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Italian Pages 412 [409] Year 1993
Bernhard Töpfer
Il regno futuro della libertà Lo sviluppo delle speranze millenaristiche nel medioevo centrale
MARIETTI
Titolo originale: Das kommende Zur Entwicklung
Reich des Friedens.
chiliastischer Zukunftshoffnungen
© Akademie-Verlag GmbH, Berlin 1964 Traduzione di Sergio Sorrentino © 1992 - Casa Editrice Marietti S.p.A. Via Palestro, 10/8 - Tel. 010/8393789 16122 Genova ISBN 88-211-7253-8
im
Hochmittelalter
Indice
Abbreviazioni
7
Introduzione all'edizione italiana
9
Prefazione
19
I.
Attese escatologiche pregioachimite
23
II.
Gioacchino da Fiore
65
III. L'influsso delle concezioni di Gioacchino sull'ordine francescano nel XIII secolo
129
IV. Imperatore della pace e papa angelico
185
V.
Il culmine dell'attesa di riforma francescano-spirituale intorno al 1300
249
VI. Il ruolo delle speranze millenaristiche nel quadro dei movimenti ereticali del medioevo centrale
301
Considerazioni conclusive
375
Bibliografia delle fonti e degli studi più citati
383
Indice dei nomi
397
Abbreviazioni
AFH AfKG ALKG BISI DA HJb HZ MG MIÖG MRS PL RH F RTAM ZfKG
Archivum Franciscanum historicum Archiv für Kulturgeschichte Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters Historisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft Historische Zeitschrift Monumenta Germaniae histórica Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung Mediaeval and Renaissance studies Patrologia latina Recueil des historiens des Gaules et de la France Recherches de Théologie ancienne et médiévale Zeitschrift für Kirchengeschichte
Introduzione all'edizione italiana
La tematica di questo libro, apparso nel 1964, che espone le speranze millenaristiche nel medioevo fino all'inizio del XIV secolo, era simile a quella del libro sui movimenti messianici pubblicato da Norman Cohn nel 1957 per ammissione generale essa aveva ragioni di attualità nelle attese contemporanee di rivolgimenti radicali, nelle speranze alimentate da movimenti sia di estrema destra sia comunistici, di poter superare le contraddizioni sociali esistenti con un sovvertimento violento, rivoluzionario, e quindi di erigere un ordine completamente nuovo, ideale. N. Cohn mette al centro della sua trattazione i movimenti popolari millenaristici, con la palese intenzione di reperire significativi paralleli tra tali movimenti medievali o degli inizi dell'età moderna e i movimenti «totalitari» di oggi. Egli vede questi aspetti comuni soprattutto nella comparsa di pseudoprofeti elitari, capaci di mobilitare, con promesse grandiose, le masse diseredate spinte ai margini della società 2 . A differenza di Cohn, l'autore di questo libro si occupò non soltanto dei movimenti popolari, ma cercò di considerare, per un periodo più limitato, cioè fino all'inizio del XIV secolo, ma col massimo di completezza possibile, tutte le testimonianze tramandateci di attese del futuro, nelle quali venisse espressa la speranza dell'instaurazione di uno stato ideale già su questa terra. Con tale procedimento inevitabilmente venivano alla luce con maggiore evidenza differenze tra le attese chiliastiche del medioevo e le utopie o i movimenti rivoluzionari, miranti all'instaurazione di un ordine ideale, dell'epoca moderna e dei nostri giorni. Risultò così che le attese del futuro nel medioevo erano orientate soprattutto al superamento delle deficienze e delle storture dell'ordine ecclesiastico; le contraddizioni e le ingiustizie nell'ordine mondano sociale e politico difficilmente, o solo in maniera molto vaga, venivano chiamate in causa. Allo stesso modo l'uso della violenza, cui nei movimenti rivoluzionari moderni viene attribuita una funzione posi-
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tiva e decisiva, nelle attese medievali del futuro certo appare spesso indispensabile per rimuovere le storture esistenti, ad esempio dell'ordine ecclesiastico; ma di regola sono potenze anticristiane, valutate negativamente, che assumono, in qualche modo senza volerlo, il ruolo di chi fa «pulizia»3. Solo nelle attese dell'imperatore degli ultimi tempi, di impronta ghibellina, la condotta violenta del sovrano contro la chiesa corrotta viene valutata positivamente. Si poté inoltre mostrare che perfino i frati apostolici sotto Dolcino passarono all'uso della violenza non sulla base di un presunto programma rivoluzionario, ma sotto la spinta della persecuzione (p. 357). Bisogna quindi partire senz'altro dal fatto che solo nella fase rivoluzionaria del movimento hussita nel 1420, accanto al profondo cambiamento dell'ordine ecclesiastico, si perseguirono in modo chiaro anche trasformazioni di principio dei rapporti sociali e politici, e a questo scopo si affermò altresì l'uso diretto della violenza 4 . Tuttavia, nonostante questa differenza tra le attese millenaristiche del medioevo da un lato e le moderne utopie che sono state ideate 5 o le attese di un rivolgimento rivoluzionario dall'altro, non bisogna dimenticare che le visioni medievali del futuro e quelle moderne hanno in comune alcuni prodromi del pensiero utopico 6 . A questo proposito l'autore muove poi anche dalla opinione che le rappresentazioni utopiche ideali, sia nel medioevo sia nell'epoca moderna, riescono a mettere in luce più chiaramente le storture esistenti, e sollecitano alla ricerca di nuove soluzioni e di adattamenti alle mutate situazioni (pp. 376, 381); in questo modo possono senz'altro svolgere un ruolo di promozione dell'ulteriore sviluppo della società 7 . Però non bisogna misconoscere — e proprio oggi questo è diventato più chiaramente visibile di quanto non lo fosse finora — che il pensiero utopico scavalca le realtà, presuppone un uomo ideale, che è primariamente un essere sociale, e quindi sottovaluta la «polarità tra egoismo e altruismo nella psiche umana», la quale in ultima analisi va affermata come forza motrice dell'attività umana 8 . Per questo motivo le rappresentazioni di un fine utopico, se diventano efficaci a livello di massa, e ci si adopera a realizzarle con la violenza rivoluzionaria, normalmente si dimostrano un pericolo per la convivenza in una società evoluta, differenziata. Di conseguenza oggi per l'autore si pone il problema se sia da giudicare davvero negativamente la mancanza, tipica per le speranze medievali riguardo al futuro fino al tempo degli hussiti, dell'uso della violenza rivoluzionaria. I momenti positivi, promotori di sviluppo, delle rappresentazioni millenaristiche o utopiche sono forse effi-
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caci soprattutto quando non ci si accinge ancora alla lotta per ottenerne la completa realizzazione? Per il resto non è possibile, in questa sede, esprimere osservazioni in qualche modo complete sull'ulteriore sviluppo della ricerca relativa a tutta la tematica delle attese millenaristiche nel medioevo. Ricorderei che Marjorie Reeves nel frattempo ha offerto una panoramica complessiva della diffusione, fino all'epoca illuministica, degli scritti profetici influenzati da Gioacchino 9 , e quindi ha analizzato anche la relativa letteratura di epoche che non furono esaminate nel presente volume. In particolare sono stati oggetto di ulteriori ricerche gli scritti pregioachimiti nei quali si trova espressa l'attesa di un tempo finale di pace; sono state classificate con maggiore precisione specialmente le fonti bizantine delle attese di un imperatore degli ultimi tempi, così come esse possono essere rintracciate nell'Europa latina nella forma dello Pseudo-Metodio, della Sibilla tiburtina e in Adsone di Montieren-Der 10 . In questo contesto Paul J. Alexander ha giustamente richiamato l'attenzione sul fatto che Gioacchino da Fiore molto probabilmente conosceva anche gli scritti apocalittici diffusi nell'impero bizantino, contenenti le attese dell'imperatore degli ultimi tempi, ma evidentemente ha evitato in tutta consapevolezza ogni riferimento a questa letteratura; a questo atteggiamento di riserva avrebbe contribuito, oltre alla sua distanza dalla chiesa greca staccatasi da Roma, soprattutto il fatto di non trovare, a causa del suo orientamento ecclesiastico, alcun interesse verso un imperatore finale vittorioso che avrebbe introdotto il tempo di pace venturo 11 . Tra i lavori recenti sulle attese del futuro nei simbolisti tedeschi del XII secolo va qui ricordata l'ampia ricerca di Horst Dieter Rauh sulle rappresentazioni dell'Anticristo. A differenza di Peter Classen, che limita fortemente nel significato i prodromi di attese escatologiche millenaristiche in Gerhoh di Reichersberg e in Ildegarda di Bingen 12 , egli vede soprattutto in Ildegarda di Bingen un evidente contatto con la promessa di un millennio 13. Di recente Gian Luca Potestà, nella sua prefazione all'edizione italiana degli Studi su Gioacchino da Fiore di Herbert Grundmann, ha informato sulla prosecuzione assai intensa delle ricerche intorno alla figura centrale di Gioacchino 14 . Va poi citato un saggio, apparso nel frattempo, di Kurt-Viktor Selge, che, sulla base dello stato attuale della ricerca, offre una chiara cronologia degli scritti di Gioacchino, a cominciare dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti iniziata nel 1183 15Ulteriori riflessioni ha suscitato, non ultimo, il richiamo di Robert E. Lerner a una notevole differenza tra le profezie sibilline o le attese
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dell'imperatore degli ultimi tempi, e le rappresentazioni di Gioacchino, che sviluppano precedenti tentativi dell'esegesi biblica; mentre quest'ultimo attendeva l'età dello Spirito santo dopo l'avvento dell'Anticristo, le attese di un imperatore degli ultimi tempi ponevano il tempo di pace inaugurato da questi prima della comparsa dell'Anticristo l6 . In verità, a questo proposito Lerner non ha tenuto sufficientemente conto della dimostrazione, a mio avviso convincente, fornita da Raoul Manselli, il quale parte dall'ipotesi che Gioacchino ammette un duplice Anticristo, quello che compare alla fine del secondo status, che corrisponde alla «bestia ascendens de mari» e si comporta da «universalis pontifex», e quello che compare apertamente alla fine del terzo status, da identificarsi con Gog o con la coda del drago dell'Apocalisse17. Entrambe le figure devono essere intese come Anticristi in senso proprio, sicché anche in Gioacchino, come nelle profezie relative all'imperatore degli ultimi tempi, compare un Anticristo alla fine dei tempi, subito prima del giudizio universale; ma senza dubbio di particolare importanza è l'Anticristo che compare nel passaggio dal secondo al terzo status. Un'altra questione da considerare aperta nel campo della ricerca su Gioacchino è l'interpretazione della «dispositio novi ordinis» contenuta nel Liber Figurarum. L'autore del presente volume, ricollegandosi a Herbert Grundmann 18 , aveva sostenuto l'opinione che questo progetto di ordine rappresentasse una forma di passaggio dal secondo al terzo status (p. 85), e non ancora lo stato marcatamente contemplativo nell'età dello Spirito santo. Viceversa Marjorie Reeves e Beatrice Hirsch-Reich, nella loro dettagliata analisi del Liber Figurarum, si sono espresse nel senso che qui Gioacchino intendeva rappresentare, in forma definitiva, «la struttura della società nell'età dello Spirito santo» 19. In questa sede non è possibile una compiuta trattazione di tale problematica, ma certo bisognerebbe prestare attenzione all'osservazione, che invita alla cautela, di Morton W. Bloomfield, secondo cui Gioacchino sarebbe «esitante sui [...] dettagli relativi alla terza età e alle sue implicazioni»20. L'ipotesi di un piano di organizzazione assai preciso per lo status perfetto dello Spirito santo sarebbe in contrasto con questo ammonimento. Inoltre non va dimenticato che l'interpretazione della «dispositio novi ordinis», nella quale il clero continua a esercitare la cura dei laici, corrisponde all'istanza di fondo di M. Reeves, la quale interpreta Gioacchino come un vate che concorda ampiamente con le concezioni della chiesa, e per il terzo status ipotizza cambiamenti essenziali solo del «modo di vita», non delle istituzioni 21 .
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Quanto alla problematica relativa all'incidenza ulteriore delle concezioni gioachimite sull'ordine francescano nel XIII secolo (cap. Ili) si dovrebbe chiarire, sulla base della ricerca di Robert B. Moynihan, la discussa collocazione del Commento a Geremia (cfr. pp. 133, 138 s.): la versione più volte stampata nel XVI secolo non riporta il testo originario, bensì una rielaborazione ad opera di circoli francescani; la prima versione quindi nacque, come ipotizza M. Reeves, già nella cerchia dell'ordine di Fiore. Peraltro rimane dubbio se questa versione originaria derivi a sua volta dallo stesso Gioacchino, come ritiene R. Moynihan22. Sulla problematica relativa alle attese di un imperatore della pace o di un papa angelico nel XIII/XIV secolo sono stati messi in luce nuovi aspetti dalla ricerca di Robert E. Lerner sui manoscritti più antichi dei Vaticini papali che si connettono agli oracoli imperiali bizantini. Secondo tale ricerca, non furono evidentemente gli spirituali francescani che si raccoglievano intorno a fra Liberato a intraprendere, all'inizio del XIV secolo, la trasformazione dei vaticini bizantini nei vaticini papali latini (cfr. pp. 278 s.). Anzi, secondo Lerner molti elementi inducono a ritenere che una prima versione di questi vaticini latini era già diffusa in Inghilterra alla fine del XIII secolo; in essi per la prima volta al centro c'era la critica del comportamento di papa Nicolò III, insieme alla speranza che dopo altri papi corrotti si sarebbe verificata una svolta verso il meglio 23 . Resta peraltro incontestato che i Vaticini papali all'inizio del XIV secolo sono stati rielaborati e poi ulteriormente diffusi dagli spirituali italiani. Di conseguenza si continua a partire dalla convinzione che l'idea del papa angelico, nella sua forma matura, ha preso forma solo all'inizio del XIV secolo 24 . Finora non ha avuto seguito, o è passata inosservata, l'opinione sostenuta dall'autore, secondo cui il concetto di papa/pastor angelicus non si raccordava, come riteneva Friedrich Baethgen, alla rappresentazione di un'essenza angelica del sacerdozio e alla similitudine, di cui fa uso Gioacchino, del papa con un angelo dell 'Apocalisse, bensì alla rappresentazione della vita dei monaci, specialmente degli eremiti, simile a quella degli angeli (pp. 230 s.)25. Questa opinione sottolineerebbe l'importanza, per la definitiva elaborazione dell'idea del papa angelico, di Celestino V, il quale prima della sua elezione viveva da eremita; essa avrebbe altresì come conseguenza che bisognerebbe attribuire un'importanza maggiore, per la graduale formazione dell'idea del papa angelico, a un poema profetico, sicuramente scritto nel 1271, secondo il quale il papa venturo avrebbe condotto una vita angelica (p. 230).
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
Grande interesse hanno continuato a suscitare le figure eminenti tra gli spirituali dell'ordine francescano. Soprattutto Raoul Manselli ha sottolineato, relativamente al rapporto tra le concezioni di Pietro di Giovanni Olivi e quelle di Gioacchino da Fiore, che tutta la concezione della storia del primo è cristocentrica, e che questi quindi non ha attribuito, così chiaramente come Gioacchino, il terzo status allo Spirito santo 26 . Inoltre è stata più precisamente chiarita la misura della dipendenza dall'Olivi dcW'Arbor vitae crucifixae Jesu scritto da Ubertino da Casale. R. Manselli ha rilevato che Ubertino non ha aggiunto nulla di essenzialmente nuovo 27, ma ha anche richiamato l'attenzione sul fatto che egli, a differenza dell'Olivi e in accordo con le visioni diffuse tra gli spirituali dell'Italia centrale, identificò inequivocabilmente \'Antichristus mysticus con i papi Bonifacio Vili e Benedetto XI 28 . Infine Gian Luca Potestà, nella sua dettagliata presentazione delle idee escatologiche di Ubertino 29 , ha analizzato approfonditamente i tratti comuni e le differenze tra le argomentazioni dell'Olivi e quelle di Ubertino; secondo tale analisi quest'ultimo si orientò verso l'intenzione originaria di Francesco d'Assisi in maniera più consequenziale dell'Olivi e dello stesso Bonaventura, agli scritti del quale tuttavia attinge abbondantemente, sicché sotto questo profilo egli introduce senz'altro accentuazioni proprie. Nel frattempo G.L. Potestà ha pubblicato anche un'ampia monografia su Angelo Clareno, nella quale, analogamente all'autore del presente libro (p. 251), giunge alla conclusione che questo spirituale non ha ulteriormente sviluppato la visione gioachimita circa l'inizio imminente di un nuovo status30. Tra i movimenti popolari ereticali, nei quali vennero recepite o sviluppate attese millenaristiche, soprattutto i frati apostolici italiani sono stati fatti oggetto di ulteriori ricerche. Per tali ricerche ha avuto non poca importanza la pubblicazione degli atti dell'Inquisizione di Bologna risalenti agli anni di passaggio fra il XIII e il XIV secolo 31 : essa ha reso accessibile un materiale ricco di deposizioni. Uno dei curatori, Raniero Orioli, nel suo libro più recente sui frati apostolici e su fra Dolcino richiama l'attenzione sul fatto che Dolcino conferì a questo raggruppamento, che in un primo momento si inquadrava perfettamente nel movimento pauperistico del XIII secolo, dei tratti nuovi, più attivi, in quanto sviluppò l'idea di una chiesa alternativa e una teologia della storia che portava lontano, aspetti questi che in parte spiegano anche il passaggio, alla fine, alla resistenza armata 32 . Inoltre egli mostra che ci fiirono effettivamente contatti tra Dolcino e i Visconti, e che anche questo aspetto politico contribuisce a spiegare la decisione del primo per la resistenza armata 33 . R. Orioli sottolinea perai-
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tro, a giusto titolo, in pieno accordo con le concezioni dell'autore di questo volume (p. 338, 347, 377), che anche in Dolcino non era presente fin dal principio «una volontà combattiva», bensì la «resistenza armata» andrebbe in definitiva giudicata come una reazione in una situazione disperata 34. In tale contesto egli avanza dubbi, in linea di principio, che il passaggio alla lotta aperta nei mesi a cavallo tra il 1304 e il 1305 possa essere messo in correlazione con una sollevazione contadina nella regione a nord di Vercelli35. Questo collegamento fu ipotizzato anche dall'autore del presente libro (p. 351 s.), sia pure con il rilevo esplicito della limitatezza di questo movimento, e con il rifiuto dichiarato di ricondurlo alle grandi sollevazioni contadine del XIV secolo (p. 357) 36 . Non si può contestare che la base documentaria per l'ipotesi che il passaggio di Dolcino alla resistenza armata fosse collegato con moti di resistenza di parti della popolazione contadina in Valsesia37 è estremamente esigua, però vi sono cenni che alla fine del 1304 una parte degli abitanti di Campertogno e dei paesi vicini si unirono al capo dei frati apostolici (p. 348). Certo, il significato reale di questo avvenimento non dovrebbe essere sopravvalutato, però necessita di ulteriori indagini. Berlino, febbraio 1991
1 N. COHN, The Pursuit of the Millennium, London 1957; ne sono uscite due traduzioni tedesche (la prima con il titolo Das Ringen um das Tausendjährige Reich, Bern-München 1951; la seconda intitolata Das neue irdische Paradies. Revolutionärer Millenarismus im mittelalterlichen Europa, Reinbek bei Hamburg 1988) una francese (Les fanatiques de l'Apocalypse, Paris 1962) e una italiana (/ fanatici dell'Apocalisse, Milano 1976). 2 Cfr. N. COHN, The Pursuit..., cit., 308 ss. [tr. it. cit.,...]. Prospettive simili, dello stesso orientamento di N. Cohn, sono state sostenute da G. FOURQUIN, Les soulèvements populaires au Moyen Âge, Paris 1972, 111 ss. 3 Ciò è chiaramente riconoscibile in Ildegarda di Bingen; cfr. anche H.D. RAUH, Das Bild des Antichrist im Mittelalter. Von Tyconius zum deutschen Symbolismus, Münster 1973, 498. 4 Sul movimento hussita cfr. adesso F. SMAHEL, La révolution bussile - une anomalie historique, Paris 1985, il quale a p. 128 parla di «una rivoluzione prima delle rivoluzioni». 5 Per utopia qui si intende un «progetto di società e di stato [...], che in quanto perfetto, assicura una soddisfazione a tutti i bisogni umani essenziali». Cfr. B. SCHMIDT, Kritik der reinen Utopie, Stuttgart 1988, 4. 6 Ciò è sottolineato, tra gli altri, da F. SEIBT, Utopie im Mittelalter, HZ, 208 (1969), 555 ss., dove è preso in considerazione soprattutto il Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. 7 Cfr. F. SEIBT, Utopie als Funktion abendländischen Denkens, in Utopieforschung. Interdisziplinäre Studien zur neuzeitlichen Utopie, I, ed. W. Voßkamp, Stuttgart 1983, 274, il quale interpreta il pensiero progettuale utopico e la speranza in una trasformazione totale del mondo come una «variante particolare dell'attivismo occidentale».
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F.
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M . REEVES,
Utopie im Mittelalter, cit., 571 s. The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford 1969; cfr. anche la panoramica più sintetica della medesima autrice: Joachim of Fiore and the Prophétie Future, New York-London 1976. 10 P.J. ALEXANDER, The Diffusion of Byzantine Apocalypses in the Medieval West and the Beginnings of Joachism, in Prophecy and Millenarism. Essays in Honour of Marjorie Reeves, ed. A. Williams, Harlow 1980, 55 ss.; ID., Medieval Apocalypses as Historical Sources, «The American Historical Review«, 73 (1968), 997 ss.; ID., Byzantium and the Migration of Literary Works and Motifs: The Legend of the Last Roman Emperor, «Medievalia et Humanística», n.s. 2 ( 1 9 7 1 ) , 4 7 ss. Su Adsone cfr. R. KONRAD, De ortu et tempore Antichristi. Antichristvorstellung und Geschischtsbild des Abtes Adso von Montier-en-Der, Kallmünz 1964. 11 Cfr. P.J. ALEXANDER, The Diffusion..., cit., 84 ss. 12 P . CLASSEN, Eschatologische Ideen und Armutsbewegungen im 11. und 12. Jh. ( 1 9 6 9 ) , adesso in Ausgewählte Aufsätze von Peter Classen (Vorträge und Forschungen, 28), hrsg. J. Fleckenstein, Sigmaringen 1983, 324. 15 H.D. RAUH, Das Bild des Antichrist..., cit., 506. 14 G . L . POTESTÀ, in H. GRUNDMANN, Studi su Gioacchino da Fiore, Genova 1 9 8 9 , V I I - X V I I I . 15 K.-V. SELGE, L'origine delle opere di Gioacchino da Fiore, in L'attesa della fine dei tempi nel Medioevo, Bologna 1990, 87 ss. Sia consentito notare che R. E. LERNER, Joachim of Fiore's Breakthrough to Chiliasm, «Cristianesimo nella storia», 6 (1985), 492 s., diverge un po' nella cronologia; la visione di Pentecoste di Gioacchino, che portò alla composizione dello Psalterium, collocata da Selge nel 1183, da Lerner viene datata nel 1184, allo stesso modo della visione di Pasqua, importante per la prosecuzione del lavoro del commento all' Apocalisse, mentre secondo Selge la visione di Pasqua ebbe luogo solo nel 1185. 16 Cfr. R.E. LERNER, Refreshment of the Saints: The Time after Antichrist as a Station for Earthly Progress in Medieval Thought, «Traditio», 32 (1976), 97 ss. 17 Cfr. R.E. LERNER, Antichrists and Antichrist in Joachim of Fiore, «Spéculum», 60 (1985), 555, il quale in proposito si richiama a M. Reeves, che si esprime sull'argomento anche in The Influence of Prophecy..., cit., 303; viceversa R. MANSELLI, Il problema del doppio Anticristo in Gioacchino da Fiore, in Geschichtsbetrachtung und geistiges Leben im Mittelalter. Festschrift für Heinz Löwe zum 65. Geburtstag, Köln-Wien 1978, 427 ss., 434. Cfr. anche le considerazioni dell'autore nel presente volume a pp. 95 s. e 101 s. 18 H. GRUNDMANN, Neue Forschungen über Joachim von Fiore, Marburg 1950, 102 ss. 19 M. REEVES - B. HIRSCH-REICH, The Figurae of Joachim of Fiore, Oxford 1972, 247; analogo giudizio dà anche H . M O T T O , La manifestation de l'Esprit selon Joachim de Fiore, Neuchâtel-Paris 1977, 319 [tr. it., La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, Casale Monferrato 1984]. 20 M. W. BLOOMFIELD, Joachim of Flora. A Critical Survey of his Canon, Teachings, Sources, Biography and Influence, «Traditio», 13 (1957), 267. 21 Così M. REEVES, The Influence of Prophecy..., cit., 130, 132; cfr. in proposito la posizione di G.L. POTESTÀ, Storia ed escatologia in Ubertino da Casale, Milano 1980, 76 s. 22 Cfr. R.B. MOYNIHAN, The Development of the Pseudo-Joachim Commentary super Hieremiam, «Mélanges de l'Ecole française de Rome, Moyen Âge - Temps modernes», 98 (1986), 109 ss.; ID., Joachim of Fiore and Early Franciscans. A Study of the Commentary super Hieremiam (Phil. Diss. Yale University), 1988. Cfr. la posizione di K.-V. SELGE, L'origine delle opere..., cit., 130, nota. Sulla questione degli influssi francescani nel Commento a Geremia cfr. anche F. SIMONI, Il Super Hieremiam e il Gioachimismo Francescano, BISI, 82 (1977), 13 ss. 23 R.E. LERNER, On the Origins of the Earliest Latin Pope Prophecies, in Fälschungen im Mittelalter. Teil V (Schriften der Monumenta Germ. Hist. 33, V), Hannover 1988, 611 ss., in particolare 628 s.; cfr. anche R.E. LERNER - R. MOYNIHAN, Weissagungen über die Päpste, 1985 (volume di introduzione all'edizione facsimile del Cod. Vat. Ross. 374). 24 Cfr. M . REEVES, The Originality and Influence of Joachim of Fiore, «Traditio», 36 (1980), 306; cfr. anche B. MCGINN, Angel Pope and Papal Antichrist, «Church History», 47 (1978), 162 ss. 25 Cfr. anche P. NAGEL, Die Motivierung der Askese in der alten Kirche und der Ursprung des Mönchtums, Berlin 1966, 35 ss., in particolare 47 s. SEIBT,
INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE
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26 R. MANSELLÌ, La terza età, Babylon e l'Anticristo mistico (a proposito di Pietro di Giovanni Olivi), BISI, 82 (1970), 51, 59 s. 27 R. MANSELLÌ, Pietro di Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale, «Studi Medievali», III s., 6 (1965), 95 ss. 28 Ivi, 117; cfr. ID., L'Anticristo mistico. Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale e i Papi del loro tempo, «Collectanea Franciscana», 47 (1977), 5 ss.; ivi, 10 c'è l'importante rilievo che ì'antichristus misticus assume chiara figura per la prima volta nell'Olivi. 29 G.L. POTESTÀ, Storia..., cit.; cfr. la recensione di E.R. Daniel in «Speculum», 57 (1982), 411 ss. 30 G.L. POTESTÀ, Angelo Clareno. Dai Poveri Eremiti ai Fraticelli (Nuovi Studi Storici, 8), Roma 1990, 212; cfr. ID., Gli Studi su Angelo Clareno, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 25 (1989), 132. 31 Acta S. Officii Bononie ab anno 1291 usque ad annum 1310, I, ed. L. Paolini; II, ed. R. Orioli; III, Indici (Fonti per la Storia d'Italia, 106), Roma 1982-84. 32 R. ORIOLI, Venit Perfidus Heresiarcha. Il Movimento Apostolico-Dolciniano dal 1260 al 1307 (Studi Storici, 193-196), Roma 1988, 313: Cfr. anche R. ORIOLI - L. PAOLINI, L'eresia a Bologna fra XIII e XIV secolo, II: R. ORIOLI, L'eresia dolciniana (Studi storici, 93-96), Roma
1975.
R. ORIOLI, Venit..., cit., 320, cfr. 224 ss. Ivi, 244 s. 35 Ivi, 218. 36 Cfr. anche G. DUBY, L'économie rurale et la vie des campagnes dans l'Occident Médiéval, II, Paris 1977, 233 s., che colloca la lotta dei seguaci di Dolcino nel territorio di Vercelli all'interno dei «soulèvements paysans nettement dirigés contre les charges fiscales». 37 Sulla storia della Valsesia cfr. C.G. MOR, Frammenti di storia Valsesiana, Varallo I960. 33
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Prefazione
Il presente lavoro affronta un tema che nell'attuale letteratura storiografica — a livello sia di ricerca specialistica sia di esposizioni complessive — è senz'altro divenuto di primario interesse. Si tratta di indagare in che misura, già nel medioevo centrale, soprattutto nei secoli XII e XIII, fossero diffuse attese secondo le quali, ancora prima della fine della storia terrena, sarebbe subentrato in questo mondo uno stato di pace universale e di perfezione. Simili attese del futuro qui vengono designate complessivamente come «millenaristiche» («chiliastiche»); laddove bisogna sottolineare fin dall'inizio che il concetto di «millenarismo» («chiliasmo») viene impiegato consapevolmente in un senso molto ampio. Con esso non si devono intendere esclusivamente le attese del futuro nel senso della costituzione di un dominio diretto di Cristo sulla terra della durata di mille anni, così come, per esempio, viene promesso dall'Apocalisse di Giovanni. Al contrario vengono qui raccolte sotto il concetto di «millenarismo» tutte quelle visioni medievali del futuro nelle quali si esprime la speranza dell'instaurazione di uno stato ideale già su questa terra. Pertanto questo concetto coincide in larga misura con ciò che A. Doren ha definito come attese di «tempi ideali» (Wunschzeiten) — in antitesi alle rappresentazioni, per molti versi affini, di «luoghi ideali» (Wunschràumen), che sono sorte in gran numero soprattutto nell'antichità, e poi in epoca moderna a partire dal rinascimento e che si potrebbero designare anche come «utopie» nel senso stretto della parola. In antitesi a queste utopie che compaiono nell'antichità e dal rinascimento in poi, si potranno designare come «millenaristiche» solo quelle speranze nella realizzazione di una condizione ideale o nell'inaugurazione di un «tempo ideale», che sono inserite in un universo concettuale religioso-ecclesiastico. Per simili attese millenaristiche è perciò caratteristico che la realizzazione dello stato ideale atteso non sia ricondotta a un atto del libero volere umano oppure a un agire autonomo degli uomini; bensì l'attesa profonda tra-
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sformazione delle condizioni umane appare in ultima istanza inclusa nel piano salvifico prestabilito da Dio; con ciò tuttavia non è affatto detto che una tale fede nel piano salvifico divino renda inutile a priori l'azione e la cooperazione umana, giacché naturalmente sono necessarie alcune forze terrene come organi esecutivi. In antitesi a simili visioni millenaristiche del futuro, le utopie antiche e moderne, che per lo più hanno come oggetto «luoghi ideali», si presentano, per ammissione generale, quali prodotti della fantasia umana o del libero pensiero umano, indipendentemente da ogni preteso schema mentale religioso-ecclesiastico. Ciò spiega perché tali utopie possono diffondersi solo in epoche in cui l'uomo, libero da dogmi religiosi, è in grado di dare libero sfogo ai moti della sua fantasia o della sua ragione; mentre le idee «millenaristiche», nel senso qui presupposto, proliferano in epoche in cui il pensiero dell'uomo è plasmato da rappresentazioni religiose, e in cui non l'uomo autonomo ma Dio è concepito come il fattore che determina il corso del mondo. Così si spiega perché nel medioevo non svolgano alcun ruolo rilevante le «utopie» ovvero le «rappresentazioni di luoghi ideali», nel senso di Doren 2 . Tuttavia la presente ricerca tenterà di mostrare che anche le attese millenaristiche del futuro nate dallo spirito medievale, nonostante il fatto che in esse Dio, e non l'uomo, appaia come la forza che determina il processo storico, sono riuscite a ispirare l'agire degli uomini, contribuendo così a superare il vecchio e a volgere lo sguardo al nuovo, al futuro. Sarebbe sbagliato misurare il valore o il non valore di tali speranze sul criterio della loro realizzazione. Anche se siffatte visioni del futuro abbandonarono spesso il terreno della realtà, rappresentarono tuttavia senza dubbio un fattore che spronava gli uomini a mettere da parte il passato e a rappresentare meglio la loro esistenza. Il presente lavoro si interrompe, in maniera abrupta, all'inizio del secolo XIV, perché l'abbondanza del materiale ha fatto apparire non opportuna la sua prosecuzione. Con esso l'autore persegue lo scopo di offrire una panoramica, il più possibile completa, di tutte le forme, anche quelle meno sviluppate, di millenarismo, perché solo così possono essere valutati correttamente la diffusione di simili visioni e quindi anche, in ultima analisi, il loro significato. Inoltre di proposito è stato dato ampio spazio anche a quelle varianti delle dottrine millenaristiche in parte prive di una carica veramente esplosiva, come quelle che diverse volte sono state sostenute da pensatori ecclesiastici; infatti solo in questo modo diventa chiaro come, in epoche in cui i rapporti sociali entrano in movimento, non solo si risvegliano dal basso la critica e
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l'opposizione all'ordine esistente, ma anche all'interno della classe dominante cresce il sentimento che non tutto è in ordine nei rapporti esistenti. Solo una ostensione di queste due componenti, che vengono chiaramente alla luce nelle diverse forme del millenarismo — la componente della pressione dal basso e quella della ricerca a tentoni di nuove soluzioni all'interno delle cerchie dominanti — è in grado di offrire un quadro completo e corretto del conflitto spirituale in una società che continua a evolversi tra crescenti contrasti di classi. Per concludere, vorrei osservare che il presente lavoro è stato terminato nell'essenziale all'inizio dell'estate I960. Tuttavia l'autore si è preoccupato di tenere conto, almeno nelle note, della letteratura apparsa oppure diventata accessibile dopo questa data. Per le preziose indicazioni vorrei esprimere il mio sincero ringraziamento ai professori H. Sproemberg, E. Miiller-Mertens, E. Werner ed E. Winter.
1 Cfr. A. DOREN, Wunschràume und Wunschzeiten, in Vortràge der Bibliothek Warburg 1924/25, Leipzig-Berlin 1927. 2 Una eccezione è costituita dalle rappresentazioni del regno del prete Gianni. Infatti la descrizione delle condizioni di questo regno — per esempio nella presunta lettera del prete Gianni del XII secolo — ricorda chiaramente le «rappresentazioni di luoghi ideali»; cfr. L. OLSCHKI, Der Brief des Presbyters Johannes, HZ, 144 (1931); K.F. HELLEINER, Priest John's Letter. A Medieval Utopia, «The Phoenix. The Journal of the Classical Association of Canada«, 13 (1959).
I. Attese escatologiche pregioachimite
Per l'uomo d'oggi l'attesa e il desiderio di cambiare il mondo nella sua struttura sociale complessiva mediante una rottura rivoluzionaria, e di produrre per questa via un ordine migliore o addirittura uno stato di perfezione piena, sono diventati qualcosa di quotidiano, non importa se il singolo possa aderire a simili visioni o rifiutarle. Alla formazione di idee del genere ha contribuito essenzialmente la filosofia dell'illuminismo, prodotta dalla borghesia in ascesa, con la sua fede ottimistica nel progresso; a queste idee dopo la rivoluzione francese del 1789 si associò in misura crescente la convinzione che la realizzazione di simili ideali dovesse essere effettuata solo mediante una rottura violenta, provocata da nuovi strati sociali in ascesa 1 . Da queste idee borghesi di rivoluzione, dapprima vaghe, è maturato in seguito il concetto marxista di rivoluzione, dai contorni assai netti. Le idee moderne di rivoluzione, legate strettamente alla nozione di progresso, sono dunque essenzialmente un prodotto dei secoli XVIII e XIX. Si pone pertanto l'interrogativo se anche nella società medievale siano state sviluppate, almeno allusivamente e in forme di altro genere, visioni che a quell'epoca svolgessero una funzione paragonabile alle idee moderne di rivoluzione, vale a dire visioni che racchiudessero il desiderio di un cambiamento radicale dell'ordine esistente, al fine di instaurare uno stato nuovo o addirittura uno stato ideale, e insieme attribuissero alle classi oppresse un ruolo decisivo nella realizzazione violenta di questo nuovo ordine. Se si esamina la letteratura storica medievistica, nell'immediato si ha l'impressione che si debba rispondere negativamente a una tale domanda. Johan Huizinga, per esempio, constata che il medioevo ignora «uno sforzo cosciente per il miglioramento e la riforma delle istituzioni sociali e politiche come stimolo al pensiero e all'azione» 2 . Egli ritiene che proprio «questa assenza di una ferma volontà di costruire un mondo migliore e più felice» ha contribuito essenzialmente a prò-
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durre quello «stato di pessimismo e di disperazione» che, a suo modo di vedere, è caratteristico del basso medioevo 3 . Sicuramente è giusto sostenere che a quell'epoca una considerazione pessimistica delle vicende del mondo fosse predominante. Soprattutto in tempi duri, infestati da guerre e da carestie, che allora non erano affatto rari, proliferavano attese secondo cui, in breve, sarebbero venute le persecuzioni ancora più terribili da parte dell'Anticristo e, immediatamente dopo, la fine del mondo. Questa visione del corso ulteriore della vicenda mondana è certo più fosca di quanto si debba immaginare. A questo sentimento dà espressione, in qualche modo, Oddone di Cluny quando, di fronte alla generale tribolazione del X secolo, scrive che l'ingiustizia prolifera, perché la verità è stata dimenticata, la giustizia è remota, sono giunti tempi difficili e il mondo si trova vicino alla fine 4 . Allo stesso modo per il cluniacense Bernardo di Morlas, che intorno al 1140 crede imminente il giudizio universale, i concetti di «hora novissima» e di «tempora pessima» sono sinonimi 5 . Tali concezioni escludono ovviamente ogni attesa che anteriormente alla fine del mondo possa ancora darsi una svolta decisiva verso una situazione migliore. Se a queste espressioni si aggiunge anche l'opinione di Adelmo di Liegi (XI secolo) che «dagli antenati tutto è stato ordinato in modo eccellente; nulla di nuovo può più essere creato; anzi Dio odia gli innovatori» 6 , ebbene le affermazioni di Huizinga appaiono a prima vista perfettamente giustificate. Questo giudizio sarebbe però affrettato. Per le nostre ricerche ulteriori ci poniamo la questione se accanto a questa linea di pensiero, indubbiamente presente e forse anche predominante, non siano esistite anche correnti più ottimiste, caratterizzate dall'attesa che nel corso della storia terrena, in seguito a un cambiamento radicale della situazione, sarebbe sopraggiunto un nuovo stato di perfezione piena o assoluta. Nel caso si debba rispondere affermativamente, sorgono subito altre questioni: soprattutto sarà da chiarire in quali cerchie e in quali strati sociali si radicassero simili correnti di idee, e quale contenuto sociale avessero. Sorge quindi la domanda in che misura tali attese del futuro siano sfociate in movimenti sociali violenti, analogamente al modo in cui, secoli dopo, la filosofia dell'illuminismo, con la sua fiducia nel progresso, contribuirà in maniera sostanziale alla formulazione delle istanze politiche della rivoluzione francese. Si comprende senza ulteriori spiegazioni che l'idea di un superamento dello stato attuale delle cose attraverso uno stato, nuovo e di natura differente, di perfezione più grande o massima può essere effettivamente viva solo in determinati stadi dello sviluppo sociale e a cer-
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te condizioni. Simili attese diventano fattore efficace del divenire storico solo quando la struttura sociale esistente manifesta considerevoli tensioni, quando si affermano nuovi strati sociali che cominciano a sviluppare proprie idee, avvertono le condizioni esistenti come deteriorate, e pertanto le rifiutano in modo più o meno consapevole. Così non è strano che nell'alto medioevo non abbiano svolto alcun ruolo sostanziale attese di un cambiamento radicale delle condizioni terrene verso uno stato di perfezione. L'alto medioevo fu un'epoca in cui un ordine sociale nuovo, quello feudale, e un sistema spirituale nuovo, quello cristiano-cattolico, si affermarono in maniera definitiva. La posizione della nobiltà feudale e della chiesa era pressoché indiscussa; mancava pertanto ogni base sociale per sentire che l'ordine che si andava appena allora imponendo fosse già completamente deteriorato e occorresse sostituirlo con nuove forme radicalmente diverse. La visione del mondo di Agostino ebbe un significato fondamentale per l'alto medioevo. Secondo Agostino la chiesa, nella sua forma terrena, è certo affetta da imperfezioni, ma è quanto di più perfetto sia possibile su questa terra di peccato. Infatti — e questa è l'idea di fondo della sua concezione — il male non sarà mai eliminato completamente dalla terra, per quanto la chiesa faccia ancora progressi particolari sia al suo interno sia all'esterno 7 . In tale contesto è caratteristico il rifiuto da parte sua del millenarismo del cristianesimo primitivo 8 . Infatti l'attesa di un regno di Cristo realizzato già sulla terra avrebbe in ogni caso pregiudicato il valore e la perfezione, la più alta possibile, della chiesa esistente, così energicamente rimarcati da Agostino: la chiesa è appunto per lui «già adesso il regno di Cristo e il regno dei cieli»9. Egli di conseguenza riferisce addirittura le parole dell'Apocalisse circa il millenario regno di Cristo all'attuale divenire della chiesa. L'incatenamento di Satana, che secondo l'Apocalisse deve avvenire veramente solo in connessione con la parusia di Cristo, ha già avuto luogo, poiché fin dalla prima venuta di Cristo al diavolo non è più «permesso di sviluppare tutta la forza di seduzione di cui è capace»10. Nella valutazione che Agostino dà della chiesa vengono dunque introdotti, con un certo equilibrio, tratti ottimisti e tratti pessimisti. Egli è abbastanza pessimista da dichiarare che nessuna istituzione sulla terra, neppure la chiesa, può essere perfetta 11 . D'altra parte egli rimarca con energia che la chiesa «nella sua essenza è tanto perfetta quanto è possibile su questa terra» 12 . E evidente che una simile dottrina fosse ben vista dalla chiesa giunta al potere. Dal momento che Agostino per un verso ammetteva che la chiesa sulla terra, in considerazione della peccaminosità degli uomi-
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ni, non può mai conseguire la perfezione assoluta, per l'altro stabiliva però nel contempo che essa ha raggiunto il massimo grado possibile di pienezza, in fondo precludeva alla radice qualsiasi critica all'ordinamento ecclesiastico, sottraendo pertanto il terreno a ogni rivendicazione mirante a una trasformazione dell'ordine ecclesiastico e umano 13. Di conseguenza Herbert Grundmann dà un giudizio perfettamente pertinente, quando a questo riguardo afferma che forse «proprio per questo il futuro apparteneva a questa compagine filosoficoreligiosa» 14. La visione di Agostino, secondo cui il mondo nel corso del suo sviluppo ha già raggiunto l'ultimo stadio, e quindi non vi sono più da attendere trasformazioni radicali, viene espressa anche nella sua dottrina delle età del mondo. In corrispondenza dei sei giorni della creazione, egli divide la storia del mondo in sei aetates. La sesta età, l'ultima, è cominciata già con il Cristo e durerà sino alla fine del mondo 1 5 . Questa periodizzazione della storia del mondo è accolta nella sostanza da Isidoro di Siviglia e da Beda, e attraverso di loro è diventata patrimonio comune della tradizione culturale dell'alto medioevo l6 . Questa suddivisione, largamente diffusa, del corso storico, secondo la quale l'unica svolta da attendere nella storia del mondo è la fine del mondo, ha indubbiamente contribuito a rafforzare l'idea che la situazione presente sia definitiva, e che non ci sia più da aspettare una nuova epoca con un nuovo contenuto. Appare qui in tutta evidenza il carattere conservatore del sistema di fede ecclesiastico. Dal preciso momento in cui la chiesa fu riconosciuta dallo stato e si riconciliò completamente con l'ordine mondano esistente, essa dovette risultare interessata a ostentare la propria definitività e immutabilità, e quindi nel contempo anche a difendere l'immutabilità dell'intera struttura sociale. A partire dal IV secolo, con la vittoria della chiesa, venne quindi in larga misura tolto spazio al millenarismo del cristianesimo primitivo, che per i cristiani perseguitati dei primi secoli era stato un'ancora di speranza. Anche se il trionfo della fede cristiana nel IV secolo non aveva affatto realizzato le attese della massa dei credenti negli strati inferiori della popolazione, le esigenze delle cerchie dirigenti e spiritualmente egemoni erano ampiamente soddisfatte. Nei secoli successivi dell'alto medioevo, col predominio dell'economia naturale, con lo scarso sviluppo della vita cittadina e col corrispettivo allontanamento della popolazione prevalentemente rurale da tutte le tradizioni culturali, vennero meno i presupposti perché acquisisse chiara forma un mondo di idee organico corrispondente ai desideri degli strati di popo-
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lazione sfruttati. Perciò fino al XII secolo, quando con lo sviluppo delle città la struttura sociale dell'Europa occidentale si mise in movimento, non si giunse ad alcuna rottura di quell'immagine statica dell'ulteriore divenire del mondo determinata in prevalenza da Agostino. Anche quando si riconobbe l'insufficienza dell'ordine mondano, e addirittura lo si dipinse con tinte più fosche, nelle cerchie ecclesiastiche, allora e di regola anche in seguito, si sostenne con forza la concezione che questi difetti fossero una conseguenza inevitabile del peccato originale, e quindi in definitiva fossero insuperabili in questa vita per l'umanità peccatrice 17 . La correttezza di questa constatazione non viene infirmata neppure quando rivolgiamo la nostra attenzione alla diffusione di concezioni secondo cui anteriormente alla fine del mondo deve essere istituito un grande regno di pace, e quindi in un certo senso deve subentrare sulla terra uno stato più perfetto e più felice. Vanno collocate qui innanzitutto le attese di un imperatore della pace dominatore del mondo, assai diffuse in Occidente già prima del XII secolo. Esse si radicano in ultima analisi nella letteratura profetica del giudaismo tardoromano 18, e vennero poi trasmesse nel corso dell'alto medioevo da Bisanzio all'Europa occidentale. Il primo scritto profetico di questo genere a essere conosciuto in Europa occidentale fu il cosiddetto Pseudo-Metodio, la cui genesi avvenne in ambiente siriano all'inizio della dominazione araba. Esso diede espressione alle aspirazioni di quelle cerchie cui stava a cuore una restaurazione del dominio dell'impero bizantino, e profetizzava l'avvento di un imperatore potente che avrebbe vinto gli arabi 19 . Traduzioni latine di questo scritto appaiono in gran numero nel regno dei franchi a partire dall'VIII secolo 20 . Per la nostra indagine interessano qui solo quelle parti che riguardano il regno di pace precedente la fine del mondo. In proposito si dice che un rex grecorum sive romanorum conquisterà ampi territori; poi regneranno sulla terra pace e grande tranquillità, come mai prima e mai più si ripeterà. Ci sarà gioia universale e ogni paura verrà bandita dai cuori degli uomini. I popoli pagani che irromperanno dopo questo tempo, quei popoli che una volta vennero contenuti da Alessandro Magno, sono vinti per intervento divino, quindi quel rex romanorum si reca a Gerusalemme per deporvi dopo dieci anni e mezzo la corona sul Golgota. Seguono l'Anticristo e poi la fine del mondo col giudizio universale 21 . Simili visioni sono state riprese nello scritto sull'Anticristo composto alla metà del X secolo da Adsone di Montier-en-Der. In verità Adsone non dipinge con tinte così luminose come lo Pseudo-Metodio l'epo-
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ca della pace sotto l'ultimo imperatore; a lui non interessa infatti descrivere la gloria dell'imperatore della pace, quanto piuttosto mostrare che l'epoca immediatamente successiva dell'Anticristo, con tutti i suoi orrori, non è ancora senz'altro imminente 22 . Ma è significativo che quel «sovrano, il più grande e ultimo di tutti», debba essere per Adsone un re franco, che dominerà sull'impero romano nella sua totalità 23 . Ciò mostra che le profezie originariamente bizantine furono adattate alla situazione e agli interessi dinastici dell'Occidente 24 ; il che ovviamente accrebbe l'attualità di questi scritti e costituì un presupposto indispensabile per la loro ulteriore diffusione in Europa. Un significato simile hanno anche le previsioni del futuro della Sibilla tiburtina, testo ugualmente nato, nella sua forma originaria, a Bisanzio nel IV/V secolo e conosciuto in Europa occidentale a partire dall'XI secolo in una forma adattata alla situazione 25 . Anche secondo questo scritto ci sarà alla fine l'avvento di un rex grecorum, di nome Constans, che regnerà centododici anni 26 e riunirà sotto il suo dominio Roma e Bisanzio. Nel suo tempo regnerà un benessere universale, e in seguito a una straordinaria fertilità i prezzi di tutti i generi alimentari diventeranno estremamente bassi. Inoltre quell'imperatore conquisterà altri territori pagani, costringerà al battesimo tutti i pagani, e alla fine anche gli ebrei si convertiranno alla religione cristiana 27 . Anche questo imperatore, come nello Pseudo-Metodio, depone poi la corona a Gerusalemme; segue la fine del mondo 2 8 . Era naturale che lo sviluppo dell'impero occidentale nell'XI secolo favorisse l'ulteriore diffusione di simili attese di un imperatore finale potente, che avrebbe dominato il mondo e lo avrebbe reso felice. In tale atmosfera alla fine dell'XI secolo queste previsioni del futuro, divenute largamente note attraverso lo Pseudo-Metodio, Adsone e la Sibilla tiburtina, subirono variazioni per essere adattate alle nuove idee. Così Benzo di Alba, negli anni Ottanta dell'XI secolo, attribuisce a Enrico IV il ruolo dell'imperatore finale, profetizzandogli, attraverso l'utilizzazione delle profezie sibilline, che sarebbe diventato anche signore di Bisanzio, e poi si sarebbe recato a Gerusalemme al santo sepolcro 2 9 . Significativamente il viaggio a Gerusalemme qui non ha più anzitutto lo scopo che l'imperatore deponga la corona e, di fronte all'irrompere della fine del mondo, consegni il potere a Dio, bensì serve soprattutto a stabilire il dominio dell'imperatore sui popoli pagani, e perciò acquista, in armonia con le idee di crociata che allora andavano nascendo, il carattere di una campagna contro i pagani 30 . Una analoga tendenza è indicata, nel trattato di Adsone sull'Anticristo, da
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un'interpolazione inserita già all'inizio dell'XI secolo, in epoca molto anteriore alla prima crociata 31 . Queste profezie tramandate in molti manoscritti indicano che già allora era largamente diffusa l'attesa secondo cui, poco prima della fine del mondo, appunto quasi come suo preludio, ci sarà ancora l'avvento di un'epoca felice di pace. Questa attesa introduce una nota di un certo ottimismo nel quadro prevalentemente fosco dei tempi ultimi, ma non si può dimenticare che questa epoca di pace è molto limitata; secondo la Sibilla tiburtina si tratta di centododici anni: l'epoca finale di felicità è sovrastata dall'ombra della paura per l'irrompere immediatamente successivo dell'Anticristo e per la fine del mondo. Ma per la nostra indagine è ancora più essenziale la constatazione che secondo tali profezie, per promuovere l'avvento di quella limitata «età dell'oro» di pace, non è necessaria una trasformazione interna complessiva dell'ordine sociale ed ecclesiastico esistente. Al contrario, le forze già esistenti, l'impero e la chiesa nelle loro forme tradizionali, saranno i fattori trainanti di quella felice epoca finale. L'età dell'oro intravvista viene raggiunta soprattutto attraverso l'estensione su quasi tutta la terra del potere dell'impero e della chiesa, e attraverso la garanzia di una pace universale. L'affermazione dello stato ideale è una conseguenza della semplice espansione dei poteri già presenti nell'ordine esistente, e non, per così dire, l'esito di una radicale trasformazione interna dell'ordine esistente. Non appena l'impero cristiano abbia conseguito il dominio del mondo e al suo interno regnino, sotto un buon sovrano, pax e iustitia, la felicità dell'umanità risulta già perfettamente garantita. Senza dubbio l'instaurazione di una pace universale per opera di un imperatore capace di dominare sul mondo avrebbe significato un considerevole mutamento nei confronti della situazione esistente al tempo del primo feudalesimo, pieno di guerre e discordie, ed è certo che proprio queste tristi condizioni accrebbero la popolarità della profezia di un futuro imperatore della pace. Quello che tuttavia è decisivo è che si credesse di poter promuovere questo stato di pace senza un autentico sovvertimento interno. Ovviamente non c'è da attendersi idee del genere in scritti che in definitiva provengono dall'universo concettuale delle classi dominanti; ma è significativo proprio che non solo non conosciamo analoghe visioni del futuro o idee che dessero espressione direttamente agli interessi degli strati inferiori del popolo, ma sulla base di tutta la situazione sociale possiamo perfino ipotizzare che allora nell'Europa occidentale idee del genere non avessero ancora preso forma.
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In tale contesto bisogna peraltro osservare quanto segue. Scritti come lo Pseudo-Metodio e la Sibilla tiburtina perseguivano non per ultimi anche intenti propagandistici, e col loro contenuto dovevano rivolgersi a cerchie più vaste. Così lo Pseudo-Metodio voleva ridestare, nei territori occupati dagli arabi, le speranze di un ristabilimento del dominio bizantino 32 . A ciò si collega il fatto che questa letteratura profetica riveste, fino a una certa misura, tratti popolari o riflette concezioni popolari, anche se per il suo vero obiettivo serve anzitutto alle forze dominanti. Per conseguire la larga incidenza voluta, si prendono in considerazione, con differente procedimento secondo l'obiettivo da raggiungere, anche attese spiccatamente popolari oppure aspettative sociali33. Ciò appare in modo particolarmente evidente nell'asserzione della Sibilla tiburtina, secondo cui sotto quell'imperatore della pace tutti i prezzi dei viveri saranno straordinariamente bassi. Ma anche questi fenomeni che corrispondono ai desideri degli oppressi e dei poveri non sono conseguenza di veri rivolgimenti interni, bensì in primo luogo semplicemente doni di Dio o benedizioni della natura 34 , in qualche modo come ricompensa per la costruzione della pace interna. Questo quadro non cambia neppure se seguiamo le concezioni sull'imperatore degli ultimi tempi fino nel XII secolo. Emerge ora ancor più chiaramente il momento propagandistico in funzione degli interessi di determinate dinastie europee. Così il Ludus de Antichristo, la cui genesi risale ai primi tempi del Barbarossa, mira palesemente a una esaltazione dell'impero svevo 35 . Indicativa di questa glorificazione della dignità imperiale teutonica è la variante, nuova rispetto alle più antiche profezie sull'imperatore finale, con cui viene istituito un nesso causale diretto tra la rinuncia alla corona imperiale a Gerusalemme da parte dell'imperatore finale e l'irrompere dell'Anticristo, reso possibile solo da ciò 36 . Già prima del Ludus de Antichristo, al tempo della preparazione della seconda crociata, era sorta in Francia una versione delle profezie sibilline favorevole alla casa reale francese. In tale versione, palesemente suscitata dai piani di crociata di Luigi VII, a questo re francese viene attribuito il ruolo dell'imperatore degli ultimi tempi che si reca a Gerusalemme e che trionferà su tutto l'Oriente. L'annuncio che allora L diventerà C, che cioè il re Luigi deve prendere il posto di Costanzo, imperatore degli ultimi tempi della Sibilla tiburtina37, indica come la Sibilla originariamente tardoromana-bizantina sia stata adattata alle esigenze del tempo. In tale contesto rientra anche una profezia astrologica che appare dopo il 1180, la cosiddetta Lettera di Toledo, che ritorna sempre di
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nuovo in forma mutata anche nel XIII e nel XIV secolo. Secondo questa profezia gli astrologi arabi hanno predetto un terribile uragano che deve portare con sé una grande strage e distruggere molte città. Tra i popoli dell'Occidente nascerà discordia, scoppieranno tumulti; ma poi si affermerà pienamente la potenza dei franchi, cioè dei francesi, gli ebrei saranno assaliti da dubbio e incertezza, i saraceni saranno sconfitti, e la fede cristiana conoscerà una crescita smisurata, sicché a coloro che nasceranno dopo arriderà una vita più felice 38 . Sebbene qui non si parli di un imperatore che dominerà nel tempo della fine, tuttavia il carattere filofrancese di questa profezia emerge con sufficiente chiarezza39. È inutile addurre altri esempi di simili interpretazioni di profezie sibilline o analoghe a favore di determinate case regnanti o stati40. Tuttavia le profezie tramandate circa l'impero finale non prevedono, neppure nel XII secolo, alcuna trasformazione interna profonda dell'ordine esistente; al contrario, con una rielaborazione congruente al loro scopo, contribuiscono ad accrescere il credito delle dinastie regnanti, e in parte ne vengono promosse direttamente. Così il Lucius de Antichristo è nato con ogni evidenza nelle immediate vicinanze, se non forse addirittura per incarico della corte sveva 4 1 . Il quadro che tutte queste profezie delineano del tempo futuro ideale è di conseguenza davvero privo di colore e povero di contenuto, perché naturalmente non si fa alcun tentativo di proiettare nel futuro qualche cambiamento sostanziale dell'ordine sociale esistente. Relativamente a queste profezie sibilline, assai numerose, circa l'imperatore finale, Bernheim ha sostenuto che nelle attese, che in esse si perpetuavano, di un tempo felice di pace precedente la fine del mondo si sia conservato sotto mutata forma l'antico millenarismo, e che quindi non sarebbe del tutto calzante l'affermazione secondo cui il millenarismo sarebbe completamente sparito nell'alto medioevo 42 . Se prendiamo il concetto di millenarismo non nel senso stretto del termine come il regno di mille anni di Cristo sulla terra, l'opinione di Bernheim contiene indubbiamente un nocciolo di verità. Infatti quelle profezie sibilline sull'imperatore finale affondano inequivocabilmente le radici nella profezia sibillina tardoromana43, la quale a sua volta è influenzata in buona misura dalle concezioni giudaiche e cristiane44 da cui è sorto anche il millenarismo cristiano nella forma dell'Apocalisse. Peraltro, al contrario del millenarismo del cristianesimo antico, nelle profezie imperiali il momento religioso passa nettamente in secondo piano; in primo piano sta l'idea di impero. Presupposto per l'avvento di quell'epoca felice di pace, appunto in raccordo con la prece-
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dente tradizione romana 45 , è il dominio del mondo da parte dell'impero; esso solo secondariamente conduce al trionfo della chiesa. Ma ancora più importante di questa differenza squisitamente formale tra il millenarismo del cristianesimo antico e le profezie dell'imperatore finale è il fatto che in queste ultime manca del tutto la volontà, che affiora nel millenarismo cristiano, di un mutamento radicale di tutte le condizioni terrene. Mentre l'attesa, da parte del cristianesimo primitivo, di un regno millenario di Cristo sulla terra costituiva un vero pericolo per l'ordine esistente, questo non avviene in linea di principio nelle profezie sibilline sull'imperatore della pace. L'apoteosi dell'idea di impero, almeno nelle profezie che hanno svolto un ruolo in Europa fino al XII secolo, ha completamente soffocato il nucleo sociale o lo ha reso per lo meno innocuo. Il risultato dell'indagine fin qui svolta, che cioè nelle attese di un imperatore finale diffuse in Europa fino all'inizio del XII secolo manca l'idea di un mutamento sociale profondo dell'ordine esistente, non è così sorprendente se teniamo presente che la struttura sociale in queste regioni fino al 1100 circa fu sostanzialmente immune da sommovimenti e non mostrò tensioni eccessive. Dobbiamo inoltre pensare che al centro di tutte queste profezie c'è l'impero. Ma l'impero per l'uomo medievale dell'Europa occidentale non fu mai, soprattutto dopo la dissoluzione dell'impero carolingio, l'incarnazione di tutto l'ordine esistente così come lo era la chiesa. Al contrario dell'impero, la chiesa era presente ovunque per chiunque, essa cercava di determinare l'insieme del comportamento esteriore e il pensiero degli uomini, e forniva il fondamento teorico alle istituzioni esistenti. Pertanto una critica dell'ordine esistente doveva essere in primo luogo critica dell'ordine ecclesiastico 46 . Allo stesso modo, e di conseguenza, un eventuale desiderio di sostituire la situazione esistente con un ordine nuovo e migliore avrebbe dovuto equivalere all'istanza di un ordine più ideale delle condizioni ecclesiastiche. Si spiega così che l'eventuale diffondersi di un'insoddisfazione per la situazione esistente non si dirigesse in primo luogo contro l'ordine temporale rappresentato dall'impero, bensì contro la chiesa. Conformemente a ciò, i primi segnali di attese di un cambiamento autentico, profondo dell'ordine dominante crescono non in connessione all'idea di impero, bensì nell'ambito dell'universo ideale della chiesa. Le attese di una trasformazione radicale imminente delle condizioni terrene non rivestono perciò la forma di profezie imperiali, ma si presentano in forma di predizioni di un rivolgimento della situazione ecclesiale.
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A partire dall'XI secolo in diversi strati della società aveva messo radici l'aspirazione a una riforma della chiesa, ma i risultati della riforma ecclesiastica gregoriana non furono in alcun modo adeguati a soddisfare tale aspirazione. Il sempre maggior peso acquistato ora da tali istanze è senza dubbio in rapporto prima di tutto con il complicarsi dei contrasti di classe della società feudale in seguito allo sviluppo della città; larghi strati di popolazione prendevano ormai parte in maniera più attiva, più vigorosa alla vita sociale e quindi anche alla vita spirituale o religiosa. Avvenne così che nella forma dell'ideale della vita apostolica si cristallizzò un complesso di idee che corrispondeva largamente alle concezioni e alle esigenze di masse sfruttate che adesso si mettevano in movimento, e che trovò quindi una diffusione straordinaria nel XII secolo, soprattutto nel quadro dei movimenti ereticali 47 . Per parte ecclesiastica non si potè più ignorare questa crescente opposizione di ampi strati popolari contro la chiesa feudale, e accanto alla lotta senza quartiere contro gli eretici presero piede sforzi per pilotare quell'ideale popolare e coinvolgente della vita apostolica, della «chiesa povera», entro piste non pericolose, controllate dalla chiesa. Risultato di tali sforzi furono gli ordini dei cistercensi e dei premostratensi, per menzionare solo i più importanti 48 . La conseguenza fu che proprio in questi nuovi ordini, che si assunsero la difesa e il rinnovamento dell'autentica vita apostolica e nelle cui file si levarono voci assolutamente critiche nei confronti della gerarchia ecclesiastica 49 , si formò una vigorosa autocoscienza insieme alla convinzione di aver avviato il superamento degli inconvenienti non più ignorabili all'interno della chiesa e iniziato una svolta verso il meglio. Da ciò si spiega come le prime idee significative di una imminente, o già cominciata, trasformazione in meglio della situazione siano cresciute sul terreno dei nuovi ordini del XII secolo. Un esponente significativo di questa nuova corrente di idee è il premostratense Anselmo, che nel 1129 divenne vescovo di Havelberg e che intorno alla metà del XII secolo compose il Liber de una forma credendi et multiformitate vivendi50. Già l'intenzione che l'autore persegue con questo scritto è significativa. Egli si pone la questione di come si spieghi che nell'unica chiesa appaiano nel corso del tempo tante novitates, laddove egli intende soprattutto nuovi ordini con nuove regole 51 . Nel tempo dopo Cristo egli vede non un mutamento sostanziale della fede, ma certamente uno sviluppo, non più soltanto una statica situazione. Certo per un uomo di chiesa come Anselmo fu soprattutto la formazione di nuovi ordini a indurre a tale constatazione, ma in definitiva anche la fondazione di ordini è solo un segno
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che l'organizzazione sociale complessiva dell'Occidente si è messa in movimento a partire dal 1100 circa, soprattutto con lo sviluppo della vita cittadina. Perciò la fede di Anselmo nello sviluppo è ultimamente un riflesso del fatto che nella società feudale si sono prodotti cambiamenti sostanziali, i quali hanno reso impossibile che si concepisse l'intero arco di tempo dopo la venuta di Cristo come stabile, immutabile unità. Anselmo di Havelberg vede nel corso storico un'incessante penetrazione nelle verità di fede. Nell'Antico Testamento si rivelò Dio Padre; il Figlio invece solo in maniera allusiva; questi divenne poi pienamente conoscibile per tutti nel Nuovo Testamento. Allora si manifestò anche lo Spirito santo: all'inizio ancora confusamente, ma la sua essenza si svelò poi sempre più chiaramente nel tempo successivo 52 . Ciò significa che la fede nella Trinità si è sviluppata nel corso del tempo gradualmente e in conformità alle capacità dei credenti 5 3 , di modo che «primo quidem bona, deinde meliora, ad ultimum vero óptima proposita sunt» 54 . Risulta decisivo che lo sviluppo e la rivelazione della fede non abbiano avuto conclusione già con la venuta di Cristo, bensì che anche nel tempo successivo sia possibile mediante l'opera dello Spirito santo una comprensione ancora più profonda delle verità divine 5 5 . In Anselmo, esponente di un ordine giovane non ancora fossilizzato, troviamo dunque una genuina fede nel progresso, peraltro inteso in senso meramente ecclesiastico 56 ; essa trova applicazione anche in relazione al presente 5 7 e serve come giustificazione dei nuovi ordini. Di particolare interesse, date queste circostanze, deve essere naturalmente la periodizzazione della storia proposta da Anselmo. Per quanto riguarda il corso storico complessivo, egli si attiene alla dottrina delle sei aetates adottata a partire da Agostino 58 . Più interessante è viceversa che, in corrispondenza dei sette sigilli dell 'Apocalisse, egli suddivida ulteriormente la sesta aetas che va da Cristo sino alla fine del mondo in sette periodi (status) chiaramente delimitati 59 . Il quarto di questi sette status della chiesa è caratterizzato dall'avvento dei falsi fratres, contro cui combattono i diversi ordini, a cominciare dai benedettini fino ai cistercensi e ai templari 60 . Per il quinto status, che è appena cominciato, egli delinea i seguenti connotati: la chiesa soggiace a persecuzioni, ma cresce in pazienza; essa viene minacciata dagli eretici, ma matura in sapienza; appaiono simulatori e falsi monaci, ma la chiesa si rafforza nella sua perseveranza 61 . Anselmo dunque non considera affatto il suo tempo come un'epoca esclusivamente di decadenza, bensì ogni fenomeno negativo viene in certa misura neutralizzato da sviluppi positivi.
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Il successivo tempo del sesto sigillo reca poi, secondo l'usuale schema escatologico, la persecuzione dell'Anticristo. Segue, con l'apertura del settimo sigillo, il settimo status della chiesa. Risulta di particolare interesse nel nostro contesto l'interpretazione che Anselmo dà delle affermazioni deli'Apocalisse al riguardo. Si dice infatti nell'Apocalisse che con l'apertura del settimo sigillo nel cielo subentrerà un silenzio di circa mezz'ora; già in precedenza questa indicazione era stata sporadicamente interpretata nel senso che tra la soppressione dell'Anticristo e la fine del mondo sarebbe stato concesso alla chiesa un breve periodo di tranquillità 62 . Anselmo però non ha seguito ulteriormente questo punto di partenza che si prestava con relativa facilità a essere sviluppato nel senso dell'attesa di un'epoca di massima perfezione già su questa terra; egli dà la seguente interpretazione del settimo sigillo: dopo le persecuzioni della chiesa e il ritorno del Figlio per il giudizio seguirà, quando tutto in un istante si sarà compiuto, il silenzio della contemplazione divina, si realizzerà l'anno giubilare e verrà festeggiato l'ottavo giorno (octava) della felicità 63 . Dunque secondo Anselmo l'apertura del settimo sigillo non introduce un'epoca terrena vera e propria di perfezione e di pace, bensì è solo il passaggio diretto nel regno eterno di Dio 64 . Quando Anselmo, per caratterizzare quest'ultimo utilizza il concetto di «octava», si ricollega palesemente all'antica dottrina delle sei età del mondo. Secondo tale dottrina alle sei età del mondo, analogamente al giorno di riposo di Dio dopo i sei giorni della creazione, segue ancora una settima aetas, la quale peraltro non rappresenta un tempo che appartiene al corso della storia terrena, bensì il tempo di riposo concesso ai santi subito dopo la loro morte, una volta sciolti dai loro corpi, fino al giudizio universale 65 . Il successivo ottavo giorno, cioè la octava aetas, indica il sabato, che inizia col giudizio finale e con la resurrezione, nel regno di Dio che dura in eterno 66 . Possiamo quindi osservare che Anselmo di Havelberg non ha trasformato il suo ottimismo progressista fino a ipotizzare nell'aldiqua uno status di perfezione assoluta, e dunque a formulare un'attesa veramente millenaristica. La conoscenza della verità divina in perenne progresso non conduce mai a un suo pieno disvelamento. Questa mancanza di una visione chiliastica o simile del futuro permette altresì ad Anselmo di dare alla sua idea di sviluppo un carattere di continuità e di escludere rotture e radicali rivolgimenti 67 . Anselmo dunque, quale esponente del grande movimento religioso del XII secolo, si differenzia dai moduli fino allora correnti in quanto riconosce alla novitas una certa legittimità fin nel cuore del presente
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e vede quindi anche nel tempo dopo Cristo uno sviluppo ulteriore. Ma questo sviluppo non esce mai fuori del quadro dell'ordine attuale, e l'idea di una rottura con la situazione dominante rimane per Anselmo lontana dall'essere pensabile. Anche per lui nel futuro più remoto sono previsti ancora, secondo lo schema corrente, solo l'avvento dell'Anticristo e il giudizio finale. È indicativo che nella visione di Anselmo i grandi mali del presente siano costituiti dall'avvento di eretici, simulatori e falsi fratres, come pure da persecuzioni contro la chiesa esistente68. Egli evita duri attacchi contro abusi nella gerarchia ecclesiastica. In tutto ciò appare chiaro che Anselmo, nonostante i suoi indubbi tratti originali, è un rappresentante della chiesa dominante. A questo punto vale la pena soffermarci brevemente su Ottone di Freising, il quale, prima di assumere la carica di vescovo di Freising, fu monaco e abate dell'abbazia cistercense di Morimond, e la cui cronaca universale è parimenti una testimonianza eloquente dell'autocoscienza del monachesimo che si andava facendo luce nel grande movimento religioso del XII secolo. A differenza di Anselmo, il cui interesse è diretto pressoché esclusivamente alla evoluzione intraecclesiastica nel senso stretto della parola, Ottone include con maggiore vigore nella sua prospettiva l'intero divenire storico. Con ciò si spiega come nella sua cronaca, di fronte alle tensioni tra chiesa e impero e di fronte alla decadenza del potere imperiale sotto Corrado III, egli giudichi nell'insieme in maniera estremamente pessimistica l'attuale situazione del mondo 69 . Ma da questo fosco quadro della sua epoca spicca tanto più splendente la visione che egli traccia a proposito dei nuovi ordini, monastici e non. Egli ritiene che la fine del mondo sarebbe stata immediatamente incombente, se non fosse stata differita per i meriti dei santi, gli abitanti della vera civitas Dei, le cui comunità fioriscono numerose e varie in tutto il mondo 70 ; in altre parole, il ruolo della forza che ritarda la fine del mondo, altrove generalmente spettante all'impero secondo la concezione medievale, qui viene trasferito al monachesimo 7 1 . Quei monaci, così egli dichiara alla fine del settimo libro della sua cronaca, hanno già superato tutti i tormenti del mondo, e in certa misura possono già adesso, dopo il compimento dell'opera dei sei giorni nella fatica e nel lavoro, pregustare il riposo eterno nella pace del vero sabato 72 . Quest'ultima osservazione è particolarmente significativa, perché Ottone di Freising qui si ricollega alla creazione del mondo in sei giorni, la quale, secondo la concezione introdotta da Agostino, rappresenta nel contempo il corso delle sei epoche della storia del mondo. Con il monachesimo del XII secolo risultano allora supe-
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rate le sei aetates del lavoro, ed è iniziata la nuova aetas del riposo? Di fatto Klinkenberg dal passo appena citato e da un altro dal significato simile73 ha tratto la conclusione che Ottone si allontani dalla dottrina agostiniana delle aetates, e «sposti a ritroso, dalla morte del singolo e dalla fine del mondo nella vita stessa e nella storia, la grande cesura tra sesta e settima aetas, tra labor-mutabilitas e requies»74; il settimo libro della cronaca, che comincia col 1100, tratta della nuova settima aetas, l'età monastica, l'«epoca dei santi»75. Se questa interpretazione fosse corretta, anche Ottone di Freising diventerebbe un precursore diretto di Gioacchino. Le argomentazioni di Klinkenberg poggiano soprattutto sul fatto che Ottone suddivide la sua descrizione della storia terrena prima dell'avvento della fine del mondo in sette libri, non, per esempio, in sei, che corrisponderebbero alle sei aetates agostiniane. Questa articolazione della cronaca, che in nessun modo combacia con quella di Agostino76, difficilmente è arbitraria, e va plausibilmente ipotizzato che essa corrisponda all'opera dei sei giorni della creazione e al relativo giorno di riposo di Dio 77 . Ne conseguirebbe che il tempo di cui il settimo libro tratta, cioè il periodo che va dal 1100 circa fino ai giorni di Ottone, è simboleggiato dal settimo giorno del riposo; in altri termini, quel settimo giorno di riposo rappresenta qui un'epoca della storia terrena, non, come era usuale fino ad allora, il riposo dei santi nell'aldilà. Tuttavia la soluzione del problema non è semplice così come appare dalle argomentazioni di Klinkenberg. Infatti da altri passi emerge con chiarezza che Ottone di Freising assume pienamente la dottrina delle sei aetates di Agostino78. Già per questo diventa improbabile che secondo Ottone intorno al 1100, con l'inizio del suo settimo libro, alla sesta aetas iniziata con Cristo debba seguire una nuova aetas, la settima, un'epoca di monaci. D'altra parte non si può negare che Ottone persegua indubbiamente una intenzione più profonda quando inizia un nuovo libro, il settimo, con il tempo intorno al 1100 e insieme, nel contesto della sua esaltazione del monachesimo, accenni al significato simbolico del numero sette, la requies animarum, che normalmente viene concessa all'uomo solo dopo la morte, ma che tuttavia i monaci possono già pregustare. Pertanto l'intenzione di Ottone di Freising potrebbe essere stata press'a poco questa: egli non voleva in alcun modo modificare la concezione di Agostino, secondo cui la sesta età dura da Cristo sino alla fine del mondo e quindi conclude la storia terrena. Anche per lui l'epoca che comincia con Cristo e che ne è segnata è l'ultima della storia del mondo. La settima età è nell'aldilà; infatti il septenarium è, come lui stesso dice, la «requies anima-
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rum, quae miseriam presenti vitae subsequitur»79. Ma nel contempo Ottone ritiene che con la fioritura degli ordini nel XII secolo si rifletta nella misera vita terrena un raggio di quel riposo ultraterreno che è simboleggiato dal settimo giorno dopo i sei giorni della creazione del mondo. Per questo egli ha riservato il settimo libro a questa sottosezione della sesta aetas, la quale è illuminata dal monachesimo e dalle sue aspirazioni elevate, ma che per il resto rimane fosca; le ha riservato dunque il libro che porta lo stesso numero del giorno di riposo di Dio dopo la creazione del mondo. Ottone quindi non vede aprirsi una nuova aetas, la settima, bensì vuole dire che già adesso, nella sesta età che senz'altro continua, si moltiplicano in figura di monaci i segni precursori del futuro sabato ultraterreno; essi annunciano la vicinanza del giudizio universale, che apporterà poi totale riposo non solo ai monaci, come avviene attualmente, ma a tutti i giusti. Ottone di Freising dunque è stato un precursore non immediato ma solo mediato di Gioacchino. Infatti le idee di Ottone tradiscono, come quelle di Gioacchino, una considerazione assai elevata del monachesimo; il monaco ottiene già nella vita terrena quella vera pace che di per sé è riservata al regno di Dio nell'aldilà. Peraltro la conoscenza del mondo esterno alla sfera idealizzata del monachesimo preserva Ottone dal vedere nell'aldiqua l'inizio di un'epoca davvero nuova, nella quale tutti gli uomini ottengano quella quies monastica e venga vinta tutta l'infelicità del mondo. Si tratta quindi di un passo che va certo molto più in là, ma che non è affatto inconcepibile: dalle idee di Ottone a quelle di un'attesa con una tensione ancora più alta. Un simile passo poteva compierlo una personalità ancora più marcatamente monastica di Ottone e che collegasse al monachesimo aspettative ancora più alte. Sia per Anselmo di Havelberg sia per Ottone di Freising è tipico che essi abbiano un'opinione estremamente alta dei movimenti del XII secolo, ma che a ciò non uniscano affatto una forte critica della gerarchia ecclesiastica. Questo era di per sé del tutto ovvio, poiché appunto i premostratensi e i cistercensi con le loro nuove regole volevano togliere vigore alla critica della chiesa mondanizzata e, in forza della loro consapevolezza di vivere in maniera più perfetta del clero secolare, non rifuggivano in genere da una critica contenuta. L'atteggiamento, sotto questo profilo molto cauto, di Ottone e di Anselmo può essere stato condizionato in buona parte dal fatto che entrambi, all'epoca della stesura dei loro scritti, non erano membri di un ordine ma alti prelati ecclesiastici. Questa loro carente volontà di critica nei confronti del-
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l'ordine ecclesiastico esistente potrebbe altresì aver reso impossibile a entrambi di arrivare a concepire l'attesa di una svolta epocale o a formulare idee millenaristiche di altro genere. Dobbiamo pertanto soffermarci su una personalità nella quale la volontà di critica e di genuina riforma viene più chiaramente in luce. Si tratta di Gerhoh, il prevosto del capitolo dei canonici agostiniani di Reichersberg, morto nel 1169. Per acquisire un corretto criterio di giudizio nei confronti di Gerhoh mi si consenta di accennare al fatto che la rinascita della vita comune secondo regole monastiche nei capitoli canonici è ugualmente frutto degli sforzi di riforma ecclesiastica alla fine dell'XI secolo 80, e che dunque i canonici agostiniani rientrano senz'altro in quell'ampio movimento religioso i cui principali esponenti sono i cistercensi e i premostratensi. Gerhoh propugna appassionatamente le istanze di riforma che, vive a partire dall'XI secolo, erano state così amaramente deluse dall'esito della lotta per le investiture. L'influsso dominante di ideali monastici, col cui aiuto i circoli fedeli alla chiesa e nel contempo filoriformatori speravano di realizzare i loro desideri, si manifesta con tutta evidenza in Gerhoh 81 ; solo che egli, il canonico regolare, rivolge la sua attenzione non al monachesimo, ma al clero, cui è affidata la cura d'anime. Caratteristica del suo atteggiamento è, per esempio, la richiesta che tutti i chierici, prima di assumere funzioni pastorali, debbano essersi assoggettati, per un certo tempo nei capitoli canonici, alle regole della vita comune e apostolica. Qui devono essere sottoposti a prova, affinché poi possano guidare il gregge loro affidato, così come hanno imparato in monastero 82 . Siccome non sono pronti canonici regolari a sufficienza per i compiti ecclesiastici disponibili, Gerhoh chiede che anche monaci, se necessario contro la loro volontà, debbano essere adibiti a questo scopo 8 3 . La norma vincolante per la vita di tutti i chierici è per Gerhoh la «regula apostolica», il cui contenuto è costituito soprattutto dalla «vita communis» che esclude la proprietà privata 84 , così come vige nei monasteri e nei capitoli dei canonici regolari. La sua concezione della vita apostolica dunque non è in alcun modo identica al mondo immaginato dagli eretici, bensì prevede essenzialmente l'applicazione delle regole monastiche a tutto il clero 85 . Con ciò egli non intende affatto mettere in dubbio, in favore del monachesimo, la legittimità dell'esistenza del clero. Egli sottolinea con forza che accanto ai monaci, che vivono di contemplazione, devono esserci anche chierici che stanno nella vita activa e devono prendersi cura dei fedeli 86 , scagliandosi esplicitamente contro coloro che pretendono di porre il monaco al di sopra del chierico 87. Ma in tale valutazione egli
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immagina sempre il chierico ideale, che è solo il chierico inquadrato in un ordine regolare nel senso rigoroso della parola 88 , ossia il chierico che vive essenzialmente secondo la regola dei monaci. Significativo per la tematica di questa ricerca è soprattutto quanto segue: in Gerhoh i duri attacchi contro la chiesa preda della cupidigia 89 si collegano alla speranza di un'imminente purificazione interiore della chiesa, nel cui corso le regole appena descritte devono diventare universalmente vincolanti. Così già nel suo Opusculum de edificio Dei, composto intorno al 1130, egli predice che il clero abbandonerà i palazzi dei signori di questo mondo, e quindi rinunzierà agli interessi politici secolari, per obbedire esclusivamente alle leggi di Dio e non più a quelle dei re. Allora vigerà esclusivamente la regula apostolorum, e saranno totalmente abrogate le leggi dei re, che con quella contrastano, così come le abitudini del clero corrotto 9 0 . È indicativo che la chiesa così purificata e sciolta dai legami con le potenze temporali sia destinata ad assumere il ruolo di guida in tutto il mondo. Infatti ai prìncipi secolari verrà tolto il potere; essi dovranno lasciare libera la chiesa, mentre «Christi [...] et ecclesiae potestas semper stabit» 91 . Dunque anche presso un sostenitore della riforma della chiesa dalla sensibilità così «spiritualistica» come Gerhoh appare quel fenomeno, contraddittorio solo per l'osservatore superficiale, che è caratteristico già per la riforma gregoriana dell'XI secolo: che cioè l'esigenza di libertà della chiesa dal potere secolare è intimamente congiunta alla rivendicazione di un'assoluta preminenza politica della chiesa. Rifacendosi a queste predizioni, Gerhoh assicura con molta forza che non si tratta affatto di ipotesi vaghe e utopistiche, ma che egli ne ha piena certezza, e non dubita che debba avvenire ineluttabilmente. Infatti quel che una volta è stato indicato e profetizzato nell'Antico Testamento, si realizzerà in questi tempi, poiché ognuno può vedere che molte di quelle cose già si sono verificate 92 . Nel commento al Salmo 64 Gerhoh esprime in modo ancora più inequivocabile la sua visione futura del trionfo della chiesa sui poteri temporali. Egli si richiama qui alla nota visione di Daniele (2, 34), secondo cui la pietra staccatasi «non per mano d'uomo» dalla montagna distrugge la statua che rappresenta le monarchie temporali. Gerhoh interpreta questo passo nel senso che prima della seconda venuta di Cristo per il giudizio i grandi regni saranno dissolti in piccoli staterelli, che poi non saranno più in grado di minacciare la chiesa e gli ecclesiastici. A protezione e difesa della chiesa si leverà allora un papa innalzato al di sopra di tutti i regni 93 .
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L'attesa qui chiaramente espressa di una esaltazione del papato sopra tutti i poteri temporali è tanto più significativa, in quanto è diametralmente opposta all'attesa largamente diffusa di un imperatore finale. Questo cambiamento non è sorprendente in sé. Dopo che il papato col movimento di riforma dell'XI secolo era diventato un fattore dominante di tutta la vita politica in Occidente, era ovvio che nella visione di determinati circoli ecclesiastici il papato prendesse il posto fino ad allora riservato all'impero; ciò era destinato prima o poi a ripercuotersi anche nell'ambito delle attese del futuro, tanto più che la «profezia», nel senso più ampio della parola, era allora uno strumento molto efficace nella formazione dell'opinione pubblica. Così si spiega come si affacci adesso l'idea che il giudizio universale non sia più preceduto dal trionfo di un imperatore finale, bensì dal trionfo di una chiesa riformata rappresentata dal papa. Che proprio Gerhoh sviluppasse una simile visione del futuro opposta alla profezia dell'imperatore finale non è strano, data la sua incondizionata presa di posizione per il papato riformatore e il suo odio verso Enrico IV 94 . Peraltro la visione di Gerhoh di un papa venturo che conseguirà un dominio universale non si è ancora condensata nella figura pregnante del «papa angelico»; ma si dovrà tenere conto delle attese di Gerhoh, se si vuole dare una risposta alla questione formulata da Baethgen: «Se l'altro grande fattore universale del medioevo, cioè il papato, non sia stato in grado da parte sua di contrapporre una figura di efficacia altrettanto suggestiva alla grandiosa apoteosi dell'idea di dominio come è presentata dalla profezia imperiale» 95 . Si può dunque constatare che il contrattacco del partito ecclesiastico nei confronti dell'attesa dell'imperatore finale venne anticipato già nel XII secolo dalla visione del futuro di Gerhoh, anche se solo l'idea del papa angelico del XIII secolo diede a queste concezioni forma efficace per il pubblico. L'attesa secondo cui poco prima del giudizio universale si realizzerà ancora una volta una chiesa purificata di perfezione apostolica, si trova finalmente anche nello scritto di Gerhoh De investigatione Antichristi, la cui seconda redazione, l'unica conservata, è databile tra il 1160 e il 1162. Con metodo tipologico, qui egli interpreta i lavori di restauro del tempio di Gerusalemme, disposti da Erode poco prima della nascita di Cristo per riportarlo alla piena altezza originaria di centoventi braccia, come un'allusione: la chiesa, immediatamente prima del ritorno di Cristo, sarà riportata dagli «spirituales», con l'aiuto dei prìncipi secolari, allo stato della perfezione apostolica 96 . Va fatto notare, infine, che Gerhoh non ha abbandonato la speranza di un'imminente purificazione della chiesa anche nell'ultimo scritto
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De quarta vigilia noctis97, nel quale descrive a tinte particolarmente fosche la decadenza dell'ordine ecclesiastico. Qui si dice che Cristo, prima di apparire per il giudizio finale, imporrà la quiete al vento e al mare «ut fiat magna tranquillitas»98. «La chiesa di Dio sarà emendata dalla lordura dell'impurità e della simonia e sarà per così dire adornata della corona d'oro, perché vi sia grande gioia nel popolo cristiano». Si preparerà così la venuta del Signore per il giudizio, dopo l'annientamento dell'ultimo Anticristo, così come l'aurora precede il sorgere del s o l e " . Gli angeli che metteranno al sicuro quest'ultimo seme, ossia coloro che contribuiranno a provocare quest'ultima svolta verso il bene, saranno — come scrive Gerhoh in un altro passo — monaci irreprensibili e chierici che «vivono in comune» sul modello degli apostoli 10°. Le espressioni appena citate dell'ultimo scritto di Gerhoh fanno emergere con particolare chiarezza un aspetto caratteristico di tutti i suoi scritti, cioè la convinzione che a quest'ultima purificazione della chiesa seguirà presto la fine del mondo. Di conseguenza Gerhoh, nella sua periodizzazione del corso storico, non riserva mai a quest'ultimo tempo di riposo una sua epoca vera e propria. Così nel suo scritto De quarta vigilia noctis egli riferisce le quattro veglie alle quattro epoche della storia della chiesa cristiana. La prima epoca abbraccia il tempo dei martiri, la seconda il tempo degli eretici e dei confessori che si contrappongono loro; il terzo periodo va da Gregorio I fino a Gregorio VII. La quarta e ultima epoca è quindi iniziata già intorno al 1100, ed è contrassegnata anzitutto proprio da fenomeni di decadenza della chiesa particolarmente gravi, che poi con l'aiuto di Dio saranno superati 101 ; come a dire che il breve tempo di riposo è solo un sottoperiodo di quella quarta e ultima epoca della storia della chiesa. Quell'epoca ventura della chiesa purificata non ha dunque una consistenza propria sufficiente per connettersi con la coscienza di una nuova epoca storica; al contrario quel tempo di riposo rimane — proprio all'opposto della concezione di Gioacchino — una fase di passaggio transitoria che si inserisce tra lo stato di decadenza, che sta assolutamente in primo piano, e il giudizio universale. Qui appare chiaramente in quale ampia misura simili attese di rinnovamento si inquadrino nella concezione universalmente dominante secondo cui il tempo che precede la fine del mondo rappresenta un'epoca iniqua, contrassegnata dall'azione dell'Anticristo; questa constatazione vale non solo per Gerhoh, ma anche, come vedremo, per le visioni del futuro di Ildegarda di Bingen e perfino di Gioacchino da Fiore.
