accorto che se facevo qualcosa, era perché l’avevo visto già fare al cinema. Se mostravo un ispettore di polizia che tirava fuori il revolver, ciò non era tanto perché l’idea era imposta dalla logica della situazione che volevo descrivere, quanto perché avevo visto in un altro film gli ispettori di polizia prendere, in quella stessa maniera e in quello stesso momen­ to, il loro revolver». Per organizzare un nuovo linguaggio occorre prima ricrea­ re i nuovi modelli. Occorre mettere, gli uni accanto agli al­ tri, tanti film, tante storie, sino a creare un’abitudine nuova allo sguardo. Ricreare i presupposti di una «nuova retorica», anche legando sentimentalmente i nuovi eroi al loro pubbli,J J.-L. Godard, La vie moderne, in «Le Nouvel Observateur» n. 100, ottobre 1966.

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co. E i personaggi di Godard vivono una loro vita autono * ma, e in fondo cominciano a espandersi anche in altri film, abituando lo sguardo del pubblico a ritrovare in Beimondo o in Karina, in altre dimensioni, quelli che erano stati i perso­ naggi di una diversa epoca (Bogart, per esempio). I film di Bresson portano avanti analogo discorso, ma in maniera opposta. Bresson non crede negli attori in quanto tali, non li vuole come tramite per la costruzione di un’ope­ ra. «Vi è una barriera insuperabile tra un attore, anche se cerca di non far pesare questo suo modo di essere, e una persona che non ha mai fatto il cinema e che vi dà quello che non avrebbe mai pensato di dare a nessuno. E questo è molto importante non solo dal punto di vista del cinema ma anche della psicologia. E dal punto di vista della creazione, perché si è in presenza di un fatto creativo che si realizza at­ traverso corpo, muscoli, sangue e spirito. Ci si trova mesco­ lati e coinvolti con questo personaggio vergine. E si arriva a essere presenti nel film, non soltanto perché lo si è pensato, scritto, realizzato, ecc., ma perché vi si è dentro». Però an­ che Bresson ricerca attentamente l’attore-personaggio perché sente che è il «personaggio» il possibile, tramite per una dia­ lettica con il pubblico. Parlando del suo Procès de Jeanne d'Arc scriveva 2