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Questi accenni potrebbero aver chiarito i limiti dell'attesa da parte di Gerhoh di un imminente stato ideale. Ma nondimeno è un progresso considerevole che nella sua concezione l'inizio di quel tempo di piena perfezione, peraltro di breve durata, presupponga un profondo cambiamento dell'ordine ecclesiastico, una vera riforma. Chiaramente, per lui non si tratta più solo di un sogno, fuori del tempo e oltre la situazione esistente, di un'epoca felice di pace, quale si fa luce nelle precedenti profezie intorno all'imperatore; qui, diversamente, dall'insoddisfazione profonda e consapevole per l'esistente si risveglia l'attesa di un tempo migliore in cui le storture attuali saranno superate. Che poi i mezzi da lui prospettati per raggiungere questo scopo siano del tutto insufficienti e non intacchino in linea di principio la sostanza della chiesa, non necessita di ulteriore spiegazione. Gerhoh sostiene un programma di riforma moderatamente utopico, non un programma rivoluzionario; di più non ci si può neppure attendere da un canonico animato sì da alti ideali, ma ortodosso. Per molti aspetti, analoghi caratteri tipici denotano anche la personalità su cui adesso ci soffermiamo, Ildegarda di Bingen. In verità Ildegarda è benedettina, dunque non sta in relazione diretta con il movimento degli ordini monastici del XII secolo finora in primo piano nella trattazione. Lo conferma il fatto che ella giudica in maniera assolutamente negativa l'attuale situazione della chiesa, e al contrario di Anselmo di Havelberg e di Ottone di Freising non riesce a scorgere nella sua epoca alcuna istituzione e alcun fenomeno che possano controbilanciare le storture vigenti, o tanto meno superarle. Accanto al Liber Scìvias apparso nel quinto decennio del XII secolo e ad alcune lettere, soprattutto il Liber divinorum operum 102, scritto tra il 1163 e il 1174, è illuminante per capire come Ildegarda inserisca il suo tempo nel corso della storia universale, e che cosa attenda per il futuro. In questo libro Ildegarda interpreta il proprio secolo come un tempo di «muliebris debilitas»103, dunque come un tempo di effeminata debolezza. Dopo un lungo periodo in cui la fede e la iustitia sono continuamente cresciute 104 , con l'avvento di un tiranno 105 o di un judex regalis nominis106 è subentrata la decadenza generale. Non si riesce a scorgere con chiarezza dalle testimonianze che risalgono direttamente a Ildegarda chi fosse questo tiranno nel cui periodo di dominio si colloca la svolta fatale nella storia della chiesa 107 . Nella Vita s. Hildegardis, conclusa negli anni Ottanta del XII secolo 108, si trova un accenno a una visione di Ildegarda secondo la quale la dottrina degli apostoli e la giustizia cominciarono a perdere vigore intorno al 1100 109 . È senz'altro probabile che questa indicazione crono-
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logica del periodo di decadenza rifletta correttamente le idee di Ildegarda, giacché anch'ella in una lettera del 1163 dichiara che l'«antico serpente» cominciò a sedurre i popoli sessantadue anni prima, dunque nel 1101 u o . Ciò significherebbe che il tempus muliebre sarebbe cominciato con Enrico IV; dunque Ildegarda vedeva in questo re il tiranno che avrebbe introdotto la corruzione nella cristianità. Ciò induce a ritenere che Ildegarda per molti aspetti fosse vicina al partito della riforma ecclesiastica; se ne ha la conferma dal fatto che Ildegarda dopo lo scisma papale del 1159 prese posizione contro il Barbarossa 1 1 1 e che — argomento sul quale ci si è addentrati con maggiori dettagli — nelle sue attese del futuro la figura di un imperatore finale che porta la pace non svolge alcun ruolo. I fenomeni di decadenza del tempus muliebre da lei severamente condannati riguardano anzitutto l'ordine ecclesiastico. «Ecclesia desolata est», constata. Manca una giusta guida di cui gli uomini possano fidarsi; «perversi mercenarii» — ella intende chiaramente gli ecclesiastici avidi e venali — opprimono per cupidigia di denaro i fedeli e li derubano dei loro beni, appoggiati da un tiranno ingiusto 112 . Tutte le istituzioni ecclesiastiche sono cambiate in peggio e non si trovano più nello stato creato dagli apostoli e dai padri 1 1 3 . Ma Ildegarda non deduce da questa situazione disperata che siano imminenti l'avvento dell'Anticristo e la fine del mondo, bensì profetizza una purificazione della chiesa. In queste profezie l'elemento nuovo ed estremamente significativo per lo sviluppo ulteriore delle concezioni millenaristiche e affini è che Ildegarda, la quale in quanto benedettina non può condividere l'ottimismo consapevole di sé degli esponenti dei nuovi ordini, vede come unica via pensabile per questa purificazione un giudizio di condanna violenta e catastrofica contro la chiesa; ella dunque non ritiene che soltanto la silenziosa opera di monaci e chierici regolari sia sufficiente a provocare una svolta verso il meglio. Le sue attese a questo riguardo partono in maniera del tutto realistica dalla situazione concreta, dalle tensioni tra i detentori del potere temporale e la chiesa, che in seguito alla doppia elezione romana del 1159 e allo scontro tra papa Alessandro III e Federico Barbarossa si alimentavano nuovamente in diverse parti dell'impero. In tale contesto Ildegarda pone sulla bocca dei prìncipi secolari le seguenti parole: «Per quanto tempo ancora dobbiamo tollerare e sopportare quei lupi rapaci [si intendono gli ecclesiastici] [...] essi per avidità divorano tutto ciò che possono ottenere, e ci rendono poveri e indigenti [...]. Noi non vogliamo che quelli dominino su di noi, con beni, terre e altri possedimenti temporali a cui siamo preposti come prìncipi. È giusto,
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per esempio, che ecclesiastici con stola e paramenti abbiano più cavalieri e armi di noi? [...] Togliamo dunque loro quello che posseggono ingiustamente!»114. In un altro passo Ildegarda poi afferma che accanto ai prìncipi il «temerarius populus» si scaglierà contro i preti, li scaccerà e li spoglierà delle loro ricchezze 115 . Gli eretici svolgeranno un ruolo importante nel sobillare i prìncipi e il popolo contro il clero; le loro parole saranno tanto più efficaci, in quanto essi per consiglio diabolico avranno un contegno estremamente umile e casto, rifiuteranno l'avidità e il denaro, andranno in giro con abito modesto, sicché difficilmente si potrà rinfacciare loro qualcosa 116 . Da tutto ciò si ricava un'altra osservazione interessante. Ildegarda, che in verità ha attaccato aspramente gli eretici del suo tempo 117 , non si identifica in alcun modo con i persecutori della chiesa. Al contrario, il metodo violento che ella ritiene necessario, di prìncipi ed eretici contro il clero mondanizzato, è un «torto che deve eliminare un torto» 118 . È quindi chiaro che Ildegarda, per quanto deplori e condanni le storture all'interno della chiesa, sente di appartenere proprio a questa chiesa, e in ultima analisi prende partito per essa. Questo spiega anche l'altra sua predizione, cioè che alla fine i grandi e i prìncipi, dopo aver conosciuto la vera natura di quegli eretici, si getteranno su di loro e li annienteranno 119 . Allora tutto viene ripristinato correttamente, e il tempo è maturo per l'inizio di un periodo di perfezione. Infatti — Ildegarda lo sottolinea esplicitamente in antitesi alle concezioni correnti — quegli ingannatori e persecutori eretici non erano affatto già «quelli che appariranno immediatamente prima della fine dei giorni, quando il diavolo si leverà in alto» 12°. Anzi, in luogo del giudizio finale inizierà ora un tempo in cui brillerà l'aurora della giustizia, il clero «brillerà come l'oro più puro» e rimarrà per molto tempo in questo stato 121 . Quest'ultima osservazione è notevole, perché con essa allo stato ideale futuro viene attribuito esplicitamente una certa durata temporale, e quindi una maggiore consistenza propria. Quanto alle caratteristiche che devono contrassegnare quel tempo, Ildegarda constata anzitutto che il clero allora non avrà più numerosi possedimenti e grandi ricchezze 122. I preti, i monaci e gli altri membri di ordini rinunceranno al superfluo 123 . In verità sarebbe falso voler dedurre da questa espressione che Ildegarda abbia invocato, come gli eretici di allora, una chiesa spogliata di ogni possedimento temporale e quindi un ritorno alla chiesa primitiva, nel senso, per esempio, dei valdesi 124 . Non esige affatto dal clero una rinuncia completa ai beni temporali, bensì solo una rinuncia al superfluo. Così, per esem-
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pio, attribuisce ai prìncipi che vogliono sottrarre alla chiesa le sue ricchezze le seguenti considerazioni: essi vogliono prendere al clero solo quello che possiede illegittimamente; invece quello che è stato consegnato alla chiesa con retta intenzione per la salvezza delle anime le deve rimanere, «quoniam hoc rapina non est» 125 . Dunque anche su tale questione Ildegarda, che apparteneva all'alta nobiltà 126 , si discosta chiaramente dalle correnti eretiche radicali. Gli altri avvertimenti di Ildegarda indicano che, vedendo la crescita della chiesa, numerosi pagani si convertiranno alla fede cristiana 1 2 7 . Anche i prìncipi secolari allora governeranno con giustizia. Essi vieteranno tutte le armi e ammetteranno solo quegli strumenti di lavoro in ferro necessari all'agricoltura e alla soddisfazione di altri bisogni pacifici. Nel contempo, si stabilirà un clima mite, che provocherà una fecondità straordinaria128, predizione che Ildegarda ha palesemente ripreso dalla Sibilla tiburtina129. Gli uomini, ammirati di fronte a questa straordinaria affermazione della giustizia e della pace, dichiareranno di non aver mai visto né sentito fino a quel momento qualcosa del genere; peraltro, sapendo che a questo tempo di pace seguirà il giorno del giudizio universale, la loro gioia non sarà illimitata 13°. A questo proposito è interessante che il metodo di Ildegarda per qualche aspetto ricordi già la tipologia di Gioacchino. Ella constata, per esempio, che il tempo di pace che precede il giudizio universale corrisponde al periodo di pace antecedente alla prima manifestazione di Cristo 1 3 1 . Ciò significa che anche Ildegarda in questo caso non interpreta in maniera meramente tradizionale persone e avvenimenti dell'Antico Testamento come prefigurazioni di fatti del Nuovo Testamento, ma considera l'intera storia della chiesa, come poi ha fatto Gioacchino in maniera molto più sistematica 132 . Da quanto si è detto a proposito di Ildegarda sono fin qui emerse le seguenti caratteristiche per l'imminente tempo di pace: in primo luogo vi sarà allora una chiesa riformata, purificata da tutti gli abusi; inoltre Ildegarda riprende i sogni delle precedenti profezie sull'imperatore finale, cioè l'attesa di un regno di pace, giustizia e fecondità, laddove peraltro va osservato che per Ildegarda queste conquiste non necessariamente richiedono un imperatore della pace che domini il mondo. Inoltre Ildegarda attende per quest'epoca futura un progresso essenziale anche in un altro ambito: verrà concessa agli uomini una conoscenza immediata più profonda delle verità divine. In quel periodo di pace, così dichiara nel Liber divinorum operum, lo Spirito santo effonderà sugli uomini la rugiada della sua grazia in
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forma di profezia, sapienza e devozione; allora gli uomini appariranno trasformati in meglio. L'Antico Testamento fu solo una figura umbratile della vita spiritualis, poiché era totalmente dominato dall'elemento creaturale. Allora ogni frutto era nascosto nella terra, come in inverno. Solo con la nascita di Cristo si manifestò chiaramente la «spiritualis significatio», così come l'estate produce fiori e frutti. Ma in quei giorni venturi comincerà la vera estate, la vita spiritualis si manifesterà pienamente, la profezia si dischiuderà, la sapienza proromperà vigorosa, e tutti i fedeli vi si riconosceranno come in uno specchio. Gli angeli, che finora evitano gli uomini a causa dei loro peccati, li frequenteranno familiarmente 133 . Senza dubbio queste parole di Ildegarda nel Liber divinorum operimi, per molti aspetti oscure, devono significare che in quel periodo di pace gli uomini avranno un accesso immediato alle verità divine; e non da ultimo per questo motivo avverrà in loro un cambiamento di senso. Ulteriori ragguagli su tale questione si ricavano dal Liber Scivias, composto sostanzialmente già in precedenza. In quest'opera Ildegarda divide la storia universale in sette età, in corrispondenza all'atto creativo di Dio, che in sei giorni creò il mondo e il settimo giorno si riposò 134 . Le prime cinque aetates riguardano, secondo la visione tradizionale, il tempo prima di Cristo; la sesta età invece non dura — come avevano ipotizzato Agostino e, sulla sua scia, la maggior parte dei pensatori cristiani — sino alla fine del mondo, ma solo fino al tempo di Ildegarda. In questi anni comincia già il settimo saeculum corrispondente al settimo giorno di riposo di Dio; esso durerà poi sino alla fine del mondo 135 . La periodizzazione di Ildegarda dunque ricorda già molto marcatamente quella di Gioacchino da Fiore, in antitesi alla tradizione dominante. Anche per Ildegarda, come per Gioacchino, la «quies» 136 contraddistingue la settima età, come il settimo giorno della creazione; e invero nel tempo futuro regnerà il riposo nella misura in cui cesseranno la fatica e il lavoro, a cui i doctores saranno costretti fino ad allora per la profondità dei sigilli chiusi della sacra Scrittura. Allora la verità divina si manifesterà apertamente e potrà essere esposta in parole facilmente comprensibili 1 3 7 . Questo cambiamento è diventato necessario perché la fede cattolica si è fatta vacillante tra i popoli, i voluminosi libri dei doctores suscitano noia e il cibo delle Scritture divine si è raffreddato 138 . Le argomentazioni successive a queste considerazioni nel Liber Scivias accennano al fatto che la predicazione profetico-visionaria, caratteristica della stessa Ildegarda, deve essere un esempio della nuova forma di istru-
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zione nella fede, più profonda ma non bisognosa di erudizione. Infatti in questa visione la voce divina promette a Ildegarda: «Perciò adesso parlo tramite un essere umano che non parla di scritti e non è stato istruito da un magister terreno; ma tramite lui esprimo nuovi misteri e molte cose piene di mistero che finora erano celate nei libri»139. Con questo concorda un cenno della Vita secondo cui Ildegarda ha compreso nella visione, «sine ulla humana doctrina», gli scritti dei profeti, degli evangelisti e dei padri 140 . Le argomentazioni del Liber Scivias coincidono dunque ampiamente con le attese di una conoscenza più profonda della verità, cui si allude molto oscuramente nel Liber divinorum operum. C'è una sola differenza tra queste due opere: nel Liber Scivias non si parla dell'attesa di una purgatio, cioè di una riforma della chiesa e di un'epoca di pace 141 . Nell'opera più antica l'interesse di Ildegarda è rivolto principalmente alla contemplazione, in visione, della verità divina, e la settima età della quies, che sta per iniziare, suscita conseguentemente solo una trasformazione interiore, spirituale, mentre l'ordine esteriore di chiesa e società resta sostanzialmente ignorato. La speranza di Ildegarda, che emerge così chiaramente, secondo cui la visione immediata della verità divina renderà superflua l'erudizione teologica, sembra essere tra l'altro una reazione di difesa contro la scolastica che andava fiorendo in Francia; proprio in Germania questa venne guardata con sospetto come una profanazione della fede e fu decisamente rifiutata anche da Ildegarda 142 . Nella sua visione, in futuro «fortes viri in magna prophetia», dunque dei profeti, ammaestreranno i popoli al posto dei doctores, dei teologi di formazione 143 ; del resto la stessa Ildegarda va considerata profetessa più che mistica 144 . La profezia, contrariamente alla teologia scientifica, poggia sull'ispirazione immediata da parte dello Spirito santo o Spirito di Dio; essa non si esaurisce affatto nel puro momento contemplativo, nel desiderio individuale di conoscenza più profonda, ma costituisce un fattore eticomorale efficace in sommo grado, capace di ricondurre sulla retta via gli individui traviati l45 . Perciò il profeta, che nel suo ambiente unisce una conoscenza immediata e più profonda del divino con una efficace azione morale, è più che mai idoneo a porre termine al periodo di debolezza muliebre e a sollecitare l'avvento di quell'atteso tempo migliore. Si deve tenere presente al riguardo che Ildegarda con il rigetto della zavorra scientifica, a suo avviso sterile, e con la «facilità delle parole» 146 voleva indubbiamente rendere possibile anche un'influenza religiosa più efficace tra la popolazione laica; laddove può aver giocato
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un ruolo decisivo il desiderio di poter meglio contrastare in questo modo la crescente diffusione dell'eresia. Ciò ha indotto Dempf a formulare questa tesi: in Ildegarda emerge già chiaramente l'istanza della «predica popolare evangelica» nel senso dell'«ideale francescano» l47 . Ora, anche se si deve concedere che Ildegarda, nel tentativo di rafforzare presso i laici il credito della chiesa, in molti aspetti si avvicina ai princìpi della predica popolare francescana 148 , tuttavia sembra esagerato concepire il simbolismo tedesco del XII secolo come un'anticipazione dell'«ideale gioachimita-francescano nel suo insieme», come fa Dempf. Proprio Ildegarda, che così palesemente è radicata nell'antica tradizione benedettina e in fondo opera in maniera davvero aristocratica 149 , testimonia inequivocabilmente la distanza che separa il simbolismo tedesco dal movimento francescano così fortemente segnato da correnti popolari. Va rilevato ancora un aspetto a proposito dell'attesa da parte di Ildegarda dell'avvento di personalità profetiche e di una accresciuta conoscenza della verità: queste sue visioni del futuro non toccano in alcun modo l'ordine gerarchico e il dogma della chiesa esistente 15°. Ildegarda attende non una nuova rivelazione, ma solo una conoscenza più profonda delle antiche verità. Il concetto di «spiritualis populus», utilizzato diverse volte in relazione a quel tempo futuro 151, non ha niente in comune con gli «spirituales» di Gioacchino da Fiore, i quali sono destinati a sostituire l'ordo clericorum. Viceversa in Ildegarda il concetto di «spiritualis populus» abbraccia tutti gli uomini dediti alla vita spirituale, dunque sia chierici sia monaci 152 ; di conseguenza Ildegarda lo usa spesso anche per designare questi gruppi all'interno della chiesa attuale 153 . Il suo atteggiamento conservatore si manifesta anche quando più volte inculca al popolo l'obbligo dell'obbedienza alle istituzioni ecclesiastiche e secolari preposte 154 . B. Widmer dà pertanto un giudizio perfettamente calzante quando dichiara: «Laddove si tratta dell'ordine ecclesiastico, ella si riconosce in un conservatorismo estremo» 155. In conclusione, per sintetizzare la visione che Ildegarda ha del futuro, mi si consenta di accennare a come immagina, nel Liber divinorum operum, il corso ulteriore degli eventi dopo quel periodo di pace 156 . A questo proposito è significativo che Ildegarda prospetti una ripetuta alternanza di fasi positive e negative. Ella denota i diversi periodi mediante cinque animali, ricollegandosi al Liber Scivias157. Un cane di fuoco è il simbolo del suo tempo, il tempus muliebre158. Il tempo successivo, quello del giudizio di condanna sulla chiesa, è designato dal leone 159 . Il tempo di pace e di abbondanza atteso come sue-
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cessivo, che è stato appunto analizzato a fondo, conduce subito di nuovo a una decadenza morale e religiosa generale. È il tempo del cavallo pallido 1 6 0 . I popoli pagani riconoscono che la cristianità vive nella pace e nel benessere «sine armis et sine robore» e la colpiscono con tremende devastazioni 1 6 1 . D o p o che i cristiani sono stati in questo modo nuovamente puniti, i pagani sono vinti dall'intervento di Dio; molti addirittura si convertono alla fede cristiana. Nel contempo anche Ximperium romanum perde il suo potere e la sua dignità, perché gli imperatori romani non cercano più il bene dei popoli e sono diventati superflui. I popoli che sentono l'impero come un peso si sceglieranno propri re indipendenti. Insieme, anche il potere papale verrà diviso, sicché al vescovo di Roma si obbedirà solo nel territorio di Roma 1 6 2 . Si arriverà così alla situazione in cui ogni sovrano governa solo il suo regno e il suo popolo, e ogni arcivescovo o altro dignitario ecclesiastico ha cura solo di coloro che gli sono affidati. Gli uomini pertanto non saranno più afflitti da quei mali cui finora erano stati esposti. Inizia dunque un secondo periodo di giustizia che presenta caratteristiche simili al primo periodo di pace 1 6 3 . È degno di nota che l'inizio di questo nuovo tempo di pace sia collegato con il venir meno dei due poteri universali finora in auge, l'impero e il papato. Sembra che gli scontri tra imperatore e curia, causa di continue sciagure, abbiano condotto Ildegarda all'ipotesi, del tutto originale nel suo genere, che proprio il crollo di questi due fattori tradizionali di ordine renda possibile una situazione che risponde ai princìpi della giustizia. Vi è in ciò un evidente rifiuto delle profezie relative all'imperatore finale 1 6 4 che le erano senza dubbio n o t e l 6 5 , e nel contempo una presa di posizione contro l'impero l 6 6 . Ma d'altra parte non si può ignorare che nel contempo — proprio all'opposto di Gerhoh — ella nega anche al papato un ruolo corrispondente. È dunque chiaro che anche un'appartenente all'ordine benedettino, legato alla tradizione, non riprende acriticamente le prospettive della generazione della lotta per le investiture, e non fa affidamento sul papato in tutto e per tutto. Su questo punto si può chiaramente avvertire anche in Ildegarda la critica, viva nelle nuove correnti del XII secolo, alle pretese di dominio temporale della curia. Anche il secondo periodo di giustizia dura solo un tempo limitato, «perché il mondo non persevera mai nel medesimo stato» l 6 7 . Eresie insorgenti e molti altri mali, di cui è simbolo il quarto dei cinque animali, il maiale, dimostrano la vicinanza dell'Anticristo. Si svolgono quindi, sostanzialmente nel rispetto delle visioni tradizionali, gli ultimi a w e -
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nimenti terreni. Contro l'Anticristo entrano in campo, inviati da Dio, Enoch ed Elia, i quali però vengono uccisi da un nuovo violento colpo di coda dell'Anticristo, simboleggiato dalla quinta bestia, il lupo grigio l68 . Segue la fine del mondo col giudizio universale. Il continuo mutamento di situazioni sopra evidenziato ha indubbiamente nuociuto alla consistenza propria e all'attrazione esercitata dalla prospettiva dei due tempi di pace venturi. Purtroppo Ildegarda non ha ripreso nel Liber divinorum operum l'idea, sviluppata nel Liber Scivias, di una settima età di quies concepita in termini meramente spirituali, e non l'ha collegata alle idee colà sostenute di una riforma della chiesa e di un'età di pace e di giustizia. Per tale motivo la sua visione del futuro ha avuto una incidenza assai meno profonda della proclamazione di Gioacchino relativa al terzo status, anche se in Ildegarda il tempo di pace venturo presenta in misura ancora maggiore che, per esempio, in Gerhoh caratteristiche che ricordano la concezione di Gioacchino. Particolarmente significativo, in un confronto tra le idee di Ildegarda e quelle di Gioacchino, è — come già accennato — il fatto che Ildegarda, con l'attesa secondo cui nel periodo di pace i misteri divini sono destinati a essere chiaramente conoscibili in una visione immediata, si avvicina alla dottrina di Gioacchino circa 1 'intelligentia spiritualis, la quale è destinata allo stesso modo a rendere superflui gli «studia litterarum». Ma una considerazione più attenta mostra che anche su questo punto l'evidente contatto tra le idee di Ildegarda e quelle di Gioacchino è in primo luogo formale. Entrambi, Ildegarda e Gioacchino, sono — in antitesi alla nascente scolastica — sostenitori del tradizionale modo di pensare allegorico-tipologico, la cui essenza consiste nel cercare, dietro gli avvenimenti dell'Antico e del Nuovo Testamento, verità più profonde, eterne, ovvero nel riconoscere nei fatti dell'Antico Testamento allusioni alla chiesa di Cristo e quindi, in genere, al piano salvifico di Dio. Questo metodo esegetico profondamente radicato, che qualifica «la forma di pensiero del medioevo occidentale» l69 , che cerca dietro ogni cosa una verità eterna e connessioni più profonde difficilmente accessibili all'intelletto umano, può certo generare facilmente il desiderio di dare esito positivo, mediante un'illuminazione divina immediata, allo sforzo umano di conoscere il senso vero, uno sforzo che non ha mai un pieno successo. Entrambi, Ildegarda e Gioacchino, hanno atteso per la nuova epoca che sta cominciando una realizzazione di questo desiderio. Ma si esaurisce sostanzialmente qui la comunanza del loro mondo ideale. Mentre in Ildegarda questo desiderio non tocca in nessun modo la gerarchia e il dogma ecclesia-
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stico, Gioacchino sviluppa — come vedremo — una concezione che minaccia le fondamenta dell'ordine ecclesiastico esistente. Tuttavia, nonostante queste puntualizzazioni, va riconosciuto che Ildegarda ha fatto un passo essenziale in direzione di una vera rinascita di idee millenaristiche 170. Il periodo da lei atteso della chiesa purificata, della pace e della propbetia aperta tradisce il desiderio di dar vita, tramite una vera trasformazione delle condizioni attuali, a un ordine perfetto della società umana. A questo proposito è indicativa soprattutto la sua ammissione che questo stato ideale si realizzerà solo mediante l'uso della forza contro la chiesa corrotta, e che pertanto in breve si abbatterà sulla chiesa una grande persecuzione 171 . Di conseguenza non convince quanto B. Widmer afferma a proposito delle visioni che Ildegarda sviluppa nel Liber divinorum operum e in alcune lettere. Widmer ritiene che l'aurea aetas in Ildegarda sarebbe solo «un'isola di pace in mezzo al mondo che tutt'intorno si dissolve», e che «un incremento di spiritualizzazione [...] subentrerà solo nel senso di una intensificazione, non di una diffusione» 172 . Ora, certo, anche se Ildegarda non presuppone che i misteri della fede saranno aperti a tutti in uguale modo, ma attribuisce ciò soprattutto a personalità profetiche che potrebbero senz'altro appartenere a ordini ecclesiastici, tuttavia sottolinea energicamente che la loro opera andrà a beneficio della purificazione morale dell'intera cristianità. L'imminente era di pace non sarà affatto «così spirituale» da «non poter far emergere l'idea di uno splendore terreno e del potere di un imperatore della pace universale»173. In tale asserzione l'unica cosa giusta è che Ildegarda rifiuta, per i motivi addotti, l'attesa di un imperatore della pace, ma non si può in alcun modo negare totalmente «splendore terreno» alla futura epoca di pace. Si ricordi soltanto che per questo tempo Ildegarda attende una fertilità straordinaria che renda i cristiani «in substantia locupletos» 174 , dunque talmente colmi di beni, che essi proprio per questo si rilasseranno e indurranno i popoli pagani a nuovi attacchi. Tutto ciò peraltro non cambia nulla del fatto che Ildegarda in linea di principio si collochi dalla parte delle classi dominanti e della gerarchia ecclesiastica; e ciò appare in particolare nel fatto che ella considera come un male la persecuzione della chiesa riconosciuta necessaria. Ildegarda è dunque testimone che la crescente opposizione alla chiesa feudale costringe anche gli esponenti delle forze dominanti a riflettere su come ovviare a ciò che si presta ad attacchi, e alle storture che l'ordine esistente presenta, allo scopo di salvare così proprio tale sistema, in forma corretta, nei suoi tratti fondamentali. Ildegarda
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quindi si propone di eliminare le contraddizioni che non si possono superare nel modo da lei sperato, finendo perciò nella sfera dell'utopia. Tuttavia la sua concezione mostra la correttezza del nostro assunto, secondo cui tensioni più profonde nel tessuto della società esistente, quali appaiono dal XII secolo con lo sviluppo delle città e della borghesia, costituiscono i presupposti per l'emergere di attese di uno stato futuro ideale, che presenta profonde e autentiche trasformazioni rispetto alla situazione esistente. Diventa quindi chiaro nel contempo che quell'orientamento spirituale emergente in Germania nel XII secolo, designato da A. Dempf col concetto di «simbolismo tedesco» e i cui rappresentanti tipici sarebbero Ildegarda di Bingen, Gerhoh di Reichersberg e Ottone di Freising, è risultato dalla problematica di quel tempo. Certo questo simbolismo, col suo tipico metodo tipologico tradizionale 175 , manifesta un tratto senz'altro conservatore, a paragone della scolastica che andava sviluppandosi in Francia. Tuttavia anche se tale metodo, contrariamente al metodo scolastico, è tradizionale nella sua forma, in questi simbolisti del XII secolo acquisisce aspetti assolutamente nuovi sotto il profilo del contenuto. Infatti mentre la simbologia precedente vede negli eventi dell'Antico Testamento solo figure che rimandano a Cristo e agli avvenimenti del Nuovo Testamento, e non contempla il corso ulteriore della storia della chiesa 176 , adesso l'intero decorso storico diventa problematico per l'evoluzione che procede più rapidamente e per l'emergere di nuove tensioni e difficoltà. Attraverso una prospettiva ordinatrice dello sviluppo finora compiuto, si tenta soprattutto di interpretare il presente; ci si sforza, in base agli avvenimenti dell'Antico Testamento, di svelare perfino il futuro immediato. Questo rivolgersi a una «esegesi attuale»177 tradisce fin troppo chiaramente che ora la situazione sociale e spirituale solleva nuovi problemi quali l'alto medioevo, cioè l'epoca che giunge fino all'XI secolo, non conosceva ancora. Solo i profondi mutamenti della struttura sociale ed ecclesiastica nell'XI e XII secolo condussero ad affinare la vista nei confronti del continuo sviluppo della società umana, e delle carenze dell'ordine esistente; anche membri della chiesa, cioè rappresentanti della classe dominante, cominciarono a riflettere su un radicale miglioramento delle condizioni di quel periodo. Si spiega così come il metodo tipologico tramandato da lungo tempo assuma ora una tendenza marcata nel senso della storia del tempo o della critica del tempo 178 e che in singoli casi sfoci nell'attesa di uno stato ideale già sulla terra, invero calcolato per lo più come breve.
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A conclusione di questo capitolo occorre ora trattare di un altro testo scritto in Germania, il Liber de semine Scripturarum, che, per quanto composto verosimilmente da un ecclesiastico di Bamberga non prima del 1204-05 179, quindi dopo la morte di Gioacchino, per il suo carattere va piuttosto inserito entro le attese escatologiche pregioachimite. Infatti questo scritto non conosce l'attesa di un vero e proprio nuovo status-, sotto il profilo del contenuto non appartiene quindi all'ambito della letteratura pseudogioachimita 180 , benché, come è già stato più volte sottolineato dagli studiosi, in seguito sia stato utilizzato spesso dai circoli gioachimiti e infine sia stato anche attribuito a Gioacchino stesso 181 . Secondo l'autore del Liber de semine Scripturarum le ventitré lettere dell'alfabeto latino rappresentano i ventitré secoli che seguono la fondazione di Roma 182 . Ai fini della nostra indagine è interessante soprattutto ciò che l'autore di questo scritto dice degli ultimi tre secoli che cominciano con il 1215; essi vengono indicati con le lettere X, Y e Z. Il secolo precedente, della lettera V, che si protrae fino al 1215, ha portato con sé pesanti guasti e perdite per la cristianità. Gerusalemme è caduta in mano ai saraceni, il clero si è totalmente corrotto e ha affossato l'impero romano 183 . Il secolo seguente, della lettera X, la «littera resurrectionis, unctionis et dignitatis», viceversa porta con sé una svolta verso il meglio: la Terra santa sarà riconquistata interamente dai cristiani, e nel contempo si attuerà anche all'interno della chiesa cristiana un cambiamento sostanziale, che ricorda da vicino la purgatio delle visioni del futuro di Ildegarda. In questo tempo, dunque tra il 1215 e il 1315, la chiesa sarà purificata dall'eresia simoniaca 184 . Tale purificazione non viene certo fatta risalire così palesemente come in Ildegarda a una condotta violenta dei prìncipi secolari, però l'autore fa chiaramente intendere che anche nella sua concezione questo processo è di natura violenta. Forze della natura, guerre tra i popoli, incendi e rapine causeranno devastazioni tanto grandi che alla simonia verrà tolto terreno dall'impoverimento generale 185 . Il rafforzamento della reputazione della chiesa provocato in tal modo fa sì che nel secolo immediatamente successivo, simboleggiato dalla lettera Y, quindi entro il 1415, i pagani e gli ebrei siano convertiti al cristianesimo 186 . Al tempo dell'ultima lettera poi apparirà l'Anticristo, dopo di che intorno al 1565 la storia terrena arriverà alla fine187. Anche l'autore di questo scritto dunque attende per il tempo delle lettere X e Y una riforma di tutto l'ordine ecclesiastico, come pure — raccordandosi a tradizioni molto antiche — la conversione degli ebrei e dei pagani. Il Liber de semine Scripturarum si colloca quindi
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nella serie di quelle testimonianze secondo le quali prima della fine del mondo deve attuarsi uno stato relativamente più perfetto della condizione terrena, attraverso una profonda trasformazione della struttura della chiesa, percepita come corrotta, rimanendo peraltro intatti i princìpi ordinatori essenziali di essa. In questa sede non occorre dire altro su tale scritto, poiché nelle sue attese e nella sua tendenza esso chiaramente non va oltre ciò che abbiamo potuto rilevare a proposito di Ildegarda. Siamo quindi giunti al punto in cui il corso della nostra indagine rende necessaria la disamina della visione del futuro in Gioacchino da Fiore. Con essa comincia una nuova fase nello sviluppo delle attese millenaristiche nel medioevo. Sintetizziamo pertanto i risultati finora raggiunti: la chiesa pervenuta al potere già nella tarda antichità aveva represso il millenarismo come un fattore potentemente minaccioso per l'ordine ecclesiastico esistente. I residui di attese millenaristiche, così come sopravvissero nella profezia dell'imperatore finale, non comportarono alcun pericolo per il sistema dominante; anche se vennero incontro in misura considerevole ai desideri e alle concezioni popolari, essi servirono anzitutto alla gloria dell'impero e alla crescita della reputazione di determinate dinastie. Il quadro che essi dipingono dell'imminente stato ideale, è di conseguenza molto sbiadito e contiene essenzialmente sogni al di fuori del tempo, privi di nessi con le condizioni del presente. Nel corso del XII secolo però le cose cambiano; soprattutto in seguito allo sviluppo delle città attraverso cui si irraggiano nuovi impulsi anche nelle campagne, le masse popolari intervengono più attivamente nel divenire sociale, i movimenti ereticali di massa mettono in questione l'ordine ecclesiastico, la lotta per le investiture ha promosso in ampie cerchie della popolazione la discussione di problemi religiosi e nel contempo ha amaramente deluso molti di quelli che in questo modo speravano di eliminare i guasti della gerarchia ecclesiastica. Diventa quindi problematico nella coscienza degli uomini, se non ancora l'intera articolazione sociale, certo l'ordine ecclesiastico, che però fondamentalmente costituisce l'espressione più completa dell'ordine sociale feudale. Non solo i movimenti ereticali chiedono una purificazione della chiesa, ma gli stessi esponenti della chiesa, in particolare membri degli ordini monastici, sotto la pressione di crescenti contraddizioni avvertono il bisogno di una riforma dell'ordine ecclesiastico. Perciò nella loro insoddisfazione per le condizioni esistenti essi sviluppano l'idea di un'epoca futura in cui le carenze del presente risultino superate 188 . Per la prima volta quindi la visione di un imminente stato ideale perde il suo carattere largamente astratto
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e atemporale, e si trasforma in un impulso al cambiamento delle condizioni esistenti. Peraltro non si può sopravvalutare la forza di questo impulso, sulla base della constatazione che le attese del futuro di cui si è trattato finora sono state sviluppate da ecclesiastici certo animati da un desiderio di riforma, ma anche leali. Non si può in alcun modo parlare di visioni davvero rivoluzionarie, che scuotessero dalle fondamenta l'ordine attuale; conseguentemente viene evitata soprattutto l'affermazione dell'uso della violenza, benché in qualche modo questa venga riconosciuta come necessaria. Il significato delle testimonianze finora considerate sta perciò non tanto negli effetti provocati, quanto piuttosto nel loro essere sintomo della fase dello sviluppo sociale e spirituale nel XII secolo.
1 Cfr. in proposito K. GRIEWANK, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff, Weimar 1955, 201 ss., 230 ss. [tr. it., Il concetto di rivoluzione nell'età moderna. Origini e sviluppo, Firenze 1979]. 2 J. HUIZINGA, Herbst des Mittelalters, hrsg. K. Köster, Stuttgart 1953, 33 [tr. it., L'autunno del Medioevo, Firenze 1988 6 , 44], 3 Ivi, 33 [tr. it. cit., 45]. 4 ODO, Collationes II, 38 (PL 133, col. 585). 5 BERNARDUS MORLANENSIS, De contemptu mundi, in The anglo-latin satirical poets and epigrammatists of the 12. Century, ed. Th. Wright, II (Rerum Britannicarum medii aevi SS 59, 2 ) , London 1872, 7; cfr. R. MANSELLI, La «Lectura super Apocalipsim* di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1955, 39 s. 6 Cfr. J. SPOERL, Das Alte und das Neue im Mittelalter, HJb, 5 0 ( 1 9 3 0 ) , 3 0 7 . Questa affermazione si trova significativamente in uno scritto diretto contro le opinioni di Berengario di Tours. 7 Cfr. R. FRICK, Die Geschichte des Reich-Gottes-Gedankens in der alten Kirche bis zu Orígenes und Augustin, Gießen 1 9 2 8 , 1 4 4 ; A . WACHTEL, Beiträge zur Geschichtstheologie des Aurelius Augustinus, Bonn I 9 6 0 , 7 7 . 8 Va osservato peraltro che nei primi scritti di Agostino si risente ancora di idee millenaristiche; cfr. R . SCHMIDT, Aetates mundi. Die Weltalter als Gliederungsprinzip der Geschichte, ZfKG, 6 7 ( 1 9 5 5 / 5 6 ) , 2 9 4 ; A. W A C H T E L , Beiträge..., cit., 7 4 . 9 A G O S T I N O , De civitate Dei XX, 9: «Ergo ecclesia et nunc est regnum Christi regnumque coelorum». 10 Ivi XX, 8. Cfr. anche E. BERNHEIM, Mittelalterliche Zeitanschauungen in ihrem Einfluß auf Politik und Geschichtsschreibung, I, Tübingen 1918, 67 s. 11 Cfr. ad esempio l'opinione espressa in De civitate Dei XXI, 25 secondo cui gli uomini peccatori «usque in finem quidem velut in communione Ecclesiae catholicae perseverant». 12 H. GRUNDMANN, Studien über Joachim von Floris, Leipzig-Berlin 1927, 75 [tr. it., Studi su Gioacchino da Fiore, Genova 1989, 80]. 13 Cfr. A. W A C H T E L , Beiträge..., cit., 74 e 81 s. 14 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 87 [tr. it. cit., 89]. 15 Come esempio bisogna citare A G O S T I N O , De Trinitate IV, 4, 7: «Proinde sextam aetatem inchoavit nativitas Domini, quae nunc agitur usque ad occultum temporis finem». Cfr. A . WACHTEL, Beiträge..., cit., 57 ss.; A . D E M P F , Sacrum Imperium, München-Berlin 1929, 117 ss.; J.H.J. VAN DER POT, De Periodisering der Geschiedenis, s'Gravenhage 1951, 39 s.
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Cfr. R. SCHMIDT, Aetates mundi..., cit., 2 8 9 s s . Cfr. in proposito le considerazioni corrispondenti di F . W . N . HUGENHOLTZ, Opstand en Revolutie in de Middeleeuwen, in Dancwerc, Opstellen aangeboden aan Prof. Dr. D. Th. Enklaar ter Gelegenbeid van zijn 65 Verjaardag, Groningen 1959, 117 s. 18 Cfr. in proposito la panoramica, in molti particolari superata, ma tuttora indispensabile, di F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee in Prophetie und Sage, München 1896, 5 ss. 19 Cfr. M . KMOSKO, Das Rätsel des Pseudomethodius, «Byzantion», 6 (1931), 280 ss.; F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 17 s.; R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 21 ss.; F. P F I S T E R , Alexander der Große in den Offenbarungen der Griechen, fuden, Mohammedaner und Christen, Berlin 1956, 42 ss.. 20 Cfr. E. SACKUR, Sibyllinische Texte und Forschungen, Halle 1898, 57. 21 Ivi, 40 s., 89 ss. 22 Cfr. C. ERDMANN, Das Ottonische Reich als Imperium Romanum, DA, 6 (1943), 427. 23 Cfr. E . SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 1 1 0 : «Quod unus ex regibus Francorum Romanum imperium ex integro tenebit, qui in novissimo tempore erit». In questo caso «rex Francorum» non va in alcun modo tradotto con «re francese», come fa anche K . LANGOSCH, Geistliche Spiele. Lateinische Dramen des Mittelalters mit deutschen Versen, Berlin (s.d.), 251. Cfr. C. ERDMANN, Das Ottonische Reich..., cit., 4 2 8 . 24 F . KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 43. 25 Cfr. E. SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 1 2 5 , 1 3 4 s. Anche nella letteratura più recente si trova spesso l'errata affermazione che già Adsone ha utilizzato la Sibilla tiburtina-, cosi, ad esempio, J. ADAMEK, Vom römischen Endreich der mittelalterlichen Bibelerklärung (Diss.), München 1 9 3 8 , 6 4 ; N . C O H N , The Pursuit..., cit., 5 4 , [tr. it. cit.]. In realtà le parti del trattato di Adsone che presentano chiare reminiscenze della Sibilla tiburtina sono un'interpolazione successiva; cfr. E. SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 1 0 0 s. 26 Sulle rappresentazioni tradizionali che sono alla base di questi dati sulla durata del regno cfr. W . B O U S S E T , Beiträge zur Geschichte der Eschatologie, ZfKG, 2 0 ( 1 9 0 0 ) , 2 7 9 . 27 L'opinione che prima della fine del mondo gli ebrei si sarebbero convertiti era già diffusa molto presto; così, per esempio, già in AGOSTINO, De civitate Dei X X , 3 0 , e in B E D A , Chronica, MG, Auct. ant. X I I I , 3 2 3 . 28 E. SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 185 s. 29 MG, SS X I , 605; cfr. in proposito C. ERDMANN, Endkaiserglaube und Kreuzzugsgedanke im 11. Jahrhundert, ZfKG, 51 (1932), 403 ss., il quale ha richiamato l'attenzione sul fatto che qui viene alla luce l'idea di crociata già anteriormente alla prima crociata. 30 Cfr. anche R . F O L Z , Le souvenir et la légende de Charlemagne dans l'Empire Germanique médiéval, Paris 1950, 140. 31 Cfr. C. ERDMANN, Endkaiserglaube..., cit., 410ss.; cfr. in proposito E . SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 99 ss. 32 Cfr. M. K M O S K O , Das Rätsel..., cit., 291. 33 È significativo che questo elemento sociale emerga molto più chiaramente nelle profezie bizantine relative all'imperatore degli ultimi tempi già nell'alto medioevo. Le differenze e le tensioni sociali, che qui, in confronto all'Europa occidentale, già a quest'epoca erano molto più pronunciate, diedero molto prima un peso maggiore ai desideri degli oppressi; cfr., per esempio, la profezia sull'imperatore degli ultimi tempi nella Vita s. Andrea Sali del presbitero Niceforo (PG 111, coli. 853 ss.). Qui l'imperatore atteso è di origini povere, arricchisce i poveri e non esige più tasse. Questa Vita è stata scritta già nel X secolo. 34 Così si dice nella Sibilla tiburtina: «Et terra abundanter dabit fructum» (E. SACKUR, Sibyllinische Texte..., cit., 1 8 5 ) . Cfr. anche E. BERNHEIM, Mittelalterliche..., cit., 1 0 3 ss., il quale come criteri dell'aurea aetas sotto l'imperatore della pace cita: pax, iustitia e benedizioni della natura. L'annuncio di una straordinaria fertilità è un motivo assai antico di questo genere di vaticini; si trova già neW' Apocalisse di Baruch, alla fine del I secolo; cfr. Die Apokryphen und Pseudoepigraphen des Alten Testaments, II, Tübingen 1900, 423. 35 Cfr. W . KAMLAH, Der Ludus de Antichristo, HVS, 28 (1934), 72, 82 ss. 36 K. LANGOSCH, Geistliche Spiele..., cit., 216, cfr. 255. 37 Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I. imperatoris, ed. Waitz-Simson, Hannover-Leipzig 1 9 1 2 , 1 0 s. Cfr. F . KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 5 3 ; P . E . SCHRAMM, Der König von 16 17
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Frankreich, I, Weimar 1939, 183. Di questa profezia tratta anche F. R A D C K E , Die eschatologischen Anschauungen Bernhards von Clairvaux (Diss.), Greifswald 1915, 112 ss., il quale evidentemente sopravvaluta l'incidenza di questa profezia su Bernardo. Un'indicazione della notevole diffusione di questa profezia è offerta dagli Annales S. Jacobi Leodienses, MG SS XVI, 1146. 38 La profezia è tramandata da Rigord: Oeuvres de Rigord et de Guillaume le Breton, pubi, par H.F. Delaborde, I, Paris 1882, 73 s.; e allo stesso modo in Ruggero di Hoveden, ed. W. Stubbs, II (Rerum Britannicarum medii aevi SS 51, 2), 290 s. e in Gesta Henrici et Ricardi, ed. W. Stubbs, I (Rerum Britannicarum medii aevi SS 49, 1), 324 s. Cfr. in proposito H. G R A U E R T , Meister Johann von Toledo (Sitzungsber. der bayer. Akad. d. Wissensch., phil.-hist. Kl.), 1901, 177 ss.; F. BAER, Eine jüdische Messiasprophetie auf das Jahr 1186 und der dritte Kreuzzug, «Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums», 70 (1926), 113 ss., 155 ss. Baer (p. 118) accenna che la parte citata nel testo di questa profezia, la quale nel suo nocciolo è ebraica, deriva da un redattore cristiano operante in Spagna o in Francia. A mio avviso il contenuto di queste predizioni depone per un autore francese. 39 Sintomaticamente una versione tedesca contemporanea di questo vaticinio astrologico tramandata negli Annali di Marbach non contiene alcun riferimento a un tempo felice futuro sotto il predominio francese (cfr. MG SS XVII, 163). 40 Cfr. in proposito F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 53 ss. 41 Cfr. K . H A U C K , Zur Genealogie und Gestalt des staufischen Ludus de Antichristo, «Germanisch-Romanische Monatsschrift», 33 (1951-52), 21 ss. 42 Cfr. E. B E R N H E I M , Mittelalterliche..., cit., 68. 43 Bisogna pensare che la Sibilla tiburtina, nella sua forma originaria, sorse già nel IV/V secolo, ricollegandosi quindi direttamente alla profezia tardo-antica della Sibilla-, cfr. S.G. MERCATI, È stato trovato il testo greco della Sibylla Tiburtina, in nATKAPIlElA. Mélanges Henri Grégoire, I, Bruxelles 1949, 481. 44 Sulle sibille giudaico-cristiane cfr. il denso articolo di A. R Z A C H , Sibyllen, in Realenzyklopädie der klass. Altertumswiss., II serie, vol. II (1923), coli. 2117 ss. 45 Cfr. F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 8; A . D O R E N , Wunschräume..., cit., 175. 46 Cfr. in proposito le considerazioni di F . E N G E L S , Der deutsche Bauernkrieg, in K . M A R X F . ENGELS, Über Deutschland und die deutsche Arbeiterbewegung, I, Berlin 1961, 180, 183 [tr. it., La guerra contadina, in La Germania e il movimento operaio tedesco, Roma 1974], 47 Cfr. H. G R U N D M A N N , Neue Beiträge zur Geschichte der religiösen Bewegungen im Mittelalter, AfKG, 37 (1955), 147 ss. 48 Cfr. E. W E R N E R , Pauperes Christi, Leipzig 1956, 8 1 ss. 49 Basti solo ricordare il De consideratione di Bernardo di Clairvaux, nel quale vengono aspramente criticati i misfatti della curia a partire da una visuale assolutamente ortodossa. 50 Sull'epoca di composizione cfr. K. FINA, Anselm von Havelberg, «Analecta Praemonstratensia», 32 (1956), 96 s. 51 Cfr. H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 92 [tr. it. cit., 95]; come pure O. B R U N N E R , Abendländisches Geschichtsdenken, Hamburg 1954, 27, il quale rileva che la «novitas» in Anselmo acquisisce «per la prima volta un senso positivo, in una maniera che contraddice ancora a lungo il pensiero medievale, perché per tale pensiero l'antico, cioè ciò [...] che è sempre stato, il durevole, era il giusto, il buono». 52 PL 188, coli. 1147 s. 53 Ivi, col. 1148. 54 Ivi, col. 1160. 55 Cfr. W . B E R G E S , Anselm von Havelberg in der Geistesgeschichte des 12. Jahrhunderts, «Jahrbuch f. d. Geschichte Mittel- und Ostdeutschlands», 5 (1956), 51; H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 94 [tr. it. cit., 97]. 56 La fede di Anselmo nel progresso è messa in evidenza da A. D E M P F , Sacrum Imperium..., cit., 2 4 1 , e J . SPOERL, Grundformen hochmittelalterlicher Geschichtsanschauung, München 1935, 26, 57
28.
Cfr. in proposito M. VAN LEE, Les idées d'Anselme de Havelberg sur le dévelopment des Dogmes, «Analecta Praemonstratensia», 14 (1938), 14 ss. Van Lee qui richiama l'attenzione sul fatto significativo che in realtà, secondo Anselmo, lo sviluppo, specialmente del dogma cristiano, si è già concluso con i grandi concili della chiesa antica, nelle cui decisioni parlerebbe lo
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Spirito santo. Questa delimitazione tradisce palesemente il fondamentale atteggiamento conservatore di Anselmo, nonostante tutta la sua «fede nel progresso«. 58 PL 188, col. 1148. 59 H. G R U N D M A N N , Neue Forschungen über Joachim von Fiore, Marburg 1950, 79, dichiara che in Anselmo «per la prima volta i sette sigilli dell'Apocalisse vengono interpretati in riferimento alle sette epoche della storia della chiesa»; analogamente già W . K A M L A H , Apokalypse und Geschichtstheologie, Berlin 1935, 66. Ciò tuttavia non è del tutto esatto; infatti anche se questa articolazione in Anselmo viene messa in luce in maniera più chiara di prima, gli elementi di fondo di questa suddivisione sono accennati già molto tempo prima di lui: cfr. W. BousSET, Die Offenbarung Johannis, Göttingen 1906 6 , 59; A. W A C H T E L , Beiträge..., cit., 78. 60 PL 188, coli. 1155 s. 61 Ivi, col. 1158; cfr. in proposito G. SCHREIBER, Prämonstratenserkultur des 12. Jahrhunderts, «Analecta Praemonstratensia», 16 (1940), 94. 62 Così, per esempio, B E D A , Explanatio Apocalypsis (PL 93, col. 154). PL 188, col. 1159. 64 G. SCHREIBER, Prämonstratenserkultur..., cit., 94 interpreta questi riferimenti nel modo seguente: «Nel settimo periodo essa [la chiesa] si riposa, per godere della beatitudine nell'ottavo». In proposito l'autore si basa su considerazioni simili in H. LAUERER, Die theologischen Anschauungen des Bischofs Anselm von Havelberg (Diss.), Erlangen 1911, 78. Ma questo è un malinteso, perché con ciò al settimo periodo della chiesa viene dato un rilievo eccessivamente autonomo, e si perde di vista il suo carattere di passaggio. Così Anselmo viene avvicinato troppo a Gioacchino da Fiore. Corretto è invece il giudizio di H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 94 [tr. it. cit., 96]; L.F. BARMANN, Reform Ideology in the Dialogi of Anselm of Havelberg, «Church History», 30 (1961), 390 ss. 65 Ciò viene espresso molto chiaramente da BEDA, Chronica, M G , Auct. ant. X I I I , 3 2 2 ; analogamente, per esempio, R U P E R T O DI D E U T Z ( P L 1 6 7 , coli. 1 5 6 8 s.). 66 Cfr. B E D A , Chronica, cit., 326. 67 Cfr. H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 93 [tr. it. cit., 96], il quale giustamente sottolinea che la parola «paulatim» gioca un ruolo essenziale nell'universo ideale di Anselmo. 68 PL 188, col. 1158. 69 Cfr. P. B R E Z Z I , Ottone di Frisinga, B I S I , 54 (1939), 310 ss. 70 O T T O N E DI FREISING, Chronica, hg. v. A. Hofmeister, Hannover-Leipzig 1912, 343 (VII, 21), cfr. anche 369 (VII, 34). 71 Cfr. l'introduzione di W. Lammers alla Chronik oder Geschichte von den zwei Staaten di Ottone di Freising (Ausgewählte Quellen z. deutsch. Gesch. des MA, XVI), Berlin I960. 72 O T T O N E DI F R E I S I N G , Chronica, cit., 373 ( V I I , 35). 73 Ivi, 306 (VI, 36): «Tanta mutatione, tanquam a perfectione ad defectum vergente tempore, sexto operi finem imponamus, ut ad septenarium requiemque animarum, quae miseriam presentis vitae subsequitur, deo ductore properemus». 74 Cfr. H . M . KLINKENBERG, Der Sinn der Chronik Ottos von Freising, in Aus Mittelalter und Neuzeit. G. Kalten zum 70. Geburtstag, Bonn 1957, 74. 75 Ivi, 75. 76 Una panoramica sull'articolazione della Cronaca di Ottone di Freising è offerta da I. SCHMIDLIN, Die geschichtsphilosophische und kirchenpolitische Weltanschauung Ottos von Freising, Freiburg 1906, 27. 77 Lo dimostra il passo appena citato della Chronica VI, 36 in cui le parole «sextum opus» in primo luogo non significano altro che il sesto libro della Cronaca (cfr. Chronica, cit., 226, 261 dove Ottone conclude il quarto e il quinto libro con parole simili), ma nel contempo con le seguenti parole, «ad septenarium requiemque animarum», ricevono un significato simbolico più profondo. Cfr. anche I. S C H M I D L I N , Die geschichtsphilosophische..., cit., 27, il quale similmente ipotizza una connessione delle sette parti della Cronaca con la tradizionale teoria delle età del mondo. 76 Cfr., per esempio, Chronica VIII, 14, p. 411. 79 Ivi, VI, 36, p. 306. 80 Per una breve informazione si rimanda a H . E . F E I N E , Kirchliche Rechtsgeschichte, I , Weimar 1955 ä , 334 s.
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IL R E G N O F U T U R O D E L L A
LIBERTÀ
81 Cfr. P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, Wiesbaden 1960, 316, il quale giustamente sottolinea in sintesi che Gerhoh aveva «la sua base nel grande movimento religioso del XII secolo». 82 GERHOH DI REICHERSBERG, Opusculum de edificio Dei, C. 52, MG, Libelli de lite, III, 166. Cfr. anche H. NOBBE, Gerhoh von Reichersberg, Leipzig 1881, 144. 83
GERHOH DI REICHERSBERG, Opusculum
de edificio
Dei, c. 28, PL 194, coli. 1267 s.
Cfr. Op. de edif. Dei, c. 53, MG, Libelli III, 167. 85 Cfr. anche H.H. JACOBS, Studien über Gerhoh von Reichersberg, ZfKG, 50 (1931), 327. Significativo sotto questo aspetto è un passo del Dialogus inter secularem et regulärem clericum (MG, Libelli III, 237) di Gerhoh, in cui alla vita apostolica viene contrapposta la vita irregularis, cioè il contenuto essenziale della genuina vita apostolica è la vita regularis sul modello monastico. 86 Op. de edif. Dei, C. 51, MG, Libelli III, 165. 87 Op. de edif. Dei, PL 194, coli. 1267 s. 88 Gerhoh cerca di dimostrarlo soprattutto nell'appena citato Dialogus inter secularem et regulärem clericum, MG, Libelli III, 203 ss. 89 Cfr. per esempio De quarta vigilia noctis di Gerhoh, MG, Libelli III, 509: «Sic a capite usque ad plantam totius corporis ecclesiae cupiditate questus dilatata regnat avaricia». 90 MG, Libelli III, 141. Cfr. anche le osservazioni di G. LAEHR, Die Konstantinische Schenkung in der abendländischen Literatur bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts (Diss.), Berlin 1926, 66. 91 MG, Libelli III, 140. 92 Ivi, 141. 93 Commentarius in Psalmum LXIV, c. 67, MG, Libelli III, 468: «...patrocinio magni sacerdotis presidis apostolicae sedis coronati et super omnia regna exaitati». E. MEUTHEN, Kirche und Heilsgeschichte bei Gerhoh von Reichersberg, Leiden-Köln 1959, 132, a mio avviso interpreta questo passo correttamente, in quanto considera già realizzata l'attesa qui espressa di una frantumazione delle potenze temporali e di una elevazione del papato. Per quanto concerne il commento di Gerhoh al Salmo 64 cfr. D. VAN DEN EYNDE, L'oeuvre littéraire de Geroch de Reichersberg, Roma 1957, 92 ss.; P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, cit., 419. 94 Nella visione di Gerhoh Enrico IV è colui che ha liberato Satana dopo l'incatenamento di mille anni (De investigatione Antichristi, MG, Libelli III, 328). Cfr. H.H. JACOBS, Studien..., cit., 370 ss.; P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, cit., 226 s. 95 F. BAETHGEN, Der Engelpapst (Schriften der Königsberger Gelehrten Gesellschaft, geisteswiss. Kl., 10/2), Halle 1933, 78. 96 MG, Libelli III, 352: «Quod ante ultimum quoque adventum ecclesia, que est vera et viva domus dei viventis in his, qui spirituales dicuntur et esse debent, ad antiquam apostolice perfectionis institutionem reformanda sit». P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, cit., 226 da queste considerazioni ricava erroneamente la mancanza di «una conseguente prosecuzione della tipologia», e ritiene che Gerhoh non arrischi predizioni. Ma la frase citata mostra che Gerhoh non aveva affatto timore di una prosecuzione della tipologia nel senso del futuro. 97 Sull'origine di questo scritto cfr. D. VAN DEN EYNDE, L'oeuvre..., cit., 172. 98 MG, Libelli III, 513. Di questo passo parla E. MEUTHEN, Kirche..., cit., 144 s., il quale fa riferimento al fatto che Gerhoh mette queste parole sulla bocca del discepolo; inoltre egli afferma che il maestro nella risposta seguente correggerebbe questa «opinione tendente al millenarismo», e constaterebbe che tra l'annientamento dell'Anticristo e il giudizio finale non ci sarebbe «alcun tempo». Questa tuttavia è un'interpretazione sbagliata; infatti il maestro conferma senz'altro le parole del discepolo, e dice solo che dopo la soppressione dell'Anticristo «in proximo erit dies judicii» (MG, Libelli III, 514). Il maestro dunque vuole solo sottolineare che il giudizio finale segue subito (in proximo), ma non afferma affatto che tra i due eventi non vi sia alcun tempo. In sostanza si può constatare che né Meuthen né Classen hanno tenuto pienamente conto di quell'attesa di Gerhoh, secondo cui poco prima della fine del mondo per un tempo limitato dovrà realizzarsi uno stato ideale della chiesa, nonostante Gerhoh abbia espresso tali speranze in scritti di tutte le fasi della sua vita. 99 MG, Libelli III, 523. L'immagine dell'aurora per illustrare l'inizio del regnum Christi viene utilizzata da Gerhoh anche nel De investigatione Antichristi III, 7 e 9 (cfr. Gerhohi Reichersbergensis Praepositi opera hactenus inedita, a cura di F. Scheibeiberger, I, Lincii 1875, 370, 84
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371 s.). Egli qui dice che il regnum Christi non inizierà all'improvviso, ma cresce a poco a poco come l'aurora. Anche questo può significare solo che Gerhoh presuppone che il regnum Christi prima del suo trionfo definitivo col giudizio universale deve raggiungere già nell'aldiqua un alto grado di perfezione. Cfr. anche P. CLASSEN, Gerboch voti Reicbersberg, cit., 233. 100 Comment in ps. LXIV, MG, Libelli I I I , 4 8 6 s. L'osservazione di A . D E M P F , Sacrum Imperium, cit., 261, che fa leva su questo passo, secondo cui «il clero secolare è destinato a essere sostituito nella guida del popolo dai monaci e dagli eremiti, dai profeti che vivono in comune secondo la regola di Benedetto», avvicina troppo Gerhoh a Gioacchino, usando espressioni imprecise ed esagerate. Qui Gerhoh in fondo ripete semplicemente la sua vecchia esigenza, che al posto del clero secolare deve subentrare il clero regolare. 101 MG, Libelli I I I , 5 0 9 ; cfr. H . H . J A C O B S , Studien..., cit., 3 7 7 . 102 p e r J[ tempo di composizione di questo scritto cfr. M . S C H I U D E R - A. F U H R K Ò T T E R , Die Echtheit des Schrifttums der beiligen Hildegard von Bingen, Kòln-Graz 1956, 142 ss. 103 Cfr. Liber divinorum operum (PL 197, coli. 1005, 1006, 1012); cfr. anche la sua lettera al clero di Treviri, ivi, col. 254: «muliebre tempus«. 104 Cfr. Liber div. op., cit., col. 1017. 105 Cfr. la lettera al clero di Treviri (ivi, col. 254), come pure la lettera al clero di Colonia (ivi, col. 248). 106 Liber div. op., cit., col. 1005; cfr. col. 1017: «saecularis iudex». 107 Cfr. H . LIEBESCHUTZ, Das allegorische Weltbild der hi. Hildegard von Bingen, LeipzigBerlin 1 9 3 0 , 1 4 2 ss.; B. W I D M E R , Heilsordnung und Zeitgescheben in der Mystik Hildegards von Bingen, Basel-Stuttgart 1955, 219 s. 108 Cfr. G. SOMMERFELDT, Zu den Lebensbeschreibungen der Hildegard von Bingen, NA, 3 5 (1910),
574.
109 p l 197, col. 102. Questo passo è stato raccolto da Gebeno di Eberbach nel suo Speculimi futurorum temporum (cfr. in J . B . P I T R A , Analecta sanctae Hildegardis opera Spicilegio Solesmensi parata, Paris 1882, 485). L'ipotesi di B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 224, che Gebeno abbia potuto inventare questa indicazione dell'anno, cade perché il tempo di composizione della Vita è sostanzialmente anteriore. Sarebbe dunque al massimo immaginabile che si tratti di un'aggiunta del redattore della Vita-, ma l'ipotesi più probabile è che già Ildegarda abbia sostenuto questa idea. 110 Cfr. J . B . PITRA, Analecta..., cit., 349, ep. 10. 111 Cfr. M. SCHRADER - A. FUHRKÒTTER, Die Ecbtbeit..., cit., 128 s. 112 Cfr. Liber div. op., cit., coli. 1006s. 113 Ivi, col. 1012. 114 Ivi, coli. 1017 s. Simili visioni si trovano nella lettera a Guarnerio di Kirchheim, ivi, col. 271. 115 Ivi, col. 270. 116 Lettera al clero di Colonia (ivi, coli. 250 s.). 117 Cfr. B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 223. 118 Lettera al clero di Colonia, PL, col. 251: «Sic iniquitas, quae iniquitatem purgabit, super vos ducetur». 119 Ivi, col. 2 5 1 . Cfr. B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 2 3 8 . 120 PL 197, col. 251. 121 Ivi. 122 Ivi. 123 Liber div. op., cit., col. 1022. 124 Cfr. B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 262. 125 Liber div. op., cit., col. 1018. 126 Cfr. M. SCHRADER - A. FUHRKÒTTER, Die Ecbtbeit..., cit., 124 s. 127 Liber div. op., cit., col. 1023. 128 Ivi, col. 1022. 129 Cfr. supra, nota 34. 130 Liber div. op., cit., col. 1020. 131 Ivi, col. 1020. Si osservi che anche per Gioacchino da Fiore il tempo di pace che precede la nascita di Cristo è una prefigurazione del tempo di pace del terzo status.
62
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
132 Sul metodo tipologico e sul suo sviluppo da parte di Gioacchino cfr. H . G R U N D M A N N , Studien..., cit., 40, 62 [tr. it. cit., 45 s. e 66], 133 Liber div. op., cit., col. 1022. 134 Scivias, PL 197, col. 714. 135 Ivi, col. 714; nel Liber divinorum operum Ildegarda non ha conservato questa periodizzazione; al contrario qui mette in relazione Cristo col settimo giorno; cfr. B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 129. 136 Scivias, cit., col. 715. 137 Ivi-, «Aperte proferendus est in levitate verborum». 138 Ivi, col. 714. 139 Ivi. Che queste parole si riferiscano specialmente a Ildegarda, è dimostrato dall'uso del femminile; cfr. anche col. 715: «In levitate verborum, sicut verba huius libri sunt». 140 PL 197, col. 104. 141 Cfr. B. W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 197. 142 Cfr. ivi, 223; cfr. anche H . L I E B E S C H U T Z , Hildegard von Bingen und die Kulturbewegung des 12. Jabrhunderts, HZ, 146 (1932), 499. Anche Gerhoh di Reichersberg rifiutò la scolastica; cfr. P. CLASSEN, Gerbocb von Reichersberg, cit., 318 s. 143 Liber div. op., cit., col. 1020; cfr. la sua lettera al clero di Treviri, ivi, col. 257: «Et tunc fortes viri surgent et prophetabunt». 144 Cfr. J . K O C H , Der beutige Stand der Hildegard-Forscbung, H Z , 1 8 6 ( 1 9 5 8 ) , 5 6 8 . 145 Liber div. op., cit., col. 962. A questo riguardo sia consentito accennare al fatto che anche Ildegarda prese sempre attivamente posizione sui problemi della sua epoca e cercò di far valere il suo influsso; il suo «istinto di realizzazione politica» è stato giustamente sottolineato da J . B E R N H A R T , Hildegard von Bingen, AfKG, 2 0 ( 1 9 3 0 ) , 2 5 8 . 146 Scivias, cit., col. 715; cfr. supra, nota 137. 147 Cfr. A. D E M P F , Sacrum Imperium, cit., 261. 148 Farei riferimento soprattutto al fatto che anche Ildegarda stessa predicò pubblicamente, in particolar modo contro eretici; cfr. H . G R U N D M A N N , Neue Beitràge..., cit., 1 5 4 s. 149 Cfr. i giudizi simili di J. BERNHART, Hildegard von Bingen, cit., 255 ss. e H. G R U N D M A N N , HZ, 144 (1931), 344. 150 Cfr. anche B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 205. 151 PL 197, coli. 251, 256. 152 Cfr. ivi, col. 248: «Quod omnes ordines angelorum [...] in spirituali populo spiritaliter designarentur, velut in presbyteris et episcopis ac in ceteris huiusmodi spiritualibus ordinibus». 153 Cfr., per esempio, ivi, col. 256: «Nunc autem lex in spirituali populo neglecta est». 154 Ivi, coli. 150, 686 s. e 490, in cui ella polemizza contro il fatto che «minor ordo supra maiorem ordinem [...] se elevare contendit». 155 B . W I D M E R , Heilsordnung..., cit., 240. 156 Su quanto segue cfr. H. LIEBESCHUTZ, Das allegorische Weltbild..., cit., 123 ss., 150 ss. 157 Cfr. Scivias III, 11, PL 197, coli. 710 s. 158 Liber div. op., cit., col. 1017. 159 Ivi, col. 1019. 160 Ivi, col. 1023. 161 Ivi, col. 1024. 162 Ivi, col. 1026. 163 Ivi, col. 1027. 164 Cfr. supra, 46. 165 Cfr. H. LIEBESCHUTZ, Das allegorische Weltbild..., cit., 149. 166 Mi riferisco qui al fatto che una Prophetia imperatorum Teutonicorum (stampata da Werminghoff), scritta in Italia già nel XII secolo, riprende la visione di Ildegarda delle cinque bestie e la riferisce in senso antiimperiale ai cinque reges «qui omnes veniunt ab aquilone» (NA 27, [1902], 600 s.). 167 Liber div. op., cit., col. 1027. 168 Ivi, col. 1034. 169 Cfr. H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 33 [tr. it. cit., 36].
ATTESE ESCATOLOGICHE
PREGIOACHIMITE
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170 Cfr. anche B. WIDMER, Heilsordnung..., cit., 195, la quale giustamente constata che Ildegarda sembra «non sia più lontana dal millenarismo». 171 Vorrei qui osservare che l'idea secondo cui la chiesa in breve subirà una grave persecuzione affiora già in Norberto di Xanten; cfr. la lettera di Bernardo a Goffredo di Chartres, nella quale egli rende noto che Norberto avrebbe dichiarato: «Non visurum se mortem, nisi prius videat generalem in Ecclesiam persecutionem» (PL 182, coli. 162 s.). 172
Cfr. B. WIDMER, Heilsordnung...,
cit., 2 0 7 .
Ivi, 208. 174 Liber div. op., cit., col. 1024. 175 Sull'essenza del metodo tipologico cfr. H. GRUNDMANN, Stiddien..., cit., 30 ss. [tr. it. cit., 41]; E. AUERBACH, Typologische Motive in der mittelalterlichen Literatur (Schriften u. Vorträge des Petrarca-Instituts Köln, 2), Krefeld 1953; cfr. anche l'introduzione di W. LAMMERS a Otto Bischof v. Freising, Chronik oder die Geschichte der zwei Staaten, Berlin I960, LVI ss. 176 Cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 40 [tr. it. cit., 41], 177 P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, cit., 319 adopera questo concetto calzante, che ben caratterizza il nuovo nel simbolismo tedesco del XII secolo. 178 Cfr. P. CLASSEN, Gerhoch von Reichersberg, cit., 113, il quale definisce in maniera pertinente il metodo esegetico di Gerhoh come determinato dalla «questione più acuta del luogo storico-salvifico del tempo presente e della chiesa attuale». Cfr. anche E . MEUTHEN, Kirche..., cit., 11. 179 Cfr. H. GRUNDMANN, Über die Schriften des Alexander von Roes, DA, 8 (1951), 161. 180 Cfr. B. HIRSCH, Zur Notitia saeculi und Zum Pavo. Mit einem Exkurs über die Verbreitung des pseudojoachimitischen Büchleins «De semine scripturarum», MIÖG, 38 (1920), 584; F . KAMPERS, Zur Noticia saeculi des Alexander von Roes, in Festgabe K. Th. Heigel zur Vollendung seines 60. Lebensjahres, München 1903, 112. È incomprensibile come ancora nel 1950 F. Pelster possa considerare il Liber de semine Scripturarum come scritto autentico di Gioacchino; cfr. F . PELSTER, Ein Elogium Joachims von Fiore auf Kaiser Heinrich II. und seine Gemahlin, die hl. Kunigunde, in Liber Floridus, Mittellateinische Studien P. Lehmann zum 65. Geburtstag, S. Ottilien 1950, 329 ss. 181 Cfr. H . GRUNDMANN, Über die Schriften..., cit., 167; R. MANSELLI, La religiosità d'Arnaldo da Villanova, BISI, 63 (1951), 12 constata che, secondo le testimonianze finora conosciute, Arnaldo di Villanova, che nel 1292 scrisse un'introduzione al Liber de semine Scripturarum, attribuì questo scritto a Gioacchino. Cfr. anche B. H I R S C H - R E I C H , Alexander von Roes Stellung zu den Prophetien, MIÖG, 67 (1959), 307 s., la quale fa riferimento al fatto che il francescano Ruggero Bacone conosceva questo scritto già nel 1267, e ritiene possibile che questo scritto già allora fosse conosciuto nei circoli francescano-spiritualistici, i quali si interessavano anche di Gioacchino. 182 Sui principi del computo dei secoli dà informazioni affidabilissime B . HIRSCH-REICH, Alexander..., cit., 308 s. 183 Cfr. H. GRUNDMANN, Über die Schriften..., cit., 162. 184 Ivi, 162. Cenni veramente ampi alle predizioni su questo argomento sono contenuti nel manoscritto di Würzburg Mp. mi., fol. 37r, pubblicato in H. GRAUERT, Magister Heinrich der Poet in Würzburg und die Römische Kurie, München 1912, 443 s; cfr. anche gli estratti del Liber de semine nella Noticia saeculi di Alessandro di Roes (ALEXANDER VON R O E S , Schriften, hg. v. H. Grundmann - H. Heimpel, Stuttgart 1958, 151 s. e 167 s.). 185 Cfr. l'estratto nella Noticia saeculi di Alessandro di Roes, Schriften, cit., 152, così come H. GRAUERT, Magister..., cit., 443. 186 Cfr. H. GRAUERT, Magister..., cit., 444. 187 Cfr. H. GRUNDMANN, Über die Schriften..., cit., 162. 188 A me sembra meno sensato attribuire all'«attività giovanile del cristianesimo occidentale» la nascita della «speranza in un mondo cristianizzato in una chiesa purificata», come fa H. JACOBS, Studien..., cit., 3 7 5 . Se fosse per Inattività giovanile», l'alto medioevo, completamente «non millenarista», dovrebbe rappresentare un culmine nello sviluppo del millenarismo. Risulta quindi anche da questo esempio che ogni interpretazione che non tenga conto dell'ambiente sociale, e al suo posto usi concetti psicologici, è del tutto vaga e fondamentalmente priva di valore.
II. Gioacchino da Fiore
Il capitolo precedente ha mostrato che nel XII secolo l'idea fino allora molto astratta di un futuro regno di pace si collega con desideri più o meno concreti di un profondo cambiamento della condizione esistente; laddove in coerenza con l'universo rappresentativo di allora stanno assolutamente in primo piano i problemi dell'ordine ecclesiastico. Alla fine del XII secolo queste attese ricevono nella visione del futuro dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore (t 1202) una configurazione matura, che minaccia le basi teoriche del sistema ecclesiastico dominante e continua a incidere per lungo tempo 1 . In lui quelle idee di un futuro stato ideale si cristallizzano in un'idea vasta e imponente di un'epoca nuova e profondamente diversa che si inaugurerà in breve tempo; essa è chiaramente delimitata rispetto alle epoche precedenti e viene concepita come uno sviluppo necessario e organico del divenire storico precedente. In virtù del suo svilupparsi in un sistema coerente a livello di storia universale, che ritiene di dimostrare che l'inizio del nuovo status rientra nel piano salvifico di Dio e quindi è inevitabile, la visione del futuro di Gioacchino raggiunge una forza di persuasione straordinaria in confronto ai suoi predecessori. La base della visione gioachimita della storia universale è la suddivisione, corrispondente alla Trinità, in tre status2; il primo, che dura fino all'avvento di Cristo, il tempo dell'Antico Testamento, sta sotto il dominio^ del Padre; il secondo status, quello del Figlio di Dio, si protrarrà fino al XIII secolo; poi inizierà il terzo status, il regno dello Spirito santo. Il primo status è il tempo dei coniugati che stanno sotto la legge, e viene contrassegnato dalla servitus servilis. L'orcio clericorum definisce il secondo status-, quest'epoca che comincia con Cristo sta già sotto la grazia, ma è pur sempre improntata alla servitus filialis. Solo il terzo status, quello dell'orbo monachorum, il tempo della grazia accresciuta {sub ampliori gratia), porta agli uomini la libertas3.
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IL R E G N O F U T U R O DELLA LIBERTÀ
Questa articolazione del corso storico in tre grandi periodi corrispondenti alla Trinità assegna al futuro terzo status di perfezione un rilievo autonomo e un significato che le visioni del futuro di Ildegarda o di Gerhoh non lasciavano neppure lontanamente trasparire. Infatti per tale via in Gioacchino il tempo futuro ideale si colloca con uguale valore accanto all'epoca dell'Antico Testamento e al tempo iniziato con Cristo, della chiesa governata dal clero. Peraltro in Gioacchino l'articolazione della storia — al contrario, ad esempio, della disorientante suddivisione del tempo in Ildegarda — è del tutto appropriata per separare chiaramente l'epoca futura dello Spirito santo dal tempo precedente. Così Gioacchino accoglie la suddivisione, largamente diffusa dopo Agostino, corrispondente ai giorni della creazione. Ma Agostino, avendo ripudiate le sue iniziali prospettive millenaristiche, aveva riferito alla storia terrena solo i sei giorni della creazione; il settimo giorno, il giorno di riposo di Dio, era collegato con il sabato ultraterreno delle anime dei santi, un sabato destinato a durare fino al giudizio universale 4 . Gioacchino al contrario si allontana da questa visione profondamente radicata, in quanto, analogamente a Ildegarda nel Liber Scivias, raccorda anche il settimo giorno del riposo di Dio con una settima età autonoma all'interno della storia terrena. In tale contesto la sesta aetas, che egli fa cominciare con Cristo secondo la concezione tradizionale, corrisponde al secondo status, cioè al tempo della chiesa dei chierici, mentre la settima età futura, destinata a durare sino alla fine del mondo, è identica al terzo status5. Il passaggio dal secondo al terzo status, cioè dalla sesta alla settima età, è considerato da Gioacchino come imminente. Sulla base del fatto che l'Antico Testamento va da Adamo a Cristo, e quindi per il primo status egli conta quarantadue generazioni (il tempo da Adamo ad Abramo è solo un tempo di preparazione, e pertanto a stretto rigore non appartiene al primo status)6, egli conclude che anche il secondo status abbraccerà quarantadue generazioni. Le generazioni dell'Antico Testamento però ebbero lunghezza differente: talvolta furono più brevi, talaltra più lunghe, analogamente all'incostanza della luna; viceversa le generazioni del secondo status sono sempre della stessa grandezza, analogamente al sole, e contano regolarmente trenta anni, poiché Cristo cominciò a predicare all'età di trent'anni 7 . Da ciò, secondo il computo di Gioacchino, risulta che la quarantesima generazione terminerebbe nel 1200, dunque in un anno in cui l'abate di Fiore, morto nel 1202 8 , viveva ancora. Per la quarantunesima e la quarantaduesima generazione, poi, Gioacchino non fa valere, per precauzio-
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ne, la durata regolare caratteristica delle generazioni precedenti. Egli sottolinea espressamente che la lunghezza di queste due ultime generazioni del secondo status è del tutto incerta 9 ; la quarantaduesima generazione comincerà «anno vel hora, qua Deus melius novit» 10 . Dunque Gioacchino evita di fissare un rigido calendario per la decisiva epoca di passaggio che è imminente 11 . In questo contesto va inoltre osservato che Gioacchino più volte sottolinea il carattere di transizione delle ultime generazioni dello status che sta per finire. Esse rappresentano insieme la fine dello status precedente e l'inizio di quello futuro 12. È pertanto indifferente che si faccia iniziare il primo status con la generazione di Abramo, Isacco o Giacobbe, il secondo status con Zaccaria, Giovanni il Battista o Cristo, e il terzo status con la quarantatreesima generazione dopo Cristo o invece con la quarantunesima o con la quarantaduesima 13 . Questa constatazione, cui finora non si è prestata sufficiente attenzione, è di grande importanza; infatti essa porta alla conclusione che secondo Gioacchino le grandi trasformazioni, che devono recare in modo definitivo il terzo status, sono già immediatamente imminenti mentre egli è in vita, anzi sono già iniziate 14, e che egli considera se stesso partecipe di questo periodo decisivo di transizione 15 . Diventa quindi tanto più verosimile che egli, rompendo con l'ordine cistercense e attuando nel 1189 la fondazione di un proprio ordine 16 , che si richiamava certo alla stessa regola dei cistercensi — ossia la regola benedettina —, ma ne professava princìpi più rigorosi, più orientati alla contemplazione 17 , intendesse contribuire per parte sua al grande cambiamento. In questo senso depone anche l'erezione del monastero di Fiore nella solitudine dei monti della Sila, laddove emerge ancora più evidente il tratto eremitico dell'ordine cistercense, dunque proprio quel tratto che deve essere caratteristico anche per l'ordine del terzo status. È quindi ipotizzabile che Gioacchino nei suoi monaci florensi vedesse già fino in certa misura i primi rappresentanti, ancora imperfetti, dell'ordine che dovrebbe dare l'impronta al terzo status18. In ogni caso si potrebbe però dare per certo che egli considerasse il suo operato già come un passo importante verso la realizzazione del terzo status19. Tutto ciò significa che Gioacchino ha senz'altro ricavato dalla sua metafisica della storia conseguenze per il proprio comportamento. Infatti nella sua concezione il tempo era maturo per l'inizio della grande trasformazione già nel 1200, e non soltanto — come si è ripetutamente supposto — nel 1260 20 . Dopo aver delineato succintamente i tratti fondamentali della concezione gioachimita, possiamo ora dedicarci alle questioni che più inte-
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
ressano la tematica di questo lavoro. Poiché qui ci si propone soprattutto di rintracciare i paralleli medievali dell'idea moderna di rivoluzione, nel contesto della visione gioachimita del futuro vanno affrontati principalmente due insiemi di questioni. Anzitutto bisogna chiarire quali debbano essere i tratti essenziali del terzo status, quali forme e disposizioni subentreranno allora al posto dello status dominante fino a quel momento; in breve, bisogna precisare che cosa distinguerà la società dell'epoca futura da quella presente. In secondo luogo bisogna poi spiegare come, con quali forze e con quali mezzi debba essere superato il vecchio, e prodotto l'ordine ideale del terzo status. Detto in altri termini: bisogna analizzare lo scopo e le forme della grande trasformazione dal secondo al terzo status. Solo allora si potrà dire in che misura colga nel segno, per esempio, la constatazione fortemente accentuata di E. Rosenstock-Huessy, il quale ritiene che Gioacchino ha «conosciuto la nuova legge, il cui ultimo esecutore sarebbe divenuto Lenin» 21 . Per quanto riguarda la prima questione, cioè come Gioacchino immaginava quel regno ideale utopico del terzo status, dalle sue opere risulta quanto segue. Di grande importanza è per lui l'attesa secondo cui nel terzo status lo Spirito santo porterà agli uomini una conoscenza diretta e piena della verità divina, attraverso l'intelligentia spiritualis, che non ha più bisogno dell'erudizione della lettera 22 . Essa concede una conoscenza diretta e perfetta del senso profondo delle sacre Scritture, e squarcia il velo della lettera, la quale vela la verità più che rivelarla 23 . In Gioacchino dunque appare in forma ancora più chiara e sviluppata quel desiderio che si profilava anche in Ildegarda, secondo cui cioè già nel corso della storia terrena verrà concessa agli uomini una conoscenza più profonda e più perfetta della rivelazione divina 24 . Ne consegue che anche il Nuovo Testamento nella sua forma letterale ha reso finora possibile solo una conoscenza parziale; soltanto nel terzo status «apparebit veritas manifesta procedens de ventre littere et de domo Novi Testamenti, in qua latuit secundum aliquid usque in presentem diem» 25 . Dopo che nel primo status agli uomini è stata concessa, con segni esteriori, solo una conoscenza assai limitata, e nel secondo status accanto a tali segni è venuto alla luce parzialmente anche il significato nascosto sotto di essi, nel terzo status, dopo la totale eliminazione di tutti i segni esteriori, il significato stesso emergerà direttamente e integralmente26. Gli uomini del terzo status, dotati dell' intelligentia spiritualis, potranno conformemente rinunciare a ogni sapere letterale; solo, finché non si è ancora verificata quella misti-
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ca «abundantia spiri tus», essi devono ancora cercare il loro nutrimento «in pascuis scripturarum»; ma dopo «huiuscemodi studia et labores cessabunt»27, e tutti i «mysteria» saranno «nuda» e «aperta»28, giacché essi non avranno più bisogno della mediazione della lettera. Gioacchino vede un preannuncio di questa pienezza di conoscenza spirituale nell'Apocalisse, nella figura dell'angelo che tiene in mano un libro aperto (Ap 10, 2). Il libro aperto indica che allora sarà possibile una conoscenza aperta e non velata di ciò che è contenuto nelle Scritture 29. Senza dubbio questa attesa di una conoscenza perfetta della verità divina, una conoscenza che non ha più bisogno della testimonianza della Scrittura, sta chiaramente in primo piano nell'interpretazione di Gioacchino. Sulla base di tale osservazione Grundmann ha sostenuto che solo questa «volontà di conoscenza», e non una qualche insoddisfazione per la situazione religiosa, ecclesiastica e sociale del suo tempo, fosse il motivo trainante di tutto l'almanaccare di Gioacchino 30 . Ma un simile giudizio isola troppo le idee di Gioacchino dalla realtà sociale che lo circondava. È certo ovvio che anche alla base del metodo allegorico-tipologico applicato da Gioacchino vi sia — come già si è accennato riguardo alle attese di Ildegarda circa il futuro — il desiderio di un perfetto svelamento del senso profondo delle sacre Scritture; ma anche in questo caso si deve supporre che determinati fenomeni del tempo abbiano aiutato questo desiderio a trovare un varco. Un passo preso dal Trattato sui vangeli di Gioacchino ci offre un chiaro indice delle cause reali che lo hanno indotto a fissare queste speranze circa il futuro che a prima vista appaiono meramente ideali. Egli qui pone la domanda: se la verità fosse davvero già perfettamente manifesta, come si spiegherebbe che tante migliaia di eretici sfuggano di mano ai rappresentanti della chiesa? Ciò sarebbe dunque possibile solo perché gli uomini non avrebbero ancora compreso il senso delle sacre Scritture 31 . In queste parole viene alla luce molto chiaramente il malessere di Gioacchino per lo sviluppo dell'eresia, come pure il desiderio di sottrarre terreno a tali fenomeni con un perfezionamento ancora maggiore della fede cristiana. Ciò fa supporre che anche in Gioacchino operi in fondo la constatazione, sempre più diffusa nel XII secolo, che nella chiesa molte cose necessitano di correzione, e che sia in lui attivo il desiderio di vedere superate in un futuro migliore queste deficienze e queste tensioni. La perfetta conoscenza della verità conseguita con una visione immediata — conoscenza che per Gioacchino non ha bisogno del metodo erudito-scolastico, che egli considera con aperta diffidenza 32 — è per lui un mezzo essenziale attra-
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verso il quale vanno convertiti tutti gli avversari della vera fede, e va introdotto l'ordine perfetto del futuro ideale. Già queste indicazioni rendono dubbia la tesi sostenuta da Grundmann, secondo cui qui siamo in presenza di un puro e astorico desiderio di conoscenza. Questi dubbi diventano ancora più forti se consideriamo le ulteriori conclusioni inseparabilmente connesse a queste attese di Gioacchino, che a prima vista sembrano puramente spirituali: esse sono talmente gravide di conseguenze che difficilmente le si può concepire come esiti non voluti di un mero desiderio di conoscenza. Cominciamo anzitutto dalle conseguenze immediate dell'idea gioachimita dell' intelligentia spiritualis, della conoscenza spirituale che penetra e supera la lettera. Qui bisogna tener conto soprattutto dell'atteggiamento di Gioacchino verso la Bibbia, in particolare verso il Nuovo Testamento, fondamento della dottrina ecclesiastica; la domanda che ci si pone è quali effetti avesse per la collocazione del Nuovo Testamento nel suo essere tramandato per iscritto, la visione di Gioacchino secondo cui nel terzo status la lettera non avrà più valore. Trae, per esempio, la conclusione che allora la dottrina di Cristo, così come è stata messa per iscritto nel Nuovo Testamento, sarà completamente superata da una nuova, superiore rivelazione? Basti rilevare che Gioacchino nel Commento all'Apocalisse parla, riguardo al terzo status, di un «evangelium aeternum», mentre viceversa l'«evangelium quod est in littera» è temporale e non eterno 33 . In connessione con Ap 14,6, il concetto di «evangelium aeternum» diverse altre volte viene anche contrapposto da Gioacchino al vangelo trasmesso in forma letterale, per designare la dottrina spiritualizzata dell 'ecclesia contemplativa del terzo status 34 . È pertanto necessario chiarire il rapporto tra il concetto di «evangelium aeternum» e il Nuovo Testamento. Lo stesso Gioacchino a questo proposito dice tra l'altro che il vangelo eterno «procedit de evangelio Christi»35. Questo passo finora è stato interpretato in diversi modi. Denifle riteneva che come evangelium aeternum Gioacchino intendesse solo «il senso superiore, spirituale, trasfigurato dei due Testamenti» 36 . Anche secondo Russo esso è solo una interpretazione spirituale e più profonda del vangelo di Cristo 37 , e in ultima analisi un giudizio analogo danno Crocco 38 e Foberti 39 . A differenza di queste interpretazioni che sottolineano l'ortodossia di Gioacchino, Grundmann dà un giudizio sfumato differentemente, nel senso che per Gioacchino «anche il Nuovo Testamento non è la conclusione definitiva della sapienza»40. Ancora più nettamente si esprime Smirin, secondo il qua-
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le Gioacchino considerava il vangelo eterno «come una nuova manifestazione e non solo come il contenuto spirituale del Nuovo Testamento» 41. Su questa controversia ci si può fare una idea chiara solamente se si prendono in considerazione non solo i passi in cui ricorre il concetto di «evangelium aeternum», ma anche altre espressioni di Gioacchino che tengono conto di questo problema. Così va considerata l'indicazione di Gioacchino secondo cui la sequenza di un ordo dopo l'altro significa non una «diversitas fidei», ma solo una «proprietas religionis»42, vale a dire che il contenuto della fede deve rimanere il medesimo in tutti e tre gli status-, cambiano solo le forme della vita religiosa. In un altro passo Gioacchino dichiara: vedere il cielo aperto che altro significa se non contemplare nel più profondo, una volta allontanato l'involucro letterale, l'Antico e il Nuovo Testamento, che devono rimanere entrambi nascosti agli «animalibus hominibus» 43 ? A tale osservazione corrisponde il senso della formula secondo cui la verità nel terzo status uscirà dalla casa del Nuovo Testamento, in cui finora era parzialmente nascosta, e si presenterà all'aperto 44 . Questa affermazione ci fa capire che la verità perfetta è contenuta già nel Nuovo Testamento, anche se non può essere ancora riconosciuta pienamente sotto l'involucro della lettera. Ancora più chiaramente, nel Commento all'Apocalisse Gioacchino dichiara: come all'inizio della sesta età il senso dell'Antico Testamento fu dischiuso completamente agli uomini, allo stesso modo nella settima età il vangelo di Cristo comincerà a risplendere più chiaramente agli amanti della giustizia45. Qui dunque viene palesemente asserito che nel terzo status il vangelo di Cristo nella sua essenza non verrà messo da parte, ma al contrario solo allora risplenderà completamente e verrà in piena luce. In modo altrettanto inequivocabile Gioacchino nello stesso scritto constata che per primo fu inviato Cristo, il quale insegnò agli apostoli; ma poi verrà lo Spirito santo, il quale parlerà a tutti i credenti; tuttavia egli non dirà affatto qualcosa di diverso da Cristo, bensì lo farà solo in un'altra forma 46 . Da queste espressioni dovrebbe risultare palese che l'evangelium aeternum, cioè l'intelligentia spiritualis, ad esso corrispondente a livello funzionale, in nessun modo schiuderà agli uomini verità che si differenziano in linea di principio dal vangelo di Cristo; chiaramente, esso è invece il contenuto più profondo, che nel vangelo, o nella Bibbia in generale, è assopito, ma finora è rimasto nascosto agli uomini; esso diventerà palese a tutti non appena cadrà l'involucro della lettera. Proprio su questo punto bisogna guardarsi dal presentare Gioacchino come
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«più rivoluzionario» di quanto non fosse in realtà, e bisogna sempre tenere anzitutto presente ciò che in fondo voleva. Egli auspicava una rivelazione perfetta di tutti i misteri della fede cristiana già presente, nella speranza di escludere in futuro per questa via qualsiasi deviazione ed eresia e di favorire l'unità e il trionfo della fede cristiana; nel contempo era convinto che questa piena rivelazione non è mai possibile attraverso gli studi scientifici, scolastici, ma solo per mezzo di una illuminazione diretta degli uomini 47 . Egli dunque non voleva una nuova fede, ma solo una comprensione perfetta della fede esistente, la quale dopo secoli di ricerca teologica presentava ancora misteri non accessibili all'intelletto umano 48 . Pertanto non risulta corretto il giudizio di Grundmann, secondo cui per Gioacchino «anche il Nuovo Testamento non è la conclusione definitiva della sapienza»49; bisognerebbe dire con maggiore pertinenza che certo nella sua forma letterale il Nuovo Testamento non è la conclusione ultima della sapienza, ma che però al suo interno, nascosta sotto l'involucro letterale e inconoscibile per gli uomini del secondo status, è già racchiusa in simboli l'intera verità non pienamente esprimibile mediante segni esteriori. Sbagliava dunque Smirin esprimendosi contro la concezione secondo cui il vangelo eterno sarebbe solo il contenuto spirituale del Nuovo Testamento; viceversa si potrà consentire con la sua opinione, peraltro poco significativa, secondo cui il vangelo dello Spirito santo sarebbe «una nuova manifestazione». Infatti è senza dubbio qualcosa di nuovo e di inconsueto che nel terzo status la base della fede cristiana sarà non più una testimonianza tramandata per iscritto, bensì quell'illuminazione immediata degli uomini 50 che Gioacchino descrive con i concetti di «evangelium aeternum» o di «spiritualis intelligentia»; essa concederà agli uomini una rivelazione, equivalente sì al Nuovo Testamento in linea di principio, ma più avanzata rispetto a esso nella sua forma scritta. Poiché per la chiesa proprio questa parola scritta della Bibbia era la base e la norma di ogni insegnamento, mentre l'illuminazione divina interiore degli uomini nel senso di Gioacchino avrebbe dovuto essere sottratta a un vero controllo da parte delle istituzioni ecclesiastiche. Pertanto il superamento del vangelo espresso per iscritto rappresenta un grande pericolo per l'ordine ecclesiastico esistente; e Gioacchino palesemente non era in alcun modo consapevole di tale pericolo. In che misura la negazione di tutto l'aspetto esteriore-simbolico, di tutto l'aspetto figurale 51 , minacciasse effettivamente le fondamenta della dottrina e della costituzione ecclesiastica, appare molto chiaramente se consideriamo le conseguenze di tutto ciò per la dottrina dei
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sacramenti, che sta assolutamente al centro della dogmatica ecclesiastica. Infatti — così dichiara Gioacchino — come nel terzo status scompaiono tutti i segni esteriori e i simboli, e verrà alla luce direttamente ciò che essi indicano, così anche per i sacramenti ciò che essi significano è eterno, ma come atto esteriore, come rito essi sono temporali e transitori 52 . Nel V libro della Concordia Gioacchino accenna inequivocabilmente al fatto che nel passaggio dal primo al secondo status al posto della consuetudine dell'agnello pasquale subentra la cena con pane e vino; allo stesso modo con l'inizio del tempo dello Spirito santo la consuetudine (observatio) attuale cesserà; infatti allora gli uomini daranno seguito non più ai simboli, ma alla semplice verità. Infatti non sono eterni né l'uso del pane e del vino, né il battesimo con l'acqua, né l'unzione con l'olio santo, bensì eterno è solo ciò che è indicato con questi simboli 53 . Queste affermazioni chiarissime non lasciano dubbio alcuno: secondo Gioacchino nel terzo status i sacramenti, nella loro forma attuale di atti simbolici, scompariranno 54 . Certamente qui è contenuta, come conseguenza ultima, una minaccia per l'ordine ecclesiastico esistente. Infatti «sacramenti» puramente spirituali contraddicono in linea di principio l'essenza della chiesa cattolica, nella quale gli atti di culto esteriore riservati ai chierici e la rigorosa struttura piramidale della gerarchia clericale sono tra loro intimamente intrecciati. Sacramenti completamente spiritualizzati, nei quali venga a cadere ogni forma esteriore, non sono più appunto — anche se Gioacchino non lo vuole ammettere — autentici sacramenti in senso ecclesiastico. Simili dottrine necessariamente minano alla base la posizione del sacerdote, e quindi la gerarchia ecclesiastica. Dopo i sacramenti vale la pena ora chiarificare le ulteriori conseguenze derivanti dalla tendenza spiritualistica caratteristica di Gioacchino, e dal suo rigetto di ogni elemento figurale-simbolico. È chiaro che con la visione contemplativo-mistica e perfetta della verità divina l'intera vita religiosa nel terzo status assumerà nuove forme. Gioacchino così descrive queste nuove forme: al posto della faticosa interpretazione delle Scritture, dello «studium doctrinae» necessario nel secondo status, subentrerà nel terzo status la «jubilatio psalmorum, quae trahit hominem ad contemplationem Dei»55. Gioacchino di conseguenza contrappone i tre concetti di opus-doctrina-laus come distintivi per i tre ordines che si susseguono 56 . Al posto della religiosità che si basa sulla dottrina e sull'insegnamento subentra un atteggiamento meramente contemplativo; gli «studia litterarum», i doctores «ecclesiastice institutionis» diventano superflui, e al loro posto dominerà la «sim-
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plicitas vitae» 57 . Perciò Gioacchino può altresì mettere la settima aetas, identica al terzo status, in una stretta correlazione col settimo giorno della creazione del mondo, nel quale Dio si riposò. Infatti la vita contemplativa, che nella settima aetas subentra al posto della vita adiva, non ha più bisogno di uno studio faticoso per la conoscenza della verità divina; essa rende possibile il riposo interiore e i'otium, e quindi apporta agli uomini, che non indirizzano più le loro aspirazioni a beni temporali, la realizzazione dell'ideale agostiniano della «quies» 58. È chiaro che questo tratto contemplativo-mistico della dottrina di Gioacchino — proprio come la sua concezione dei sacramenti — in definitiva affossa il ruolo del clero, la cui funzione consiste appunto nell'insegnamento attivo e nella mediazione della grazia nei confronti dei fedeli ignoranti. Ciò diventa ancora più chiaro se teniamo presente che quell'illuminazione diretta dei fedeli nel terzo status ovviamente non sarà affatto limitata solo a una élite ristretta corrispondente nella funzione al clero, bensì sarà di natura generale. Anche se proprio su tali questioni, di fronte al modo di esprimersi immaginoso e poco preciso di Gioacchino, non si può avere una chiarezza assoluta, vi sono tuttavia espressioni che depongono a favore di tale supposizione; per quanto non si possa ignorare che anche nel terzo status sussisteranno ancora differenze, in quanto viri spirituales particolarmente eccellenti raggiungeranno con ogni evidenza un grado di rivelazione più alto rispetto a quello della massa dei fedeli 59 . Innanzitutto nel Commento all'Apocalisse di Gioacchino si trova una serie di indicazioni, le quali mostrano che in qualche modo tutti i fedeli nel terzo status avranno parte a quella visione diretta della verità divina. Così Gioacchino constata che Cristo in origine comunicò la sua conoscenza solo agli apostoli, ma lo Spirito santo parlerà a tutti i fedeli 60 . In un altro passo egli dice che lo spiritualis intellectus comparve già nelle lettere di Paolo, ma allora non venne concesso a tutto il popolo, bensì solo ad alcuni eletti; ora invece comincia il tempo in cui tutti coloro che hanno sete di verità la palperanno e la gusteranno direttamente 61 . Perciò Ernst Bloch, riferendosi alle dottrine di Gioacchino sul terzo status, ha parlato addirittura di una «illuminazione di tutti in una mistica democrazia»62. Questa affermazione è un poco esagerata, ma nondimeno nell'essenziale caratterizza correttamente le conseguenze ultime della concezione di Gioacchino. I mutamenti spirituali attesi da Gioacchino, dei quali si è parlato in precedenza, hanno più volte fatto emergere con chiarezza che per il terzo status viene ampiamente sottratto terreno alla rilevanza del
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clero. Occorre quindi chiedersi quali trasformazioni Gioacchino si attendesse in campo istituzionale. Tale questione è tanto più importante, in quanto negli ultimi tempi Marjorie Reeves ha ripetutamente sottolineato che in Gioacchino il terzo status ha più un carattere mistico che un carattere storico, cioè ha come contenuto più un nuovo livello dell'esistenza spirituale che un nuovo «corredo» di istituzioni63. La Reeves di conseguenza spiega anche che la questione se nel terzo status i monaci sostituiranno completamente il clero secolare, non ha mai ricevuto una risposta univoca da parte di Gioacchino 64 , e che tutto depone a favore del fatto che la chiesa romana è destinata a durare sino alla fine del mondo 6 5 . In verità una simile interpretazione delle idee di Gioacchino neutralizzerebbe in larga misura il significato sociale delle sue visioni del futuro, escluderebbe cioè ogni attacco all'ordine esistente nel senso più ampio della parola. Come già mostrano le argomentazioni di M. Reeves, la risposta alla questione di che cosa sarà del clero secolare, e quindi della gerarchia ecclesiastica in generale, nel terzo status, ha un significato centrale per la chiarificazione di tutta questa problematica. Proprio su questo punto negli ultimi tempi l'opinione degli studiosi di Gioacchino è molto divisa. Così Tondelli 66 , Russo 67 e anche Denifle 68 credono che il clero continuerà a esistere, mentre Grundmann 69 , Benz 70 e persino Huck 71 , che per il resto propendeva per una interpretazione ortodossa di Gioacchino, come pure Foberti 72 , sostengono l'idea che l'ecclesia spiritualis del terzo status sia una chiesa senza chierici. Di fronte a queste concezioni antitetiche vanno verificate ancora una volta le asserzioni di Gioacchino in proposito. Come è noto, l'idea fondamentale di Gioacchino è che a ogni status corrisponde un determinato ordo, che dà l'impronta a ogni singola epoca. Nel primo status è Yordo coniugatorum, nel secondo status l'ordo clericorum e nel terzo status Yordo monachorum73. L'ordo clericorum è simboleggiato da Pietro, Yordo monachorum dall'apostolo Giovanni 74 . Controversa è la questione se nel terzo status la condizione monastica occupi solo una posizione dominante e il clero continui a esistere, analogamente a come anche nel secondo status accanto al clero ci furono ancora coniugati, oppure se il monachesimo soppianterà completamente il clero. Per rafforzare la loro tesi della continuità del clero nel terzo status, Denifle 75 e Russo 76 rimandano, per esempio, a un brano del V libro della Concordia-, vi si dice: «Non igitur, quod absit, deficiet Ecclesia Petri, que est thronus Christi [...], sed commutata in maiorem gloriam manebit stabilis in eternum» 77 . Con quale cautela si debba procedere
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nell'interpretare le espressioni figurate di Gioacchino, è dimostrato da un confronto di questo passo col testo della tavola XIX del Liber Figurarum 78, in cui Gioacchino fa la constatazione esattamente opposta: «In illa ergo tribulatione [si intendono le persecuzioni al tempo del passaggio dal secondo al terzo status] deficiet Ecclesia Petri». Ma proprio questo passo dal Liber Figurarum è atto a sciogliere l'apparente contraddizione. La frase in questione nella sua completezza suona nel modo conseguente: «In illa ergo tribulatione deficiet Ecclesia Petri et consumata in senectute bona desinet quoad laborem, non quoad sobolem: sobolem illam dico, que signata est in Johanne». Ciò può significare solo che la chiesa di Pietro in quelle persecuzioni finirà, dopo aver raggiunto l'età senile, ma solo «quoad laborem», cioè solo nella sua forma legata alla fatica e al lavoro, la forma che appartiene alla vita adiva-, invece non finirà «quoad sobolem», cioè sopravviverà nel suo rampollo, che viene simboleggiato da Giovanni, e che può significare solo che l'ecclesia Petri soprawiverà nell'ecclesia monachorum. In base a ciò si spiega anche il senso della citata affermazione di Gioacchino nel V libro della Concordia, la quale in fondo dice la stessa cosa, nonostante la formulazione a prima vista sembri opposta: l'ecclesia Petri non tramonterà completamente, ma durerà «commutata», cioè in forma mutata, per l'eternità, laddove con ogni evidenza anche qui per forma mutata si intende la chiesa dei monaci. Gioacchino quindi evidentemente si sforza di mettere in rilievo l'intima connessione tra l'ecclesia spiritualis e l'ecclesia Petri ovvero la chiesa dei chierici. La chiesa dei monaci non è l'antitesi assoluta della chiesa dei chierici, bensì la sua continuazione organica, anche se in forma purificata e diversamente configurata. Con questo però quel passo del V libro della Concordia perde la forza dimostrativa che Denifle e Russo 79 gli attribuiscono. Peraltro c'è tutta una serie di affermazioni di Gioacchino che annunciano in maniera molto chiara la fine del clero, e ne escludono la sopravvivenza nel terzo status. Così egli indica che Pietro ha predicato sì contemporaneamente a Giovanni, ma mentre al primo spettò il ruolo guida, Giovanni sopravvisse a Pietro e perciò influenzò da solo l'ultimo periodo 80 ; ciò significa che mentre all'epoca del secondo status la forma simboleggiata da Pietro e quella simboleggiata da Giovanni esistono l'una accanto all'altra, nel terzo status rimane soltanto «pars illa electorum, que designata est in Johanne, ad quam opus transire totam Petri successionem»81. Le ultime parole possono significare soltanto che i successori di Pietro, dunque i chierici, nel terzo status verranno assorbiti nel monachesimo. Di analogo significato è la con-
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statazione di Gioacchino che nel secondo status accanto alla predominante vita activa, caratteristica della chiesa dei chierici, esiste sì in parte già la vita contemplativa, ma nel terzo status la vita activa non sarà più ammessa, bensì vi sarà solo la vita contemplativa 82. A favore della tesi secondo cui alla fine del secondo status il clero sparirà si possono addurre ancora numerosi altri passi delle opere di Gioacchino. Così egli dichiara nella Concordia che Y ordo clericorum, che dal tempo di Cristo porta frutti, alla fine della quarantaduesima generazione dalla nascita di Cristo sarà compiuto ovvero sarà superato 83 . Simili idee sono espresse chiaramente già nel trattato De vita sancii Benedicti, scritto relativamente presto. Anche là si dice che 1 'ordo clericorum, iniziato con Pietro, al tempo dell'Anticristo subirà la sua passione, mentre gli «spirituales monachi» cesseranno di esistere solo alla fine del mondo 8 4 . Anche se tutte queste osservazioni di Gioacchino depongono molto chiaramente per un venir meno del clero alla fine del secondo status, tuttavia rimane ancora un argomento in contrario di grande peso, sul quale soprattutto Tondelli fonda la sua affermazione di una sopravvivenza del clero 85. È la tavola XII del Liber Figurarum, che contiene il progetto di costituzione di un nuovo ordine 86 . Questo ordine deve appartenere, come assicura esplicitamente l'intestazione, «ad tertium statum ad instar superne Jerusalem». Qui Gioacchino descrive la disposizione di una comunità monastica; essa si compone in tutto di sette differenti oratori. Nel primo, dedicato alla Vergine Maria, troneggia il pater spiritualis, che presiede all'insieme; a lui i membri di tutti gli altri oratori devono obbedire. Cinque dei complessivi sette oratori rappresentano il monastero in senso stretto; essi sono abitati da monaci di diversi gradi di maturità. A tre miglia di distanza da questi cinque oratori che stanno uno vicino all'altro si trova il sesto oratorio, dedicato a Giovanni il Battista e contrassegnato dal simbolo del cane. Qui sono raccolti insieme, secondo i princìpi della vita comune, «sacerdotes et clerici». Ancora a tre stadi di distanza sta il settimo oratorio, dedicato al santo patriarca Abramo e a tutti gli altri patriarchi, che sta sotto il simbolo della pecora. Là vivono i coniugati con i loro figli; essi hanno proprie case e attendono alla loro professione; nessuno deve stare in ozio 87 . Il cibo e i vestiti, che devono essere semplici, li ricevono dalla comunità; vige cioè tra essi una forma di vita di un comunismo elementare, che va concepito prevalentemente come un comunismo di consumo 88 . I loro rapporti sessuali devono servire non alla soddisfazione del desiderio sessuale, bensì solo ad assicurare la riproduzione. Essi devono consegnare la decima ai chierici del sesto orato-
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rio; questi devono a loro volta darne una parte al pater spiritualis. Nei giorni di festa i chierici, che sono posti come custodi (perciò il simbolo del cane) sul gregge (ovis come simbolo del settimo oratorio), devono visitare l'oratorio dei laici e celebrarvi la liturgia. Inoltre devono insegnare il latino ai giovani, e devono renderli familiari con la lettura di ambedue i Testamenti89. Va rilevato che anche gli abitanti del sesto e settimo oratorio, quindi i chierici e i laici, sottostanno all'autorità disciplinare del pater spiritualis, dunque al direttore della comunità monastica90. Poiché l'ordine così descritto viene esplicitamente designato nell'intestazione come «pertinens ad tercium statum», è ovvia l'ipotesi che Gioacchino con questo progetto di ordine volesse caratterizzare lo stadio del terzo status. Senza dubbio una costituzione ecclesiastica costruita secondo questi princìpi si distinguerebbe sostanzialmente dalla gerarchia ecclesiastica del secondo status. Nella sua prospettiva la direzione sarebbe univocamente dei monaci. I laici vivrebbero in larga misura secondo princìpi comunistici, e per questa via le differenze tra poveri e ricchi, e quindi le tensioni sociali, sarebbero eliminate. Il clero certo continua a sussistere e si prende cura come prima dei laici, ma ha perso la sua posizione guida, sottostà ai monaci e vive secondo i princìpi della vita comune. Non c'è alcun dubbio che già l'ipotesi di un ordine sociale ispirato a questi princìpi contrasterebbe l'affermazione di Marjorie Reeves, secondo cui il terzo status costituirebbe solo un nuovo livello della vita spirituale, e non conterrebbe alcun mutamento istituzionale sostanziale. Ma c'è da chiedersi se la costituzione dell'ordine prefigurata da Gioacchino intenda già caratterizzare lo stadio finale da raggiungere nel terzo status, l'ecclesia spiritualis perfetta. Poiché, se si affacciasse questo presupposto, ne risulterebbe una serie di contraddizioni. Per esempio, il clero è sì sottoposto al monachesimo, ma continua a sussistere, e ha nelle sue mani, come prima, la cura spirituale dei laici. Inoltre i chierici insegnano ai ragazzi la conoscenza della lettera di ambedue i Testamenti, mentre per altro verso Gioacchino annuncia esattamente un superamento e un rigetto dell'involucro letterale. L'ecclesia spiritualis e l'intelligentia spiritualis sarebbero allora affare di un ristretto gruppo di monaci. Già Grundmann ha cercato una via di uscita da queste contraddizioni, avanzando l'ipotesi che il progetto di ordine disegnato da Gioacchino rappresenti «uno stadio intermedio, raggiungibile nel prossimo futuro, nel passaggio dal secondo al terzo status»91. A sostegno di questa ipotesi Grundmann ha addotto una serie di argomenti che però
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lasciano sussistere qualche incertezza, tanto più che nell'intestazione quest'ordine è esplicitamente assegnato al terzo status. Perciò non ci si può esimere dal ricercare negli scritti di Gioacchino ulteriori indizi, per poter decidere se il progetto di ordine disegnata nel Liber Figurarum davvero rappresenti solo uno stadio di passaggio. A questo scopo occorre soprattutto operare una verifica sistematica delle asserzioni di Gioacchino intorno al, o meglio, intorno ai nuovi ordini del terzo status. Al riguardo bisogna in primo luogo richiamare l'attenzione su un passo del V libro della Concordia, in cui Gioacchino descrive un futuro ordine anche questa volta articolato in sette mansioni 92 . Quest'ordine deve sotto un certo aspetto rinnovare l'ideale della primitiva chiesa apostolica, nella quale apostoli, evangelisti, doctores, vergini, conventuali, celibi e coniugati, pur se divisi in gruppi, erano fusi in un intero. Viceversa a quell'epoca tali gruppi vivevano completamente separati tra loro, e perciò sarebbe stato tempo che i cristiani ritornassero a quell'antica forma della vita comune. Segue poi una descrizione delle sette mansiones che questo nuovo ordine è destinato ad abbracciare, e che — come ha mostrato Grundmann 93 — facilmente possono essere raccordate con i sette oratori del progetto di ordine tracciato nel Liber Figurarum. Anche qui c'è una mansio per coniugati, i quali si sono sposati più a motivo della prole che per riprovevole concupiscenza, e, analogamente ai chierici del sesto oratorio nel progetto di ordine, qui nella quinta mansio abitano quelli che pongono l'amore fraterno e l'utilità degli altri al di sopra della propria perfezione, e vivono o come canonici regolari o secondo la regola di Benedetto. In accordo con questa descrizione, Gioacchino precisa anche, nel Commento all'Apocalisse, che nel tempo finale del secondo status sorgerà un nuovo ordine, creato secondo la figura dello Spirito santo, e quindi suddiviso, corrispondentemente ai sette doni dello Spirito santo, in sette «speciales ordines» 94 . Ma in entrambi i passi, sia nella Concordia sia nel Commento all'Apocalisse, non si trova alcuna indicazione che quest'ordine articolato in sette comparti rappresenti solo uno stadio di passaggio, e che col compimento dell'ecclesia spiritualis lasci posto a forme più alte. È sorprendente che, nei passi degli scritti di Gioacchino finora discussi, la cura dei laici sia assegnata sempre a un ordine che è sì soggetto alle regole della vita comune, ma nella sua essenza è rimasto un vero e proprio ordine di chierici. In pieno accordo con questa constatazione, Gioacchino nella Concordia esprime anche l'attesa secondo cui sorgeranno due nuovi ordini, un ordine di chierici e un ordine di laici, i quali vivranno non certo nella perfezione monastica, e tuttavia
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secondo una regola, dunque secondo i princìpi della vita communis95, quindi proprio come è previsto nel progetto di ordine per i membri del sesto e del settimo oratorio. Dunque è senz'altro possibile comprendere Yordo clericorum qui menzionato e l'ordo laicorum come parti di quell'ordine composto di sette oratori ovvero mansiones. Chiaramente Gioacchino ha in mente gli stessi chierici e laici, quando, interpretando la storia di Lot, parla dei buoni chierici e dei buoni coniugati, i quali appunto non possono condurre una vita puramente contemplativo-monastica, ma in qualche modo giungono almeno fino a Segor, quella piccola città in cui Lot si ferma nella sua fuga, prima di raggiungere la montagna, che per Gioacchino è simbolo della vita monastica. In questo modo i chierici e i coniugati, nonostante il loro permanere nella vita actualis ovvero coniugalis, possono essere salvati 96 . Poiché essi rimangono a Segor, e non fuggono oltre, sulla montagna, come Lot, stanno chiaramente allo stesso livello degli occupanti del sesto o settimo oratorio nel progetto di ordine. Di grande importanza per la comprensione delle riflessioni di Gioacchino intorno ai ovvero al futuro ordine è il fatto che egli, nella sua intepretazione della storia di Lot, oltre ai boni coniugati e ai boni clerici, che fuggono solo fino a Segor, dunque accanto all'ondo laicorum e all'orbo clericorum, menziona ancora altri due ordini, i quali sono simboleggiati dai due angeli che esortano Lot e i suoi alla fuga. Questi due nuovi ordini vengono designati come «duo genera spiritualium virorum», di cui uno presiede, come Mose, al popolo spirituale {populo spirituali) nel deserto, l'altro vive (come Elia) nella solitudine 97 . Questi due generi di viri spirituales appariranno ugualmente alla fine della sesta età del mondo, cioè alla fine del secondo status. Essi sono palesemente gli autentici rappresentanti della nuova spiritualità del terzo status, mentre Mordo clericorum menzionato prima, come pure Yordo laicorum, rappresentano solo nuove forme di vita per gli antichi ordines del primo o del secondo status. Di questi due ordini veramente nuovi, rappresentati da Mosè e da Elia, Gioacchino parla anche in seguito diverse volte. Ne parla in maniera particolarmente insistente nell'Expositio in occasione del commento di Ap 14. Qui egli vede nella figura assisa su una bianca nuvola, che somiglia al figlio dell'uomo (Ap 14,14), e nell'angelo che esce dal tempio, il quale porta una falce affilata (Ap 14, 17), cifre simboliche dei due ordini futuri. La figura sulla bianca nuvola significa un ordo iustorum, che emula in maniera perfetta la vita di Cristo. Sebbene già quest'ordine possa essere designato come contemplativo, in confronto agli uomini che sono coinvolti negli affari temporali, l'altro, quello
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prefigurato dall'angelo con la falce, è da giudicare superiore; questo è un ordine di eremiti, che emula non la vita apostolorum, bensì la vita angelorum98. Il primo ordine è al servizio degli uomini, ossia chiaramente della popolazione dei laici, che da esso riceve benefiche esortazioni e ne ottiene un visibile esempio di perfezione. Ma infine anche i membri del secondo ordine, gli eremiti, spinti dallo Spirito, compariranno dinanzi agli uomini, di cui stigmatizzeranno i peccati con tanta maggiore forza quanto più predicheranno e difenderanno la fede, nello spirito di Elia, sino alla fine del mondo. Essi estirperanno tutto il male, affinché i cattivi non abusino più della pazienza di Dio. Il primo ordine è dolce e mite, e raccoglie gli eletti nello spirito di Mosè; il secondo è impetuoso e focoso, e miete tra i reietti nello spirito di Elia". In base a queste argomentazioni diventa chiaro che il primo ordine simboleggiato da Mosè ha in prevalenza funzioni di cura di anime, mentre il secondo, che agisce nello spirito di Elia, è in primo luogo un ordine di eremiti separato dal popolo dei laici, che alla fine passa ugualmente alla predicazione. Ciò è espresso da Gioacchino in maniera ancora più precisa in un altro passo, dove constata che dei due ordini, prefigurati da Elia e da Mosè, uno corrisponde più ai monaci, l'altro più ai chierici 10°. Infine importante per la chiarificazione delle idee di Gioacchino sui futuri ordini è la sua interpretazione delle lettere alle sette comunità citate all'inizio dell'Apocalisse, soprattutto delle lettere alla sesta e alla settima comunità (Filadelfia e Laodicea). Mentre le prime cinque comunità vengono riferite agli ordines degli apostoli, martiri, doctores, virgines e dei regulares, i quali a rigore appartengono al secondo status101, l'angelo della sesta comunità (quella di Filadelfia) designa un ordine che appartiene più al terzo che al secondo status-, quest'ordine è un nuovo germoglio, al cui tempo la verità della sacra Scrittura, per così dire, risalterà chiara dall'oscurità della notte 102 , e a cui è promessa in modo speciale la grazia dello Spirito santo 103. Nel contempo, insieme a quest'ordine valutato in modo estremamente positivo, alla fine del secondo status si sviluppa l'altro ordine, simboleggiato dall'angelo della comunità di Laodicea, che viene giudicato in maniera contraddittoria: in parte è eletto, in parte è reietto 104. Ad esso compete quella parte della doctrina che è «inferior» e si riferisce all'umano, mentre al sesto ordine, simboleggiato dall'angelo della comunità di Filadelfia, spetta quella parte della doctrina che è «superior» e ha come oggetto il divino. La dottrina inferiore del settimo ordine riguarda l'«actio»; con essa viene migliorata la condotta morale degli
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uomini. Perciò questa doctrina, che può essere rappresentata anche da Paolo, è temporale-finita, mentre la dottrina del sesto ordine, incarnata dall'apostolo Giovanni, il rappresentante dt\Y ecclesia spiritualis, è perfetta. Pertanto la dottrina dell'ordine di cui è simbolo l'angelo della comunità di Laodicea, ovvero Paolo, è soggiacente in ultima istanza a una trasformazione in direzione di quella parte migliore di cui è rappresentante l'apostolo Giovanni 105 . In tale contesto Gioacchino indica esplicitamente che quest'ordine più perfetto, per quanto in linea di principio rappresenti la vita contemplativa, può senz'altro assumere anche il compito di annunciare agli uomini le parole della vita, cioè assumere la funzione della predicazione 106 . Anche qui dunque vengono messi di fronte due ordini futuri, di cui uno, anche se in definitiva vive tra gli uomini, ha più un carattere contemplativo, l'altro invece è più vicino alla vita activa, ed ha funzioni simili a quelle del clero. Nonostante ciò, per questo secondo ordine si ipotizza per l'avvenire una ulteriore evoluzione interna, nel cui decorso si assimila intimamente all'altro ordine più perfetto, e in certa misura si risolve in esso. Viceversa di questo ordine più perfetto si dice a priori che nel terzo status si moltiplicherà e si diffonderà 107 . In ogni caso qui per noi è importante l'osservazione che uno dei nuovi ordini, quello che assomiglia maggiormente al clero, soggiace a una «commutatio ad meliorem partem», e quindi non compare fin dal principio nella sua figura definitiva 108 . All'inizio è più vicino alla vita activa, ma con l'irrompere definitivo del terzo status entrerà anch'esso nella vita contemplativa. Si pone quindi la questione se nelle opere di Gioacchino vi siano altri riferimenti a una tale evoluzione all'interno dei nuovi ordini verso forme sempre più perfette, un'evoluzione che appartiene agli ultimi anni del secondo status. Di fatto è così. Per esempio, nel contesto dell'interpretazione già ricordata della storia di Lot, Gioacchino dice che i «boni coniugati» e i «boni clerici» solo transitoriamente si fermano a quel livello che è simboleggiato dalla città di Segor. Essi rimangono lì, «in coniugali et actuali vita», solo fino all'ultima grande persecuzione. In quest'ultimo tempo non sarà più concesso poi di sposarsi e di generare figli109. Qualcosa di simile sicuramente intendono anche i ragionamenti di Gioacchino nel trattato De vita sancti Benedirti. Qui egli confronta Benedetto e la sorella Scolastica. Benedetto è simbolo della forma rigorosa di vita monastica, mentre Scolastica rappresenta gli «infirmiores» che non riescono a salire sulla montagna, simbolo della vita monastica, e tuttavia sono legati a coloro che vi salgono e cercano il loro consiglio. Questa concessione ai più deboli è destinata secon-
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do Gioacchino a durare finché la grazia di Dio non si manifesti pienamente, e anche i deboli, che fino allora non sono stati in grado di scalare il monte, non dicano: «io sono forte» 110 . Sarà lecito ipotizzare che coloro che restano, come Scolastica, ai piedi della montagna, sono identici a quei buoni chierici e laici che giungono solo fino a Segor, e quindi anche ai laici e ai chierici del settimo e sesto oratorio del progetto di ordine. Palesemente Gioacchino ha in mente questi gruppi anche nella Concordia, quando confronta gli spirituales e i perfetti, che frequentano i monasteri, con coloro che di giorno in giorno procrastinano la conversione definitiva «usque ad vesperam», cioè appunto fino all'inizio del terzo status. Fino ad allora sono destinati a rimanere soggetti alla cura d'anime dei sacerdoti, cui devono pagare la decima — come del resto gli abitanti del settimo ordine la pagano ai sacerdoti del sesto oratorio 111 . Alla realizzazione di questo stadio di passaggio, che in certa misura appartiene già al terzo status, Gioacchino pensa senz'altro anche nello Psalterium, quando rivolge direttamente ai coniugati l'esortazione: «Se sei sposato, sii monaco almeno nel cuore». Segue l'ammonizione ad avere rapporti sessuali solo a motivo della prole, e a frequentare regolarmente la chiesa. Allo stesso modo si rivolge ai chierici, esortandoli, se già non vogliono diventare monaci, a essere monaci almeno nel cuore e nell'astinenza, e quindi a essere vicini almeno interiormente a coloro che hanno abbandonato tutto 1 1 2 . Si potrebbero forse interpretare tutte queste indicazioni di Gioacchino nel modo seguente: egli era convinto — come peraltro si è mostrato sopra — che il terzo status fosse già all'inizio, anche se prima della vittoria definitiva del nuovo ci sarebbe stata ancora una serie di pesanti persecuzioni. Per essere premuniti contro queste persecuzioni egli invitava già gli uomini del suo tempo a prepararsi interiormente per il tempo delle grandi persecuzioni e per la vittoria definitiva dell 'ecclesia spiritualis. Egli sa che in questo tempo di passaggio non tutti troveranno subito la forza di rivolgersi completamente alla vita contemplativa. Ma non per questo bisogna considerare i più deboli come persi a priori: è sufficiente che per prima cosa essi arrivino — per esprimersi nel linguaggio simbolico di Gioacchino — almeno fino a Segor, cioè vivano come «buoni» chierici e coniugati; essi possono sì permanere nello stato di chierici o di coniugati, ma devono vivere fino a un certo grado secondo regole monastiche e devono sottomettersi alla guida dei monaci, così come descritto da Gioacchino nel progetto di ordine a proposito degli abitanti del sesto e settimo oratorio. Ne deriverebbe che il progetto di ordine nel Libro delle figure contie-
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ne in qualche modo un «programma immediato» col cui aiuto la cristianità si deve premunire per gli eventi futuri. Esso contiene la forma di vita, in parte plasmata sul modello del cristianesimo primitivo, per i buoni cristiani della quarantunesima e quarantaduesima generazione, le quali in certo modo appartengono nel contempo al secondo e al terzo status, e al cui tempo già sorge l'ordine monastico che dà l'impronta ali 'ecclesia spiritualis. Quando poi comincia la grande persecuzione, dopo la quale l'ecclesia spiritualis apparirà vittoriosa in tutto il suo splendore, allora certo dovrà essere abbandonata quella forma di vita che vige nel sesto e settimo oratorio, e che viene simboleggiata sia da Scolastica in antitesi a Benedetto sia da Segor; allora non sarà più permesso impunemente di sposarsi e di generare figli, allora 1 'ordo clericorum e 1 'ordo laicorum devono imboccare la strada della conversione definitiva e inserirsi pienamente nella vita contemplativa. Una simile interpretazione dovrebbe indurre senz'altro a concludere che con la piena manifestazione del terzo status non solo 1 'ordo clericorum, ma anche 1 'ordo laicorum, si dissolva interamente nel monachesimo spirituale, che in altri termini tutti dovranno diventare in una qualche forma monaci; a quest'epoca il matrimonio sarebbe quindi interdetto a tutti gli uomini e la cristianità sarebbe praticamente condannata all'estinzione. L'ipotesi che nel terzo status anche il matrimonio non sia più permesso è stata finora espressa a chiare lettere nella letteratura su Gioacchino solo da Dempf e KestenbergGladstein 113 , mentre di recente, per esempio, Bloomfield si è espresso decisamente per la sopravvivenza del matrimonio 114 . Purtroppo anche tale questione controversa non si può risolvere univocamente con l'aiuto di altre asserzioni di Gioacchino 115 . In definitiva restano dunque aperte due possibilità. La prima possibilità sarebbe che il progetto di ordine di Gioacchino presenti lo stadio definitivo; allora, per esempio, Rosenberg avrebbe dato un giudizio pertinente quando constatava: «Certo in ogni età ci saranno sia coniugati sia chierici e monaci, ma in ogni status una delle tre categorie è rappresentata in maniera prevalente» ll6 , laddove per precisione si dovrebbe aggiungere che in ciascuno status il ruolo guida è esercitato da un ordo diverso; o invece ci si decide per la seconda possibilità di soluzione, che per molti aspetti è senz'altro la più verosimile, e si giunge infine all'ipotesi che al termine nel terzo status tutti trovino la via per la vita contemplativa. Ciò significherebbe altresì che sia 1 'ordo clericorum sia 1 'ordo coniugatorum verrebbero meno completamente. Questa interpretazione si basa soprattutto sul presupposto, peraltro non del tutto sicuro, che le parole della Concordia «usque
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ad articulum persecutionis extreme» 117 connotino l'ultima persecuzione alla fine del secondo status e non la persecuzione alla fine del terzo. La prima possibilità, l'assumere il progetto di ordine come definitivo per il terzo status, ha il vantaggio di presupporre per il terzo status condizioni che corrispondono meglio alle realtà della vita e alle leggi della nostra ragione. Ma questa alternativa assegna al clero la «littera utriusque testamenti», una collocazione che difficilmente si concilia con altre argomentazioni di Gioacchino. La seconda possibilità, che procede dall'ipotesi di Grundmann, secondo cui il progetto di ordine del Liber Figurarum rappresenta solo una forma di passaggio 118, conduce in definitiva alla conseguenza per noi difficilmente immaginabile che nel terzo status il matrimonio non sia più ammesso, che quindi il sesto e il settimo oratorio del progetto di ordine vengano allora a cadere. Solo questa soluzione autorizza a parlare — per usare ancora una volta le parole di Bloch — di una «illuminazione di tutti in una democrazia mistica». Per quanto questa ipotesi oggi ci appaia a prima vista impossibile, tuttavia è senz'altro pensabile che Gioacchino fosse di questa opinione; egli infatti era palesemente convinto che il terzo status — come introduzione del giudizio universale — dovesse durare solo un tempo brevissimo 119 , e per un periodo talmente limitato è in ogni caso pensabile un impegno generale a una vera forma di vita contemplativa. In stretta connessione con il quesito appena considerato, se cioè il clero sopravviverà nel terzo status, sta il problema di che cosa il papato sia destinato a diventare in questo tempo. Anche su tale questione le opinioni della ricerca recente sono divergenti. Benz al riguardo ha parlato addirittura di una «libera comunità della chiesa dello Spirito santo, senza papa» 12°, ipotizzando dunque che come il clero così anche il papato scomparirà nel terzo status. Viceversa, per esempio, Huck 121 , Foberti 122 , Tondelli 123 e Crocco 124 ipotizzano una sopravvivenza del papato. Grundmann nelle sue ricerche più recenti sull'abate calabrese ha espresso l'opinione che Gioacchino almeno nella sua ultima opera, il Tractatus super quatuor Evangelia, si sia basato sulla convinzione che nella futura chiesa dello Spirito non vi sia più spazio per il papato 125. Anzitutto è assodato, sulla base di diverse affermazioni di Gioacchino, che egli assegna al papato un ruolo non irrilevante nel periodo di transizione dal secondo al terzo status. Particolare attenzione in questo contesto ha trovato un passo della Concordia in cui si dice che dopo la prima delle due grandi persecuzioni nella quarantaduesima generazione dopo Cristo, dunque al punto di svolta tra il secondo e
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il terzo status, comparirà un «universalis pontifex nove Hierusalem» come «novus dux» 126 . Egli viene designato come novus dux, perché il suo ruolo va paragonato a quello dell'antico dux Zorobabele, che ricondusse il popolo ebraico dalla prigionia babilonese, e sotto il quale si cominciò la costruzione del nuovo tempio a Gerusalemme 127 . Questo papa, paragonato anche all'angelo col sigillo del Dio vivente dell'Apocalisse, ha il potere di rinnovare la religione cristiana. Sotto di lui si attuerà anche la seconda delle due grandi persecuzioni alla fine del secondo status, che corrisponde a quella descritta nel libro di Ester dell'Antico Testamento. Gioacchino menziona questo papa paragonabile a Zorobabele anche nel suo Libro delle Figure. Anche qui egli compare alla fine del secondo status-, è «simplici honore contentus, gloria et honore consueto carebit» 128 . Grundmann, rifacendosi a Tondelli, ha giustamente fatto notare «che queste idee indirizzano nella direzione dell'ideale di povertà e semplicità del papa angelico», e nel contempo significano «un rifiuto della volontà di potere politico del papato» 129 . Anche in un altro passo della Concordia Gioacchino parla di un romanus pontifex che comparirà al tempo dell'Anticristo alla fine del secondo status e il cui ruolo viene qui paragonato non a quello di Zorobabele, ma a quello di Mardocheo nel libro di Ester o a quello di Giuda Maccabeo 13°. Si può dunque dire in ogni caso che il papato muterà il suo carattere in quel tempo di transizione, e in un certo senso diventerà più spirituale. Ma poi, dopo la piena affermazione del terzo status, quindi anche dopo la seconda delle due grandi persecuzioni, durerà in questo modo sino alla fine del mondo? Tanto Grundmann quanto Baethgen hanno affermato 131 che in quella chiesa di soli monaci non c'è propriamente alcun posto per il papato, e che di conseguenza un altro passo della Concordia corrisponde meglio alla sua concezione complessiva, quel passo cioè in cui si dice che nel terzo status si realizzerà una «dominatio populi sanctorum»; «in ipso [cioè nel populus sanctorum] enim erit tunc successio romani pontificis» 132 . Questa espressione di Gioacchino è di fatto straordinariamente vicina alla visione di Benz di una «libera comunità della chiesa dello Spirito santo senza papa». Conclusioni simili si ricavano da un altro brano della Concordia che è molto chiaro; il che peraltro non sempre si può dire dei ragionamenti di Gioacchino. Qui Davide viene paragonato alla chiesa papale, mentre la vergine Abisag di Sunam unitasi con lui nella sua vecchiaia, con la quale Davide non ha più rapporti sessuali, è paragonata alla «nova religio libera et spiritualis». Nei confronti di questa nuova religio i papi — come Davide nei confronti della vergine — esercì-
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teranno l'astinenza; con questo chiaramente si intende che il papato non si unirà con il nuovo ordine. Come il senescente Davide, il papa, rimanendo abbarbicato al suo vecchio ordo, comincerà a soffrire il freddo per l'età, ma compariranno altri abbastanza forti per la lotta, «ut stent in regno ecclesie prò parte sua»: costoro staranno in certo qual modo al posto suo, del papa, nel governo della chiesa; tuttavia essi non avranno bisogno di occupare effettivamente quel posto («sed non obtinebunt»), «quia non erit adhuc necesse regnare ordinem belli in die pacis», cioè quegli uomini combattivi e forti non rileveranno effettivamente quel «regnum ecclesie», così come l'ha retto il papa, poiché in quel tempo di pace non sarà necessario governare un ordo adatto alla lotta. Al contrario, a Davide, che simboleggia il papato, succederà secondo le sue stesse disposizioni il figlio Salomone, il quale indica chiaramente il futuro ordo monachorum del terzo status133. Questo passo estremamente significativo sul ruolo del papa nel terzo status non necessariamente contraddice le argomentazioni sopra ricordate circa il ruolo guida di un papa nel tempo di sconvolgimento della quarantaduesima generazione; infatti anche qui si presuppone che i papi svolgano un ruolo fino all'inizio del tempo di pace del terzo status. Così risulta naturale presumere che quella visione del futuro, la quale in parte ricorda la concezione di un papa angelico, si riferisca solo al periodo di trapasso, specialmente alla quarantaduesima generazione, e che nella ecclesia spiritualis realizzata non resti più alcun posto per il papato, poiché in quel tempo di pace universale non è più necessario un rigido governo della chiesa 134 . A una tale concezione non contraddicono neppure le successive parole di Gioacchino connesse a questo passo e già prima citate: «Non igitur, quod absit, deficiet ecclesia Petri, que est thronus Christi [...], sed commutata in maiorem gloriam manebit stabilis in eternum»135; infatti con ciò Gioacchino, come si è già mostrato, vuole solo porre in luce l'aspetto di continuità nell'evoluzione, mentre nel contempo, inserendo l'aggettivo «commutata», offre un chiaro riferimento ai cambiamenti da attendere. Sostanzialmente le stesse cose dette nel capitolo della Concordia appena discusso vengono ripetute da Gioacchino nei ragionamenti, già messi in evidenza da Grundmann, del Trattato sui vangeli1)6. Qui Gioacchino interpreta il racconto del vangelo di Luca (2,25 ss.) su Simeone, al quale è stato rivelato dallo Spirito santo che non morirà prima di aver visto il Salvatore. Quando il bambino Gesù venne portato dai genitori nel Tempio alla sua presenza, egli lo prese tra le sue braccia ed esclamò: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo se ne vada
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in pace... poiché i miei occhi hanno visto la tua salvezza». Qui, spiega Gioacchino 137 , Gesù indica Y ordo monachorum, il vecchio Simeone invece i presules romane ecclesie. Come il vecchio Simeone prende tra le sue braccia il bambino Gesù, così i «successores Petri» sosterranno quel futuro ordine con la forza della loro autorità. Essi non avranno motivo di deplorare la propria «dissolutio», sapendo che continueranno a durare «in meliori successione». Anzi, sia ben lungi dai successori di Pietro di provare invidia per la perfezione dell'«ordo spiritualis»; essi dovrebbero invece comportarsi in conformità all'esclamazione di Simeone citata sopra; dovrebbero quindi ringraziare Dio perché li fa andare in pace di fronte all'avvento del Salvatore, cioè del nuovo ordine; tutto ciò può significare solo che d'ora in poi il papato si estingue. Come argomento contro questa concezione si potrebbe forse addurre una affermazione di Gioacchino nella Concordia, che suona così: «Quia occurrit pontificibus romanis preesse ecclesie laborantium, postea ecclesie quiescentium, prius desudantium, postea exultantium in vita contemplativa» 138 . Però il contesto in cui si trova questo asserto evidenzia che queste argomentazioni non possiedono un valore dimostrativo a favore della sopravvivenza del papato nel terzo status. Infatti qui Gioacchino parla chiaramente degli ordini monastici che si sono sviluppati all'interno della chiesa romana dal tempo di Costantino. Se egli dunque dice che i papi presiedettero prima l'ecclesia laborantium e poi l'ecclesia quiescentium, con ciò evidentemente si intende il fatto che dal IV secolo in poi ai papi furono soggetti anche i monaci. Del resto si deve osservare che in questa sezione della Concordia Davide simboleggia costantemente i papi; più oltre si dice che i figli di Davide nati a Gerusalemme indicano gli ordini monastici che in parte esistono già da molto tempo; per Gioacchino è dubbio solo se sia già nato l'ultimo ordine monastico indicato da Salomone, il quale è chiamato a sostituire Davide, cioè il papato 139 . Dunque anche questo passo contro l'interpretazione di Grundmann in ultima istanza induce all'ipotesi che alla fine il papato farà posto a un ultimo, nuovo ordine monastico. Occorre infine prendere ancora in considerazione alcune asserzioni di Gioacchino al termine del suo Commento all'Apocalisse, valorizzate da Foberti come testimonianze per la sopravvivenza del papato sino alla fine del mondo l4 °. Qui si dice che il «summus pontifex», cioè il papa, governa sulla terra al posto di Cristo fino a quando questi non apparirà. Allora c'è da chiedersi quando apparirà Cristo in persona e assumerà il governo. Ciò avverrà solo per il giudizio universale
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alla fine del terzo status, come palesemente ipotizza Foberti, oppure già all'inizio di questo tempo di pace? Ora, proprio nel Commento all'Apocalisse Gioacchino ha dichiarato probabile che Cristo apparirà all'inizio del tempo di pace per annientare l'Anticristo, anche se sa bene che è pure sostenibile la concezione secondo cui Cristo verrà solo in seguito 141 . Quindi anche questo argomento in favore di una continuazione del papato è privo di vera forza persuasiva. Possiamo dunque asserire che Gioacchino ha più volte sostenuto l'idea che il papato scomparirà nel terzo status, e che le affermazioni che depongono contro un simile assunto non hanno valore probante. Inoltre bisogna notare in particolare che le argomentazioni di Gioacchino nel capitolo 65 del V libro della Concordia, le quali inequivocabilmente depongono per una scomparsa del papato, ovviamente devono essere state formulate prima del capitolo 108 di questo libro, steso già prima dell'inizio del 1194 142. Ciò significa che Gioacchino — contrariamente all'opinione di Grundmann — non ha affatto sostenuto simili opinioni solo negli ultimi anni di vita, quando stese il Trattato sui vangeli, ma già all'inizio degli anni Novanta del XII secolo. Da quanto detto finora risulta che l'inizio vero e proprio del terzo status secondo Gioacchino è destinato a portare con sé una profonda trasformazione delle condizioni esistenti all'interno della chiesa anche sotto il profilo istituzionale 143. Alla chiesa governata dal papa e dal clero subentra una ecclesia spiritualis costruita secondo i princìpi del monachesimo, nella quale non c'è più spazio per il papato, e il clero o è subordinato ai monaci o — ciò che si è evidenziato più probabile — ha fatto posto completamente al monachesimo. Gioacchino quindi aspira chiaramente a una chiesa spirituale, perfetta, che può rinunciare all'apparato di potere spirituale e secolare finora avuto, a una chiesa la cui purezza non è compromessa da una permanente mescolanza con gli interessi mondano-politici. Pertanto Gioacchino rientra in quella grande corrente del XII secolo, che è sostenuta dai movimenti popolari ereticali così come — in una forma più misurata — dai nuovi ordini, ed è orientata contro la crescente mondanizzazione dell'intera chiesa. Si pone quindi la questione, in che misura Gioacchino abbia ripreso per la sua ecclesia spiritualis l'ideale, che domina quei movimenti del XII secolo, della vita apostolica, della «chiesa povera», e quale posizione assuma nei confronti dei possedimenti mondani della chiesa. Per esempio, ha egli ripreso la rivendicazione, avanzata soprattutto dagli eretici ma ben presto anche dai francescani, di una totale privazione di proprietà? Bisogna dunque chiedersi quale ruolo svolga l'ideale della vita apostolica nel complesso della concezione di Gioacchino.
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Anzitutto è certo che Gioacchino ripetute volte condanna severamente la ricchezza eccessiva e lo sfrenato desiderio di ricchezze temporali della chiesa. Egli rimprovera ai papi di trasgredire la norma evangelica «a chi ti toglie il tuo, non lo richiedere» (Le 6, 30), e di consentire che i chierici posseggano proprietà personali 144 . Addirittura incolpa i cistercensi, che egli stesso poco prima ha indicato come iniziatori del terzo status 145, di godere in maniera sconveniente dei beni temporali. Però — così continua — ciò non durerà più a lungo; sarebbe anzi necessario che riprendesse vigore la «similitudo vera apostolice vite». Devono dunque diventare di nuovo validi quei princìpi apostolici secondo i quali, invece di acquistare nuovi possessi, si preferì vendere i propri averi, e il ricavato venne dato a ciascuno secondo i suoi bisogni l46 . Dunque in Gioacchino è chiaramente espressa l'idea di un ritorno alle condizioni dell'età apostolica, idea che va intesa come protesta contro la chiesa divenuta ricca 147 . Ma non vi è alcun indizio che egli abbia fatto propria la conseguenza, tratta soprattutto da cerchie ereticali e poi fino a un certo punto anche da parte di Francesco d'Assisi, dell'ideale apostolico: l'assoluta privazione di beni non solo da parte del singolo, ma anche della collettività. Egli chiede solo una utilizzazione dei beni che serva agli interessi della collettività. Questo principio conduce nel progetto di ordine del Liber Figurarum all'istanza di un misurato comunismo dei consumi; però nell'insieme il futuro ordine disegnato in questo progetto non prevede affatto la totale privazione di beni, e Gioacchino non vede nulla di male nel fatto che i laici del settimo oratorio paghino la decima delle loro entrate al pater spiritualis l48. In sostanza si deve sottolineare che l'ideale apostolico di povertà per Gioacchino è essenziale, ma non ha affatto rilievo centrale. Anzitutto va osservato che per Gioacchino il rifiuto della proprietà personale non è l'unica caratteristica della chiesa primitiva apostolica; è per lo meno altrettanto importante, se non di più, un secondo ideale, affine sì ma di natura diversa; esso nella sua visione a quell'epoca si era già realizzato, ed egli auspica che venga ripreso sempre di nuovo. Tale ideale è il principio secondo cui coloro che conducevano forme di vita differenti, coniugati, continenti, doctores e apostoli, a quell'epoca erano legati in una unità inscindibile, mentre adesso si è stabilita una completa separazione di questi diversi gruppi 149 , e quindi è cessata anche un'autentica direzione e influenza sugli uni da parte degli altri. A quell'epoca invece — è la regula generalis dell'epoca apostolica — l'insieme dei fedeli era davvero un cuore solo e un'anima sola 15°.
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Dunque per l'essenziale l'ideale gioachimita della vita apostolica corrisponde, per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti dei beni temporali e della ricchezza, a quello del monachesimo prefrancescano. Egli condanna in linea di principio solo la proprietà privata del singolo, quella non soggetta ad alcun genere di limitazione, e lo sfrenato desiderio di possesso. La sua seconda esigenza, che si collega a quell'idea — la fusione in una unità dei diversi stati di vita —, può essere stata in parte suggerita dall'istituto dei fratelli laici {conversi) diffuso nell'ordine cistercense; essa però nella sua formulazione universale va essenzialmente oltre le istituzioni esistenti, e su questo punto prelude in certo senso alle regole del movimento francescano 151 . Già in forza di queste considerazioni risulta che ci si deve guardare dal collocare le idee di Gioacchino in una prossimità troppo stretta con l'ideale francescano della povertà, o addirittura con quello apostolico-ereticale 152. A ciò si aggiunge un altro aspetto decisivo, idoneo a staccare ancor di più l'ideale di Gioacchino dalle correnti apostoliche del XII secolo. Per Gioacchino, in effetti, non è la chiesa apostolica il modello supremo ed esclusivo di tutte le trasformazioni da lui auspicate 153. Per lui il criterio ultimo non è la vita apostolica, ovvero l'ecclesia primitiva, bensì la vita heremitica. La ripresa degli ideali dell 'ecclesia primitiva costituisce chiaramente solo una tappa di passaggio sulla strada verso questo scopo ultimo. Così, per esempio, Gioacchino spiega che l'imitazione degli apostoli è cosa dei chierici; ma il modello dei monaci, cioè dello stato più perfetto, quello che deve dare l'impronta al terzo status, sono personaggi come Elia, Eliseo, Giovanni il Battista, Antonio e Benedetto, che vissero in solitudine 154 . Dei due ordini spirituali futuri l'ordine dei predicatori, che emula la «vita Christi et apostolorum», è inferiore all'«ordo heremitarum emulantium vitam angelorum» 155 . Qui, nella vita angelorum, così come la conducevano gli eremiti lontani dal mondo, e non nella vita apostolorum, sta l'ideale ultimo di Gioacchino. Pertanto Grundmann ha dato un giudizio pienamente corretto, affermando: «Quindi l'esigenza propriamente etica di Gioacchino non significa: tornate indietro, seguite l'antico evangelo! Bensì: [...] diventate nuovi, diversi»156. In ultima analisi il fine di Gioacchino non è la restaurazione di una condizione antica, una «reformatio» o «renovatio» nel senso rigoroso del termine, bensì l'introduzione di uno stato nuovo, superiore 157, le cui linee fondamentali sono state finora tracciate solo da alcuni eremiti monaci, e che apporterà una pienezza di conoscenza mai avuta.
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La visione del futuro di Gioacchino non può dunque essere pienamente afferrata a partire dall'ideale apostolico così come ha preso forma dal XII secolo. Che i suoi ideali si distinguano molto nettamente, nonostante qualche tratto affine, da quelli delle correnti popolari apostoliche, risulta chiaro anche da ciò: in Gioacchino manca qualsiasi critica alla Donazione di Costantino 158 . Anche se — come occorrerà mostrare — l'idea di decadenza 159 non manca affatto nella concezione complessiva di Gioacchino, essa non viene messa in alcun modo in connessione diretta con l'operato di Costantino o di papa Silvestro. Al contrario, il tempo di Silvestro e Costantino è per Gioacchino un vertice glorioso della storia della chiesa l6 °. Egli afferma senza esitazione che lo Spirito santo, il quale prima era attivo specialmente nella chiesa di Oriente, dal tempo di Costantino ha cominciato a operare anche nella chiesa latina 161 , laddove Gioacchino ha in mente il fatto che dal IV secolo il monachesimo ha preso saldamente piede anche nel mondo occidentale. Inoltre Gioacchino dichiara che al papa spetterebbe, come una volta a Melchisedec, di essere insieme re e sacerdote; Costantino avrebbe riconosciuto ciò, e perciò gli avrebbe offerto la dignità imperiale. Siccome però i papi furono consapevoli che il regno di Cristo non è di questo mondo, lasciarono ai sovrani temporali l'esercizio della sovranità temporale 162 . Qui dunque il propugnatore dell 'ecclesia spiritualis si rivela addirittura sostenitore della dottrina dei due poteri della chiesa. Questa constatazione non necessariamente contraddice le altre idee di Gioacchino, perché appunto è significativo della sua concezione riconoscere la piena legittimità dell'ordine ecclesiastico esistente per la durata del secondo statusló3. Con quanto detto si potrebbe considerare nell'essenziale caratterizzata la struttura dell 'ecclesia spiritualis del terzo status. È una chiesa di monaci col dono di un grado di conoscenza che supera tutti quelli raggiunti finora; in essa non c'è più il papato e neppure il clero, e gli eremiti hanno la posizione guida. Dopo queste constatazioni resta ancora il compito di dire qualcosa sulle altre caratteristiche del terzo status. Gioacchino riprende le attese che già affioravano nelle precedenti profezie sul tempo finale. Così, anche egli è convinto che nel corso delle imminenti trasformazioni i greci, gli ebrei e i pagani si dichiareranno per la chiesa cattolica ortodossa l64 . Allo stesso modo nel terzo status regneranno pace e giustizia, come già annunciavano le precedenti profezie intorno all'imperatore della fine dei tempi, gli uomini convertiranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci, e nessun popolo leverà più la spada contro un altro 165 . A questo proposito Gioacchino presuppone' chiaramente che in quel tempo il potere
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civile scomparirà; infatti egli dichiara che dopo le due grandi persecuzioni alla fine del secondo status Cristo «evacuaverit omnem principatum et potestatem», poiché allora assumerà egli stesso il governo l 6 6 . Poco oltre in senso analogo dice che allora il regno sarà tolto ai figli di questo mondo e sarà consegnato al populus sanctorum l 6 7 . Qui Gioacchino si mostra palesemente come un rappresentante della chiesa, nella cui concezione complessiva — similmente a Gerhoh di Reichersberg — non c'è posto per un imperatore dei tempi ultimi che porti la pace. Per lui, che è in tutto e per tutto un monaco, la storia del mondo finisce del tutto naturalmente non in un'apoteosi dell'impero, ma in un'apoteosi della chiesa, ovvero del monachesimo. Dopo tutto quanto è stato detto dovrebbe essere chiaro che la visione gioachimita del futuro come un tempo di pace universale, con una umanità convertita alla fede cristiana salvo un piccolo resto l 6 8 , sulla quale Cristo assume la sovranità, in maniera visibile o anche solo simbolica 1 6 9 , si avvicina al millenarismo del cristianesimo antico in misura incomparabilmente maggiore di tutte le visioni medievali precedenti del tempo finale ricordate finora 1 7 0 . Perciò sarebbe interessante verificare se Gioacchino nella sua attesa del terzo status riprenda direttamente quella visione del millenario regno di Cristo sulla terra testimoniata dall' Apocalisse, rompendo quindi con l'interpretazione agostiniana, ligia alla chiesa, di tale passo dell'Apocalisse. Per Agostino — come si è già ricordato 1 7 1 — quei mille anni erano già cominciati con Cristo, e la chiesa stessa era già il regno di Cristo sulla terra. Sorge quindi la questione se Gioacchino abbia rifiutato coscientemente questa concezione agostiniana, idonea come nessun'altra a presentare e a legittimare, anzi a glorificare, come definitivo l'ordine ecclesiastico esistente. Di fatto in Gioacchino si possono constatare alcuni accenni in questa direzione. Nel trattato De vita S. Benedirti, composto relativamente presto, Gioacchino si spinge a riferire al futuro tempo di pace quei versetti dell'Apocalisse nei quali si parla di Satana legato per mille anni, anche se egli nega che il numero mille debba essere preso alla lettera, e quindi si rifiuta di attribuire al terzo status una durata millenaria 172 . Viceversa, nelle sue opere principali, che nell'essenziale sono state composte sicuramente in epoca tarda, soprattutto nel Commento all'Apocalisse, Gioacchino si è palesemente sforzato di trovare una mediazione di compromesso con Agostino, e di adattare le proprie concezioni alla dottrina dominante. Così, nel suo Introductorius al Commento all'Apocalisse, egli accenna al fatto che quei mille anni in parte si riferiscono già al secondo status, poiché già in questo tempo l'ope-
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ra di Satana è stata parzialmente impedita, anche se solo alla fine del secondo status la sua potenza è stata completamente fiaccata. Pertanto — questa è la conclusione esplicita di Gioacchino — quei mille anni designano tutto il tempo dalla resurrezione del Signore sino alla fine del mondo 173. In particolare poi nel suo commento al capitolo 20 dell'Apocalisse Gioacchino riflette a fondo su questo problema. Egli si richiama esplicitamente alla concezione di Agostino, e rifiuta con lui l'opinione, che nella chiesa del cristianesimo primitivo affiorava per vie diverse, secondo cui dopo il ritorno di Cristo comincerà un regno della durata di mille anni, in qualche modo come settimo millennio della storia universale. Accenna quindi alle sette teste del drago menzionato nell'^4pocalisse, le quali simboleggiano i rappresentanti terreni di Satana. Questi sette rappresentanti compaiono nelle diverse epoche del secondo status; cinque di loro sono già stati resi innocui nei tempi trascorsi dalla venuta di Cristo, gli ultimi due saranno vinti alla fine del secondo status. Perciò Gioacchino può dire che Satana «secundum aliquam partem» è già stato incarcerato nel giorno in cui Cristo lo ha vinto per la prima volta con la sua morte. Peraltro sarà incatenato del tutto solo dopo l'annientamento del sesto e settimo rappresentante, cioè quando tutte le sette teste del drago saranno state tagliate. Dal fatto che l'incatenamento millenario di Satana è almeno parzialmente cominciato già con la morte di Cristo, Gioacchino conclude che «in mille annis designatur omne tempus quod decurrit a resurrectione domini usque in finem mundi». Perciò si potrebbe anche dire che la settima aetas per una parte comincia già con la passione di Cristo, ma nella sua pienezza comincerà solo con la caduta della sesta e settima testa del drago. A questo proposito Gioacchino sottolinea ancora una volta che il numero mille non è da prendere alla lettera, ed è stato scelto solo perché è un «numerus perfectissimus» e designa un grande insieme di anni 174 . Queste argomentazioni mostrano in modo estremamente chiaro come Gioacchino nel suo cauto riserbo ha concluso un compromesso con la concezione di Agostino vigente come ortodossa. Facendo cominciare anch'egli in certo modo con la prima venuta di Cristo il regno millenario promesso neli'Apocalisse, ottiene il risultato che la sua interpretazione, sotto il profilo formale, non contraddice minimamente quella di Agostino, anche se nella sostanza la sua attesa del terzo status contraddice in linea di principio la concezione di Agostino. Perciò Gioacchino non ha nessuna remora a richiamarsi su questo punto direttamente all'autorità di Agostino; e certo gli scritti di Agostino sono
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i più citati tra tutti quelli dei padri della chiesa 175 . Tutto questo però non cambia nulla nel fatto che, nonostante la sua volontà soggettiva di rimanere nel quadro della tradizione ecclesiastica dominante, sotto il profilo oggettivo egli è essenzialmente più vicino al millenarismo del cristianesimo antico che ad Agostino, il quale nega uno sviluppo ulteriore. Infatti il pensiero di Gioacchino è orientato a una profonda trasformazione delle condizioni esistenti, all'introduzione di uno stato di perfezione già all'interno della storia terrena, e nella sua visione solo allora sarà realtà in senso pieno il millenario regno di Cristo annunciato nell'Apocalisse-, egli quindi persegue — anche se partendo da altri presupposti — un obiettivo analogo a quello dell'autore dell'Apocalisse e di altri millenaristi del cristianesimo primitivo. Essendo risultato chiaro che Gioacchino non pensava neanche lontanamente a una durata millenaria del terzo status, viene naturale la domanda quanto dovrebbe durare all'incirca nella sua visione questo status. In proposito Gioacchino dichiara anzitutto che agli uomini è negato un sapere più preciso sulla lunghezza del terzo status176. Tuttavia, nonostante questa restrizione, propone alcune riflessioni su questo tema, le quali in fondo vanno tutte nel senso che la storia terrena dopo la fine del secondo status non durerà più a lungo. Significativa sotto questo profilo è una affermazione del Commento all'Apocalisse171. Qui Gioacchino accenna al fatto che Dio nella sola sesta età del mondo, relativamente breve, ha compiuto in sostanza più di quanto abbia compiuto nelle cinque precedenti età del mondo tutte insieme. Allo stesso modo sarebbe possibile che Dio nella settima età del mondo realizzi in pochi giorni l'opera di tutti i tempi. Come dunque la sesta età del mondo appare breve in confronto alle cinque precedenti, così anche la settima età del mondo in confronto alla sesta durerà solo poco, ma ciò non significa affatto che nelle sue opere non equivalga a quelle precedenti. Inoltre nella parte finale del Commento all'Apocalisse Gioacchino dichiara addirittura di credere che la durata di quella settima età del mondo sarà solo breve 178 . Molto rivelatrici a tale proposito sono anche le riflessioni di Gioacchino sul capitolo 20 dell'Apocalisse, dove, com'è noto, si parla dell'incatenamento di Satana. Nell'interpretazione di Gioacchino, alla fine del secondo status saranno annientati i principali complici dell'Anticristo, la bestia e gli pseudoprofeti; viceversa nell'Apocalisse non si dice affatto che anche Satana, ovvero il drago, cioè l'Anticristo stesso, sarà completamente eliminato, ma sarà solo incatenato per un certo tempo (secondo l'Apocalisse per mille anni). In proposito Gioacchino constatava: se il tempo di quel sabato, cioè della settima età del mon-
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do, è breve e l'Anticristo è già presente in quel momento 179, giacché la bestia e gli pseudoprofeti sono vinti, che cosa impedisce allora di assumere che l'Anticristo rimanga sottratto per un tempo limitato allo sguardo degli eletti e si ritiri dopo quelle due sconfitte presso i popoli sciti, cioè presso Gog e Magog? Dopo quel tempo di pace reso possibile da ciò, egli irrompe di nuovo, sostenuto da quei popoli; allora comincia la terza e ultima battaglia, che sarà ancora più dura delle due persecuzioni alla fine del secondo status; dopo di essa termina la storia terrena. Segue la frase decisiva per la nostra problematica attuale: quelle tre battaglie (le due alla fine del secondo status e la terza alla fine del terzo status) sono probabilmente così vicine tra loro che quell'uomo peccati, ossia l'Anticristo, prenderà parte a tutte, ma soprattutto alla seconda e alla terza 180 . Gioacchino dunque ritiene verosimile che un uomo, cioè l'Anticristo, prenda parte sia alle due persecuzioni alla fine del secondo status sia alla persecuzione al termine del terzo status, laddove aggiunge pure che quell'uomo peccati giocherà un ruolo di primo piano se non in tutt'e tre le persecuzioni certo almeno nella seconda e nella terza. Ma in tale contesto questo precisamente a noi interessa, perché queste due persecuzioni delimitano appunto in certo modo il terzo status. Ciò significa che Gioacchino prevede con molta sicurezza che il terzo status non superi la durata della vita umana. Una ulteriore conferma di questa concezione viene dai ragionamenti di Gioacchino intorno ai tre alberi, col cui ausilio egli intende illustrare il corso complessivo dei tre status. Il primo albero, che rappresenta il primo status, abbraccia, se si calcolano anche le ventuno generazioni di preparazione, all'incirca sessanta (ovvero sessantatré) generazioni, ossia il tempo da Adamo fino a Cristo. Se si eccettua il tempo di preparazione, sono quaranta generazioni (da Abramo a Cristo). Allo stesso modo avviene col secondo albero che rappresenta il secondo status-, incluso il tempo di preparazione, esso abbraccia ugualmente sessanta generazioni circa (dal re Ozia fino alla fine del secondo status), ma senza quel tempo abbraccia quarantadue generazioni. Il terzo albero invece abbraccia non solo sessanta ovvero sessantatré generazioni nell'insieme, ma settanta generazioni 181 . Il computo di queste settanta generazioni comincia già con il re di Giuda Asa, durante il cui regno apparvero Elia e Eliseo, con i quali venne introdotta la vita monachorum 182. Più oltre Gioacchino conclude che devono quindi passare sessantanove generazioni, prima che gli uomini raggiungano quella «perfectio libertatis» che concederà lo Spirito santo. Ciò significa: la sessantanovesima generazione calcolata a partire dal re Asa indi-
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ca la fine del secondo status: questa coincide dunque con la quarantaduesima generazione a partire da Cristo; la settantesima e ultima generazione di questo terzo albero contiene poi il tempo della pace a lungo desiderata, la settima aetasÌS>. Di conseguenza nella visione di Gioacchino questo terzo albero abbraccia, lasciando da parte il tempo di preparazione e cominciando con il tempo dei Maccabei, quarantanove generazioni sino alla fine del secondo status-, a sua volta la cinquantesima generazione indica quel tempo sabbatico finale184. Da tutto ciò risulta che Gioacchino riserva solo una generazione, la cinquantesima ovvero la settantesima, per il terzo status compiuto; ne lascia peraltro del tutto indeterminata la durata. Anche presupponendo che le idee di Gioacchino abbiano subito una certa evoluzione 185 , si può comunque asserire che l'ipotesi di una durata molto breve della settima età del mondo si adatta assai bene alle tavole di concordanza ovvero agli alberi del Liber Figurarum 186. Tutte queste illustrazioni non lasciano spazio per una durata cronologicamente più ampia di quel tempo sabbatico; ciò è vero anche per le tavole che secondo M. Reeves sono posteriori per origine, caratterizzate da «una grande enfasi sull'età sabbatica»187. Sotto questo profilo è anche rivelatrice una figura, scoperta di recente da M. Reeves, di un albero che in corrispondenza della triplice articolazione della storia porta rami in tre punti 188 . Qui la terza serie di rami, che vuole simboleggiare lo sviluppo nel terzo status, ha origine direttamente proprio al di sopra del punto in cui è posto il nome di Benedetto. Da ciò si può soltanto concludere che i rami appartenenti al terzo status chiaramente indicano i diversi ordini monastici, i quali in gran parte sono sorti già prima del 1200. A ciò corrispondono le argomentazioni di Gioacchino nella Concordia, secondo cui i figli di Davide nati a Gerusalemme simboleggiano gli ordini monastici della chiesa latina, e rimane non chiarito soltanto se l'ultimo figlio, Salomone, che rappresenta il nuovo ordo spiritualis, sia già nato 189 . Sia questo passo sia la figura scoperta di recente univocamente indicano che gran parte degli avvenimenti che appartengono al terzo status si realizzano già durante il secondo status 19°, e nel tempo successivo alla conclusione del secondo status deve avvenire ancora ben poco per completare il terzo status. In verità ci sono anche espressioni di Gioacchino che sembrano deporre per una durata più lunga del terzo status. Così egli riferisce l'opera dei sette giorni della creazione non solo al corso dell'intera storia del mondo (nella forma delle sette aetates), ma anche ai singoli status, sicché il primo e il secondo status appaiono suddivisi ciascu-
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no in sette tempi. Qui Gioacchino parla poi anche dei «septem fùturis temporibus» che appartengono allo Spirito santo, al terzo status, ma che egli non può ancora specificamente articolare, perché lui stesso vive solo gli inizi di questo status191. Ma anche qui egli sottolinea esplicitamente, con un breve excursus, di non sapere bene se, per esempio, i sottoperiodi del terzo status saranno tanto più brevi quanto lo sono stati i tempi del secondo status in confronto a quelli del primo 192 . Inoltre bisogna tener anche conto che in questo passo accenna al fatto che egli stesso sarebbe già collocato nel primo tempo del terzo status-, egli dunque fa avviare già intorno al 1200 il computo dei sette tempi del terzo status. Anche nelle parti iniziali della Concordia si trova un passo che a prima vista sembra deporre per una durata più lunga del terzo status. Qui Gioacchino constata che come le generazioni del secondo status sono più brevi di quelle del primo, così forse anche le generazioni del terzo status saranno più brevi di quelle del secondo. Ciò in un primo momento sembra contraddire le affermazioni, già ampiamente citate sopra, secondo le quali al terzo status appartiene solo una generazione (la cinquantesima ovvero la settantesima); ora però Gioacchino offre sempre molte possibilità di interpretazione, per consentire una traduzione immaginifica delle sue idee. Del resto egli qui sembra immaginare ragionevolmente brevi le generazioni del terzo status, dal momento che proprio in questo passo dice che non sappiamo il numero dei giorni ovvero dei mesi di questa generazione 193, cioè in questo caso ritiene palesemente fuori luogo computare in anni. Possiamo dunque ribadire che il tenore di fondo delle affermazioni di Gioacchino va nel senso che il terzo status nel suo pieno sviluppo durerà molto poco. Indicativo di questo atteggiamento è anche il fatto che in lui i concetti di «fine del mondo» e di «settima età» sono tra loro molto più prossimi di quanto non ci si aspetti a prima vista. Egli si rivolge esplicitamente contro la concezione secondo cui con l'espressione «dies iudicii», che compare molte volte nelle sacre Scritture, si intenda davvero solo un giorno, il giorno del giudizio universale; al contrario in tali casi il concetto di «giorno» significherebbe sempre un certo periodo di tempo 194. Perciò «dies iudicii» designa l'intero tempo finale 195, cioè la settima età della storia del mondo 196; dunque tutto il tempo del terzo status compiuto è insieme la fine del mondo, è il giorno del giudizio universale 197. Quando Grundmann constata, in modo in sé del tutto pertinente: «la profezia di Gioacchino non dice, come la profezia del cattolicesimo: la fine del mondo è vicina, bensì: l'età dello Spirito santo è alle porte» 198 , bisogna tene-
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re presente che Gioacchino non poteva affatto aver percepito come antitetici in tale misura questi due concetti che in sé appaiono tanto antitetici. L'età dello Spirito santo per lui non è precisamente nient'altro che l'introduzione della fine del mondo, il tempo di preparazione per il giudizio universale e per il regno eterno di Dio dell'aldilà. Pertanto non è neppure così assurdo che nella prima metà del XIII secolo Gioacchino fosse interpretato prevalentemente come profeta della fine del mondo e non come annunciatore di un nuovo status199. Qui tuttavia si vede che Gioacchino, nonostante alcune novità sconvolgenti nelle sue idee, cerca sempre di nuovo di raccordarsi alle concezioni dominanti fino allora, e si adopera per un compromesso con esse. In effetti già da lungo tempo prima di Gioacchino era diffusa negli scritti teologici l'idea che dopo la persecuzione da parte dell'Anticristo, sarebbe subentrata una breve pausa di riposo prima del giudizio finale. Questa opinione si basava sulla suddivisione della storia della chiesa cristiana, accolta anche da Gioacchino, secondo i sette sigilli dell'Apocalisse. Nel tempo del sesto sigillo avviene, già per alcuni scrittori più antichi come anche per Gioacchino, la persecuzione dell'Anticristo; segue l'apertura del settimo sigillo, per cui si dice nell'Apocalisse che subentra nel cielo un silenzio di quasi mezz'ora (Ap 8, 1). Questa frase era stata interpretata già da Beda, nel suo Commento all'Apocalisse, nel senso che dopo la fine dell'Anticristo ci sarà pace nella chiesa per un breve periodo 200 . In un altro contesto, in uno scritto che va sotto il nome di Aimone di Halberstadt, si dice che il Signore non apparirà per il giudizio subito dopo la morte dell'Anticristo, ma che dopo verrà concesso agli eletti un limitato numero di giorni per la penitenza 201 . Merita attenzione il fatto che questo tempo felice di pace, tra la sconfitta dell'Anticristo e la fine del mondo, viene messo in grande evidenza nel Genesi sassone antico202. Infine questa visione viene alla luce molto chiaramente in Riccardo di S. Vittore, il quale nel suo Commento all'Apocalisse interpreta il «silentium quasi media hora» come-un grande, universale riposo ovvero come tempo di pace. Esso dura solo poco tempo, perché ben presto seguirà il giudizio finale 2°3. È del tutto verosimile che questo passo dell'Apocalisse e la sua interpretazione nei commentatori precedenti offrissero il primo punto di partenza per la concezione di Gioacchino circa un futuro tempo di pace 204 . Qui potè riallacciarsi Gioacchino; il suo contributo decisivo consiste poi nel fatto che egli, nello sviluppo complessivo della sua concezione, non intese quel tempo di pace del settimo sigillo come una semplice pausa di riposo, ma collegò a questa antica tradizione
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l'ideale di una chiesa completamente trasformata all'interno e all'esterno, l'ideale dell 'ecclesia spiritualis. Il settimo tempo della chiesa, corrispondente al settimo sigillo, non apporta solo una quiete generale concepita in modo molto astratto, bensì una vera, profonda trasformazione e un perfezionamento di tutto l'ordinamento ecclesiastico; esso apporta uno status davvero nuovo, nel quale sono superate tutte quelle debolezze della gerarchia ecclesiastica, che al suo tempo destano critica in misura crescente. Per questa attesa di un cambiamento radicale Gioacchino si distingue in linea di principio, nonostante il raccordo formale, da tutti i suoi predecessori. Ora, dopo aver analizzato il contenuto e la durata del terzo status atteso da Gioacchino, ci possiamo dedicare alla questione più importante. Occorre ora discutere con quali mezzi e con l'aiuto di quali forze vada provocato, nella visione di Gioacchino, quel cambiamento profondo. È chiaro che proprio la risposta a tale questione ha un significato decisivo per chiarire il problema del rapporto fra le idee di Gioacchino e le concezioni moderne della rivoluzione. Il nostro interesse si appunta anzitutto sugli avvenimenti che si devono verificare, secondo Gioacchino, nella quarantunesima e quarantaduesima generazione dopo Cristo, dunque nel decisivo tempo di passaggio. Per poter articolare correttamente questi avvenimenti nel corso complessivo della storia, dobbiamo tenere presente ancora una volta l'articolazione storica del tempo dopo Cristo immaginata da Gioacchino, dunque della sesta e settima età del mondo. Seguendo modelli precedenti, Gioacchino suddivide, come già ricordato, queste due aetates in sette tempi, corrispondentemente ai sette sigilli dell'Apocalisse, sicché il settimo tempus della chiesa cristiana è largamente identico alla settima aetas del mondo, e la sesta aetas appare articolata in sei tempora205. In questi sei tempi del secondo status la chiesa deve subire complessivamente sette persecuzioni, che corrispondono ai sette angeli con la tromba del l'Apocalisse (capp. 8-11), alle sette coppe dell'ira (Ap 16). I rappresentanti più importanti di queste persecuzioni, cioè i capi di quelle forze persecutorie, vengono simboleggiati dalle sette teste del drago rosso dell'Apocalisse (Ap 12, 13). Le prime cinque persecuzioni capitano nei primi cinque tempi del secondo status, dunque nel tempo fino al 1200 circa 206 . Esse sono: 1. la persecuzione degli apostoli e dei loro discepoli da parte dei giudei ovvero di Erode; 2. la persecuzione della chiesa del cristianesimo primitivo da parte dell'imperatore romano, soprattutto da parte di Nerone; 3. la persecuzione della chiesa ortodossa da parte degli ariani sotto l'imperatore Costanzo, così come da parte delle stirpi germaniche convertite
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all'arianesimo; 4. le persecuzioni cominciate con Maometto da parte dei maomettani ovvero dei saraceni; 5. le persecuzioni della chiesa romana da parte dei re tedeschi ovvero degli imperatori 207 , laddove come iniziatore di queste lotte è nominato un «Heinricus primus imperator Alamannorum» 208 . Nel sesto tempo della chiesa che qui soprattutto ci interessa, cioè nel tempo della quarantunesima e quarantaduesima generazione, capitano la sesta e la settima persecuzione; il tempo del sesto sigillo abbraccia dunque, in antitesi ai cinque periodi precedenti della storia della chiesa, non una sola ma due persecuzioni 209 . Per noi è interessante soprattutto chiarire quali forze assumeranno in questi eventi il ruolo del persecutore, e quale funzione venga assegnata a queste persecuzioni nel quadro del passaggio dal secondo al terzo status. La sesta persecuzione, che viene simboleggiata dalla sesta testa del drago apocalittico, viene da Gioacchino collegata diverse volte con Saladino, il conquistatore di Gerusalemme, e con i suoi successori 210 . Accanto a questo sovrano maomettano stanno — in corrispondenza con i dieci corni della bestia dell 'Apocalisse — altri dieci re pagani 211 . Tutti costoro si rivolgeranno contro l'imperium romanum, che allora già sarà frazionato in molte parti, e lo sottometteranno al loro potere 212 . Alla fine però verranno respinti dai milites Christi213. Segue un breve tempo di pace, al cui termine comincia poi la settima persecuzione, che è ancora più pesante. Il principale rappresentante di questa settima persecuzione è simboleggiato dalla settima testa del drago. Egli sta a capo di una seda pseudoprophetarum, cui allude la bestia che sorge dalla terra (Ap 13, 11), ed egli stesso viene designato anche come pseudoprofeta (in corrispondenza ad Ap 19,20) 214 . Chiaramente è un alto prelato, simile a Simon Mago, e apparirà davanti a tutto il mondo come «universalis pontifex» 215 . Appartengono anzitutto al suo seguito anche falsi chierici 216 . Egli, che è il vero e proprio Anticristo 217 , proviene dalr«occidens»218, cioè dall'ambito degli stati che appartengono alla chiesa cattolica. Nel trattato De vita sancii Benedicti Gioacchino esprime esplicitamente il timore che questo Anticristo viva già adesso in incognito presso i «latini»219; né depone in contrario l'ipotesi dei racconti dei cronisti inglesi Ruggero di Hoveden e Ralph di Coggeshall, quando affermano che Gioacchino avrebbe espresso l'opinione che l'Anticristo sarebbe già nato, vivrebbe a Roma e presto sarebbe diventato papa 220 . Inoltre Gioacchino asserisce che l'Anticristo verrà segretamente e in incognito, e ingannerà gli uomini con segni e miracoli menzogneri. Egli, come scrive Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi,
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si innalzerà al di sopra di ogni essere chiamato Dio, insediandosi nel tempio di Dio e spacciandosi per un dio 221 . Egli dunque non è anzitutto un sovrano temporale, ma piuttosto una specie di pseudopapa 222 , un capo spirituale completamente corrotto proveniente dalla secta pseudoprophetarum-, egli non solo minaccia e opprime gli uomini con un potere esteriore, ma soprattutto li seduce e li porta su una falsa via sotto il profilo spirituale. Perciò una volta Gioacchino lo designa anche come esponente di una «secta hereticorum», che ipocritamente si riveste dell'apparenza della religiosità e dice menzogne; egli si alleerà con l'undicesimo e ultimo re dei saraceni (simboleggiato dall'undicesimo corno della bestia di Dan 7,8 e 24) 223 , che aggredisce i cristiani con aperta violenza. Nella settima persecuzione dunque sono all'opera insieme la seduzione spirituale e l'uso aperto della violenza, per annientare sulla terra il nome di Cristo; ma alla fine Cristo vincerà ambedue. Dopo aver delineato il corso esteriore delle due grandi persecuzioni alla fine del secondo status, bisogna adesso rispondere alla questione: per quali motivi questa sciagura deve piombare sulla cristianità, e a quali conseguenze condurrà ciò? La domanda circa i motivi riceve una risposta inequivocabile da parte di Gioacchino. Egli dichiara che l'impero romano viene sottoposto alla violenza dei pagani, perché la religione cristiana è falsificata224, perché la malvagità si moltiplica ovunque, e la potenza dei pagani sarà rafforzata a causa dei peccati della cristianità 225 . Per quanto concerne le conseguenze di queste due persecuzioni ovvero la loro funzione nel corso storico complessivo, con esse non solo verrà distrutto l'impero romano, ma insieme verrà annientata anche la meretrice di Babilonia226; Babilonia, ovvero la meretrice babilonese, sono coloro che si chiamano cristiani e non lo sono 227, è l'insieme di tutti gli uomini perversi 228 . Pertanto quell'ultima persecuzione ha addirittura il compito di separare l'erba cattiva dal grano 229 , cioè di annientare il male sulla terra e in particolare all'interno della chiesa cristiana. Gioacchino vive nella convinzione che Dio, quando vuole far cessare le cose vecchie e introdurre qualcosa di nuovo, permette una persecuzione nella chiesa, durante la quale abbandona ciò che deve trovare la propria fine e protegge ciò che deve rimanere 230 . Naturalmente anche i giusti hanno da soffrire sotto queste persecuzioni; ciò è inevitabile, perché Dio può separare il grano dalla pula solo con una simile tribolazione, per mettere così alla prova gli uomini non solo nelle loro parole, ma nella loro vera fede 231 .
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Da quanto detto risulta una interessante constatazione: le forze cui Dio affida il necessario, e in fondo positivo compito di annientare Babilonia, ovvero di purificare la chiesa corrotta per le molte brutture, sono popoli pagani o pseudoprofeti di parte cristiana; dunque le forze di persecuzione sono, analogamente a quanto avveniva in Ildegarda, forze malvage, anticristiane. Il male stesso deve annientare il male. Gioacchino ha espresso ciò già molte volte e in modo del tutto chiaro. Nel Commento all'Apocalisse dice direttamente che la bestia e gli pseudoprofeti senza saperlo compiono la volontà di Dio 232 . In un altro passo si dice similmente: sebbene la loro intenzione sia in tutto malvagia, tuttavia i re pagani fanno contro il loro desiderio e senza saperlo la volontà di Dio 233 . Per quanto siano cattivi e non sappiano che cosa fanno, tuttavia eseguono il giusto castigo del Dio onnipotente e liberano dalle spine la vigna del Signore 234 . Questa concezione è estremamente significativa per Gioacchino. Infatti per il fatto di affidare a riprovevoli forze anticristiane il necessario compito di eliminare con la violenza l'ordinamento vecchio corrotto, è escluso a priori che si simpatizzi con esse. Per quanto nella sua visuale queste persecuzioni purificatrici possano essere necessarie, rimangono qualcosa di cattivo. Per quanto Gioacchino sappia che la creazione di un ordine veramente nuovo e perfetto sia impossibile senza una distruzione violenta del vecchio 235 , egli non pensa neanche lontanamente a riferire in qualche modo questo principio di violenza alle nuove forze, ai viri spirituales. I portatori della violenza e i portatori del nuovo, la cui unica arma è la predicazione, vengono separati nettamente tra loro. Egli afferma sì uno stato nuovo, perfetto, ma dichiara riprovevole l'agire «rivoluzionario» che è destinato a distruggere l'antico e ad aprire la via al nuovo. Tanto è rivoluzionaria, presa in sé, l'attesa da parte di Gioacchino del terzo status, quanto assolutamente non rivoluzionarie sono le sue concezioni circa i mezzi e i metodi con i quali rendere possibile questa trasformazione. Quindi le sue idee non sono in nessun modo adatte a mobilitare forze di qualsiasi genere per eliminare apertamente, violentemente il vecchio; egli afferma esclusivamente la lotta con armi spirituali, la predicazione contro le evidenti brutture all'interno della chiesa. Date queste circostanze, l'opinione di Rosenstock-Huessy, secondo cui Gioacchino avrebbe riconosciuto la legge il cui ultimo esecutore fu Lenin, appare davvero esagerata 236 . Ancora un ulteriore aspetto merita di essere segnalato a proposito delle concezioni di Gioacchino circa il tempo dello sconvolgimento. Diversamente che negli scritti pseudogioachimiti posteriori, l'impero,
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sotto le forze distruttrici di questa incombente trasformazione epocale, non svolge alcun ruolo. L'impero, ovvero i re germanici, sono certo i persecutori della chiesa al tempo del quinto sigillo, e Gioacchino non lascia alcun dubbio sul fatto che deplora questa battaglia e si pone internamente dalla parte della chiesa 237 ; ma nelle persecuzioni decisive dell'Anticristo al tempo del sesto sigillo l'impero non sta dalla parte dei persecutori, bensì funge addirittura da difensore della chiesa contro i popoli pagani. Lo si afferma inequivocabilmente nel Commento all'Apocalisse. Secondo tale commento, i popoli pagani che nel sesto tempo della chiesa si abbattono sulla cristianità sono tenuti a bada fino a quel momento dall'impero romano, «che l'onnipotente Dio ha istituito per la protezione e la difesa della chiesa». Solo per la debolezza dell'impero si apre la strada ai re pagani, «quod sine gemitu dicendum non est» 238 . Qui si vede che palesemente fu solo la lotta veramente apocalittica tra chiesa e impero sotto Federico II a bollare l'impero, ovvero l'imperatore, come il grande e decisivo persecutore della chiesa. Queste argomentazioni possono essere sufficienti per illustrare i mezzi e le forze che nella visione di Gioacchino sono destinati a rendere possibile il passaggio dal secondo al terzo status. La dottrina intorno ali 'ecclesia spiritualis del terzo status da una parte, l'intimo rifiuto di qualsiasi uso della violenza rivoluzionaria dall'altra manifestano con ogni evidenza l'intrinseca contraddizione tra l'«idea teorica che indica in avanti» di Gioacchino e il suo «essere radicato esistenzialmente nella tradizione» 239, che esclude un'aperta opposizione alla chiesa. Di fatto è estremamente rivelativo di tutto l'atteggiamento di Gioacchino il modo col quale egli si è sempre sforzato di conciliare la sua idea straordinariamente audace del terzo status, di una ecclesia spiritualis perfetta — l'antitesi assoluta della chiesa papale di allora, militante, dominatrice del mondo e politicizzata — con l'ordine esistente, e di evitare qualsiasi rottura radicale. Questa tendenza conciliante appare, per esempio, anche nel fatto che Gioacchino per ciascuno status distingue un tempo di preparazione, ì'initiatio, che comincia circa alla metà dello status precedente, e il tempo della fructificatio, che porta la piena vittoria del nuovo sul vecchio. Così egli pone ì'initiatio, l'apertura del terzo status, al tempo di Benedetto, il fondatore dell'ordine benedettino 240 . Le regole dello status venturo si profilano già, in forma più o meno sviluppata, nello stadio di sviluppo precedente. In questo caso è il monachesimo, che già nel secondo status rappresenta la nuova forma di vita del terzo status. Soprattutto nell'ordine cistercense Gioacchino ha visto, alme-
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no per qualche tempo, una forma di anticipazione diretta del terzo status241. È evidente che questa lunga coesistenza, l'uno accanto all'altro, di vecchio e nuovo è adatta a togliere l'asprezza del passaggio al nuovo status e a dargli una figura organica 242 . Conclusioni analogamente concilianti vengono ricavate dal dogma che lo Spirito santo procede sia dal Padre sia dal Figlio. Gioacchino interpreta questa dottrina nel senso che lo Spirito santo, e la vita contemplativa da lui rappresentata, già affiorano accanto al Figlio ovvero alla vita activa non appena l'opera del Padre, cioè il primo status, è conclusa 243 , anche se la sovranità piena ed esclusiva dello Spirito santo subentra solo dopo il secondo status. In maniera analoga è interpretato il fatto che Pietro, il rappresentante dell 'ecclesia clericorum, e Giovanni, che personifica la vita contemplativa, furono sì chiamati contemporaneamente, ma Pietro sostanzialmente morì prima di Giovanni, che in seguito continuò a operare da solo 244 . Questi passi mostrano che nel secondo status accanto alla vita activa si afferma in parte anche la vita contemplativa, la quale in sé è ordinata al terzo status245, ovvero — secondo la formulazione simbolica che una volta egli ne dà — la costruzione della terza Gerusalemme comincia in contemporanea con la costruzione della seconda Gerusalemme 246 . La stessa cosa Gioacchino vuole dire quando constata che la settima età del mondo in una certa misura comincia contemporaneamente alla sesta età del mondo, al tempo della passione del Signore, anche se si manifesta in pieno solo con la caduta dell'Anticristo 247 . Con tutte queste indicazioni Gioacchino in fondo vuole mostrare che già nel secondo status affiorano molti tratti essenziali del terzo status. Quando Grundmann dichiara che secondo la visione di Gioacchino nel terzo status dominerà una forma di esistenza «che si distingue da quella evangelico-cristiana se possibile in modo più rilevante che non quest'ultima da quella giudaica»248, questo giudizio può essere corretto sotto il profilo oggettivo, ma difficilmente corrisponde, come i passi appena citati mostrano, alle idee di Gioacchino. Molto significativa per la sua visione intorno a tale questione è l'affermazione secondo cui l'«ecclesia Petri», che dà l'impronta al secondo status, non verrà meno, come è accaduto ai «natis mulierum» alla fine del primo status, bensì permarrà sino alla fine del mondo, certo in forma mutata 249 . Qui dunque Gioacchino accenna esplicitamente al fatto che nella sua visione la rottura tra il primo e il secondo status è più netta di quella tra il secondo e il terzo status. Questi confini nella visione che Gioacchino ha del terzo status futuro devono essere posti in risalto con la massima chiarezza, per poter cor-
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rettamente, nel contesto sociale del suo tempo, inquadrare questa personalità senza dubbio estremamente significativa. Non possiamo, per l'arditezza della sua idea del terzo status, lasciarci fuorviare, nel senso di definire Gioacchino come un portavoce delle classi sfruttate; contro questo depone già la sua presa di posizione di netto rifiuto nei confronti dei movimenti ereticali di allora, soprattutto nei confronti dei catari e dei valdesi250. Allo stesso modo sarebbe impossibile mettere le sue dottrine in connessione diretta con le concezioni ereticali 251 . Se ci si chiede quali correnti spirituali lo abbiano influenzato direttamente e dove si trovino i punti di contatto più essenziali per le sue idee, non si deve dirigere lo sguardo alle eresie popolari; viceversa potrebbe essere decisivo sotto questo profilo ciò che si suole designare come spiritualità cistercense. In effetti egli stesso fu per un certo periodo cistercense 252, e sebbene ben presto sia giunto alla convinzione che anche quest'ordine non fosse all'altezza delle sue esigenze ideali, tuttavia è innegabile che il suo atteggiamento spirituale di fondo, la sua idea di una ecclesia spiritualis sia cresciuta in parte sul terreno dell'ordine cistercense, inizialmente del tutto non mondanizzato 253 . In questo senso depongono soprattutto i passi già citati sulla collocazione intermedia dell'ordine cistercense tra il secondo e il terzo status254; allo stesso modo di sicuro non è un caso che lo scritto De consideratione di Bernardo di Clairvaux, diretto contro la mondanizzazione della chiesa, sia una delle pochissime opere teologiche recenti che Gioacchino cita espressamente 255. Ma da solo il rinvio alla tendenza eremitica indubbiamente presente nell'ordine cistercense 256 non sembra ancora sufficiente per spiegare la predilezione estrema, straordinariamente accentuata di Gioacchino per la vita eremitica, cui diede espressione non solo nelle sue opere, ma anche con l'uscita dal monastero cistercense di Corazzo per ritirarsi nella solitudine delle montagne della Sila257. Il monastero di Fiore che fondò là fu dedicato a Giovanni il Battista, il quale insieme a Elia, Eliseo, Antonio e Benedetto rientra tra quegli uomini perfetti che hanno cercato la solitudine 258 . Un'indicazione di altri eventuali modelli che influenzarono Gioacchino in questa direzione è data dal suo spiccato apprezzamento per il monachesimo greco, in particolare quello greco primitivo 259; tale apprezzamento va nettamente distinto dal suo atteggiamento critico e negativo nei confronti della chiesa greca in generale 260 . Ciò che gli appariva così attraente nel monachesimo greco era palesemente la predilezione di quest'ultimo per l'ideale eremitico, a confronto del quale la vita monastica cenobitica passava
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in secondo piano 261 . È senz'altro possibile che Gioacchino da un viaggio compiuto a Gerusalemme negli anni giovanili 262 abbia riportato un'impressione indelebile del monachesimo orientale; inoltre le succursali monastiche greche che continuarono a sussistere per molto tempo nell'Italia meridionale normanna potrebbero avergliene permesso una conoscenza più precisa 263 . È dunque molto verosimile che la tendenza eremitica assai pronunciata nel comportamento e nelle idee di Gioacchino, come in generale il suo atteggiamento spiritualistico di fondo, si raccordassero non solo alle tradizioni cistercensi, ma fossero state plasmate in notevole misura anche da influssi greci, in particolare dal monachesimo orientale 264 . Lo spiritualismo cistercense potenziato dal monachesimo eremitico della chiesa orientale è dunque la base ideale a partire dalla quale Gioacchino ha sviluppato le sue idee. Queste brevi osservazioni a proposito della questione di quali correnti spirituali abbiano influito su Gioacchino e contribuito a plasmare le sue idee, confermano ancora una volta la nostra ipotesi, secondo cui sarebbe completamente sbagliato inserirlo nel novero dei movimenti antiecclesiastici radicali, popolari. Al contrario, le sue idee si raccordano anzitutto con lo spiritualismo monastico fedele alla chiesa del XII secolo. Anche l'interpretazione di Buonaiuti, che considera il fenomeno cistercense come «movimento democratico antifeudale» e Gioacchino come esponente di questo movimento 265 , misconosce del tutto il carattere assolutamente fedele alla chiesa e in definitiva feudale dei cistercensi, nonostante tutti gli elementi ascetico-spirituali266. Dunque un'analisi degli influssi che hanno inciso su Gioacchino depone univocamente contro la valutazione di Gioacchino in termini di un «rivoluzionario». In verità su questo punto bisogna tenere presente che un'analisi dei molteplici influssi che hanno contribuito a plasmare un determinato fenomeno non è affatto sufficiente a permettere un'interpretazione calzante ed esaustiva e un inquadramento sociale di questo fenomeno. L'errore largamente diffuso nella storiografia borghese è precisamente quello di accontentarsi spesso di spiegare processi o personalità storiche in base alle correnti spirituali che hanno inciso su di loro. Anche se sarebbe erroneo negare il significato di simili influssi spirituali, l'inquadramento di una personalità nel contesto sociale del suo tempo, e quindi il giudizio su di essa, è possibile solo se si cerca di chiarire a partire da quale posizione sociale quella personalità ha cercato di risolvere i problemi del proprio tempo, e per quali forze e interessi sociali, reali ed effettivi, essa ha operato soggettivamente o almeno oggettivamente mediante le proprie idee o il proprio agire. Pertanto Gioacchino, come qualsiasi altra personalità
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spirituale, non è mai spiegabile interamente come una semplice somma di influssi qualsiasi; decisivo è vedere piuttosto come egli elaborò questi influssi nella situazione sociale concreta nella quale visse, quali obiettivi perseguì, e in quale direzione le sue idee dovettero operare nella situazione data. Invero sembra a prima vista disperato il tentativo di mettere in collegamento le idee di Gioacchino con 1'«essere sociale» del suo tempo, o addirittura di spiegarle a partire da esso. Grundmann, per esempio, accenna al fatto che le idee di Gioacchino non hanno avuto una larga influenza prima della loro scoperta da parte degli spirituali francescani, e conclude che il suo «tempo era ancora completamente sordo per il problema che Gioacchino aveva sollevato» 2 6 7 . Significativamente egli ritiene di nessuna importanza sapere «se nella sua epoca le sue idee circa il futuro erano legittimate dagli eventi storici del mondo che lo circondava»; al contrario, Gioacchino è importante proprio perché «era un uomo con problemi propri, lontani dal suo tempo, e aveva la forza di plasmare molto autonomamente tali problemi» 2 6 8 . Da tutto ciò Grundmann conclude «che la dottrina di Gioacchino era anzitutto idea allo stato puro, non espressione di un movimento storico qualsiasi, non era il portato di una realtà sociologica effettiva che avrebbe potuto darle vigore, forza, efficacia» 2 6 9 . È innegabile che Gioacchino per molti aspetti appare come un sognatore unico, isolato dal mondo circostante. In un tempo in cui il nuovo ideale apostolico, che è caratterizzato dall'azione attiva sul mondo, si va imponendo sempre di più contro l'antico ideale eremitico, e viene quindi superato «le caractère anti-social de l'ascétisme» 2 7 0 , Gioacchino celebra l'eremitismo puramente contemplativo come grado supremo di perfezione e forma di vita dominante del futuro 2 7 1 . Queste concezioni in parte «arretrate» possono essere ricondotte tra l'altro al fatto che Gioacchino non operò in uno dei punti allora nevralgici dello sviluppo economico e sociale, per esempio nel nord dell'Italia, nel sud della Francia o nei territori tra il nord della Francia e i Paesi Bassi, bensì nell'Italia del sud che si trovava comunque in una situazione alquanto isolata. Tuttavia Gioacchino non è rimasto immune da quel sentimento, allora largamente diffuso, di critica nei confronti della gerarchia ecclesiastica, che trovò il suo terreno di coltura proprio in quelle regioni principali, appena ricordate, dello sviluppo urbano-borghese, e determinò in misura decisiva tutti i conflitti ideali nel XII secolo. Grundmann è in palese contraddizione con il pensiero di Gioacchino, quando afferma che negli scritti di quest'ultimo non si può rintracciare «nulla circa
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una "collera morale" per le condizioni religiose e morali, ecclesiastiche e politiche del proprio tempo [...] nulla circa un'opposizione contro il dogma o le istituzioni» 272 . Ci porterebbe troppo lontano indicare in questa sede anche solo approssimativamente tutti quei passi nelle opere di Gioacchino in cui muove una critica estremamente dura alla mondanizzazione della chiesa 273 . Così, per esempio, descrive la generale tendenza di sviluppo all'interno della chiesa cristiana: la cristianità, che sotto papa Silvestro ha cominciato a fruire felicemente della libertà, adesso di fronte alla fine del mondo che si avvicina deve sopportare molti travagli a causa dell'aumento dei vizi, per conservare quella libertà 274 . L'aumento dei vizi nella chiesa cristiana è dunque il sintomo più acuto del tempo più recente. La chiesa che all'epoca di Costantino apparve nella sua pienezza, adesso è interiormente vuota, e sebbene ne facciano parte moltissimi uomini; questi in massima parte non sono cittadini della Gerusalemme celeste, e dunque veri cristiani, ma «figli di Babilonia». Tutti costoro si chiamano sì cristiani, ma che significa il nome, se mancano i fatti? Sebbene ovunque vengano insediati dei vescovi, solo pochi tra loro sono veri pastori; quasi tutti cercano solo il proprio interesse, pascolano se stessi, non il gregge loro affidato 275 . In generale l'ordo clericorum che una volta ai suoi inizi risplendeva luminosamente, oggi a causa delle sue manchevolezze è tardo nel compimento delle buone opere 2 7 6 . Infine Gioacchino non ha alcun ritegno a stigmatizzare su determinati punti anche il comportamento dei papi. Essi hanno disatteso il comando: «a chi ti toglie il tuo, non lo richiedere» (Le 6, 30), e contro il comandamento del vangelo permettono ai chierici il possesso della proprietà privata 277 . Peraltro va ricordato ancora una volta che nell'opinione di Gioacchino questa decadenza della chiesa non comincia subito con Costantino e Silvestro, come conseguenza diretta dell'ottenimento da parte della chiesa di beni e diritti terreni 278 . In antitesi a simili concezioni prevalentemente ereticali Gioacchino ritiene che nel tempo del quinto sigillo, che inizia nell'VIII secolo, si moltiplicano i fenomeni di decadenza all'interno della chiesa. Egli esprime ciò con particolare chiarezza nel terzo libro della Concordia; qui accenna al fatto che in connessione col quinto sigillo si fa menzione per la prima volta di Babilonia. Ciò si spiegherebbe col fatto che la cristianità dei primi tempi può essere a buon diritto indicata come «Gerusalemme» a causa del prevalente numero dei buoni; invece a partire dal quinto periodo, a causa dell'illimitato numero dei cattivi, il nome «Babilonia» è più adeguato, sebbene vi siano ancora cristiani che appartengono a Gerusalemme,
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così come nei primi tempi esistevano cristiani che appartenevano a Babilonia 279 . In un altro passo Gioacchino rimanda alla storia della creazione, i cui sette giorni egli riferisce non solo alle sette età del mondo, ma anche ai sette tempi della chiesa. A questo proposito egli rileva che Dio nei primi quattro giorni ha creato solo cose buone, ma che nel quinto e nel sesto giorno accanto a creature pure ha creato anche animali impuri 280 . La sua interpretazione è quindi che solo a partire dal quinto tempo si moltiplicano, all'interno della chiesa, fenomeni negativi. Indicativo sotto questo profilo è anche l'assunto di Gioacchino, secondo cui nelle battaglie decisive alla fine del secondo status molti chierici staranno dalla parte dell'Anticristo 281 . Allo stesso modo mette in conto che i chierici, che hanno abbandonato la retta via, avverseranno lo «spiritualis intellectus» e i suoi esponenti, come una volta i farisei hanno avversato Cristo 282 . Dunque in Gioacchino è senza dubbio presente l'idea di decadenza; solo che tale decadenza non comincia già nel IV secolo, come ritengono soprattutto gli eretici, bensì solo nell'VIII secolo. Pertanto si può senz'altro presupporre che la consapevolezza di questo fatale sviluppo della chiesa negli ultimi secoli sia stato il punto di partenza e la causa dell'attesa da parte di Gioacchino di un tempo migliore. Gioacchino dunque, nel cuore di quei grandi conflitti del XII secolo, è per una demondanizzazione della chiesa. Il tentativo di soluzione da lui proposto supera quelli di altri esponenti fedeli alla chiesa perché egli non teme di risolvere il problema annunciando una futura ecclesia spiritualis, la quale si distingue fondamentalmente dalla chiesa esistente, nonostante tutti i suoi sforzi di compromesso. Pertanto Gioacchino appartiene a quei movimenti spirituali e apostolici del XII secolo, in parte filoecclesiastici in parte antiecclesiastici, la cui base sociale va ricercata soprattutto nello sviluppo delle città e della borghesia. Senza queste profonde trasformazioni della struttura sociale una figura come Gioacchino sarebbe impensabile, e le sue idee sono senza dubbio coerenti con i desideri e le aspirazioni di quelle nuove forze sociali. Tuttavia sarebbe errato considerare direttamente Gioacchino come portavoce della borghesia in ascesa o addirittura degli strati inferiori della popolazione delle città o delle campagne. Sebbene le sue idee mostrino una certa affinità con le eresie «borghesi», egli fu in primo luogo un portavoce del monachesimo all'interno della chiesa, la cui lontananza dal mondo potrebbe essere stato un presupposto essenziale perché egli potesse sviluppare una visione del mondo secondo cui da un lato tutte le debolezze e le contraddizioni dell'ordine ecclesiastico
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esistente avrebbero dovuto essere superate in linea di principio con un nuovo status caratterizzato dal monachesimo, ma che dall'altro si basava sulla convinzione che questo sviluppo non avesse bisogno di una lotta aperta, decisiva, di tutti i «giusti» contro la chiesa esistente. Anche se egli riteneva necessaria una tribulatio inflitta da forze contrarie a Dio, in fondo credeva in una transizione continua, secondo un piano divino, all'interno della cristianità, e si sforzò di evitare in ogni circostanza una rottura radicale con la gerarchia ecclesiastica 283 . Un simile idealismo trascendente ogni realtà, che sperava in un superamento totale di tutto il male presente senza ritenere necessario nel contempo un proprio impegno di lotta aperta contro il vecchio, potè crescere molto facilmente proprio sul terreno del monachesimo, soprattutto del monachesimo del XII secolo, che senza dubbio fu assai fortemente toccato dalle idee di riforma generale diffuse in questo secolo. Che le idee di Gioacchino all'inizio abbiano inciso relativamente poco all'esterno è in parte dovuto senza dubbio a questo: nella propria forma originaria per la loro tendenza al compromesso esse non erano adatte ai movimenti apertamente ereticali. Bisogna però pensare soprattutto che esse erano totalmente caratterizzate dall'universo rappresentativo del monachesimo che, ulteriormente potenziato dall'evidente connotazione orientale-eremitica, si allontanava per questo ancora di più dalla vita sociale reale. Pertanto queste idee nella loro forma originaria potevano fare breccia solo in gruppi limitati, che eventualmente si potevano sentire come rappresentanti dell'ordo futuro dei viri spirituales. Infatti questi monaci viri spirituales sono gli unici cui Gioacchino assegna un ruolo almeno limitatamente attivo e nel contempo positivo per la formazione del futuro. Gli altri fattori attivi che contribuiscono a superare il vecchio sono forze pagano-anticristiane, quindi valutate negativamente; dunque questo complesso di idee non potè esercitare un influsso stimolante all'interno della cristianità. Perciò quando Smirin rileva che «il ruolo degli uomini nel sistema di Gioacchino è un ruolo passivo» 284, interpreta bene alcuni aspetti della teoria gioachimita. soprattutto se per «attivo» si intende un impegno aperto di lotta. Invece, se si considera l'azione che ci si deve attendere da parte dei viri spirituales, questo giudizio negativo non è del tutto calzante. È certo che il ruolo dell'uomo nella visione ecclesiasticomedievale, la quale presuppone sempre un piano salvifico divino predeterminato, solo fino a un certo punto può essere passivo. D'altra parte però si può ben immaginare che sulla base di questo piano salvifico predeterminato agli uomini venga assegnato in un certo momento lo svolgimento di determinati compiti. Allora l'annuncio di questi eventi
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che rientrano nel piano divino in certe circostanze può sfociare senz'altro in un appello all'azione attiva o addirittura rivoluzionaria. In verità la visione del futuro di Gioacchino non potè avere effetti di tale portata; bisogna però tenere presente che nella visione di Gioacchino i viri spirituales devono svolgere un ruolo attivo mediante la loro predicazione e le loro esortazioni, cioè devono contribuire come uomini alla realizzazione delle intenzioni divine. In ordine a un simile comportamento moderatamente attivo le idee di Gioacchino potevano senz'altro esercitare influssi. Il punto debole nella visione di Gioacchino consiste dunque non tanto nel fatto che gli uomini svolgano solo un ruolo passivo — ciò è vero solo a metà, come dimostra il ruolo dei viri spirituales —, quanto piuttosto nel fatto che gli impulsi mobilitanti potevano investire solo un ordo spiritualis ristretto, legato a una vita monastica; alla massa della popolazione l'apoteosi gioachimita degli ideali monastici-eremitici non poteva dire quasi nulla. Perciò non è un caso che le sue idee si radicassero profondamente anzitutto in un nuovo ordine monastico, nell'ordine francescano, e anche là solo dopo che l'ideale della vita heremitica fu adattato all'ideale della vita apostolica, così come si era diffuso in Occidente nel XII secolo. Tuttavia Gioacchino ha un significato che trascende di gran lunga la sfera del monachesimo. Egli è stato il primo uomo medievale ad annunciare in modo netto l'inizio imminente di un'epoca nuova, fondamentalmente diversa e perfetta. Certo in lui quest'idea si ispirava a un idealismo monastico lontano dal mondo, e perciò nella sua forma originaria è stata in un primo momento del tutto inefficace. Tuttavia la sua attesa di un inizio imminente di una nuova epoca contraddiceva in linea di principio l'interesse vitale della chiesa cattolica 285 . Ma soprattutto la sua idea fondamentale di un terzo status nuovo poteva, nel caso, essere ripresa e trasformata da altri strati sociali, e così costituire il seme per idee veramente rivoluzionarie in ordine al superamento dell'intero ordine sociale esistente.
1 Sulla biografia di Gioacchino, per la quale ormai vi sono dati fondamentali in qualche modo più sicuri, grazie a una Vita contemporanea che li ha resi accessibili, cfr. soprattutto H . Grundmann, Zur Biographie Joachims voti Fiore und Rainers von Ponza, D A , 16 ( I 9 6 0 ) , 437 ss. 2 Anche Ruperto di Deutz sviluppa una suddivisione del corso storico in corrispondenza della Trinità; ma il suo sistema non ha alcun punto di contatto con il millenarismo, perché
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in lui il terzo periodo, quello dello Spirito santo, comincia già con Cristo; cfr. PL 167, coli. 1 9 8 S . ; cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 91 [tr. it. cit., 94]. 3 Cfr. Abbatis Joachim Liber concordie novi ac veteris Testamenti, Venezia 1519 (d'ora in avanti: Conc.), f. 112rb (V, 84); questo passo si trova anche in H. DENIFLE, Das Evangelium aetemum und die Commission zu Anagni, ALKG, 1 (1885), 132; cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 138 [tr. it. cit., 140 s.], cosi come la caratterizzazione generale in E. B E N Z , Ecclesia Spiritualis, Stuttgart 1934, 9. Sul concetto di «libertas», utilizzato molte volte da Gioacchino, cfr. H. GRUNDMANN, Freiheit als religiöses, politisches und persönliches Postulat im Mittelalter, HZ, 183 (1957), 45 s., il quale fa riferimento al carattere religioso-impolitico del concetto di libertà di Gioacchino. Al contrario, S.M. Stam, che dà un'interpretazione oltremodo radicale di Gioacchino, sostiene la tesi secondo cui la dottrina di Gioacchino circa il superamento della schiavitù mediante lo status di libertà riflette in maniera chiara le idee principali del popolo, il desiderio di libertà del ceto contadino in stato di dipendenza feudale. Cfr. S.M. STAM, Ultenie Joachima Kalabriiskogo, «Voprosy istorii religii i ateizma», 7 (1959), 345. In proposito egli si richiama tra l'altro a Conc. f. 70ra, secondo cui l'uomo nel terzo status sarà «liber ab omni opere servili«. Tuttavia va notato in contrario che i concetti servitus-libertas in Gioacchino hanno in modo del tutto inequivocabile un significato primariamente religioso, e hanno come contenuto soprattutto il superamento, attraverso la visione contemplativa immediata, della faticosa ricerca della verità divina da parte dell'uomo. È incontestabile che questo cambiamento ha effetti anche sulla forma esteriore dell'ordine sociale (su questo argomento mi diffonderò più avanti), ma questioni come quella del rapporto tra i signori feudali e i contadini sono assolutamente fuori del campo d'interesse di Gioacchino. Cfr. supra, 35 ss. Cfr. Expositio magni Prophete Abbatis Joacbimi in Apocalipsim, Venezia 1527 (d'ora in avanti: Expos.), f. 9v: «Iste erit tertius status pertinens ad spiritum sanctum, qui videlicet status ita septima etas dicenda est, quomodo precedens status sexta». Gioacchino dà in Conc. f. 72v e s. una suddivisione complessiva delle sette aetates. 6 Cfr. Conc. II, 1, c. 9, f. lOrb. 7 Ivi II, 1, c. 16, ff. 12rb e s. 8 Per la data della morte di Gioacchino cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen über Joachim von Fiore, Marburg 1950, 35. 9 Cfr. Conc. V, 118, f. 134rb: «[...] quamvis due ultime [generationes] incerti sint temporis et momenti». 10 Conc. IV, 31, f. 56rb. 11 Dalla ricerca è stato già sottolineato più volte che Gioacchino — contrariamente ai suoi successivi discepoli — non si riferisce direttamente al 1260 come momento della svolta. Cfr. R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 9 5 ; H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 6 4 [tr. it. cit., 7 0 ] . Su tale questione dà un giudizio errato F . F O B E R T I , Gioacchino da Fiore e il Gioacbinismo antico e moderno, Padova s.d., 2 4 1 ; allo stesso modo E. BENZ, Creator Spiritus. Die Geistlehre des Joachim von Fiore, «Eranos-Jahrbuch», 2 5 ( 1 9 5 6 ) , 3 1 6 s. Fa soltanto eccezione, tra gli scritti gioachimiti, la tavola 3/4 del Liber Figurarum, nel cui testo introduttorio si dice: «Secundum igitur Novum Testamentum sub eodem numero conclusum fore iam patet M scilicet et ducentorum et LX annorum...» (cfr. l'edizione del Liber Figurarum in L. TONDELLI, il Libro delle Figure dell'Abate Gioacchino da Fiore, II, Torino 1 9 5 3 ) . Questa differenza tra le affermazioni di Gioacchino nelle sue opere e quelle del Liber Figurarum depone per il fatto che il Liber Figurarum non è stato redatto da Gioacchino medesimo. Ma questo non cambia nulla del fatto che tale opera riporta idee originarie di Gioacchino, e non va annoverata tra le opere propriamente pseudogioachimite. Cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 2 2 s. 12 Conc. II, 2, c.7, f. 22vb: «Quatenus in eis [la quarantunesima e quarantaduesima generazione] principium sit et finis»; Expos, f. 9v: «Inter initium enim tertii status et finem secundi duarum tempora generationum quasi communiter peraguntur». « Conc. II, 1, c.5, f. 8va/b. 14 Expos, f. 57v: «Circa exordium tertii status, quod prope est, imo presens». 15 Conc. V, 20, f. 70rb: «Nos qui inter secundum et tertium statum constituti sumus...». Poco prima si dice: «Sed quia in primo illius tempore status [si intende il terzo status] constituti sumus». Gioacchino dunque si sente già collocato nel primo tempo del terzo status. 4
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Cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 4 7 s. Cfr. F. Russo, L'eredità di Gioacchino da Fiore, «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 21 (1951), 134; ID., Gioacchino da Fiore e le fondazioni florensi in Calabria, Napoli 1958, 63 ss. 18 F. Russo, L'eredità..., cit., 132, ritiene che i florensi «non hanno mai avanzato la pretesa di rappresentare l'ordine monastico vaticinato da Gioacchino». Ora, anche se questo può essere esatto in generale per i monaci florensi, non bisogna però dimenticare che Gioacchino stesso, consapevolmente, qui ha lasciato aperte alcune possibilità; cfr., per esempio, Expos, f. 83v, in cui prende in considerazione la possibilità che il nuovo ordine del terzo status già «est in aliquibus initiatus, quod tarnen mihi adhuc non constat, quia initia semper obscura et contemptilia sunt». Similmente Conc. V, 64, f. 95ra: «Sed utrum natus sit puer, qui designatus sit in Salomone [che simboleggia il nuovo ordine], aut in proximo nasciturus, Deus melius novit». Gioacchino quindi mette in conto che il nuovo ordine del terzo status è già sul punto di sorgere, ed è assolutamente verosimile che a questo proposito egli abbia pensato alla fondazione del proprio ordine. 19 Similmente H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 112. B. Cappelli ha tentato addirittura di spiegare con tali intenzioni di Gioacchino il nome del monastero di Fiore. Egli ritiene che il nome «Fiore» non derivi dalla toponomastica di quella regione, bensì sarebbe stato coniato da Gioacchino, il quale con ciò voleva indicare che col suo nuovo monastero cominciava «a fiorire il terzo stato». Cfr. B. CAPPELLI, In Titulo dell'Ordine del «Fiore», «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 22 (1953), 53 s. Questa affermazione però viene confutata dal fatto che Grundmann ha dimostrato che la Vita di Gioacchino tramandataci è una fonte contemporanea; infatti in questa Vita si parla di un torrente di montagna chiamato Flos, presso il quale venne eretto il monastero; cfr. l'edizione della Vita in H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 535; cfr. anche 479. 20 Di conseguenza va cambiato anche il giudizio di E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 25: «In Gioacchino lo schema storico secondo cui egli si subordina docilmente al secondo tempo e alla sua chiesa, impedisce l'esplosione di idee rivoluzionarie; un diritto di trarre le conseguenze rivoluzionarie lo ebbero solo gli spirituali della generazione successiva». Cfr. anche ID., Die Kategorien der religiösen Geschichtsdeutung Joachims, ZfKG, 50 (1931), 63. In proposito va notato che anche gli spirituali successivi non hanno tratto conseguenze rivoluzionarie, e d'altra parte nello schema di Gioacchino si annidava la possibilità che anche egli traesse già alcune conseguenze, nonostante queste fossero ancora più moderate di quelle degli spirituali. 21 E . ROSENSTOCK-HUESSY, Die europäischen Revolutionen und der Charakter der Nationen, Stuttgart-Köln 1951, 21. 22 Sull'essenza dell'intelligentia spiritualis cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 149ss. [tr. it. cit., 151 ss.]. 23 Cfr. il paragone molto significativo di Gioacchino in Expos, f. 110r: «Ut enim in calciamento pes, ita in littera spiritualis intelligentia latet». Per dare un esempio di come talvolta le idee dei simbolisti tedeschi collimino con quelle di Gioacchino, sia consentito rimandare in questa sede alle considerazioni di Gerhoh di Reichersberg nel De investigatione Antichristi III, c . l l (Gerhohi Reichersbergensis Praepositi opera, ed. Scheibeiberger, I, 374 s.), in cui tra l'altro si dice: «Nempe scripturas sanctas exponere spiritualesque ex ea intellectus exuere proprium Spiritus sancti opus est, dicente [...] "Cum venerit Spiritus veritatis docebit vos omnem veritatem"». Le parole del vangelo di Giovanni citate alla fine sono una delle citazioni ricorrenti di Gioacchino. 24 Se prescindiamo dalla mistica del secolo XIII/XIV, i pensatori medievali spostano nell'aldilà l'attuazione di questo desiderio, e ciò avviene perfino in Scoto Eriugena, il quale peraltro è assolutamente poco convenzionale, e talvolta nelle sue espressioni ricorda Gioacchino; egli usa il concetto di «spiritualis intelligentia» per indicare ugualmente l'illuminazione perfetta dell'aldilà; cfr. PL 122, col. 267. Tuttavia Eriugena sottolinea che già adesso, nella chiesa del Nuovo Testamento, questa visione è possibile almeno parzialmente «in primitiis contemplationis». « Conc. V, 73, f. lOlrb. 26 Conc. IV, 3, f. 45rb. 27 Conc. V, 117, f. 133ra; cfr. anche Expos, f. 123r: «Quia tempus exponendarum scripturarum consumatum erit et cessabit huiuscemodi labor in ecclesia Christi». 16 17
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Expos, f. 86r. Expos, f. 45r. Qui Gioacchino rimanda inoltre alle parole di ICor 13, 10 s., citate spesso anche in altre occasioni (cfr. per esempio il Tractatus super quatuor Evangelia, ed. E. Buonaiuti, Roma 1930, 7, 71, 73, 192, 292). Un altro passo paolino, che Gioacchino cita volentieri per giustificare le sue opinioni, è 2Cor 3, 6: «Littera occidit, spiritus autem vivificat»; cfr. per esempio Coric, f. 103va; Tractatus, 223, 285; Psalterium decerti cbordarum Abbatis Joachim, Venezia 1527, f. 260r. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 81 fa riferimento al forte influsso su Gioacchino di motivi paolini. Cfr. anche Expos, f. 95r: «[...] spiritualis intellectus [...] apparuit in epistolis Pauli». 30 Cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 21 [tr. it. cit., 25]; cfr. anche 117 s. [tr. it. cit., 118 s.]: «La fede nel futuro di Gioacchino non è frutto di una negazione delle condizioni esistenti». 31 Tractatus, 71 s. 32 Cfr. E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore. I tempi - la vita - il messaggio, Roma 1931, 219; M.W. BLOOMFIELD, Joachim of Flora. A Criticai Survey of His Canon, Teacbings, Sources, Biography and Jnfluence, «Traditio», 13 (1957), 274; A. CROCCO, La formazione dottrinale di Gioacchino da Fiore e le fonti della sua teologia trinitaria, «Sophia», 23 (1955), 195. 35 Expos, f. 95v (questo passo si trova anche in H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 128). 34 Expos, f. I47v; Tractatus, 86 (qui identificato con «evangelium regni»); Psalterium, f. 260r. Cfr. H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 50 ss. 35 Psalterium, f. 260r. 28 29
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H. DENIFLE, Das Evangelium...,
cit., 62.
Cfr. F. Russo, Il libro delle Figure attribuito a Gioacchino da Fiore, «Miscellanea Francescana», 41 (1941), 335. 38 A. CROCCO, L'Età dello Spirito Santo in Gioacchino da Fiore, «Humanitas», 9 (1954), 741. 39 F. FOBERTI, Gioacchino da Fiore..., cit., 195. 40 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 60 [tr. it. cit., 67]. Dello stesso cfr. anche Neue Forschungen..., cit., 64 s. circa le due direzioni della ricerca moderna su Gioacchino; di esse, una accentua l'ortodossia di Gioacchino, mentre l'altra (Dempf, Benz, Grundmann, Buonaiuti) mette in primo piano le deviazioni dalla dottrina dominante. 41 M.M. SMIRIN, Die Volksreformation des Thomas Müntzer und der Große Bauernkrieg, Berlin 1956 2, 159. 42 Tractatus, 87; cfr. in proposito H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 78. 43 Tractatus, 190. 44 Conc. V, 73, f. lOlrb. 45 Expos, f. 137v. 46 Expos, f. 64v: «[...] spiritus sanctus, qui omnibus fidelibus loqueretur, nec alia tarnen quam ea que locutus est Christus, etsi alio et dissimili modo». 47 Perciò sarebbe meglio non parlare, come fa Reuter, di una mescolanza di «elementi illuministici»; cfr. H. REUTER, Geschichte der religiösen Aufklärung im Mittelalter, II, Berlin 1877, 194 s. Ancora più problematica è la formulazione di M.M. SMIRN, Die Volksreformation..., cit., 159, il quale si ricollega a Reuter, e ritiene di scorgere in Gioacchino «le prime allusioni al ruolo dell'intelletto». Sarebbe bene non parlare neppure di «elementi razionalistici», cfr. E. WERNERM. ERBSTÖBER, Sozial-religiöse Bewegungen im Mittelalter, «Wiss. Zeitschrift der Karl Marx Universität Leipzig», 7 (1957/58), gesellsch. u. sprachwiss. Reihe, 270. AI contrario Gioacchino nega esattamente la possibilità di ottenere la piena conoscenza tramite uno studio della Scrittura condotto con i mezzi dell'intelletto umano, e pone ogni speranza in una illuminazione misticocontemplativa. 48 Cfr. Conc. III, 1, c.9, f. 29rb: «Etsi multa scripta sunt a patribus in expositione Novi Testamenti, perfecta tarnen eius apertio in tertio statu facienda servatur». 49 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 60 [tr. it. cit., 67]. Anche la formulazione di Grundmann, secondo la quale dopo la quarantaduesima generazione «verrà la fine del tempo cristiano» (ivi, 65), è fuorviarne; infatti la fine dello status rappresentato da Cristo indica solo un cambiamento all'interno della chiesa cristiana, non la sua fine. 50 Cfr. Expos, f. 45r: «Quia evangelica veritas tunc in modum solis contemplantes illuminat». 51 Conc. IV, 37, f. 58rb: «Oportet ex toto evacuari figuras» (anche H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 134); Conc. V, 74, f. 103ra (H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 135): «Cessabit observatio [omnis] figure». 37
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52 Tractatus, 86: «[...] quantum ad ipsa sacramenta transitorium est et temporale, quod autem per ea significatur, eternum». Nell'edizione Buonaiuti del Tractatus al posto di «significatur» sta «sacrificatur». Però la lezione corretta dovrebbe essere «significatur», come risulta da
A L K G I, 5 3 .
53 Conc. V, 74, f. 103ra/b: «[...] nam neque usus panis et carnis neque potus vini et aque neque unctio olei eterna est, est autem eternum id quod designatur in ipsis». 54 A torto L. TONDELLI, Il Libro delle Figure..., I, cit., 161 sostiene l'opinione contraria. Analogo giudizio dà anche F. Russo, Il Libro delle Figure..., cit., 336; ID., Gioacchino da Fiore e le fondazioni..., cit., 36. Russo qui si richiama allo scritto di Gioacchino De articulis fidei, che effettivamente rimane sul terreno della dottrina ecclesiastica. Ma egli dimentica che Gioacchino in questo scritto non dice nulla circa lo sviluppo futuro, e prende le mosse esclusivamente dalle condizioni attuali. Una serie di altri studiosi si è espressa per una cessazione dei sacramenti nel terzo status; così H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 114 [tr. it. cit., 116]; E. BENZ, Creator Spiritus..., cit., 320. 55 Psalterium, pubblicato in CH. U . HAHN, Gescbichte der Ketzer im Mittelalter, III, Stuttgart 1850, 337. Cfr. anche Expos. f. 85v, secondo cui nel terzo status agli uomini resta soltanto il compito «ut psallamus et iubilemus». 56 Psalterium, f. 255r. 57 Expos. f. 83r. Di conseguenza Gioacchino crede anche che Evangelium aeternum verrà predicato da «simplices et idiotae», cfr. Tractatus..., 284. 58 Già nel De vita sancti Benedicti, uno dei primi scritti di Gioacchino, edito in C. BARAUT, Un Tratado inèdito de Joaquin de Fiore, «Analecta sacra Tarraconensia», 24 (1951), 58, si dice: «In tertio statu, ubi iam non erit labor et gemitus, sed requies et otium». Sul significato centrale, nell'universo concettuale di Agostino, dell'ideale della quies, cui qui chiaramente Gioacchino si ricollega, cfr. A. NYGREN, Eros und Agape, Berlin 1955, 382, 387 ss., 393, 401 [tr. it., Eros e Agape, Bologna 1971, 493 s., 498-500, 506, 519 s.]. 59 Così Gioacchino parla di «doctores» nel terzo status, cfr. Expos. f. 86r, e allo stesso modo di «prelati», cfr. Conc. V, 18, f. 70ra. 60 Cfr. Expos. f. 64v: «[...] Spiritus sanctus, qui omnibus fidelibus loqueretur»; Expos. f. 86r: «[...] quia iam nuda erunt et aperta mysteria nec labor erit doctoribus illis in docendo nec perfectis discipulis in retinendo, quia erunt homines docibiles Dei». Qui anche se si parla di doctores che insegnano, nel contempo però si sottolinea l'accresciuta capacità di recezione di tutti gli uomini. 61 Expos. f. 95r: «Instat tempus et hora, in quo omnes qui sitiunt veritatem palpent illam [...]»; ivi, f. 94r: «Tunc scient universi [...]»; ivi, f. 124r, in cui si dice che nella settima età, al contrario della precedente, la claritas verrà concessa non solo a pochi, ma a molti (apparebit multis). 62 Cfr. E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, II, Berlin 1955, 71. 63 Cfr. M . E . REEVES, The Liber Figurarum ofjoachim of Fiore, M R S , 2 (1950), 77 ss.; cfr. M . E . REEVES - B . HIRSCH-REICH, The Figurae offoachim of Fiore. Genuine and Spurious Collections, M R S , 3 (1954), 190; M . E . REEVES, TheArbores ofjoachim of Fiore, in Studies in Italian Mediaeval History pres. to Miss E.M. Jamison, edd. P. Grierson - J.W. Perkins, 1956, 132. 64 M.E. REEVES, The Liber Figurarum..., cit., 76. 65 Ivi, 77. 66 L. TONDELLI, Il Libro delle Figure..., I, cit., 158 ss. 67 F. Russo, Il Libro delle Figure..., cit., 336 s.; ID., Gioacchino da Fiore e le fondazioni..., cit., 33. 68 H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 55 s. 69 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 114 [tr. it. cit., 116]; ID., Neue Forschungen..., cit., 103 s. 70 E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 46. 71 J. CH. HUCK, foachim von Floris und die joachitische Literatur, Freiburg 1938, 14, 236. 72 F. FOBERTI, Gioacchino da Fiore..., cit., 248. 73 Cfr. per esempio Conc. IV, 33, f. 57ra. 74 Cfr. Expos. ff. 77r, 142v. 75 H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 5 5 s. 76 F. Russo, Il Libro delle Figure..., cit., 337. 77 Conc. V, 65, f. 95vb.
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L. TONDELLI - M.E. REEVES - B. HIRSCH-REICH, II Libro delle Figure, II, cit., tavola 19. Ancora più problematico è il modo con cui F. Russo valorizza un'altra citazione di Gioacchino per dare vigore alla sua concezione circa la sopravvivenza del clero. Egli rimanda (Il Libro delle Figure..., cit., 336, e Gioacchino da Fiore e le fondazioni..., cit., 33) a Conc. II, 1, c.28, f. 18ra: «Ipsi duo [cioè lordo clericorum e ì'ordo monachorum] unus sunt clerus [...] mansurus usque ad consumationem seculi». In questa forma abbreviata effettivamente la citazione depone per la sopravvivenza del clero; ma per esteso la citazione suona: «Ipsi duo sunt unus clerus, qui tamen uno modo consumationem accipiet in tribulatione antichristi, alio modo mansurus est usque ad consumationem seculi». In questa forma integrale la citazione è chiaramente una prova per la concezione opposta (e come tale è valorizzata da H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 103). Peraltro anche qui l'espressione «ipsi duo sunt unus clerus» mostra lo sforzo di Gioacchino di mettere in evidenza l'elemento comune che lega clero e monachesimo; tuttavia esprime assai chiaramente che quest'unico «clero» nella prima forma — cioè nella forma di clero in senso ristretto — troverà la propria fine al tempo dell'Anticristo, alla fine del secondo status, e continuerà solo nella seconda forma, quella dell'orcio monachorum. In modo egualmente sospetto, cioè abbreviato, il passo è del resto utilizzato da Foberti come «prova» per la permanenza del papato nel terzo status, cfr. F. FOBERTI, Il Libro delle Figure..., cit., 121. 80 Expos. ff. 22r/v; 47v; cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 103 s. 81 Expos. f. 77r. 82 Expos. f. 22r. 83 Conc. V, 34, f. 57ra: «Et ordo clericorum [...] fructificabit a Christo et consumabitur, ut putamus, circa finem generationis 42e ab incarnatione Domini». Cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 114 [tr. it. cit., 116]. Per il chiarimento del significato del concetto di «consumari» ovvero «consumatio» E. BENZ, Creator Spiritus..., cit., 345, ha fatto riferimento in maniera calzante al concetto, dal contenuto analogo, di Aufhebung proprio della filosofia della storia di Hegel. 84 Cfr. C. BARAUT, Un Tratado..., 8 3 : «[...] clericorum ordinem, a beato Petro apostolorum principe inchoatum, [...] cuius passio erit sub antichristo; [...] spirituales monachos, quorum consummatio erit in fine». Cfr. ivi, 31. 85 Cfr. L . TONDELLI, Il Libro delle Figure..., I, cit., 159s. 86 Una riproduzione di questa tavola, col testo corrispondente, si trova nell'edizione Tondelli del Liber Figurarum, e in H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 1 1 6 s s . 87 H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 121. 88 Ivi, 121: «Ea scilicet ratione, ut si hii superhabundaverint et aliqui aliorum minus habebunt, ad arbitrium patris spiritualis accipiatur ab eis, qui plus habent, et dentur his qui minus, ut nullus sit indigens inter eos». 89 Ivi, 120. In questo contesto è da osservare il fatto che la figura del cane veniva spesso usata, già prima della comparsa dei domenicani, per simboleggiare il predicatore; cfr. R.E. KASKE, Dantes DXV and Veltro, «Traditio», 17 (1961), 231 s. 90 H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 119, 121. 91 Ivi, 111. 92 Conc. V, 22 e 23, ff. 71va ss.; cfr. anche H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 88 ss. 93 Cfr. la tabella in H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 94. 94 Expos. f. 22r. 95 Conc. V, 43, f. 80ra: «Duos novissimos ordines [...], quorum unus erit laicorum, alius clericorum, qui et ambo regulariter vivent, non quidem secundum formam monache perfectionis [...], immo secundum regulam illam generalem actorum apostolorum, de qua et dicitur, multitudinis credentium erat cor unum et anima una. Que videlicet credentium regula in tantum conveniebat universitati eorum ut nec etiam coniugatos excluderet». Questo riferimento alla chiesa primitiva apostolica corrisponde perfettamente alle espressioni di Gioacchino in Conc. V, 22, in cui il futuro ordine, articolato in sette mansiones, viene concepito allo stesso modo come rinnovamento della «forma ecclesie primitive». Ciò conferma l'assunto che ['ordo clericorum e ì'ordo laicorum menzionati in Conc. V, 43, devono valere come parti di quell'ordine complessivo articolato in sette mansiones. 96 Conc. V, 38, f. 76rb; cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 107. 97 Conc. V, 38, f. 76va. 98 Expos. f. 175v. 78
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» Ivi, f. 17ór. 100 Ivi, f. 148v: «Duo vero ordines [...], quorum unus specialius congruit monachis, aiterum clericis convenire probatur». Evidentemente l'ordine spirituale qui menzionato, che è congruente più con i chierici, non può essere equiparato al genuino ordine dei chierici del sesto oratorio ovvero della quinta mansio. Tuttavia qui permangono certe oscurità; infatti in Expos. f. I46v, 148v l'ordine simboleggiato da Mosè viene indicato direttamente come «ordo clericorum». 101 Expos. f. 17v. 102 Expos. f. 86v. Expos. f. 92r. 104 Expos. f. 92v. 105 Expos. f. 93r: «Ad eum ordinem qui designatur in Joseph et angelo Phyladelphie, referenda est illa pars doctrine, que superior est et pertinet ad divina; ad eum vero qui designatur in Benjamin et angelo Laoditie illa que inferior est et pertinet ad humana, quarum prima claruit in Johanne, sequens in apostolo Paulo. Quia vero pars inferior, qua instruuntur mores, temporalis est, non eterna, mox ubi consumatum fuerit tempus inferioris doctrine pertinentis ad actionem, necesse est ut ad meliorem partem commutatio fìat, ut statuatur doctrina, que perfecta est, et evacuetur, que ex parte est». 106 Expos. f. 93r. 107 Expos. f. 83v. 108 Mentre Gioacchino, nel Commento all'Apocalisse, ipotizza uno sviluppo ulteriore solo per l'ordine che viene rappresentato dalla comunità di Laodicea, e descrive l'ordine simboleggiato dalla comunità di Filadelfia come perfetto e non bisognoso di ulteriore sviluppo, tiell'Enchiridion (finora inedito), che è una sorta di introduzione, composta anteriormente, al Commento all'Apocalisse (cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 27 s.), dice che entrambi gli ordini saranno superati da ordini successivi, ancora più perfetti: «Duo isti ordines sub uno sexto tempore coartantur: Qui cum sint spirituales pre ceteris, qui precesserunt, respectu tamen quorundam qui superventuri sunt, minus et ipsi spirituales, minus contemplativi reperiuntur» (questo passo in H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 109 s., nota; L. TONDELLI, Il Libro delle Figure..., cit., 164). Qui i due ordini vengono presentati come legati alla «scientia litterarum», mentre in Expos. f. 92r all'ordine rappresentato dalla comunità di Filadelfia viene attribuita senz'altro la capacità dell'intellectus spiritualis, che supera la scientia litterarum. Questo esempio mostra come molte volte siano contraddittorie e imprecise le argomentazioni di Gioacchino, e come perciò sia difficile giungere a giudizi univoci. Sia consentito fare riferimento al fatto che anche l'Introductorius, cioè l'introduzione definitiva al commento ali 'Apocalisse, contiene una formulazione che sotto il profilo del contenuto assomiglia al passo dell 'Enchiridion appena citato; cfr. Expos. f. 17v: «Duo vero qui sequuntur sextus et septimus [ordo], licet et ipsi sicut et precedentes ad secundum statum pertineant, obscuratur tamen illorum claritas a supervenientibus novis». Anche ciò può significare solo che il sesto e settimo ordine saranno superati da un ordine ancora più perfetto. Si potrebbe fare riferimento ancora al fatto che i figli di Rachele, Beniamino e Giuseppe, che secondo Expos. f. 93r simboleggiano gli stessi ordini al pari degli angeli delle comunità di Laodicea e Filadelfia, vengono concepiti come tipi dell'ordo clericorum e dell'ordo laicorum, i quali chiaramente non sono identici agli ultimi ordini spirituali, cfr. Conc. V, 43, f. 80ra. 109 Conc. V, 38, ff. 76rb s.: «Nimirum quia etsi vitam celibem et contemplativam illieo [cioè a Segor] tenere nequeunt, saltem in coniugali et actuali vita, que humilior est illa, salvari queunt, et habere illam in refugium usque ad articulum persecutionis extreme. In quo videlicet articulo temporis uxorem ducere et procreare filios non licebit impune, quia scriptum est: Ve pregnantibus et nutrientibus in illis diebus». 110 Cfr. C. BARAUT, Un Tratado..., cit., 38; cfr. anche Expos. f. 20r: «Oportet consumari vitam illam que designata est [...] in beata Scholastica non valente pervenire ad summitatem montis, manere autem illam quam beatus significat Benedictus». Dal seguito di questo passo emerge che la forma di vita di Scolastica cesserà non, per esempio, solo alla fine del terzo status, ma alla fine del secondo. Ciò dimostra che anche l'«articulus persecutionis extreme» (cfr. la nota precedente) cade alla fine del secondo status, e non designa la persecuzione alla fine del terzo status. '" Conc. V, 49, f. 84va.
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Psalterium, f. 254r. Cfr. A. DEMPF, Sacrum Imperium, cit., 271; R. KESTENBERG-GLADSTEIN, The «Third Reich». A Fifteenth-Century Polemic against Joachism and Its Background, « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 18 (1955), 245 s. 114 M.W. BLOOMFIELD, Joachìm of Flora, cit., 266. 115 In Expos. f. 83r Gioacchino dice in verità che all'ecclesia spiritualis «nulla unquam dispensatio facta est et fieri licuit aut Iicebit, ut in ea vir uxorem habeat et uxor virum, quod in ecclesia clericorum [...] frequenter tolleratum et dispensatum est et in ecclesia Grecorum quasi lege publica constitutum». Ma proprio il riferimento alla chiesa greca mostra che qui Gioacchino ha in mente solo i rappresentanti della chiesa in senso stretto, cioè per il secondo status i chierici. Si potrebbe dunque inferire che questo precetto nel terzo status ha validità anche per i diretti appartenenti all'ordine spirituale. Per la soluzione di questo problema non ci si può richiamare a Cono. II, 2, c.10, f. 25ra (ove si dice: «[...] in regno Dei post consumationem seculi, quando ñeque nubent neque nubentur»), perché questo passo si riferisce al regno di Dio nell'aldilà dopo il terzo status. 116 A. ROSENBERG, Joachim von Fiore. Das Reich des Heiligen Geistes, Miinchen 1955, 23. 117 Cfr. supra, n. 109. Questo passo è meritevole di attenzione, anche perché considera perfettamente sullo stesso piano l'ardo clericorum e 1 'ordo coniugatorum, e quindi a mio avviso esclude la possibilità di negare solo la sopravvivenza del clero per il terzo status, e invece di lasciar sussistere ulteriormente 1 'ordo dei coniugati. 118 Cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 102 ss. 119 Per la durata del terzo status cfr. in questo capitolo, 95 ss. 120 E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 46; anche nel suo più recente articolo Creator Spiritus..., cit., 339ss. Benz rimane sostanzialmente fedele a questa concezione. 121 J.CH. HUCK, Joachim von Floris..., cit., 239, 242. 122 F . FOBERTI, Gioacchino da Fiore..., cit., 143. 123 L. TONDELLI, Il Libro delle Figure..., I, cit., 151, 1 6 4 . 124 A. CROCCO, L'Età dello Spirito Santo..., cit., 7 3 8 s. 125 H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 63. 126 Conc. IV, 31, f. 56rb; di quel romanus pontifex, di cui è tipo l'angelo col sigillo del Dio vivente, e il cui ruolo è paragonabile a quello di Zorobabele, Gioacchino parla anche in Expos. f. 120v; cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 116 [tr. it. cit., 118]; F . BAETHGEN, Der Engelpapst, Halle 1933, 86. 127 Cfr. la descrizione nel libro di Esdra, 1-4. 128 L. TONDELLI, Il Libro delle Figure..., II, cit., tavola 10. 129 H . GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 6 2 s. 130 Conc. V, 117, f. 132va; cfr. anche Conc. V, 92, f. 122va, in cui questo papa viene paragonato allo stesso modo a Mardocheo. 131 H . GRUNDMANN, Studien..., cit., 1 1 7 [tr. it. cit., 1 1 8 ] ; F . BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 8 3 s. 132 Conc. V, 57, f. 89ra. 133 Conc. V, 65, f. 95v; questo passo si trova anche in H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 109: «Mulier Sunamitis, que iuncta est ei et non concepit ex eo, nova quedam religio erit, in qua se [questo "se" manca nell'edizione del 1519, ma è tramandato sia in Denifle sia nel manoscritto di Dresda A 121, f. 36r] romani pontífices potiti pace ecclesie continebunt. Quia vero in servando ordine suo antiquo incipiet romanus pontifex frigescere pre senectute, extollentur adhuc aliqui ex hiis, qui videbuntur esse strenui ad certamen [il manoscritto di Dresda, così come il Cod. Paris. 13697 cui si riferisce Denifle, aggiungono qui: "de clero"; si intende dunque quell'ordine simile al clero che non rappresenta ancora l'ultimo gradino], ut stent in regno pro parte suo, sed non obtinebunt, quia non erit adhuc necesse regnare ordinem belli in die pacis, sed magis oportebit religiosos transiré in illum ordinem qui designatur esse in Salomone». Il «se» non tramandato nell'edizione a stampa ha un significato notevole; il semplice «continere» in effetti significherebbe «essere contenuto», e allora questo passo significherebbe che il papato è contenuto anche in seguito nel nuovo ordine, e dunque continuerà ancora a sussistere in qualche forma; così questo passo è chiaramente compreso anche da A. C R O C C O , L'Età dello Spirito Santo..., cit., 739. Ma a me pare sicuro, sulla scorta del manoscritto di Dresda 112 113
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e del testo stabilito da Denifle sulla base di parecchi manoscritti, che debba suonare «se [...] continebunt», cioè i papi «si contengono» (ovvero «esercitano una continenza») nei confronti del nuovo ordine, e non continuano a condurre la loro esistenza in esso. Per il significato di «contenersi» depone assai chiaramente anche il fatto che Gioacchino qui paragona il comportamento del papa nei confronti della «nuova religio» a quello di Davide nei confronti della giovane vergine. Per il significato simbolico di Salomone cfr. inoltre Tractatus, 86 s.; Corte. V, 64, f. 95ra, in cui Salomone indica palesemente l'ordine monastico spirituale venturo; cfr. anche Conc. V, 60, f.91vb: «Quia transibit quod designatum est in David et succedet quod significat Salomon». 134 Cfr. in Conc. f. 95vb le parole: «Quia non erit adhuc necesse regnare ordinem belli in die pacis». 155 Ivi. Cfr. supra, 75 s. 136 Cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 63. 137 Tractatus, 86 s. 138 Conc. V, 62, f. 92vb; questo passo è addotto da H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 116 [tr. it. cit., 118] come prova per la sopravvivenza del papato. »» Conc. V, 64, f. 95ra. 140 Expos, f. 220v; cfr. F . F O B E R T I , Gioacchino da Fiore..., cit., 143. 141 Cfr. soprattutto Expos, f. 207r: «Ego autem puto quod ipse [Christus] per seipsum veniat ad destruendum eum [Antichristum]»; questo passo e uno simile si trovano anche nel Protocollo di Anagni (H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 125); pertanto i redattori del Protocollo inferiscono (cfr. 124) che Gioacchino ipotizzi un doppio ritorno di Cristo, alla fine del secondo status e alla fine del terzo. Cfr. anche Expos, f. 140r, in cui Gioacchino ritiene che Cristo «aut circa principium illius temporis [del terzo status] aut non longe a principio eius venturus est»; così come Tractatus, 291: «Quia prope erit adventus Domini venturi iterum in Spiritu sancto et quod mutandus sit status mundi»; anche qui il ritorno di Cristo viene messo in connessione con la trasformazione dal secondo al terzo status. 142 Conc. V, 108, f. 126ra allude al re di Sicilia Tancredi sollevatosi contro Enrico VI, e invero in modo tale che si evince che Tancredi, il quale morì nel 1194, vive ancora; cfr. anche H . GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 5 3 . 143 Ciò va espressamente sottolineato ancora una volta contro le opinioni di M. Reeves già menzionate supra, 75 e n. 63. 144 Tractatus, 58. 145 Conc. IV, 37, f. 58vb. 146 Conc. IV, 39, f. 59v. 147 Di ciò rendono testimonianza numerose altre espressioni di Gioacchino, come, per esempio, Conc. V, 86, f. 114rb: «[...] significat reformari statum ecclesie in eum gradum et similitudinem, in quo fuit tempore apostolorum»; cfr. Conc. V, 103, f. 123vb; Conc. V, 22, f. 71va; Expos., f. 64v: «Paradisus ergo fuit primitiva ecclesia»; Expos, f. 78v. Cfr. E. BENZ, Ecclesia Spiritualis..., cit., 27 s. 148 H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 120s. "" Conc. V, 22, f. 7Iva. 150 Conc. V, 43, f. 80ra; anche il progetto di ordine del Liber Figurarum è in definitiva un'illustrazione del desiderio di una restaurazione di quest'unità di tutti i credenti. 151 Cfr. E. BENZ, Ecclesia Spiritualis..., cit., 13. È da osservare che nell'ordine cistercense i conversi erano totalmente esclusi dalla vita civile, mentre Gioacchino include espressamente i coniugati nel progetto di ordine, senza richiedere lo scioglimento del matrimonio. I coniugati perciò nell'ordine di Gioacchino si possono paragonare direttamente solo con i terziari francescani, non con i conversi cistercensi. 152 Si ricordi ancora che in Gioacchino l'ideale apostolico non era legato in alcun modo alla rivendicazione della libera predicazione, così come avveniva per gli eretici del XII secolo; cfr. H. GRUNDMANN, Neue Beiträge..., cit., 147 ss. 153 Cfr. per quanto segue le constatazioni calzanti di H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 104 s. [tr. it. cit., 106 s.]. Quando J. SPOERL, Das Alte..., cit., 310 dice che in Gioacchino «l'idea del-
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l'ecclesia primitiva trova un acceso propugnatore», non rende pienamente ragione dell'intento proprio di Gioacchino. 154 Psalterium f. 247va (anche in CH.U. HAHN, Geschichte..., Ili, cit., 333). 155 Expos. f. 175v. 156 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 105 s. [tr. it. cit., 107]. 157 Peraltro bisogna osservare che Gioacchino usa senz'altro anche la parola «reformare» per indicare la futura trasformazione (così Conc. V, 86, f. Il4rb; Conc. V, 103, f. 123vb); ciò conferma soltanto che la restaurazione dello stato apostolico per Gioacchino è senza dubbio un mezzo essenziale per la promozione del terzo status. Tuttavia a mio avviso le intenzioni ultime di Gioacchino trovano una espressione più adeguata in quei passi in cui egli usa la parola «novus» per indicare ciò che sta per venire, come in Tractatus, 43: «Cum Deus omnipotens vult consumare vetera, ut statuantur nova»; ivi, 284: «Quotienscumque vult Deus facere novum super terram»; Expos. f. 192r: «Quod novum aliquid facturus sit dominus». 158 Per la condanna, che era diffusa nel XII secolo, della donazione costantiniana cfr. i riferimenti in A. BORST, Die Katharer, Stuttgart 1953, 215. 159 Cfr. in proposito E. SEEBERG, Gottfried Arnold, Meerane 1923, 259 ss. 160 Expos. f. l60r/v; 188v; Conc. IV, 17, f. 52rb; Conc. II, 1, c.27, f. 17va (qui la collocazione storica di Costantino viene paragonata a quella di Davide). 161 Tractatus, 202, simile a 233. Le considerazioni di Gioacchino, che E. SEEBERG, Gottfried Arnold, cit., 268 (Conc. IV, 25, f. 54ra) e E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., 152 (Conc. IV, 17, f. 52rb) citano per documentare che secondo Gioacchino la chiesa dopo Silvestro comincerebbe a decadere, non consentono in alcun modo di concludere che Gioacchino intendesse attribuire specificamente all'azione di Costantino ovvero di Silvestro la colpa per la decadenza della chiesa. Gioacchino vuole solo dire che il tempo di Costantino rappresenta il punto culminante della storia della chiesa, cui segue necessariamente la parabola discendente. Non è quindi in alcun modo inerente una condanna di queste due personalità, che anzi all'opposto rappresentano l'apogeo della storia della chiesa. Ciò vale anche per la tavola 17 del Liber Figurarum. 162 Conc. IV, 3, f. 45ra; cfr. anche Conc. V, 8, f. 64vb. 163 Cfr. in proposito le osservazioni di F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 82. 164 Tractatus, 143 (conversione degli ebrei e dei pagani); Conc. V, 88, f. 117ra (riunifìcazione della chiesa greca con quella romana); cfr. anche Conc. V, 51, f. 85va; Expos. f. 137r/v. In base alla ferma aspettativa dell'imminente conversione degli ebrei Gioacchino scrisse il trattato Adversus Judeos, ed. A. Frugoni, Roma 1957, cfr., per esempio, p. 3. 165 Particolarmente significativa nel Liber Figurarum è la descrizione della tavola 14; cfr. le attese simili di Ildegarda di Bingen (PL 197, col. 1022). La fonte di tale annuncio è Is 2, 4. 166 Expos. f. 135r. 167 Expos. f. 140r. 168 Fuori rimangono «scythicae nationes» ovvero il popolo di Gog, presso cui l'Anticristo trova rifugio, cfr. Expos. f. 210v. 169 Cfr. Expos. f. 209r: «[...] si tamen visibiliter apparebit tunc et non magis invisibili potentia spiritus sui patraturus est hanc victoriam, quod ipsi melius committimus qui ait: De hora illa nemo novit nisi solus pater». Cfr. anche supra, nota 141. 170 Cfr. W. BOUSSET, Die Offenbarungjohannis, Gòttingen 1906 6, 73, il quale constata che con Gioacchino il millenarismo riaffiora dopo una lunga pausa. Cfr. anche S.M. STAM, Ultenie..., cit., 344, il quale dichiara, in modo ugualmente calzante, che Gioacchino fu il primo pensatore medievale che, contro Agostino, diede nuova vita al millenarismo. 171 Cfr. supra, 25. 172 C. BARAUT, Un Tratado..., cit., 70; anche a p. 73 Gioacchino riferisce questo passo dell'Apocalisse al terzo status. 173 Expos. ff. 15vs. 174 Expos. f. 21 Ir. Cfr. anche Expos. f. 47r e f. 212v, ove a proposito dei mille anni egli afferma: «Sed hoc est a tempore resurrectionis dominice secundum partem, a ruina vero regis septimi secundum totum usque scilicet ad tempus Gog et Magog». 175 Sia qui consentito indicare i seguenti passi, nei quali Gioacchino si richiama ad Agostino, in particolare al suo De civitate Der. Expos. f. 117v, 139v, l40r, 207v, 21 Ir; Conc. f. 9r,
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lOv, lit, 124v; Tractatus, 36, 255. Per la relazione tra le idee di Gioacchino e quelle di Agostino cfr. anche nota 58. 176 Expos, f. I4lr: «Sed hoc non est nostrum scire, non est huius temporis vestigare»; cfr. Expos, f. 84v; Cone. V, 31, f. 56va: «Erit ergo tempus illud, quod supererit usque in finem, absque humana extimatione annorum». 177 Expos, f. 141r. 178 Expos, f. 213r: «Et quamvis breve extimemus tempus istius septime etatis [...]». 179 Cfr. anche Expos, f. 133r, in cui Gioacchino esprime già per il suo tempo la congettura che l'Anticristo sia nato: «[...] ipsum magnum antichristum [...], quem ego, considerans universas facies scripturarum et introitus et exitus concordiarum, presentem puto esse in mundo». Le indicazioni in Ralph di Coggeshall (Rer. Brit. medii aevi SS 66, 69) e in Ruggero di Hoveden (Gesta Henrici et Ricardi, Rer. Brit. medii aevi SS 49, II, 153, e Chronica, ivi 51, III, 78), secondo le quali Gioacchino avrebbe dichiarato, sia all'abate Adamo di Perseigne sia al re d'Inghilterra Riccardo, che l'Anticristo sarebbe già nato e vivrebbe a Roma, potrebbero dunque sostanzialmente corrispondere senz'altro alla verità; cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 48 s.; ID., Zur Biographie..., cit., 508 s. Che le Gesta Henrici II et Ricardi, in passato falsamente attribuite all'abate Benedetto di Peterborough, derivino da Ruggero di Hoveden, è stato dimostrato da D.M. S T E N T O N , Roger of Hoveden and Benedict, «English Historical Review», 68 (1953), 574 ss. 180 Expos, ff. 210v s.: «Si autem breve erit tempus ipsius sabbati et re vera antichristus iam erit presens, quando superabuntur bestia et pseudo propheta, quid obstat opinari eliminandum esse ipsum ad horam a conspectu electorum, ut quia non poterit vincere in primo et secundo bello sexti temporis conferat se adhuc ad Scythicas natìones [...]. Denique pace ipsa completa egressus iterum diabolus cum exercitu Gog committet adhuc tertium prelium gravius duobus primis [...]. Ista tria prelia tam fortassis erunt vicina, ut ille homo peccati possit omnibus interesse, maxime autem in secundo et tertio». 181 Cone. II, 2, c.5, f. 20vb: «Terminus prime et secunde arboris in sexagenaria aut circa sexagesimam requirendus est, terminus tertie arboris in septuagésima». Cfr. ivi, c.4, f. 20r: «Si enim accipimus ab Asa, ab ipso enim incipiendum est, secundum quod hoc pertinet ad spiritum sanctum, et descendimus ad finem secundi status, LXIX generationes invenimus [...]. Ex quibus verbis aperte liquet, quod ex eo tempore, quo initiata fuit vita monastica in Helya et Helyseo, LXIX generationes opus transiré, antequam mereamus obtinere illam perfectionem iibertatis, quam daturus est nobis in se spiritus sanctus». 182 Cfr. anche Cone. II, 1, c.13, f. llrb: «Et secundum id quod pertinet ad mysterium spiritus sancti, incipe ab Asa et Helyseo propheta». 183 Cone. II, 2, c.4, f. 20rb: «Post quibus consumatis laboribus in septuagésima mox pervenimus ad tempus optate diutius libertatis». 184 Ivi, f. 20va: «Secundum vero id quod pertinet ad spiritum sanctum, incipiendum est a Sadoch, quo tempore arbitramus acta vel completa gesta Machabeorum [...]. Ex eodem autem tempore usque ad finem secundi status generationes 49, id est septies septem. Quibus completis occurret quinquagesima generatio, in qua erit maximus iubileus annus». S.M. STAM, Ultenie..., cit., 339 computa erroneamente queste cinquanta generazioni a partire dalla fine del secondo status, e per questo giunge alla erronea concezione che il terzo status, nel suo pieno svolgimento, è destinato a essere più lungo del secondo [ivi, 342). In realtà il terzo status è più lungo solo se si mettono in conto anche i tempi di preparazione, che si sovrappongono al secondo, e in parte addirittura al primo status. 185 Ciò è sottolineato da M. REEVES, The Liber Figurarum..., cit., 73. 186 Cfr. Liber Figurarum, tavole 1, 2, 4, 10. 187 Cfr. M. REEVES, The Liber Figurarum..., cit., 73. M. Reeves ritiene di origine posteriore anche la tavola 4, la quale pure non assegna al tempo sabbatico un posto degno di nota, come la tavola 10. Significative sono anche le parole di Gioacchino che introducono le tavole 9/10: •Brevitas autem temporis post Antichristi casum divino iuditio penitus relinquenda est». Analogamente anche nella spiegazione delle tavole posteriori 3/4: dopo i 1260 anni «cum sibi placuerit, vicinus tarnen iudex ad judicium venit». Gioacchino dunque sottolinea la brevità del terzo status sia in una tavola anteriore sia in una più tarda. Anche le tavole che fanno emerge-
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re con maggiore chiarezza il terzo status (tavole 18, 19, 21) non accennano affatto a una durata più lunga della settima aetas. 188 Questo disegno proveniente dal Cod. Vat. lat. 4861 fu pubblicato da M. REEVES, The Arbores of Joachim of Fiore, cit., 130 s. 189 Coric. V, 62, f. 92vb; V, 64, f. 95ra. 190 Sulla sovrapposizione del secondo e del terzo status ritorneremo più avanti con maggiori dettagli (pp. 104 s.). 191 Conc. V, 20, f. 70r: «Sed quia in primo illius tempore status constituti sumus, sola adhuc initialia que presto sunt exhibere sufficimus. Si ergo illius intellectus qui pertinet ad spiritum sanctum in septem futuris temporis queritur assignandus, fateor me adhuc assignare non posse». 192 Conc. V, 22, f. 71ra: «Et nescio utrum tempora tertii status eo modo breviora sint temporibus secundi quo breviora fuere tempora secundi temporibus primi, licet in operibus non discordent. Scriptum quippe est: Sermonem breviatum faciet dominus super terram». 193 Conc. II, c.17, f. 12vb: «Etsi numerum dierum vel mensium generationum illarum penitus ignoramus, ut enim longe minores sunt generationes huius temporis generationibus antiquis, ita fortassis generationes tertii status satis minores erunt generationibus nostris». 194 Conc. V, 104, f. 124vb. 195 Expos, f. 210r: «Quod dies novissimus seu finis mundi non sit Semper accipiendus pro ultimo articulo finis mundi, sed magis pro tempore finis, h o c est pro ultima etate mundi».
196 Expos, f. I40r: «[...] debemus ipsum ultimum diem ultimam, hoc est septimam extimare etatem». 197 Cfr. anche la scritta sulla tavola 19 del Liber Figurarum-, «Ceterum de dierum numero et fine status illius [del terzo status] non est huius temporis scire causas. Unum dico: quod totum tempus ipsum dicendum est finis mundi». 198 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 118 [tr. it. cit., 119]. 199 Cfr. in proposito quanto sarà detto più avanti all'inizio del capitolo seguente (p. 130). 200 B E D A , Explanatio Apocalypsis (PL 93, col. 154). 201 HAIMO HALBERSTATENSIS, Expositio in Ep. Il ad Thessal. (PL 117, col. 781). 202 Heliand und Genesis, hg. v. O. Behagel, Halle 1933 4 , 240, versi 147-150. I versi decisivi dicono: «Il popolo si rivolge di nuovo al regno di Dio, la schiera dei forti, per lungo tempo; allora a questa terra arride di nuovo la salvezza». 203 RICCARDO DI S. V I T T O R E , In Apocalypsìm Joannis libri VII ( P L 1 9 6 , coli. 7 7 5 s.): «Factum est in coelo, id est in sancta ecclesia, silentium id est tranquillitas magna ex omni parte parata. Sed quasi media hora dicitur silentium fieri, quia cito veniet judicium». 204 Questo punto di vista, a mio avviso molto importante, venne sottolineato con forza da "W. B O U S S E T , Der Antichrist in der Überlieferung des Judentums, des neuen Testaments und der alten Kirche, Göttingen 1895, 149 s.: l'assunto di una simile connessione tra la dottrina di Gioacchino e le concezioni citate dei commentatori più antichi acquista verosimiglianza grazie alla tesi di M. Reeves, secondo cui al centro dell'interesse di Gioacchino vi fu all'inizio quella duplice articolazione della storia (in sette tempi prima di Cristo e sette tempi dopo Cristo) che poggiava sull'interpretazione dei sette sigilli dell'Apocalisse, e solo con l'andare del tempo egli elaborò l'articolazione in tre status. Cfr. M . REEVES - B . HIRSCH-REICH, The Seven Seals in the Writings of Joachim of Fiore, RTAM, 21 (1954), 214. Questa duplice articolazione della storia emerge in maniera particolarmente chiara nello scritto di Gioacchino De septem sigillis, edito ivi, 239 ss. L'interpretazione qui data (ivi, 245) dell'apertura del settimo sigillo non supera affatto in maniera decisiva le asserzioni che a questo proposito fa, per esempio, Riccardo di S. Vittore. Anche l'assunto di Gioacchino, di una durata molto breve della settima aetas, sta poi completamente sul piano delle visioni più antiche. 205 Cfr. Expos, f. 1 Ir, 137v, in particolare f. llv: «Non solum respectu 6 temporum pertinentium ad secundum statum tempus illud, quod erit tertius status, septimum extimandum est, verum etiam respectu sex etatum mundi». Cfr. anche le tavole 18/19 del Liber Figurarum. Del resto in altri passi Gioacchino suddivide anche la sesta etas da sola (dunque non la sesta e la settima etas insieme) in sette tempi, come in Conc. V, 18, f. 69va; Expos, f. 141v. 206 Cfr. soprattutto le panoramiche in Expos, f. 196v; nello scritto De septem sigillis, RTAM, 21 (1954), 239 ss., e le tavole 4 e 8 del Liber Figurarum.
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207 Quando F. Russo, Il Libro delle Figure..., cit., 332 s. dichiara inautentico il Liber Figurarum, tra l'altro perché in esso (tavole 4 e 8) si parla di una «persecutio Alamannorum», e questa sarebbe in contraddizione con le opinioni di Gioacchino, ebbene ciò testimonia soltanto una grave ignoranza degli scritti di Gioacchino; poiché per di più la quinta persecuzione viene esplicitamente indicata come una persecuzione da parte dei tedeschi anche nei passi seguenti: Corte. Ili, 2, c.5, f. 4lrb; IV, 24, f. 53rb, f. 7v, 196v; Encbiridion, edito in L. T O N D E L L I , Il Libro delle Figure, I, cit., 243. Fa eccezione solo la tavola 14 del Liber Figurarum, in cui come quinto persecutore viene nominato Mesemothus; questi viene nominato anche da Ruggero di Hoveden nelle Gesta Henrici et Ricardi, II, 152. 208 Expos. f. 7v; Conc. f. 41rb. È controverso quale imperatore intenda Gioacchino con questa espressione; E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., 168 (nota) pensa al re Enrico I; F . F O B E R T I , Gioacchino da Fiore..., cit., 251 e R . MANSELLI, La »Lectura..., cit., 104 si decidono per Enrico IV. La soluzione corretta è offerta senza dubbio da H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 55 s., il quale nomina Enrico III (in questo senso depone soprattutto Conc. IV, 24, f. 53vb, in cui questo imperatore viene collocato nel tempo di papa Leone IX). 209 Contro M . REEVES - B . HIRSCH-REICH, The Seven Seals..., cit., 2 2 0 va sottolineato che la sesta e la settima persecuzione vengono ricomprese sotto il sesto sigillo anche nella tavola 10 del Liber Figurarum. 210 Expos. ff. lOv, 197r; similmente il Liber Figurarum, iscrizione sulla tavola 14: «Sive iste sit Salahdinus, si adhuc vivet, sive alius prò eo». 211 Expos. f. 197v. 212 Expos. ff. 197v, 173v. 213 Expos. f. 210v: «[...] inchoato sexto tempore producturus sit diabolus Sarracenos contra christianum imperium et post multa mala, que faciet, superandus sit a militibus Christi». 214 Expos. f. 207r; cfr. anche Liber Figurarum, tavola 14: «Et ille rex septimus [...] cum secta sua pseudoprophetarum». 215 Expos. f. l68r: «Ista bestia, que ascendet de terra, habitura sit quendam magnum prelatura, qui sit similis Symonis Magi, et quasi universalis pontifex in toto orbe terrarum, et ipse sit ille Antichristus». 2,6 Expos. f. 190v. 217 Expos. f. l68r, 207r: «[...] antichristus, in cuius immundissimo corpore habitat personaliter draco rufus». 218 Liber Figurarum, tavola 14: «Surget autem, ut putamus, ab occidente [...]». 219 C. BARAUT, Un Tratado..., cit., 62. 220 Cfr. supra, nota 179. 221 Expos. f. lOv; Liber Figurarum, tavola 14. 222 Nel Liber Figurarum, tavola 14, si dice di lui: «Qui se esse simulabit regem et pontificem et prophetam». 223 Expos. f. l67v; Liber Figurarum, tavola 14. 224 Expos. f. 173v: «[...] quia falsa sit religio nominis Christiani». 225 Expos. f. l67v: «Cum ergo multiplicata malitia, nova Babylon in manu bestie et regni eius percutienda tradetur et gentilis potentia peccatis exigentibus roborabitur». Cfr. anche Tractatus, 322: «[...] Ecclesia, que exigentibus culpis, tradenda est in potestate gentium». 226 Expos. f. 120r, cfr. anche f. 191r/v. 227 Expos. f. 120r. 228 Expos. f. 195v; Conc. V, 118, f. 134va. D'altra parte l'espressione «nova Babylon» può significare specificamente anche il romanum imperium (anche quello del medioevo), come in Expos. f. lOr; Conc. IV, 23, f. 53va; Encbiridion, in L. TONDELLI, Il Libro delle Figure, I, cit., 143. 229 Conc. IV, 31, f. 56rb: «In qua generatione [= quarantaduesima generazione] peracta prius tribulatione generali et purgato diligenter tritico ab universis zizaniis». 230 Tractatus, 43. 231 Expos. f. l66r, cfr. anche f. 191 v, in cui si dice espressamente che la settima persecuzione investirà anche gli eletti, «quatenus si que macule adheserunt eis, de communione Babylonis purgentur». 232 Expos. f. 173v; cfr. anche R . MANSELLI, La «Lectura..., cit., 1 0 0 .
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233 Liber Figurarum, tavola 14: «Et quidem illorum [dei re pagani] intentio per omnia et in omnibus prava erit, sed tamen inviti et nescientes facient in utroque voluntatem Dei, sive in occidendis iustis, quos oportet coronari martirio, sive in iudicandis impiis». 234 Expos, f. 120r: «[...] licet ipsi mali sint et nescientes quod faciant, iustam tamen omnipotentis Dei exercent ultionem purgantes vineam domini spinis». 235 Pertanto la formulazione di W . N I G G , Das ewige Reich, Zürich 1944, 168: «Il nuovo non viene attraverso la distruzione del vecchio», non mi sembra calzante. 2 3 6 Cfr. E. R O S E N S T O C K - H U E S S Y , Die Europaischen..., cit., 21. 2 3 7 Cfr. Expos, f. 7v; cfr. in proposito H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 56 s. 238 Expos, f. 134V Cfr. anche supra, nota 212. 2 3 9 Cfr. le considerazioni di A . VON MARTIN, Geist und Gesellschaft. Soziologische Skizzen zur europäischen Kulturgeschichte, Frankfurt 1948, 65 s. 2 4 0 Cfr. Conc. I, 9, f. 10rb; cfr. anche H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 67 s. [tr. it. cit., 74], 241 Ciò è testimoniato soprattutto dal trattato De vita s. Benedicti, ed. C. BARAUT, Un Tratado..., cit., 28; ma anche qui si trovano già espressioni critiche (ivi, 36). Sulla situazione in cui nacque questo scritto cfr. H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 493 s. Cfr. anche Conc. I, 13, f. llrb, in cui Gioacchino fa addirittura cominciare la «fructifìcatio» del terzo status con i cistercensi; in Conc. IV, 37, f. 58r/v egli si esprime un po' più cautamente. 242 Cfr. anche E . B E N Z , Ecclesia Spiritualis..., cit., 10. 243 Psalt., f. 253v: «Pro eo enim quod spiritus sanctus procedit a patre oportuit secundum statum habere contemplatores sicut et doctores». Cfr. anche Expos, f. 18v. 244 Expos, f. 22r/v. 245 Expos, f. 22r: «Quod tempore secundi status, cuius est propria vita activa, data sit ex parte vita contemplativa, tempore autem tertii, cuius erit propria vita contemplativa, non sit adhibenda activa». 246 Expos, f. 18v. 247 Expos, f. I40r: «Et licet etas sexta [...] finis mundi dicatur, longe tamen verius id de septima dici potest, que quidem etsi secundum aliquid a passione Domini simul cum sexta inchoata est, proprietas tamen eius a ruina Antichristi». 248 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., I l i [tr. it. cit., 113]. 249 Conc. V, 65, f. 95vb. 250 Cfr. i suoi attacchi contro i valdesi nel Tractatus, 151 s., 187, 319, così come nel suo scritto De articulis/idei, ed. E. Buonaiuti, Roma 1936, 63. Espressioni contro i catari si trovano in Expos, f. 130v; Tractatus, 157. 251 Da diverse parti si è pensato a un influsso dei catari su Gioacchino; soprattutto da parte di E . ANITCHKOF, Joachim de Flore et les milieux courtois, Roma 1 9 3 1 , 6 0 . Ma a mio avviso non sono forniti riferimenti convincenti per un simile assunto; cfr. anche A . B O R S T , Die Katharer, cit., 1 1 2 s., 1 3 ; M.W. BLOOMFIELD, Joachim of Flora, cit., 2 7 7 . 252 Sull'appartenenza di Gioacchino all'ordine cistercense cfr. H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 485 ss. 253 La stretta connessione con l'ordine cistercense viene sottolineata da E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., VII, XI, 170 s.; R. MANSELLI, La «•Lectura..., cit., 81; J. BIGNAMI-ODIER, Travaux recents sur Joachim de Flore, «Le Moyen Age», 58 (1952), 155; C. BARAUT, Un Tratado..., cit., 5 ss.; in senso negativo M.W. BLOOMFIELD, Joachim of Flora, cit., 262. 254 Cfr. supra, nota 241; cfr. anche il progetto di ordine di Gioacchino, nel quale egli richiede che gli abitanti dell'oratorio guida «sequentur [...] in jejuniis formam Cisterciensium» (H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 117). 255 Conc. IV, 38, f. 59rb. 2 5 6 Sui fondamenti dell'atteggiamento eremitico di fondo dei nuovi ordini del XII secolo cfr. E . W E R N E R - M . E R B S T Ö B E R , Sozial-Religiöse..., cit., 2 6 2 . 257 Cfr. H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 4 7 , cfr. però anche le osservazioni ivi, 5 1 . " 8 Psalt., f. 247va. 259 Conc. II, 1, c.27, f. 17va; Conc. III, 2, c.3, f. 39vb; Conc. V, 89, f. 118ra; Expos, f. 75r. A ciò può essere connesso anche che, secondo l'opinione di Gioacchino, il «populus Grecorum [...] electus est ad imaginem Spiritus sancti» (Conc. II, 2, c.4, f. 20va). 260 Cfr. ad esempio Tractatus, 146; Expos, f. I42v.
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261 p e r ¡i c a r a t t e r e del monachesimo greco, in particolare sulla forte diffusione e l'alta valutazione della vita eremitica cfr. K . H O L L , Über das griechische Mönchtum, in Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, II, Tübingen 1928, 272. 262 La permanenza a Gerusalemme è testimoniata in Tractatus, 93; cfr. H. G R U N D M A N N , Zur Biographie..., cit., 482 il quale rimanda alla copia, scoperta di recente, della Vita contemporanea di Gioacchino, la quale contiene ugualmente un'allusione al pellegrinaggio di Terrasanta. 263 Anche a questo proposito la Vita di Gioacchino contiene chiari riferimenti; così al suo ritorno da Gerusalemme Gioacchino si trattenne per un certo tempo in Sicilia, in una grotta vicina a un monastero greco (H. G R U N D M A N N , Zur Biographie..., cit., 483; cfr. ivi, 486 il richiamo a una conversazione con un monaco greco). Cfr. per il resto E. B U O N A I U T I , Gioacchino da Fiore..., cit., 82 s.; M.W. B L O O M F I E L D , Joachim of Flora, cit., 293. Per il monachesimo greco nel sud Italia cfr. M. S C A D U T O , Il monachesimo Basiliano nella Sicilia medievale, Roma 1947. Degno di nota in questo contesto è anche A. M E N S , Oorsprong en Betekenis van de Nederlandse Begijnen- en Begardenbeweging, Leuven 1947, 66 ss., il quale considera assai rilevante l'influsso del monachesimo greco in Italia meridionale sui nuovi movimenti monasticoascetici dell'XI/XII secolo in Europa occidentale. 264 La questione dell'influsso su Gioacchino da parte della chiesa greco-bizantina è molto controversa. Assai spesso si è pensato a un'incidenza della concezione trinitaria orientale sulle idee di Gioacchino relative a questo argomento; cfr. B . H I R S C H - R E I C H , Die Quelle der Trinitätskreise von Joachim von Fiore und Dante, «Sophia«, 22 (1954), 173 s. M.W. B L O O M F I E L D , Joachim of Flora, cit., 282 ss. discute diffusamente questa problematica. A. C R O C C O , La formazione dottrinale..., cit., 193 ss. si dichiara scettico nei confronti di una valutazione eccessiva degli influssi greci. Cfr. inoltre M.-D. C H E N U , La théologie au douzième siècle, Paris 1957, 290 ss., 300 s. [tr. it., La teologia nel dodicesimo secolo, Milano 1986, 338]. In questa sede non è il caso di seguire ulteriormente la questione difficile, e sostanzialmente ancora non chiarita, di un influsso della teologia e della mistica greca su Gioacchino; mi limito perciò a ribadire quanto detto sopra, cioè che il monachesimo greco, con i suoi ideali eremitici, influì palesemente su Gioacchino. Tutte le affermazioni ulteriori devono ancora essere fondate in maniera più precisa. 265 E. B U O N A I U T I , Gioacchino da Fiore, cit., 169 s. Buonaiuti credeva, sulla base di un'espressione di Expos. f.l75r, che Gioacchino fosse di origine contadina. Ma ciò non è esatto, e la tradizione secondo cui il padre di Gioacchino era notaio, è senz'altro degna di fede; cfr. H. G R U N D M A N N , Neue Forschungen..., cit., 37s. Di recente anche S.M. S T A M , UlCenie..., cit., 333, 358, ha ribadito l'origine contadina; di conseguenza egli è dell'opinione che la dottrina di Gioacchino si radichi in origini popolari, che la sua attesa di un superamento della servitus per mezzo della libertas nel terzo status abbia un chiaro contenuto sociale, e che le idee di Gioacchino rappresentino una delle forme più antiche di eresia contadino-plebea (ivi, 357, 345, 360). Ma in proposito Stam dimentica, a mio avviso, che le idee di Gioacchino sono completamente dominate da ideali monastici — significativamente l'autore tralascia qualsiasi accenno al fatto che il terzo status deve essere un'età di monaci — e che le idee di Gioacchino sono state riprese da correnti ereticali con radici popolari solo dopo considerevoli trasformazioni. Pertanto a mio avviso è completamente errato collocare Gioacchino, questo monaco che almanaccava in solitudine, nella corrente delle eresie contadino-plebee. 266 II «radicamento feudale» dei cistercensi è stato giustamente sottolineato da E . W E R N E R , Bemerkungen zu einer neuen These über die Herkunft der Laienbrüder, «Zeitschr. f. Geschichtswiss.», 6 (1958), 2, 355, 361. 267 H. G R U N D M A N N , Dante und Joachim von Fiore, «Deutsches Dante-Jahrbuch», 14 (1932), 225. 268 H. G R U N D M A N N , Studien..., 155 [tr. it. cit., 162], 269 ID., Dante und Joachim von Fiore, cit., 225. 270 Così P. A L P H A N D É R Y , Les idées morales chez les héterodoxes latins au début du XlIIe siècle, París 1903, 197; cfr. anche H. G R U N D M A N N , Neue Beiträge..., cit., 150 ss. 271 L'affermazione di P . A L P H A N D É R Y , Les idées morales..., cit., 1 9 5 : «Gioacchino pone la predicazione al di sotto della contemplazione», connota un aspetto essenziale della dottrina di Gioacchino. La correttezza di questa affermazione non viene in alcun modo contraddetta dal
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fatto che secondo Gioacchino la predicazione dei viri spirituales ha un ruolo essenziale nella promozione del nuovo status. 272 H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 20 [tr. it. cit., 25]. Vorrei notare su questo punto che persino F. FOBERTI, Gioacchino da Fiore..., cit., 121 s., che peraltro si sforza di dare un'interpretazione di Gioacchino il più possibile ortodossa, ammette che l'esteriorizzazione della vita ecclesiastica e l'inanità delle misure di riforma ecclesiastica furono le cause profonde delle profezie di Gioacchino. 273 Cfr. per esempio Corte. V, 73, f. 10Ir; Expos. ff. 80v, 119r; Tractatus, 84 s., 68; Expos. f. 202r: «Scimus autem, quod non solum nonnulli episcopi et sacerdotes implicantur negotiis Babylonis, ut divites fiant, verumetiam nonnulli abbates et monachi et alii religiosi». 274 Conc. IV, 17, f. 52rb. 275 Conc. IV, 25, f. 54ra. Neppure le espressioni critiche sulle condizioni della chiesa nel Tractatus sono più taglienti di questa invettiva nel IV libro della Concordia. Del resto io veramente non riesco a scoprire nel Tractatus riferimenti per scorgere come ivi Gioacchino traesse «le ultime conseguenze» senza guardare in faccia a nessuno, e giudicasse in maniera sostanzialmente più aspra che nelle opere precedenti, come invece ritengono H. GRUNDMANN, Neue Forschungen..., cit., 17, e J.CH. HUCK, Joachim von Floris..., cit., 163. 276 Conc. V, 48, f. 82vb: «Quia ordo ipse clericorum qui modo exigentibus culpis tardus est ad omne bonum, in principio in suo genere clarus fuit». 277 Tractatus, 58. In un altro passo invece Gioacchino contesta ai fedeli il diritto di criticare il papa; cfr. Conc. V, 63, ff. 94r s.: «Romanus pontifex, si quando in aliquo delinquit sicut homo, non est nostrum, qui oves sumus, iudicare eum sed ipsius est colligere causam suam in sinu suo et contra semetipsum propriam dictare sententiam». 278 Cfr. supra, 92. 279 Cerne. III, 2, c.5, f. 4lrb; cfr. anche Expos. f. 132v, dove Gioacchino afferma che i tempi successivi sono peggiori dei precedenti. 280 Conc. V, 17, f. 68va. 281 Expos. f. 151v: «[...] ab illis clericis, qui erunt in parte Antichristi». 282 Conc. V, 40, f. 77vb; cfr. anche Tractatus, \Al s., in cui Gioacchino si esprime contro i «falsi religiosi», i quali come i farisei si attaccano alla vecchia dottrina. 283 Cfr. soprattutto un passo significativo del Tractatus, 87 in cui Gioacchino esprime l'attesa che il papato, e quindi il rappresentante decisivo dell'orcio clericorum che sta per scomparire, non proverà nessuna invidia per la successione dell'ordo spiritualis. 284 Cfr. M.M. SMIRIN, Die Volksreformation..., cit., 181, il quale fa riferimento al fatto che secondo Gioacchino lo sviluppo si realizza in un «tempo previsto dal piano divino [...] indipendentemente dagli uomini». 285 In conseguenza di ciò Tommaso d'Aquino respinse nettamente le idee di Gioacchino; cfr. E. BENZ, Thomas von Aquin und Joachim de Fiore, ZfKG, 53 (1934), 81 ss.
III. L'influsso delle concezioni di Gioacchino sull'ordine francescano nel XIII secolo
Gioacchino per primo aveva prospettato come modello ideale al proprio tempo lo stato da lui profetizzato di perfezione e di pace, pensato precisamente come un'epoca propria, in sé conclusa, alla fine del corso della storia universale. Indubbiamente questa prospettiva circa il futuro possedeva per molti aspetti una forza di convincimento sostanzialmente più efficace rispetto alle attese precedenti, molto vaghe e per lo più legate alla figura di un imperatore degli ultimi tempi. Infatti il terzo status apparve qui come la svolta finale del divenire del mondo, una meta fissata fin dall'origine, necessaria sotto il profilo dello sviluppo storico e accertabile anche per l'intelletto umano mediante l'interpretazione delle sacre Scritture. In verità la mancanza, assolutamente tipica in Gioacchino, dell'attesa dell'imperatore degli ultimi tempi significa rifiuto di un complesso di idee estremamente popolare e quindi efficace; però questo svantaggio venne compensato, almeno fino a un certo punto, dal fatto che Gioacchino col suo ideale dell 'ecclesia spiritualis cercava di risolvere il problema, che agitava vastissime cerchie, della mondanizzazione della chiesa. Egli quindi affrontò il problema più importante nei dibattiti ideali del XII secolo; perciò era perfettamente immaginabile che le sue attese circa il futuro potessero diventare un'arma spirituale di cerchie che in forma più o meno acuta si opponevano alla chiesa feudale nella forma di quel tempo. Peraltro bisogna osservare che l'efficacia delle idee di Gioacchino veniva resa difficile dal fatto che egli aveva disegnato la sua chiesa del futuro idealizzata partendo dalla visione di un monaco ritirato dal mondo. Era perciò difficilmente immaginabile che le sue attese del futuro venissero immediatamente riprese e diffuse da correnti popolari più ampie. L'aspetto originale e profetico della sua idea di un nuovo status futuro, così inaudito proprio per la nostra attuale mentalità, non ci deve far dimenticare che la sua visione della chiesa secondo
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l'ideale monastico dovette risultare sotto molti aspetti estranea anche alla maggioranza degli uomini medievali. Pertanto quando nelle pagine seguenti indagheremo sull'influsso della visione del futuro di Gioacchino, dobbiamo tenere sempre presente questo limite monastico delle idee di Gioacchino. Solo allora saremo in grado di comprendere che un ampio influsso dell'attesa gioachimita circa una grande svolta del mondo, nonostante l'insoddisfazione largamente diffusa per il sistema ecclesiastico dominante, è in un primo tempo mancata completamente, e le sue idee hanno cominciato a esercitare un influsso solo a poco a poco, e in una forma notevolmente mutata. Passarono alcuni decenni prima che fosse ripresa consapevolmente l'idea di Gioacchino circa uno status nuovo, completamente diverso, uno status che sarebbe iniziato tra breve Certo il nome di Gioacchino divenne ben presto noto in gran parte dell'Europa, ma in lui si riconobbe anzitutto, tranne poche eccezioni 2 , non il profeta di una nuova epoca dell'umanità, bensì — proprio nel senso della visione del mondo dominante nel medioevo — un profeta dell'Anticristo e della fine del mondo immediatamente successiva. Così il cistercense inglese Radulfus Niger, nella sua cronaca che arriva fino al 1199, racconta che Gioacchino scrisse intorno all'Apocalisse, soprattutto interpretò l'apertura dei sette sigilli come sette persecuzioni della chiesa e confrontò tra loro l'Antico e il Nuovo Testamento. Queste indicazioni testimoniano che già questo cronista contemporaneo sapeva senz'altro qualcosa su Gioacchino. Tuttavia nella sua visione le conclusioni di Gioacchino si riducono a queste: che il giorno del giudizio finale è vicino, perché l'apertura del settimo e ultimo sigillo, nel quale avviene la persecuzione dell'Anticristo, incombe immediatamente 3 . Analogamente Ruggero di Hoveden può riferire che secondo Gioacchino l'Anticristo è già nato 4. Ma la cosa insolita e notevole nelle idee di Gioacchino consisteva precisamente nel fatto che dopo questa persecuzione dell'Anticristo egli aspettava il pieno irrompere dello status dello Spirito santo; a questo riguardo non si trova il minimo cenno nei due ricordati cronisti. Lo stesso cronista inglese, che più di tutti informa su Gioacchino in maniera diffusa e documentata, il cistercense Ralph di Coggeshall, non sa nulla circa l'idea del terzo status. Secondo Ralph di Coggeshall, Gioacchino ha annunciato l'ultima grande persecuzione dell'Anticristo per il periodo che comincia con il 1200. In questo cronista troviamo solo una debole eco delle prospettive di Gioacchino; egli attribuisce a Gioacchino l'opinione che prima della comparsa dell'Anticristo il vangelo di Cristo è destinato a essere predicato ancora in
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tutto il mondo, e perciò la chiesa si estenderà in tutti i popoli pagani 5 . Certo queste affermazioni non contraddicono le vere concezioni di Gioacchino, ma esse non contengono nulla che vada oltre le concezioni sul tempo finale diffuse già prima di Gioacchino, e che sconvolgerebbe il quadro dei concetti ecclesiastici dominanti; in altre parole, Ralph non ha nessun sentore dell'idea di Gioacchino, specifica e veramente nuova, circa la trasformazione epocale radicale connessa all'inizio del terzo status. Allo stesso modo uno scritto evidentemente comparso in Inghilterra già nel 1213, che si propone di riprodurre le idee fondamentali di Gioacchino, contiene l'affermazione errata che la persecuzione dell'Anticristo avviene nel tempo dell'apertura del sesto sigillo, e quindi nel tempo finale della storia terrena 6 , mentre Gioacchino riporta questo evento nel tempo del sesto sigillo, e con l'apertura del settimo sigillo fa iniziare il definitivo tempo perfetto di pace. Ma su ciò questa annotazione anonima non dice assolutamente nulla. Possiamo quindi arguire che in Inghilterra ben presto si ebbe conoscenza di Gioacchino, in parte prima della sua morte. Ciò si spiega con i rapporti relativamente stretti esistenti tra l'Inghilterra conquistata dai normanni e lo stato normanno in Italia meridionale, dove viveva Gioacchino; va inoltre aggiunto che il re Riccardo d'Inghilterra nel 1190/91, durante il suo viaggio verso la Terrasanta, incontrò Gioacchino e, godendo quest'ultimo già allora della fama di profeta, lo interrogò sulle prospettive della terza crociata. Naturalmente questo evento entrò nella cronachistica inglese7. Inoltre lo scritto del 1213 appena ricordato testimonia chiaramente che già allora in Inghilterra erano note alcune tavole del Liber Figurarum di Gioacchino 8 . In proposito c'è da rilevare quanto già ricordato in precedenza: proprio nelle diverse tavole del Liber Figurarum al terzo status, non ultimo a causa della sua brevità cronologica, si accenna soltanto. È dunque del tutto plausibile che soprattutto le tavole del Liber Figurarum, di pronta visione e quindi facilmente accessibili, abbiano contribuito a non far cogliere pienamente i ragionamenti di Gioacchino 9 . Diversi elementi inducono a credere che le tavole tramandate nel Liber Figurarum abbiano svolto un ruolo essenziale nella prima presa di contatto con le idee di Gioacchino al di fuori della sua sfera d'incidenza più ristretta 10 . Negli altri paesi europei le testimonianze contemporanee o molto precoci di una conoscenza intorno a Gioacchino non sono così numerose, e per quanto concerne la dottrina dei tre status esse mostrano la stessa carenza di conoscenza. Secondo Roberto di Auxerre, Gioac-
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chino ha computato la fine del mondo, giungendo alla conclusione che nel giro delle prossime due generazioni, cioè nel giro dei prossimi sessant'anni, scoppierà la persecuzione dell'Anticristo11. Anche il fatto che Guarnerio di Rochefort, significativamente un cistercense, abbia usato come Gioacchino la parola IEVE per illustrare la dottrina trinitaria, induce certo a credere che l'autore avesse qualche conoscenza della dottrina di Gioacchino, ma non offre nessun indizio che egli avesse afferrato in qualche modo l'idea di Gioacchino circa il terzo status con le sue conseguenze 12. Per quanto riguarda la Germania, alcune osservazioni di Gebeno di Eberbach nel suo Speculum futurorum temporum mostrano che egli conosceva il nome di Gioacchino e sapeva del suo carisma profetico 13. Forse Gebeno ottenne queste conoscenze tramite quell'abate Giovanni di Calabria che gli fece visita nel 1217, e gli raccontò anche che un eremita della sua patria aveva annunciato che l'Anticristo sarebbe nato tra breve 14. È del tutto plausibile che con ciò quell'abate calabrese avesse in mente le profezie di Gioacchino. Questa sarebbe allora un'altra prova che all'epoca si vedeva comunemente in Gioacchino un annunciatore dell'Anticristo e della fine del mondo, e non del terzo status. Anche Davide di Augsburg, in un trattato composto intorno al 1240, presenta Gioacchino tra quei profeti che hanno annunciato l'avvento dell'Anticristo, la decadenza della religiosità, la devastazione della chiesa e altre tribolazioni 15 . Con questo possiamo concludere il discorso sulla questione della reazione di fronte alle idee di Gioacchino fino al 1240 circa, tanto più che di recente Bloomfield e Reeves ne hanno trattato diffusamente. Per la nostra tematica interessa soprattutto chiarire quando e in quali circostanze l'attesa gioachimita di un mutamento dei tempi ovvero di un'epoca di perfezione assoluta sia stata conosciuta e ripresa al di fuori delle mura del monastero di Fiore, ovvero abbia cominciato a giocare un ruolo storico più pronunciato. Se per un momento lasciamo da parte gli amalriciani, di cui bisognerà parlare in seguito, e le questioni a essi legate, risulta che significativamente le prime testimonianze di un influsso di queste idee gioachimite provengono ancora una volta da ambienti monastici. La concezione di Gioacchino, sviluppata in prospettiva monastica, trovò, e non c'era da attendersi diversamente, il suo terreno fertile di coltura nelle cerchie monastiche. Le primissime testimonianze sono il Commento a Geremia falsamente attribuito a Gioacchino, e le notizie di Salimbene concernenti gli anni 1243-48 sull'incipiente notorietà degli scritti di Gioacchino a Pisa, nella cerchia gioachimita formatasi attorno al francescano Ugo di Digne
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a Hyères in Provenza, e sui fautori francescani di Gioacchino Bartolomeo Guisculus e Gerardo di Borgo S. Donnino a Provins in Francia l6 . Mentre dalle notizie di Salimbene risulta chiaro fin da principio che si tratta di una ripresa di idee gioachimite, la questione della provenienza del commento pseudogioachimita a Geremia è controversa. Fino a poco tempo fa si ipotizzava comunemente che anche questo scritto fosse sorto in ambiente francescano 17. Viceversa ultimamente M. Reeves ha avanzato dubbi. La Reeves ritiene che il Commento a Geremia — così come il Commento a Isaia, sul quale dovremo diffonderci più avanti — sia nato ancora all'interno dell'ordine florense per opera di discepoli diretti di Gioacchino 18. Una simile concezione varierebbe considerevolmente il quadro finora invalso circa la diffusione del gioachimismo, ridimensionerebbe la posizione dominante del francescanesimo in questo sviluppo, e in ordine a tale sviluppo metterebbe in primo piano «an active centre of Joachite writing in South Italy»19. Per avvicinarci alla soluzione della questione controversa sollevata, è opportuno anzitutto stabilire con la massima precisione possibile il periodo di composizione del Commento a Geremia20. Per prima cosa è certo che il minorità Alessandro già utilizza il commento pseudogioachimita a Geremia nella versione del suo commento all'Apocalisse scritto nel 1249 21 . Mentre in questo modo ci è dato un solido punto di riferimento per il terminus ante quem, la fissazione del terminus post quem è oltremodo difficile. Siccome in questo scritto la lotta tra papato e impero svolge un ruolo centrale, si potrà ipotizzare senz'altro che il tempo di composizione non è anteriore al 1239, quindi prima dello scoppio della lotta decisiva di Federico II con la curia. La durezza di questo scontro portò subito entrambe le parti, nei loro scritti polemici destinati ad avere un impatto sul pubblico, a servirsi di figure apocalittiche per sottolineare la pericolosità e la scelleratezza dell'avversario 22 . È da ritenere che il linguaggio degli scritti polemici di parte ecclesiastica di questi anni abbia contribuito in maniera sostanziale a far assumere all'imperatore svevo presso l'opinione pubblica i tratti di quel persecutore apocalittico della chiesa, quale appare poi anche nel Commento a Geremia. Perciò il commento non dovrebbe avere avuto origine antecedentemente ai primi scritti polemici del 1239Inoltre con ampio margine di sicurezza si potrà riferire un passo del Commento a Geremia alla distruzione della flotta genovese da parte delle forze imperiali il 3 maggio 1241, allorché numerosi prelati furono fatti prigionieri 23 . È possibile che l'autore già sapesse della lunga vacanza della sede papale dopo la morte di Celestino IV avvenuta nel
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novembre 124 1 24 . Peraltro questa vacanza non durò tre anni, come si dice nel Commento, ma solo un anno e mezzo abbondante; probabilmente questa discordanza depone allora per un tempo di composizione precedente all'elezione del papa successivo, Innocenzo IV, quindi prima del giugno 1243. Ma questi non sono punti di riferimento sicuri. Si può dunque verosimilmente affermare soltanto che il commento pseudogioachimita a Geremia fu composto tra il 1241 e il 1249. In via ipotetica si può aggiungere che probabilmente fu scritto poco prima dell'elezione di Innocenzo IV. In ogni caso l'assenza di qualsiasi accenno, per quanto velato, alla deposizione di Federico II durante il Concilio di Lione nel 1245 o al susseguente insediamento di un antire depone a favore dell'ipotesi che lo scritto abbia avuto origine nella prima metà più che nella seconda metà del periodo 1241-1249 2 5 . Se ipotizziamo questa composizione relativamente precoce del Commento a Geremia, cioè intorno al 1243, è certo inverosimile che esso provenga da quei circoli francescani che vennero a conoscenza degli scritti di Gioacchino nei modi descritti da Salimbene. Infatti quell'abate florense di cui racconta Salimbene portò al sicuro gli scritti di Gioacchino nel convento francescano di Pisa solo tra il 1243 e il 124 7 26 . Restano allora due possibilità: o tra gli scritti di Gioacchino portati a Pisa c'era già anche il commento pseudogioachimita a Geremia, e allora questo scritto sarebbe di fatto un prodotto dei monaci florensi, come ritiene M. Reeves; o invece c'erano altre occasioni di contatto tra francescani e monaci florensi, già attive precedentemente e sconosciute a Salimbene, e allora sarebbe sempre possibile che il Commento abbia avuto origine in cerchie francescane che conoscevano gli scritti e le idee di Gioacchino già prima del 1243. Di fatto vi sono alcuni riferimenti i quali indicano che simili contatti avevano avuto luogo già prima, e precisamente nel territorio dell'Italia meridionale e della Sicilia, quindi nella sfera d'influenza propria di Gioacchino. Così va rilevato che Gerardo di Borgo S. Donnino, che Salimbene conobbe come gioachimita già nel 1247-48 a Provins, ricevette la propria formazione in Sicilia 27 ; anche il suo compagno di fede gioachimita, Bartolomeo Guisculus, che allora viveva insieme a lui, era vissuto per un certo tempo a Capua, che apparteneva al regno di Sicilia28. A ciò si aggiunge che nel Commento a Geremia l'ambiente del Mezzogiorno italiano ha rilievo vistoso 29 , sicché è verosimile la sua origine in Italia meridionale. Peraltro con questi soli indizi non si è ancora ottenuta una base in qualche modo convincente per decidere della questione se il Commento sia stato redatto intorno al 1243 in Italia meridionale da francescani o da florensi.
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Per procedere oltre su tale questione, bisognerebbe chiarire anzitutto se già intorno al 1240 si fosse formato all'interno dell'ordine francescano un gruppo in forte opposizione contro la chiesa mondanizzata dei prelati ed esposto anche a certe persecuzioni da parte della chiesa. Infatti questa tendenza «spiritualistica» estremamente refrattaria ai compromessi caratterizza, come si cercherà di mostrare, il Commento a Geremia, che inoltre annuncia persecuzioni di questi «spirituali» da parte di esponenti della chiesa. Uno degli argomenti più importanti di M. Reeves consiste esattamente in ciò: «The early date of the Super Hieremiam in fact hardly allows time for the persecution of the Spiritual Franciscans to appear in it»30. Però quest'affermazione di M. Reeves non corrisponde completamente ai fatti. Anzitutto va osservato che già al tempo del generalato di Elia (1232-39) sorsero all'interno dell'ordine francescano profonde tensioni, che alla fine condussero alla destituzione di Elia31. Inoltre è noto che già prima dell'elezione di Crescenzio di Jesi a generale dell'ordine (1244) nella marca di Ancona era diffuso un gruppo settario di francescani che non si curavano delle disposizioni della direzione dell'ordine, si distinguevano nel vestito dalla massa dei membri dell'ordine e si ritenevano più spirituali degli altri, richiamandosi allo Spirito santo 32 . Queste notizie mostrano che già prima del 1244 esistevano all'interno dell'ordine francescano gruppi ultraspiritualisti che avevano difficoltà con la direzione dell'ordine e con la gerarchia ecclesiastica. Soprattutto il loro appellarsi allo Spirito santo fa apparire assola tamente verosimili influssi gioachimiti. In questo contesto è molto significativo un accenno dell'Olivi, cui finora non si è prestata sufficiente attenzione, nella sua lettera scritta a Corrado di Offida nel 1295. L'Olivi qui si rivolge anzitutto contro gli spirituali che costituivano un'opposizione alla fine del XIII secolo, e alla fine rimanda ad altri membri dell'ordine già in precedenza impigliatisi in simili errori ereticali, in quanto dichiaravano che Innocenzo III errò insieme a tutto il Concilio, quando emise una decretale contro la dottrina trinitaria di Gioacchino 33 . L'Olivi dunque è chiaramente a conoscenza di un gruppo più antico di francescani all'opposizione, il quale non riconosceva la condanna da parte di Innocenzo III della dottrina trinitaria di Gioacchino. Significativamente anche l'autore del Commento a Geremia assume lo stesso atteggiamento; egli designa Innocenzo III come un Erode, e lo accusa di aver condannato il doctor veritatis, cioè Gioacchino, e di avere quindi soffocato l'intelligentia spiritualis34. È dunque immaginabile che l'accenno dell'Olivi si riferisca ad ambienti francescani dal cui seno ha avuto origine
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il commento pseudogioachimita a Geremia. Purtroppo l'osservazione dell'Olivi è stata stilata molto tardi e ha un contenuto troppo generico, sicché non è possibile ricavarne conclusioni più sicure. Tuttavia con essa è offerto un punto di riferimento, che da un lato fa apparire possibile l'origine del Commento all'interno dell'ordine francescano, e dall'altro suscita dubbi sulla tesi di M. Reeves. In questa sede è inutile dilungarsi sul problema della provenienza, poiché solo una indagine intorno alla tendenza di fondo o sul contenuto concettuale di questo scritto è in grado di offrire altri punti di riferimento per la chiarificazione di tale controversa questione. Perciò bisogna anzitutto soffermarsi su quest'ultimo problema. Indicativi riguardo alla posizione spirituale dell'autore sono soprattutto gli spostamenti d'accento che, nonostante le numerose concordanze, questo scritto pseudogioachimita mostra nei confronti delle idee originarie di Gioacchino. Già Friderich ha formulato alcune osservazioni fondamentali in questa direzione; egli constatò, per esempio, in maniera perfettamente calzante che nel Commento a Geremia 1'«opposizione tendenziale contro l'esistente», cioè contro la chiesa mondanizzata, risulta molto più forte che nello stesso Gioacchino 35 . Allo stesso modo, è giusto che Gioacchino non evidenzia l'idea della povertà apostolica in modo così accentuato come l'autore del Commento36; infatti caratteristica di Gioacchino fu appunto in primo luogo l'alta valorizzazione della vita heremitica o della vita contemplativa, mentre l'ideale apostolico di povertà, così come si era configurato nel XII secolo, svolgeva per lui solo un ruolo limitato. Di conseguenza Gioacchino aveva valorizzato senza riserve anche la vittoria della chiesa sotto Costantino come un punto alto dello sviluppo ecclesiastico, mentre il commentatore pseudogioachimita maledice il giorno in cui la chiesa giunse all'apice della sua gloria 37 . Indicativo per il differente taglio della critica alle condizioni della chiesa è anche l'uso diverso del concetto di «Babilonia» o di «meretrice babilonica» in Gioacchino da un lato e nel Commento a Geremia dall'altro. In Gioacchino «Babilonia» viene intesa ancora, nonostante tutte le critiche alla gerarchia ecclesiastica, in senso perfettamente agostiniano, come la «universa multitudo hominum impiorum et natorum secundum carnem»38; egli dunque con tale concetto designa indistintamente tutti gli uomini peccatori all'interno della cristianità, senza mai identificare la chiesa come istituzione con Babilonia. Viceversa l'autore del Commento a Geremia non teme di mettere in strettissima relazione i concetti di «ecclesia» e di «Babilonia» ovvero «meretrice»39. Quasi tutta la chiesa è diventata Babilonia40; in un altro passo la chie-
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sa romana viene designata direttamente come postribolo, insozzato soprattutto dalla simonia 41 . Inoltre bisogna rilevare che il commentatore, in maniera ancora più tagliente di Gioacchino, ritiene responsabili della decadenza di tutta la chiesa specialmente i prelati. La chiesa universale per l'arroganza dei prelati è scivolata nel fango della cupidigia e della perversione carnale 42 . Egli parla di «prelati e altre membra dell'Anticristo ventaro» 43. L'odio dell'autore contro i prelati mondanizzati si esprime infine in espressioni quali, per esempio, quella secondo cui l'oro della vita apostolica si è trasformato nella lordura della «infamia praelatica»44. Di fronte all'avversione dell'autore nei confronti dei prelati in generale non desta meraviglia che anche il vertice della gerarchia ecclesiastica, il papato, non venga risparmiato dagli attacchi. In proposito si deve prendere in considerazione soprattutto la severa condanna di Innocenzo III, il quale a causa del suo procedimento contro la dottrina trinitaria gioachimita viene bollato come nuovo Erode 45 . Questi cenni possono bastare per illustrare l'insolito atteggiamento critico-aggressivo dell'autore nei confronti della gerarchia ecclesiastica. A questo proposito dobbiamo tenere presente, in ordine alla controversa questione circa l'autore, che da altre fonti non si sa nulla intorno a gruppi di monaci con atteggiamento così radicale all'interno della congregazione di Fiore, mentre un atteggiamento del genere non sarebbe affatto sorprendente tra i francescani estremisti. Altri elementi di riferimento per la chiarificazione della provenienza del Commento ci vengono offerti considerando la questione delle forze destinate, nella visione dell'autore, a superare il vecchio, corrotto stato della chiesa e a dare l'impronta al nuovo tempo, al terzo status. Lo sono anzitutto due ordini, che compariranno «intra principia tertii status» 46 ovvero nella generazione che viene 47 , cioè tra il 1200 e il 1230. Al primo di questi due ordini incombe soprattutto l'ufficio della predicazione, al secondo la lode di Dio ovvero l'ascolto della parola di Dio 48 . Simboli del primo ordine, che viene anche designato direttamente come «ordo praedicantium» 49 , sono il corvo e il bue 5 0 ; il secondo ordine, che significativamente viene chiamato una volta «ordo minorum» 51 , viene simboleggiato dalla colomba e dall'asino 52 . Ambedue gli ordini, per il loro sostentamento quotidiano, non possederanno altro che il cibo e l'abito indispensabili 53 . Gli esponenti del primo ordine, i predicatori, si rivolgerano con infuocata e abile eloquenza e in maniera dotta contro i «cani muti», cioè contro i prelati, i chierici e i doctores, mentre i monaci del secondo ordine si presen-
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teranno «nudi e poveri», sicché i sacerdoti e i farisei stramazzeranno di fronte alla parola di Dio 5 4 . A questo proposito è palese che l'autore privilegia il secondo ordine, cioè quello più contemplativo, rispetto all'ordine dei predicatori; così predice tra l'altro che il primo e maggiore ordine servirà il successivo, più piccolo, e che all'epoca delle grandi persecuzioni si ridurrà insieme all'orbo clericalis, mentre l'altro crescerà 55 . È evidente che l'autore del Commento a Geremia nelle sue affermazioni sui due ordini si mantiene strettamente aderente al modello di Gioacchino, che appunto allo stesso modo attendeva la comparsa di due nuovi ordini spirituali, uno dei quali maggiormente dedito alla predicazione, l'altro alla contemplazione 56 . Però è inverosimile che qui l'autore copi semplicemente le concezioni di Gioacchino in maniera pedissequa; piuttosto, espressioni come «ordo minorum» e «ordo praedicantium» e la sottolineatura della loro mancanza di possesso indicano chiaramente che egli ha davanti agli occhi gli ordini mendicanti già esistenti al suo tempo, e fa corrispondere totalmente le sue «predizioni» sui «futuri» ordini ai domenicani e ai francescani 57 . È innegabile che l'anonimo autore voglia fare apparire che Gioacchino, il quale già era altamente quotato come «profeta», avesse profetizzato la comparsa dei due ordini mendicanti, e attribuito loro nel contempo il ruolo decisivo nella generazione di uno status nuovo, perfetto. Anche queste constatazioni depongono per il fatto che l'autore del Commento a Geremia appartenesse a uno dei due ordini, e invero ali 'ordo minorum da lui preferito, cioè all'ordine francescano. Peraltro c'è qui da considerare un'obiezione di M. Reeves. Ella ritiene che l'autore del Commento a Geremia, come del resto quello del Commento a Isaia redatto posteriormente, considera l'ordine cistercense come punto di partenza del futuro ordo spiritualis, e di conseguenza ritiene palesemente decisivi portatori del nuovo i membri della congregazione di Fiore, derivata dall'ordine cistercense 58 . La Reeves poggia questa concezione tra l'altro sul fatto che nel Commento a Geremia più volte si parla non solo di due ordini del terzo status, ma di tre ordini, di cui uno è l'ordine cistercense 59 . Di conseguenza nel commento si dice esplicitamente che la «cisterciensis religio» durerà sino alla fine del mondo 6 0 , e che nel terzo status tutto si convertirà all'ordine cistercense e agli altri ordini futuri 61 . A ciò si aggiunge ancora che in questo scritto pseudogioachimita non si trova alcun cenno, per quanto velato o simbolico, a Francesco d'Assisi — così straordinariamente esaltato dai circoli francescanospirituali — quale fondatore di un ordine spirituale. In verità per quel
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tempo di grandi trasformazioni viene posta in risalto una personalità che impronta l'epoca, quella del «doctor veritatis», che corrisponde all'angelo col libro aperto dcW'Apocalisse62-, ma con essa viene palesemente inteso Gioacchino, non Francesco d'Assisi. Questa assenza completa di qualsiasi allusione al fondatore dell'ordine francescano è, a dire il vero, oltremodo singolare in uno scritto che dovrebbe aver avuto origine all'interno di quest'ordine, e sembra deporre a favore, della tesi di M. Reeves. D'altra parte però bisogna tenere presente che un autore che scriveva nel 1240 celebrando due nuovi ordini, la cui origine veniva posta esplicitamente nel tempo subito dopo il 1200, come portatori di un'epoca nuova, migliore, doveva avere molto chiaro che con questo inevitabilmente richiamava i pensieri di tutti i suoi lettori sui due ordini mendicanti e non, per esempio, sui monaci di Fiore. In questo l'accenno dell'autore al ruolo importante dei cistercensi non poteva cambiare nulla, tanto più che si dice chiaramente che certo prima brilla nell'ordine cistercense la «grande stella» (cioè Gioacchino), ma quest'ordine sarà l'ultimo dei tre del terzo status a comprendere pienamente la verità 63 . È del tutto evidente che nella visione generale dell'autore l'ordine cistercense viene messo molto in secondo piano di fronte agli altri due «nuovi» ordini; perciò questi pochi cenni ai cistercensi non appaiono indizi convincenti per l'ipotesi di una provenienza di questo scritto dall'ambiente cistercenseflorense. Noi dunque relativamente alla questione dell'autore possiamo concludere solo che gli argomenti addotti da M. Reeves contro un'origine in ambiente francescano non sono sufficienti per confutare l'opinione precedente, anche se si deve concedere che l'ipotesi di una redazione da parte di francescani spirituali non è affatto fondata con tanta sicurezza come si credeva finora. C'è da sperare che ulteriori indagini apportino su questo punto una chiarezza definitiva. Possiamo ora proseguire nella disamina delle idee fondamentali del Commento a Geremia circa il tempo futuro, cioè il terzo status. In proposito dobbiamo tenere presente che l'autore, nonostante le divergenze ricordate, in molti punti riprende semplicemente, e molto pedissequamente, le idee di Gioacchino. Anche per lui il terzo status è l'età dello Spirito santo 64 , che opererà in modo speciale nei monaci, come Cristo operò nei chierici e Dio Padre nei leviti e nei figli dei profeti 65 . L'actio sarà sostituita dalla contemplano66. Allora ì'intelligentia spiritualis permetterà — come in Gioacchino — una visione immediata delle verità della fede 67 ; al posto quindi della «morta lettera» subentrerà la spiritualis doctrina68. Anche in questo scritto non
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manca il concetto di «evangelium aeternum»69, che i nuovi predicatori annunceranno, laddove essi infrangeranno la dottrina dei doctores ecclesiastici, e al suo posto metteranno una «nova doctrina», la quale trascende ciò che sta scritto nei libri 70 . Infine vi sono attacchi contro la «scientia saecularis», in particolare contro l'università di Bologna 71 , che trovano corrispondenza sia nello spirito di Gioacchino sia in quello del francescanesimo primitivo. Queste idee non contengono nulla di sostanzialmente nuovo rispetto alla concezione fondamentale di Gioacchino. Si ha piuttosto l'impressione che tutto il complesso di idee di Gioacchino, nel quale hanno un rilievo centrale il concetto di «intelligentia spiritualis» e il superamento di ogni sapere legato alla lettera mediante una visione più profonda della verità divina, qui sia appiattito e abbia perso in compattezza spirituale. Ciò sta senza dubbio in rapporto col fatto che l'ideaguida di fondo nel Commento a Geremia non è, come in Gioacchino, la visione immediata, mistico-contemplativa dei misteri divini — a questo riguardo il ciclo di idee di Gioacchino viene semplicemente ripreso in maniera più o meno schematica, senza vera rielaborazione concettuale e perciò senza intima necessità; bensì, al centro di questo scritto stanno la critica alla chiesa corrotta dalla ricchezza temporale e dall'avidità, e l'aspirazione a realizzare l'ideale apostolico di povertà con l'aiuto del monachesimo. Ciò spiega perché il Commento a Geremia non raggiunga la profondità di pensiero della concezione gioachimita dell 'ecclesia spiritualis. L'autore cerca di risolvere la problematica del suo tempo non tanto postulando un nuovo atteggiamento spirituale di fondo dell'umanità — un desiderio peraltro sempre utopico, la cui elaborazione concettuale può però essere indubbiamente di grande fascino; perciò nel Commento non si tratta tanto di «problemi al cui livello può essere messo in questione l'ideale di vita [...] cattolico»72, quanto prevalentemente di struttura esteriore della chiesa. Per questo l'insieme certo può perdere ricchezza ideale e decadere di livello spirituale, ma sarebbe completamente sbagliato non vedere più, insieme a Grundmann, alcun motivo «per addentrarsi più nei dettagli su questo punto» 73 . Sicuramente il Commento a Geremia per chi è interessato a problemi spirituali alla lunga non è così attraente come la visione complessiva, in sé compatta e originale, di Gioacchino; ma mentre le idee di Gioacchino, per quanto si radichino nella problematica di quel tempo, in fondo nella loro forma originaria potevano incidere solo su sognatori isolati, cólti, nel Commento alcune idee gioachimite di fondo vengono, per così dire, adattate ai princìpi del movimento
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della povertà apostolica veicolato da strati molto più ampi, e solo così diventano davvero storicamente efficaci 74 . A ciò corrisponde la ripresa almeno parziale, nel Commento a Geremia, dell'idea di Gioacchino del ritrarsi e del venir meno del clero nella sua forma attuale. Si parla addirittura della fine della senescente chiesa dei chierici 75 ; in un altro passo si dice che l'ordo clericalis assumerà una forma di vita più rigorosa 76 , laddove evidentemente va intesa una vita secondo princìpi monastici. Qui del resto si menzionano anche i laici, e invero in modo tale da mostrare che i laici nel terzo status non sono affatto destinati a essere completamente assorbiti dal monachesimo 77 . L'istanza principale di questo scritto è dunque una purificazione della chiesa mondanizzata, che va realizzata vincolando tutti gli ecclesiastici a princìpi monastici. Come iniziatori di questa riforma vengono presentati ovviamente soprattutto i due grandi ordini mendicanti, i quali accanto ai cistercensi devono assumere senz'altro anche funzioni ecclesiastiche. Peraltro resta poco chiaro se i chierici siano destinati a essere sostituiti completamente dai tre ordini monastici, oppure se siano destinati a esistere ancora accanto a questi ultimi in forma mutata — solo vivendo secondo princìpi più rigorosi simili a quelli monastici —. Vi sono tuttavia alcuni indizi che attestano che l'autore si sia espresso a favore di questa seconda possibilità, la più moderata. Così è sicuro che il commentatore ha creduto a una continuazione del papato anche nel terzo status-, il che naturalmente rende plausibile anche una continuazione del clero. Mentre secondo Gioacchino nella ecclesia spiritualis perfetta il papa è superfluo, nel Commento a Geremia si dice esplicitamente che l'«universalis antistes» continuerà ad avere la sua sede a Roma dopo la riunificazione della chiesa greca con quella romana, che avviene alla fine del secondo status78. Sotto questo profilo è significativa anche l'asserzione secondo cui dopo le grandi persecuzioni alla fine del secondo status la chiesa non sarà più sottomessa a prìncipi mondani, bensì questi serviranno Cristo e il suo rappresentante, il papa, il quale allora sarà un vero pastore e non più un predone 79 . In un altro passo infine viene espressa l'aspettativa che dopo la morte di un papa nel tempo delle grandi persecuzioni, dopo un certo periodo di vacanza, apparirà un «pastor bonus et dux domus Israel»80. Simili idee dell'autore pseudogioachimita sono state giustamente inserite da Baethgen nella storia dello sviluppo dell'idea del papa angelico 81. Le altre prospettive dell'autore circa il terzo status in questa sede hanno bisogno solo di pochi cenni, perché corrispondono ampiamen-
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te a quelle di Gioacchino. Tra queste rientra l'attesa secondo cui i greci e gli ebrei entreranno nella chiesa romana, e anche i popoli pagani in parte si convertiranno al cristianesimo 82 . Nello stesso tempo comincerà per la cristianità un tempo di tranquillità e di pace: «Relinquetur adhuc sabbatismus populo Dei»83. Peraltro l'idea dello stato terreno di pace non viene ulteriormente sviluppata da questo autore, unilateralmente interessato a problemi ecclesiastici; così come in generale non si dice quasi niente sulla collocazione e sul modo di vita dei laici nel tempo futuro. Il commentatore ha un autentico interesse solo per i rappresentanti della chiesa presente e futura, soprattutto per i nuovi ordini; pertanto l'orizzonte di Gioacchino era senz'altro più universale; in lui il nuovo status è destinato ad apportare una trasformazione davvero ampia e a investire profondamente l'intera cristianità, compresi i laici. Dopo aver tratteggiato il modo nel quale sono destinate ad apparire, secondo il Commento a Geremia, la chiesa e la società nel terzo status, possiamo adesso volgerci alla questione dei processi mediante i quali deve essere distrutto l'ordinamento sopravvissuto e corrotto del secondo status. In proposito bisogna considerare soprattutto il ruolo della violenza e delle forze che eserciteranno questa violenza. Contrariamente a Gioacchino, il quale attende due grandi «tribulationes» nella fase decisiva del cambiamento radicale, nella visione del commentatore sono tre grandi persecuzioni cronologicamente molto vicine tra loro a liquidare lo stato esistente. Anzitutto la chiesa viene pesantemente oppressa e spogliata dei suoi beni mondani dalla nuova Babilonia, intesa qui come l'impero. La seconda persecuzione viene da parte degli eretici, i quali turberanno gli spiriti; e infine i saraceni e i pagani costituiranno una grande sciagura per la cristianità 84 . La seconda e la terza persecuzione corrispondono nella sostanza alle due «tribulationes» attese anche da Gioacchino. Nel Commento a Geremia si è dunque aggiunta la lotta dell'impero contro la chiesa corrotta; qui con tutta evidenza essa svolge un ruolo particolarmente importante nella trasformazione dell'ordine ecclesiastico. In conformità a ciò, questa prima persecuzione della chiesa da parte dell'impero palesemente sta anche in primo piano nell'interesse dell'autore dello scritto, il quale parla a più riprese di questi eventi. Questo scontro è così importante, perché soprattutto mediante esso la chiesa viene spogliata delle sue ricchezze mondane 85 , e quindi viene eliminata la causa principale dell'attuale decadenza dell'ordine ecclesiastico. Proprio perché i prelati e anche i monaci non vogliono perdere la loro ricchezza mondana, devono subire l'oppressione da parte dell'impero 86 , la cui conse-
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guenza sarà il necessario impoverimento della chiesa 87 . Come una volta — sotto Costantino — l'impero contribuì all'innalzamento della chiesa, così adesso le porterà rovina 88 . Dunque nella concezione complessiva del Commento a Geremia lo scontro tra impero e chiesa assolve — del tutto in antitesi con le concezioni di Gioacchino 89 — a una funzione decisiva nella fase di passaggio. Pertanto si può concludere con sicurezza che fu solo la terribile durezza e animosità della lotta, scoppiata nel 1239, tra Federico II e la curia a caratterizzare in tal senso le idee dell'autore del Commento. Che il commentatore avesse dinanzi agli occhi questa lotta di Federico II mentre scriveva le parti relative emerge già dal fatto che il grande imperatore persecutore viene più volte designato come il successore immediato di Enrico VI, cui il Commento è fittiziamente dedicato 90 . Questo successore provocherà la «ruina praelatorum» 91 , cercherà di impedire la predicazione dei viri evangelici che compariranno al suo tempo, e si alleerà persino con gli eretici e i pagani 92 . Il successore di Enrico VI, cioè Federico II, appare dunque come il grande, tremendo persecutore della chiesa; egli, sebbene sia presentato come nemico di Dio, tuttavia contribuisce in maniera decisiva alla vasta, necessaria trasformazione dell'ordinamento ecclesiastico. Egli non è solo uno tra i tanti sovrani entrati in conflitto con la chiesa, bensì è quel personaggio storico che dà il sigillo alla fine del secondo status, proprio come il primo status trova la propria fine con Antioco e il terzo con Gog 93 . Tale classificazione di Federico II pone naturalmente la questione se questo sovrano nel Commento non prenda il posto dell'Anticristo, la cui persecuzione appunto secondo lo schema di Gioacchino conclude il secondo status. In Gioacchino, a dire il vero, l'Anticristo vero e proprio non era un sovrano secolare, ma una specie di pseudopapa 94 . Pertanto sorge la domanda se la lotta di Federico II con la chiesa abbia indotto l'autore del commento a mettere da parte questa concezione di Gioacchino e a indicare come l'Anticristo l'imperatore stesso 95. La posizione del commentatore su questo punto è ambigua. Vi sono passi in cui egli caratterizza Federico in un modo che può essere inteso solo come una identificazione con l'Anticristo. Egli è chiaramente il «rex qui supra quam credi potest universa vastabit» già profetizzato da Daniele (8, 24) 96 ; a lui vengono cioè riferite parole normalmente usate per contrassegnare l'Anticristo. Allo stesso modo il passo della seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 4), usato più volte per caratterizzare l'Anticristo, «siede nel tempio come se fosse Dio», una volta viene
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applicato direttamente a lui e ai suoi eredi 9 7 ; e infine una volta la parola «antichristus» appare in un contesto tale che con essa può essere inteso solo Federico II 98 . In verità nella maggioranza dei casi l'uso delle parole da parte del commentatore non è così univoco. Per esempio, il passo appena citato della lettera ai Tessalonicesi nella maggioranza dei casi non è usato univocamente per il re persecutore; al contrario, viene lasciato in sospeso se il sovrano stesso siederà nel tempio come un dio, oppure se egli insedierà uno pseudopapa, che poi farà ciò al suo posto 9 9 . Di conseguenza non il re stesso, ma lo pseudopapa a lui legato e da lui insediato appare altresì, secondo una prospettiva differente, come il vero Anticristo 10°. Allora il re persecutore funge solo come contemporaneo dell'Anticristo 1 0 1 , e non come l'Anticristo stesso. Questa versione corrisponde fondamentalmente alla concezione gioachimita originaria, ma ciò non cambia in nulla il fatto che nel Commento il re persecutore, anche se non sempre è designato come l'Anticristo stesso, in ogni caso è caratterizzato come stretto alleato dell'Anticristo, e quindi anche come forza anticristiana. Ciò risulta non solo dalla predizione secondo cui il re in persona insedierà quello pseudopontefice 1 0 2 , ma anche dall'indicazione che compare in un altro passo, secondo cui a fianco dell'Anticristo pseudopapale, caratterizzato come capo della «secta falsorum Christianorum et hereticorum», si ergerà 1'«antichristus reipublicae» 103 . Qui dunque si annuncia quella duplicazione dell'Anticristo diffusa nella letteratura profetico-spirituale successiva, e che era stata preparata da Gioacchino; il primo è più un seduttore ecclesiastico, l'altro più un potentato mondano. In ogni caso questo passo manifesta ancora una volta il carattere anticristiano, e quindi apocalittico, che la figura di Federico II aveva agli occhi dell'autore. In proposito è significativo che l'autore del Commento, nonostante la sua severissima critica alla gerarchia ecclesiastica, non manifesti alcuna simpatia per il persecutore della chiesa, e prenda una posizione assolutamente avversa all'impero. In questo senso egli predice che l'impero, nella lotta contro la chiesa, non temerà di fare causa comune con eretici e popoli pagani 1 0 4 . Inoltre i destini successivi dell'impero vengono prefigurati in maniera assolutamente negativa. Tanto l'impero, la nuova Babilonia, opprime massicciamente la chiesa, quanto la sua distruzione è vicina 1 0 5 . Ma con lo scemare della forza dell'impero per i popoli pagani si libera la strada per l'attacco alla cristianità 106 , cioè al conflitto dell'impero con la chiesa fa seguito immediatamente la tribulatio mediante i pagani, i quali schiacceranno soprattutto anche i
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«principes Alemanorum» e in generale l'impero 107. Infine alla conclusione del Commento si trova la predizione secondo cui con Federico II l'impero finirà, e i suoi successori non porteranno più il titolo imperiale 108. In sintesi, per esprimere la tendenza di fondo di questo scritto pseudogioachimita, possiamo asserire che esso conserva sì la dottrina di Gioacchino intorno a un terzo status venturo, ma riprende l'intero complesso di idee di Gioacchino, che è orientato a un superamento e a una spiritualizzazione di tutta la realtà esteriore-corporea, in maniera solo estrinseca e appiattita. Concetti come quello, per esempio, di una spiritualizzazione dei sacramenti sono lontani dall'autore. Perciò sotto molti aspetti in Gioacchino la rottura con la tradizione cattolica è più profonda che nel Commento. Allo stesso modo il commentatore orienta meno la sua attenzione a stabilire in che misura l'inizio del terzo status muterà radicalmente il modo di vivere di tutti i cristiani; invece, sta per lui assolutamente in primo piano la questione in che misura all'interno dell'ordinamento della chiesa, nel senso stretto della parola, avverrà una vasta purificazione, il cui scopo deve essere soprattutto la rinunzia a ogni ricchezza mondana. Questa tendenza orientata a una riforma della struttura esteriore della chiesa nel Commento a Geremia emerge molto più direttamente e immediatamente che in Gioacchino, nel quale i mutamenti della costituzione ecclesiastica appaiono fondamentalmente come un fenomeno secondario di una trasformazione basilare dell'atteggiamento spirituale di fondo, ovvero di un nuovo livello di rivelazione religiosa. Per l'autore del Commento la chiesa spirituale desiderata non è tanto una chiesa spirituale perché essa — come avviene in Gioacchino —, una volta caduto ogni elemento corporeo, permette una visione immediata della verità divina, bensì perché è libera da possesso mondano, da interessi e da avidità mondani. Il concetto di «ecclesia spiritualis» qui non ha tanto un senso mistico-contemplativo, bensì in fondo è un'altra designazione per una chiesa che vive in conformità all'ideale apostolico di povertà. Questo mutamento dell'angolo visuale, che sotto il profilo della storia delle idee si può designare come un restringimento rispetto a Gioacchino, ha come conseguenza che il commentatore pseudogioachimita prende posizione in maniera incomparabilmente più dura di Gioacchino contro la mondanizzazione della chiesa, specialmente contro la gerarchia ecclesiastica. Anche se non dotato di una forza teoretica ardita come quella di Gioacchino, nei suoi attacchi contro l'avidità dei prelati è molto più privo di riguardi. Inoltre il suo orientamento all'ideale di povertà comporta che le sue idee si avvicinino alla sfera rappresen-
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tativa delle correnti popolari contrarie alla chiesa mondanizzata. Legando l'idea di un terzo status imminente e l'ideale apostolico di povertà, la ripresa di simili idee da parte di più ampi movimenti popolari ereticali rientra sempre nel campo del possibile. Peraltro bisogna tenere presente che anche qui come in Gioacchino la prospettiva sempre rivolta ai due ovvero ai tre ordini monastici, che saranno portatori del nuovo, impedisce la vasta incidenza del Commento, e nel contempo attenua necessariamente la rottura tra la chiesa attuale e la chiesa purificata del terzo status. In realtà gli attesi ordini monastici sono sempre già una parte della chiesa attuale. È innegabile che l'autore, nonostante tutte le critiche, si sforza di rimanere sul terreno della dottrina ecclesiastica. In questo senso depone tra l'altro la sua aspra presa di posizione contro gli eretici, che egli al pari di Gioacchino bolla come alleati e complici dell'Anticristo 109 . Allo stesso modo è significativo che egli consideri anche l'impero, per quanto necessaria sia la sua lotta contro la chiesa mondanizzata, come una potenza anticristiana destinata al declino 110 . Solo la chiesa ha durata permanente, anche se in forme mutate. Sotto questo profilo l'autore del Commento a Geremia sostiene gli stessi principi di Gioacchino da Fiore. Entrambi considerano il fattore violenza come necessario al superamento dell'ordine esistente corrotto, ma agli occhi di entrambi questo fattore è un male, anche se un male necessario. Pertanto né da Gioacchino né dal Commento a Geremia poteva partire un appello di mobilitazione alla lotta aperta contro l'ordine ecclesiastico corrotto. Si potrà dire solo così: il fatto che nella visione dell'autore pseudogioachimita non solo i pagani e gli eretici — come in Gioacchino — siano le forze persecutrici del tempo di svolta decisivo, ma anche l'impero si inserisca in questa funzione, doveva avere come conseguenza che il Commento mantenne una relazione più stretta, di quanto non fosse per gli scritti di Gioacchino, con la situazione politica dell'Occidente. Ciò dovette rafforzare l'incidenza politica del Commento, e potè contribuire a coinvolgere sempre più profondamente negli scontri politici e spirituali le idee gioachimite fondamentali circa l'inizio di una nuova epoca con una chiesa purificata, e quindi a introdurle ulteriormente nell'opinione pubblica. Dunque il Commento a Geremia, accentuando l'idea di povertà e accrescendo il significato dell'impero, operò un'attualizzazione delle idee gioachimite fondamentali, e pertanto potè contribuire a far conoscere queste idee in cerchie più ampie di pubblico. In verità in un primo tempo si avverte poco una simile diffusione delle idee di Gioacchino. Il fatto che sia in Gioacchino sia nel Com-
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mento a Geremia l'autentico nuovo sia rappresentato esclusivamente dagli ordini monastici implica che queste idee prendano saldamente piede soprattutto in cerchie monastiche. Come ho già ricordato, molti elementi depongono a favore di un'origine del Commento a Geremia all'interno dell'ordine minorità; le notizie ulteriori testimoniano inequivocabilmente che la dottrina di Gioacchino circa l'inizio di un nuovo status venne accolta avidamente soprattutto in quest'ordine. Nell'ordine francescano i presupposti erano in questo senso particolarmente favorevoli; infatti la realizzazione incondizionata dell'ideale apostolico di povertà da parte di Francesco e l'asserita identità della Regola dell'ordine con i princìpi evangelici promuovevano tra i membri dell'ordine la convinzione di aver avviato un vero nuovo inizio all'interno dello sviluppo ecclesiastico, e di essere chiamati a una vasta purificazione della chiesa da tutti i mali. Poiché l'ideale della vita apostolica era molto più radicato nell'ordine francescano che nell'ordine domenicano, non meraviglia che presso i minoriti i presupposti perché si affermasse la convinzione di essere uno dei due ordini del terzo status fossero sostanzialmente più favorevoli che all'interno dell'ordine dei predicatori 111 . Così avvenne che le idee gioachimite all'interno dell'ordine francescano si mantennero tenacemente in vita. Il più antico circolo gioachimita chiaramente individuabile all'interno dell'ordine francescano è il gruppo formatosi attorno a Ugo di Digne in Provenza. Su di esso ha dato informazioni soprattutto Salimbene, che nel 1248 visitò il confratello Ugo a Hyères, presso Marsiglia112. Secondo Salimbene, Ugo era un grande predicatore e un «magnus Joachita»113, che possedeva tutti gli scritti di Gioacchino 114 , tra i quali egli ricorda di passaggio in particolare l'«expositio super IV evangelistas» 115. Merita attenzione che attorno a Ugo di Digne si sia raccolto un gruppo di notai, giudici, medici e altri laici istruiti, per sentire parlare della dottrina di Gioacchino e per riceverne un'interpretazione 116 . Non è dunque la larga massa della popolazione, bensì un ristretto gruppo di «intellettuali», a sentirsi in un primo tempo attratto dalle idee di Gioacchino. Ciò non è sorprendente se si considera il carattere della concezione di Gioacchino, che in nessun modo era intonata alle istanze delle masse oppresse della popolazione. Viceversa è senz'altro evidente che laici cólti, con atteggiamento critico, i quali senza dubbio erano sdegnati per le condizioni ecclesiastiche esistenti, ma non erano neanche lontanamente inclini né capaci di combattere con la violenza contro di esse, fossero interessati e aperti alle idee di Gioacchino. Purtroppo non sappiamo quasi nulla di come Ugo interpretasse nello specifico le idee di Gioacchino, giacché gli scritti che di lui si tra-
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mandano non dimostrano nessuna particolare caratteristica gioachimita 117 . Essi mostrano solo che egli sosteneva incondizionatamente l'ideale francescano originario di povertà; e ciò appunto emerge anche dalla descrizione di Salimbene, che nel dettaglio è sicuramente imprecisa, ma in rapporto al fenomeno complessivo costituito da Ugo è assai corretta; egli mette in bocca ai minoriti provenzali un discorso estremamente duro contro l'avidità e gli interessi mondani dei cardinali118. Una indicazione peraltro poco attendibile ci è offerta dalla Historia septem tribulationum di Angelo Clareno, composta in epoca notevolmente posteriore; in essa viene tramandata una profezia che va sotto il nome di Ugo 119 . Secondo questa tradizione Ugo avrebbe predetto tra l'altro che l'ordine francescano si sarebbe diviso in due gruppi, e i domenicani avrebbero aspirato ai beni mondani, ma che alla fine sarebbe comparso un altro nuovo ordine, \'ordo catenatorum, il quale sarebbe stato così perfetto che in confronto i minoriti e i frati predicatori sarebbero rimasti completamente indietro. Naturalmente è difficile dire se queste profezie almeno nel loro nocciolo risalgano a Ugo di Digne. Ciò non pare del tutto escluso, perché Ugo palesemente ebbe un certo ruolo nella nascita dell'ordine dei «frati col sacco» (.saccati) 12°, un ordine che chiaramente voleva superare in rigore gli stessi minoriti. Del resto in quel tempo, soprattutto sotto il generalato di Giovanni da Parma (1247-1257), che a sua volta era un «magnus Joachita»121, le concezioni gioachimite trovarono ampia diffusione nell'ordine francescano 122, e ovviamente non solo all'interno dell'ala rigorista, attaccata alle prescrizioni originarie di Francesco d'Assisi. Così allora anche Salimbene, che era tutt'altro che un propugnatore senza compromessi dell'ideale originario di Francesco, confidò nelle previsioni gioachimite o pseudogioachimite circa il futuro 123. In questi circoli godeva di grande popolarità soprattutto il Commento a Geremia, certo non ultimo perché in esso il grande ruolo dei due ordini, in particolare dell'orbo minorum, era descritto in maniera ancora più incisiva e più calzante agli ordini mendicanti che negli scritti autentici di Gioacchino, e pertanto lusingava al massimo i francescani124. Soprattutto questo scritto prometteva ai due nuovi ordini il trionfo sul clero secolare, il cui rapporto con i minoriti era stato ben presto turbato da tensioni e meschine gelosie 125. Sarebbe perciò completamente sbagliato voler vedere in ogni stimolo gioachimita all'interno dell'ordine francescano una negazione di principio dell'ordine ecclesiastico esistente. In realtà molte volte non si trattava affatto di un rigetto radicale del vecchio, bensì spesso era decisiva solo l'invidia dei frati nei confronti del clero
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secolare. Perciò in numerosissimi casi è senza dubbio calzante il giudizio di Smirin, secondo cui i francescani «videro nelle dottrine di Gioacchino uno strumento per i loro intenti» 126 . D'altra parte però non si può negare che le dottrine gioachimite circa il superamento della chiesa dei chierici presero piede principalmente nell'ala rigorista all'interno dell'ordine francescano. Come Ugo di Digne, anche il gioachimita Giovanni da Parma si schierò per i princìpi sostenuti da Francesco 127. Perciò non c'è da meravigliarsi se in questi circoli francescani le dottrine gioachimite furono sviluppate in un senso molto pericoloso per la chiesa. In questo contesto va menzionato anzitutto Gerardo di Borgo S. Donnino. Egli era già un coerente propugnatore delle idee di Gioacchino tra il 1247 e il 1248, quando Salimbene lo incontrò a Provins 128. Nel 1254 divenne noto a Parigi il suo Introductorius ad evangelium aeternum 129, uno scritto di introduzione a un'edizione delle tre opere principali di Gioacchino, le quali quindi venivano comprese, in antitesi alle stesse opinioni di Gioacchino, come evangelium aeternum 13°. Naturalmente per i circoli ecclesiastici la concezione secondo cui le tre opere principali di Gioacchino, in quanto «vangelo eterno» nel terzo status, dovessero in qualche modo subentrare al Nuovo Testamento era ancora più intollerabile della dottrina originaria di Gioacchino, secondo cui nel terzo status la sacra Scrittura dovrebbe avere valore non più nella sua forma letterale, bensì nel suo senso spirituale più profondo 1 3 1 . Dietro reclamo dei professori parigini, che col loro procedimento contro Gerardo speravano insieme di respingere il crescente influsso degli ordini mendicanti nell'attribuzione delle cattedre di insegnamento 132, papa Alessandro IV nel 1255 insediò ad Anagni una commissione per esaminare le opinioni di Gerardo. La conseguenza fu che nello stesso 1255 il papa condannò l'Introductorius e Gerardo venne imprigionato a vita 133 . Purtroppo l'Introductorius di Gerardo, che potrebbe aver coerentemente presentato le sue concezioni, non ci è pervenuto 134. Così solo le glosse tramandate di Gerardo alle opere di Gioacchino 135, le frasi invero non del tutto attendibili estrapolate dai professori parigini 136 e il Protocollo della commissione di Anagni, nel quale si rimanda diverse volte ali 'Introductorius e alle glosse, offrono alcuni indizi per tentare di confrontare le idee di Gerardo con quelle di Gioacchino. Qui non è necessario soffermarsi ulteriormente sul fatto già ricordato che Gerardo, in antitesi alla concezione spirituale di Gioacchino circa l'evangelium aeternum, concepisce gli stessi scritti di quest'ulti-
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mo come Yevangelium aeternum. Va rilevato solo che per tale motivo la collocazione del Nuovo Testamento in rapporto al terzo status viene svalutata ancora di più di quanto non avvenga in Gioacchino 137 . Inoltre da questa concezione di Gerardo consegue che Gioacchino, in quanto autore delYEvangelium aeternum, cioè del Vangelo del terzo status, diventa l'autorità normativa del tempo futuro. In verità secondo Gerardo non è Gioacchino soltanto che è destinato a caratterizzare il terzo status. Come il primo e il secondo status sono stati aperti e improntati ciascuno da tre iniziatori, cioè da Abramo, Isacco e Giacobbe con i suoi dodici figli da un lato, e da Zaccaria, Giovanni il Battista e Gesù con i suoi dodici apostoli dall'altro, così anche nel terzo status daranno l'impronta tre personalità. Esse vengono simboleggiate dall'uomo in vesti di lino di Daniele (12,7), dall'angelo con la falce tagliente (Ap 14,14), e dall'angelo con il sigillo del Dio vivente (Ap 7 , 2 ) 1 3 8 . Con ciò vengono intesi chiaramente Gioacchino, Domenico e Francesco 139 . Gerardo ha sviluppato energicamente soprattutto il significato di Francesco; è col suo aiuto che Dio rinnova la vita apostolica 14°; egli assume in rapporto al terzo status il posto che Cristo ebbe nel secondo status. In questo contesto si mostra tra l'altro che anche in Gerardo svolge un ruolo considerevole l'interesse del francescano per il proprio ordine. Palesemente Gioacchino da Fiore acquista un significato così eminente, tra l'altro, perché la sua dottrina era atta ad assegnare ai nuovi ordini monastici il posto guida in una nuova epoca. Così Gerardo nell'Introductorius dichiara che la cura dell'evangelium aeternum verrà affidata a un ordo nudipedum, che sarebbe emerso dall'orbo laicorum e dall'ordo clericorum 141 . È da ipotizzare che quest'ordine, che palesemente si raccorda agli ideali originari del francescanesimo, sia destinato praticamente ad assumere i compiti finora svolti dal clero, e quindi a sostituirlo 142 . Il fatto che Gerardo ritenesse corrotta la chiesa clericale nella sua situazione attuale, e che pertanto essa dovesse essere sostituita, emerge anche da ciò: egli — analogamente all'autore del Commento a Geremia — concepisce l'Anticristo come uno pseudopapa colpevole anzittutto di simonia 143 . Egli è l'autore della più pericolosa di quelle due persecuzioni che nel passaggio dal secondo al terzo status si abbatteranno sulla cristianità, cioè della tribulatio in spiritualibus. Un'altra persecuzione, che avviene poco tempo prima, il cui inizio è atteso per il 1260 circa, viene contrassegnata come «tribulatio in corporalibus et temporalibus»144. Ciò corrisponde allo schema usuale, che già è accennato in Gioacchino e che nel Commento a Geremia emerge con ogni evidenza: prima si scatena una perse-
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cuzione prevalentemente caratterizzata da un uso della violenza esteriore; essa è opera o di re pagani (così Gioacchino) o dell'imperatore (così il Commento a Geremia)145; poi segue una tribulatio che seduce soprattutto gli spiriti, la persecuzione dell'Anticristo vero e proprio, il quale è raffigurato come uno pseudopapa o un papa eretico, corrotto. Una differenza illuminante tra la visione originaria di Gioacchino circa il decorso degli eventi futuri e quella di Gerardo consiste in questo: secondo Gioacchino la grande persecuzione cade nella generazione, incerta nella sua durata, quarantunesima e quarantaduesima, mentre secondo Gerardo questi avvenimenti appartengono all'immediata prossimità del 1260. Il 1260 perciò diventa essenzialmente l'anno fissato per l'avvento dell'Anticristo, mentre secondo Gioacchino esso doveva indicare propriamente già la conclusione di tutte le persecuzioni. Questo spostamento di accento si spiega ovviamente col fatto che per il tempo di redazione dell'evangelium aeternum, dunque il 1254, l'anno decisivo 1260 era già alle porte. In sintesi possiamo dunque affermare che la concezione gioachimita di Gerardo era intollerabile per la chiesa soprattutto perché egli non si era più sforzato, come Gioacchino, di presentare la nuova dottrina circa il terzo status come una spiritualizzazione e uno svelamento perfetto della tradizione ecclesiastica fino allora vigente; al contrario, egli dichiara senza mezzi termini che il Nuovo Testamento avrebbe perduto la sua validità nel 1260, e al suo posto sarebbe subentrato Vevangelium aeternum composto da Gioacchino 146. In verità non bisogna certo immaginare come troppo grande la capacità espansiva di queste idee, che sotto il profilo teoretico erano davvero ardite 147. In questo senso depone tra l'altro il fatto che due poeti particolarmente vicini al sentire medio della borghesia, cioè Rutebeuf e Jean de Meung, appaiono come duri avversari degli ordini mendicanti, e specialmente dei gioachimiti francescani 148 . Gerardo è in prima linea un teologo erudito ovvero un «intellettuale», che è in dissidio con il suo tempo, in special modo con la chiesa mondanizzata, criticata da ogni parte, e perciò cerca di dare una forma comprensibile, e corrispondente agli ideali francescani, all'idea sviluppata da Gioacchino circa un nuovo, perfetto evangelium aeternum. Quale tipico intellettuale egli cerca di risolvere la problematica del suo tempo sulla base del concetto di evangelium aeternum che lo affascina, senza considerare quali forze reali fossero disponibili o atte a mettere fine alla corrotta chiesa dei chierici l49 . Pertanto l'autore del Commento a Geremia — in cui sta assolutamente in primo piano la poderosa critica, senza dubbio popolare e talvolta carica di efficacia quasi eversiva, delle manifestazioni di deca-
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denza all'interno della chiesa — è senz'altro più vicino al sentire di cerchie più vaste che non, per esempio, Gerardo, le cui idee ruotano attorno al concetto di evangelium aeternum. Le idee di Gerardo quindi fanno intravvedere chiaramente che esse sono invece cresciute anzitutto nel terreno dell'erudizione teologica medievale, specialmente nel terreno dell'università di Parigi. Pertanto non è strano che le idee gioachimite, nella forma data loro da Gerardo, siano sparite dopo la sua condanna. Infatti non erano affatto adatte a una ripresa da parte di movimenti popolari più vasti, ereticali, e i circoli degli spirituali francescani erano fin troppo cauti, nonostante tutte le critiche nei confronti degli abusi ecclesiastici, per continuare a sostenere una dottrina dichiarata ufficialmente eretica. Così non fu l'orientamento inaugurato da Gerardo a incidere ulteriormente, bensì furono in primo luogo le idee e le tendenze del Commento a Geremia che, con leggere modifiche, rimasero sempre vive. Per esempio, nello stesso tempo in cui si segnalava Gerardo, ovvero p o c o tempo dopo, ebbe origine il gioachimita Liber de oneribus prophetarum. Come il Commento a Geremia, anche questo testo si presenta scritto da Gioacchino e diretto all'imperatore Enrico VI 15 °. Come nel Commento a Geremia anche qui si trovano aspre invettive contro la chiesa mondanizzata o contro il clero secolare corrotto. I cardinali e i «presules» sarebbero ciechi per orgoglio e avidità 1 5 1 , e i cardinali, a causa della loro cupidigia per i beni temporali, dovrebbero chiamarsi più che altro «carpinales» — derivato da carpere = divorare — , senza dubbio un gioco di parole facilmente memorizzabile e che contava sull'impatto nel pubblico 152 . Tuttavia è complessivamente innegabile una certa moderazione. Manca l'equiparazione della chiesa alla Babilonia o la sua designazione come meretrice. La dottrina dei tre status di Gioacchino viene sì ripresa, ma disinnescata e resa compatibile con i princìpi ecclesiastici, attraverso l'esplicita affermazione che, certo, l'Antico Testamento ebbe un solo status, cioè il tempo sino a Cristo, ma viceversa il Nuovo Testamento ne ha due 153 , cioè il secondo e il terzo status, e quindi avrà validità illimitata sino al giudizio finale. Inoltre manca completamente il concetto di «evangelium aeternum», che compariva ancora nel Commento a Geremia, anche se non nel senso di Gerardo, ma piuttosto in corrispondenza alla concezione dello stesso Gioacchino. L'accenno esplicito alla validità del Nuovo Testamento nel secondo e terzo status dà pertanto quasi l'impressione che l'autore abbia preso consapevolmente le distanze dalle dottrine di Gerardo dichiarate eretiche 154 ;
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questo sarebbe eventualmente un indizio a favore di una composizione del Liber de oneribus non anteriore al 1255 155. Un tema dominante nel Liber de oneribus è — come nel Commento a Geremia — la lotta tra Federico II e la chiesa. Evidentemente l'autore, che scrive pochi anni dopo la morte dell'imperatore, è ancora completamente sotto l'impressione di questo scontro violento. L'erede di Enrico VI, cioè Federico II, svolge all'inizio del terzo status lo stesso ruolo svolto dal faraone all'inizio del primo status e da Erode all'inizio del secondo 156 . Egli è il drago dell'Apocalisse, che Dio ha scelto per castigare la chiesa che sprofonda in un'ingiustizia sempre crescente, ovvero egli corrisponde specialmente alla settima testa del drago, che designa la settima e ultima persecuzione della chiesa prima della comparsa di Gog alla fine del mondo 1 5 7 . Siccome questo settimo re persecutore in un altro passo è indicato esplicitamente come Anticristo 158 , si deduce con chiarezza che qui Federico II, secondo l'opinione diffusa nei circoli gioachimiti francescani 159 , viene concepito come l'incarnazione dell'Anticristo. Del resto questa persecuzione anche qui viene indicata come conseguenza necessaria e voluta da Dio della mondanizzazione e della caduta morale all'interno della chiesa l6 °. Il re persecutore nella sua azione contro la chiesa lavorerà in stretta alleanza con i saraceni e gli eretici, i patareni 161 , come del resto in parti del suo regno si potranno incontrare numerosi saraceni e patareni 162 . Tuttavia la forza dell'impero avrà solo durata limitata. Anzitutto l'autore accenna alle crescenti difficoltà cui venne esposto Federico II dopo il 1245 l63 ; allo stesso modo si trovano allusioni alla fine dell'imperatore l64 , che chiaramente avvenne prima della composizione del Liber de oneribus. Peraltro con la morte di Federico II non sono affatto finiti tutti i pericoli per la chiesa. Siccome l'imperatore all'epoca della stesura del Liber de oneribus era già morto, ma l'anno decisivo della svolta, il 1260, non era ancora giunto, Federico non poteva restare l'unico persecutore della chiesa del tempo finale del secondo status. Ma non per questo l'autore era disposto a indebolire il ruolo così tremendo di Federico per la chiesa, e di negargli a favore di un altro il carattere di Anticristo; egli trovò pertanto la soluzione nell'ipotesi che Federico II avrebbe avuto un continuatore, diretto e di uguale carattere, della sua opera, il quale avrebbe portato a termine il castigo e la purificazione della Chiesa che ancora rimaneva da operare. Questo continuatore sarebbe stato un Federico III l65 , laddove l'autore probabilmente pensava al figlio dell'imperatore, Federico di Antiochia, morto nel 1258. Questa potrebbe essere la prima testi-
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monianza della concezione, in seguito largamente diffusa, secondo cui un terzo Federico sarebbe stato l'ultimo grande persecutore anticristiano che avrebbe purificato la chiesa. Qui si vede che la figura di Federico II nell'opinione pubblica si era unita strettamente al ruolo di colui che avrebbe punito e purificato in maniera decisiva la chiesa. Solo per tale motivo, dopo la sua morte, poiché risultò evidente che egli non aveva potuto svolgere pienamente questo ruolo, fu ovvio che soltanto una personalità perfettamente simile alla sua, cioè un nuovo terzo Federico in cui sopravvivesse il secondo Federico, poteva portare a compimento la sua orribile opera. L'ultima incarnazione dell'Anticristo abbraccia quindi in qualche modo due figure fondamentalmente identiche, il secondo e il terzo Federico. Questa soluzione consente di non ridimensionare l'opera di Federico II, e tuttavia nel contempo di lasciare al futuro il compimento della sua opera. Dopo la definitiva punizione della chiesa per mezzo di quel Federico III, secondo le ulteriori indicazioni del Liber de oneribus ì'imperium germanorum, che ha quasi portato alla rovina la navicella di Pietro, cioè la chiesa, andrà esso stesso in rovina 1 6 6 . Quindi nel 1260 avrà finalmente termine ogni travaglio della chiesa, il popolo cristiano diventerà libero, e tutti i re del mondo saranno domati e sottomessi allo scettro di Cristo l 6 7 . Ancora una volta il fattore decisivo di questo tempo di pace — analogamente a quanto risulta negli altri scritti profetici ricordati, provenienti da circoli monastici — non è un sovrano temporale ovvero un imperatore degli ultimi tempi, ma sono forze ecclesiastico-religiose che danno l'impronta a questo tempo. Soprattutto sono ancora una volta due nuovi ordini monastici, che svolgono un ruolo essenziale già nell'abbattimento del draco, dunque di Federico II, e purificheranno la cristianità da tutti i vizi l68 . È del tutto ovvio che con questi due ordini si intendano i due grandi ordini mendicanti; infatti si dice espressamente che sono sorti nel sesto tempo del Nuovo Testamento, dunque dopo il 1200, nella quarantunesima generazione 169 ; ma questo è proprio il tempo in cui hanno avuto origine gli ordini mendicanti. Quale significato l'autore del Liber de oneribus assegni a questi due ordini appare in maniera inequivocabile nella determinazione cronologica della piena apertura del terzo status. La fioritura del terzo status, la cui inceptio è posta, come in Gioacchino, al tempo di papa Gregorio I, deve iniziare, secondo la sua visione, già con il 1200, non solo col 1260 170 . La svolta decisiva quindi avviene intorno al 1200, in una data dunque precedente alla redazione dello scritto. Ciò che si verifica in seguito, soprattutto l'inizio di un tempo di pace subito dopo
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il 1260, è in fondo molto meno importante di ciò che avvenne poco dopo il 1200, quando apparvero i due ordini mendicanti. Secondo l'autore, dunque, le trasformazioni decisive sono già avvenute. Ciò che è ancora necessario è al massimo un riconoscimento e una realizzazione universale dei princìpi professati dagli ordini mendicanti, laddove non viene neppure espressa l'attesa che il clero cessi di esistere completamente, o almeno nella forma in cui esisteva finora. La riduzione di tutta l'attesa gioachimita circa un terzo status ad alcune istanze elementari degli ordini mendicanti ha raggiunto in questo scritto un punto culminante o meglio: un punto basso. Nel contempo la grande trasformazione del mondo viene in sostanza ritenuta una realtà del passato. Per questa via l'idea gioachimita di fondo diventa ancora più innocua e perde gran parte della sua intrinseca forza eversiva. Al contrario, per esempio, di un Gerardo di Borgo S. Donnino, il quale inaspriva in senso eretico le idee di Gioacchino, l'autore del Liber de oneribus, nonostante gli attacchi alla gerarchia mondanizzata, francamente obbligatori per dei francescani, rimane in sostanza nel quadro delle concezioni ecclesiastiche. Di conseguenza in questo scritto non troviamo neppure un cenno alla maniera in cui la chiesa del terzo status si debba distinguere da quella del secondo, e di come propriamente debba apparire il terzo status. Qui dunque il terzo status non si distingue dal secondo così chiaramente come, per esempio, negli scritti di Gioacchino o di Gerardo. Anche il Commento a Geremia non aveva indebolito in tale maniera l'idea fondamentale di Gioacchino circa il nuovo status venturo 171 . Si ricollega in misura maggiore alle tendenze di fondo del Commento a Geremia il Commento a Isaia, scritto senz'altro qualche tempo dopo il Liber de oneribus, e che circolò ugualmente sotto il nome di Gioacchino 172. Vi ritroviamo l'aspra critica alla chiesa che caratterizza tutti questi scritti. L'avidità e la superbia smodate dei prelati hanno raggiunto una misura tale che con esse viene guastata anche la purezza degli altri 173 . Quasi tutti i chierici e i monaci si sono allontanati dal sentiero della giustizia174; la curia papale supera tutte le altre corti nelle falsificazioni del diritto e nell'estorsione del denaro 175. In antitesi al prudente Liber de oneribus qui viene espressa, in maniera quasi più aperta che nel Commento a Geremia, l'opinione che la chiesa romana sia diventata Babilonia, meretrice 176. Analogamente a quanto avviene nel Commento a Geremia e nel Liber de oneribus, anche al centro del Commento a Isaia c'è l'attesa che pesanti, ma necessarie persecuzioni, soprattutto da parte dell'impero, provocheranno una purificazione della chiesa 177 . In proposito
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un ruolo decisivo è svolto ancora una volta dalla lotta di Federico II contro la chiesa, una lotta che ha agitato gli spiriti del XIII secolo; l'autore la ritrae retrospettivamente alla maniera pseudoprofetica, chiamando più volte direttamente per nome Federico II, al contrario del Commento a Geremia, che meglio salvaguardava la fittizia autenticità gioachimita 178 . Che questo scritto sia stato composto solo dopo la morte di Federico II emerge tra l'altro anche dal fatto che fin dal principio lo scontro decisivo, quello che conclude il secondo status, tra impero e chiesa non è messo in connessione esclusiva con la persona di Federico II, ma vengono conseguentemente presi in considerazione anche i suoi successori. Non soltanto Federico II, ma anche i suoi successori rappresentano la settima testa del drago apocalittico, sotto il quale è introdotta l'ultima persecuzione della chiesa prima dell'inizio del terzo status179. Lo sforzo dell'autore, di legare questa grande tribolazione della chiesa non soltanto alla persona di Federico II, si esprime anche nell'accenno che tra la persecuzione della settima testa del drago e quella dell'Anticristo vero e proprio bisogna fare una distinzione. «Chiunque governerà in luogo della settima testa del drago, questi varrà come precursore dell'Anticristo»180. Per quanto concerne questo vero Anticristo, viene espressa la previsione che nascerà in Italia, nei territori sotto la sovranità tedesca, e che poi infierirà soprattutto contro la chiesa 181 . Infatti a cominciare dagli antenati dell'aquila, che designa Federico II, e passando per i suoi successori fino all'Anticristo, non cesserà mai lo spargimento di sangue tra i «santi» 182. Da differenti cenni risulta con sicurezza che nella visione dell'autore anche quest'ultimo persecutore, l'Anticristo vero e proprio, non sarà — come è ancora nel Commento a Geremia — una sorta di pseudopapa, bensì un rappresentante del potere imperiale e un membro della casa imperiale sveva 183 . Ciò diviene particolarmente chiaro se consideriamo che un altro simbolo del vero Anticristo è la figura del regulus, ripresa dal libro di Isaia (Is 30,6) 184 ; del regulus si dichiara espressamente che vendicherà il torto fatto al padre 185 — e con ciò viene inteso Federico II. Da questo passo si può quindi dedurre che l'Anticristo sarà un figlio di Federico II. Ciò viene confermato da un'altra asserzione, secondo cui l'impero sarà ridimensionato sotto un successore di Federico II — chiaramente si intende Corrado IV —; ma del «semen aquile», cioè dei figli dell'imperatore, rimane uno «ad flagellum»186; laddove ancora una volta è da intendere ovviamente l'Anticristo. Ciò dimostra che l'autore inclina a credere che Manfredi, figlio di Federico II, sia l'Anticristo 187; infatti Manfredi di Sicilia dopo il
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1258 era l'unico figlio sopravvissuto di Federico II, se si prescinde da Enzo che era prigioniero. Accanto alla persecuzione da parte dell'impero i popoli cristiani dovranno subire anche l'assalto degli eretici, come pure dei saraceni e di altri popoli pagani 188 . Ma con la rovina dell'Anticristo tutti gli imperi di questo mondo, anche Yimperium romanum, cadranno 189 ; poi quasi tutto il mondo si convertirà alla fede cristiana e troverà pace 190 . Il periodo che allora rimane fino al giudizio universale sarà certo ricco per il contenuto, ma breve nella sua durata 191 . Dunque anche nella visione dell'autore del Commento a Isaia — come già in Gioacchino — il terzo status è solo un tempo di preparazione, relativamente breve, per il giudizio finale. Ovviamente l'autore sposta l'inizio definitivo di questo tempo di pace dal 1260, fino allora usualmente indicato, al 1290 192; lo si può giudicare come un indizio che questo scritto fu composto solo dopo il 1260, mentre d'altra parte a motivo del ruolo assegnato a Manfredi di Sicilia si può dire con una certa sicurezza che il commento fu redatto prima della sconfitta e della morte di Manfredi nel 1266. Nella descrizione del nuovo che il terzo status è destinato a portare, il Commento a Isaia, analogamente al Commento a Geremia, si riallaccia ancora una volta direttamente alle idee originarie di Gioacchino, diversamente dal Líber de oneribus, che a questo aspetto non accenna neppure. Viene ripreso il concetto di «spiritualis intellectus» 193 ; esso penetrerà l'oscurità della lettera e condurrà a una «patefactio scripturarum», così come alla piena conoscenza della verità 194 . Contestualmente la vita contemplativa subentrerà al posto della vita activa195. Invece dell'«ecclesia saecularium clericorum» prenderà vigore la «religiosa collectio», dunque una comunità che vive secondo regole monastiche 196 . Ancora una volta questa trasformazione radicale della vita ecclesiastica sarà provocata anzitutto da due nuovi ordini, il cui ruolo è ben evidenziato anche dal Commento a Isaia 197. Essi sono destinati a sorgere — in pieno accordo con le indicazioni del Commento a Geremia e del Liber de oneribus — nel corso della generazione che comincia con il 1201 198, sicché ancora una volta non c'è dubbio che vengano intesi i due ordini mendicanti. Che la loro istanza centrale sia l'idea di povertà viene evidenziato dal fatto che essi sono destinati a comparire vestiti di sacco 199. Loro compito sarà ricondurre gli uomini sul sentiero della fede, con la loro predicazione soprattutto contro gli eretici 200 . Palesemente dunque l'autore pensa che questi due ordini reprimeranno il clero secolare nella sua forma tradizionale, anzi egli dichiara
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addirittura che essi ridurranno al silenzio i chierici 2 0 1 . Anche l'autore di questo scritto quindi non pensa affatto a fare causa comune con gli eretici o con l'imperatore che sottrae alla chiesa i suoi beni temporali, ma persegue soprattutto l'obiettivo di rafforzare la posizione degli ordini mendicanti a spese del clero secolare 2 0 2 . La chiesa del terzo status deve essere una chiesa in cui gli ordini mendicanti diano il tono, e le regole da essi professate ottengano validità universale. In sintesi, a proposito dei tre scritti pseudogioachimiti esaminati in questo capitolo, il Commento a Geremia, il Commento a Isaia e il Liber de oneribus, possiamo affermare che essi, nonostante certe differenze di sfumature, in sostanza sono caratterizzati dalla stessa tendenza di fondo. Collegandosi alle idee di Gioacchino, essi attendono l'inizio di una nuova epoca del mondo, del terzo status, nella quale al posto della chiesa dei chierici, mondanizzata e corrotta, subentra un nuovo ordinamento ecclesiastico, in cui due nuovi ordini monastici hanno un ruolo-guida, in modo più o meno incondizionato. Siccome in tutti e tre gli scritti si dichiara che questi ordini dovrebbero nascere poco dopo il 1200, moltissimi indizi fanno ritenere che si intenda parlare dei due grandi ordini mendicanti. A questo proposito è innegabile che un intento essenziale di queste opere sia quello di accrescere il credito degli ordini mendicanti, e di rinsaldare la loro posizione all'interno della chiesa. Pertanto si è tentati di dire che il significato di questi scritti si esaurisca nel riflettere i sentimenti di concorrenza e le tensioni tra i due ordini mendicanti, in particolare tra i francescani da un lato e il clero secolare dall'altro; essi non sarebbero dunque altro che un'espressione di conflitti ecclesiastici interni. Ma tale giudizio sarebbe corretto solo fino a un certo punto. Infatti le tensioni che si aprirono tra la chiesa mondana e il francescanesimo sono solo in parte una questione puramente intraecclesiale; per un'altra parte sono invece in ultima istanza espressione del grande scontro, che coinvolgeva larghi strati popolari, per una chiesa migliore, purificata. Solo su questo vasto sfondo si può capire lo sviluppo dell'ideale francescano di povertà; e ciò significa che negli ideali francescani, per quanto celati e disinnescati, sono contenuti appunto elementi di un'opposizione di principio all'ordine ecclesiastico esistente, e quindi in definitiva contro l'ordine sociale. Pertanto in ogni singolo caso bisogna chiarire in che misura spuntino quegli elementi di un'opposizione di principio, oppure in che misura entri in gioco essenzialmente solo l'astio concorrenziale nei confronti del clero secolare da parte del francescanesimo, fiero sì del suo ideale di povertà, ma in fondo integrato nella chiesa. È stato già detto che, per esempio, nel Liber de oneribus
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tutti i sintomi di un'opposizione radicale sono repressi. Qui parla un gioachimita che si sforza sempre di non superare il limite dell'ordine dominante. Allo stesso modo possiamo immaginare che Salimbene, fino a che fu egli stesso veramente un gioachimita, sia stato tutt'altro che un oppositore radicale della chiesa nella sua struttura di allora 203 , per quanto ancora nella sua Cronaca scritta negli anni Ottanta inserisca diverse volte critiche assai aspre al clero mondanizzato, e non lasci adito a dubbio che i minoriti siano migliori dei chierici 204 . Ma sarebbe falso misurare il significato dei gioachimiti francescani della metà del XIII secolo esclusivamente su personalità come Salimbene o sul Liber de oneribus. Infatti l'ideale francescano di povertà, sviluppato fino alla conseguenza estrema, era inconciliabile con la struttura della chiesa romana. Pertanto un collegamento di questa istanza di povertà, acuita fino alle conseguenze ultime, con le attese gioachimite di un nuovo status poteva condurre a un'autentica minaccia per l'ordine ecclesiastico. Di fatto sia il Commento a Geremia sia il Commento a Isaia si distinguono per una ardita critica alla gerarchia ecclesiastica, e il terreno su cui si radica tale critica è senza dubbio un vero entusiasmo per l'ideale di povertà. Tuttavia gli autori non osano porsi fuori della chiesa e da una simile posizione mettere in questione apertamente e senza riguardi le fondamenta dell'ordine ecclesiastico. Essi non pensano neanche lontanamente a collaborare con i veri nemici della chiesa, per esempio con il persecutore imperiale della chiesa o addirittura con gli eretici; i nemici della chiesa restano anche loro nemici, sebbene la loro comparsa venga riconosciuta come necessaria per la purificazione della chiesa. Non si osa negare l'obbedienza alle autorità ecclesiastiche e opporsi apertamente ad esse — un atteggiamento, del resto, che corrisponde perfettamente ai princìpi francescani originari. Pertanto sulla questione dell'uso della violenza gli autori del Commento a Geremia e del Commento a Isaia non vanno in alcun modo oltre Gioacchino. Anche il fatto che fossero dichiarati portatori del nuovo due ordini monastici, in realtà già esistenti e approvati dalla chiesa, in fondo può avere come effetto soltanto che eventuali elementi per un superamento di principio dell'ordine esistente vengono indeboliti. Perciò, nonostante i toni aspramente critici che risuonano nei Commenti, niente è più sbagliato che voler vedere qui tendenze davvero rivoluzionarie 205 . Anche qui vengono alla luce fin troppo chiaramente la limitatezza e l'idealismo utopico astratto di una visione del mondo puramente monastica. A dire il vero dobbiamo riconoscere a questo proposito che la riduzione dell'idea gioachimita di una ecclesia spiritualis, di una chiesa
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pienamente spiritualizzata, alla richiesta di un ordine ecclesiastico corrispondente all'ideale apostolico di povertà avvicinava tutto questo complicato insieme di idee all'universo rappresentativo dei movimenti di massa religioso-sociali di allora. In questo collegamento tra l'attesa gioachimita di un nuovo status del mondo e l'idea francescanoapostolica di povertà era racchiusa la possibilità che la visione del futuro di Gioacchino, con tutte le conseguenze in essa latenti, potesse trovare un posto anche nelle concezioni di movimenti popolari ereticali, sprigionando così nuovi effetti. Inoltre potè ulteriormente contribuire a ciò un secondo momento: l'attesa gioachimita di un'autentica trasformazione dell'ordine del mondo superò almeno parzialmente i limiti delle utopie monastiche lontane dal mondo e trovò un radicamento più vasto. Ciò è fondato sul fatto che nella concezione degli autori pseudogioachimiti della metà del secolo XIII la funzione del distruttore dell'antico è assunta non più solo da forze pagano-saracene o da movimenti ereticali ricusati a priori; piuttosto, subentra in tale ruolo anche la seconda potenza universale dell'Occidente oltre al papato, l'impero. Con ciò lo scontro tra papato e impero viene collegato inscindibilmente con le idee gioachimite; e ciò naturalmente conferisce loro un'efficacia politica e sociale maggiore. Nonostante questi sintomi di un influsso più ampio, dobbiamo tuttavia constatare che il gioachimismo alla metà del XIII secolo è ancora prevalentemente una faccenda di monaci; esso vive della speranza, in ultima analisi illusoria, che la realizzazione coerente degli ideali monastici sia atta a superare tutte le contraddizioni e le carenze delle condizioni ecclesiastiche e sociali esistenti, e a introdurre un nuovo, migliore ordine del mondo — laddove va aggiunto anche che lo sviluppo poderoso del monachesimo nel XIII secolo, come pure gli innegabili sintomi di un rinnovamento ecclesiastico nel francescanesimo, rendono in certa misura comprensibili — anche se non meno illusorie — queste attese. A tale proposito la propaganda successiva, promossa non solo da circoli dell'ordine ma anche dalla chiesa, che celebrava Francesco e il suo ordine come portatori di un vero rinnovamento, destinato non ultimo a servire per il credito della chiesa 206 , indubbiamente contribuì molto a far crescere tra i francescani la coscienza di aprire una nuova, perfetta epoca dell'umanità. Finora in questo capitolo si è trattato di tutti gli scritti profetici nei quali la dottrina di Gioacchino del terzo status è ripresa in forma marcata, e il cui contenuto è innegabilmente caratterizzato dagli interessi e dalle speranze circa il futuro di determinati ordini monastici. Ma accanto a queste opere pseudogioachimite, per lo più assai estese, sor-
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sero in quel tempo numerose altre composizioni profetiche, in maggioranza più brevi, ma in compenso più impressionanti. Per avere un quadro veramente complessivo delle attese del futuro in quell'epoca, e che almeno allusivamente tendevano al millenarismo, è inevitabile accennare qui sinteticamente almeno alle più importanti di queste profezie, anche se non sempre esse mostrano un'impronta gioachimitofrancescana. Questi numerosi scritti profetici, brevi e per lo più con poche pretese sotto il profilo spirituale, sono di particolare interesse, perché non riflettono così specificamente le idee di rinnovamento di limitati circoli francescano-gioachimiti, bensì molte volte sono più vicini all'universo rappresentativo popolare. Chiaramente nell'Italia di allora, lacerata da lotte intestine e da divisioni di parte, spuntarono dappertutto «profeti» 207, i quali di fronte alla mancanza di vie d'uscita e alla durezza delle tensioni politiche e sociali profetizzavano soluzioni più o meno utopiche di questi conflitti o la vittoria della propria causa nel futuro 208 . Infatti è innegabile la tendenza di siffatte profezie a voler vedere realizzati nel futuro i desideri e gli interessi determinati dell'autore e della sua cerchia, e per lo più sullo sfondo agisce il desiderio di influenzare la configurazione del futuro mediante queste descrizioni profetiche. Ma proprio per questo tali scritti sono una testimonianza molto significativa delle proiezioni di istanze politiche e sociali allora più o meno diffuse. Naturalmente in questa sede si può parlare solo delle profezie in cui l'attesa di un tempo di pace e di felicità universale emerge almeno per cenni. Tra essi, per esempio, la Sibilla eritrea, che secondo l'opinione predominante deve essere stata composta poco dopo la morte di Federico II 209 . Il fatto però che già nel Commento all'Apocalisse di Alessandro Minorità si rimandi alla Sibilla eritrea210 mostra che questa profezia esisteva già negli anni Quaranta 211 . A ciò fanno riscontro in parte anche le notizie su Federico II contenute nella Sibilla; infatti, sebbene da un lato si alluda già alla morte dell'imperatore e alla sopravvivenza della sua dinastia in uno dei suoi successori, dall'altro si vede fin 'troppo chiaramente che l'autore o il compilatore di questa profezia non conosceva ancora la fine del regno di Federico II, e dunque scriveva prima di questo tempo 2 1 2 . Allo stesso modo tutto depone per il fatto che la notizia, contenuta nell'intestazione della Sibilla, che si tratta di una traduzione dal greco, almeno in parte sia giusta; infatti, parti notevoli della Sibilla eritrea latina risalgono palesemente — analogamente alla Sibilla tiburtina — al modello greco 213 . Non si può infine decidere se la redazione latina, nella quale soprat-
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tutto possono essere stati inseriti fatti del tempo del regno di Federico II, effettivamente risalga a un «minorità gioachimita italiano», come suppone Holder-Egger214, giacché in essa non sono riconoscibili indizi di alcun genere di assunzione della dottrina gioachimita dei tre status; le questioni di riforma ecclesiastica che in primo luogo agitano i gioachimiti non hanno alcun ruolo rilevante. Al massimo potrebbero essere giudicate quale indizio eventuale di una provenienza da circoli gioachimiti gli accenni alle due stelle, che senza dubbio devono simboleggiare i due ordini mendicanti 215 . C'è anche da considerare che Federico II è sì giudicato negativamente, ma manca la esagerata accentuazione, consueta nei circoli gioachimiti, della sua personalità quale forza anticristiana che determina la grande svolta dei tempi. Così devono restare in sospeso molte questioni. In ogni caso è sicuro che questa profezia, la cui origine è tanto oscura, suscitò un forte interesse presso i francescani gioachimiti impegnati in uno svelamento del futuro 216 . Per il resto è interessante ai fini della nostra problematica quanto la Sibilla eritrea dice sull'inizio di un tempo di pace universale prima della fine del mondo. Le indicazioni relative sono molto succinte e prive di contenuti, e in sostanza non vanno oltre le predizioni corrispondenti di precedenti profezie imperiali. Così si deve scatenare una disastrosa persecuzione — peraltro in nessun modo messa in connessione con Federico II, indicato come aquila — da parte di dieci re pagani e dell'Anticristo (abhominatio); essa porta nel mondo atrocità di ogni genere, e ha come conseguenza una pesante umiliazione della chiesa. Subito dopo, senza nessuna mediazione, si affermano «veritas et justicia»; tutti gli uomini abbandonano i loro vizi e si convertono alla chiesa; dominerà una concordia generale 217 . Ma ben presto — porro in proximo — alcuni segni annunciano l'imminente giudizio finale e la fine del mondo. Il tempo finale di pace, dunque, irrompe senza mediazioni; rimane completamente aperto quali forze debbano rendere possibile questa trasformazione. Quindi in sostanza tutta questa profezia del tempo finale non va oltre le precedenti profezie pregioachimite di un breve periodo di pace prima della fine del mondo. Il periodo di pace funge solo da tempo preparatorio per la fine del mondo, e perde ogni peso specifico; a parte l'accentuazione della dura afflizione che incombe sulla chiesa, non si dice nulla su quello che deve cambiare nell'ordine ecclesiastico, politico e sociale dominante, perché quella pacificazione universale possa divenire realtà. Un'altra profezia da ricordare in questa sede è il cosiddetto Vaticinium di Michele Scoto sulle città italiane 218 . In questo Vaticinium
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riguardante solo gli scontri locali tra le città, che fu scritto poco dopo il 1241, sono stati inseriti tra il 1245 e il 1250 alcuni versi polemici, sorti appunto in quel periodo, che il papa e Federico II, a quanto si dice, si sarebbero scambiati. Per il nostro tema sono interessanti soprattutto questi versi inseriti posteriormente219; infatti essi trattano alla maniera pseudogioachimita del grande scontro tra il papato e l'imperatore Federico II. L'imperatore viene designato come il grande drago e come «martello del mondo» 220, il quale mette la chiesa in grande pericolo. D'altra parte viene annunciato che alla fine questa testa del drago sarà abbattuta dalla chiesa, e alcuni altri versi, ugualmente inseriti in un secondo tempo nel Vaticinium, portano il consueto annuncio gioachimita che nel 1260 ogni tempesta verrà sedata221, che cioè il mondo troverà pace. Anche qui manca ogni descrizione più dettagliata dello stato che allora è destinato a subentrare o delle misure necessarie per introdurlo. Degna di menzione è infine anche una profezia pubblicata da Tondelli, che ha avuto origine nell'Italia settentrionale, ma che è molto difficile da collocare cronologicamente e da interpretare 222. In questa sede non possiamo chiarire le questioni al riguardo; perciò basti accennare che questa profezia, che circolava sotto il nome di Gioacchino, contiene affermazioni sulla decadenza profonda della chiesa romana e su una incombente, dura tribolazione del clero. Ma dopo questa persecuzione la chiesa è destinata a essere nuovamente risollevata223. L'influsso gioachimita di questa profezia si rivela soprattutto con la ripresa dei versi tramandati più volte anche in altro modo: «Cum decies seni fuerint et mille ducenti anni qui nato sumunt exordia Christo, tunc antichristus nequissimus est oriturus» 224. Anche qui dunque il 1260 svolge un ruolo decisivo; in verità come anno cruciale non per l'inizio di un nuovo status, ma per la nascita dell'Anticristo. Difficili da chiarire sono le affermazioni della profezia intorno al destino del papato. Si dice che a un papa Celestino 225 dovranno succedere un papa superbo, poi uno ortodosso e infine uno eretico; ma dopo non vi sarà più alcun papa. Non si può dire con sicurezza se in base a quest'ultima osservazione siamo autorizzati a concludere che l'autore creda -che la chiesa risollevata dopo le persecuzioni non debba più essere una chiesa papale. Ma qualunque cosa abbia potuto ritenere l'autore, dai sentimenti palesemente ghibellini, in ogni caso queste attese illustrano il suo atteggiamento critico verso la gerarchia ecclesiastica del XIII secolo. Infine è degna di nota un'altra profezia, nella sua forma originaria alquanto più antica, che comincia con le parole «cedrus alta Libani».
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Essa è tramandata da cronisti inglesi già verso il 12 3 9 226 , ed è registrata anche nel codice gioachimita Vat. lat. 3822, di provenienza italiana227. Nelle fonti inglesi si dice che un monaco cistercense sarebbe l'autore di questa profezia. Infine, in una nuova redazione accresciuta, essa appare intorno al 1285, in fonti narrative della Germania meridionale come pure — senza indicazioni temporali — in una successiva cronaca bolognese 228 . Nella redazione più antica viene espressa l'aspettativa che in breve ci sarà un solo Dio, ovvero una sola monarchia; ciò significa sicuramente che in seguito all'istituzione di un impero mondiale sotto l'imperatore degli ultimi tempi la fede cristiana trionferà universalmente. A ciò si collega, ed è degno di nota che questo avvenga già nel 1239, l'annuncio espresso in tono minaccioso: «Vech clero, viget ordo novus, si ceciderit. Vech ecclesiae!». Si attende dunque palesemente una trasformazione dell'ordine ecclesiastico che porta all'ascesa di un nuovo ordine, e insieme porta con sé dure tribolazioni per il clero — una concezione che innegabilmente ricorda idee gioachimite —. Anche la redazione più tardiva allude chiaramente a pesanti persecuzioni contro la chiesa; laddove vengono riprese le parole tramandate anche altrove in forma analoga: «Navicula Petri iactabitur in validis fluctibus, sed evadet et dominabitur in fine dierum» 229 . In ciò è contenuta, accanto all'annuncio di tempi tempestosi, anche la predizione che la chiesa romana alla fine comunque trionferà. Sarebbe dunque errato attribuire a questa profezia una tendenza particolarmente radicale. Tuttavia è degna di nota la predizione, che manca nella redazione più antica, secondo cui durante queste tribolazioni anche gli ordini mendicanti sono destinati a essere annientati 230 . Ciò tradisce quanto fossero odiati gli ordini mendicanti già nel corso del XIII secolo. Mentre alcuni idealisti nei circoli monastici credevano ancora che gli ordini mendicanti fossero chiamati a far nascere una nuova epoca, altrove si risveglia, certo non a torto, la convinzione che una purificazione violenta della chiesa dovesse urgentemente riguardare proprio gli ordini mendicanti. Per il resto si dice — del tutto in coerenza con lo schema delle precedenti profezie sull'imperatore degli ultimi tempi — che dopo tutti questi sconvolgimenti regneranno per quindici anni pace e abbondanza di frutti; dopo di che, tutti i fedeli si ritireranno nella Terrasanta, chiaramente per attendervi la fine del mondo. Mentre nella profezia appena considerata, secondo la sua redazione tedesco-meridionale, è riconoscibile un allontanamento dalle speranze illusorie fondate sugli ordini mendicanti, e quindi un allontanamento dallo schema gioachimita corrente, filomonastico, verso il 1288 Ales-
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di Roes nella Noticia seculi ha attribuito a n c o r a una volta agli ordini mendicanti il ruolo di portatori della riforma di tutto l'ordinamento ecclesiastico. Alessandro nella sua predizione si basa ampiamente sul Liber de semine Scripturarum231, che appunto attende per il tempo tra il 1215 e il 1315 la purificazione della chiesa dalla simonia, una purificazione legata a grandi tribolazioni 232 . In rapporto al suo modello egli apporta un nuovo elemento, quando attribuisce esplicitamente agli ordini mendicanti la persecuzione dei simoniaci ovvero l'umiliazione dell'orbo clericorum 233 . Molto probabilmente questo cambiamento dell'originaria concezione del Liber de semine Scripturarum è conseguenza di uno stretto contatto con i francescani spirituali influenzati dal gioachimismo. Infatti Alessandro compilò il suo scritto in Italia, dove fu in stretto contatto con il circolo raccolto attorno al cardinale Giacomo Colonna, del quale già Salimbene dice che era un grande amico dei minoriti 234 . Giacomo Colonna era vicino soprattutto all'ala radicale, all'interno dell'ordine francescano, spiritualista e largamente influenzata dal gioachimismo 235 ; così Salimbene racconta che il cardinale ancora nel 1284 visitò nel suo ritiro l'antico generale dell'ordine, Giovanni da Parma, che era stato deposto nel 1257 a causa del suo atteggiamento filogioachimita 236 . Evidentemente le modifiche delle predizioni del Liber de semine Scripturarum da parte di Alessandro vanno ascritte al contatto con questi circoli francescani influenzati dal gioachimismo 237 . Quindi la Noticia seculi di Alessandro testimonia della sopravvivenza di una corrente gioachimita all'interno dell'ordine francescano fino agli anni Ottanta del XIII secolo, dunque immediatamente prima del nuovo sviluppo di tendenze gioachimite all'interno di quest'ordine intorno al 1300. Inoltre in questo caso appare con particolare chiarezza che gli spirituali influenzati dal gioachimismo, che si opponevano alla chiesa mondanizzata, in molti casi entrarono in stretta relazione con elementi ghibellini, giacché i Colonna erano esponenti eminenti del partito ghibellino 238 . Con questo dobbiamo anzitutto concludere i cenni sulle profezie più brevi di questo genere, anche se indubbiamente esistono ancora numerose composizioni di carattere analogo del XIII secolo. Ma molto è ancora inedito 239 ; inoltre in questo capitolo sono state lasciate da parte deliberatamente tutte quelle profezie che hanno al centro l'attesa di un imperatore finale della pace oppure di un papa santo riformatore dell'intera chiesa. Tali profezie verranno analizzate nel prossimo capitolo. In questa sede possiamo soltanto constatare che le profezie più brevi di cui si è appena trattato nella loro forma tramandata sono tutte, quale più quale meno, influenzate dal gioachimismo franSandro
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cescano; ma insieme esse riflettono anche — più nettamente degli ampi scritti pseudogioachimiti di cui si è trattato all'inizio — rappresentazioni popolari. In proposito appare evidente che l'attesa gioachimita di un terzo status — si prescinde qui dalle eccezioni di cui si tratterà più avanti — è scarsamente diffusa al di là della sfera del monachesimo, soprattutto dell'ordine francescano; in altre parole, l'attesa inedita, e che sovvertiva l'immagine del mondo tradizionale, di un nuovo status non è stata ancora ripresa da cerchie più ampie, e non è stata trasformata di conseguenza. In tutte queste profezie brevi manca il concetto di un terzo status; esse si riallacciano piuttosto alle rappresentazioni più antiche largamente diffuse e più povere di contenuto, circa un breve periodo di pace prima della fine del mondo, e ciò anche quando manca la figura qualificante di un imperatore degli ultimi tempi. È tuttavia significativo e importante il fatto che compaia quasi regolarmente l'idea, che veniva alla luce sia in Ildegarda di Bingen sia in Gioacchino, di una pesante e necessaria persecuzione della chiesa clericale corrotta; laddove in un caso perfino gli ordini mendicanti — evidentemente perché sono considerati altrettanto mondanizzati — vengono annoverati tra i perseguitati. Se teniamo presente l'affermazione di Dòllinger, che sostanzialmente è senza dubbio corretta: «Ciò che molti desiderano contemporaneamente, senza la possibilità di realizzarlo subito con forze proprie, [...] si riveste [...] dell'abito della profezia» 240 , e se inoltre si pensa che proprio queste profezie più brevi danno espressione non più solo a ideali specificamente francescani, bensì in parte anche ad aspettative popolari, allora diventa comunque chiaro che una purificazione violenta della chiesa era senz'altro desiderata da cerchie assai vaste o era avvertita come necessaria, e che era presente una generale avversione nei confronti della gerarchia mondanizzata. Invero le idee circa il modo di attuare una simile purificazione della chiesa sono ancora molto primitive. Perciò di fatto queste profezie corrispondono a un desiderio generale, che non vede alcuna possibilità effettiva di realizzazione con forze proprie. A prima vista questo sembra un risultato molto negativo; ma dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di fenomeni come, per esempio, una rivolta locale della popolazione di una città o di un distretto rurale delimitato. In questa sede non è neppure in discussione in che misura gli appartenenti a strati popolari oppressi si trovarono insieme a gruppi settari, i quali rifiutavano sì l'ordine esistente, e a loro modo — in opposizione alla chiesa — cercavano una via per la salvezza, ma non possedevano né la volontà né la convinzione di potere in poco tempo cambiare radicalmente l'ordine sociale di tutta l'umanità. In una
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ricerca intorno alle rappresentazioni millenaristiche si tratta piuttosto di vedere se e in che modo compaia la convinzione che tutti i mali della attuale condizione terrena possano essere superati, e che a questo scopo debba essere eretto un ordine complessivo nuovo e perfetto. Certo nel secolo XIII viene a crearsi il presupposto, soprattutto con 10 sviluppo delle città, per cui larghe masse danno espressione sempre più forte e sempre più chiara alle loro aspirazioni, e le profezie brevi di cui si è trattato, profezie conservate parzialmente in versi, testimoniano senza dubbio del fatto che ci si voleva rivolgere a cerchie più larghe e si teneva conto del loro stato d'animo; ma nell'insieme mancano ancora i presupposti sociali e spirituali perché le masse popolari si dichiarino portatrici di un superamento radicale, globale di tutto l'ordine ecclesiastico e sociale. È invece il monachesimo — se per un momento prescindiamo dal cerchio di rappresentazioni che si stringeva attorno all'impero — che, sulla base della sua vigorosa crescita nel XII secolo e ancora più nel XIII, e spinto dalla critica alla chiesa mondanizzata, fortemente crescente entro cerchie sempre più ampie, sviluppa la convinzione utopica di essere chiamato alla realizzazione di un ordine ideale sulla terra. Così si spiega che la dottrina più rilevante e più approfondita circa una trasformazione del mondo venga sviluppata anzitutto proprio all'interno del monachesimo. In questo ambito erano particolarmente favorevoli le condizioni per la comparsa di un'attesa evoluta, ma utopica, circa un miglioramento radicale e globale delle condizioni terrene, perché la realizzazione dell'ideale protocristiano, diventato norma universale, appariva qui già attuata in gran parte. Peraltro in proposito sfuggivano le difficoltà di un trasferimento di norme monastiche all'ordinamento umano in generale; 11 che non è strano se si considera il distacco del monaco dalla vita normale. Senza dubbio proprio questo isolamento dal mondo quotidiano, proprio la concezione del mondo del monaco che vive su un'isola di apparente perfezione, fu un presupposto essenziale per lo sviluppo di quell'utopia idealista di un nuovo stato del mondo. Ci resta da osservare da un lato lo sviluppo ulteriore delle attese chiliastiche nei circoli dei francescani spirituali, ma dall'altro ci restano da analizzare anche — come già nel caso di alcune profezie brevi già trattate — le profezie provenienti dall'universo rappresentativo di cerchie più ampie. Bisognerà in particolare considerare in che misura in profezie di questo genere le rappresentazioni all'inizio davvero primitive e schematiche, acquistino una forma più chiara, e forse anche più radicale.
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Prima però di dedicarci a tale questione, potrebbe essere interessante seguire una delle tendenze di sviluppo opposte, e osservare come si sia tentato altresì di rendere innocuo un ulteriore e più pericoloso sviluppo del patrimonio di idee gioachimita all'interno dell'ordine francescano. Molto significative sotto questo profilo sono soprattutto le idee di Bonaventura, il successore del «grande gioachimita» Giovanni da Parma nella guida dell'ordine minorità. In lui certo si possono chiaramente constatare alcuni influssi delle idee gioachimite, ma nel contempo egli ci offre addirittura un esempio tipico di come si possa togliere qualsiasi tendenza pericolosa a una dottrina che minaccia l'ordine esistente, senza negarla completamente. Anzitutto è indicativo che Bonaventura non riprenda la dottrina dei tre status, quindi il nocciolo vero e proprio della concezione di Gioacchino 241 . Allo stesso modo egli, del tutto alla maniera antica, interpreta l'articolazione della storia del mondo in sette aetates, sicché la sesta aetas dura da Cristo sino alla fine del mondo; mentre la settima aetas scorre parallela alla sesta, e denota l'esistenza nell'aldilà dei santi 242 . Viceversa Bonaventura concorda perfettamente con Gioacchino nel supporre una concordanza tra le sette epoche dell'Antico Testamento e le sette epoche del Nuovo 243 . In questo contesto sono di particolare importanza le idee di Bonaventura intorno alla sesta e alla settima epoca; qui appaiono chiaramente influssi gioachimiti. Certo, secondo Bonaventura la sesta epoca inizia già al tempo di papa Adriano I ovvero di Carlo Magno 244, mentre per Gioacchino comincia solo intorno al 1200. Però la caratterizzazione di questo periodo è per molti aspetti simile alle vedute di Gioacchino. È il tempo della «Clara doctrina», che corrisponde al profetismo dell'Antico Testamento; in esso comparirà un nuovo ordine, il cui capo è l'angelo col sigillo del Dio vivente che compare nelV Apocalisse24^. Con questo angelo, che è destinato a essere simile a Cristo, si intende Francesco d'Assisi246; in altri termini qui Bonaventura per indicare Francesco usa la stessa figura adoperata dal gioachimita Gerardo di Borgo S. Donnino 247 . Per il resto il quadro d'insieme della sesta epoca in Bonaventura è ambiguo; infatti quest'epoca apporta «primo lux, deinde tenebra, postea lux»; all'inizio compare, in corrispondenza con Ezechia nell'Antico Testamento, un protettore della chiesa che Bonaventura identifica con Carlo Magno. Seguono poi pesanti tribolazioni per la chiesa, cioè sotto Enrico IV, Federico I e Federico II. Circa il secondo protettore della chiesa atteso, che corrisponde al re Ozia nell'Antico Testamento, Bonaventura lascia in sospeso se sia già comparso o se debba ancora comparire 248. Segue un'ultima pesante persecuzione del-
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la chiesa, quella dell'Anticristo, con la quale però nel contempo la condizione interna della chiesa migliora 249 . Infatti per quante volte la chiesa romana venga oppressa, altrettante volte verrà ristabilita 250 . Significativamente in questo contesto Bonaventura cita i versi polemici, largamente diffusi nei circoli gioachimiti-francescani, che si sarebbero scambiati tra loro il papa e l'imperatore Federico II 251 . Quindi la sesta epoca della chiesa finisce — come in Gioacchino e negli scritti pseudogioachimiti — con la caduta della «bestia ascendens de abysso», che simboleggia l'Anticristo, e con la distruzione di Babilonia252. Dopo questi eventi, la cui data è incerta, comincia un'epoca di pace e di tranquillità, come non ce n'è stata più dal principio del mondo 253 . È questa la settima epoca della chiesa, nella quale si attua una sua restauratio ovvero reaedificatio, dopo che la chiesa, mediante la precedente tribulatio, è stata portata alla retta condizione. Anche qui dunque la tribolazione della chiesa serve in ultima analisi alla sua necessaria riforma. La conseguenza è che in quest'ultima epoca già si attua una «conformitas» dell 'ecclesia militans con l'ecclesia triumphans254. Appariranno uomini perfetti come al tempo degli apostoli 255, e a un uomo o anche a numerose persone verranno svelate le verità della fede ovvero verrà concessa l'«intelligentia spiritualis» 256 — dunque anche questo concetto centrale della concezione gioachimita riemerge in Bonaventura —. Inoltre è significativo che Bonaventura designi questo status perfetto della chiesa nel tempo finale con l'espressione «ecclesia contemplativa» usata spesso anche da Gioacchino 257 . In tale contesto incontriamo anche l'antica attesa di una conversione degli ebrei in quest'ultima epoca 258 . Dopo questo tempo di pace, la cui durata è incerta, segue, secondo lo schema usuale, il giudizio finale 259 . Ciò che si è detto delle idee di Bonaventura intorno alla settima epoca della chiesa dovrebbe aver mostrato con chiarezza quanto fortemente qui incida la dottrina di Gioacchino 260 . Allo stesso modo l'accentuazione del ruolo del nuovo ordine e l'equiparazione di Francesco all'angelo col sigillo del Dio vivente mostrano che anche Bonaventura — analogamente ai gioachimiti francescani della metà del XIII secolo — si sforza di assegnare al suo ordine un ruolo decisivo nella ricostruzione di un ordinamento ecclesiastico irreprensibile 261 . Dunque la visione della storia del mondo in Bonaventura si conclude, analogamente a quella di Gioacchino, con il pieno trionfo di una chiesa purificata da tutte le debolezze interne. Tuttavia sussistono differenze radicali tra le idee di Gioacchino e quelle di Bonaventura. Soprattutto va osservato che in Bonaventura
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quell'epoca di pace e di tranquillità non rappresenta un terzo status, che abbia uguale valore e stia accanto al secondo status, e quindi si collochi autonomamente accanto al tempo, aperto da Cristo, della chiesa dei chierici. In Bonaventura non si tratta di una nuova età dello Spirito santo, che sostituisca l'età del Figlio, bensì di una delle sette epoche all'interno della storia della chiesa cominciata con Cristo. Per questo in Bonaventura quel tempo finale non è neppure equiparato a una nuova settima età del mondo, che seguirebbe la sesta età cominciata con Cristo, bensì la sesta età rimane, secondo la tradizione profondamente radicatasi con Agostino, l'ultima età all'interno della storia terrena. Bonaventura dunque evita di presentare l'inizio di quel tempo di pace in qualche modo come una trasformazione epocale comparabile all'inizio dell'era cristiana. L'intera periodizzazione della storia del mondo in Bonaventura testimonia che quel tempo di pace è solo un sottoperiodo all'interno dell'epoca aperta da Cristo, che nella storia del mondo non vi sarà mai più un nuovo inizio paragonabile alla svolta epocale di allora. Perciò è oltremodo indicativo dell'atteggiamento di Bonaventura che rispetto a Gioacchino egli assegni un contenuto decisamente più conservatore a quell'«apertio scripturarum» attraverso l'«intelligentia spiritualis» che pure attende. Con la ripresa di questi concetti gioachimiti Bonaventura non intende in alcun modo indicare che quella futura pienezza della rivelazione renderà superflua la lettera e ogni elemento figurale; egli non attende un superamento, ma solo una penetrazione della lettera, la quale è destinata a conservare totalmente il suo valore. Così egli dichiara: «A questa [spirituale] comprensione (intelligentiam) l'uomo però non può giungere da sé, bensì solo per mezzo di coloro cui Dio l'ha rivelata, cioè per mezzo degli scritti dei santi, come Agostino, Gerolamo e altri» 262 . Queste parole testimoniano chiaramente una concezione dell'«intelligentia spiritualis» assolutamente vincolata in senso ecclesiastico. Dunque Bonaventura attende sempre e solo una «reaedificatio», una «restitutio» o «reparatio»263; il modello vincolante per qualsiasi futuro è la «sanctitas» degli apostoli 264 . In breve, qui si tratta — in maniera ancora più evidente che negli scritti pseudogioachimiti della metà del XIII secolo — di un ritorno all'antico, non come in Gioacchino di un procedere in avanti verso una nuova epoca. Peraltro questo fatto, da solo, non spoglierebbe ancora la concezione di Bonaventura di ogni tendenza contro l'ordine esistente; infatti anche l'ideale apostolico totalmente rivolto al passato può, accentuando l'idea di povertà, negare radicalmente la struttura sociale ed ecclesiastica dominante.
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Tuttavia una considerazione più ravvicinata della valutazione dell'ideale apostolico da parte di Bonaventura mostra con tutta chiarezza il suo atteggiamento conservatore. Significative sotto questo profilo sono soprattutto le sue Quaestiones de perfectione evangelica, che invero furono scritte prima dell'Hexaemeron, e perciò probabilmente non vennero ancora influenzate in tale misura dalle idee gioachimite 265 . Tuttavia già in quest'opera egli asserisce che la povertà è il fondamento della perfezione evangelica, e il fatto che allora questo ideale sarà di nuovo vivo come agli inizi della chiesa contraddistingue l'atteso «status finalis» della chiesa266. Ma nel contempo Bonaventura afferma con vigore che nulla è più lontano da lui dell'asserire che «l'intera chiesa debba essere ricondotta sotto ogni aspetto alla povertà» 267 . Egli qualifica come assurdo condannare lo status delle persone sposate benestanti; ancora più assurdo sarebbe rifiutare radicalmente lo status di chierici e monaci con possesso temporale; sarebbe il massimo dell'assurdo, tuttavia, condannare lo «status pauperum» 268. Dunque per Bonaventura l'imitazione degli apostoli non è affatto vincolante per tutti gli uomini, neppure per i chierici; ma è una possibilità offerta a un ristretto gruppo, i cui membri vi si possono decidere liberamente269. Queste espressioni testimoniano con inequivocabile chiarezza che l'ideale della vita apostolica ovvero della privazione di possessi in Bonaventura non viene giudicato come un mezzo per la trasformazione dell'intero ordinamento sociale, anzi non è neppure un mezzo per un cambiamento radicale di tutta la struttura ecclesiastica, ciò che si trova ancora almeno in parte negli scritti pseudogioachimiti della metà del XIII secolo, bensì è essenzialmente solo l'ideale di fondo di una ristretta cerchia, la quale peraltro con la sua esemplarità è destinata ad accrescere e a rafforzare il credito e l'irreprensibilità di tutta la chiesa. Di conseguenza l'istanza apostolica di povertà viene spogliata di qualsiasi elemento sovversivo, per quanto nascosto.
1 Cfr. in proposito H. GRUNDMANN, Dante..., cit., 247 ss.; M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration of Joachism into Northern Europe, «Speculum», 29 (1954), 775 s., 792 s. 2 Un'eccezione del genere è costituita in primo luogo dagli amalriciani, di cui si tratterà più avanti, che hanno ripreso palesemente la dottrina dei tre status di Gioacchino; inoltre Goffredo di Auxerre, un contemporaneo di Gioacchino, ha riconosciuto che Gioacchino ha annunciato una «prima resurrectio» e la venuta del regnum Dei, e quindi si è avvicinato ad attese millenaristiche; cfr. la predica di Goffredo in H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 545 s., così come le spiegazioni in proposito, ivi, 521 ss.
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RADULFUS N I G E R , Chronica universalis ( M G S S X X V I I , 3 3 8 ) . Cfr. i Gesta Henrici II et Ricardi composti da Ruggero di Hoveden, II, 153, e Ruggero di Hoveden, III, 78. 5 RADULPHUS DE COGGESHALL (Rer. Brit. medii aevi S S 6 6 , 6 8 ) . 6 Su questo manoscritto, che adesso si trova nella biblioteca comunale di Erfurt cfr. M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 777 ss. 7 Cfr. E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., 156ss.; H. GRUNDMANN, Dante..., cit., 247. Dell'incontro con re Riccardo dà un resoconto Ruggero di Hoveden, il quale si trovava al seguito di Riccardo e probabilmente fu presente all'incontro stesso; cfr. D.M. STENTON, Roger of Hoveden and Benedict, «Engl. Hist. Review», 68 (1953), 576 ss. 8 M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 778, 780. Nel manoscritto citato, che adesso si trova a Erfurt, si trovano le parole: «Sunt in tabula Joachim VII sigilla et VII persecutiones». 9 Cfr. ivi, 780. 10 Strano è anche che i Gesta Henrici II et Ricardi, II, 152, concordando con la tavola del Liber Figurarum, menzionano come quinto persecutore Melsemutus, mentre Gioacchino altrove nelle sue opere attribuisce le cinque persecuzioni ai re tedeschi. 11 Roberti Canonici S. Mariani Autissiodorensis Chronicon (MG SS XXVI, 249). 12 Cfr. il Sermo de Trinitate di Guarnerio di Rochefort (PL 205, col. 713), e il Tractatus contra Amauricianos, hg. v. C. Baeumker (Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, 2 4 ) , Münster 1 9 2 6 , 3 4 s., composto probabilmente da lui. In proposito cfr. M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 7 8 2 s. Sui modelli più antichi nell'uso del concetto IEVE per spiegare la Trinità cfr. B. HIRSCH-REICH, Die Quelle..., cit., 1 7 0 ss. 13 J . B . PITRA, Analecta s. Hildegardis opera spicilegio Solesmensi parata, 4 8 8 . 14 Ivi, 484; cfr. M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 789. 15 Cfr. G. B O N D A T T I , Gioachinismo e Francescanesimo nel Dugento, S . Maria degli Angeli 1924, 42; D. S T Ö C K E R L , Bruder David von Augsburg, München 1914, 179 s. 16 SALIMBENE DE ADAM, Chronica, ed. O . Holder-Egger ( M G S S X X X I I , 2 3 6 ) . 17 Questa opinione fu sostenuta anzitutto da K . FRIDERICH, Die dem Abt Joachim von Floris zugeschriebenen Commentare zu Jesajas und Jeremias, «Zeitschr. f. wissensch. Theologie», 2 (1859), 506 s. A questa opinione aderisce di recente ancora R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 113. 18 Cfr. M.E. REEVES, The Abbot Joacbim's Disciples in tbe Cistercian Order, «Sophia», 19 (1951), 362 ss.; M.E. REEVES - B . HIRSCH-REICH, The Figurae..., cit., 196 s.; M . W . B L O O M F I E L D - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 772 s. 19 M.E. REEVES - B. HIRSCH-REICH, The Figurae..., cit., 197. 20 Lo stesso Commento, per rendere credibile l'autenticità gioachimita, indica il 1197; Cfr. Abbatis Joachim in Jeremiam prophetam interpretatio, Colonia 1577 (di qui in avanti citato come In Jerem.), 331. 21 ALEXANDER MINORITÀ, Expositio in Apocalypsim, hg. v. A . Wachtel, Weimar 1955, XXX s., cfr. 436 s., 493 ss., 509. Cfr. anche M . E . REEVES, The Abbot Joachim's..., cit., 362; H . GRUNDMANN, Dante..., 248 ss. 22 Cfr. K . BURDACH, Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit ( = Vom Mittelalter zur Reformation I I , 1 ) , Berlin 1 9 1 3 - 2 8 , 3 1 5 s., 4 0 4 s.; F . GRAEFE, Die Publizistik in der letzten Epoche Kaiser Friedrichs II., Heidelberg 1909, 29, 34. 23 In Jerem., 328; cfr. K. FRIDERICH, Die dem Abt Joachim..., cit., 491; J.N. SCHNEIDER, Joachim von Floris und die Apokalyptiker des Mittelalters, Programm Dillingen 1872/73, 28. 24 Di ciò testimonia probabilmente In Jerem..., 331: «Summus pontifex occidetur [...] nescio tarnen, si post tres dies vel annos resurgat pastor bonus et dux domus Israel, quia in ipso spatio non legitur aliquis praefuisse. Et idcirco forsan duce carebit ecclesia, praesidente Pilato antichristo quidem adminiculo Judeorum, scilicet cardinalium proditorum». L'ultima osservazione potrebbe riferirsi al partito filoimperiale allora presente tra i cardinali (intorno al cardinale Giovanni Colonna). 25 M.E. REEVES, The Abbot Joachim's..., cit., 362 ipotizza il 1244 o poco dopo come tempo di composizione. 3
4
26
SALIMBENE, M G
SS X X X I I ,
236.
L'INFLUSSO DI GIOACCHINO SUI FRANCESCANI NEL XIII SECOLO
173
Ivi, 455; cfr. H . HAUPT, Zur Geschichte des Joachimismus, ZfKG, 7 (1885), 378; H . Federico e Gioacchino da Fiore, in Atti del Convegno internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, 88 s. 28 SALIMBENE, MG S S XXXII, 236. «Infiltrazioni gioachimite» tra i francescani prima del 1243 sono state ipotizzate soprattutto da F. Russo, Il Libro delle Figure..., cit., 66 ss., in verità con argomenti in parte sbagliati; così egli crede erroneamente che il commento all'Apocalisse di Alessandro Minorità, inclusi gli accenti gioachimiti, sia stato concluso già prima del 1242. 2 9 Cfr. M.W. BLOOMFIELD - M . E . REEVES, The Penetration..., cit., 7 7 4 ; M.E. REEVES, The Abbot Joachim's..., cit., 367. 3° Ivi, 362. 51 K . BALTHASAR, Geschichte des Armutsstreites im Franziskanerorden bis zum Konzil von Vienne, Münster 1911, 110 ss.; RENÉ DE NANTES, Histoire des Spirituels dans l'Ordre de Saint François, Paris 1909, 46. 32 Peregrini de Bononia Chronicon abbreviatum de successione Ministrorum Generalium, stampato in Tractatus fr. Thomae de Eccleston de adventu Fratrum Minorum in Angliam, ed. A.G. Little, Paris 1909, 142: «[...] sectam superstitiosorum, qui non ambulabant secundum veritatem evangelii et secundum nostri ordinis instituta, reputantes se spiritualiores aliis, volentes ad libitum vivere et omnia spiritui attribuentes». Questa notizia, in una forma leggermente variata, si trova anche nella Chronica XXIV Generalium Ordinis Minorum, in Analecta Franciscana III, Quaracchi 1897, 263. Cfr. anche la raccolta di atti di Raimondo di Fronsac in F. EHRLE, Zur Vorgeschichte des Konzils von Vienne, ALKG, 3 (1887), 11, così come la descrizione nella Historia septem tribulationum di Angelo Clareno, ALKG, 2 (1886), 256 ss. Cfr. in proposito P. GRATIEN, Histoire de la Fondation et de l'Evolution de l'Ordre des Frères Mineurs au XlIIe siècle, Paris 1928, 234; R . B . B R O O K E , Early Franciscan Government, Cambridge 1959, 248 ss. 33 I. JEILER, Ein unedierter Brief des P. Olivi, HJb, 3 (1882), 6 5 6 : «Sicut et quidam ante eos consimili temeritate dixerunt, quod Innocentius III cum toto suo generali concilio, in quo contra abbatem Joachim de sancta Trinitate edidit decretalem, haeretice aberravit». 34 In Jerem., 151, cfr. 150. 35 K. FRIDERICH, Die dem Abt Joachim..., cit., 473. 36 Ivi, 479. 37 In Jerem., 283. 38 Expos, f. 195v; cfr. ff. 120r, 191v; Conc. f. 134va. 3 9 Cfr. In Jerem., 105: «Ecclesia meretrix»; cfr. 75. Cfr. in proposito D . D O U I E , The Nature and the Effect of the Heresy of the Fraticelli, Manchester 1932, 27. 40 In Jerem., 53: «Ut fere tota ecclesia in Babilonem ruât». 41 In Jerem., 98: «[...] certe domus est meretricis Roma ecclesia, ubi omnis Simoniacus polluit et polluitur» (citaz. da Ger 5, 7). 42 In Jerem., 104. 43 In Jerem., 122: «[...] désignât praelatos et alios antichristi futuri membra«. 44 In Jerem., 314. 45 In Jerem., 151. 46 In Jerem., 254. 47 In Jerem., 81 s. 48 In Jerem., 159, 165, cfr. anche «Praefatio», 4, così come 122 s. Cfr. in proposito E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, 182 ss. 49 In Jerem., 77, 82. 50 In Jerem., 77, 122. 51 In Jerem., 81. 52 In Jerem., 79, 122, 154. 53 In Jerem., 364; cfr. 166 secondo cui un «humilis habitus» è contrassegno del secondo ordine. 54 In Jerem., 338. 55 In Jerem., 174. 56 Cfr. supra, 80 s. 57 Ciò è ammesso anche da M . E . REEVES, The Abbot Joachim's..., cit., 368. L'opinione opposta si trova nel saggio di M . E . REEVES - B . HIRSCH-REICH, The Figurae..., cit., 196: «Sebbene 27
GRUNDMANN,
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
lo scrittore ritorni spesso sull'idea dei due testes o ordines, egli la ricava dal pensiero dello stesso Gioacchino, e non è realmente interessato a sviluppare la sua applicazione ai due ordini mendicanti in generale, o ai francescani in particolare». Indubbiamente è esatto che l'autore costruisce le sue idee sulle rappresentazioni di Gioacchino, ma a me pare fuori discussione che faccia corrispondere queste idee ai due ordini mendicanti. 58 M . E . REEVES, Tbe Abbot Joacbim's..., cit., 3 6 2 , 3 6 5 ; M . E . REEVES - B . H I R S C H - R E I C H , The Figurae..., cit., 197. Come prova per tale opinione viene citato tra l'altro In Jerem., 274, in cui si dice che gli spirituali perseguitati dai prelati cercheranno di difendersi adeguandosi alla «religioni cistercensi». Ma non si dice affatto che solo dei monaci florensi potevano concepire l'idea di trovare protezione contro persecuzioni presso i cistercensi; ciò eventualmente poteva essere fatto anche da spirituali francescani. 59 Cfr. M.E. REEVES, The Abbot Joacbim's..., cit., 363. 60 In Jerem., 368, cfr. 377. 61 In Jerem., 85, cfr. anche «Praef.», 4. 62 In Jerem., 150, 368; cfr. 123 in cui allo stesso modo con il «vir indutus lineis» si intende Gioacchino; cfr. K . F R I D E R I C H , Die dem Abt Joachim..., cit., 500. 63 In Jerem., 4 («Praefatio»). 64 In Jerem., 2, 74. 65 In Jerem., 85. 66 In Jerem., 207. 67 In Jerem., 151. 68 In Jerem., 272. 69 In Jerem., 271, 321. 70 In Jerem., 271. 71 In Jerem., 272. 72 H. G R U N D M A N N , Studien..., cit., 185 [tr. it. cit., 187]. « Ivi, 185 [tr. it. cit., 188]. 74 Cfr. le giuste osservazioni di A . V O N M A R T I N , Geist und Gesellschaft, cit., 7 1 : «Solo per l'uomo del libro la preservazione di una "purezza" astratta può essere un'occasione "più spirituale", come l'unione dello spirito con la vita, — per quanto questa unione per lo spirito puro sia sempre una societas leonina». 75 In Jerem., 366: «Venit finis. Finis utique senescentis ecclesiae clericorum». Cfr. anche ivi, 264, ove si dice che lo studium clericorum cesserà e al suo posto subentrerà la doctrina spiritualium virorum. 76 In Jerem., 167: «Hinc necesse est, ut ordo clericalis vitam arciorem transeat et religiosi alii non saeculo, sed deo vivant». 77 In Jerem., 167. Si dice solo che allora i laici condurranno una vita coniugale irreprensibile, oppure, nel caso che ciò non avvenga, andranno in rovina. 78 In Jerem., 65. 79 In Jerem., 351: «Et non dominabuntur ei [sulla chiesa romana] amplius alieni principes seculares, sed servient domino Deo suo Christo et David suo pontifici, quem suscitabo eis in pastorem utique non predonem». 80 In Jerem., 332. 81 F. B A E T H G E N , Der Engelpapst, cit., 94. 82 In Jerem., 65, 67, 358, 378 s.; cfr. 82 in cui si parla della predicazione ai pagani da parte dell'ordo minorum. 83 In Jerem., 366, cfr. 124 s. 84 In Jerem., 131; le tre analoghe persecuzioni decisive vengono citate ancora a pp. 150, 157, 173, 254, 286. 85 In Jerem., 134: «Prima tribulatio erit ad spoliandum temporalia»; cfr. 254: «Nam propter symoniam et avaritiam praelatorum spolia temporalium a republica perdet [ecclesia]». 86 In Jerem., 131: «Tarn praelati quam religiosi praemendi sunt in persecutione a republica futura inferenda, prò eo quod temporalia deserere nequeunt et iccirco affligentur prò illis». 87 In Jerem., 367: «Nostra defleamus tempora, in quibus sponsa agni ecclesia depauperabitur». 88 In Jerem., 366.
L'INFLUSSO DI GIOACCHINO SUI FRANCESCANI NEL XIII SECOLO
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Cfr. supra, 103 s. Cfr., per esempio, In Jerem., 288. Qui si fa riferimento a Is 30, 6, in cui si parla di un regulus (basilisco) che fa seguito a una vipera. Ivi Enrico VI viene esplicitamente identificato con la vipera; il regulus che discende da lui, cioè Federico II, è quel re venturo che «altius volabit et latius, ut per cunctam imperii latitudinem affligat ecclesiam et [...] in tempio sedit quasi Deus»; cfr. anche 331: «Regem illum iniquum tuum, ut existimo, posterum», e 295. 91 In Jerem., 296: «Ut praelatorum superbia semper ascendet illorum ruina sit sub manu principis successoris [cioè del successore di Enrico VI]»; cfr. 304: «Sed quia bestia praelatorum occidenda est et capienda per regulum». 92 In Jerem., 296. 93 In Jerem., 365: «Nam sicut primus status habuit finem in Antiocho, sic secundus habiturus est in postero tuo et reliquus in Gog persecutore novissimo». 94 Cfr. supra, 102. 95 Sia consentito accennare che negli scritti di controversia papali degli anni 1239/40 Federico II viene indicato come precursore dell'Anticristo; cfr. F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 34; K. BURDACH, Rienzo..., cit., 404 s. 96 In Jerem., 93; qui si trova anche l'espressione «de illius regis et antichristi perfidia», ove in verità non è del tutto chiaro se con il «rex et antichristus» vadano intese due persone, oppure, come in questo caso è più probabile, una sola persona. 97 In Jerem., 288: «Ut per cunctam imperii latitudinem affligat ecclesiam et quasi absorpturus volucrem [con ciò è intesa la chiesa] in seipso vel in semine in tempio sedeat quasi Deus». 98 In Jerem., 269, 332: «Et iccirco forsan duce carebit ecclesia, praesidente Pilato antichristo». Qui si può solo ipotizzare che in quel tempo senza papi lo stesso imperatore eserciti la sovranità; da ciò risulta che con «Pilatus antichristus» viene inteso chiaramente l'imperatore. Cfr. anche K. FRIDERICH, Die dem Abt Joacbim..., cit., 486. 99 In Jerem., 93: «Futurum quidem est, ut idolum perfidiae suae in ecclesia statuat, et forsitan pseudoprophetam, nisi forsitan seipsum ostendendo se quasi Deum»; cfr. 321 s. e 328, in cui conseguentemente si lascia aperto se Erode simboleggi l'erede di Enrico VI o uno pseudopapa. ìoo ¡n jerem., 78: «[...] antichristo, qui velut summus pontifex in ecclesia sedeat quasi Deus». Cfr. 123. 101 In Jerem., 94: «Contemporaneus erit rex ille antichristo». 102 In Jerem., 93, 322. 103 In Jerem., 123: «Secta scilicet falsorum Christianorum et haereticoram quorum caput erit antichristus, [...] et forsitan pseudopapa erit, adiutus et fultus antichristo reipublicae». 104 In Jerem., 286. 105 In Jerem., 322, cfr. 334. 10« In Jerem., 285. 107 In Jerem., 127, 260, cfr. anche 26. 108 In Jerem., 386. Secondo G. BONDATTI, Gioachinismo..., cit., 17 questa è un'aggiunta successiva alla morte di Federico II. Se ciò sia giusto, può essere stabilito solo dopo un'edizione critica del Commento. È però senz'altro pensabile che questa frase sia stata messa per iscritto già prima del 1250, tanto più che anche altrove il Commento chiama in causa diverse volte i successori di Federico II (cfr. 331, 288). Anche questo passo è già contenuto nel manoscritto di Dresda A 121, f. 175v, in cui mancano i versi, senza dubbio aggiunti successivamente («Cum decies et 1300 anni Antichristus nascetur demone plenus post partum virginis almae»), che sono tramandati nel testo a stampa. Anche Salimbene conosce già la predizione della fine dell'impero (MG SS XXXII, 349, 439, 494 s., 629). 109 In Jerem., 201: «Dragon est populus haereticus, caput antichristus»; 143, in cui l'Anticristo viene indicato come «rex Patarenorum»; cfr. anche 123. 110 L'avversione all'impero mi sembra motivata prevalentemente dalla collocazione filoecclesiastica dell'autore, e non tanto da un «nazionalismo italiano» che secondo A. DEMPF, Sacrum Imperium, cit., 333 si esprimerebbe nel Commento a Geremia. 111 Nelle fonti domenicane certo si accenna specificamente a Gioacchino come profeta dei due ordini mendicanti, ma non vi si trova un'appropriazione della dottrina dei tre status o di altre concezioni di Gioacchino pericolose per l'esistenza dell'ordine ecclesiastico. Cfr., per 89 90
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esempio, GERARDUS DE FRACHETO, Vitaefratrum ordinis praedicatorum, in Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum, I, 1896, 13- A Gioacchino fa riferimento anche lo Speculum historíale di Vincenzo di Beauvais, il quale inoltre attende addirittura persecuzioni della chiesa nel senso gioachimita, ma in un modo che non urta contro concezioni ecclesiastiche (il passo in questione è pubblicato in Mon. Ordinis Fratrum Praed., I, 13 s., nota). Infine anche Teodorico di Apolda asserisce che Gioacchino ha profetizzato l'avvento dei domenicani (Acta ampliora S. Dominici confessoris, AA SS agosto, I, Paris 1867, 570). Un esempio interessante di scritto profetico nato chiaramente in circoli domenicani è una profezia sorta in Spagna nella seconda metà del XIII secolo, edita da L. ÖLIGER, Ein pseudoprophetischer Text aus Spanien über den Heiligen Franziskus und Dominikus, in Kirchengeschichtliche Studien P. Michael Bihl als Ehrengabe dargeboten, Kolmar (s.d.), 13 ss. In questo scritto, che peraltro difficilmente può essere designato come gioachimita, si attendono persecuzioni della chiesa corrotta, la comparsa dell'Anticristo e una susseguente restaurazione della chiesa. Ma già la descrizione di questo tempo futuro (ivi, 28: «Omnia in statum debitum convertentur, ita ut unusquisque proprio gradu sit contentus et super omnes gentes romanus pontifex se esse Christi vicarium glorietur») mostra con ogni evidenza il carattere conservatore-ortodosso di questo scritto. Sul domenicano Arnoldo in Germania, che con il suo atteggiamento di dura opposizione assume una collocazione particolare, cfr. infra, 187 s. 112 SALIMBENE, MG S S XXXII, 226 ss. Cfr. N. SCIVOLETTO, Fra Salimbene da Parma, Bari 1950, 28; M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 793, i quali vedono in Ugo il primo esponente della nuova fase della diffusione di idee gioachimite. 113 MG SS XXXII, 294. u< Ivi, 236. 115 Ivi, 294; naturalmente si intende il Tractatus super quatuor evangelio. 1,6 Ivi, 236, 239. 117 Cfr. D . DOUIE, The Nature..., cit., 7. 1 , 8 MG SS XXXII, 226 ss. 119 Nell'edizione della Historia septem tribulationum curata da F . EHRLE, Die Spiritualen, ihr Verhältnis zum Franziskanerorden und zu den Fraticellen, ALKG, 2 (1886), 282. In una forma leggermente mutata questa profezia si trova anche nel codice gioachimita Vat. Lat. 3822; cfr. J . BIGNAMI-ODIER, Notes sur deux manuscrits de la Bibliothèque du Vatican, «Mélanges d'Archeologie et d'Histoire», 54 (1937), 219 s. Peraltro qui questa profezia non viene messa in relazione con il nome di Ugo di Digne. Del resto anche la Chronica XXIV generalium Ord. Minorum, in Analecta Franciscana, III, 1887, 405 racconta che Ugo era conosciuto universalmente per il suo «spiritus prophetiae». 1 2 0 SALIMBENE, MG SS X X X I I , 2 5 4 . Su questo ordine cfr. R . W . EMERY, The Friars of the Sack, «Speculum», 1 8 ( 1 9 4 3 ) , 3 2 3 ss.; I D . , A Note on the Friars of the Sack, «Speculum», 3 5 ( I 9 6 0 ) , 5 9 1 ss.; K . BALTHASAR, Geschichte..., cit., 1 3 5 . 121
SALIMBENE, M G S S X X X I I ,
294.
122
Cfr. K.
123
SALIMBENE, MG SS XXXII, 174, 2 3 6 , 302.
BALTHASAR,
Geschichte...,
cit., 136.
124 Cfr. E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 191 il quale si riferisce al fatto che le presunte citazioni di Gioacchino fatte da Salimbene derivano tutte, tranne due, dal Commento a Geremia. 125 Sulle tensioni tra clero e minoriti cfr. K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 30; RENÉ DE NANTES, Histoire..., cit., 255 ss. 126 M.M. SMIRIN, Die Volksreformation..., cit., 148 s. 127 Cfr. K . BALTHASAR, Geschichte..., 125 s.; D . DOUIE, The Nature..., cit., 5. 128 SALIMBENE, M G S S XXXII, 2 3 6 : «Nimis fuit obstinatus in dictis Joachim». 129 Cfr. D . DOUIE, The Nature..., cit., 29; G. BONDATTI, Gioachinismo..., cit., 66ss. 130 Cfr. E. BENZ, Die Exzerptsätze der Pariser Professoren aus dem Evangelium aetemum, ZfKG, 51 (1932), 446; H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 57 ss. 131 Di conseguenza anche gli articoli 1-6, 10, 11 dell'insieme delle trentuno proposizioni selezionate dai professori di Parigi, che naturalmente di proposito mettono in evidenza l'elemento ereticale nelle opinioni di Gerardo, riguardano la sua dottrina dell' Evangelium aeternum ovvero dell'abrogazione del Nuovo Testamento; cfr. E . BENZ, Die Exzerptsätze..., cit., 4l6ss.
L'INFLUSSO Dl GIOACCHINO SUI FRANCESCANI NEL XIII SECOLO
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132 Sulle tensioni a questo riguardo esistenti nell'Università di Parigi cfr. G. BONDATTI, Gioachinismo..., cit., 1 1 2 ss.; M . BIERBAUM, Bettelorden und Weltgeistlichkeit an der Universität Paris (Franziskanische Studien, 2 ) , Münster 1 9 2 0 ; P. G L O R I E U X , Le conflit de 1252-1257 à la lumière du Memoire de Guillaume de Saint-Amour, RTAM, 2 4 ( 1 9 5 7 ) , 3 6 4 ss. Gli scritti di Guglielmo di Saint-Amour, sorti in questo contesto e diretti contro gli ordini mendicanti, in particolare contro Gerardo, sono un esempio lampante della concezione della storia dominante, la quale si collegava ad Agostino e negava uno sviluppo ulteriore; cfr. il Tractatus de periculis novissimorum temporum di Guglielmo in M. BIERBAUM, Bettelorden..., cit., 1 9 : «Post istam vero sextam aetatem, quae est pugnantium, cum qua currit septima aetas, quae est quiescentium non est ventura aetas alia nisi octava, quae est resurgentium. Ergo nos sumus in ultima aetate huius mundi». Qui c'è solo la prospettiva delle afflizioni immediatamente incombenti, anzi già iniziate, da parte dell'Anticristo, e del susseguente giudizio universale. E. B E N Z , Die Exzerptsätze..., cit., 449 ha interpretato questo passo in maniera del tutto errata, affermando egli «che anche Guglielmo di Saint-Amour si colloca all'interno della teologia della storia degli spirituali. Anch'egli prospetta la dottrina del corso della storia della chiesa in sei tempi, cui segue il tempo della quies e il tempo della resurrezione». Benz non si accorge che qui si tratta della dottrina tradizionale delle età del mondo, nella quale la settima aetas della quies designa il tempo della quiete dei beati privi di corpo nell'aldilà (cfr. supra, 35). Un analogo fraintendimento ricorre anche in G. B O N D A T T I , Gioachinismo..., cit., 1 1 7 s. 133 Cfr. H . DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 8 7 ss.; K . BALTHASAR, Geschichte..., cit., 1 3 6 s.; G. B O N D A T T I , Gioachinismo..., cit., 9 6 s s . 134 II Protocollo di Anagni offre una succinta ma significativa sintesi dei contenuti dell 'Introductorius; cfr. H . DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 101 s. Il manoscritto di Dresda A 121 contiene certo con ogni evidenza una copia dell'Evangelium aetemum di Gerardo, ma i primi fogli, nei quali doveva stare l'Introductorius, sono stati eliminati; cfr. il mio articolo Eine Handschrift des Evangelium aeternum des Gherardino von Borgo San Donnino, «Zeitschr. f. Geschichtswissenschaft», 8 (I960), 156 ss. 135 Finora erano note solo alcune glosse di Gerardo sulla Concordia, cioè sul primo libro del suo Evangelium aeternum-, esse ci sono trasmesse nel Protocollo della commissione di Anagni, e in parte anche nel manoscritto della Concordia nel Cod. Borgh. 190 della Vaticana; cfr. H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 68 s., 91 s.; E. BENZ, Die Exzerptsätze..., cit., 443; G. B O N DATTI, Gioachinismo..., cit., 77, 89. Perciò Denifle e Bondatti credevano che Gerardo avesse potuto preparare solo l'Introductorius e la sua edizione della Concordia di Gioacchino. Viceversa Benz credeva (442 s.) che la commissione di Anagni avesse presente già una versione completa dell'Evangelium aeternum con le tre opere principali di Gioacchino; peraltro la sua argomentazione non era convincente. Ma il manoscritto di Dresda A 121 prova inequivocabilmente che Gerardo preparò e provvide di glosse tutt'e tre le opere principali di Gioacchino; cfr. la motivazione più specifica che ne ho dato nel mio articolo citato alla nota precedente. Qui ho mostrato pure che Gerardo accorciò il commento all'Apocalisse di Gioacchino per accoglierlo nel suo Evangelium aeternum, e lo designò come «apocalypsis nova». Questa denominazione corrisponde alla sua concezione complessiva, perché appunto egli ritiene che le opere di Gioacchino, in quanto «evangelo eterno», nel terzo status sostituiscono il Nuovo Testamento. Di conseguenza per lui il commento di Gioacchino sii'Apocalisse è la «nuova Apocalisse», che nel terzo status subentra al posto di quella antica, scritta da Giovanni. 136 II giudizio estremamente negativo di Denifle sul valore di fonti degli estratti (Das Evangelium..., cit., 84) è stato giustamente mitigato da E. BENZ, Die Exzerptsätze..., cit., 443 s., 451 s. 137 Neil'Introductorius Gerardo ha detto testualmente, come risulta dal Protocollo di Anagni: «Ad quam scripturam [cioè XEvangelium aeternum da lui pubblicato] tenetur populus tercii status mundi, quemadmodum populus primi status ad vetus testamentum et populus secundi ad novum» (Das Evangelium..., cit., 101). Già Salimbene difende, con perfetta pertinenza, Gioacchino dalle esagerazioni compiute da Gerardo; cfr. MG SS XXXII, 455. 138 H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 101, 131. 139 Ivi, 101. Cfr. E. B E N Z , Die Exzerptsätze..., cit., 4 4 5 . Nelle glosse ali 'Apocalypsis Nova Gioacchino viene equiparato inoltre all'angelo coperto da una nube e col libro aperto (Ap 10, 1 s.), e all'angelo che annuncia 1'Evangelium eterno (Ap 14, 6) (manoscritto di Dresda A 121, ff. Il4v, 122v; cfr. il mio articolo, p. 160, nota 23).
178
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
140
H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 131. Ivi, 101; cfr. anche la settima proposizione degli estratti dei professori di Parigi in E. B E N Z , Die Exzerptsätze..., cit., 417. Anche su questo punto si vede che la proposizione estratta concorda nell'essenziale con le opinioni di Gerardo. La denominazione «ordo nudipedum» mostra che anche Gerardo si schierò contro le deviazioni dai princìpi originari, nello stesso senso dell'ala spirituale all'interno dell'ordine francescano. Infatti il rifiuto di portare calzature ordinarie rientra nelle regole originarie patrocinate da Francesco; ancora nella Regula bullata del 1223 si dice, in maniera limitativa: «Et qui necessitate coguntur, possint portare calceamenta» (Analekten zur Geschichte des Franciscus von Assisi, hg. v. H. Böhmer, Tübingen 1930 2 , 141
21).
142 Cfr. la sesta proposizione degli estratti in E. BENZ, Die Exzerptsätze..., cit., 417: «Quod evangelio Christi aliud evangelium succedet et ita pro sacerdotio Christi aliud sacerdotium succedei. 143 Cfr. le glosse di Gerardo in H. DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 109; nel manoscritto di Dresda queste glosse si trovano ai ff. 33r, 5Ir. 144 Cfr. le glosse di Gerardo ivi, 123 (= f. 52r del manoscritto A 121): «Hec tribulatio erit in corporalibus et temporalibus [così nel manoscritto A 121; in Denifle erroneamente c'è spiritualibus] maxime. Sed tribulatio antichristi [così nel manoscritto A 121; in Denifle ricorre erroneamente maxima}, que statim sequetur interposto tamen quodam spacio quantulecunque pacis, erit magis in spiritualibus; unde erit periculosior quam prima». 145 Bisogna ipotizzare che secondo Gerardo quella persecuzione «corporale» deriverà da un re o imperatore vicino alla casa sveva. Così nel 1258 egli sostenne che Alfonso X di Castiglia era l'Anticristo; cfr. SALIMBENE, MG S S XXXII, 456. 146 Cfr. le indicazioni del Protocollo di Anagni ( H . DENIFLE, Das Evangelium..., cit., 1 0 0 s.), così come le proposizioni 3 e 4 degli estratti dei professori di Parigi (BENZ, Die Exzerptsätze..., cit., 4l6s.). 147 Sull'incidenza delle idee di Gerardo nell'opinione pubblica vi sono due testimonianze, tra loro contraddittorie, delle fonti. Matteo Paris nella Chronica maiora, ed. H.R. Luard, V, London 1880, 599, racconta che il popolo derideva i minoriti, negava loro offerte e li bollava come ipocriti. Al contrario Jean de Meung nel Roman de la Rose dice che a Parigi uomini e donne richiedevano il libro di Gerardo; cfr. H.CH. LEA, Geschichte der Inquisition im Mittelalter, III, Bonn 1913, 22. Si potrà ipotizzare che tra le persone colte l'Evangelium aeternum di Gerardo abbia potuto trovare interesse, e anche approvazione, in misura considerevole. Ma mi pare dubbia una larga influenza che superasse l'ambito dell'università. 148 Cfr. T. DENKINGER, Die Bettelorden in der französischen didaktischen Literatur des lì. Jahrhunderts, besonders bei Rutebeuf und im Roman de la Rose, «Franziskanische Studien», 2 (1915), 73-109- Rutebeuf si esprime con particolare chiarezza nel suo poema La complainte de Constantinople, versi 43 ss. (stampato in Oeuvres complètes de Rutebeuf, ed. E. Farai e J. Bastin, I, Paris 1959, 426; cfr. anche ivi, 52, 47). Specialmente la presa di posizione di Jean de Meun, peraltro di orientamento nettamente radicale, testimonia che tra il movimento borghese da un lato, e il gioachimismo nato dal seno del monachesimo e da esso caratterizzato dall'altro, vi furono poche relazioni dirette. 149 Perciò anche le espressioni usate da E. B E N Z , Ecclesia Spiritualis, cit., 244, 253, «atto rivoluzionario», «programma rivoluzionario», mi sembrano esagerate. 150 O . HOLDER-EGGER, Italienische Prophetien des 13• fahrhunderts, III, N A , 3 3 ( 1 9 0 8 ) , 1 3 9 . 151 Ivi, 186. 152 Ivi, 143. Significativamente proprio questo passo è conosciuto anche da Salimbene (MG SS XXXII, 228). 153 O. H O L D E R - E G G E R , Italienische..., I I I , cit., 155. 154 Ivi, 138, lo studioso vede nell'autore del Liber de oneribus e in Gerardo affinità spirituali. Siccome entrambi sono gioachimiti, ciò ovviamente è esatto fino a un certo punto. Tuttavia bisogna richiamare energicamente l'attenzione sul fatto che tra Gerardo, da un lato, e gli autori del Commento a Geremia, del Liber de oneribus e del Commento a Isaia, di cui parleremo, dall'altro, sussistono notevoli differenze. 155 Ivi, 138, lo studioso ipotizza che l'opera abbia avuto origine tra il 1251 e il 1254. In ogni caso il libro non dovrebbe essere stato composto molto dopo il 1255.
L'INFLUSSO DI GIOACCHINO SUI FRANCESCANI NEL XIII SECOLO
179
Ivi, 156. Ivi, 159. 158 Ivi, 153. Corrisponde perfettamente alla tendenza molto moderata di questo scritto che non si parli di uno pseudopapa, che invece compare in Gerardo e anche nel Commento a Geremia. 1 5 ' Così Salimbene (MG SS XXXII, 201) descrive Federico II come Anticristo. Cfr. anche la tavola con il drago dalle sette teste tramandata nel Liber Figurarum (ediz. Tondelli, tav. 14) nella versione del Cod. Vat. Lat. 3822, in cui, allontanandosi dal testo originario, a proposito della settima testa si dice: «Fredericus venit in proximo». In tale contesto è significativo anche un accenno nelle Distinctiones del francescano Tommaso di Pavia (composte intorno al 1254), il quale ugualmente ha visto una tavola con il drago, chiaramente falsificata da gioachimiti francescani, nella quale peraltro la sesta testa viene identificata con Federico II; ma questa sesta testa poggia sullo stesso punto del collo della settima, che indica l'Anticristo vero e proprio; ciò significa che l'Anticristo deve essere un successore immediato di Federico II. Perciò bisogna ipotizzare che questa tavola sia stata disegnata di sicuro poco dopo la morte di Federico II. Cfr. E. LONGPRÉ, Les Distinctiones de Fr. Thomas de Pavie, AFH, 16 (1923), 27 s.; cfr. in proposito M. REEVES, Joacbimistic Influences on the Idea of a Last World Emperor, «Traditio», 17 (1961), 325. 160 O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 33, 148: «Set quia Dominus sustinere non poterit amplius huius terre deos avaros et lubricos, lupi tui rapacis — filii — puto morsibus relinquendos»; cfr. anche ivi, 186. 161 Ivi, 160; cfr. 155 in cui la settima persecuzione della chiesa viene indicata come persecuzione ad opera dei patareni. 162 Ivi, 153. 163 Ivi, 170; cfr. in proposito le considerazioni di O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 137. 164 Ivi, 157: «Qui velut draco matris ecclesie filium vorare conabitur, ipse tandem devoretur»; cfr. 169, 151. 165 Ivi, 173, 182. L'autore a questo proposito rimanda ogni volta a un certo frater Rainerius come autore dell'attesa di un terzo Federico. Lo stesso Frater Raynerius de Pontio funge da destinatario del prologo nel Commento a Isaia. La figura di Raniero di Ponza, un compagno di Gioacchino per un certo periodo, è stata messa in una luce più chiara da H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 439 ss. Negli scritti gioachimiti il nome di Raniero è stato adoperato perché si sapeva che egli era un compagno di Gioacchino. Quando Grundmann (463) pone la questione se negli scritti pseudogioachimiti «abbia potuto avere un influsso [...] qualcosa del genuino ricordo dell'autentico Raniero di Ponza e delle sue lettere», si potrà dire con ampio margine di sicurezza che l'attesa di un terzo Federico, che nel Liber de oneribus viene attribuita a Raniero, non risale a lui; infatti tali attese divennero attuali solo dopo la morte di Federico II, quando Raniero era morto da lungo tempo. 166 O. H O L D E R - E G G E R , Italienische..., Ili, cit., 151. 167 Ivi, 170. 168 Ivi, 156 s. Ivi, 154. 170 Ivi, 156. In proposito viene aggiunto che questo tempo cade nel pontificato di Celestino III (1191-98). La menzione proprio di questo papa, e non di Innocenzo III, regnante intorno al 1200, è da far risalire al fatto che sotto il primo fu convalidata la fondazione dell'ordine di Gioacchino (cfr. H. GRUNDMANN, Zur Biographie..., cit., 504). Per i circoli gioachimiti il pontificato di Innocenzo III dovette sembrare poco adatto per l'inizio del terzo status, giacché Innocenzo nel 1215 fece condannare la dottrina trinitaria di Gioacchino, e anche su altre questioni corrispose poco agli ideali spirituali. 171 Perciò ritengo inesatta anche l'ipotesi di Holder-Egger (Italienische..., Ili, cit., 137), che il Commento a Geremia e il Commento a Isaia derivino dallo stesso autore. 172 Secondo Holder-Egger (Italienische..., Ili, cit., 136) è verosimile che il Commento a Isaia sia sorto dopo il Liber de oneribus. 173 Abbatis Joachim Florensis Scriptum super Esaiam prophetam, Venezia 1517, f. 3r: «[...] ad praelatos huius temporis [...], quorum est tam avara cupiditas tam superba carnalitas, ut de eorum abundantia vel abusu ceterorum puritas corrumpatur». 156 157
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
Ivi, f. 30v; cfr. anche gli aspri attacchi nel f. 43r. Ivi, f. 39r. 176 Ivi, ff. 4r, 39v, 58v; cfr. anche K. FRIEDERICH, Die den Abt Joacbim..., cit., 459177 Ivi, f. 49v: «Clericos et religiosos sordibus cupiditatis et luxurie inquinatos purgari expedit in conflatione pressure, que de olla manavit aquilonis». Il termine «nord» allude all'impero. 178 Ivi, ff. 4r, 29v, 39v, 42v, 46v. 179 Ivi, f. 37r: «Sub capite quasi draconis séptimo per aquilam [ = Federico II] et posteros post eum residuos occupando»; cfr. anche f. 31v. 180 Ivi, f. 35r. Da altri passi emerge che la persecuzione dell'Anticristo vero e proprio viene simboleggiata dalla coda del drago — in antitesi alla concezione di Gioacchino, secondo cui la coda del drago simboleggia l'ultima persecuzione da parte di Gog e Magog alla fine del terzo status-, cfr. ivi, ff. 47r, 49v. 181 Ivi, f. 35r. 182 Ivi, f. 38r. 183 Cfr. ivi, f. 49v: «Usque ad caudam seminis aquile»; cioè la coda del drago che rappresenta la persecuzione dell'Anticristo viene designata al tempo stesso come «seme», cioè successore di Federico II [ = aquila]. 184 Ivi, f. 42v; qui il regulus è designato come filius perditionis, e ciò significa l'Anticristo. 185 Ivi, f. 30r; cfr. anche f. 59r, in cui il «filius perditionis», cioè l'Anticristo, viene annoverato tra i «posteris» di Federico II. 186 Ivi, f. 47r. 187 Ciò è ipotizzato anche da K. FRIEDERICH, Die den Abt Joacbim..., cit., 487, 494. 168 Scriptum super Jesaiam, f. 55r; dunque — proprio come nel Commento a Geremia — la chiesa alla fine del secondo status soggiace a tre persecuzioni; 1. da parte dell'impero; 2. da parte degli eretici; 3. da parte dei saraceni ovvero dei pagani. 189 Ivi, ff. 34r, 40v, 3r, 31r. '5° Ivi, ff. 34v, 30v, 46V. 191 Ivi, f. 33v. 192 In questo senso depone specialmente f. 30v: «In nonaginta annis futuris ab anno MCCC [si intende di sicuro MCC] prostrabitur prorsus mundi superbia». Cfr. anche K. FRIEDERICH, Die den Abt Joacbim..., cit., 481. 193 Scriptum super Jesaiam, f. 50r. 194 Ivi, ff. 58r/v, 45v. 195 Ivi, f. 38v. 196 Ivi, f. 38v. 197 Ivi, ff. 7r, 8v, 35r, 37r, 48r, 52v. 198 Ivi, f. 30r. 199 Ivi, f. 46r. 200 Ivi, ff. 46v, 56V. 201 Ivi, f. 38v: «...Clericis imponent silentium». 202 In contrasto con l'opinione sostenuta qui, M.E. REEVES, The Abbot..., cit., 367 ritiene che non solo il Commento a Geremia, ma anche il Commento a Isaia sia stato composto da discepoli immediati di Gioacchino all'interno della congregazione di Fiore. Questa ipotesi mi pare insostenibile; infatti mentre nel Commento a Geremia vi sono comunque degli indizi che fanno apparire come possibile un'origine all'interno del contesto florense-cistercense (così, per esempio, il ruolo importante attribuito all'ordine cistercense nello sviluppo verso il terzo status), nel Commento a Isaia, così come del resto anche nel Liber de oneribus, non vi sono in alcun modo punti d'appoggio per l'ipotesi di M. Reeves. 203 Cfr. E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 192; cfr. anche le pertinenti osservazioni di F. BAETHGEN, Franziskanische Studien, HZ, 131 (1925), 435 sulla tinta aristocratica, nonostante tutta la «popolarità» francescana, delle visioni di Salimbene. Perciò a me pare errato pure il giudizio di N . S C I V O L E T T O , Fra' Salimbene da Parma, cit., 126: «La posizione di Salimbene di fronte alla Chiesa Cattolica è quella di un eretico». Su tale questione dà un giudizio più corretto F. BAETHGEN, Franziskanische Studien, cit., 459 s. Una convincente analisi della collocazione sociale di Salimbene è offerta da C. VIOLANTE, Motivi e carattere della Cronica di Salimbene, «Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Lettere, storia e filosofia», serie II, 22 (1953), 174 175
L'INFLUSSO DI G I O A C C H I N O
SUI F R A N C E S C A N I N E L X I I I
SECOLO
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109 ss. Violante sottolinea anche la concezione della vita di Salimbene, improntata a ideali aristocratico-cortesi, e constata molto giustamente che Salimbene ha ripreso solo i motivi esteriori del gioachimismo (132 s.). 204 Cfr. per esempio le sue invettive contro i chierici, MG SS XXXII, 412 s.; egli non può fare a meno di accogliere nella sua Cronaca la leggenda di una presunta lettera di Satana a un sinodo di prelati e chierici {ivi, 419). Su questa lettera cfr. G. ZIPPEL, La lettera del diavolo al clero dal sec. XII alla Riforma, BISI, 70 (1958), in part. 138 s. 205 Ciò va sottolineato contro E. BENZ, Die Kategorien der religiösen Geschichtsdeutung Joachims, ZfKG, 50 (1931), 63, il quale in questo contesto parla di conseguenze rivoluzionarie. 206 E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 49 ss. sulla base dell'interpretazione dell'incidenza di Francesco dopo la sua morte ha fatto una serie di osservazioni calzanti sulla sublimazione della figura del fondatore dell'ordine, di cui testimonia soprattutto anche la comparsa della leggenda delle sue stimmate. 207 Cfr., per esempio, i riferimenti di Salimbene a un ciabattino di Parma che profetizzava (MG SS XXXII, 512, 532), come pure a un ex-tessitore che divenne frate laico cistercense e compose scritti profetici (ivi, 456 s.). 208 Cfr. la constatazione pertinente di O. EBERZ, Dantes joachimitischer Ghibellinismi, «Hochland», 18 (1920/21), 216: «Il numero dei profeti di un'epoca è in rapporto diretto col grado di disgregazione della loro società». 209 O. HOLDER-EGGER, Italienische..., I, cit., 149; F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee, cit., 84; K. HAMPE, Eine frühe Verknüpfung der Weissagung vom Endkaiser mit Friedrich II. und Konrad IV. (SB der Heidelberg. Akad. der Wissensch., Phil.-hist. Kl.), 1917, 7; E. KANTOROWICZ, Zu den Rechtsgrundlagen der Kaisersage, DA, 13 (1957), 127. La Sibilla è pubblicata in O. HOLDER-EGGER, Italienische..., I, cit., 155 ss.; una forma successiva, più breve, si trova
i n O . HOLDER-EGGER, Italienische..., 210
II, N A , 30 (1905),
ALEXANDER MINORITÀ, e d . A . W a c h t e l ,
328ss.
288.
211 Anche nel Commento a Geremia (In Jerem., 366, 379, 385 s.) viene già menzionata la Sibilla eritrea. Ciò testimonierebbe l'esistenza di questa Sibilla addirittura all'inizio degli anni Quaranta. Peraltro questa conclusione non è vincolante, finché manca un'edizione critica del Commento, e non ci si può rendere conto della quantità di interpolazioni successive. Ma c'è da osservare che l'autore del Commento a Geremia (366 s.) esprime esplicitamente la sua meraviglia, perché secondo le indicazioni della Sibilla eritrea d o p o la prima aquila (Federico II) deve comparire anche una seconda aquila, della quale l'autore del Commento non sa che fare. Ciò testimonia che queste parti del Commento a Geremia furono redatte prima della morte di Federico II, e che quindi anche la Sibilla eritrea esisteva già allora; del resto le sue indicazioni sulla seconda aquila non sono compatibili con i dati biografici di Corrado IV (cfr. O. HOLDER-EGGER, Italienische..., I, cit., 168). Ciò testimonia parimenti che la versione della Sibilla eritrea riprodotta in NA 15 risale a prima del 1250. 212 Ciò è testimoniato soprattutto dalle considerazioni della Sibilla sui matrimoni di Federico II (Italienische..., I, cit., 166, 168), che sono calzanti solo fino al terzo matrimonio (con Isabella d'Inghilterra: 1235-41); del tutto incomprensibili sono soprattutto le indicazioni su una quinta unione con una «gallicana». 213 Cfr. in proposito C.H. HASKINS, Studies in the History of Medieval Science, Cambridge 19272, 173 ss. Haskins è addirittura propenso a riconoscere come esatta l'indicazione contenuta nell'intestazione, che il siciliano Eugenio da Palermo, attivo alla fine del secolo XII, sia il traduttore del modello greco. 214
C f r . O . HOLDER-EGGER, Italienische...,
I, cit.,
148.
Ivi, 162, 165, 172. 216 L'interesse che i gioachimiti francescani dimostrarono per questa profezia è testimoniato tra l'altro dai frequenti rimandi di Salimbene alla Sibilla eritrea-, cfr. MG SS XXXII, 174, 243, 347, 349, 537. 217 O. HOLDER-EGGER, Italienische..., I, cit., 171 s.; cfr. anche 163: «Et erunt universi terrigene convenientes in unum, ut unum ovile subeant et virga regantur in una». 218 Stampato in O. HOLDER-EGGER, Italienische..., II, cit., 358 ss. Anche Salimbene raccoglie questa profezia nella sua cronaca (MG SS XXXII, 361 s.). 215
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
219 Si tratta dei versi 5 4 - 6 2 della edizione in Italienische..., cit., 3 6 4 (in Salimbene sono i versi 4 3 - 5 0 ) ; cfr. O . H O L D E R - E G G E R , Italienische..., I I , cit., 3 7 5 . 220 Federico II è designato come «terre malleus universe« (secondo Ger 50, 23) già nel 1239 da Gregorio IX (MG, Ep. saec. XIII, tom. I, nr. 750, p. 651); lo stesso avviene in uno scritto del cardinale Raniero di Viterbo del 1245 (cfr. F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 129). 221 O . H O L D E R - E G G E R , Italienische..., I I , cit., 3 6 5 s. (versi 7 6 - 7 7 ) . 222 Stampato in L. TONDELLI, Profezia gioachimita del sec. XIII delle regioni Venete, «Studi e Documenti della R. Deputazione di Storia Patria per l'Emilia e la Romagna. Sezione di Modena», 6 (1940), 5 s. Secondo Tondelli (ivi, 8) eJ.CH. HUCK, Joachim von Floris, cit., 218, questa profezia deve essere sorta nel 1264. Tuttavia questo termine cronologico a me sembra assai incerto; probabilmente la profezia è composta di diverse parti che non sorsero contemporaneamente (così con le parole «Post Celestinum...» comincia una parte completamente nuova sotto il profilo tematico). 223 Cfr. L. TONDELLI, Profezia..., cit., 6: «Crescentibus malis romane profecto emarcescent ecclesie et virge pastorum ad nichilum redigentur [...]. Post hec rehedificabitur romana Ecclesia in afflictione dierum». 224 Su questi versi cfr. M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 787. 225 J . C H . H U C K , Joachim von Floris, cit., 2 1 8 S . , e L. TONDELLI, Profezia..., cit., 7 ipotizzano che con questo sia inteso Celestino IV. 226 Annales de Dunstaplia (Rer. Brit. medii aevi S S 3 6 , I I I = Annales Monastici I I I , 1 8 6 6 ) , 1 5 1 ; M A T T E O DI PARIGI, ed. Luard, I I I {Rer. Brit. medii aevi S S 5 7 , I I I ) , 5 3 8 . 227 Stampato i n j . BIGNAMI-ODIER, Notes..., cit., 229. Su questo manoscritto cfr. anche O . H O L D E R - E G G E R , Italienische..., III, NA, 33 (1908), 97 ss. 228 Negli Annales Ratisponenses (MG SS XVII, 605) di Eberardo e, in dipendenza da essi, nella continuazione degli Annales Rudberti Salisburgenses (MG SS IX, 811) redatta da Weichard di Polheim. Cfr. in proposito anche H. GRAUERT, Meister Johann von Toledo, München 1911, 281 ss. Cfr. inoltre la cronaca di Pietro e Floriano di Villola, in Corpus Chronicorum Bononiensium, I, ed. A. Sorbelli (Rer. Ital. SS XVIII, 1), 4 s. 229 Analoghe espressioni sono contenute nei versi polemici tra l'imperatore e il papa, ricordati sopra alla n. 219, scritti poco prima del 1250 e raccolti nel Vaticinium di Michele Scoto. 230 Pertanto la versione tramandata dai cronisti inglesi e nel Cod. Vat. Lat. 3822, che invece dell'annientamento degli ordini mendicanti profetizza il rafforzamento di un «ordo novus» a spese del clero, è più vicina alle visioni gioachimite. Non è dunque un caso che nel Cod. Vat. Lat. 3822, che ha un carattere gioachimitico pronunciato, venga tramandata proprio questa versione. 231 Mentre Grundmann (Über die Schriften des Alexander von Roes, DA, 8, [1951], 166) riteneva che solo grazie ad Alessandro di Roes il Liber de semine fosse stato reso noto in Italia, B. Hirsch-Reich (Alexander von Roes Stellung zu den Prophetien, MIÖG, 67 [1959], 307, 312) ha messo in risalto alcuni aspetti per cui questo scritto era noto nei circoli spirituali già prima del 1267, dunque molto prima di Alessandro di Roes. 232 Cfr. supra, p. 54. 233 ALEXANDER VON R O E S , Schriften, cit., 1 6 1 , 1 6 9 . Cfr. B . H I R S C H - R E I C H , Zur "Noticia saeculi"..., cit., 585. Nuovo rispetto al Liber de semine è anche l'accento antifrancese delle predizioni, che corrisponde pienamente all'atteggiamento di Alessandro verso l'impero. 234
235
SALIMBENE, M G
SS X X X I I ,
225.
Cfr. F . KAMPERS, Zur "Notitia saeculi" des Alexander von Roes, in Festgabe K. Th. Ileigel zur Vollendung seines 60. Lebensjahres, München 1903, 122 ss.; H. GRUNDMANN, Über die Schriften..., cit., 166, il quale constata che la Noticia è «inconfondibilmente intonata a lettori della cerchia dei Colonna, con i suoi protetti spirituali francescani». 23
« SALIMBENE, M G
SS X X X I I ,
225.
Über die Schriften..., cit., 1 7 1 in questo contesto giustamente si riferisce al fatto che Alessandro, nonostante l'influsso da parte della cerchia dei Colonna, non è diventato uno «spirituale e gioachimita» nel senso stretto della parola. 238 Cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, IV, München 1956, 19 s. 239 Cfr. per esempio i riferimenti in J . C H . H U C K , Joachim von Floris..., cit., 2 2 4 s. È da ricordare anche un'altra profezia per il 1264 citata negli Annales Piacentini Gibellini, la quale 237
H . GRUNDMANN,
L'INFLUSSO DI GIOACCHINO SUI FRANCESCANI NEL XIII SECOLO
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termina con le parole: «Sic Orbis pacificatur», ma a parte questa attesa molto generica di pace offre poco sotto il profilo del contenuto (MG SS XVIII, 514). 240 I . VON DÖLLINGER, Der Weissagungsglaube und das Prophetentum der christlichen Zeit, in Kleinere Schriften, hg. v. F.H. Reusch, Stuttgart 1890, 463. 241 Al suo posto Bonaventura usa la tripartizione, che si inquadra perfettamente nella dottrina ecclesiastica: «tempus legis naturae», «tempus legis scriptae» (fino a Cristo), «tempus legis gratiae» (BONAVENTURA, Breviloquium, in Opera omnia, V, Quaracchi 1891, 203). Questa tripartizione si trova già in Ugo di S. Vittore e in Onorio di Autun: cfr. H. GRUNDMANN, Studien..., cit., 90 [tr. it. cit., 92]. 242 Brevil., in Opera omnia, V, 203. 243 BONAVENTURA, Collationes in Hexaemeron et Bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. Delorme, Ad Claras Aquas 1 9 3 4 , 1 9 3 . Cfr. in proposito anche J . RATZINGER, Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, München-Zürich 1959, 18 ss. [tr. it., San Bonaventura e la teologia della storia, Firenze 1991, 53 ss.], il quale giustamente sottolinea l'influsso di Gioacchino su Bonaventura; però la sua constatazione, che «in realtà Bonaventura contrappone allo schema settenario semplice di Agostino lo schema settenario doppio di Gioacchino, scegliendo per quest'ultimo» (ivi, 19; tr. it. cit., 55), suscita un'impressione completamente falsa, perché è tipico di Bonaventura inserire lo schema gioachimita nello schema agostiniano da lui espressamente conservato, rendendolo così innocuo per la chiesa. 244 Collationes, cit., 191; Opera omnia V, 406. 245 Collationes, cit., 184; Opera omnia, V, 405. 246 BONAVENTURA, Legenda S. Francisci, in Opera omnia, Vili, 1896, 504. 247 R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 129; G. B O N D A T T I , Gioachinismo..., cit., 158 ss. 248 Collationes, in Opera omnia V, 408. Federico II viene menzionato quale persecutore della chiesa solo nella versione delle Collationes edita da Delorme (192). Sul decorso del sesto periodo cfr. anche le considerazioni chiarificatrici di J . RATZINGER, Die Geschichtstheologie..., cit., 30 [tr. it. cit., 73 s.]; L . T O N D E L L I , Il Libro delle Figure, I, cit., 258, 264 s. esprime la congettura che l'attesa da parte di Bonaventura di un «princeps zelator ecclesiae» sia una fonte dell'attesa del Dux di Dante; ma stando al ruolo accessorio che questa figura ha in Bonaventura, ciò a me sembra molto improbabile. 249 Collationes, ed. Delorme, cit., 185, 192. Ivi, 192 s. 251 Ivi, 193. Cfr. supra, nota 219. 252 Collationes, in Opera omnia, V, 406. 253 Collationes, ed. Delorme, cit., 185. 254 Ivi, 193; Collationes, in Opera omnia, V, 408. 255 Collationes, ed. Delorme, cit., 185. 256 Ivi, 192; cfr. Collationes, in Opera omnia, V, 428, in cui Bonaventura, similmente a Gioacchino, parla di una «apertio scripturarum» ventura. Cfr. J . RATZINGER, Die Geschichtstheologie..., cit., 60 ss. [tr. it. cit., 146 ss.]. 257 Collationes, in Opera omnia V, 445: «Oportet, quod in fine generetur Ecclesia contemplativa». 258 Collationes, ed. Delorme, cit., 193. 259 Ivi, 185; Collationes, in Opera omnia, V, 408: «Quantum autem durabit illa pax, Deus novit». 260 Anche G. B O N D A T T I , Gioachinismo..., cit., 137 ss. ipotizza, insieme a Ratzinger, simili influssi gioachimiti. 261 Cfr. in proposito anche J. RATZINGER, Die Geschichtstheologie..., cit., 48 ss. [tr. it. cit., 105 ss.], il quale constata che l'«ordo ultimus», nella visione di Bonaventura, sarà sì un ordine che vive secondo gli ideali di Francesco, ma non un ordine identico con l'ordine francescano reale del XIII secolo. Bonaventura ha dunque chiaro che i francescani non realizzano ancora affatto pienamente le istanze del fondatore dell'ordine, ma nel contempo sottolinea che i francescani si trovano, prima di tutti gli altri ordini monastici, nella «transizione verso l'ultimo livello» (ivi, 53; tr. it. cit., 114). 262 Collationes, in Opera omnia, V, 421; cfr. J. R A T Z I N G E R , Die Geschichtstheologie..., cit., 80, 68 s. [tr. it. cit., 162],
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Collationes, in Opera omnia, V, 408. Collationes, ed. Delorme, cit., 185: «Et inveniuntur homines tantae sanctitatis sicut fuit tempore apostolorum». 265 Cfr. J. RATZINGER, Die Geschichtstheologie..., cit., 115 [tr. it. cit., 223], il quale afferma che nelle Quaestiones de perfectione evangelica di Bonaventura «viene alla luce per la prima volta [...] un concetto della storia che tradisce chiare tracce di una interpretazione gioachimitoescatologica dell'ordine di Francesco». 266 BONAVENTURA, De perfectione evangelica, in Opera omnia, V, 148. 267 Ivi, 150. 268 Ivi, 148. 269 Ivi, 150: «Non enim dico, quod universalis ecclesia in omnibus ad paupertatem reducenda sit [...]; sed qui volunt possunt apostolorum imitari perfectionem et paupertatis altitudinem». 263 264
IV. Imperatore della pace e papa angelico
Nel primo capitolo di questo libro si è già mostrato che dall'alto medioevo, con la diffusione in Occidente delle profezie imperiali bizantine, rimase anche qui sempre viva l'attesa di un potente imperatore della pace operante alla fine dei tempi. Il Ludus de Antichristo, per esempio, o le numerose versioni della Sibilla tiburtina nei secoli più diversi 1 testimoniano molto chiaramente la forza vitale di tali attese, promosse deliberatamente da interessi dinastici. Ma per quanto fortemente abbiano qui potuto giocare interessi dinastici, dobbiamo tener presente d'altra parte che queste profezie avrebbero potuto ottenere l'effetto voluto solo se avessero trovato risonanza nell'opinione pubblica più vasta. Ciò significa ancora una volta che le profezie imperiali, proprio perché destinate a interessare cerchie più ampie, dovevano conformarsi ai desideri e all'universo rappresentativo di ampi strati popolari, sia pure solo in modo tale da accogliere i sogni, del tutto generici e non realizzabili, di un tempo felice venturo. Pertanto possiamo presupporre che profezie del genere, più che gli ampi trattati degli autori pseudogioachimiti del XIII secolo, riflettano, almeno in parte e sotto molteplici aspetti, le idee di strati popolari più ampi, il che peraltro non significa che esse esprimessero effettivamente e direttamente i loro interessi. Se consideriamo questo elemento popolare nelle profezie imperiali, acquista grande rilevanza la questione di come si siano evolute nel XIII secolo le antiche attese dell'imperatore degli ultimi tempi. Bisognerà indagare anzitutto se le attese gioachimite di riforma, in un primo momento circoscritte a limitate cerchie ecclesiastiche, quelle attese che comportavano una negazione dell'ordine esistente e la sua sostituzione con un nuovo, perfetto status, abbiano inciso in qualche modo anche sulle attese dell'imperatore degli ultimi tempi; ciò significherebbe infatti che quel rifiuto delle condizioni esistenti non si radicò soltanto nell'idealismo utopico, lontano dal mondo, di circo-
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li monastici, bensì venne alla luce in maniera sempre più chiara anche nella coscienza di strati popolari più ampi. Che questo fosse il caso, lo sappiamo di per sé già dall'ampia base di massa che i movimenti ereticali ebbero dal XII secolo. Ma in questa sede ci interessa sapere se un simile sviluppo si può constatare anche nella configurazione del complesso di idee millenaristiche. Anzitutto dobbiamo tener presente che l'evoluzione ulteriore delle profezie imperiali è legata inscindibilmente alla figura di Federico II; l'opera di questo sovrano ha avuto un significato decisivo per l'elaborazione ulteriore delle attese di un imperatore degli ultimi tempi. Ciò da un lato sta sicuramente in relazione col fatto che i molti problemi irrisolti di quel secolo XIII, carico di tensioni sociali e politiche, richiedevano proprio un grande sovrano, al quale ricondurre le proprie speranze o i propri timori 2 ; dall'altro bisogna pensare che la violenta lotta tra papato e impero, che durava da lungo tempo e veniva condotta con tutti i mezzi di propaganda, induceva a elevare straordinariamente e a ingigantire in una misura sovrumana la figura di quest'imperatore, in senso positivo agli occhi dei suoi fautori, in senso negativo agli occhi dei suoi nemici. Mentre egli nelle file del partito papale dal 1239 venne considerato precursore dell'Anticristo 3 e talvolta nei circoli gioachimiti venne concepito addirittura come lo stesso Anticristo 4 , il partito imperiale contrastava questi attacchi con esagerazioni analoghe, ma in direzione opposta. Così Federico II, in un appello proclamato esattamente nell'agosto del 1239 — dunque poco dopo essere stato indicato dal papa come precursore dell'Anticristo — giunse a paragonare la sua cittadina natale, Jesi, con Betlemme 5 . Importante per l'ulteriore elaborazione della figura di Federico II che l'opinione pubblica doveva acquisire è anche un libello, sorto nel 1240 dall'ambiente dell'imperatore, nel quale si ventila la minaccia, nel caso che il papa non ritiri la scomunica di Federico II, che l'imperatore «il nostro magnanimo leone, che oggi ancora giace nel sonno, col tremendo suono del ruggito trascinerà a sé dai confini del mondo tutti i pingui tori, pianterà la giustizia, e porterà la chiesa sulla retta via, strappando e spezzando le corna dei superbi» 6 . Queste idee vennero ulteriormente sviluppate in una lettera circolare ai re europei preparata nel 1245, nella quale Federico II dichiarava essere sua volontà «di indurre i chierici di ogni grado, ma in prima linea quelli di grado più alto, a vivere finalmente nella stessa condizione in cui vivevano nella chiesa antica, nella quale conducevano una vita apostolica e imitavano l'umiltà del Signore» 7 . Questi cenni mostrano che Federico II tentava consapevolmente di sfruttare per i suoi fini politici le correnti popolari contrarie
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alla chiesa mondanizzata. Questa ripresa di tendenze antigerarchiche ampiamente diffuse poteva portare come effetto che egli trovasse simpatie presso i sostenitori dell'ideale apostolico di povertà. Così Salimbene afferma che a fianco dell'imperatore c'era un francescano gioachimita, Bartolomeo Guisculus, al quale riconosce tra l'altro di essere «honeste et sancte vite in ordine» 8 . Di fronte a questa situazione non meraviglia che alla battaglia di Federico II contro il papato venisse attribuito in parte, dal lato sia degli amici sia dei nemici dell'imperatore, un rilievo maggiore di quello che le spettasse in realtà. Un esempio particolarmente significativo di questa tendenza è costituito dalle idee del domenicano Arnoldo. In generale certo i domenicani erano molto meno inclini dei francescani a inasprire in senso pericoloso per l'ordine ecclesiastico l'ideale apostolico di povertà. Si è già accennato al fatto che la valorizzazione delle profezie gioachimite a favore dell'ordine domenicano non fu in alcun modo legata a tendenze antigerarchiche 9 . Arnoldo però costituisce una rara eccezione a questa regola. Al tempo di papa Innocenzo IV, regnante dal 1243, e già prima della morte di Federico II egli pubblicò in Germania due scritti propagandistici 10 , le cui tesi non sono affatto più moderate dei più duri attacchi degli spirituali francescani; in esse si può constatare chiaramente una influenza da parte di Gioacchino 11. Arnoldo certo non riprende la dottrina dei tre status, ma recupera la suddivisione di Gioacchino dell'intera storia universale in sette aetates, laddove la settima età viene concepita non, secondo la concezione ecclesiastica usuale, come decorrente nell'aldilà in parallelo con la sesta età, ma come cronologicamente successiva alla sesta età che comincia con Cristo 12 . La settima aetas è, proprio nel senso di Gioacchino, un tempo di pace e di giustizia, nel quale secondo il decreto di Dio subentrerà una «renovatio» della chiesa, una restaurazione del suo status originario 13 . A causa delle molteplici trasgressioni e dei molti vizi i cattivi sacerdoti sono da considerare in qualche modo come deposti e condannati, e la cura dei fedeli ovvero le chiavi della santa chiesa sono state affidate dal Signore ai «fratres praedicatores» 14 . I membri di questo «ordo praedicatorum», chiaramente quindi dell'ordine domenicano, che segue l'«apostolica doctrina», sono i «veri pastores» della chiesa 15 . Di conseguenza Dio ha comandato a tutti i fedeli addirittura di separarsi da quei sacerdoti e di affidarsi perciò ai frati predicatori, i veri rappresentanti di Cristo l6 . Le idee di Arnoldo implicano dunque una sostituzione del clero secolare con l'ordine dei predicatori; egli esige per il suo ordine quello che i francescani gioachimiti esigevano per l'ordine dei minori, laddo-
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ve nel caso di Arnoldo la discrepanza tra i. suoi alti ideali, le sue elevate attese, e lo stato di fatto dell'ordine domenicano è ancora più grande che nel caso dell'ordine francescano. In proposito il domenicano Arnoldo, allo stesso modo dei gioachimiti dell'ordine francescano, ha trasformato completamente l'ideale di Gioacchino di una «ecclesia spiritualis» nel senso dell'ideale apostolico di povertà. Su un punto però Arnoldo va oltre i princìpi contenuti negli scritti pseudogioachimiti sorti all'interno dell'ordine minorità. Mentre questi designano l'imperatore persecutore che purifica la chiesa come una forza anticristiana, da aborrire, Arnoldo osa mettersi apertamente a fianco di Federico II. Egli si rivolge direttamente all'imperatore con l'esortazione ad agire insieme a lui, nel senso dei suoi ideali, per una riforma della chiesa17. Infatti Federico è il solo sovrano capace di realizzare un compito così formidabile 18. Per la prima volta quindi, nella letteratura profetica presa in considerazione in questa sede, l'imperatore impegnato in un violento dissidio contro la gerarchia ecclesiastica viene sentito come un amico e un ausilio delle forze riformatrici che mirano a un nuovo, perfetto status della chiesa. È chiaro che solo un riformatore ecclesiastico oltremodo radicale, in realtà più vicino all'eresia che all'ordine domenicano, poteva compiere questo passo teorico, e indicare altresì il persecutore della chiesa, Federico II, come «defensor ecclesie» — nello stesso tempo in cui Federico II probabilmente era già messo al bando e veniva bollato come Anticristo dai francescani gioachimiti, che per molti aspetti erano spiritualmente affini ad Arnoldo. Perciò non desta meraviglia se anche le altre tesi di Arnoldo superano per asprezza aggressiva gli scritti francescano-gioachimiti. Innocenzo IV viene indicato come «omnino Christo contrarius»; perciò egli e i suoi seguaci sono eretici 19 . Anche queste espressioni dirette contro il papa inducono a pensare che l'altro scritto, il De Innocentio IV Antichristo Libellus, provenga ugualmente da Arnoldo. In questo scritto l'autore cerca di dimostrare che papa Innocenzo IV in persona è il vero Anticristo20. Di conseguenza egli predice che quest'ultimo, il «caput omnium iniquorum», sarà privato insieme ai suoi seguaci di tutti i beni e di tutte le dignità, e sarà ucciso dal soffio della bocca di Cristo 21 . Infine un'accusa straordinariamente dura contro il clero è costituita dall'enumerazione, contenuta nello scritto di Arnoldo, delle venticinque «eresie» nelle quali sarebbero caduti gli ecclesiastici attuali, e a causa delle quali essi avrebbero perso il loro ufficio. Questo elenco di eresie dà molto chiaramente espressione, in maniera abile e persuasiva, ai desideri e alle esigenze degli strati oppressi della popolazione.
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Non sono questioni teologiche controverse qualsiasi e neppure specifiche dottrine ereticali a stare qui in primo piano, ma mancanze che per lo più si potrebbero qualificare molto meglio come trasgressioni di natura sociale, e che in quanto tali dovevano essere sentite da tutti gli sfruttati, anche quelli che non aderivano ad alcuna particolare dottrina ereticale. Così Arnoldo accusa gli ecclesiastici dell'eresia del furto, perché essi sottraggono ai poveri i loro beni, e depredano la cristianità con imposte, gabelle e molte altre ruberie 22 . Inoltre sono colpevoli dell'eresia della cupidigia, perché essi, dal chierico più in alto a quello più in basso, sono diventati schiavi dell'avidità, e quindi compagni di ladri e usurai 23 . Un rimprovero particolarmente ardito e radicale contro gli ecclesiastici è costituito dall'accusa secondo cui essi sarebbero colpevoli dell'eresia dell'accidia, «giacché essi come uomini accidiosi non hanno meritato i benefici di Dio con un servizio doveroso» 24 . A dire il vero già in precedenza analoghe accuse erano state sollevate da critici degli ecclesiastici, ma qui esse acquistano per principio una asprezza straordinaria, per il semplice fatto che queste mancanze vengono qualificate come eresie. Dal punto di vista ecclesiastico, un critico che rinfaccia agli ecclesiastici venticinque eresie colloca inevitabilmente se stesso nella posizione di eretico dichiarato. La lista di eresie di Arnoldo tradisce senza dubbio, come mostrano i pochi esempi addotti, moventi agitatori. Palesemente qui parla non un pensatore isolato, ma un uomo abituato a sostenere pubblicamente in mezzo al popolo le sue idee. In questo senso depongono soprattutto anche gli accenni, che più volte compaiono nel suo scritto, ai «pauperes», con i quali chiaramente intende non i monaci che rifiutano ogni possesso, ma effettivamente gli strati poveri, oppressi del popolo. Egli designa se stesso come «advocatus pauperum» 25 e dichiara che per pietà della miseria dei poveri e per comando divino presenta le sue proposte all'imperatore 26 . Nel giudizio che investirà gli ecclesiastici, i prelati saranno gli accusati e i «pauperes» gli accusatori 27 . Questi passi mostrano chiaramente che l'autore ha contatti con le masse popolari, contrariamente agli autori degli scritti pseudogioachimiti della metà del XIII secolo, i quali vedono il mondo dalla visuale monastica e nella cui concezione il popolo in sostanza non svolge alcun ruolo. D'altra parte però si deve osservare che anche nella concezione di Arnoldo il fattore decisivo nel sovvertimento imminente non è, per esempio, il popolo, bensì l'istituto imperiale. Ciò ancora una volta corrisponde appieno all'atteggiamento di spirito prevalente nel medioevo, in antitesi, per esempio, al pensiero rivoluzionario moderno. In quel tempo, quando si ritenevano indispensabili mutamenti politici o
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sociali radicali, che necessariamente comportavano almeno in certa misura l'uso della violenza, si guardava volentieri a una potente istituzione esistente, cui si attribuivano nel caso finalità ideali mai corrispondenti alla realtà. Ciò emerge in sempre nuove forme, fino alla sollevazione del 1381 da parte dei contadini inglesi che confidavano nel re, e così pure in seguito. Fu necessaria una lunga evoluzione, prima che nelle masse popolari emergesse più chiaramente la fede nella propria forza di trasformazione storica. Da quanto detto dovrebbe essere chiaro che le idee di Arnoldo, nonostante l'assenza di dottrine tipicamente ereticali, mostrano un'asprezza che lo accosta ai movimenti popolari ereticali. Tuttavia non è possibile mettere il domenicano Arnoldo in diretta relazione con gli eretici di Schwàbisch-Hall, sui quali Alberto di Stade fa nel 1248 un resoconto 28 . In ogni caso nel nostro contesto è interessante che anche questi eretici si riconoscessero apertamente in Federico II e nel figlio Corrado IV, che ai loro occhi sono «perfecti»29. Nel contempo essi dichiarano che il papa è un eretico e non ha alcun potere, perché non osserva le regole della vita apostolica. Inoltre essi condannano in particolare gli ordini mendicanti 30 e i cistercensi, e affermano che solo loro insegnano la «vera doctrina». Le dottrine di questi eretici, come pure gli scritti di Arnoldo, mostrano che la lotta tra l'imperatore Federico II e il papato riuscì a eccitare gli animi anche in Germania; anzitutto perché venne concepita come una lotta contro la gerarchia ecclesiastica mondanizzata, contro la curia avida di potere. Particolarmente in ordine all'elaborazione ulteriore della profezia imperiale è importante osservare che nell'opinione pubblica esistevano senza alcun dubbio determinati presupposti, per vedere nel persecutore della chiesa Federico II non solo un male necessario o un'incarnazione dell'Anticristo, ma per valorizzarlo altresì senza riserve come alleato nella riuscita di un compito formidabile sul piano della storia universale, come un purificatore della chiesa per vocazione divina. Entrambe le possibilità, ossia quelle che vedono nell'imperatore venturo o il persecutore anticristiano della chiesa o il purificatore della chiesa mandato da Dio, costituiscono i temi di fondo dominanti nella successiva profezia imperiale. A ciò si aggiunge, dopo la morte dell'imperatore, un nuovo, ulteriore complesso rappresentativo, cioè l'attesa che o un successore di Federico II, un Federico III, o l'imperatore Federico II, ritenuto niente affatto morto e sulla via del ritorno, avrebbe assunto questo ruolo del persecutore anticristiano della chiesa, ovvero il ruolo del purificatore della chiesa mandato da Dio. Questo aspetto, caratteristico per
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la profezia relativa a Federico dominante nel tardo medioevo e per la «leggenda dell'imperatore», non potè naturalmente venire alla luce prima della morte di Federico II. Perciò le testimonianze ricordate finora, che cadono nel tempo anteriore alla morte di Federico II, non dicono nulla circa l'origine immediata della profezia relativa a Federico nel senso stretto del termine, ma ci dischiudono sicuramente la comprensione dell'opinione pubblica generale, sulla cui base soltanto potè crescere la profezia relativa a Federico. I cenni offerti finora hanno chiarito quale figura straordinaria fu Federico II agli occhi di molti contemporanei; si è visto come la sua persona, a motivo del formidabile scontro col papato, venne ricompresa nella lotta spirituale scatenata intorno al problema, che sollecitava tutti, di una riforma della chiesa corrotta. Ora nel 1250 moriva all'improvviso questo sovrano, che Matteo Paris designa come «stupor mundi» e «immutator mirabilis»31, esempio eloquente di quale significato prominente, non importa se in senso negativo o positivo, si attribuiva a questa personalità. Con questo evento lasciamo in qualche modo l'ambito della preistoria della profezia relativa a Federico, ed entriamo nell'ambito della vera e propria storia della sua origine. I contemporanei si trovarono all'improvviso di fronte al fatto che — a seconda dell'atteggiamento dell'osservatore — il persecutore anticristiano della chiesa, ovvero il purificatore della chiesa mandato da Dio, spariva dalla scena senza aver compiuto pienamente quello che in effetti ci si era aspettato. Da Salimbene sappiamo che, in un primo momento, i circoli influenzati dalle idee gioachimite all'interno dell'ordine francescano solo a stento si poterono convincere che Federico II fosse effettivamente morto 32 . Addirittura Salimbene dice di se stesso che per molto tempo non voleva crederci, perché Federico II non aveva ancora compiuto tutte quelle scelleratezze che in effetti avrebbe dovuto compiere secondo le sue speculazioni gioachimite33. Dubbi del genere sulla morte di Federico II furono però diffusi anche fuori dell'ambito francescano-gioachimita. Così un orafo a S. Gimignano, presso Firenze, fece nel corso del 1257 una scommessa, convalidata davanti a un notaio, con sei persone in tutto, che Federico II viveva ancora 34 .
Anche la Cronaca universale sassone, compilata intorno al 1260, racconta dei dubbi a lungo persistenti se Federico II fosse veramente morto 35 . Ci sia consentito per il momento di tralasciare le altre fonti che anche nel periodo seguente ricordano la sopravvivenza della convinzione secondo cui Federico II non sarebbe morto affatto. Per ora basti constatare che la notizia della morte di Federico II in un primo momento fu in parte accolta con incredulità nei circoli gioachimiti,
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ma anche altrove in Italia e persino in Germania 36 , e che persistette in vario modo la convinzione che l'imperatore fosse ancora vivo. Naturalmente un'altra reazione possibile nei circoli di coloro nel cui pensiero l'imperatore svevo aveva occupato un saldo posto con compiti precisi non ancora portati a termine, poteva essere questa: ci si abbandonava all'attesa che Federico II avrebbe trovato in breve un esecutore uguale a lui della sua opera, comunque la si giudicasse, in positivo o in negativo. Naturalmente dovevano avere interesse a propagare l'idea che un successore avrebbe svolto con successo l'opera dell'imperatore soprattutto gli esponenti del partito imperiale, particolarmente in Italia, dove la loro situazione con la morte del sovrano era molto compromessa. In tale contesto un esempio calzante è il breve libello di Tivoli, che ha avuto origine in circoli ghibellini dopo la morte di Federico II. In questo scritto per prima cosa la figura dell'imperatore defunto viene presentata ancora una volta a tinte luminose. Egli avrebbe domato terra e mare, sottomesso nazioni barbare all'«imperium christianum», colmato di ricchezze i suoi fedeli, offerto abbondanza di frutti a regioni sterili e a uomini affamati. Sotto di lui si sarebbe adempiuto quell'antico detto della Sibilla: «Tempore suo glebe fertiles sunt» 37 . L'opera di Federico II quindi viene presentata in un modo quale in altro caso conosciamo solo dalle profezie sull'imperatore degli ultimi tempi che porta la pace 3 8 . In connessione alla glorificazione dell'imperatore defunto l'autore prosegue con espressioni che suonano simili, dicendo che il successore, Corrado IV, continuerà in modo identico l'opera del padre, e la porterà a termine 39 . Analoghe idee troviamo in una lettera di Pietro di Prece scritta nel 1251-52 4 0 . Egli assicura che, nonostante la morte del «leo orientalis» (con tale espressione indica nello stile sibillino la persona di Federico II), l'impero non è affatto finito; anzi l'imperatore vive nei suoi successori, «in pullis multis superstitibus», i quali, volando in modo ancora più repentino del padre, piomberanno sui ribelli 41 . Ma l'attesa di un successore ed esecutore di pari statura di Federico II non venne nutrita solo in circoli ghibellini; quando la morte dell'imperatore divenne certezza, ben presto anche nei circoli antiimperiali gioachimiti si fece strada l'idea che 1'«anticristiano» Federico II avrebbe avuto un successore ugualmente malvagio o ancora peggiore. Di ciò dette testimonianza già il Commento a Isaia, scritto poco dopo il 1260 4 2 . Allo stesso modo, secondo il racconto di Salimbene, l'irriducibile gioachimita Gerardo di Borgo S. Donnino nel 1258 avrebbe espresso l'opinione secondo cui Alfonso X di Castiglia, che a quell'epoca era già stato eletto re di Germania, fosse l'Anticristo 43 . Il fatto
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che questo sovrano divenisse oggetto di tali ipotesi può essere ricondotto tra l'altro anche a ciò: egli era un nipote di Filippo di Svevia, e quindi poteva passare non solo come esponente del partito ghibellino, ma anche come rappresentante della dinastia sveva. Come testimonianza ancora anteriore di simili visioni può valere la Sibilla eritrea, molto sfruttata nei circoli gioachimiti; nella sua versione più antica a proposito di Federico II si dice: egli è morto di morte apparente, e continuerà a vivere. Si afferma tra i popoli: «Vivit et non vivit, uno ex pullis pullisque pullorum superstite»44. Queste formule molto vaghe sono chiaramente destinate non tanto a dare espressione all'idea di una sopravvivenza diretta, personale di Federico II, quanto piuttosto a indicare che l'imperatore sopravviverà nella misura in cui uno dei suoi successori (uno ex pullis...) rimanga in vita e prosegua la sua opera 45 . Peraltro la versione breve della Sibilla eritrea, che certo ha avuto origine solo dopo il 1260, ha già un'altra formulazione: «Cuius mors erit abscondita et incognita, sonabitque in populo: "Vivit" et "Non vivit"» 46 . Qui chiaramente non si allude più alla sopravvivenza della dinastia, bensì al dubbio largamente diffuso circa la morte reale di Federico II; lo stesso Salimbene ha inteso così questo passo, che egli cita più volte 47 . Dopo che la Sibilla eritrea ci ha ancora condotto dall'attesa, in un primo momento, di un successore identico a Federico II, ai dubbi, che permanevano con ostinazione, circa la morte dell'imperatore, rivolgiamo l'attenzione ancora una volta alle diverse forme di attesa di un erede di Federico II. In questo contesto, infatti, è ancora da prendere in considerazione una testimonianza particolarmente importante, il già ricordato Liber de oneribus, che certo ebbe origine ancora negli anni Cinquanta del XIII secolo. In questo scritto viene espressa per due volte l'attesa secondo cui quell'ultimo re persecutore, che porterà a termine l'opera di Federico II, sarà un Federico III 48 . Questo scritto quindi costituisce la prima testimonianza dell'ipotesi, largamente diffusa nel periodo successivo, secondo cui un terzo Federico porterà a termine l'ultima grande persecuzione ovvero purificazione della chiesa o come incarnazione dell'Anticristo — è questo il caso nel Liber de oneribus — o invece come imperatore della pace degli ultimi tempi. Era ovvio attribuire questo ruolo a un Federico III, perché in tal modo veniva data immediata espressione alla somiglianza di questo sovrano con Federico II. Inoltre palesemente anche allora era già diffusa l'idea che a ogni cosa buona — o anche a ogni cosa cattiva — spetta il numero tre. Così Tommasino di Zirklaria già nel 1215 aveva espresso la speranza che Federico II, quale terzo Federico che si reca-
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va a Gerusalemme, avrebbe avuto finalmente pieno successo 49 . Va poi considerato che l'attesa di un terzo Federico, nella sua forma filosveva, poteva trovare un impulso e poteva avere una profonda radice anche perché nel nome «Federico» («Friedrich») è contenuto il concetto di «pace» («Frieden»), che gioca appunto un ruolo decisivo nell'idea di un imperatore degli ultimi tempi 50 . Le considerazioni svolte finora servivano a mettere in luce il punto di partenza dello sviluppo della profezia relativa a Federico nelle sue diverse forme. Dovrebbe essere diventato chiaro che sia sul versante ghibellino sia sul versante antiimperiale erano presenti tutti i presupposti per dubitare della morte dell'imperatore, o per trasferire invece le attese a lui collegate a un successore simile a lui; laddove senza dubbio l'ipotesi che questi sarebbe stato un terzo Federico aveva le maggiori prospettive di una vasta radicazione. Dopo queste considerazioni sulla base di partenza dell'ulteriore sviluppo, bisogna adesso indagare più da vicino l'elaborazione e la precisazione di queste idee nel periodo seguente. A questo proposito dobbiamo nuovamente dedicarci anzitutto al complesso rappresentativo preso in considerazione per primo, cioè all'ipotesi secondo cui Federico II probabilmente non sia affatto morto — quel complesso dunque da cui si è sviluppata la vera e propria leggenda tedesca intorno all'imperatore. Un indizio della persistenza dei dubbi sulla morte dell'imperatore è tra l'altro anche la comparsa di un primo falso Federico in Sicilia nel 1261-62 51. Simili false incarnazioni di un sovrano già morto si sono presentate spesso nel corso della storia, soprattutto quando dopo la morte del sovrano vero la situazione politica dello stato in questione è sensibilmente peggiorata. In questa sede non c'è bisogno di entrare nei particolari su esempi più antichi, come per esempio i falsi Nerone. Tuttavia è interessante la notizia che nel 1138, dunque al tempo di una grave crisi dell'impero, comparve in Svevia un falso Enrico V 52 . Con ciò però diventa anche chiaro che la comparsa di un falso sovrano dopo la morte di uno vero non deve essere giudicata a priori come una prova dell'esistenza di una profezia o leggenda concernente questo sovrano. Tuttavia potremo almeno dire che nel nostro caso la comparsa di un falso Federico II poteva ulteriormente contribuire a tenere desti i dubbi sulla morte reale dell'imperatore, e a farlo considerare sempre più come un sovrano che viveva ancora, e che all'occorrenza sarebbe ritornato; anzi è persino immaginabile che al tempo della comparsa di questo falso Federico fossero già diffuse idee leggendario-profetiche dai contorni abbastanza netti. A favore di una tale ipotesi depone il racconto di Tommaso di Eccle-
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ston, che ha avuto origine subito dopo il 1260, e potrebbe essere la prima testimonianza di una vera e propria leggenda su Federico in Sicilia. Secondo tale racconto un monaco in Sicilia avrebbe visto un esercito di spiriti attraversare il mare ed entrare nell'Etna, e gli sarebbe stato spiegato che si trattava di Federico II con i suoi uomini 53 . Un'altra testimonianza del profondo radicamento dell'idea che l'imperatore Federico II vivesse ancora è costituita dalla Cronaca universale di Jans Enikel, che ebbe origine intorno al 1280 54 . Il cronista racconta che Federico II all'improvviso fu sottratto alla vista degli uomini, sicché nessuno sapeva dove fosse andato e se fosse davvero morto. Degno di nota è anche l'accenno che «nei territori guelfi», dunque in Italia, si fosse discusso se l'imperatore fosse morto davvero o se fosse «ancora vivo nel mondo» 55 . Questo racconto, e ancora di più la testimonianza di Tommaso di Eccleston, induce a pensare che non fossero più diffusi allora semplici dubbi sulla morte di Federico II, come ne erano sorti subito nel 1250, ma che si trattasse già di un complesso di rappresentazioni con tratti leggendari. Questo sviluppo non è troppo sorprendente, se si pensa che l'idea di un sovrano apportatore di salvezza, il quale, dapprima rapito, ritorna poi in un periodo molto successivo — anche secoli dopo —, era già prima assai diffusa, sicché questo schema preesistente in sostanza dovette soltanto essere trasferito a Federico II5Ó. Un esempio, diventato particolarmente famoso, di questo motivo è l'attesa di Artù da parte dei gallesi, i quali speravano che il re Artù o Arturo sarebbe ritornato e li avrebbe liberati dall'oppressione degli anglosassoni 57 . In questo contesto particolare attenzione merita il fatto che già prima della morte di Federico II l'Etna veniva immaginato come luogo di residenza dello scomparso re Arturo 58 . Perciò è estremamente probabile che il motivo leggendario siciliano intorno a Federico testimoniato da Tommaso di Eccleston abbia assorbito motivi della leggenda di re Artù 59 . Particolare attenzione merita un'altra osservazione nella Cronaca universale di Jans Enikel, cioè la sua constatazione che proprio «nelle terre guelfe» si discutesse se Federico II fosse morto davvero o se piuttosto non continuasse a vivere in maniera misteriosa e nascosta. Questa osservazione, come pure il racconto di Tommaso di Eccleston su Federico II che viveva nell'Etna, sembra far pensare che i primi impulsi per la formazione della leggenda di Federico siano partiti dall'Italia. Ciò in sé è del tutto ovvio, poiché senza dubbio in Italia gli scontri di Federico II col papato hanno lasciato l'impressione più profonda; qui, sul principale teatro delle battaglie, hanno avuto sicuramente un'efficacia straordinaria quegli scritti di propaganda che hanno stilizzato Fede-
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rico II o come purificatore della chiesa e portatore di un'età dell'oro o invece come persecutore anticristiano della chiesa. Qui infine erano attivi i francescano-gioachimiti che inquadrarono l'imperatore nel loro sistema di attese per il futuro. Tuttavia l'opinione secondo cui i primi punti di partenza della leggenda di Federico conducono all'Italia, è stata più volte contestata 60 . A proposito di tale controversia si deve dire che fu giusto obiettare all'affermazione che l'origine della successiva leggenda imperiale vada ricercata in particolar modo nei circoli francescano-gioachimiti 61 . Contro tali opinioni Vòlter ha ricordato del tutto a ragione che la leggenda sull'imperatore «può essere sorta solo da circoli che coniugavano con la loro tendenza apocalittica un animo fortemente ghibellino» 62 . Invece i gioachimiti, se si prescinde da poche eccezioni che qui non hanno importanza, furono in posizione antiimperiale. Certo all'inizio essi hanno dubitato della morte dell'imperatore, perché questo evento non si adattava al loro schema relativo al futuro, e allo stesso modo in seguito hanno in parte ipotizzato che un terzo Federico avrebbe portato a termine la persecuzione della chiesa; ma non hanno mai coltivato in modo particolare — come tutti i circoli di sentimenti guelfi — l'attesa secondo cui l'imperatore, portato via in maniera misteriosa, sarebbe ritornato dopo qualche tempo. Quest'ultima versione, che già significa qualcosa di più di un semplice dubbio sulla morte dell'imperatore, nella sua essenza è inequivocabilmente filoimperiale ovvero filosveva. Si può dunque al massimo dire che i dubbi sulla morte dell'imperatore, diffusi tra l'altro anche da gioachimiti, hanno contribuito allo sviluppo nei circoli filoimperiali di quelle attese o meglio di quelle speranze sul ritorno dell'imperatore. Sbaglia dunque Vòlter quando rovescia la sua dimostrazione, senz'altro corretta, che l'origine della leggenda imperiale non va ricercata presso gli apocalittici gioachimiti italiani, per lo più animati da sentimenti guelfi, in una «prova contro l'origine italiana della leggenda imperiale» 63 . La congiunzione di «tendenza apocalittica» e «sentimenti ghibellini» non era affatto presente soltanto presso i settari di Schwàbisch-Hall, dal cui seno Vòlter ritiene sia sorta la leggenda imperiale, bensì senz'altro anche nei circoli ghibellini italiani; infatti il libello di Tivoli e la lettera di Pietro di Prece applicano innegabilmente a Federico II e ai suoi successori alcuni aspetti dell'attesa relativa all'imperatore finale, e dunque idee «apocalittiche»; quindi anche qui sono presenti tutti i presupposti richiesti da Vòlter per lo sviluppo della leggenda imperiale. Ora, siccome le primissime testimonianze della credenza che Federico II sopravvivesse in maniera misteriosa, e cioè il racconto di Tommaso di Eccleston e le notizie,
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in verità molto sbiadite, di Jans Enikel, rimandano all'Italia, si potrà comunque dire che anzitutto in Italia, e specialmente in Sicilia, intorno al 1260 era diffusa una sorta di leggenda di Federico. Peraltro bisogna ricordare che in Italia tali attese di un ritorno dell'imperatore sono rimaste un episodio; l'ulteriore elaborazione e il profondo radicamento della leggenda di Federico ovvero della leggenda imperiale appartengono all'ambito tedesco, dove l'impero, che lo svevo Federico II aveva rappresentato per l'ultima volta nella sua antica potenza, era radicato più profondamente che in Italia nell'universo ideale comune anche degli strati popolari inferiori, mentre in Italia l'impero svevo era sentito in vaste cerchie come una potenza estranea. Tuttavia questa ulteriore elaborazione della leggenda imperiale, che ha avuto luogo in Germania, nelle fonti è rintracciabile solo alla fine del XIII secolo. Sia perciò consentito rimandare per il momento la trattazione dei problemi connessi, perché nel periodo intermedio le attese di un terzo Federico, sia in senso filoimperiale sia in senso antiimperiale, vengono alla luce molto chiaramente e con aspetti nuovi, e perché poi i motivi filoimperiali di queste attese vengono assorbiti anche nella leggenda imperiale relativa al ritorno di Federico II. Simili attese, di colore filosvevo, relative a un Federico III affiorano intorno alla fine degli anni Sessanta in diversi scritti profetici. Ciò si connette in parte con i processi politici reali che avvengono in quegli anni. Anche in questo caso la spinta proveniva chiaramente da circoli ghibellini italiani, i quali dopo la morte di Corradino nel 1269 sollecitarono una candidatura di Federico di Wettin il Temerario, un nipote di Federico II, per la corona di Sicilia, e la propagandarono con solerzia 64 . Un ruolo considerevole in questi tentativi fu svolto dal già ricordato Pietro di Prece, il quale aveva avuto negli ultimi tempi una posizione molto influente nella cancelleria di Corradino 65 . Per caldeggiare la candidatura, Pietro, proprio all'inizio del 1269, scrisse un manifesto indirizzato a Enrico l'Illustre, nonno di Federico, allora dodicenne, la cosiddetta Adhortatio ad Henricum66. In questo manifesto si rimanda a «vaticinia» e «oracula prophetarum», secondo le cui predizioni Federico sarebbe stato chiamato ad annientare Carlo d'Angiò e la sua dinastia. Viene sottolineata l'origine imperiale di Federico di Wettin: egli avrebbe avuto il nome e il numero di Federico II. Di conseguenza qui per la prima volta viene indicato il nome, così importante per l'ulteriore sviluppo della profezia imperiale, di «Fredericus tertius» 67 , del quale, come si dice espressamente, testimoniano le Scritture e parlano le profezie. Nel contempo gli si annuncia che egli salirà ancora più in alto; già è pronta per lui la scala sulla quale salirà a
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controllare la monarchia universale 68 . Qui dunque viene profetizzato a Federico di Wettin che egli è chiamato, come Federico II, a ricostruire la monarchia universale, e quindi ad apportare la pace in tutto il mondo secondo le antiche profezie relative all'imperatore degli ultimi tempi. I ghibellini italiani, di cui l'Adhortatio testimonia con tanta evidenza i sentimenti, hanno stabilito un rapporto diretto con la corte di Wettin già nel 1269. Tra gli italiani che in quell'occasione si segnalano nella marca di Meißen si trova anche Enrico di Isernia 69 , le cui annotazioni saranno importanti per il prosieguo della nostra ricerca. È da supporre che tramite questi italiani di parte ghibellina fosse nota nella marca di Meißen non solo l'adhortatio composta da Pietro di Prece, ma anche quella profezia tramandata nella Cronaca di Erfurt per il 1269 70, che probabilmente ha avuto origine ugualmente all'interno di questa cerchia in Italia, e doveva servire a propagandare in Germania gli intenti politici dei ghibellini italiani. Come autore di questa profezia viene indicato significativamente Gioacchino da Fiore, che aveva fama di grande profeta; inoltre nell'introduzione si dice che il vescovo cardinale di Porto doveva aver inviato questo scritto in Germania. Con questo cardinale si intende Giovanni di Toledo, il cui nome aveva già una certa rinomanza nel campo della letteratura profetica corrente in Italia71. La profezia descrive anzitutto la vittoria di Carlo d'Angiò su Manfredi e Corradino, il quale viene indicato come «filius aquile». Dopo questi successi Carlo per qualche tempo regnerà, ma poi «de radice regni», cioè proprio da un ramo della dinastia sveva 72 , verrà fuori un «Fredericus orientalis», che abbatterà il potere di Carlo d'Angiò, sicché il suo nome sparirà dalla memoria degli uomini. In seguito questo nuovo Federico estenderà il suo potere sino alla fine del mondo; egli concluderà un'alleanza tra Germania e Spagna, e con questo assoggetterà la Francia. Allo stesso modo egli farà prigioniero il papa. Viene dunque presagito un pieno trionfo del partito svevo. Peraltro l'annuncio della vittoria sul papato ha qui — benché sulla profezia sia apposto il nome di Gioacchino — solo secondariamente un significato di riforma della chiesa; in primo piano invece stanno gli interessi puramente politici del partito ghibellino in Italia; si auspicano l'eliminazione degli Angiò e la vittoria sul partito guelfo appoggiato dal papato. Per la nostra indagine intorno alle tendenze millenaristiche o affini al millenarismo è interessante l'indicazione che quel «Fridericus orientalis» venturo estenderà la sua sovranità sino ai confini del mondo. Questo costituisce chiaramente un raccordo con le antiche rappresenta-
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zioni sull'imperatore degli ultimi tempi; l'interesse puramente politico degli autori della profezia fa sì che a stento si possano intravvedere visuali nuove rispetto alle attese relative a un imperatore degli ultimi tempi diffuse prima del 1200. Nella sostanza lo stesso spirito e le stesse intenzioni sono espressi nell'esercizio stilistico di Enrico di Isernia, che ha avuto origine in Italia nello stesso 1269. Quivi egli scrive che sotto quel futuro imperatore, col quale si intende Federico il Temerario, la sollecitudine per la pace e la giustizia fiorirà di nuovo, che tramite lui la discordia e i differenti desideri dei popoli saranno ricondotti a una lodevole unità, e che dopo l'acquietamento di tutte le tempeste per questa via tutti gli uomini troveranno pace, sicché sembrerà ritornare l'età dell'oro 73 . Ancora nel 1270 Enrico di Isernia esprime con simili parole, in una lettera alla promessa sposa di Federico il Temerario, figlia del re Ottocaro di Boemia, la speranza che sotto questa futura coppia di sovrani la dignità imperiale sia rinnovata in tutti i suoi aspetti, e venga ristabilita l'«aurea aetas»74. Se poi pensiamo che a quell'epoca Enrico di Isernia ha composto anche un «atto d'accusa contro gli ecclesiastici che sono tutti caduti nella cupidigia, nel lusso e nella lussuria»75, abbiamo allora un quadro che delinea gli aspetti essenziali della tendenza dominante in quei circoli ghibellini: le speranze in una ricostituzione dell'impero, salvaguardando le tradizioni sveve, si congiungono a una dura ostilità, che in parte assume un tratto riformatore, contro la curia e il clero. Questo quadro ricavato dagli scritti di Enrico di Isernia concorda sostanzialmente con le tendenze di fondo della profezia tramandata nella Cronaca di Erfurt, e suffraga l'ipotesi che l'autore di quella profezia su quel «Fridericus orientalis» vada cercato all'interno di quel gruppo di ghibellini italiani76. Che quella cerchia ghibellina in Italia, di cui sono stati qui ricordati come rappresentanti Pietro di Prece e Enrico di Isernia, fossero senz'altro capaci di redigere «profezie» risulta già dal fatto che Enrico di Isernia, dopo la sua entrata al servizio del re Ottocaro di Boemia, compose una profezia sull'imperatore degli ultimi tempi che doveva servire alla casa degli Przemyslidi, per la quale egli utilizzò motivi della profezia su Federico il Temerario 77 . In connessione con la profezia a favore di Federico il Temerario sorge spontanea la domanda: perché i ghibellini italiani prescelsero proprio questo principe, che aveva circa dodici anni, come candidato per la corona imperiale? Di sicuro ebbe in ciò un ruolo il fatto che il candidato era un nipote di Federico II; allo stesso modo può avere pesato il suo fidanzamento con la figlia del potente Ottocaro di Boemia,
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che allora era senza figli maschi. Ma queste indicazioni da sole non possono spiegare la scelta proprio di quel candidato, tanto più che Federico il Temerario aveva un altro fratello più anziano. Perciò non c'è altra spiegazione se non il fatto che per i ghibellini italiani il nome Federico aveva un significato essenziale 78. Chiaramente si vedeva nell'uomo di Wettin uno che avrebbe proseguito e portato a termine la politica di Federico II proprio perché egli portava lo stesso nome. Questa constatazione ci porta a chiederci in che misura, già prima del 1269, vi fossero scritti profetici ampiamenti diffusi, o profezie orali, nei quali venga alla luce l'attesa di un tale terzo Federico. Una indicazione in tal senso ci è data già dallo pseudogioachimita Liber de oneribus, nel quale si attende un Federico III come ultimo persecutore anticristiano della chiesa 79 . Questo scritto, che risale ancora agli anni Cinquanta, è la prima testimonianza dell'attesa di un terzo Federico, una testimonianza peraltro che possiede un pronunciato carattere antisvevo. Tuttavia l'idea di un Federico III venturo, che, per come era presentata in quello scritto, era stata sviluppata in circoli antisvevi, gioachimiti, si prestava facilmente a essere piegata in senso ghibellino, tanto più che anche in quelle profezie antisveve veniva assegnato a quel Federico III un trionfo provvisorio sulla chiesa. È dunque senz'altro possibile che lo sviluppo effettivo corrisponda alle indicazioni finora note che ci offrono le fonti, che quindi l'attesa di un Federico III sia sorta in circoli gioachimiti antisvevi, e poi sia stata piegata ad altra interpretazione dai rappresentanti del partito ghibellino. L'indicazione di Pietro di Prece nella sua Adhortatio ad Henricum, che «aliqua vaticinia et multa oracula prophetarum» indicano il principe di Wettin come colui che avrebbe cacciato gli Angiò 80 , difficilmente può essere giudicata come una prova decisiva dell'esistenza di profezie filosveve più antiche intorno a un terzo Federico, poiché qui probabilmente Pietro di Prece ha presente in primo piano quella profezia tramandata nella Cronaca di Erfurt, che appunto a quell'epoca dovrebbe essere sorta in questa cerchia 81 . Sebbene nel 1271 le prospettive di una elezione di Federico il Temerario fossero venute a cadere, rimasero vive le speranze legate al suo nome; esse ovviamente trovarono diffusione anche in cerchie più vaste del popolo. Veniamo a sapere che nel 1308 il «vulgi rumor» gli attribuisce prospettive nell'elezione del re 82 , e Pietro di Zittau, nato nel 1276, racconta nella Cronaca di Kònigsaal che durante la sua fanciullezza era diffuso un «vulgare vaticinium», ed egli stesso aveva sentito dire spesso che Federico il Temerario un giorno sarebbe diventato un potente imperatore, e avrebbe compiuto «mirabilia» nei confronti del
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clero 83 . Stando a questi presupposti, più di un argomento milita a favore dell'ipotesi di Grauert, secondo cui una profezia che parla ugualmente di un «Fridericus orientalis» e che comincia con le parole «Veniet aquila» sarebbe stata coniata in un primo momento per Federico il Temerario, e sarebbe sorta all'incirca nel 1275/76 84 , benché essa sia tramandata solo in fonti notevolmente successive e facendo riferimento a eventi posteriori 85 . Contrariamente all'opinione di Grauert, appare poco credibile che la profezia, nelle due versioni tramandate, riporti inalterato il vaticinium su Federico il Temerario 86 . La soluzione più credibile potrebbe essere invece questa: la profezia, nella sua forma tramandata, sorse per promuovere la candidatura di Federico il Bello d'Asburgo 87 . Questa ipotesi acquista verosimiglianza in quanto anche da altre fonti sappiamo di profezie a favore di un esponente della casa d'Asburgo che porta il nome di Federico. Così intorno al 1320 sorse una prima versione del componimento in versi Profezia della Sibilla. Questo componimento nella sua forma originaria profetizza a Federico la vittoria su Ludovico di Baviera, e annuncia, nella maniera consueta delle profezie sull'imperatore degli ultimi tempi, che egli rappacificherà «tutti gli affanni del mondo» 88 . Queste indicazioni mostrano chiaramente che l'attesa di un nuovo Federico, che compare come imperatore degli ultimi tempi dominatore del mondo, trovò ampia diffusione in Germania e fu fatta propria anche da strati popolari più ampi. In queste circostanze è tanto più significativo che il semplice accenno all'imprigionamento del papa, come compare nel vaticinium del 1269, nella profezia posteriore «Veniet aquila» sia stato ulteriormente elaborato. In quest'ultima si dice che al tempo di quel Federico dominatore del mondo il papa e il clero saranno perseguitati e dispersi 89 . In questo annuncio non si esprime più solo l'ostilità politica del partito ghibellino nei confronti della curia, quell'ostilità che viene alla luce nella profezia del 1269, bensì un'avversione totale e profondamente radicata nei confronti del clero. È ovvio mettere in connessione questa accentuazione più marcata con la diffusione, già ricordata, delle attese di un Federico in strati popolari più ampi, e riconoscere nell'atteggiamento ostile della profezia verso tutto il clero un'eco di sentimenti popolari. Quindi qui emerge un motivo che manca nelle attese più antiche dell'imperatore finale prima del 1200; infatti l'annuncio di una rovina del clero include comunque, anche se in forma molto acerba, una vera trasformazione delle condizioni ecclesiastiche, ciò che mancava completamente nelle profezie più antiche di questo genere.
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Per il resto è degno di nota il fatto che l'attesa di un terzo Federico non solo abbia trovato una diffusione relativamente ampia in Germania, ma abbia preso piede anche in Italia. Sotto questo profilo significativo è il racconto di Ramon Muntaner intorno a un discorso che l'ammiraglio aragonese Ruggero di Lauria avrebbe tenuto nel 1296, in occasione dell'incoronazione del re Federico III di Sicilia. In questo discorso egli avrebbe tentato di dimostrare che il nuovo re di Sicilia era quel terzo Federico che le profezie preannunciavano come signore dell'impero e della massima parte del mondo 9 0 . Questa testimonianza dimostra che la versione filosveva dell'attesa di un Federico III, che abbiamo già incontrato nelle speranze del partito ghibellino nel 1269, era ancora viva in Italia anche negli anni Novanta. Per il resto il racconto di Ramon Muntaner non contiene alcun cenno al fatto che l'imperatore venturo secondo le predizioni sia destinato a procedere anche contro la chiesa mondanizzata; tuttavia si potrà ipotizzare che anche qui l'accento antiecclesiastico fosse una componente delle attese di un Federico. In generale il fatto che in Sicilia salisse al trono un sovrano di nome Federico, il quale aveva per madre un'esponente della casa sveva, e inoltre fu a lungo in duro contrasto con papa Bonifacio Vili 91 , ha molto favorito la diffusione e l'efficacia delle attese di un Federico. Ciò appare soprattutto dal fatto che la figura di questo re svolge un ruolo decisivo perfino nelle speranze relative al futuro di movimenti popolari ereticali. Dolcino e i frati apostolici sperano che Federico III distruggerà la chiesa clericale e li aiuterà a conseguire il trionfo 92 . Subito dopo troviamo anche presso le beghine del sud della Francia attese simili, con una sola differenza, peraltro notevole: esse considerano — in antitesi ai frati apostolici che erano più radicali — il persecutore della chiesa Federico III non come loro alleato, ma come un complice dell'Anticristo, che nonostante tutto compie un'opera necessaria per la riforma interna della chiesa 93 . Ma proprio questo confronto tra le opinioni concernenti Federico III dei frati apostolici e delle beghine mostra quanto strettamente si potessero toccare su molti punti, sotto il profilo del contenuto, da una parte le attese di un terzo Federico influenzate dall'ambiente gioachimita-guelfo e dall'altra quelle influenzate dall'ambiente ghibellino, e quanto facilmente le attese in questione potessero passare da un campo all'altro 94 . Sia consentito rimandare a un capitolo seguente l'analisi più precisa di queste correnti ereticali, che erano radicate negli strati popolari sfruttati. Ora basti constatare quanto sia difficile, a proposito delle attese di un Federico, tracciare il confine tra le finalità puramente politiche
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dei raggruppamenti ghibellini, oppure fìloimperiali all'interno della classe dominante, e le sotterranee aspirazioni e rappresentazioni delle masse oppresse. Poiché questi vaticini miravano sempre a un effetto propagandistico, era del tutto verosimile che desideri popolari trovassero modo di inserirvisi, e niente era più ovvio che siffatte previsioni del futuro, che servivano agli interessi del partito ghibellino, sfruttassero l'ostilità largamente diffusa contro la gerarchia ecclesiastica mondanizzata. In questo modo tali profezie imperiali potevano essere fatte proprie direttamente dalle masse popolari, e potevano essere interpretate diversamente e sviluppate ulteriormente: ma per ora non ci soffermiamo su questo aspetto. In ogni caso già adesso è diventato chiaro che, non ultimo tramite questo ingresso nelle rappresentazioni popolari largamente diffuse, una tendenza di riforma ecclesiastica penetra nella profezia relativa all'imperatore, e per questa via compaiono anche qui attese di un vero sovvertimento delle condizioni esistenti, attese che somigliano sotto molti aspetti alle attese gioachimite. È possibile constatare l'effetto dell'insoddisfazione largamente diffusa per le condizioni ecclesiastiche anche a proposito di quelle profezie circa la comparsa di un Federico III, che mostrano una tendenza antisveva, o orientata contro le tradizioni sveve, e che si raccordano ampiamente in linea diretta con le idee pseudogioachimite della metà del XIII secolo. La persistenza di queste idee è testimoniata da Alessandro di Roes nel suo Memoriale de prerogativa Imperii Romani (1281). Egli vi racconta che in Germania esistevano profezie secondo cui dalla stirpe dell'imperatore Federico II sarebbe spuntata una «radice peccaminosa», e invero questo sarebbe stato ancora una volta un Federico. Questo sovrano avrebbe castigato e oppresso pesantemente il clero in Germania, e in generale la chiesa romana 95 . Qui chiaramente sopravvive la figura del grande persecutore della chiesa, così come l'avevano coniata i gioachimiti della metà del secolo XIII. Peraltro a questo proposito non bisogna escludere, ancora una volta, che Alessandro nella sua esposizione avesse presente accanto ad altre anche le profezie filosveve, per esempio a favore di Federico il Temerario, e le trattasse semplicemente dalla visuale del partito ecclesiastico. In ogni caso il racconto di Alessandro è un'ulteriore testimonianza di quanto profondamente fosse radicata, di fronte alla corruzione della chiesa e al generale auspicio di una riforma, l'attesa di un prossimo grande persecutore imperiale della chiesa. Con questo è da considerare conclusa la discussione intorno alle attese circa il futuro orientate a un terzo Federico. Si è già accennato al fatto che accanto a queste attese esisteva un altro complesso di idee
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strettamente affine, cioè la credenza che l'imperatore Federico II non era ancora morto, e un giorno sarebbe comparso di nuovo. Si è già mostrato che queste idee, almeno in Sicilia, si erano coniugate con tratti leggendari ben delineati, perché — analogamente a ciò che era avvenuto già prima col re Artù — si collocò Federico II nell'Etna. L'indagine ulteriore intorno a questa costellazione di idee è stata in un primo tempo interrotta, perché le testimonianze delle fonti a questo riguardo sono molto rare fino al 1300 circa; pertanto per motivi cronologici, come pure per una migliore comprensione dello sviluppo ulteriore, è apparso opportuno dedicare attenzione prima alle attese circa un terzo Federico. Ci occuperemo ora dell'ulteriore incidenza della concezione secondo cui Federico II non sarebbe affatto morto. Che questo dubbio sulla morte di Federico II sopravvivesse ostinatamente è testimoniato — dopo il già citato Jans Enikel — intorno al 1292 dall'autore dei Flores temporum, un frate minore svevo. Egli racconta che Federico II sarebbe stato sepolto così segretamente che molti, ancora quarant'anni dopo — quindi fino al tempo di composizione di questa fonte —, annunciavano che egli viveva ancora, e che in breve sarebbe ritornato con grande potenza 96 . Proprio in Germania, nel decennio precedente la redazione dei Flores temporum, la convinzione che Federico II vivesse ancora aveva ricevuto nuovo nutrimento per la comparsa di falsi Federico, mentre viceversa la stessa credenza in simili pseudo-Federico può essere stata favorita dal fatto che persistevano ancora qua e là dubbi sulla morte del sovrano. Il più conosciuto di questi falsi Federico è Tile Kolup, che negli anni 1283-85 causò disordini nel territorio del Reno, e alla fine fu mandato al rogo a Wetzlar 97 . Inoltre gli Annali di Colmar per il 1284 raccontano di un eremita, Enrico, il quale diceva di essere Federico II 98 , e per il 1295 raccontano di un altro falso Federico a Eßlingen 9 9 . Inoltre sappiamo di un falso Federico, apparso poco dopo la morte di Tile Kolup nei territori dei Paesi Bassi, il quale fu impiccato a Utrecht 100 , e di un altro a Lubecca 101 . Questo susseguirsi di falsi Federico negli anni Ottanta e Novanta è spiegabile solo se pensiamo che negli ultimi decenni del XIII secolo, anche in Germania nel quadro dell'ulteriore sviluppo delle forme economiche delle città, le differenze e le tensioni sociali erano diventate più acute, e il numero delle persone economicamente sradicate e insoddisfatte cresceva considerevolmente 102 . A ciò si aggiunge che lo sviluppo politico sfavorevole dopo il crollo dell'impero svevo e la persistente insicurezza, nonostante tutti gli sforzi di pacificazione pubblica da parte di Rodolfo, acuivano maggiormente all'interno queste tensioni derivanti dallo
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sviluppo economico-sociale. Con questi presupposti poteva nascere molto facilmente la credenza che un imperatore potente avrebbe rimediato allo sviluppo negativo degli ultimi decenni. In ogni caso molti elementi inducono a pensare che questi falsi Federico non fossero in primo luogo dei fantocci di determinati circoli politicamente molto influenti, ma che la base decisiva della loro azione fosse chiaramente un'insoddisfazione generale, radicata negli strati popolari più larghi 103 . Anche il racconto dello pseudo-Federico dei Paesi Bassi indirettamente testimonia che questi «Federico» muovevano la fantasia di larghi strati popolari; infatti costui avrebbe affermato di essere risorto dopo tre giorni dalle ceneri del Federico arso sul rogo, cioè di Tile Kolup 104 . Sono chiaramente affermazioni nate dall'universo rappresentativo di larghi strati popolari, e che insieme incidono ulteriormente su queste cerchie. Che la comparsa dei falsi Federico, in particolare di Tile Kolup, abbia trovato di fatto grande attenzione in cerchie molto ampie, e conseguentemente sia stata dipinta con tinte popolari, è testimoniato anche dalla cronaca rimata di Ottocaro, scritta sicuramente poco dopo il 1300 105. Secondo tale cronaca la folla avrebbe cercato tra le ceneri del rogo, sul quale Tile Kolup era stato arso, le sue ossa, ma non era riuscita a trovare neppure un ossicino. Anche questo veniva interpretato come una prova che era volontà di Dio «che egli [Federico] dovesse rimanere ancora in vita, e dovesse cacciare i preti» 106 . Questa testimonianza è particolarmente degna di nota anche perché qui, per la prima volta, viene messo in evidenza un motivo finora rintracciabile solo nelle attese di un terzo Federico, ossia la credenza che quel Federico che doveva ritornare avrebbe perseguitato il clero o addirittura lo avrebbe eliminato. Quindi nella descrizione di Ottocaro chiaramente non si tratta più soltanto di vaghe ipotesi o attese, secondo cui Federico II non è ancora morto e ritornerà, bensì, evidentemente sotto la sollecitazione della comparsa effettiva di falsi Federico, a queste vaghe attese si è già collegato un saldo complesso di rappresentazioni popolari 107 . La successiva rielaborazione leggendario-popolare dell'attesa di Federico ci è testimoniata da un canto di maestri cantori composto sicuramente negli ultimi anni del regno di Ludovico di Baviera 108 . Qui si accenna anzitutto alle terribili conseguenze della lotta tra i due capi della cristianità, l'imperatore e il papa, laddove l'autore ha presente lo scontro tra Ludovico il Bavaro e la curia. L'imperatore Federico porrà termine a questa lotta; egli stabilirà una pace universale nel mondo, si recherà al santo sepolcro, sottometterà poi tutti i regni pagani,
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e fiaccherà anche la forza dei giudei. In queste indicazioni riconosciam o le antiche attese dell'imperatore degli ultimi tempi diffuse molto prima del 1200; esse ormai appaiono interamente e definitivamente collegate all'attesa di Federico 109. Ma in questo componimento poetico, accanto a tali motivi più antichi, emerge molto chiaramente anche il motivo più recente della persecuzione della chiesa, strettamente legato alle attese di Federico: «E della corporazione dei preti non resterà neanche la settima parte». Inoltre Federico distruggerà i conventi e costringerà le suore al matrimonio, sicché essi — evidentemente tutti i monaci e le suore fino a quel momento inattivi — coltiveranno vigne. «Quando ciò accadrà, avremo buone annate». Si può qui cogliere la speranza che la distruzione dell'ordine ecclesiastico vigente, soprattutto l'eliminazione dei monasteri, condurrà a un miglioramento generale della situazione sociale della grande massa della popolazione. Queste idee antiecclesiastiche appaiono ulteriormente accentuate nella versione dell'attesa di Federico tramandataci dal frate minore Giovanni di Winterthur nella sua cronaca per il 1348 n 0 . Questo cronista racconta che a quel tempo risultava spesso diffusa la credenza che l'imperatore Federico II sarebbe tornato con grande potenza, per riformare la chiesa completamente corrotta. Sarebbe dovuto tornare, anche se fosse stato tagliato in mille pezzi o ridotto in cenere — in quest'ultima allusione c'è evidentemente una reminiscenza di Tile Kolup mandato al rogo; è un ulteriore indizio che la comparsa di falsi Federico ha avuto un effetto estremamente stimolante nella creazione della leggenda tedesca dell'imperatore. Come nella canzone dei maestri cantori, che sotto il profilo del contenuto proviene da un ambiente assai prossimo, anche in Giovanni di Winterthur si dice che l'imperatore costringerà al matrimonio monaci e suore; perseguiterà i chierici in m o d o così feroce che costoro copriranno la loro tonsura perfino con sterco bovino, per non farsi riconoscere e così sfuggire alla persecuzione 1 1 1 . Soprattutto l'imperatore caccerà anche i frati minori, i quali prima del 1250 hanno sostenuto il papa e hanno contribuito alla deposizione dell'imperatore. Qui risulta quindi completamente liquidata la valutazione più positiva degli ordini mendicanti negli ambienti laici; quella valutazione, che continuerà a essere efficace ancora per molto tempo, è anzi rovesciata nel contrario. Infine, anche in questo contesto si nutre l'antica attesa relativa all'imperatore degli ultimi tempi, secondo cui Federico con un grande esercito si metterà in marcia verso la Terrasanta, e lì, sul Monte degli ulivi — ciò corrisponde all'antica tradizione — o anche davanti all'albero secco, che qui evidentemente viene identificato col legno della croce, rinuncerà al trono 1 1 2 .
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Le indicazioni offerte finora da Giovanni di Winterthur sostanzialmente corrispondono al canto dei maestri cantori. Accanto ad esse però nel cronista emerge un altro motivo, che nelle versioni tradizionali della leggenda dell'imperatore non era riconoscibile in maniera così pronunciata; secondo tale motivo Federico unirà in matrimonio fanciulle e donne povere con uomini ricchi, e viceversa. Si tratta certo di una idea molto primitiva, ma la sua tendenza è inequivocabile. In sostanza, all'imperatore Federico viene assegnato il compito di livellare le differenze sociali esistenti. Ciò ha un significato decisivo per la valutazione delle profezia. Infatti le attese di una trasformazione dell'ordine esistente finora ricordate stavano interamente sotto il segno del desiderio di una riforma dell'ordine ecclesiastico, proprio come nei movimenti ereticali del XII e XIII secolo la protesta contro l'ordine dominante si configurava nella forma di una protesta contro le condizioni della chiesa. Sotto il dominante influsso delle categorie di pensiero ecclesiastiche, anche nell'universo rappresentativo delle masse popolari l'ordine ecclesiastico era diventato il fattore determinante dell'esistenza sociale in genere, e da un miglioramento delle condizioni ecclesiastiche ci si attendeva una soluzione di tutte le difficoltà e contraddizioni. Ci è voluto del tempo per prendere coscienza, almeno in forme incoative, che la causa di tutti i problemi non risiedeva solo nell'ordine ecclesiastico, e che un miglioramento profondo della condizione di tutti gli uomini era conseguibile solo mediante un cambiamento dell'articolazione sociale esistente nel senso più ampio della parola. Concezioni del genere sono rintracciabili in modo sempre più chiaro proprio nel corso del XIV secolo; in altri termini, adesso, accanto alle idee di riforma ecclesiastica, appariva in modo sempre più marcato e consapevole la rivendicazione di un sovvertimento sociale globale, che avrebbe dovuto togliere alla classe dominante dei signori feudali, anche dei signori feudali secolari, il loro status di privilegio. È l'idea che ha acquisito una forma estremamente plastica nel proverbio, diffuso nell'Inghilterra del XIV secolo: «Quando Adamo arava ed Eva filava, dov'era mai il nobile?» n 3 . In fondo la profezia su Federico, con la sua pretesa di matrimoni tra poveri e ricchi, segue, in una forma in verità ancora più primitiva, la stessa tendenza contro la classe feudale sfruttatrice. Il fatto che gli schemi mentali meramente religiosi vengano rotti almeno in parte proprio nel XIV secolo, e che perciò proprio allora cominci ad affacciarsi nella coscienza delle masse popolari l'idea di una vera «rivoluzione» sociale, non è affatto un caso. Non è compito di questa indagine offrire una panoramica dello sviluppo economico
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e sociale nel secolo XIV. Basti dunque accennare che i molti lavori degli ultimi anni relativi alla cosiddetta «crisi del feudalesimo» nel XIV secolo hanno in ogni caso mostrato, nonostante le oscurità che ancora sussistono su molti problemi ad essa connessi, che in quest'epoca le tensioni sociali si acuirono, che lo strato della popolazione formato da coloro che erano completamente immiseriti e nullatenenti cresceva di continuo e cominciò a diventare un fattore efficace nell'evoluzione storica. In questi strati immiseriti va soprattutto cercata la base sociale della radicalizzazione delle idee così chiaramente riconoscibile nella profezia su Federico in Giovanni di Winterthur. A ciò si aggiunge, in questo caso, la specifica situazione tedesca verso la fine degli anni Quaranta del secolo XIV — l'insicurezza interna in seguito allo scontro intestino tra l'imperatore Ludovico e il giovane Carlo IV. Inoltre si faceva già sentire l'epidemia di peste, spaventosamente diffusa. Tutto ciò ha contribuito a dare quella forma radicale all'attesa di Federico. L'indagine finora svolta ha mostrato che la profezia relativa a Federico nella versione tramandata in Giovanni di Winterthur costituisce palesemente l'elaborazione più radicale finora conosciuta dell'attesa medievale dell'imperatore degli ultimi tempi; si può aggiungere che anche le successive attese dell'imperatore degli ultimi tempi ovvero dell'imperatore Federico — a prescindere da precise eccezioni 114 — per lo più non vanno oltre nella sostanza. Perciò sia consentito interrompere a questo punto la discussione intorno alle profezie su Federico. In sintesi, ribadiamo ancora una volta che le profezie sulla comparsa di un nuovo, terzo imperatore Federico certo furono in primo luogo funzionali a precisi obiettivi politico-dinastici, ma nel contempo andavano incontro a idee popolari e in parte vennero riprese anche dal popolo. Le profezie intorno all'imperatore Federico II che doveva tornare, nella solida forma acquisita dal 1300 circa, sono chiaramente un riflesso delle idee e dei desideri di larghi strati popolari; in esse vengono di conseguenza alla luce idee essenzialmente più radicali che nella maggior parte delle profezie circa un terzo Federico. Di fronte al radicamento popolare e alla tendenza, diretta contro l'ordine esistente, delle profezie sul ritorno di Federico II, è stata posta la questione se questa «leggenda dell'imperatore» non sia stata sviluppata e diffusa specialmente da circoli ereticali. Soprattutto Schultheiß, fondamentalmente seguito anche da Hosp, ha avanzato l'opinione che la leggenda tedesca dell'imperatore sia stata creata dai valdesi; egli ne vede il punto di partenza negli eretici scoperti a Schwäbisch-Hall poco prima del 1250, i quali presero le parti di Federico II e Corra-
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do IV 115 . Hosp ritiene inoltre che specialmente nel XIV secolo soprattutto i fratelli e le sorelle del libero Spirito coltivassero le speranze riposte nell'imperatore riformatore Federico secondo la forma tramandata da Giovanni di Winterthur 116 . Per sostenere l'assunto di una connessione tra la leggenda dell'imperatore e l'eresia, si potrebbe forse fare riferimento al fatto che secondo il racconto del cronista di Strasburgo, Ellenhard, il falso Federico Tile Kolup ebbe un largo seguito di eretici 117 . Sappiamo inoltre che l'attesa di Federico ha svolto di fatto un ruolo essenziale in alcuni movimenti ereticali fuori della Germania, cioè tra i frati apostolici di Dolcino e tra le beghine del sud della Francia; lo stesso vale per i criptoflagellanti della Turingia dopo il 1350. Peraltro per il periodo precedente il 1350 non vi sono, per la Germania, indicazioni dirette di fonti che dimostrerebbero inequivocabilmente una connessione della leggenda di Federico con l'eresia. Bisogna inoltre tenere presente che le attese di riforma della chiesa, indubbiamente al centro della leggenda dell'imperatore, erano condivise anche al di fuori dei movimenti ereticali dalle masse popolari, e persino da determinate cerchie della classe dominante. Pertanto non è certo un caso che Giovanni di Winterthur dichiari espressamente che l'attesa di Federico era condivisa da uomini di differenti condizioni, anzi di tutte le condizioni. Dunque non c'è una ragione cogente per porre la leggenda tedesca dell'imperatore in connessione diretta con i movimenti ereticali. Si potrà dire con sicurezza solo che le correnti ereticali, radicate negli strati popolari bassi, hanno contribuito in maniera decisiva a diffondere presso vaste cerchie popolari l'insoddisfazione per l'ordine ecclesiastico esistente e la richiesta di una riforma; in ultima istanza fu sicuramente questo desiderio generale di una riforma più o meno radicale a risvegliare nel popolo le speranze di un imperatore Federico, e a rendere quindi possibile la formazione della leggenda dell'imperatore 118 . In ogni caso ormai dovrebbe essere diventato chiaro quale profonda differenza vi sia tra le attese dell'imperatore degli ultimi tempi dell'XI e XII secolo da un lato, e le profezie, collegate col nome di Federico, relative all'imperatore degli ultimi tempi del XIV secolo, quali per esempio le troviamo tramandate in Giovanni di Winterthur, dall'altro. Qui non si tratta più dello schema astratto di un tempo di pace in cui abbondano benessere e giustizia; qui non si attua più semplicemente una congiunzione tra proiezioni di istanze umane universali e precisi interessi dinastici; al contrario, qui viene data espressione, sia pure in maniera utopica e in forma primitiva, all'aspirazione e all'attesa di una concreta trasformazione dell'ordine sociale esistente. Non
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si vive più nell'illusione che sorgerà l'età dell'oro, non appena un monarca potente, esercitando il dominio sul mondo, abbia assicurato la pace universale e vegli sulla giustizia; viceversa si è consapevoli che una vita felice per tutti è possibile solo se anche nell'ordinamento interno, e cioè almeno nella struttura ecclesiastica, e in parte anche in quella sociale, intervenga una trasformazione radicale. Peraltro una differenza essenziale rispetto alla moderna idea di rivoluzione sta in questo: il ruolo di colui che trasforma attivamente l'ordine esistente non viene attribuito agli strati insoddisfatti e svantaggiati della popolazione, ma all'imperatore, il quale perciò appare come una sorta di «Deus ex machina». È la fondamentale debolezza di simili profezie relative all'imperatore degli ultimi tempi: l'avvento dell'imperatore della riforma e della pace non viene concepito come una conseguenza necessaria risultante dalle condizioni esistenti, ma ha più il carattere di un miracolo grazie al quale tutte le difficoltà vengono repentinamente risolte. Ma non ci si può attendere altro da una visione popolare del futuro che presuppone una trasformazione globale dell'ordine terreno, e non solo, per esempio, il cambiamento della costituzione in una determinata città; non ci si può attendere altro, dati il grado di coscienza e la mancanza di fiducia nelle proprie forze, come si deve verosimilmente ipotizzare per le masse popolari a quel tempo. Si può addirittura dire che allora, quanto più radicale e vasta ci si rappresentava la trasformazione ventura, tanto meno si poteva fare affidamento sulle proprie forze, e tanto più si credeva di non avere altra risorsa all'infuori dell'irruzione miracolosa di una potenza extraterrena — o anche terrena — di un imperatore o anche di un papa ideale. Tuttavia, rispetto alla visione del futuro di Gioacchino, senza dubbio più coerentemente elaborata e sviluppata, almeno sotto il profilo teoretico, queste attese relative a un imperatore Federico implicano un progresso considerevole, in quanto qui il desiderio di una riforma profonda non è più questione di una ristretta cerchia di monaci idealisti e colti, ma è questione di più vasti strati popolari. Non sono più alcuni utopisti con formazione teologica che, nel loro universo monastico, rasserenato, lontano dalla realtà sociale, credono sia giunto il momento per l'inizio di un'epoca ideale; piuttosto, lo sviluppo sociale ha adesso raggiunto un punto in cui il desiderio dell'abolizione dell'ordine esistente e dell'introduzione di condizioni nuove, più perfette, diventa vivo in cerchie assai vaste, e diventa quindi nel contempo un fattore attivo sotto il profilo sociale. Sarebbe peraltro errato assumere che, dal 1250 circa, le antiche attese dell'imperatore degli ultimi tempi siano confluite interamente nelle atte-
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se dell'imperatore Federico. Ciò è sostanzialmente esatto solo per la Germania, dove ovviamente le tradizioni concernenti la dinastia sveva erano assai vive. Nello stesso tempo però le attese di un imperatore degli ultimi tempi continuarono a vivere soprattutto fuori della Germania, anche senza un legame col nome dell'imperatore Federico II. Nelle pagine che seguono ci si dedicherà ancora, succintamente, a tali profezie sorte dopo il 1250. Vanno qui menzionati in primo luogo i Versus cardinalis Albi119. In verità non è certo se l'autore fosse effettivamente il cardinale Giovanni di Toledo, designato in tale forma, o se il componimento profetico fosse destinato a promuovere la candidatura di Riccardo di Cornovaglia, come ipotizza Grauert 12°. Come data di stesura, alla fine del componimento viene indicato il 1256 121. Siccome poi viene espressa l'attesa che un nuovo re sottometta i siciliani e mandi in rovina la stirpe di Federico II, questo componimento può essere stato diretto solo contro Manfredi di Sicilia, che allora già deteneva una salda posizione in Sicilia. All'epoca il candidato del partito papaie-guelfo contro Manfredi era il principe inglese Edmondo, il quale già nell'aprile 1255 aveva avuto in feudo la Sicilia122. Pertanto è evidente che quell'Edmondo è il re liberatore privilegiato e atteso dall'autore della profezia 123 . Per il resto anche in questa profezia vengono descritte nella maniera da tempo ben sperimentata anzitutto la decadenza morale della cristianità e specialmente gli abusi all'interno del clero e del mondo monastico 124 ; si arriverà addirittura al punto che più papi regneranno contemporaneamente. Ma poi comparirà un «rex novus», povero di mezzi ma moralmente ricco 125. Egli non solo sottometterà i siciliani e prevarrà sulla dinastia sveva, ma costringerà i romani recalcitranti all'obbedienza verso il papa 126 . In sostanza questo re avrebbe restaurato tutto quello che l'imperatore Federico II e i suoi successori avevano distrutto. Infine — in perfetta corrispondenza con lo schema tradizionale dell'attesa dell'imperatore degli ultimi tempi — egli sottometterà i maomettani alla fede cristiana, e farà sì che sulla terra «ovile unum et pastor unus erit». Sebbene dunque qui non si parli espressamente di un imperatore, ma solo di un «rex novus», in definitiva gli viene assegnato un ruolo simile a quello dell'imperatore finale portatore di pace. Questi versi si distinguono dalle profezie relative all'imperatore Federico, di cui si è parlato finora, soprattutto perché in essi, sebbene si metta in evidenza esplicitamente il bisogno di riforma della chiesa, manca una tendenza veramente antiecclesiastica. Non si spende una parola
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per dire che il re atteso, nel suo tentativo di restaurare l'ordine, entri in contrasto con la gerarchia ecclesiastica. Quindi le tendenze generali dell'epoca, orientate a una riforma delle condizioni della chiesa, hanno senz'altro influenzato anche questa profezia, ma siccome questi versi erano destinati a favorire i disegni del partito papaie-guelfo nella sua lotta con la dinastia sveva, non è strano che qui questi desideri di riforma assumano una forma del tutto innocua per la chiesa. Ne consegue naturalmente che in questi versi rimane ancora meno chiaro che nelle profezie relative a Federico quali forze reali debbano provocare questa riforma. Una testimonianza ulteriore della perdurante applicazione dello schema circa l'attesa dell'imperatore degli ultimi tempi a personalità politiche del XIII secolo è una profezia sorta tra il 1271 e il 1276 a favore del re Ottocaro di Boemia e di suo figlio 127 . Il suo autore è con ogni evidenza Enrico di Isernia, il quale in un primo momento era emerso come tramite dei circoli ghibellini italiani alla corte di Wettin e si era impegnato per la candidatura di Federico il Temerario, ma poi entrò al servizio del re Ottocaro 128 . Qui egli, impiegando chiaramente il motivo, a lui noto, della profezia a favore di Federico il Temerario, redasse questa predizione che si attagliava al re boemo. In essa si descrive anzitutto l'estendersi della potenza di Ottocaro, del leo rugiens129, che conquista l'Austria e i territori fino all'Adriatico, e assoggetterà perfino la Sicilia e la Puglia. Perciò diventerà così potente, che sembrerà affondare perfino la navicella di Pietro. In questa frase è ancora palesemente all'opera la tendenza antipapale del partito ghibellino, peraltro in una forma insignificante e senza alcun tono riformatore. Inoltre al figlio di Ottocaro viene predetto uno splendido futuro; egli è destinato a essere l'«expectatio Germanie et partis ratis Petri»; ciò significa di sicuro che egli è destinato a diventare anche re di Germania, e sarà appoggiato da una parte del partito papale. Inoltre questo sovrano — in perfetta corrispondenza con le tradizionali profezie relative all'imperatore degli ultimi tempi — si recherà nella Terrasanta, riconquisterà Gerusalemme, e costringerà sia Babilonia sia Damasco a pagare tributi, sicché alla fine tutti i paesi del mondo lo temeranno. In definitiva qui non si tratta d'altro che di un omaggio di Enrico di Isernia al sovrano presso cui ha trovato servizio. Egli trasferisce semplicemente — adattandole il più possibile alla situazione esistente — a Ottocaro e al figlio le immagini della tradizionale profezia relativa all'imperatore finale, laddove gli sforzi fatti per un certo tempo da Ottocaro per ottenere la corona di Germania possono aver offerto una certa base per questa adulatrice visione del futuro. In ogni caso in
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questa profezia, per quanto essa vada sotto il nome del «profeta» allora molto accreditato, Gioacchino, non c'è alcuna traccia di attese riguardanti un autentico cambiamento delle condizioni ecclesiastiche; infatti l'unica frase che si potrebbe interpretare in questo senso, cioè che il re sembra poter affondare la navicella di Pietro, dice troppo poco sotto questo profilo. Dietro questa profezia non vi sono i desideri elementari di cerchie popolari più ampie; al contrario, qui si tratta delle adulazioni di un funzionario di corte. Di conseguenza prevale l'interesse meramente dinastico, sicché questo vaticinium in fondo è più vicino alle attese dell'imperatore degli ultimi tempi anteriori al 1200 che alla profezia relativa all'imperatore Federico, con la sua tendenza di fondo nel senso della riforma della chiesa 13°. Un'altra profezia che annuncia un imperatore con sovranità mondiale e che è segnata da una tendenza marcatamente anticuriale e insieme antifrancese deve essere stata inventata a Roma nel 1293 131 • Questi versi, che cominciano con le parole «Gallorum levitas», promettono il dominio mondiale a un imperatore destinato ad apparire nel 1293. Siccome si allude a una disfatta dei francesi in Italia, cioè ai Vespri siciliani, tutto lascia credere che l'autore pensasse, come imperatore con sovranità mondiale, a un esponente della casa reale aragonese 132. Sotto di lui, dopo la morte di un papa, la vanagloria del clero scomparirà 133 . Perciò in questa profezia l'opposizione al clero emerge più chiaramente che nella profezia boema di cui si è appena parlato; infatti l'attesa secondo cui con l'avvento dell'imperatore scomparirà la vanagloria del clero va chiaramente intesa nel senso che l'imperatore distruggerà la potenza politica secolare della chiesa, provocandone quindi una certa riforma. All'incirca nello stesso periodo, cioè intorno al 1294, sorse, palesemente in connessione con i preparativi di guerra contro la Francia da parte dell'Inghilterra, un altro vaticinio, che il cronista inglese Bartolomeo di Cotton riporta poco dopo il componimento profetico di cui si è appena parlato 134. In esso si annunciano anzitutto grandi successi sulla Francia da parte del re inglese alleato con i tedeschi. Ma le predizioni che seguono riguardano esclusivamente il comportamento di un'«aquila», cioè di un imperatore o re tedesco, contro il papa e i prelati, che qui vengono menzionati con l'immagine del sole e dei suoi raggi. La conseguenza di questa afflizione sarà una umiliazione e una riconduzione del papa e dei prelati «ad statum primarium Crucifixi». Questi esempi mostrano quanto, dalla fine del XIII secolo, le attese di un imperatore della pace — anche quando non si tratta specifica-
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mente di profezie su Federico — facciano propria l'idea di una riforma più o meno radicale delle condizioni ecclesiastiche. Un esempio particolarmente significativo di questa tendenza è un accenno di Alessandro di Roes nel suo Memoriale, già composto nel 1281. Qui Alessandro racconta, raccordandosi al già citato resoconto della profezia su Federico 135, che vi sarebbe stato anche un altro vaticinio popolare, secondo cui dalla stirpe dei carolingi, ovvero dalla dinastia francese, sarebbe sorto un ultimo imperatore di nome Carlo, che avrebbe regnato su tutta l'Europa e avrebbe riformato sia l'impero sia la chiesa 136 . Da ciò risulta quindi che anche in profezie che sono dirette contro l'impero e senz'altro tradiscono tendenze guelfe filopapali, prende piede l'idea di una riforma della chiesa, anche se in una modalità filoecclesiastica e senza alcun cenno a un uso della forza contro la gerarchia ecclesiastica. Nel contesto della trattazione circa le attese di un imperatore della pace, riformatore della chiesa o addirittura dell'intera società, non si può non parlare, a conclusione, anche della visione dantesca del futuro, così come si è configurata soprattutto nella Divina commedia. Sono principalmente quattro i passi che ci permettono illazioni sulle attese di Dante relative a un salvatore e riformatore venturo. Subito nel primo canto dell'Inferno Virgilio profetizza il futuro avvento di un «veltro», cioè di un «levriero», che ricaccerà nell'inferno la lupa vorace, la quale in Dante simboleggia il vizio dell'avidità 137 , e porterà la salvezza all'Italia oppressa 138 . Facendo seguito a questo annuncio, Dante, nel ventesimo canto del Purgatorio, si chiede quando finalmente verrà colui al quale l'insaziabile lupa deve cedere 1 3 9 . Un altro passo interessante sotto questo profilo si trova nel trentatreesimo canto del Purgatorio, dove si esprime l'annuncio, di cui si è molto discusso, che presto un «cinquecento diece e cinque», dunque un «515», inviato da Dio ucciderà la «fuia» e il gigante che tresca con essa l4 °; questa «fuia» e il gigante designano — come risulta dal contesto successivo — il papato mondanizzato e il regno di Francia. Infine nel ventisettesimo canto del Paradiso Dante lamenta che oggi sulla terra non c'è nessuno che governi veramente, e perciò anche l'umanità si è smarrita così lontano dalla retta via. Però subito esprime la certezza che sotto questo profilo presto avverrà un cambiamento radicale 141 . Finora nella letteratura è stata controversa soprattutto la questione se il «veltro» del primo canto dell'Inferno e il «515» del Purgatorio vadano intesi come sostanzialmente identici, e che cosa simboleggino. Per quanto concerne in primo luogo il «515», le indicazioni di Dante sono alquanto chiare. Egli descrive qui anzitutto come la chiesa nel
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corso del suo sviluppo si sia trasformata addirittura nel mostro apocalittico su cui siede la meretrice (cfr. Ap 17, 3), e questo specialmente perché l'aquila le ha ceduto una parte delle sue penne 142; cioè l'imperatore — che in Dante, come anche nella restante letteratura profetica di quel tempo, viene designato sempre con l'aquila — ha trasferito alla chiesa beni e diritti secolari; con ciò s'intende ovviamente l'imperatore Costantino o la Donazione di Costantino. L'annuncio che viene poi fatto, di un radicale cambiamento in meglio, viene introdotto da Dante con le parole secondo cui l'aquila, quindi l'imperatore, che ha parzialmente ceduto le sue «penne» alla chiesa, non rimarrà per sempre senza eredi l43 . Infatti si avvicina il momento in cui il «messo di Dio», il «515», sfracellerà la «fuia», cioè la meretrice che troneggia sulla chiesa mondanizzata, dunque il papato corrotto l44 , e 10 stesso farà col re di Francia, che tresca con la meretrice; Dante quindi allude alla dipendenza del papato dal re di Francia, che era apparsa evidente a tutti con la permanenza del papa in Francia. Il «515» viene quindi concepito evidentemente come un erede dell'aquila, dell'impero, ed è dunque egli stesso un imperatore 145 . Allo stesso modo è probabile che Dante, scegliendo il numero 515, in cifre romane DXV, abbia avuto in mente la parola «Dux»146. Questo «Dux» imperiale è destinato a distruggere il papato mondanizzato nella sua forma tradizionale, e quindi a liberare la strada per una riforma della chiesa. Nel contempo abbatterà il sostegno mondano del papato corrotto, il re di Francia. Allo stesso modo le attese circa il futuro che Dante esprime nel ventisettesimo canto del Paradiso presuppongono l'avvento di un imperatore potente; infatti la decadenza attuale dell'ordine morale — come Dante afferma espressamente — è provocata dal fatto «che 'n terra non è chi governi»147. Un miglioramento è dunque possibile solo se viene uno capace di governare veramente 11 mondo. Mentre i due passi di cui si è appena trattato fanno chiaramente dipendere il cambiamento futuro dall'avvento di un imperatore, le asserzioni di Dante sul veltro, come pure le sue affermazioni nel ventesimo canto del Purgatorio, sono ritenute un poco più incerte. In entrambi i casi sta in primo piano l'idea che il salvatore venturo scaccerà la lupa, cioè quello che secondo Dante è il vizio morale fondamentale di quel tempo e reprimerà l'avidità. In verità un gran numero di studiosi ha sostenuto che il veltro e il 515 designano una figura sostanzialmente identica, e pertanto hanno visto anche nel veltro un sovrano imperiale148; ma molti hanno al contrario affermato che Dante col veltro aveva in mente non tanto un personaggio politico, quan-
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to piuttosto un personaggio operante nell'ambito morale-religioso; perciò non potrebbe trattarsi di un sovrano secolare, ma, per esempio, di una sorta di papa angelico 149 o di un riformatore 150 o addirittura dello stesso Dante 151 . In proposito va detto anzitutto che nella visione di Dante il veltro è destinato a portare salvezza anche all'Italia152. Questa espressione, di fronte alla passione con la quale Dante respingeva la divisione politica e le discordie esistenti in Italia153, può essere intesa solo nel senso che quel veltro nell'opinione di Dante in ogni caso avrebbe condotto anche l'Italia all'unità. Ma questo è un compito politico che Dante, nel suo zelo contro il papato che faceva politica, non avrebbe mai assegnato a un papa angelico. Ma soprattutto c'è da chiedersi se Dante davvero ritenesse un sovrano imperiale inadatto a bandire dal mondo un male prevalentemente morale come l'«avaricia». In questo contesto bisogna fare attenzione ancora una volta alle sue indicazioni nel ventisettesimo canto del Paradiso. Qui egli dice — come già si ricordava — che la mancanza di un vero sovrano, di un (possiamo dirlo senza esitazione) imperatore, fa deviare gli uomini dalla retta via. Ma pochi versi prima egli cita espressamente il vizio capitale che rovina gli uomini: è la cupidigia 154 . Dunque la mancanza di un sovrano potente ha lasciato via libera in maniera così fatale anzitutto a quella cupiditas. La conclusione logica può essere solo che appunto un imperatore simile è in grado di arginarla nuovamente. D'altra parte volendo chiarire il problema del veltro, non è possibile trascurare quanto viene affermato nella Monarchia. La Monarchia è stata sicuramente composta dopo il primo canto dell'Inferno 155 ; tuttavia non c'è nessun motivo che costringa a ipotizzare che le idee di Dante all'epoca della stesura della Monarchia fossero fondamentalmente diverse da quelle al tempo della composizione delle parti iniziali della Divina Commedia. Anzi il Convivio, scritto tra il 1304 e il 1307, mostra chiaramente che già allora Dante sosteneva in linea di principio quelle idee che in seguito espose dettagliatamente nella Monarchia. Nella Monarchia Dante separa chiaramente il campo di competenza del papa e quello dell'imperatore 156. Il papa ha la cura della salvezza delle anime, l'imperatore quella della «temporalis felicitas». Ambedue i fini però, la «vita eterna» e la «felicità temporale», sono conseguibili solo se l'umanità, dopo aver soggiogato la cupiditas, può vivere nella tranquillità della pace. Perciò il compito più importante dell'imperatore romano è di instaurare uno stato di pace universale 157 . In questo contesto le due nozioni — il controllo della cupiditas e l'instaurazio-
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ne di una pace universale — vengono collegate tra loro assai strettamente; in altre parole, la cupiditas può essere eliminata mediante l'assicurazione della pace, e quest'ultima viene indicata esplicitamente come il compito più importante del romanus princeps; procurando e assicurando la pace, l'imperatore mette nel contempo sotto controllo la cupiditas. Simili conclusioni si ricavano in maniera ancora più chiara dal capitolo XI del primo libro della Monarchia. Qui Dante dichiara che il principale nemico della iustitia è la cupiditas, e che dopo la eliminazione della cupiditas nulla più si oppone alla iustitia. Alla domanda che ne consegue, come vada repressa la cupiditas e come si possa procurare la vittoria alla iustitia, Dante risponde con l'osservazione che solo un monarca universale può essere superiore al vizio della cupiditas, perché per lui non vi sarebbe nient'altro da poter desiderare. Egli solo garantisce il valore della iustitia158, e ciò può significare solo che unicamente l'imperatore del mondo è capace non soltanto di allontanare da sé la cupiditas, ma anche di eliminarla dal mondo intero. Nella Monarchia dunque viene attribuita al sovrano universale proprio quella capacità che caratterizza il veltro. In questo contesto è significativa anche la constatazione di Dante che in tutta la storia dell'umanità solo al tempo di Augusto vi fu una «monarchia perfecta», e solo allora gli uomini furono felici nella quiete di una pace universale. Subito dopo Dante designa quest'epoca come «statum illum felicissimum»159. Dunque l'umanità deve al dominio universale di un imperatore potente se ha goduto dell'epoca più felice mai avutasi nella storia. Di fronte a questi dati di fatto l'affermazione secondo cui il veltro, e allo stesso modo il 515, non designerebbe un sovrano universale imperiale è sostenibile solo se si dimostra nel contempo che le idee di Dante sono cambiate radicalmente nel periodo che intercorre tra la stesura del primo canto dell'Inferno e la stesura della Monarchia. Ma finora questo non è stato dimostrato da nessuno di quegli studiosi che si sono espressi contro l'interpretazione del veltro qui sostenuta l6 °. Anche a proposito dell'interpretazione più recente del veltro proposta da Richthofen, si può dire senz'altro che in definitiva la concezione politica complessiva di Dante ha una consistenza maggiore della presenza di un levriero in funzione di soccorritore nella Chanson de Roland. Dopo tali constatazioni ci siano consentite ancora alcune osservazioni sul problema, ugualmente molto dibattuto, se Dante, col suo veltro o col 515, abbia pensato a personaggi politici ben definiti della
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sua epoca. Da più parti si è avanzata l'ipotesi che Dante abbia dato forma, nella visione del veltro, alle speranze riposte in Cangrande della Scala161. A supporto di tale ipotesi si potrebbe addurre che Dante nel 1303 trovò ospitale accoglienza presso la corte degli Scaligeri162. Inoltre i sostenitori di questa tesi fanno riferimento al fatto che quel veltro è destinato a nascere «tra feltro e feltro»l63; ciò viene poi interpretato: tra Feltro nel Veneto e Montefeltro nella marca di Ancona l64 ; ma questa in verità è una spiegazione assai artificiosa. Inoltre si ritiene che Dante abbia scelto la figura simbolica del «veltro» (di un levriero) per alludere al concetto di «canis» contenuto nel nome di Cangrande. Tuttavia l'interpretazione del veltro difficilmente si attaglia a Cangrande della Scala. Se Dante ha effettivamente composto intorno al 1307 le parti iniziali della Divina Commedia, a quell'epoca Cangrande, nato nel 1291, era ancora una pagina completamente bianca 165 . Attribuirgli il ruolo del sovrano salvatore avrebbe costituito la più banale delle adulazioni da cortigiano. Peraltro è di fatto un problema assai difficile interpretare le parole «tra feltro e feltro» l66 . Con sicurezza si potrà assumere che «feltro» — come spiega Boccaccio — indica una «vilissima specie di panno», dunque una stoffa particolarmente a buon mercato l67 . Perciò vi sono numerose ragioni a favore dell'opinione espressa da molti dei commentatori più antichi e da studiosi più recenti, secondo cui con questo termine Dante voleva alludere in forma simbolica alle umili origini di questa figura salvifica l68 . Con ciò concorda anche il dato che il veltro non sarà assetato di danaro e di terra, ma si distinguerà per sapienza, amore e virtù. Il veltro dunque deve essere di umili origini, e nel contempo disprezzare le ricchezze terrene. È pensabile che Dante raccogliesse così motivi antichi, collegati con l'attesa di un imperatore degli ultimi tempi. L'ipotesi delle origini povere dell'imperatore degli ultimi tempi si trova, per esempio, nella profezia bizantina che il presbitero Niceforo tramanda nella Vita S. Andreae Sali-, vi si dice tra l'altro che questo imperatore non esigerà tasse e tributil6s>. In questo contesto inoltre è significativo l'accenno contenuto in un'Apocalisse di Daniele, scritta nel XIII secolo dopo la quarta crociata, nella quale si profetizza la venuta di un imperatore salvifico della pace, e nel contempo si annuncia che l'uomo scelto per questo sarà riconoscibile tra l'altro dalle sue povere vesti 170 . Bisogna inoltre ricordare che nei Versus cardinalis Albi il re venturo viene indicato come «pauper opum, dives morum» 171 . Pertanto la spiegazione più ovvia delle parole di Dante dovrebbe andare in questa direzione; perciò non sussiste alcun motivo cogente per l'ipotesi sostenuta da più parti, secon-
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do cui la concezione di Dante relativa alla visione del veltro sarebbe stata influenzata da rappresentazioni leggendarie orientali legate alla figura del Gran Khan 172 . Molti indici dunque depongono per l'ipotesi che il veltro atteso da Dante, che avrebbe riportato l'ordine terreno alla giusta condizione, è destinato ad assurgere a monarca universale provenendo da condizioni semplici, e proprio per questo riuscirà ad estirpare Yavaricia. Il carattere atemporale, non concreto e «mitologico» della visione del veltro, e l'inutilità di tutti gli sforzi degli studiosi per accordare questa figura simbolica con le realtà storiche del tempo o con un personaggio storico allora vivente, si spiega evidentemente per il fatto che all'epoca — quindi intorno al 1307 — Dante non vedeva nessuno, neppure un re tedesco, cui poter legare le proprie speranze. Perciò, per indicare questa figura che viveva solo nella sua fantasia, adoperò motivi di antica tradizione diffusi nell'universo rappresentativo dell'epoca, che difficilmente avevano riscontri concreti. Al contrario, la figura del 515 è collegata in maniera più chiara con le circostanze politiche dell'epoca. Egli è un erede dell'aquila che cedette alla chiesa le sue «penne», è cioè senza dubbio l'imperatore dell'impero romano medievale. Egli viene designato come nemico del re di Francia e del papato mondanizzato, da lui dipendente. Se si riuscisse a stabilire con sicurezza che questo canto del Purgatorio è stato composto quando Arrigo VII era ancora in vita, si potrebbe dire con certezza che si intendeva parlare proprio di questo imperatore 173. In effetti molte ragioni inducono a credere che il canto trentatreesimo del Purgatorio, nel quale è contenuta l'attesa del Dux, sia stato steso entro il 1313 circa 174 — dunque prima della morte di Arrigo VII —; ma anche se questa ipotesi non fosse corretta e questo canto fosse stato composto eventualmente un poco più tardi, si potrà in ogni caso dire che l'avvento di Arrigo VII e l'influsso di questo personaggio sul poeta hanno contribuito a configurare la visione del 515 in maniera più precisa e più concreta, sotto il profilo politico, di quanto non avvenga nella profezia del veltro 175. Che col 515 sia da intendere Arrigo VII oppure no, in ogni caso da altre testimonianze provenienti da Dante risulta con sicurezza che il poeta per un certo tempo sperò che l'imperatore Arrigo VII fosse quel monarca universale che avrebbe introdotto un ordine terrenopolitico corrispondente agli ideali del poeta. In una lettera scritta qualche tempo dopo l'arrivo di Arrigo VII in Italia, Dante dichiara con vigore che solo sotto l'egida dell'impero romano gli uomini possono vivere «civiliter», e che l'intero orbe terracqueo ricade nel disordine,
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se il trono imperiale è vuoto. Allora dormono il timoniere e i rematori della navicella di Pietro, cioè il papa e il clero tralasciano i loro doveri; allora tutta l'Italia è infelice 176. Qui è interessante soprattutto l'affermazione che fa dipendere l'ordine interno e la purezza della chiesa dall'esistenza di un potere imperiale in grado di funzionare; ciò significa che un'autentica restaurazione dell'impero è sicuramente in grado di eliminare anche le storture all'interno della chiesa. Le grandi speranze che la venuta di Arrigo VII suscitò in Dante si manifestarono anche nel suo appello agli italiani, in cui celebra il re come consolazione del mondo e come «titan pacificus»177. Quasi più entusiastiche risuonano le espressioni che Dante usa nella sua lettera a Arrigo VII; qui al sovrano viene attribuito addirittura un significato di tipo messianico 178. Ora resta da chiarire ancora quali compiti, secondo la visione di Dante, debba adempiere quel sovrano designato dal veltro o dal 515, ovvero quali storture specifiche debba eliminare. In quanto monarca universale egli deve portare la pace almeno al mondo cristiano; laddove peraltro non si può dimenticare che l'aspirazione di Dante alla pace universale è maturata sul terreno delle sue esperienze tipicamente italiane, e ha di mira soprattutto l'instaurazione di rapporti ordinati in Italia179. In proposito Dante non ha pensato certo che con il nuovo rafforzamento della sovranità imperiale tutti i poteri politici fino a quel momento esistenti dovessero essere aboliti 180 ; piuttosto, l'autorità imperiale deve solo esercitare la propria forza nei confronti di tutti, quale supremo potere che assicura la pace. Con l'insediamento di questa monarchia universale viene contemporaneamente represso il vizio morale fondamentale della sua epoca, Yavaricia-cupiditas, e quindi viene instaurato un ordine sociale giusto. Con tale attesa Dante non si dimostra affatto un riformatore sociale radicale; in lui non si ritrovano affatto espressioni dalle quali si possa indurre che volesse eliminare o cambiare sostanzialmente l'articolazione sociale esistente, oppure che desiderasse addirittura abolire tutte le differenze patrimoniali. Egli viveva piuttosto nell'illusione che con la costituzione di un ordine politico globale che assicurasse la pace, anche la condotta morale degli uomini sarebbe cambiata, e per questa via tutti i problemi sociali avrebbero potuto essere risolti. Egli dunque, come pure molti pensatori idealisti e borghesi in epoca moderna, vede il punto di partenza decisivo per la costruzione di condizioni sociali giuste non in un cambiamento della struttura sociale, ma in un cambiamento della condotta morale. D'altra parte questo monarca deve porre nel giusto rapporto reciproco impero e papato, cioè chiesa e stato, secondo i principi che
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Dante ha esposto diffusamente nella Monarchia181. Ciò significa innanzitutto che la chiesa deve rinunciare a tutti i diritti di sovranità secolare che detiene da Costantino; in altri termini, l'imperatore deve revocare la Donazione di Costantino, che è la ragione principale di tutti i mali attuali, e che nelle sue fatali conseguenze è paragonabile al peccato di Adamo 182. Ciò ovviamente non avverrà per vie del tutto pacifiche, ma su questo punto — come mostra la visione del 515 — l'imperatore dovrà procedere con la forza contro il papato 183 e contro il re di Francia, «che ha ottenebrato tutto il mondo cristiano» 184. Se teniamo presenti i tratti fondamentali di questa visione del futuro (istituzione di una sovranità imperiale universale e riforma della chiesa mediante l'azione violenta dell'imperatore), appare una concordanza sorprendente tra queste speranze intorno al futuro e le attese dell'imperatore degli ultimi tempi ovvero di Federico nella loro espressione ghibellina 185 . È pertanto molto probabile che Dante si sia collegato a queste attese popolari largamente diffuse, e le abbia trasformate e sviluppate in maniera corrispondente alla sua concezione complessiva. In tale contesto, l'idea tradizionale, che questo imperatore sarà effettivamente l'ultimo imperatore, che conquisterà Gerusalemme e vi deporrà le proprie insegne, perdeva qualsiasi rilievo, perché evidentemente questi motivi per Dante erano di scarso interesse. Il suo pensiero era indirizzato in primo luogo a una riforma dell'ordine terreno; nonostante tutto, l'attesa di un'imminente fine del mondo è sì presente anche in lui 186 , ma nella sua concezione complessiva non svolge alcun ruolo decisivo. In verità in questo contesto emerge un problema che necessita di una trattazione più precisa; ci si deve cioè chiedere quanto debba essere vasta e radicale, nella visione di Dante, quella purificazione della chiesa. A chi si avvicina in questo problema importante? Riprende immediatamente le idee degli eretici, o si dimostra un cattolico ortodosso, con aspirazioni di riforma ideali ma misurate, alla maniera, per esempio, di Bonaventura, o almeno su questo punto concorda con i francescani spirituali radicali, influenzati dalle idee gioachimite, dello stampo di un Olivi o di un Ubertino da Casale? Dopotutto una simile affinità tra le idee di Dante e quelle dei francescani spirituali di tendenza gioachimita è stata molte volte ipotizzata 187 ; così come da più parti si sono qualificate eretiche le sue visioni 188 . Nella discussione dei problemi che qui affiorano possiamo partire da questo dato: Dante condanna aspramente la Donazione di Costantino o ne mette in dubbio la validità giuridica, ed è dell'opinione che
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essa rappresentò una fatalità per la chiesa e per tutto l'ordinamento umano 189 . Certo un simile apprezzamento della Donazione di Costantino era diffuso prevalentemente nei circoli ereticali 19°, ma sarebbe avventato dichiarare Dante eretico in base a questa ragione. In definitiva anche Walther von der Vogelweide ha dichiarato fatale la Donazione di Costantino191, ma non per questo è stato giudicato subito come eretico. Inoltre occorre ricordare che anche un francescano assolutamente fedele alla chiesa, come Giovanni di Winterthur, fa propria la visione secondo cui la Donazione rappresentò per la chiesa un dono avvelenato 192. Viceversa, più importante e più significativa per un giudizio circa l'atteggiamento di Dante nei confronti della chiesa è la sua visione della storia della chiesa, che egli prospetta nei canti trentaduesimo e trentatreesimo del Purgatorio. Qui la chiesa, come si è già ricordato, viene simboleggiata da un carro. Nel primo quadro un'aquila piomba sul carro, che perciò vacilla. Qui Dante pensa senza dubbio alle persecuzioni della chiesa da parte degli imperatori romani. Nel secondo quadro una volpe vorace si butta sul carro; laddove il poeta allude alla minaccia portata alla chiesa dalle prime eresie. Segue in terzo luogo il ritorno dell'aquila, la quale cede al carro una parte delle sue penne — si tratta dunque dell'allusione, già ricordata, alla Donazione di Costantino, che appare quindi come la terza minaccia portata alla chiesa. Nella quarta fase segue l'attacco di un drago, il quale con la sua coda strappa al carro un pezzo — un'allusione alle grosse perdite causate alla chiesa dall'Islam. Il quinto quadro descrive come ormai tutto il carro si ricopra fittamente di penne; con ciò Dante intende richiamare l'attenzione sulla corruzione della chiesa causata dall'acquisizione, in dimensioni sempre più massicce, di diritti e possessi statali e secolari. A tale quadro si collega nella sesta visione una ulteriore trasformazione del carro già ricoperto di penne: da esso ora crescono sette teste con dieci corna in tutto, sicché il carro ora assomiglia perfettamente a una bestia dell' Apocalisse (13,1 e 17, 3); come nc\\'Apocalisse, anche in Dante sopra questo mostro siede una meretrice. Il fatto che il «gigante» che tresca con questa meretrice, cioè il re di Francia, trascini il mostro insieme alla meretrice nella selva è un'allusione al trasferimento della curia ad Avignone, avvenuto sotto pressione dei francesi. Questa descrizione della storia della chiesa in sei fasi evidenzia senza dubbio somiglianze con la divisione della storia della chiesa in base ai sette sigilli, immagine utilizzata molte volte nel XIII secolo, soprattutto da parte di pensatori influenzati dalla tradizione gioachimita. Infatti
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si può senz'altro presupporre che l'avvento del Dux che libererà la chiesa dal «gigante» e ucciderà la meretrice, rappresenti in qualche modo nella descrizione di Dante il settimo quadro dell'intera evoluzione della chiesa 193 . Sarebbe però errato assumere che Dante con questa divisione settenaria della storia della chiesa abbia ripreso semplicemente la divisione di Gioacchino o di Ubertino da Casale o dell'Olivi. Da un confronto più ravvicinato risulta che il primo sigillo, in Gioacchino 194 e in Ubertino, indica le persecuzioni della chiesa apostolica da parte dei giudei, mentre Dante mette al primo posto le persecuzioni da parte dell'impero pagano-romano; al contrario, secondo Gioacchino, Ubertino e anche l'Olivi 195 , questo avvenimento appartiene al tempo dell'apertura del secondo sigillo. In Dante segue la minaccia portata dalle eresie del cristianesimo primitivo, che invece in Gioacchino, Ubertino e l'Olivi cadono sotto il terzo sigillo. Una precisa concordanza di Dante con le idee gioachimite-spiritualistiche sussiste in rapporto al quarto sigillo, sotto il quale secondo le concezioni dell'Olivi segue un tempo di «vita condescensiva» «sub monachis et clericis temporalibus possidentibus»196. Si potrà ipotizzare che Dante con l'immagine del carro che si ricopre di penne volesse dire qualcosa di simile. Il massimo di attenzione merita la descrizione del sesto tempo della chiesa in Dante, da una parte, e in Ubertino, quale rappresentante dell'orientamento gioachimita-spiritualistico, dall'altra. In Dante la chiesa diventa sostanzialmente la «bestia» apocalittica con le sette teste e le dieci corna. In una straordinaria concordanza con questa visione anche nell'Arbor vitae di Ubertino troviamo questa «bestia», che si innalza «de tempestuosa vita clericali». Ubertino peraltro con questa bestia intende propriamente Bonifacio Vili; il mostro nella sua visione ha sette teste perché in lui i sette «capitalia vitia» prendono il sopravvento, e dieci corna perché disprezza per orgoglio i dieci comandamenti 197 . Si può senz'altro pensare che le sette teste e le dieci corna in Dante abbiano lo stesso significato. In ogno caso già nel commento alla Commedia di Jacopo della Lana, scritto subito dopo la morte di Dante (negli anni Venti del XIV secolo), viene affermato che le sette teste della bestia anche nel trentaduesimo canto del Purgatorio indicano i sette «vitii capitali», apparsi nella chiesa dopo che essa ebbe acquisito ricchezze mondane 198 . Forse che Jacopo della Lana in questo caso ha trasferito a Dante, per così dire senza esserne autorizzato, le opinioni di Ubertino? o non riproduce egli davvero idee di Dante? In questo caso però la concordanza tra i due sarebbe così grande che non si potrebbe fare a meno di presupporre in
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Dante una conoscenza diretta di Ubertino. Per di più lo stesso Davis ha già indicato alcune concordanze sorprendenti tra YArbor vite di Ubertino e la Divina Commedia di Dante 199 . Perciò molti indizi suffragano la constatazione di Davis: «Senza dubbio Dante conobbe ì'Arbor vite» 20°. Senza dubbio le idee religiose di Dante, ovvero la sua concezione della chiesa, sono state fortemente plasmate dalla corrente francescanospiritualistica. Per Dante la chiesa clericale mondanizzata si è trasformata nella bestia apocalittica ovvero — per usare un termine dell'Olivi e di Ubertino — nella «ecclesia carnalis». Perfino negli aspetti esteriori, come per esempio nella forte avversione nei confronti di papa Nicolò III, si evidenzia la concordanza delle concezioni di Dante con quelle degli spirituali 201 . Inoltre va ricordato l'energico rifiuto delle pretese della chiesa relative al potere secolare, come pure il rimprovero, da parte di Dante, che i chierici preferiscano studiare le decretali invece dei vangeli 202 . Nella stessa direzione infine vanno le lamentele di Dante sulla crescente decadenza nel rigore della regola all'interno dell'ordine francescano 203 , un'accusa reiteratamente avanzata proprio nell'ala spiritualistica dell'ordine minorità. Sarebbe tuttavia completamente errato identificare la concezione complessiva di Dante con quelle dell'Olivi o di Ubertino da Casale. Proprio come Dante non ha semplicemente ripreso nella sua integralità la divisione settenaria della storia della chiesa di Ubertino, ma l'ha trasformata secondo la sua concezione di fondo, così anche su altri punti egli sostiene idee in parte addirittura sostanzialmente diverse. Ciò appare per esempio nell'apprezzamento del re Filippo IV di Francia, che per Ubertino è un «lottatore di Cristo» 204 , mentre Dante ha un atteggiamento antifrancese, e condanna duramente l'aggressione di Anagni, nonostante la sua avversione nei confronti di Bonifacio VIII 205 . In generale il significato eminente di cui Dante gratifica l'impero è impensabile per un vero spirituale; e allo stesso modo Dante si distingue nettamente da ogni tendenza francescana, perché accanto alla «vita aeterna», che i monaci prendono in considerazione quasi esclusivamente, ritiene che la «temporalis felicitas» sia un'esigenza di fondo essenziale dell'umanità 206 . Su questo punto in Dante, che per molti aspetti è assolutamente «medievale», viene alla luce un tratto che rimanda al rinascimento, mentre d'altra parte potrebbe essere errato, in linea di principio, mettere in connessione Gioacchino e il gioachimismo veicolato dal francescanesimo con il rinascimento 207 . Si potrebbe dire pertanto che Dante ritiene vincolanti soprattutto per i chierici e i monaci gli ideali religiosi dell'orientamento francescano-spiritualistico, men-
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tre per la vita civile normale propugna fondamentalmente princìpi di tenore del tutto diverso da quelli sostenuti dai francescani spirituali, i quali in generale non hanno alcuna comprensione per tale ambito di vita. Dante dunque è senza dubbio influenzato dal francescanesimo rigorista, ma nella sua concezione generale non può essere affatto designato come un rappresentante del francescanesimo spirituale, al contrario, per esempio, di un altro noto «laico» del suo tempo, cioè Arnaldo di Villanova. Dobbiamo pronunciarci con prudenza ancora maggiore se tentiamo di dare una risposta alla domanda se Dante sia stato influenzato direttamente da Gioacchino. Vi sono certo alcuni indizi del fatto che Dante ha conosciuto il Liber Figurarum di Gioacchino 208 , ma sarebbe completamente errato designare Dante come gioachimita. È certo che Dante non ha atteso in alcun modo un'età specifica o una nuova chiesa dello Spirito santo; al contrario, da un passo del suo Convivio emerge con tutta evidenza che egli era dell'idea, perfettamente in linea con la dottrina agostiniana sulle età del mondo, di vivere già nell'ultima età 2 0 9 . Quindi le attese di Dante relative a una futura epoca migliore si collegano in sostanza non direttamente a Gioacchino, ma in parte a concezioni francescano-gioachimite più tardive 2 1 0 , e soprattutto alle profezie circa l'imperatore degli ultimi tempi, con le quali anche si erano ricollegate speranze di riforma della chiesa già prima di Dante. Infine ci siano consentite alcune osservazioni sulla questione in che misura si possa considerare Dante come un sostenitore di concezioni ereticali. In proposito bisogna dire che egli sotto il profilo dogmatico si riconosce chiaramente nelle dottrine della chiesa, e non fa proprio in nessun modo alcun principio dei movimenti ereticali allora diffusi, soprattutto dei valdesi o dei catari. Un vero eretico come Dolcino viene ricordato in maniera tale da dare solo adito alla conclusione che Dante lo disapprovava nel modo più netto 2 1 1 . Altra questione invece è se Dante, accogliendo diverse idee degli spirituali, non abbia assunto una posizione che — senza volerlo coscientemente — di fatto significava una rottura con la chiesa. A proposito di tale questione bisogna considerare ancora una volta il canto trantaduesimo del Purgatorio, secondo cui la chiesa è sostanzialmente diventata la bestia con la meretrice 2 1 2 . In tale contesto va ricordato che Dante già nel canto diciannovesimo dell'Inferno usa il simbolo della bestia con le sette teste e le dieci corna, come pure quello della meretrice 2 1 3 ; qui peraltro lo fa in un senso diverso, più conciliante e più ampio. Infatti in questo canto più antico le sette teste dell'animale possono significare soltan-
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to o i sette doni dello Spirito santo, o — come commenta il passo Jacopo della Lana — le sette virtù; le dieci corna sono qui propriamente simbolo dei dieci comandamenti 214 , non della loro violazione, come nel canto trantaduesimo del Purgatorio. La descrizione della bestia, di tenore completamente differente, in quest'ultimo canto, dove le sette teste significano con ogni evidenza i sette peccati mortali, va forse spiegata col fatto che Dante nel frattempo è arrivato a una considerazione ancora più negativa della chiesa. A favore di questo inasprimento delle sue opinioni, causato probabilmente dal trasferimento della sede del papato ad Avignone, che col passare del tempo appariva come definitiva, o forse anche da una conoscenza più approfondita, conseguita solo allora, dello spiritualismo francescano radicale, depone anche l'attacco straordinariamente duro contro il papato nel canto ventisettesimo del Paradiso. Qui Dante mette sulla bocca dello stesso Pietro le parole secondo cui l'attuale occupante della sua sede sulla terra è un usurpatore, e che perciò davanti a Cristo la sede papale è da considerare vacante 2 1 5 . Come usurpatore della sede papale Dante intende ovviamente Bonifacio V i l i 2 1 6 , che anche diverse altre volte viene giudicato assai negativamente 217 . A questa definizione di papa Bonifacio Vili quale usurpatore e quindi quale papa illegittimo si è contrapposta la descrizione dell'aggressione di Anagni nel ventesimo canto del Purgatorio, in cui il papa viene indicato come vicario di Cristo, e l'azione del re di Francia viene condannata come un misfatto 2 1 8 . Questa contraddizione si deve spiegare in parte col fatto che Dante, nel passo citato per ultimo, non pensa tanto a una determinata persona come papa, ma alla stessa istituzione del papato, che egli non voleva fosse sminuita in alcun m o d o 2 1 9 . Ma certo questa spiegazione non appare del tutto soddisfacente, sicché anche qui risulta ovvia l'ipotesi che Dante nel Paradiso, come anche nel trentaduesimo canto del Purgatorio, propugni con la visione della bestia opinioni più radicali di quanto non faccia ancora nel ventesimo canto del Purgatorio 220 . Se teniamo presenti in particolare le espressioni di Dante nel trentaduesimo canto del Purgatorio e nel ventisettesimo canto del Paradiso, dobbiamo in verità constatare che egli, nonostante il suo sforzo di rispettare la chiesa, unitamente al papato, come istituzione, sostenne opinioni che dovevano essere giudicate eretiche dai rappresentanti della chiesa. In proposito va sottolineato ancora una volta che Dante non si riconosceva affatto in alcuno dei maggiori movimenti ereticali allora conosciuti, ma che le sue opinioni sulla chiesa assomigliano straordinariamente a quelle di diversi spirituali francescani, che del resto a quell'epoca, proprio come lui, di regola si sforzarono soggettivamente
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di rimanere nella chiesa, entrando tuttavia continuamente in conflitto con essa, perché le loro opinioni erano intollerabili per quest'ultima. Se quindi, fino a un certo punto, possiamo giudicare come obiettivamente «eretiche» le idee di Dante, dobbiamo però tenere sempre presente che si tratta evidentemente di un'eresia di tipo decisamente «borghese-moderato»221. Non si può neanche dire che Dante esigesse una chiesa assolutamente priva di beni; egli auspicava piuttosto in primo luogo una chiesa senza diritti statali, e dunque soprattutto senza uno «stato della chiesa»; laddove non escludeva assolutamente un possesso temporale limitato 222 . Ma soprattutto è decisivo che Dante fondamentalmente ritenesse che le regole del cristianesimo primitivo fossero vincolanti per i membri della gerarchia ecclesiastica, ovvero per la costituzione della chiesa, ma che fosse ben lungi dal dichiarare queste regole come «norma anche per il mondo civile» 223 , ciò che appunto è tipico proprio delle eresie più radicali. Dante invero auspicava anche certi mutamenti all'interno del mondo civile, ma questi si limitavano essenzialmente a una eliminazione óe\\'avaricia e a un ritorno del «buon tempo antico», quando a Firenze «la cittadinanza [...] pura vediesi ne l'ultimo artista» 224, e i nuovi immigrati, o l'improvvisa acquisizione di ricchezza, non avevano ancora suscitato superbia e orgoglio 225 . Egli respinge con veemenza lo sviluppo più recente di Firenze, che già comincia a tendere verso il capitalismo; ma non per questo propugna, per esempio, ideali protocomunisti. In effetti per lui le ricchezze sono «vili e lontane da nobilitade» 226 , e addirittura pericolose, perché producono il desiderio di sempre nuovi guadagni227; ma sono assolutamente consentite, finché sono state guadagnate in maniera onorevole, «per arte o per mercatantia o per servigio meritante» 228 . Dalle considerazioni svolte finora intorno alle attese di Dante relative al veltro o al 515 dovrebbe essere risultato chiaro che la visione di Dante intorno al futuro, nonostante tutte le affinità, non può essere senz'altro equiparata alle profezie allora diffuse circa un imperatore futuro che avrebbe riformato la chiesa. Mentre quelle attese di un imperatore degli ultimi tempi, intorno al 1300, in generale riflettono, in modo del tutto indeterminato e spesso primitivo, semplicemente i desideri di cerchie assai vaste, e non sono coniate esclusivamente dall'universo rappresentativo di uno strato sociale ben determinato, le idee di Dante sono molto più concrete e determinate. Pertanto è ragionevole, nel caso di Dante, chiedersi di quale classe sociale egli propugni gli interessi. Ora in proposito sarà lecito per prima cosa — come mostrano le argomentazioni intorno alle ricchezze temporali nella vita
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civile, e il suo desiderio di una chiesa demondanizzata — intenderlo fino in una certa misura come portavoce della borghesia nel senso più ampio della parola 229 ; d'altra parte però le sue idee tradiscono inequivocabilmente un tono aristocratico-ghibellino, e questa singolare fusione di idee borghesi e aristocratiche corrisponde palesemente anche allo status effettivo della sua famiglia230. Così si spiega anche il suo atteggiamento sostanzialmente assai moderato; esso viene alla luce soprattutto nel fatto che il suo sguardo rivolto a una futura epoca migliore è privo di quel tratto, tipico del millenarismo nel senso stretto della parola, di una perfezione assoluta, addirittura celeste. Le speranze illimitate del millenarismo cristiano vengono qui in un certo modo ricondotte a una misura razionale. Pertanto si dovrà comunque rinunciare a una «classificazione» troppo rigida, e si potrà dire che Dante, come «intellettuale» la cui famiglia si collocava tra la nobiltà e la borghesia, e viveva in condizioni economiche non propriamente floride 231 , possedette sufficiente lungimiranza per riconoscere e stigmatizzare assai nettamente le debolezze e gli errori all'interno dei ceti ricchi della popolazione urbana. Ciò gli ha consentito di superare il limitato universo rappresentativo delle cerchie cittadine dominanti. Che poi per questo cercasse in parte i suoi ideali nel passato, e che quindi pensasse in termini formalmente «reazionari», non ci può indurre a considerare lui, in quanto personalità storica, e le sue idee, nella loro efficacia concreta, come reazionari. Egli visse in un'epoca in cui la borghesia, che cercava senza scrupoli il guadagno e tendeva al capitalismo, era in continua ascesa e spinta in avanti; perciò un critico del tempo, che riconoscesse chiaramente i lati negativi di questa borghesia, ma non intendesse in alcun modo fare proprie le istanze radical-plebee, di fatto poteva cercare i suoi ideali solo nel «buon tempo antico». Nelle profezie o nelle attese circa il futuro, di cui si è trattato finora in questo capitolo, vi era sempre al centro la figura di un imperatore; lo si riteneva particolarmente atto a introdurre uno stato perfetto, o almeno largamente corrispondente all'ideale, sulla terra. Però già nel primo capitolo, dalla trattazione dedicata a Gerhoh di Reichersberg è emerso che, dopo l'incremento di potere e di influsso della chiesa provocato dalla lotta per le investiture, si davano i presupposti perché anche al papato, l'altro potere universale medievale che sussisteva accanto all'impero, venisse assegnato un ruolo analogo. A ciò va aggiunto che, dopo il durissimo scontro tra Federico II e il papa, per alcuni esponenti del partito ecclesiastico, che non approvavano affatto senza riserve le condizioni della chiesa e speravano in una riforma, in una
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chiesa futura migliore, l'idea di un imperatore della pace che avrebbe riformato la chiesa era poco sostenibile. D'altra parte anche l'idea originaria di Gioacchino, che due nuovi ordini avrebbero dato l'impronta al futuro status dell'umanità, era troppo nuova e poco compatibile con le rappresentazioni usuali della gerarchia dei poteri, cosicché in ultima analisi poteva avere un rilievo solo limitato; è infatti ovvio che, per configurare le condizioni di un tempo futuro migliore, di regola si praticasse anzitutto la via del minimo di resistenza, e di conseguenza ci si riferisse ai grandi «fattori di potere» già esistenti, nella cui forza fondamentalmente si credeva, per la realizzazione di una simile trasformazione. Di fronte dunque alla situazione del medioevo centrale, che nell'insieme era tale da non favorire la fiducia in sé e la consapevolezza della propria forza da parte delle masse popolari, il ruolo del fattore che instaura il nuovo ordine spettava senza dubbio ai due poteri universali già esistenti, cioè all'impero e al papato, che si tendeva a vedere come i principali fattori di cambiamento. A prescindere dai cenni ricorrenti in Gerhoh di Reichersberg di cui si è fatta menzione in precedenza, anche in Gioacchino da Fiore, che può passare senz'altro per esponente del partito ecclesiastico, vi sono prodromi della concezione secondo cui a un papa ideale spetterà un ruolo considerevole nella preparazione del terzo status 232 , per quanto in Gioacchino il fattore decisivo consista con ogni evidenza nei due futuri ordini. Tuttavia va rilevato che in questo contesto Gioacchino parla di un papa che «simplici honore contentus, gloria et horiore consueto carebit» 233 . Queste parole mostrano che l'idea di una nuova chiesa purificata, spirituale, comincia a profilare anche l'immagine di quel papa venturo. La prima testimonianza in cui la realizzazione di una riforma della chiesa viene presentata addirittura come opera esclusivamente di un grande papa ideale, è l'Opus tertium (1267) di Ruggero Bacone. Vi si afferma 234 che già da quarantanni corre una profezia, secondo cui apparirà un papa che purificherà lo ius canonicum, e la chiesa in generale, dalle dispute e dagli imbrogli dei giuristi, così che ovunque regnerà incontrastata la giustizia. Grazie alla bontà, veracità e giustizia di questo papa i greci si riuniranno alla chiesa romana, e allo stesso modo una gran parte dei tartari si convertirà alla fede cristiana, mentre i saraceni saranno annientati 235 . Soprattutto queste ultime attese mostrano chiaramente che qui vengono trasferiti a un grande papa venturo i successi finora attribuiti per lo più al grande imperatore degli ultimi tempi. Significativo in questo contesto è il fatto che anche Ruggero Bacone fosse un francescano e appartenesse dunque a quell'ordine nel
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quale erano radicate in modo particolarmente profondo speranze, più 0 meno giustificate, in una riforma radicale della chiesa236. La testimonianza immediatamente successiva dell'attesa di un grande papa ideale, destinato al pari dell'imperatore degli ultimi tempi a pacificare il mondo, è un componimento poetico la cui prima redazione risale a poco prima dell'elezione di papa Gregorio X 237. L'elezione di questo papa avvenne, dopo grandi difficoltà, e solo dopo una vacanza di tre anni, nel 127 1 238, circostanza che può aver contribuito a far riporre nel papa venturo speranze tanto più grandi. Così nel componimento poetico si trova l'affermazione che il papa prossimo sarà «più santo» del predecessore; egli sarà per i poveri come un padre o una madre, ma agli eretici incuterà terrore. Inoltre si profetizza che egli, al pari dell'imperatore degli ultimi tempi, riconquisterà Gerusalemme alla cristianità e pacificherà il mondo; e come, secondo 1 vaticini della Sibilla tiburtina, anche la terra, grazie alla pace instaurata dall'imperatore degli ultimi tempi, avrebbe portato frutti straordinari, così ora in vista del tempo felice sotto il papa atteso si annuncia: «Fructus terra dabit». Tuttavia in questa profezia ciò che è più significativo non sono questi sogni molto antichi di un'estensione del dominio cristiano e di una pace universale, ma quegli annunci che, peraltro in forma molto moderata e non pericolosa per la chiesa, lasciano intravvedere certi prodromi delle idee di riforma della chiesa. Così l'affermazione che quel papa sarà «conformis Christo» potrà essere giudicata come segno che qui l'ideale, profondamente radicato, di perfezione evangelica viene applicato anche alla figura del papa. A questo proposito peraltro non si può dimenticare che dietro simili espressioni in questo caso non c'è l'intenzione di attaccare la chiesa attuale, ma il desiderio di accrescere la sua autorità mediante un assenso alle idee di riforma dominanti. Inoltre in questo contesto è particolarmente interessante la predizione secondo cui il papa condurrà una vita simile a quella degli angeli (angelica vita). Questo è il primo indizio esplicito dell'attesa, molto diffusa nell'epoca successiva, di un «papa angelico» (di un papa ovvero pastor angelicus)2i9, la quale sembrò diventare realtà nel 1294 con papa Celestino V. Con ciò viene spontaneo chiedersi quali rappresentazioni si collegassero al concetto di «papa angelicus», o che cosa si intendesse con la «vita angelica» che il papa venturo era destinato a condurre. Secondo Baethgen qui ci si riferisce all'«antica idea dell'essenza angelica del sacerdozio» 24°. Questo antico motivo avrebbe ricevuto nuovo alimento «mediante l'accostamento analogico del vescovo di Roma con un
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231
angelo dell'Apocalisse», allusivamente espresso per la prima volta in Gioacchino da Fiore 241 . Perciò Baethgen ritiene che le «spinte ideali» per la formazione dell'idea di un papa angelico vanno ricercate direttamente in Gioacchino 242. Tuttavia questa interpretazione di Baethgen non è del tutto convincente. Anzi, tutto fa credere che alla base dell'idea di un papa angelico vi sia la nozione del carattere angelico non del sacerdozio, ma del monachesimo 243; a questo riguardo potrebbe aver influito anche la credenza che l'espressione più rigorosa del modo di vita monastico, l'eremitismo, vada equiparata in maniera specialissima alla vita angelorum. Così, per esempio, Gioacchino da Fiore dice che l'orcio heremitarum imiterà la vita angelorum 244; e il vero papa angelico, Celestino V, non fu in precedenza un monaco qualsiasi, ma un eremita 245 . Possiamo perciò concludere che alla nozione di un papa angelico soggiace l'idea che quel papa sperato è destinato a vivere senza possessi e semplicemente, come un monaco o come un eremita, e a far sì che i princìpi corrispondenti diventino realtà in tutta la chiesa. Perciò in ultima analisi l'ambito di provenienza dell'idea di un papa angelico va senz'altro ricercato in Gioacchino da Fiore, anzi, più ancora, nell'universo rappresentativo, influenzato dal gioachimismo, dei francescani, presso i quali sono ugualmente riconoscibili tendenze eremitiche ed è vivissima la convinzione che gli ideali francescani sono atti a purificare la chiesa intera da ogni corruzione. Se teniamo presente questo retroterra spirituale dell'attesa del papa angelico, un confronto con le speranze circa il futuro di Gerhoh di Reichersberg manifesta chiaramente la mutata situazione della chiesa alla fine del XIII secolo a paragone di quella del XII secolo. A Gerhoh interessa ancora, con tutto lo zelo riformatore, soprattutto la liberazione della chiesa dall'influsso e dalla protervia dei poteri temporali, come pure l'elevazione della chiesa sopra i sovrani secolari. Il papa da lui atteso viene di conseguenza contrassegnato dagli appellativi «magnus» e «super omnia regna exaltatus»246. Qui è palesemente in atto l'universo rappresentativo della lotta per le investiture. Viceversa nel XIII secolo il problema più impellente non è più la libertà e l'elevazione della chiesa, ma la purificazione interna della chiesa mondanizzata. Certo anche nel XIII secolo si ritiene senz'altro che il papa ideale atteso, in quanto, per così dire, supremo reggitore del mondo, porterà una pace universale; ma nel contempo egli viene caratterizzato con espressioni come «conformis Christo» e «angelice vite», attributi difficilmente compatibili con il ruolo di dominatore del mondo di questo papa futuro.
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IL R E G N O F U T U R O DELLA LIBERTÀ
Quale ulteriore testimonianza di questa trasformazione dell'immagine del futuro papa ideale sia consentito citare ancora le visioni di Roberto di Uzès, che, prete per lungo tempo, nel 1292, quattro anni prima della morte, entrò nell'ordine domenicano 247 . Roberto muove una critica ai fenomeni di decadenza della chiesa, e lo fa in una maniera inusuale per un domenicano; nel contempo in tale critica egli assicura con vigore, in un modo assai tipico per la maggior parte dei riformatori monastici di questo genere: «Non tamen amisit ecclesia clavium potestatem» 248. Il Liber visionum di Roberto, scritto negli anni Novanta del XIII secolo, contiene tra l'altro anche visioni che descrivono lo sviluppo futuro del papato. Così egli vede il papa, vestito poveramente alla maniera di un monaco francescano, che siede sul pavimento; accanto a lui c'è un letto corredato miseramente; interrogato, questo papa dichiara: «Humiliari nos oportet» 249 . La trasformazione dell'immagine del papa ideale, espressa in queste testimonianze, è un chiaro indizio della forza acquisita dalle correnti spiritualistiche contrarie al potere politico e alla ricchezza temporale della chiesa. A questo proposito peraltro non si può dimenticare che i movimenti popolari ereticali rappresentano sì il presupposto decisivo per questa trasformazione spirituale, ma non vanno considerati come i responsabili diretti dell'idea del papa angelicus. Quest'idea viceversa si radica nell'universo rappresentativo del monachesimo, e in special modo del francescanesimo, nel quale il desiderio di una riforma della chiesa era ugualmente molto vivo, ma in una forma disposta al compromesso, incline all'intesa con le istituzioni tradizionali. Solo così diventa comprensibile che il desiderio di una purificazione della chiesa abbia trovato la sua personificazione proprio nel papa, il rappresentante più evidente della chiesa feudalizzata. A ciò si deve anche che l'attesa del papa angelico abbia trovato una diffusione particolarmente ampia intorno al 1300 nel movimento francescano-spirituale, di cui si tratterà nel prossimo capitolo. Possiamo dunque concludere che l'attesa di un papa angelico in parte poteva incrementare l'autorità del papato come istituzione. Ciononostante sia queste attese sia le speranze (o i timori), che di primo acchito paiono così antitetiche, di un imperatore finale riformatore o di un nuovo Federico, sono una conseguenza del movimento, continuamente montante e in ultima analisi veicolato dalle masse popolari, contro l'ordine ecclesiastico esistente, come pure del desiderio generale di un tempo migliore, perfetto, in cui ogni affanno abbia fine. Peraltro la maggior parte delle testimonianze di cui si è discusso in questa sede, relativamente alle attese di un imperatore degli ultimi tempi o
IMPERATORE
DELLA
PACE
E PAPA
ANGELICO
233
di un papa angelico, non esprimono direttamente o allo stato puro i desideri e le istanze delle masse popolari; molte volte infatti entrano in gioco interessi dinastici o rappresentazioni ideali sviluppate in ambito monastico. Ma siccome queste produzioni profetiche sono destinate nel loro insieme a incidere sull'opinione pubblica, esse nel contempo costituiscono una testimonianza preziosa di correnti e di umori profondamente radicati. È perciò molto significativo che nel XIII secolo non basti più suscitare semplicemente delle speranze in uno stato di pace felice sotto un imperatore venturo; piuttosto, per instaurare un'era futura ideale ora è pressoché indispensabile una profonda riforma della chiesa; nel XIV secolo comincia addirittura a cristallizzarsi — come dimostra il racconto di Giovanni di Winterthur —, in maniera sempre più netta e consapevole, l'esigenza di un radicale sovvertimento di tutto l'ordine sociale, non più solo delle condizioni ecclesiastiche.
Cfr. i riferimenti in A . HÜBSCHER, Die große Weissagung, 1952, 97 s. È degno di nota che già in una profezia nata tra i crociati intorno al 1220 Federico II («un rois de Calabre») viene celebrato come l'imperatore degli ultimi tempi che sottomette il mondo, distrugge l'«impero di Maometto», si spinge fino all'India e infine entra a Gerusalemme. Questa profezia è stampata in R . RÖHRICHT, Quinti belli sacri scriptores minores, Genève 1879, 205 ss.; cfr. in proposito F. ZARNCKE, Der Priester Johannes, Teil 2 (Abhandlungen der philol.-hist. Classe der Kgl. Sächsischen Gesellschaft der Wissensch. VIII), Leipzig 1883, 8 ss. 5 Per la prima volta nello scritto di Gregorio IX del 20 aprile 1239 (MG Ep. saec. XIII, tom. I, nr. 750, p. 653); cfr. F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 34; cfr. anche pp. 121, 124, 144, 145. 4 Cfr. supra, 153. 5 HUILLARD-BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici II, V/L, 378; cfr. in proposito E. KANTOROWICZ, Kaiser Friedrich der Zweite, 1931, 467; K. BURDACH, Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, Berlin 1913-28, 398. Sugli scritti precedenti il 1239, che esaltano in modo più o meno adulatorio Federico II come sovrano universale o portatore dell'età dell'oro, non è il caso di addentrarsi in questa sede; cfr., per esempio, E. KANTOROWICZ, Kaiser Friedrich..., cit., 476, e il volume supplementare p. 207; V . CIAN, Oltre l'enigma dantesco del Veltro, 1945, 19 s., il quale, per esempio, fa riferimento a Orfino di Lodi, che a proposito di Federico II dice: «Cuius ad imperium redit etas aurea mundo». Simili inni di lode non dicono troppo, perché da sempre gli imperatori sono stati lodati in maniera simile, per esempio anche Enrico III (cfr. P.E. SCHRAMM, Kaiser, Rom und Renovatio, Darmstadt 19572, 236, n. 5). Idee simili si trovano anche in uno scritto di Nicola di Bari, il quale inoltre dichiara che a Federico II e ai suoi eredi l'impero non sarà sottratto sino alla fine del mondo; cfr. R . M . KLOOS, Nikolaus von Bari, eine neue Quelle zur Entwicklung der Kaiseridee unter Friedrich II, DA, 11 (1954/55), 169 ss., cfr. 187 s. 6 F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 58 (HUILLARD-BREHOLLES, Historia..., cit., V, 1, 312). 7 F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 197 (E. WINKELMANN, Acta Imperii II, n. 46); cfr. G . SCHULTHEIS, Die deutsche Volkssage vom Fortleben und der Wiederkehr Friedrichs II., 1911, 18; K. BURDACH, Rienzo..., cit., 390 ss. 1
2
8
SALIMBENE, MG SS XXXII, 2 3 6 , 552.
234
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
9 Cfr. supra p. 147. Tuttavia un documento emanato nel 1232 per il vescovato di Würzburg mostra che anche tra i domenicani e il clero sorgevano tensioni (Monumenta Boica, voi. 37, 1864, 251). 10 Si tratta degli scritti De correctione Ecclesiae epistola e De Innocentio IV Anticbristo libellus, editi da E. Winkelmann, Berlin 1865. Che entrambi questi scritti provengano dallo stesso autore è pressoché sicuro; cfr. F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 262. Cfr. inoltre F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 96 s., 207; A . HAUCK, Kirchengeschichte..., cit., I V , 856. 11 Cfr. H . GRUNDMANN, Studien..., cit., 174 [tr. it. cit., 199]. 12 Fratris ArnoldiDe correctione..., cit., 10: «Tamquam sexta die seculi occidente et etate septima iustitie et quietis coruscante». 13 Ivi, 10: «Ecclesiam suam decrevisset [Dominus] renovare et ad statum primum reducere». 14 Ivi, 16, cfr. 13. 15 Ivi, 12 s.; cfr. 18: «Predicatorum ordo apostolicam doctrinam sequens». 16 Ivi, 16; cfr. 13 in cui a proposito dei «principes ecclesie« si dice «quod non digne regunt oves domini; quibus abiectis atque damnatis salvabitur populus bonis pastoribus traditus». 17 Ivi, 18: «Unde karissimi vestram in domino obsecro karitatem ut omnem timorem abicientes restauracioni studeamus». Significativo in questo contesto è l'uso della prima persona plurale, che include insieme l'imperatore e Arnoldo. Cfr. anche ivi, 11 in cui Federico II viene designato come «principalis defensor ecclesie», cui Arnoldo si rivolge direttamente. 18 Ivi, 10: «[...] principem tanto aptum negocio [...]». 19 Ivi, 12. 20 Ivi, 22. 21 Ivi, 12. 22 Ivi, 14. 23 Ivi, 16. 24 Ivi, 15. 25 Ivi, 9. 26 Ivi, 11. 27 Ivi, 11. 28 MG SS XVI, 371. Questa setta fu messa in relazione con il predicatore Arnoldo da D . V Ö L T E R , Die Sekte von Schwäbisch-Hall und der Ursprung der deutschen Kaisersage, Z F K G , 4 (1881), 360 ss.; G . B O S S E R T , «Württembergische Vierteljahrshefte f. Landesgeschichte», 5 (1882), 290; H. HAUPT, Beiträge..., cit., 423; A. DEMPF, Sacrum Imperium, cit., 330; di recente ancora da M.W. BLOOMFIELD - M.E. REEVES, The Penetration..., cit., 791. Ma già F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 207 si espresse con scetticismo nei confronti di questa opinione; e poi soprattutto A. HAUCK, Kircbengeschichte..., cit., IV, 856; F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 262; K . WELLER, Württembergische Kirchengeschichte, I, Stuttgart 1936, 356. È difficile dire in quale gruppo ereticale maggiore vadano inquadrati gli eretici di Halle. K. WELLER, Württembergische..., cit., 356; G . SCHULTHEIS, Die deutsche Volkssage..., cit., 19s.; P. H O S P , Ketzertum und deutsche Kaisersage beim Minoriten Johann von Winterthur, «Franziskanische Studien», 3 (1916), 162 li ritengono valdesi. 29 A . HAUCK, Kirchengeschichte..., cit., I V , 8 5 7 , e F . GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 2 6 3 riconducono anche l'appello in favore dell'imperatore (in E. WINKELMANN, Acta Imperii II, n. 48, 52 s.) alla setta «valdese» di Halle. In realtà questo appello molto bellicoso non presenta tratti valdesi pronunciati; perciò a me non sembrano chiariti né l'attribuzione di questo appello né l'inquadramento della setta di Halle. 30 Ciò depone soprattutto contro rapporti diretti della setta con il domenicano Arnoldo. 31 MATTHAEUS PARISIENSIS, Chronica Maiora, M G S S XXVIII, 319. Del resto Federico II viene designato come «immutator seculi» già nel 1245 in uno scritto controversistico del cardinale Raniero di Viterbo; cfr. F. GRAEFE, Die Publizistik..., cit., 129. 32
SALIMBENE, M G
SS X X X I I ,
174.
Ivi, 347, cfr. 446. 34 Cfr. R. DAVIDSOHN, Forschungen zur Geschichte von Florenz, parte II, Berlin 1890, 101 s.; cfr. anche G. SHULTHEIS, Die deutsche Volkssage..., cit., 23. 35 MG Deutsche Chroniken, II, 259, cfr. anche 285. 33
IMPERATORE DELLA PACE E PAPA ANGELICO
235
La citata testimonianza della Cronaca universale sassone depone in questo senso. Cfr. K . HAMPE, Eine frühe Verknüpfung der Weissagung vom Endkaiser mit Friedrich II. und Konrad IV., Heidelberg 1917, 18. 58 Cfr. le corrispondenti attese della Sibilla tiburtina dell'XI secolo in E . S A C K U R , Sibyllinische..., cit., 185: «In illis ergo diebus erunt divitiae multe et terra abundanter dabit fructum». 39 K . HAMPE, Eine frühe..., cit., 1 1 , 1 4 , cfr. 1 9 . 40 Su Pietro di Prece cfr. K. HAMPE, Geschichte Konradins von Hohenstaufen, mit einem Anhang von H. Kämpf, Leipzig 19423, 68, 410. 41 Cfr. la riproduzione della lettera in R . M . K L O O S , Ein Brief des Petrus de Prece zum Tode Friedrichs II., DA, 13 (1957), 169 s.; sul concetto di «Leo orientalis» cfr. ivi, 155 s. 42 Cfr. supra, 156 s. 36 37
43
SALIMBENE, M G
SS X X X I I ,
456.
O. H O L D E R - E G G E R , Italienische..., I, cit., 168. 45 Perciò in riferimento alla descrizione della morte di Federico II (l'aquila) si parla dell'«aquila altera» che gli succede (ivi, 168). La concezione secondo cui la Sibilla eritrea, nella sua forma più antica e più lunga, presenta la teoria della sopravvivenza della dinastia imperiale, non l'idea di «una misteriosa sopravvivenza della persona individuale», è stata argomentata soprattutto da E . KANTOROWICZ, ZU den Rechtsgrundlagen der Kaisersage, D A , 1 3 44
(1957),
1 3 3 s.
46
O.
47
SALIMBENE,
Italienische..., II, cit., 333 s. MG S S XXXII, 174, 243, 347, 357; Cfr. E. KANTOROWICZ, ZU den Rechtsgrundlagen..., cit., 127 s., 149 s. Ritengo tuttavia errata l'affermazione di Kantorowicz: «Così la leggenda imperiale in definitiva risale all'incomprensione degli argomenti razionali, giuridici, per una continuità della dinastia» (ivi, 150). La comparsa della convinzione secondo cui Federico era ancora in vita non aveva certo bisogno di una diversa interpretazione di quella teoria relativa alla sopravvivenza della dinastia. Si è già mostrato che, indipendentemente da questa teoria, subito sorsero dubbi sulla morte dell'imperatore; questi dubbi poi si dovevano semplicemente collegare con l'antico motivo del ritorno di un sovrano «rapito» (in proposito si ritornerà più avanti). 48 O. H O L D E R - E G G E R , Italienische..., III, cit., 1 7 3 , 1 8 2 . In proposito cfr. supra, 1 5 3 s. 49 Alla terza crociata, oltre all'imperatore Federico I, partecipò anche il figlio Federico, duca di Svevia, il quale dopo la morte dell'imperatore, nel 1190, prese la guida di essa, ma l'anno successivo morì anch'egli. Cfr. TOMMASINO DI ZIRKLARIA, Der Wälsche Gast, hg. v. H. Rückert, 1852, 320 s.: «Gotes ervollungen lit / an drin namen zaller zit [...] Sit an der zal niht gebrist / und sit du der dritte bist / so han ich wol geding ze got / daz du volvüerest sin gebot» (Era nei voleri di Dio / che tutto avvenisse in tre nomi [...] Se il numero non erra / e se tu sei il terzo / ritengo che Dio abbia disposto / che tuo sia il regno più felice). Peraltro non v'è alcun indizio che a queste considerazioni di Tommasino soggiacciano già profezie universalmente diffuse circa un terzo Federico, come ipotizza F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 76 s., il quale di conseguenza vede in questi versi «una pietra miliare per la storia dello sviluppo» della leggenda imperiale. Io giudicherei questa testimonianza solo come dimostrazione di quanto facilmente particolari attese potessero ricollegarsi allora con il terzo titolare di un nome. 50 Cfr. CESARIO DI HEISTERBACH, Vita, passio et miracula b. Engelberti Coloniensis archiepiscopi, in Die Wundergeschichten des Caesarius von Heisterbach, ed. A. Hilka, III, 1937, 251; qui Cesario fa riferimento al fatto che Federico significa «pacis dives». 51 Cfr. SALIMBENE, MG SS XXXII, 173; Monumenta Erphesfurtensia, ed. O. Holder-Egger, 1899, 667. Secondo Saba Malaspina (MURATORI, SS rer. Ital. Vili, 804) e secondo il Supplementum a Nicola di Jamsilla, che probabilmente risale allo stesso Saba Malaspina (ivi, 589 s.), il falso Federico aveva la sua dimora sull'Etna; cfr. K . HAMPE, Urban V. und Manfred (Heidelberger Abhandlungen, 11), 1905, 9 s. 52 Sigeberti Cont., MG SS VI, 451. È significativa anche la comparsa di falsi Manfredi nel regno di Sicilia conquistato dagli Angiò; cfr. SALIMBENE, MG SS XXXII, 174, 472. 53 TOMMASO DI ECCLESTON, Liber de adventu Minorum in Angliam, MG SS X V I I I , 568. Cfr. F . KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 85; I D . , Vom Werdegang der abendländischen Kaisermystik, Leipzig-Berlin 1924, 138 s. HOLDER-EGGER,
236
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
54 Cfr. l'articolo su Jans Enikel di B. SCHMEIDLER, in Verfasserlexikon, hg. v. W. Stammler, II, 1936, 576. 5 5 M G Deutsche Chroniken, I I I , 5 7 4 . Cfr. in proposito G . V O I G T , Die deutsche Kaisersage, H Z , 2 6 ( 1 8 7 1 ) , 1 4 1 S.; G . ScHLUTHEis, Die deutsche Volkssage..., cit., 2 4 s. 56 II motivo del ritorno di un sovrano morto da molto tempo affiora già nello PseudoMetodio; cfr. E. SACKUR, Sibyllinische..., cit., 40, 89. Cfr. anche J. GRIMM, Deutsche Mythologie, II, Berlin 1876 4 , 794 ss. sugli eroi rapiti sui monti. In ambito bizantino l'idea di un imperatore finale che sarebbe ritornato dopo lungo tempo è chiaramente molto diffusa; essa appare con particolare rilievo negli oracoli imperiali attribuiti all'imperatore Leone; cfr. W. BousSET, Beiträge zur Geschichte der Eschatologie, ZfKG, 20 (1900), 282 ss.; C. MANGO, The Legend of Leo the Wise (Zbornik radova. Srpska Akademija Nauka, 65), Beograd I960, 60 s. Su analoghe attese di un ritorno in ambito orientale-asiatico cfr. J. GOLDZIHER, Vorlesungen über den Islam, Heidelberg 19252, 217 ss.; F . KAMPERS, Vom Werdegang..., cit., 132 s. 57 Le prime testimonianze sicure dell'attesa di un ritorno di re Artù risalgono in verità solo alla prima metà del X I I secolo; cfr. E . K . CHAMBERS, Arthur of Britain, London 1 9 2 7 , 1 6 ss.; cfr. gli estratti delle fonti ivi, 2 4 9 s.; W . F . SCHIRMER, Die frühen Darstellungen des Arthurstoffes, Köln 1958, 34, 39 s. 58 Cfr. CESARIO DI HEISTERBACH, Dialogus Miraculorum, ed. Strange, I I , 324 s.; GERVASIO DI TILBURY, Otia imperialia, in Leibniz, SS rer. Brunsvicesium I, 1707, 921. 59 Ciò è stato sottolineato soprattutto da F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 87. In queste circostanze la permanenza sull'Etna del falso Federico sopra ricordato non ha significato secondario, e deve anzi essere giudicata come una testimonianza di questa forma primitiva della «leggenda dell'imperatore» già nel 1261. 60 Da D. VÖLTER, Die Sekte..., cit., 391; cfr. anche BOSSERT, art. cit., 291: «La leggenda dell'imperatore è nata da cuori con profondi sentimenti tedeschi, pii e fedeli all'imperatore...». Similmente G. SCHULTHEIS, Die deutsche Volkssage..., cit., 22 ss.; P. H O S P , Ketzertum..., cit., 162. Viceversa hanno cercato in Italia le radici della leggenda dell'imperatore F . KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 87; G. V O I G T , Die deutsche Kaisersage, cit., 136; K . HAMPE, Eine frühe Verknüpfung..., cit., 8 s. Una posizione intermedia viene assunta da H . BROSCH, Die Friedrichsage der Italiener, HZ, 35 (1876), 26. 61 Questa concezione fu sostenuta, per esempio, da G . V O I G T , Die deutsche Kaisersage, cit., 163. 62 D. VÖLTER, Die Sekte..., cit., 388. 65 Ivi, 389. 64 Cfr. K. HAMPE, Beiträge zur Geschichte der letzten Staufer, Leipzig 1910, 39; O. D O B E NECKER, Ein Kaisertraum des Hauses Wettin, in Festschrift A. Tille zum 60 Geburtstag, Weimar 1930, 17, 26. 65 K . HAMPE, Geschichte Konradins..., cit., 347. 66 O. DOBENECKER, Ein Kaisertraum..., cit., 20; H. GRAUERT, Zur deutschen Kaisersage, HJb, 13 (1892), 121. 67 Nei documenti del 1269-70 Federico di Wettin già si designa come «Fredericus tertius Dei gratia Jerusalem et Sicilie rex»; cfr. O. DOBENECKER, Regesta diplomatica nec non epistolario Historiae Thuringiae, IV, Jena 1939, n. 383, 395, 464. 68 Cfr. A. BUSSON, Friedrich der Freidige als Prätendent der sizilischen Krone und fohann von Procida, in Historische Aufsätze dem Andenken an G. Waitz gewidmet, Hannover 1886, 330. 69 Cfr. O . DOBENECKER, Ein Kaisertraum..., cit., 2 4 ; K . HAMPE, Beiträge..., cit., 4 7 ss. Cfr. anche A. DE STEFANO, Federico III d'Aragona, Re di Sicilia, Palermo 1 9 3 7 , 3 5 s. 70 Monumenta Erphesfurtensia, cit., 679. Cfr. in proposito O . DOBENECKER, Ein Kaisertraum..., cit., 20, il quale è sicuramente nel giusto quando respinge soprattutto la concezione, che risale a A. BUSSON, Friedrich..., cit., 334 s., secondo cui questa profezia sarebbe sorta solo nel 1271. Il contenuto di questa profezia si adatta molto bene alle attese espresse neNAdhortatio del 1269 di Pietro di Prece, ed è molto verosimile che Pietro di Prece, riferendosi a vaticinia che circolavano, avesse presente la profezia tramandata nella Cronaca di Erfurt. Soprattutto ciò che si dice alla fine di questo vaticinio, cioè che i tedeschi e gli spagnoli fanno causa comune, ha indotto Busson a datarlo nel 1271; ma ciò era del tutto evidente anche
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nel 1269. R. K E S T E N B E R G - G L A D S T E I N , A Joachimite Propbecy conceming Bobemia, «The Slavonic and East European Review», 34 (1955), 43 si attiene ancora alla datazione del 1271. 71 Col nome di questo cardinale circola anche un'altra profezia, di cui si parlerà in seguito, del 1256; essa ha un accento antisvevo; cfr. in proposito H. G R A U E R T , Meister Jobann von Toledo, München 1901, 111 ss., 144 s. L'ipotesi di Grauert (ivi, 155), condivisa anche da Kestenberg-Gladstein (A Joachimite..., cit., 43), cioè che il cardinale sia davvero il mandante della profezia riportata dalla Cronaca di Erfurt, a me sembra inverosimile. È molto più probabile che la cerchia di Pietro di Prece e di Enrico di Isernia abbia redatto questa profezia in Italia, e poi l'abbia portata con sé in Germania. 72 Si ricordi che una figlia di Federico II, Margherita, era la madre di Federico il Temerario. 73 Cfr. K . H A M P E , Beiträge..., cit., 103, n. 5. 74 Ivi, 121 s., n. 11. Per la datazione cfr. O. D O B E N E C K E R , Ein Kaisertraum..., cit., 31, n. 1. 75 K . H A M P E , Beiträge..., cit., 109 s., n. 10. 76 Mi sembra sbagliata l'ipotesi di F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 9 7 , secondo cui l'applicazione delle profezie a Federico il Temerario sarebbe stata provocata «da un movimento ereticale in territorio turingio». 77 Su questa profezia si ritornerà più diffusamente in seguito. Cfr. dapprima R . KESTENBERGG L A D S T E I N , A Joachimite..., cit., 5 5 . 78 Similmente K . H A M P E , Beiträge..., cit., 39. 79 Cfr. supra, 193. 80 Cfr. O. D O B E N E C K E R , Ein Kaisertraum..., cit., 20. 81 H. G R A U E R T , Zur deutschen Kaisersage, cit., 113 ritiene possibile una origine anteriore del nocciolo di questa profezia, e invero a favore del figlio di Federico II, Federico di Antiochia, morto nel 1258. Non vi sono tuttavia indizi sicuri a favore di questa ipotesi. 82 Monumenta Erphesfurtensia, ed. O. Holder-Egger, 335 s.; cfr. O. D O B E N E C K E R , Ein Kaisertraum..., cit., 36; H. G R A U E R T , Zur deutschen Kaisersage, cit., 131. 83 Die Königsaaler Geschichtsquellen, ed. J. Loserth (Fontes rer. Austriac. SS VIII), 424. 84 Cfr. H . GRAUERT, Zur deutschen Kaisersage, cit., 1 2 6 ss. Questa opinione è ripresa da F . KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 9 8 ; R . KESTENBERG-GLADSTEIN, A Joachimite..., cit., 4 4 . 85 Così Tommaso di Ebendorf riferisce questa profezia a Federico III (1440-93): cfr. TOM MASO DI E B E N D O R F , Chronica regum Romanorum, ed. A.F. Pribram, MIOG, III vol. suppl., 1890-94, 143 (anche in F. L A U C H E R T , Materialien zur Geschichte der Kaiserprophetie im Mittelalter, HJb, 19 [1898], 850 s.). Una versione più breve, secondo due manoscritti di Monaco, si trova in F. V O N B E Z O L D , Zur deutschen Kaisersage ( S B der philos.-philol. und hist. Classe der Akad. der Wiss. zu München), 1884, 606; in questa versione viene indicato il 1301 come data di origine. 86 Ciò non è possibile soprattutto perché all'inizio si parla di una vittoria dell'aquila (con la quale si intende sempre il partito imperiale) sul leone, come pure che il «pullus aquile» nidifica «in domo leonis». Ciò non si può riferire, come ritiene Grauert (Zur deutschen Kaisersage, cit., 127), alle lotte tra i successori di Federico II e Carlo d'Angiò; infatti in queste lotte trionfò non, come afferma la profezia, il partito imperiale, ma Carlo d'Angiò (= il leone). 87 Allora l'«aquila» sarebbe Rodolfo d'Asburgo, il «leo» Ottocaro di Boemia; il «pullus aquile» che nidifica nella casa del leone sarebbe Alberto I d'Asburgo, il quale ottenne insieme ai suoi fratelli l'Austria. Il re menzionato nella versione presente in Tommaso di Ebendorf, e al quale vengono rifiutati gli onori regali, sarebbe allora presumibilmente Enrico di Carinzia, il quale era stato eletto re di Boemia, ma senza successo; il «leopardus», che opprime i magnati boemi, potrebbe essere allora Giovanni di Lussemburgo. 88 Cfr. F . H . V O N DEN H A G E N , Minnesinger, III, 1 9 3 8 , 4 6 8 . Cfr. in proposito F . V O G T , Über Sibyllen Weissagung, in Beiträge zur Geschichte der deutschen Sprache und Literatur, ed. Paul-Braune, IV, 1877, 68, cfr. 63 s. 89 F . V O N B E Z O L D , Zur deutschen Kaisersage, cit., 6 0 6 ; similmente la versione in T O M M A SO DI E B E N D O R F , Chronica regum Romanorum, cit., 143: «Tempore illius summus capietur pontifex et clerus dilapidabitur». 90 Chronik des edlen En Ramon Muntaner, ed. K. Lanz, Stuttgart 1 8 4 4 , 3 3 1 ; cfr. K.L. H I T Z FELD, Studien zu den religiösen und politischen Anschauungen Friedrichs III. von Sizilien, Berlin 1 9 3 0 , 8 ; A. DE S T E F A N O , Federico III, cit., 9 2 .
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTA
Cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, IV, cit., 12 s. Su questo argomento ci si diffonderà nel capitolo VI. 93 Cfr., per esempio, le affermazioni di Pietro Tort nel Liber sententiarum inquisitionis Tholosanae (dal 1307 al 1323), in PH. VAN LIMBORCH, Historia Inquisitionis, Amsterdam 1692, 330. 94 Questa è una comprova ulteriore dell'opinione espressa sopra (p. 200), secondo cui le attese di un terzo Federico — in antitesi alle speranze nel ritorno di Federico II, speranze sempre legate a una tendenza ghibellina — erano possibili sia in campo gioachimitico-guelfo sia in campo ghibellino; pertanto è senz'altro pensabile una ripresa da parte di circoli ghibellini di rappresentazioni sorte originariamente in ambito guelfo. 95 ALEXANDER VON R O E S , Schriften..., cit., 136. 96 MG SS XXIV, 241. Questo passo fu ripreso intorno al 1315 dal primo continuatore bavarese della Cronaca universale sassone (MG Deutsche Chroniken, II, 325), e allo stesso modo da Giovanni di Winterthur, Chronik, ed. F. Baethgen, Berlin 1955 (MG SS rer. Germ., Nova Ser. III), 12. 97 Cfr. O. REDLICH, Rudolf von Habsburg, Innsbruck 1903, 533 ss. Ancora utile è la ricerca di V. M E Y E R , Tile Kolup, Wetzlar 1868. Cfr. a proposito di Tile Kolup anche le osservazioni di SALIMBENE, M G S S XXXII, 537. 98 Annales Colmarienses maiores, MG SS XVII, 211; cfr. O. REDLICH, Rudolf von Habsburg, cit., 532. 99 MG SS XVII, 221 s. 100 Annales Blandinienses, MG SS V, 33. Cfr. O. REDLICH, Rudolf von Habsburg, cit., 538. 101 DETMAR, Chroniken der deutschen Städte, XIX, Leipzig 1884, 367 (nel 1287). 102 Si confrontino in tale contesto anche le considerazioni di O. REDLICH, Rudolf von Habsburg, cit., 526 ss. sulla generale insoddisfazione che all'epoca suscitò nelle città l'esazione di tasse da parte di Rodolfo. 103 Cfr. ad esempio DETMAR, Chroniken..., cit., 367 sul falso Federico di Lubecca. Cfr. anche O. REDLICH, Rudolf von Habsburg, cit., 538. 104 MG SS V, 33. 105 Cfr. l'articolo di A. KRÜGER, nel Verfasserlexikon, V, hg. v. K. Langosch, 1955, 837. 1 0 6 M G Deutsche Chroniken, V , 1, 1 8 9 0 , 427; cfr. G . SCHULTHEIS, Die deutsche Volkssage..., cit., 43 ss. 107 A mio avviso, per spiegare la leggenda tedesca dell'imperatore, non è indispensabile presupporre una conoscenza diretta in Germania, attraverso «menestrelli itineranti o cavalieri tedeschi» (come ipotizza F. KAMPERS, Vom Werdegang..., cit., 140), della leggenda siciliana dell'Etna relativa a Federico II. Anche se esistono molti motivi per ritenere che i dubbi sulla morte di Federico siano sorti per la prima volta in Italia, e quindi di lì i primi stimoli siano rimbalzati anche in Germania, tuttavia l'ulteriore elaborazione come leggenda di Federico dovrebbe essere spiegabile senz'altro a partire da ambienti tedeschi. 108 Pubblicato in V . MEYER, Tile Kolup, cit., 6 1 ; per la datazione cfr. F . V O G T , Über Sibyllen..., cit., 76 s. 109 Nel canto dei maestri cantori risulta nuovo, rispetto all'attesa di Federico, il motivo dell'albero secco al quale l'imperatore appende il suo scudo, e che subito comincia a rinverdire. A quanto ne so, questo motivo affiora nelle attese occidentali dell'imperatore degli ultimi tempi per la prima volta intorno al 1300, nel poema Gottes Zukunft («Futuro di Dio») di Enrico di Neustadt (cfr. HEINRICH VON NEUSTADT, Apollonius von Tyrland, Gottes Zukunft und Visio Philiberti, hg. v. S. Singer, Berlin 1906, vv. 412, 541 ss.). In forma poco sviluppata questo motivo è già annunciato in Engelberto di Admont, nel trattato, scritto al tempo di Enrico VII, De ortu et fine Romani Impertí (pubblicato in GOLDAST M . DI HAIMINSFELD, Politica Imperialia, Frankfurt 1614, 773); cfr. anche l'articolo Dürrer Baum di W.E. Peuckert nello Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens, II, col. 507. Su questo motivo, che deriva da un ambiente orientale, cfr. anche F. KAMPERS, Vom Werdegang..., cit., I l 6 s . che cita come testimonianza più antica la profezia dei crociati già menzionata sopra (cfr. nota 2 di questo capitolo). Ma ciò non calza, perché in questa profezia ( R . RÖHRICHT, Quinti Belli..., cit., 213) si dice: «Adonques recroisteront li arbre et porteront fruit a mout grant piente et sara la terre ampais et a amour» (allora gli alberi ricresceranno, e porteranno frutti in quantità, e la terra sarà in pace 91 92
IMPERATORE DELLA PACE E PAPA ANGELICO
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e in amore). Qui non si parla dello scudo appeso all'albero, e si dice solo che dopo la liberazione del santo sepolcro gli alberi (non «l'albero») cresceranno di nuovo, e porteranno molti frutti. Qui dunque si tratta in definitiva solo dell'antico motivo, che affiora già nella Sibilla tiburtina, secondo cui sotto l'imperatore degli ultimi tempi si avrà una grande prosperità. 110 Cfr. la Cronaca di Giovanni di Winterthur, ed. F. Baethgen, 280. Che proprio i cronisti francescani tramandino di frequente profezie del genere non è affatto casuale, ma è dovuto al carattere della storiografia francescana, che coerentemente con l'attività generale di questo ordine mostra un molto più stretto «contatto con gli strati più ampi del popolo»; cfr. F. BAETHGEN, Franziskanische Studien, HZ 131, p. 430, 434 s. 111 È significativo che per lo stesso anno di Giovanni di Winterthur (per il 1348) anche Michele di Leone, di Würzburg, tramandi una profezia in cui certo non si parla dell'imperatore Federico che ritorna, ma viene tuttavia annunciata anche una crescita dell'impero romano; anche qui viene predetto: «Papa dissipabitur cum cardinalibus suis». Cfr. J.F. BÖHMER, Fontes rerum Germanicarum, I, Stuttgart 1843, 474. 112 Nella tradizione orientale originaria l'appendere lo scudo all'albero secco è simbolo del conseguimento della sovranità universale; così racconta Giovanni di Hildesheim nella sua Historia trium regum (1370 circa); cfr. E. KÖPKE, Johannes von Hildesheim (XXI Jahresbericht über die Ritterakademie Brandenburg), 1877-78, 31. A questo atto si allude nel canto dei maestri cantori e nel Gottes Zukunft di Enrico di Neustadt. D'altra parte però questa azione presso l'albero secco si collegava anche con l'antico motivo del deporre le insegne imperiali, cioè con la rinuncia alla sovranità da parte dell'imperatore immediatamente prima della venuta dell'Anticristo. È questo il caso nella versione di Giovanni di Winterthur e in quella di Engelberto di Admont. Cfr. anche A. HÜBSCHER, Die große Weissagung, cit., 137; A. BASSERMANN, Veltro. Groß-Chan und Kaisersage, «Neue Heidelberger Jahrbücher», 11 (1901), 41 s. 1,3 Cfr. K. BURDACH, Der Dichter des Ackermann aus Böhmen und seine Zeit (Vom Mittelalter zur Reformation
III, 2), Berlin 1926-32, 167; F.W.N. HUGENHOLTZ, Opstand...,
cit., 124
il quale giustamente fa riferimento al contenuto rivoluzionario di questo proverbio. 114 Un'eccezione del genere è, per esempio, lo scritto, di poco posteriore al 1500, del cosiddetto Rivoluzionario dell'Alto Reno, nel quale l'attesa di Federico si trova collegata con visioni del tutto radicali; cfr. G. FRANZ, Der deutsche Bauernkrieg, Darmstadt 1956 4 , 68. 115
tum...,
Cfr. G. SCHULTHEIB, Die deutschen
Volkssage...,
cit., 19 s., 62, 100; P. HOSP,
Ketzer-
cit., 162. P. HOSP, Ketzertum..., cit., 166 ss. Rimane peraltro incomprensibile perché proprio l'attesa secondo cui Federico costringerà al matrimonio le «sorores in saeculo degentes» (così Giovanni di Winterthur, 280), potendosi intendere di fatto con tale espressione le beghine, debba testimoniare che questa profezia fosse diffusa tra le beghine del Libero spirito. Infatti non è per nulla intenzione di Hosp attribuire a queste donne il desiderio impellente di contrarre matrimonio. 117 MG SS XVII, 125. 118 Cfr. la calzante affermazione di F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 100: «Il desiderio di riforma solidificò quella timida voce [che Federico vivesse ancora] in una fede incrollabile anzitutto di una cerchia popolare più ristretta». 119 Pubblicato in O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 382 ss., che presenta un testo migliore di H. GRAUERT, Meister Johann von Toledo, cit., 319 ss. Cfr. anche F. KAMPERS, Die deutsche Kaiseridee..., cit., 8 9 s . Notevoli sono anche le osservazioni di O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 104, dove, contrariamente alla sua opinione precedente, egli ammette che i versi 45-54 erano contenuti nel poema fin dall'inizio. 120 Cfr. H. GRAUERT, Meister Johann von Toledo, cit., 144, 147 s. L'attribuzione al cardinale Giovanni mi sembra dubbia soprattutto perché il nome di Giovanni di Toledo — secondo un astronomo ebreo del XII secolo — ha un ruolo nella letteratura profetica già prima della comparsa del cardinale; cfr. F. BAER, Eine jüdische Messiasprophetie auf das Jahr 1186 und der 3. Kreuzzug, «Monatsschrift f. Gesch. u. Wissensch, des Judentums», 70 (1926), 119; cfr. anche la cronaca di Riccardo di S. Germano, morto nel 1243 (MG SS XIX, 361); in proposito cfr. H. GRAUERT, Meister Johann von Toledo, cit., 166. 121 Siccome questa datazione è chiaramente esatta, l'ipotesi di V. CIAN, Oltre l'enigma..., cit., 15, secondo cui questa profezia doveva servire agli interessi di Carlo d'Angiò, risulta im116
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IL R E G N O
FUTURO
DELLA
LIBERTÀ
possibile, perché la sua candidatura al trono di Sicilia si determinò solo nel 1262-63; cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, cit., III, 504, 506. Viceversa sembra che un'altra profezia in versi («Versus de cometa apparente tempore domini regis Manfredi«), che pure pronostica l'avvento di un novus rex e uno stato di pace, sia stata redatta nell'interesse di Carlo d'Angiò contro Manfredi; cfr. C. BRÜCKNER, Die Auffassung des Staufers Manfred und seiner Gegner im Lichte der augustinischen und eschatologiscben Geschichtsanschauung bei den Zeitgenossen (Diss.), Greifswald 1914, 38. Probabilmente questa profezia si riallaccia alle comete del 1264, cui fa riferimento anche la profezia comunicata negli Annales Piacentini Gibellini (MG SS XVIII, 514); cfr. supra, nota 239 del capitolo precedente. 122 Cfr. per un orientamento generale F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, cit., III, 489. 123 Ciò è testimoniato anche dal fatto che nella profezia non si parla né dell'impero né di un imperatore, mentre ci si sarebbe dovuto attendere proprio questo, se la profezia avesse voluto promuovere la candidatura di Riccardo di Cornovaglia. Nella profezia in sostanza non si parla affatto di una restaurazione del potere imperiale, cui secondo Grauert (Meister Jobann von Toledo, cit., 147) il cardinale Giovanni di Toledo doveva essere interessato. Peraltro è possibile che il cardinale, originario dell'Inghilterra, sostenesse la candidatura di Edmondo alla corona di Sicilia, sicché è comunque pensabile l'attribuzione della profezia al cardinale come autore. 124 Cfr. versi 25 ss.: «Namque sacerdotes domini fideique ministri / federa turbabunt catholicamque fidem. / Proh dolor! ordo sacer fratrum, si dicere fas est, / in laqueos heresis et labirinta cadet«. Col sacer ordo fratrum si dovrebbero intendere i frati minori; l'autore allude evidentemente alle aberrazioni dei gioachimiti, in particolare a Gerardo di Borgo S. Donnino. 125 Verso 45: «Pauper opum, dives morum». Il motivo che l'imperatore degli ultimi tempi sarà povero di beni temporali si trova in precedenza già in profezie bizantine, come per esempio nel vaticinio nella Vita S. Andreae Sali di Niceforo (X secolo): cfr. PG 111, col. 853. 126 Papa Alessandro IV (1254-1261), a causa dei conflitti tra i romani durante il suo pontificato, potè dimorare a Roma solo per poco tempo; cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, cit., III, 493 s. 127 Pubblicato in R. KESTENBERG-GLADSTEIN, A Joachimite..., cit., 35 ss. La curatrice (ivi, 41) ipotizza un tempo di composizione compreso tra il 1271 e il 1277; ma tutto lascia credere che la profezia sia sorta ancora prima della pace di Vienna del 1276, che rappresentò un insuccesso decisivo per Ottocaro. 128 Ivi, 4 5 s. 129 Un esempio significativo del modo in cui nella letteratura profetica determinati concetti si conservino attraverso i secoli è che l'immagine del leone ruggente, per designare il sovrano della pace, appaia già in un'apocalisse copta di Elia del IV-V secolo; cfr. G. STEINDORFF, Die Apokalypse des Elias (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 3 a), Leipzig 1899, 77. 150 La traccia di un «sentimento di rinascimento», che R. KESTENBERG-GLADSTEIN, A Joachimite..., cit., 52 sottolinea così marcatamente, non cambia nulla del fatto che questa profezia nelle questioni essenziali rimane completamente legata al vecchio schema. 131 Questa profezia è tramandata tra l'altro nel codice pseudogioachimita Vat. Lat. 3822, scritto in Italia, nonché da numerosi cronisti inglesi — certo a causa della sua tendenza antifrancese — i quali la sfruttano per l'alleanza del 1294 del re d'Inghilterra con Adolfo di Nassau contro Filippo IV; cfr. O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 118 s.; ivi, 125 s. HolderEgger presenta una edizione affidabile di questi versi profetici che sono in parte molto alterati. 132 Cfr. O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 128. È dunque da ipotizzare che questa profezia sia sorta in ambiente italiano in relazione allo scontro per la Sicilia, e solo in seguito sia stata utilizzata per la lotta del re d'Inghilterra, alleato con la Germania, contro la Francia. Pertanto l'indicazione che ricorre in BARTHOLOMEUS DE COTTON, Historia Anglicana (MG SS XXVIII, 607), secondo cui il vaticinio sarebbe stato scoperto a Roma, e di lì sarebbe stato inviato ad amici inglesi, fondamentalmente corrisponde a verità. 133 Cfr. O. HOLDER-EGGER, Italienische..., III, cit., 126. Cfr. anche una nuova versione, alquanto divergente, di questa profezia nella cronaca bolognese di Pietro e Floriano Villola, in Corpus Chronicorum Bononiensium, I (Rer. ¡tal. SS. XVIII, 1), 16 s. 134
BARTHOLOMEUS DE C O T T O N ( M G
SS X X V I I I ,
607).
IMPERATORE DELLA PACE E PAPA ANGELICO 135
Cfr. supra, nota 35.
241
Schriften..., cit., 136s. È probabile che questa profezia filofrancese relativa a Carlo sia stata composta nell'interesse di Carlo d'Angiò, in qualche modo per controbattere l'attesa di Federico di marca ghibellina. Ciò testimonierebbe che anche questa profezia relativa a Carlo sarebbe nata in Italia; cfr. R. F O L Z , Le souvenir..., cit., 305. Anche il Liber Regum (non pervenutoci), che circolava sotto il nome di Merlino, e scritto non molto prima del 1304, contiene l'annuncio che dalla stirpe di Pipino nascerà un re che unirà sul proprio capo la corona francese e quella tedesca (ovvero la corona dell'impero romano d'Occidente e quella dell'impero bizantino); cfr. la recensione di H. Grundmann (in «Göttingische gelehrte Anzeigen«, 190 [1928], 570, 575) al libro di L.A. PATON, Les prophecies de Merlin-, F. BAETHGEN, Der Engelpapst, 1933, 100 (nota). Una versione filofrancese dell'attesa dell'imperatore degli ultimi tempi è presente anche nel poema Gottes Zukunft di Enrico di Neustadt (il quale scrive poco dopo il 1300), hg. v. S. Singer, 411 s. in cui tra l'altro si dice: «Deve avvenire di sicuro / che un re di Francia / porti la corona a Roma». Del resto qui non hanno alcun ruolo attese di riforma. 137 Ciò è sottolineato già da GIOVANNI BOCCACCIO, Il commento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Gueri, I, Bari 1918, 185. 138 Inferno I, 101 ss. 139 Purgatorio XX, 10 ss. 140 Purgatorio XXXIII, 37 ss. «Fuia» è da intendere come «ladra» (fura), un'allusione al fatto che la chiesa ovvero il papato si è arricchito con beni estranei. Cfr. B. NARDI, La Donatio Constantini e Dante, in Nel mondo di Dante, Roma 1944, 155. 141 Paradiso XXVII, 139 ss. 142 Purgatorio XXXII, 124 ss. 142 Purgatorio XXXIII, 37 s. 144 Anche in Inferno XIX, 106 ss. Dante equipara i papi cattivi e avidi (come Nicolò III, Bonifacio Vili, Clemente V) alla meretrice apocalittica. 145 Cfr., per esempio, le considerazioni di B. Gmelin nel commento alla traduzione tedesca del Purgatorio (Die Göttliche Komödie, 2. Teil: Der Läuterungsberg, Stuttgart 1955, 523). Una interpretazione divergente e, nonostante l'erudizione profusa, in nessun modo convincente, è data di recente da R . E . KASKE, DXVand Veltro, «Traditio», 17 (1961), 189 ss., il quale ritiene che Dante col 515 avrebbe inteso indicare il ritorno di Cristo, e col gigante l'Anticristo. È senza dubbio merito di Kaske aver messo in evidenza con maggiore precisione i tratti anticristiani del gigante; ma per quanto concerne il 515, a mio avviso le indicazioni di Dante sono così chiare, e l'interpretazione universalmente predominante di questa figura concorda così facilmente con la concezione generale di Dante, che la tesi di Kaske ha solo l'effetto di creare difficoltà là dove in sé non ce ne sono. 146 Già nel XIV secolo i commentatori della Divina Commedia hanno messo in relazione il numero 515 con il concetto di «Dux»: così Jacopo della Lana, l'Ottimo commento, Pietro di Dante, Benvenuto Rambaldi di Imola, Francesco di Buti, l'Anonimo fiorentino; cfr. la pubblicazione di questi commenti nell'edizione La Divina Commedia nella Figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi, G.L. Passerini, E. Rostagno, Purgatorio, Torino 1931, 719-721. 147 Paradiso XXVII, 140. 148 Così, per esempio, K. VOSSLER, Die Göttliche Komödie, I, Heidelberg 1 9 2 5 , 2 3 0 , 3 2 4 s., ma cfr. anche 3 2 8 ; F. SCHNEIDER, Heinrich VII. Dantes Kaiser, 1 9 4 0 , 2 8 2 ; N . ZINGARELLI, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano 1 9 3 1 3 , 8 6 0 s., 1 1 6 5 ; V . CIAN, Oltre l'enigma..., cit., 2 2 , 4 9 ; L. C I C C H I T T O , L'escatologia di Dante e il Francescanesimo, «Miscellanea Francescana», 4 7 ( 1 9 4 7 ) , 2 2 7 ; A. VEZIN, Dante. Seine Welt und Zeit. Sein Leben und sein Werk, Dülmen 1 9 4 9 , 3 0 9 ; H. GMELIN, Die Göttliche Komödie, cit., 5 2 3 ; M. B A R B I , Problemi fondamentali per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1955, 39, 61. Anche L.M. BATKIN, Utopija vsemirnoj monarchii u Dante, in Srednie Veka, XI, Mosca 1958, 100 sostiene l'opinione che col veltro si può intendere solo l'impero. 149 Così L. TONDELLI, Il libro delle Figure, I, cit., 358, 374; A. D E M P F , Sacrum Imperium, cit., 482; F. KOENEN, Der fagdhund und Hirte, «Deutsches Dante-Jahrbuch», 18 (1936), 190 s., 196; R.L. J O H N , Dante, Wien 1946, 189- L'opinione di Tondelli è ripresa anche da A. C R O C C O , 136
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
Simbologia gioachimita e simbologia dantesca, «Sophia», 2 9 ( 1 9 6 1 ) , 1 0 2 (questo saggio è tratto dal libro di A. CROCCO, Gioacchino da Fiore, Napoli I 9 6 0 , che non sono riuscito a consulCommedia, tare). Anche N. Sapegno, nel suo commento alla sua nuova edizione della Divina preferisce l'interpretazione secondo cui il veltro sarebbe un papa riformatore (DANTE, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli, s.d., 13 s.). A sua volta R.E. KASKE, DXV..., cit., 232 ss. sostiene un'opinione che si discosta dalle interpretazioni consuete, e ritiene che col veltro siano da intendere i due ordini mendicanti, che con la loro predicazione provocano una riforma della chiesa. Questa interpretazione a mio avviso viene a cadere per il semplice fatto che Dante difficilmente poteva designare due ordini mendicanti con un solo cane da caccia. 150 Cfr., per esempio, H . OSTLENDER, Veltro und Fünfhundertzehnundfünf, «Deutsches Dante-Jahrb.», 25 (1943), 180; 26 (1946), 50; ivi, 58 ss. Ostlender dichiara possibile che Dante in questo riformatore dei costumi abbia visto se stesso. Secondo CH. T. DAVIS, Dante and the Idea of Rome, Oxford 1957, 230, 233 il veltro è un simbolo degli ideali di riforma francescani. Qui andrebbe ricordato anche G. PAPINI, Dante Ein ewiges Leben, Berlin-Wien-Leipzig 1936, 238, 234 s. il quale vede nel veltro, nel senso di Gioacchino da Fiore, un «nuovo redentore» ovvero una incarnazione dello Spirito santo. 151 Così in particolare C.L. OLSCHKI, Dante «Poeta Veltro», Firenze 1953; cfr. in proposito DA, 12 (1956), 307. Una collocazione a parte è assunta da von Richthofen, il quale — collegandosi ai «veltres» che compaiono nella Chanson de Roland — giunge all'opinione che col veltro non vi sia bisogno «di intendere il monarca in persona, ma una figura soterica, di cui egli è stato investito e che esprime una missione dall'alto, nella funzione della iustitia*. Cfr. E. VON RICHTHOFEN, Veltro und Diana, Tübingen 1956, 43. 152 Inferno I, 106. 153 Cfr. L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 83 s., 89. 154 Paradiso XXVIII, 121 ss. 155 I periodi di composizione del primo canto dell' Inferno e della Monarchia sono controversi. L'opinione prevalente è che la Divina Commedia sia stata cominciata intorno al 1306 (cfr. F. SCHNEIDER, Dante. Sein Leben und sein Werk, Weimar I960 5 , 137), e che la Monarchia sia stata composta mentre Arrigo VII era ancora in vita (ivi, 101, 105). Anche M . BARBI, Problemi fondamentali..., cit., 86 mette in correlazione la composizione della Monarchia con l'avvento di Arrigo VII, come fa anche Vinay in DANTE, Monarchia, a cura di G. Vinay, Firenze 1950, XXXVI. Argomenti rilevanti per comprovare la stesura della Monarchia già nel 1312-13 sono addotti anche da M . MACCARRONE, Il terzo libro della Monarchia, «Studi Danteschi», 33 (1955), 122 ss., 137 s. 156 Cfr. F. KERN, Humana Civilitas, Leipzig 1913, 20. 157 DANTE, Monarchia III, 16 (ed. Vinay, 284). 158 Ivi, I, 11 (ed. Vinay, 64): «Ergo eo [monarcha] existente, iustitia potissima est vel esse potest». 159 Ivi, I, 16 (ed. Vinay, 98-100). Queste opinioni si ritrovano fondamentalmente già nel Convivio IV, 4 e 5 (Opere di Dante, V, Firenze 1954, 28 ss., 42, 45 s.). 160 Si noti qui che già alcuni commentatori del XIV secolo si sono espressi esplicitamente per l'identità del 515 e del veltro, come per esempio Benvenuto Rambaldi e l'Anonimo fiorentino; cfr. La Divina Commedia nella Figurazione artistica..., Purgatorio, 720 s. 161 F. KAMPERS, Vom Werdegang..., cit., 142; K . VOSSLER, Die Göttliche Komödie, cit., 325; N . ZINGARELLI, La vita..., cit., 8 6 3 . 162 Cfr. F. SCHNEIDER, Dante, cit., 88. Inferno I, 105. 164 Cfr., per esempio, K . VOSSLER, Die Göttliche Komödie, cit., 3 2 5 . 165 II Cangrande assunse la sovranità accanto al fratello maggiore solo nel 1306 e divenne sovrano unico solo nel 1 3 1 1 ; cfr. H . SPANGENBERG, Cangrande, I , Berlin 1 8 9 2 , 1 6 . L'indicazione di F . KAMPERS, Vom Werdegang..., cit., 1 4 2 , secondo cui questo principe già quando aveva otto anni veniva designato come canis magnus, non vuol dire niente, perché questo nome è semplicemente la traduzione latina del suo nome di battesimo. A. VEZIN, Dante, cit., 311 dice perciò giustamente che Dante è diventato il profeta del Cangrande solo «inconsapevolmente».
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Così già Boccaccio nel suo commento dice che non ha capito queste parole; cfr. BOCII commento, a cura di D. Gueri, I, 191. Ivi, I, 154, cfr. 192. 168 Cfr. ivi, 192, in cui Boccaccio indica le diverse interpretazioni e racconta che alcuni ritengono — e ciò ha un qualche fondamento («e al parer mio con più sentimento») — «che alcuno poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato» comparirà nel ruolo del veltro. Una analoga interpretazione è data anche da Jacopo della Lana; cfr. D A N T E , La commedia col commento di Jacopo della Lana dal Codice Franco)ortense, a cura di F. SchmidtKnatz, Frankfurt 1939, f. 86ra: «[...] che nàscerà de asina conditione che feltro sic vile panno, et questo responde lo ad una tacita questione che de vile padre e madre non posa nascer bono et virtudioso figliuolo». 169 PG 111, col. 853, 855. 170 Cfr. l'edizione di questa Apocalisse di Daniele in E. K L O S T E R M A N N , Analecta zur Septuaginta, Hexapla und Patristik, Leipzig 1895, 118; una versione francese libera è offerta da F . M A C L E R , Les Apocalypses apocrypbes de Daniel (Diss.), Paris 1895, 96. Già Liutprando di Cremona fa riferimento al fatto che a Bisanzio circolavano profezie sotto il nome di Daniele; cfr. L I U T P R A N D O , Opera, ed. J. Becker, (MG SS rer. Germ. in us. schol.), 1915, 195. 171 Cfr. O . H O L D E R - E G G E R , Italienische..., I I , cit., 3 8 4 ; cfr. anche supra, 2 1 1 . 172 Questa opinione è stata sostenuta soprattutto da Bassermann in diversi studi; cfr. soprattutto A . BASSERMANN, Veltro, Groß-Cban und Kaisersage, «Neue Heidelberger Jahrbücher», 11 (1901), 28 ss.; cfr. anche H. M A T R O D , Le Veltro de Dante et son DXV, Khan et Can, «Etudes Franciscaines», 31 (1914), 61 ss., il quale in parte sostiene le stesse opinioni di Bassermann. Cfr. anche A . V E Z I N , Dante, cit., 309. Molte affermazioni di Bassermann appaiono estremamente discutibili; le fonti europee da lui citate intorno a una leggenda del Gran Khan risalgono nel loro insieme al tempo successivo a Dante. Del resto Dante non si serve di un concetto correlato a cam's-khan, bensì della parola «veltro». Probabilmente egli ha usato questa parola solo perché il veltro è un animale molto adatto alla caccia della lupa; così ritiene M. B A R B I , Problemi fondamentali..., cit., 36 s. 173 Così H. O S T L E N D E R , Veltro..., cit., 51; H. G M E L I N , Die Göttliche Komödie, cit., 324. 174 Cfr. le indicazioni in F. S C H N E I D E R , Dante, cit., 136 s. 175 M . BARBI, Problemi fondamentali..., cit., 6 1 giustamente qualifica la profezia intorno al 515, in confronto a quella sul veltro, come «più determinata e ispirata da circostanze particolari diverse e da più precise speranze». 176 Ep. VI, 1, Opere minori di Dante Alighieri, III, Firenze 1887, 450. 177 Ep. V, 1 e 2 (ivi, 440); cfr. F. S C H N E I D E R , Heinrich VII., cit., 67 ss. 178 Ep. VII, 1 e 2 (ivi, 466); cfr. F. S C H N E I D E R , Dante, cit., 109 ss. Per il carattere messianico di questa lettera cfr. anche le indicazioni di J. C H Y D E N I U S , The Typological Problem in Dante, Helsingfors 1958, 89. 179 Questa componente «nazionale» delle visioni di Dante è stata sottolineata giustamente da L.M. B A T K I N , Utopija..., cit., 85; egli dice addirittura: «Così in Dante, sotto il manto dell'esigenza di una monarchia universale, si cela sempre l'aspirazione all'unità nazionale». L'opinione opposta di E. B U O N A I U T I , Dante come profeta, 1936 2 , 160, il quale ritiene che «solo le idee universali hanno significato per lui [Dante]», non rende pienamente ragione delle motivazioni reali soggiacenti alle sue visioni. Per il resto cfr. anche H. L Ö W E , Dante und das Kaisertum, HZ, 190 (I960), il quale ugualmente sottolinea «il punto di vista italiano» nelle visioni di Dante. 180 Ciò è testimoniato in modo particolarmente chiaro da Convivio IV, 4 (Opere di Dante, V, 32 s.), dove si dice che compito dell'imperatore è che egli «li regi tenga contenti ne li termini de li regni, si che pace intro loro sia». Cfr. anche H . L Ö W E , Dante, cit., 549; L . M . B A T K I N , Utopija..., cit., 89 s. 181 Cfr. in proposito anche Purgatorio XVI, 106 ss. 182 Cfr. B . N A R D I , La Donatio Constantini, cit., 150 ss.; H . G R U N D M A N N , Bonifaz Vili, und Dante, in G R U N D M A N N - H E R D I N G - P E Y E R , Dante und die Mächtigen seiner Zeit (Münchener romanistische Arbeiten, 15), I960, 34. 183 La «fuia» che tresca col gigante (Purgatorio XXXIII, 44) e che troneggia sul carro trasformato in bestia ( = chiesa), non significa genericamente la chiesa corrotta, come spesso si CACCIO, 167
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IL R E G N O F U T U R O D E L L A L I B E R T À
dice (così M. BARBI, Problemi fondamentali..., cit., 62), bensì chiaramente quell'istituzione ecclesiastica che troneggia sulla bestia (= la chiesa corrotta), cioè il papato. 184 Cfr. Purgatorio XX, 43 ss. 185 L'affinità della visione del veltro o del 515 con le profezie dell'epoca è stata sottolineata soprattutto da V. CIAN, Oltre l'enigma..., cit., 5, 13. 186 Ciò emerge soprattutto da Paradiso XII, 118-120 e XXX, 131 s.; cfr. H. GRUNDMANN, Dante..., cit., 254 s. 187 In questo modo, soprattutto F.X. KRAUS, Dante, Berlin 1897, 474 ss., 737 ss., ricollegandosi a precedenti storici, ha messo in relazione le attese di Dante con le idee dello spirituale francescano Ubertino da Casale, influenzato da Gioacchino. A. DEMPF, Sacrum Imperium, cit., 473, 487 rimanda soprattutto all'Olivi come modello, allo stesso modo di E. BUONAIUTI, Dante come profeta, cit., 31 s. Idee analoghe sono sostenute anche da A. RICOLFI, Influssi gioachimiti su Dante e i «Fedeli d'Amore», «Il Giornale Dantesco», 33 (1930), 170 ss.; F. Russo, Rassegna Gioachimitico-Dantesca, «Miscellanea Francescana», 38 (1938), 80. Cfr. anche le ulteriori indicazioni in L. TONDELLI, Il Libro delle Figure, I, cit., 217, il quale a sua volta ipotizza influssi diretti (attraverso il Liber Figurarum) e indiretti (attraverso Bonaventura) di Gioacchino su Dante (ivi, 221 ss., 353, 364 ss.). Anche secondo L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 95, Dante è fortemente influenzato da Gioacchino. Cfr. anche CH. T. DAVIS, Dante..., cit., 222, 242. Ci sarebbe da citare anche, ma più come curiosità, G. PAPINI, Dante, cit., 235, il quale pretende ricavare il concetto di veltro dal concetto gioachimita di «vangelo eterno». 188 Così, per esempio, L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 93 vede in Dante idee puramente ereticali. 189 Cfr., per esempio, Inferno XIX, 115 ss.; Paradiso XX, 55 ss.; cfr. anche supra, nota 182 di questo capitolo. 190 Cfr. G. LAEHR, Die Konstantinische Schenkung in der abendländischen Literatur des Mittelalters, Berlin 1926, 176 ss.; A. BORST, Die Katbarer, cit., 215. 191 Nella sua poesia «Künc Constantin der gap so vii [...]». 192 GIOVANNI DI WINTERTHUR, ed. F. Baethgen, 226; per esempi più antichi di questa visione cfr. G. LAEHR, Die Konstantinische..., cit., 122, 172 ss. 193 II profilo di storia della chiesa nel trentaduesimo canto del Purgatorio è stato messo in connessione, da R.L. JOHN, Dante, cit., 211 ss., con la suddivisione della storia della chiesa in corrispondenza dei sette sigilli fatta da Ubertino da Casale nel suo Arbor vitae (Venezia 1485), libro V, capitolo 1. In verità secondo John la sesta visione in Dante abbraccia solo l'avvento della bestia dalle sette teste, mentre egli intende l'apparire della «fuia» già come settima visione. Se qui in Dante c'è davvero un'eco della suddivisione secondo i sette sigilli, come era consueta nelle cerchie influenzate da Gioacchino — e ciò mi sembra molto probabile —, allora l'interpretazione di John non s'accorderebbe con lo schema usuale, perché il settimo sigillo apporta un riposo di mezz'ora (Ap 8, 1), e quindi un tempo di pace. Di conseguenza sopra io ho modificato lo schema di John. Cfr. adesso un'analoga interpretazione in R.E. KASKE, DXV..., cit., 221. 194 Le visioni di Gioacchino riguardanti questo aspetto si trovano con la massima perspicuità nella tavola IV del Liber Figurarum (secondo l'edizione di L. Tondelli). 195 Cfr. gli estratti della Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi in BALUZE-MANSI, Miscellanea II, 1761, 258. 196 UBERTINO, Arbor vite V, 1. Purtroppo l'edizione del 1485 non ha la numerazione delle pagine; l'esemplare della biblioteca universitaria di Göttingen che avevo a disposizione ha in parte una numerazione introdotta in epoca successiva; nelle citazioni seguenti la riprendo per un più facile orientamento (il passaggio appena citato si trova a p. 407 di tale esemplare); cfr. anche le analoghe considerazioni nell'Olivi, BALUZE-MANSI, Miscellanea, II, 258. 197 UBERTINO, Arbor vite V, c. 12, p. 460. 198 DANTE ALIGHIERI, La Commedia col commento di Jacopo della Lana, ed. F. SchmidtKnatz, f. I64r. 199 CH.T. DAVIS, Dante..., cit., 216 (a proposito di Paradiso XI, 37-39), 217 (a proposito di Paradiso XI, 71 ss.). Il passo citato per ultimo concerne la leggenda dello sposalizio di Francesco con Madonna Povertà, che certo Dante ha potuto conoscere anche da altre fonti, ma che è tramandata anche in Ubertino. In ogni caso la ripresa di questa leggenda testimonia che Dante fu a contatto con circoli francescano-spirituali.
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Dante..., cit., 222. Inferno XIX, 3 3 ss.; cfr. UBERTINO, Arbor vite V, c. 6 , p. 4 4 6 ; cfr. H. GRUNDMANN, Bort ifaz Vili, und Dante, cit., 17. 202 Paradiso IX, 133 ss. 203 Paradiso XII, 112 ss.; XXII, 90 s.; cfr. L. CICCHITTO, L'escatologia..., cit., 225. 204 UBERTINO, Arbor vite V , c. 8 , p. 4 6 4 («pugil Christi»). 205 Purgatorio XX, 86 ss. 206 Ciò è sottolineato energicamente da L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 87. In questo contesto sono interessanti le considerazioni del domenicano Guido Vernani nel suo trattato contro la Monarchia di Dante; cfr. l'edizione del trattato in T. KÄPPELI, Der Dantegegner Guido Vernani von Rimini, «Quellen und Forschungen aus ital. Archiven und Bibliotheken», 28 (1937/38), 146, in cui Guido dichiara apertamente «quod ad beatitudinem temporalem non ordinatur a Deo tanquam ad finem ultimum», e che solo la «felicitas aeterna» è il fine ultimo. Cfr. anche B. NARDI, Pretese Fonti della Divina Commedia, «Nuova Antologia», 90 (1955), n. 464, 393 s., il quale giustamente sottolinea che Dante, con questo riconoscimento della «beatitudo huius vite» come uno dei fini dell'umanità, si distingue in linea di principio dalle idee di Gioacchino e degli spirituali francescani, e perciò mette in guardia dal porre in collegamento troppo stretto le visioni di Dante con le tendenze gioachimite. 207 In questa sede non è possibile sviluppare un confronto con i libri di K. Burdach nei quali viene postulata tale connessione; cfr. la succinta sintesi delle sue concezioni in Reformation, Renaissance, Humanismus, Berlin-Leipzig 19262. Sia consentito qui soltanto osservare brevemente che l'essenza del rinascimento non consiste solo nell'attesa dell'inizio di una nuova epoca, bensì nella secolarizzazione di idee del genere, e sotto questo profilo tra Gioacchino e l'umanesimo sussiste una differenza incolmabile. 208 Ciò è testimoniato soprattutto dalla rappresentazione della Trinità mediante tre cerchi di colore diverso in Paradiso XXXIII, 115 ss.; analogamente la tavola XI del Liber Figurarum. Cfr. in proposito L. TONDELLI, Il Libro delle Figure, I, cit., 2 2 1 , 2 2 5 ; F. Russo, Rassegna Gioachimito-Dantesca, «Misceli. Frane.», 3 8 ( 1 9 3 8 ) , 6 7 ; M.W. BLOOMFIELD, Joachim of Flora, cit., 2 5 8 ; G. BERTI, Il Libro delle Figure di Gioacchino da Fiore e le immagini dantesche dei cerchi trinitari e dell'aquila ingigliata (Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le antiche Provincie Modenesi ser. 8, vol. IX), Modena 1957, 63 ss. L'affermazione enunciata da L. TONDELLI, Il Libro delle Figure, I, cit., 3 5 3 ss., secondo cui il veltro di Dante sarebbe da ricondurre al «canis» della tavola XII («Dispositio novi Ordinis»), è da considerare errata. 209 Convivio II, 14 (Opere di Dante, n. ed. IV, 1953, 222). 210 Cfr. H . GRUNDMANN, Dante..., cit., 2 5 5 s. Cfr. anche B. NARDI, Pretese fonti..., cit., 3 9 3 , il quale giustamente accenna al fatto che dove appaiono influssi gioachimiti in Dante, essi si riallacciano non tanto a Gioacchino stesso, quanto piuttosto al gioachimismo trasformato dal francescanesimo. Perciò è altresì errata l'opinione di E. BUONAIUTI, Dante come profeta, cit., 151, secondo cui Beatrice sarebbe da intendere come una personificazione deli'Ecclesia spiritualis nel senso di Gioacchino; essa è semplicemente il simbolo della chiesa pura corrispondente agli ideali francescani rigorosi. 211 Inferno XXVIII, 55 ss. 212 Purgatorio XXXII, 142 ss. 21» Inferno XIX, 106 ss. 214 DANTE, La Commedia col commento di Jacopo della Lana, cit., f. 108v. Alla differenza tra il significato della bestia in Inferno XIX e in Purgatorio XXXII ha fatto riferimento soprattutto C H . T . DAVIS, Dante..., cit., 221 ss.; ma io non posso seguire la sua spiegazione; allo stesso modo la sua interpretazione delle sette teste della bestia in Inferno XIX in riferimento ai sette colli di Roma mi pare poco calzante, perché con ogni evidenza le sette teste hanno un significato morale-spirituale. 2 '5 Paradiso XXVII, 22 ss. 216 Comunemente si ritiene che qui sia inteso Bonifacio Vili; cfr. ad esempio H. GMELIN, Die Göttliche Komödie, cit., 467. In senso contrario si è espresso R.L. JOHN, Dante, cit., 89 s., il quale ritiene che Dante abbia sempre riconosciuto la legittimità di Bonifacio Vili e che in questo contesto pensi a Clemente V. Il particolare odio di Dante per Clemente V secondo John è motivato dal fatto che Clemente V è corresponsabile della fine dell'ordine dei templari, 200
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delle cui visioni (la «gnosi dei templari»), secondo le argomentazioni davvero fantasiose di John, Dante sarebbe stato «imbevuto fin dalla gioventù». È certamente giusto che Dante ha condannato Clemente V quasi con maggiore durezza rispetto a Bonifacio V I L I (cfr. H. GRUNDMANN, Bonifaz Vili, und Dante, cit., 1 5 ) , ma con l'usurpatore di Paradiso X X V I I va inteso inequivocabilmente il papa regnante quando Dante ha intrapreso il suo viaggio nell'aldilà, ciò che è avvenuto nel 1 3 0 0 (cfr. F . SCHNEIDER, Dante, cit., 1 4 7 ) , quando era papa Bonifacio V I L I . Inoltre l'accusa di usurpazione del soglio pontificio si spiega proprio nel caso di Bonifacio V I L I , perché qui Dante chiaramente riprende le accuse ricorrenti tra gli spirituali francescani, secondo cui Bonifacio avrebbe rimosso in modo scorretto Celestino V. Per questo neanche l'ipotesi di Grundmann ( B o n i f a z Vili, und Dante, cit., 21) che qui Dante avrebbe in mente oltre a Bonifacio V I L I anche Clemente V e Giovanni X X I I , mi sembra fondata. 217 Inferno XXVII, 70 ss.; Paradiso XXX, 148. 218 Purgatorio XX, 87 s. 219 Così H. GMELIN, Die Göttliche Komödie, cit., 324. H. GRUNDMANN, Bonifaz Vili, und Dante, cit., 29 ss. sottolinea con vigore il punto di vista secondo cui Dante distingue «tra la persona peccaminosa, riprovevole, del papa e il suo sacro ministero intangibile». 220 Un simile mutamento verso concezioni più radicali è ipotizzato anche da M . PORENA, Una nuova chiosa alla profezia dantesca del Veltro Liberatore (Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, 1953, ser. 8, Rendiconti, Classe di scienze morali, storiche e filol., voi. 8, 231 s.). 221 F. Engels distingue un'eresia «borghese-moderata» e un'eresia «plebeo-rivoluzionaria»; cfr. F . ENGELS, Der Protestantismus — die religiöse Verkleidung der aufkommende Bourgeoisie, in K . M A R X - F . ENGELS, Über Deutschland..., cit. [tr. it., Il Protestantesimo — il rivestimento religioso della borghesia in ascesa, in K. M A R X - F . ENGELS, La Germania..., cit.]. Cfr. anche L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 93 s., il quale peraltro sopravvaluta l'eco, piuttosto debole, di idee ereticali in Dante; così, per esempio, le espressioni di Dante in Purgatorio III, 112-145, in cui Batkin vede «idee perfettamente ereticali», non contengono in alcun modo una infrazione di principio alla dottrina ecclesiastica. 222 Cfr., per esempio, Monarchia III, 10 (ed. Vinay, 254-56): «Poterat tarnen Imperator in patrocinium Ecclesiae Patrimonium et alia deputare, immoto semper superiori dominio, cuius unitas divisionem non patitur. Poterat et vicarius Dei recipere, non tamquam possessor, sed tamquam fructuum pro Ecclesia pro Christi pauperibus dispensator». 223 Cfr. F . ENGELS, Der deutsche Bauernkrieg, cit., 2 0 5 [tr. it. cit.]. 224 Paradiso XVI, 49 ss. 225 Inferno XVI, 73 ss. Cfr. anche L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 99. 226 Convivio IV, 11 (Opere di Dante V, 122). 227 Convivio IV, 12 (ivi, 142). 228 Convivio IV, 11 (ivi, 128). Cfr. in proposito L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 97, che vi riconosce il tipico «atteggiamento dell'artigiano medievale, del cittadino di vecchio stampo nei confronti dei germi del proto-capitalismo». Peraltro bisogna stare attenti a non concepire Dante come portavoce degli artigiani medi, cioè della piccola borghesia, dato che non era portavoce né dei ricchi né dei più poveri; infatti Dante fu sicuramente tutt'altro che un «piccolo borghese». 229 Cfr. in proposito anche le considerazioni di L.M. BATKIN, Utopija..., cit., 104 s., il quale ritiene che Dante sia portavoce non solo degli strati borghesi superiori o inferiori, ma dei comuni italiani in generale. Anche questa classificazione di Dante non mi sembra del tutto esatta; infatti, non ultimo a causa del tono aristocratico delle sue idee, Dante per molti aspetti si distingue assai nettamente dalle tendenze della vita comunale in Italia. 230 Suo padre prestava danaro, e quindi agiva in certa misura da borghese. La famiglia apparteneva originariamente alla nobiltà, ma chiaramente non le era riuscito di trovare un raccordo con il ceto dei magnati, che si andava formando alla fine del XIII secolo. Cfr. L.M. BATKIN, Florentijskie Grandy i popravki 6 julja 1295 g k "Ustanovlenijam Pravosudija", «Srednie Veka», 2 0 ( 1 9 6 1 ) , 7 7 s.; G . SALVEMINI, Florence in the Time of Dante, «Speculum», 1 1 ( 1 9 3 6 ) , 3 2 2 ss.; Cfr. anche F. SCHNEIDER, Dante, cit., 1 6 s. 231 Cfr. F. SCHNEIDER, Dante, cit., 19 ss. 232 Cfr. supra, 85 s. Cfr. anche F. BAETHGEN, Der Engelpapst, 1933, 84 ss. 233 Cfr. cap. II, nota 128.
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234 Fr. Rogeri Bacon Opera quaedam hactenus inedita, I, ed. J.S. Brewer (Rer. Brit. medi i aevi SS 15), London 1859, 86. Cfr. F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 78; S.C. EASTON, Roger Bacon and His Search for an Universal Science, New York 1952, 135 s. 235 Ruggero Bacone ripete simili profezie anche nel Compendium studii pbilosophie composto nel 1271 (cfr. Rogeri Bacon Opera, cit., I, 402, 403 s., 418); qui peraltro egli lascia aperta la possibilità che la purificazione della chiesa venga eventualmente provocata non da un «pontifex sanctissimus», ma dall'Anticristo «vel per aliquam tribulationem, ut per discordiam principum christianorum seu per Tartaros et Saracenos». 236 Si confrontino, per esempio, le lagnanze di Ruggero sulla decadenza dell'ordine ecclesiastico nel Compendium studii pbilosophie (ivi, 399): «Totus clerus vacat superbiae, luxuriae et avaritiae». A questo proposito va tenuto presente che vi sono indizi per ritenere che Ruggero Bacone sia chiaramente influenzato dalle opinioni dell'ala spirituale all'interno dell'ordine dei frati minori, la quale era strettamente fedele alla memoria di Francesco. Ciò è stato sottolineato con molto vigore da S.C. EASTON, Roger Bacon..., cit., 126 ss.; cfr. in proposito anche B. HIRSCH-REICH, Alexander von Roes Stellung zu den Prophetien, MIÖG, 67 (1959), 312, la quale fa riferimento alla conoscenza, da parte di Ruggero, del Liber de semine scripturarum (menzionato nell'Opus tertium, Rogeri Bacon Opera, cit., 95, e nell'Opus maius, ed. J.H. Bridges, I, Oxford 1897, 95), e avanza la congettura che Ruggero abbia conosciuto quest'opera attraverso la mediazione dei circoli spirituali. 237 La prima versione di questo componimento poetico corrisponde all'edizione pubblicata da L. Delisle in Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale, 38, 2, Paris 1906, 739 s. Una versione successiva, scritta certamente al tempo del Concilio di Lione, si trova in O. HOLDER-EGGER, Italienische..., II, cit., 385. Anche Salimbene riprende questo componimento poetico di carattere profetico nella sua cronaca (MG SS XXXII, 492 s.). 238 Cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte der Päpste, cit., III, 519 ss. 239 Così, per citare un'altra testimonianza relativamente primitiva per il concetto «papa/pastor angelicus», si dice nel Liber de Flore (1304): «Pastore suadente angelico Italici unum fìent». Cfr. la recensione del libro di Paton da parte di H. Grundmann in «Göttingische gelehrte Anzeigen», 190 (1928), 571. 240 F. BAETHGEN, Die Engelpapst, 1933, 87, e la documentazione ivi, 114 ss. 241 Ivi, 86 s. Baethgen qui fa riferimento a Concordia IV, c.31 (cfr. supra, 85 s.), in cui il «novus dux» e «universalis pontifex nove Hierusalem» viene paragonato all'«angelus ascendens ab ortu solis» (Ap 7, 2). 242 Ivi, 8 1 . 243 Cfr. le indicazioni in CH. DU CANGE, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, I, 1883, 250, al lemma Angelica vestis. Cfr. anche lo scritto di Gioacchino De articulis fidei, in Scritti minori di Gioacchino da Fiore, a cura di E. Buonaiuti, 65, in cui lo stile di vita dei monaci è designato analogamente come vita angelica. 244 Expos, f. 175v. Allo stesso modo Angelo Clareno dice che Giovanni da Parma, il quale col suo ritiro visse come eremita, conduceva una vita angelica (ALKG, II, 1886, 286). 245 Cfr. F. BAETHGEN, Der Engelpapst. Idee und Erscheinung, Leipzig 1943, 56 ss. 246 Cfr. supra, cap. I, nota 93. 247 Cfr. J. BIGNAMI-ODIER, Les visions de Robert d'Uzès, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 25 (1955), 262. 248 Ivi, 277; cfr. anche le sue considerazioni critiche sullo stato presente della chiesa nel suo Liber Sermonum (ivi, 302 s.). 249 Nella Visio XIII del Liber Visionum (ivi, 279); cfr. anche la Visio XVIII che esprime cose analoghe, ivi, 281 s.; essa si chiude con la dichiarazione che ciò significa «ecclesie humiliationem futuram».
V. Il culmine dell'attesa di riforma francescano-spirituale intorno al 1300
Già in un capitolo precedente si è mostrato come l'attesa gioachimita di un nuovo status, a partire dalla metà del XIII secolo, abbia trovato nell'ordine francescano un terreno di coltura estremamente favorevole, sicché si può dire addirittura che le idee di Gioacchino solo attraverso i francescani uscirono dal loro isolamento e divennero un fattore importante dello sviluppo spirituale successivo. I fenomeni di decadenza all'interno della chiesa, che non potevano più essere ignorati dai suoi stessi rappresentanti, avevano contribuito non poco a far sì che l'ideale francescano di povertà venisse sentito molte volte come rimedio salutare, l'unico capace di riportare la chiesa sulla retta via e di consolidarla internamente. Presso coloro che intendevano prendere sul serio l'ideale francescano ciò rafforzava la coscienza del ruolo storico del francescanesimo, e induceva alla convinzione che stesse iniziando una nuova epoca nella storia della chiesa. Così l'annuncio, fatto da Gioacchino, di un nuovo ordine destinato a preparare il nuovo status fu ripreso con entusiasmo dai francescani, in parte per un idealismo utopico, ma sincero, in parte perché questa dottrina era idonea a incrementare in modo straordinario il significato dell'ordine, e quindi lusingava la loro coscienza di sé. Non necessita di ulteriori spiegazioni il fatto che questo amalgama tra l'ideale francescano di povertà e l'attesa gioachimita di un nuovo status, che avrebbe superato la chiesa attuale, poteva diventare un pericolo per l'ordine ecclesiastico vigente, soprattutto quando le originarie istanze francescane di povertà vennero sostenute in maniera coerente. Così non sorprende che la chiesa, col processo contro Gerardo di Borgo S. Donnino, e con la successiva deposizione del generale dell'ordine Giovanni da Parma, sia intervenuta contro una simile evoluzione. Significativamente anche Tommaso d'Aquino qualche tempo dopo ha respinto decisamente, nella sua Summa theologiae, la dottrina gioachimita dei tre status1.
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In questo modo i sostenitori dell'ideale di povertà all'interno dell'ordine minorità, quei sostenitori che lo proponevano senza compromessi e inclinavano a speculazioni gioachimite, vennero sì costretti in un primo tempo al silenzio, ma non vennero completamente eliminati. Per quanto il generale dell'ordine che succedette a Giovanni da Parma, Bonaventura (1257-74), si sforzasse costantemente di appianare i contrasti, che continuavano a covare sotto la cenere, tra gli zelanti e la maggioranza più lassista2, e nel contempo significativamente si sforzasse anche di adattare, in un modo che non fosse pericoloso per la chiesa, le attese gioachimite3, palesemente rimase attivo, soprattutto negli eremitaggi del centro Italia4, un certo numero di sostenitori radicali dell'ideale originario di Francesco. Alcuni esponenti di primo piano di questi difensori senza compromessi della causa della povertà erano intervenuti duramente contro il sempre più evidente adattamento alle condizioni ecclesiastiche vigenti attuato da parte della maggioranza dell'ordine. Costoro, tra cui anzitutto Liberato di Macerata (Pietro) e Angelo Clareno, furono incarcerati nella seconda metà degli anni Settanta, e furono liberati di nuovo solo alla fine del 1289 o nel 1290 5. Lo stesso Angelo Clareno, nella sua Historia septem tribulationum composta negli anni Venti del XIV secolo, narra diffusamente le vicende ulteriori di questi zelatori della causa della povertà 6 . Ci è consentito perciò giudicare sia questa descrizione sia gli altri scritti di Angelo 7 come una fonte per conoscere l'universo rappresentativo di quel gruppo di spirituali del centro Italia; laddove bisogna peraltro osservare che queste notazioni ebbero origine molto tardi, e pertanto non possono rispecchiare in maniera assolutamente esatta gli umori diffusi tra questi frati minori nel periodo che va dal 1274 al 1311 circa 8 . In ogni caso vi sono indizi che intorno al 1300 tra gli spirituali del centro Italia, e in special modo anche all'interno del gruppo che si raccoglieva attorno a Liberato e ad Angelo, fuggiti in Grecia dopo l'elezione di Bonifacio Vili, siano state diffuse concezioni assai radicali, e talvolta sia stata messa in dubbio persino la legittimità di papa Bonifacio Vili e del suo successore. In verità Angelo ha poi contestato energicamente che lui e i suoi compagni abbiano mai sostenuto tali opinioni 9 . Ma in contrario depone non solo la testimonianza di Paolino di Venezia, prevenuto contro gli spirituali e quindi inattendibile 10, ma anche una indicazione di Ubertino da Casale, dunque di un esponente degli spirituali; egli racconta che al tempo di papa Benedetto XI, nel 1303-04, uno degli spirituali che erano fuggiti in Grecia, il quale conosceva bene il greco, lesse il Commento all'Apocalisse di Giustino, giungendo alla
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conclusione che il nome della bestia dell'Anticristo doveva suonare «Benedictus»11. Oliger ha avanzato l'ipotesi, per nulla infondata, che con quello spirituale che sapeva bene il greco si potesse intendere solo Angelo 12. Se ora infine ci soffermiamo sugli scritti di Angelo che ci sono stati tramandati, possiamo constatare che tra gli spirituali che si raccoglievano intorno a lui e a Liberato lo zelo per l'ideale originario di Francesco e la disponibilità ad accogliere le attese gioachimite del futuro sono strettamente legati tra loro. Già il titolo della Historia septem tribulationum si raccorda palesemente allo schema gioachimita del corso storico. Infatti qui Angelo Clareno procede chiaramente dall'idea che, come secondo Gioacchino tutta la chiesa nel corso della sua evoluzione deve patire sette persecuzioni, allo stesso modo anche i francescani, cioè i veri custodi della tradizione francescana originaria, prima del trionfo definitivo devono subire sette «tribulationes»13. Diverse volte egli ricorda anche il nome di Gioacchino da Fiore 14 ; allo stesso modo conosce pure la Sibilla eritrea, ampiamente diffusa nei circoli gioachimiti 15 . Ha grande stima dei due grandi gioachimiti francescani, Giovanni da Parma e Ugo di Digne, e accoglie senza esitazione vaticini circolanti sotto il loro nome l6 . Si possono dunque presupporre con sicurezza influssi gioachimiti in Angelo Clareno, e quindi anche nei suoi compagni; l'unico problema è capire quale forma abbiano assunto in lui le attese gioachimite del futuro. Per chiarire tale questione occorre anzitutto considerare più da vicino alcune visioni del futuro accolte da Angelo nei suoi scritti. A questo proposito però dobbiamo sempre tenere presente l'origine molto tardiva di questi scritti, sicché in molti casi si deve ipotizzare che espressioni come quelle usate da Angelo non riflettano il modo di vedere degli spirituali francescani intorno al 1300, ma in parte già le visioni dei Fraticelli de paupere vita degli anni Venti e Trenta del XIV secolo, distaccatisi dall'ordine francescano, ed eretti sotto la guida di Angelo 17. Anzitutto a una semplice lettura della Historia septem tribulationum risulta evidente che all'interno dell'ala spiritualistica dell'ordine francescano era chiaramente diffuso un grande numero di profezie, le quali riguardavano prevalentemente il destino dell'ordine medesimo, e in parte circolavano sotto il nome di Francesco e dei suoi compagni. Così secondo Angelo già al fondatore dell'ordine deve essere stata comunicata una «revelatio» sulla decadenza dei membri dell'ordine rispetto alla perfezione originaria, e su una «reformatio» che alla fine sarebbe sopravvenuta 18 . La medesima tendenza di fondo è rive-
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lata da una visione attribuita a Giacomo di Massa, nella quale l'ordine francescano appare rappresentato in un albero con radici d'oro. Quest'albero viene abbattuto da una violenta tempesta; ma in seguito dalla radice d'oro spunta di nuovo una «aurea plantacio, aurea tota, que et flores et folia et aureos fructus produxit; de cuius arboris dilatacione, profunditate, altitudine, odore, pulcritudine tacere melius est quam exprimere» 19 . È interessante che in questa visione il generale dell'ordine di tendenza gioachimita, Giovanni da Parma, venga lodato con toni elevatissimi20. Anche un'altra profezia di genere simile, che circolava sotto il nome di Giovanni da Parma, viene raccolta da Angelo nella sua opera. Secondo tale profezia costui avrebbe vaticinato una spaccatura nell'ordine; da una parte vi sarebbero stati quelli che osservavano strettamente la regola originaria e il Testamento di Francesco, che già nel 1230 era stato dichiarato dal papa non obbligatorio 21 , dall'altra coloro che andavano in cerca di privilegi e altre concessioni. Dopo questa «dispersio» però sarebbe rinata una «congregatio sanctorum pauperum», sulla quale Dio avrebbe fatto risplendere la sua luce, e allora il «modus reformacionis» senza alcuna restrizione sarebbe diventato visibile a tutti 22 . In tutte queste visioni sono per interesse in primo piano il destino dell'ordine francescano e la speranza di una reviviscenza dei princìpi originari di Francesco 23 . Viceversa la preoccupazione per il destino di tutta la chiesa o della società umana perde completamente di importanza. Vi sono tuttavia alcune, poche tracce che ci permettono di caratterizzare, almeno per accenni, determinati tratti fondamentali dell'attesa escatologica complessiva di Angelo. Così all'inizio della prosecuzione della sesta tribulatio egli espone le sue opinioni circa gli eventi generali durante il sesto tempo della chiesa, che ha inizio ali'incirca con Francesco 24 . Secondo l'autore, in quest'epoca la chiesa deve subire pesanti persecuzioni, sia da parte di imperatori malvagi, come, per esempio, Federico II, sia da parte di Saladino o dei tartari. Sopraggiunge una «fidei et caritatis evacuacio» in quasi tutti gli uomini. Tra i laici, il clero e i monaci scoppiano confitti; egli parla di una «discessio ab utroque imperio, virtutum privacio, sanctorum diminucio, [...] errorum et heresum multiplicacio». Dopo la spaccatura dell'ordine francescano, che ugualmente avviene in questo tempo, si scatena la persecuzione dell'Anticristo; ma poi — e qui appare una inequivocabile reminiscenza della visione gioachimita del futuro — arriva la «restitucio omnium» mediante Elia, collegata con un incremento perfetto e integrale dello
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«status seraphicus», cioè del genuino francescanesimo, presso gli ebrei, i greci e i latini. A questa visione del futuro corrispondono fondamentalmente le considerazioni svolte da Angelo nell'epilogo del suo Commento alla Regola. Qui egli distingue sei — non sette, come Gioacchino — tempi della chiesa. Anche qui l'avvenimento saliente del sesto tempo è l'avvento di Francesco; successivamente egli attende, insieme all'apertura più completa del sesto sigillo, e dunque ancora all'interno del sesto tempo, la conversione di popoli pagani e degli ebrei 25 . Infine sia consentito qui ricordare anche una lettera di Angelo a Filippo di Maiorca, scritta dopo la rinuncia dell'antipapa Pietro di Corvaro, dunque non prima del 1330. Anche qui Angelo si richiama a presunte profezie di Francesco, secondo le quali pesanti persecuzioni sono destinate ad abbattersi sui frati minori che si mantengono fedeli alla regola, e su tutta la chiesa, fino a che Dio, nel suo terribile e insondabile giudizio, muterà i tempi e rinnoverà nella chiesa la forma di vita fondata da Francesco 26. Tutti questi sono indizi che mostrano chiaramente come anche Angelo Clareno attenda ancora, poco prima della prossima fine del mondo 2 7 , un tempo migliore nel quale siano eliminati i guasti attuali, soprattutto all'interno dell'ordine francescano, e una chiesa purificata secondo i desideri del francescanesimo trionfi in tutto il mondo. Però la speranza del futuro, incontestabilmente presente, perde molto peso, perché quel tempo migliore, palesemente destinato a durare pochissimo, non viene messo in particolare evidenza nella periodizzazione di Angelo. Esso è solo una parte del tempo del sesto sigillo, che abbraccia le grandi persecuzioni dell'Anticristo e altre discordie intestine. Purtroppo rimane non chiarito che cosa apporterà con sé, secondo Angelo, l'apertura del settimo sigillo; ma tutto lascia credere che con essa egli intendesse gli avvenimenti connessi al giudizio universale e alla fine del mondo, e non, come Gioacchino da Fiore, un tempo sabbatico terreno. Inoltre la prospettiva di Angelo, rivolta quasi esclusivamente ai destini dell'ordine francescano, ha impedito che le sue visioni esercitassero un'azione notevole oltre la cerchia dei gruppi spiritualistici all'interno dell'ordine; tanto più che egli non offre indicazioni più chiare sul contenuto della necessaria riforma all'interno di tutta la chiesa 28 . A ciò si aggiunge che egli — se prescindiamo dalla sua condotta non del tutto decifrabile al tempo di Bonifacio Vili — si è sempre sforzato di accordare il suo atteggiamento con le esigenze della chiesa riconosciuta come legittima, e anche dopo essere entrato in collegamento, negli anni Venti, con i fraticelli che si erano separati
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illegalmente dall'ordine francescano, ha sempre riconosciuto in linea di principio — anche se con certe riserve — l'obbligo di obbedienza nei confronti del papa 2 9 . A giudicare dunque dagli scritti di Angelo che ci sono stati tramandati, i quali peraltro hanno tutti avuto origine molto tardi, e pertanto non necessariamente riflettono le sue opinioni, probabilmente più radicali, intorno al 1300, dobbiamo constatare che egli non occupa un posto significativo nel successivo sviluppo delle idee millenaristiche o simili nel medioevo. Lo stesso vale sostanzialmente per un gran numero di scritti francescani, nei quali viene alla luce ugualmente un'adesione, motivata da un grande idealismo, alla regola originaria, e l'attesa di una finale resipiscenza e purificazione dell'ordine; d'altra parte però in essi l'interesse è rivolto in ugual modo quasi esclusivamente all'evoluzione dell'ordine, e il futuro di tutta la chiesa e dell'umanità non viene affatto considerato. Quale esempio di questa letteratura assai ricca sia consentito qui accennare solo ai cosiddetti Verba fratris Conradi de Offida, una raccolta compilata alla fine degli anni Venti del XIV secolo 30 . Anche le visioni e i vaticini raccolti in questo scritto trattano quasi esclusivamente dei contrasti e delle storture all'interno dell'ordine minorità, e del suo ritorno, atteso come sicuro, «ad statum pristinum» 31 , cioè ai principi originari di Francesco. Perciò in questa sede possiamo tralasciare una più approfondita trattazione di simili visioni del futuro, per occuparci invece di quelle personalità nelle quali emerge più chiaramente la prospettiva di un miglioramento complessivo dello status di tutta la chiesa o dell'umanità in generale. Infatti proprio allora, poco prima del 1300, le attese gioachimite — anche se in una forma leggermente mutata — hanno conosciuto un nuovo impulso all'interno dell'ordine francescano, e invero soprattutto attraverso Pietro di Giovanni Olivi, originario del sud della Francia, morto nel 1298 a Narbonne 3 2 . Anche l'Olivi appartiene a quei francescani che condannavano duramente le deviazioni, sempre più palesi e pericolose, dai princìpi fondamentali di Francesco, sebbene egli in diversi punti fosse più disponibile di Liberato e Angelo Clareno, per esempio, a fare concessioni alle condizioni esistenti 33 . Una simile tendenza alla moderazione emerge soprattutto nella sua lettera del 14 settembre 1295 diretta al confratello Corrado di Offida; in essa egli critica le opinioni, a suo parere erronee, dei francescani radicali del centro Italia 34 . In antitesi a quei francescani zelanti presenti in Italia, egli sottolinea che il ritiro di papa Celestino V, e quindi anche l'elezione di Bonifacio Vili, sono legittimi 35 . Inoltre contesta l'opinione, diffusa in quei circoli, che i
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privilegi concessi da Gregorio IX e da Nicolò III 36 , i quali venivano incontro ai desideri della maggioranza più lassista, fossero sbagliati, contraddicessero la regola di Francesco, e quindi il Vangelo in generale, e che di conseguenza quei papi e tutti coloro che obbedivano loro fossero eretici 37 . Infine nella sua lettera l'Olivi critica il tentativo di quegli spirituali di abbandonare l'ordine 38 . Ma nonostante queste tendenze, che inequivocabilmente inclinavano alla moderazione, l'Olivi ha condannato duramente la mondanizzazione all'interno dell'ordine. Soprattutto la dottrina dell'Olivi circa l'«usus pauper» era una pietra di scandalo per la maggioranza dell'ordine più lassista. Con essa l'Olivi censurava la comoda concezione secondo cui la esemplare povertà evangelica dell'ordine fosse in qualche modo assicurata dal fatto che il papato aveva assunto il diritto di proprietà su tutti i beni mobili e immobili dei minori 39 . L'Olivi ha intravvisto chiaramente il pericolo che in questo modo la povertà evangelica dei francescani minacciava di diventare una «finzione giuridica» 40, e ha preteso che a questa assenza giuridica di proprietà corrispondesse anche nella pratica un uso più limitato, più modesto dei beni lasciati all'ordine, appunto un «usus pauper»41. Si può dare per certo che fu soprattutto questo intervento dell'Olivi a favore dell'ideale di povertà, intervento animato da zelo ma avvertito come scomodo in larghe cerchie, a renderlo sospetto presso la maggioranza dell'ordine, e a far sì che egli fosse coinvolto costantemente in controversie, e che fossero sollevate più volte accuse contro di lui, non certo per la sua dottrina intorno alla povertà, difficilmente attaccabile, ma più che altro per controversie filosofico-teologiche42. Come la maggior parte dei sostenitori dell'ideale di povertà all'interno dell'ordine francescano, anche l'Olivi nel contempo condivide l'attesa gioachimita relativa a un nuovo, perfetto status. Il suo gioachimismo viene alla luce in maniera assai netta nella sua Postilla super Apocalipsim43, stesa poco prima della morte sopraggiunta nel 1298. In verità anche negli scritti composti in precedenza si annunciano chiaramente motivi di pensiero gioachimiti, pur se in forma più misurata. Così nella Postilla super Ysaiam accenna alla grande rilevanza della Concordia e del Commento all'Apocalisse di Gioacchino. Egli certo ammette che Gioacchino può aver errato in alcune ipotesi, ma nel contempo attacca duramente quelli che, sulla base di tali errori «in particularibus», vorrebbero concludere che le intuizioni di Gioacchino vadano fatte risalire al diavolo o a mere ipotesi dell'intelletto umano 44 . Inoltre l'Olivi, sia nella sua interpretazione del Pater noster 45 sia nella successiva Lectura super Mattheum46, sostiene la dottrina dei
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sette tempi o status della chiesa, che nel Commento all'Apocalisse ha un significato centrale ed è chiaramente influenzata dalle concezioni di Gioacchino. In questi scritti precedenti dell'Olivi è significativo il fatto che egli attribuisca in parte caratteri tipici molto positivi anche al quinto status della chiesa, nel quale secondo lo schema gioachimita i fenomeni di decadenza hanno grande peso 47 ; tuttavia alla fine anch'egli giunge alla conclusione: «Tamen multiplicata est remissio et lascivia». Nel sesto tempo segue per l'intera cristianità la grande tentazione dell'Anticristo, a contrastare la quale fu chiamato Francesco d'Assisi, che anche qui, come già in Gerardo di Borgo S. Donnino e in Bonaventura, viene identificato con l'«angelus ascendens ab ortu solis». Infine il settimo status è il tempo della chiesa contemplativa, in cui tutti i misteri sono svelati, domina una pace perfetta e il mondo è liberato da ogni male 48 . Purtroppo non si riesce nello specifico a datare con esattezza gli scritti dell'Olivi appena citati, e quindi quando egli abbia sviluppato le sue visioni influenzate dal gioachimismo. Tuttavia da una sua lettera, probabilmente del 1281, emerge che già allora gli veniva mossa l'accusa di prestare fede ad astruse profezie e a visioni della fantasia e di fare predizioni avventate intorno al futuro. Egli respinge simili accuse, richiamando l'attenzione sul fatto che verifica sempre accuratamente se le sue asserzioni gli sono ispirate da Dio; del resto egli non pretende mai di predire singoli eventi di qualsiasi genere, precisandone esattamente il tempo. Ma è ben sicuro che, nella prospettiva delle tendenze generali di sviluppo, l'ordine francescano dopo numerosi travagli emergerà accresciuto e moltiplicato e ristabilirà in tutto il mondo la religione cristiana, così che gli ebrei e i popoli pagani si volgeranno alla chiesa 49 . Anche la lettera dell'Olivi ai figli di Carlo II di Napoli, scritta nel 1295, contiene una simile previsione di un tempo migliore e di un trionfo della chiesa cristiana. Egli vi descrive anzitutto la sua concezione generale dello sviluppo umano e storico, dicendo che la nascita dell'uno comporta la distruzione dell'altro, del precedente 50 . Come la nascita di un uomo è legata a doglie, così anche la chiesa di Cristo nacque dalla sinagoga «cum parturatione amara»51. Come allora, anche oggi, al tempo dell'apertura del sesto sigillo, è iniziata di nuovo un'epoca di travagli e di sconvolgimenti. Come al tempo di Noè il cielo si aprì e tutti morirono, tranne quelli che si erano rifugiati nell'arca, così anche adesso l'immonda Babilonia verrà distrutta dai dieci re che vengono designati dalle dieci corna della bestia dell 'Apocalisse. Questi re ostili, che non vengono descritti più dettagliatamente, si scaglie-
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ranno poi anche contro l'agnello di Dio, e quindi anche contro i cristiani rimasti sulla retta via; ma alla fine verranno debellati da Dio, e subentrerà la pace, così come anche l'arca di Noè alla fine trovò di nuovo pace sulla terra; come allora una colomba che era stata inviata riportò indietro un ramo d'ulivo, così dopo tutti gli sconvolgimenti verrà predicata la «pax evangelica» a tutti 5 2 . Così anche in questa lettera dell'Olivi, sia pure con un linguaggio assai immaginifico e tuttavia assolutamente chiaro, si manifesta la prospettiva di un tempo diverso, migliore, che inizia tra pesanti afflizioni, un tempo in cui dalla distruzione del vecchio mondo corrotto emerge un mondo nuovo, più perfetto. Date queste circostanze, non si capisce bene perché Manselli rifiuti espressamente di vedere in questa lettera «un'operetta di essenziale ispirazione gioachimita» 53 . È senz'altro corretta l'osservazione che manca un esplicito rimando all'idea del terzo status di Gioacchino, ma la coscienza di trovarsi in un periodo di mutamento epocale, così come l'attesa della caduta della «fornicaria Babylon», dimostrano inequivocabilmente una incidenza profonda di idee gioachimite. Dopo questi accenni a scritti precedenti o minori dell'Olivi, possiamo adesso soffermarci sul suo Commento all'Apocalisse54, nel quale operano con ogni evidenza le idee di Gioacchino, e nel contempo la critica dell'Olivi alla chiesa emerge molto nettamente. Come Gioacchino da Fiore, anche l'Olivi nella sua postilla all'Apocalisse suddivide la storia universale in tre status. Nel primo status, che comincia con l'origine del mondo, Dio si rivela come Padre che incute timore; nel secondo status si rivela come figlio, il quale ammaestra gli uomini che a loro volta si sforzano di afferrare i «mysteria occulta». Infine nel terzo status, assegnato allo Spirito santo, giacché allora la sapienza e la bontà di Dio vengono alla luce chiaramente nelle sue opere e nelle Scritture, agli uomini non resta altro da fare che lodare e giubilare; allora la verità divina potrà essere colta non più soltanto «simplici Intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia» 55 . In tale contesto si annunciano con evidenza reminiscenze della dottrina di Gioacchino sui tre status corrispondenti alla Trinità. Non è dunque sostenibile, in tale forma incondizionata, l'affermazione di Manselli, secondo cui l'Olivi rifiuta «in pieno il collegamento tra processo trinitario e processo storico» 56 . È esatto soltanto che nell'Olivi la figura di Cristo sta assolutamente in primo piano rispetto al Dio Padre e allo Spirito santo, sicché, per esempio, lo status rappresentato dallo Spirito santo appare nel contempo come «tempus renovationis orbis per vitam Christi» 57 . Palesemente l'Olivi si cura di evitare ogni sospet-
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to che la sua attesa di un terzo status, attribuito allo Spirito santo, possa in qualche modo diminuire, o addirittura abolire, l'opera di Cristo, sulla quale appunto in ultima istanza poggia anche la chiesa esistente. Per l'Olivi Cristo è la figura dominante di tutti e tre gli status. Già il primo status «representat Deum Patrem ut fecundum et totaliter ordinatum ad Filium generandum» 58 . Significativo per la tendenza cristocentrica della dottrina dei tre status dell'Olivi è inoltre il fatto che egli parli di un triplice avvento di Cristo sulla terra, mentre secondo Gioacchino Cristo appare solo due volte, cioè dopo il suo primo avvento solo al tempo del giudizio finale. Al contrario, l'Olivi conosce, oltre al primo operare di Cristo e al suo avvento per il giudizio finale, anche un altro avvento, peraltro inteso in senso solo simbolico, all'epoca del passaggio dal secondo al terzo status. Con questo intervento di Cristo, che in qualche modo si personifica nella figura di Francesco, 10 spirito della «vita evangelica» viene rinnovato, e la chiesa, fondata già da lungo tempo, viene portata al compimento 5 9 . Il terzo status dunque, attribuito allo Spirito santo, viene addirittura introdotto da un intervento di Cristo, e apporta il compimento della chiesa da lui fondata. Quindi la dottrina dei tre status correlati alla Trinità è senz'altro presente nell'Olivi, ma è depotenziata. Il terzo status non comporta il prevalere di un principio veramente nuovo, ma 11 compimento di ciò «che con l'apparizione di Cristo aveva cominciato a realizzarsi nel mondo» 6 0 . Va inoltre osservato che nell'Olivi la suddivisione dell'intera storia universale nei tre «principales status» non sta, con ogni evidenza, al centro dell'interesse; al contrario, egli annette inequivocabilmente la massima importanza alla periodizzazione dei sette tempi della chiesa dall'avvento di Cristo 6 1 , laddove per questi sette periodi, per i quali Gioacchino usava il termine «tempus», egli sceglie il sostantivo «status» 62 . L'aspetto caratteristico di questa suddivisione in sette status è che con essa il secondo e il terzo status del mondo in qualche modo vengono racchiusi in unità; in tal modo la differenza tra questi due status del mondo perde il suo carattere di principio. Per il resto la suddivisione della storia della chiesa nei sette status fatta dall'Olivi corrisponde largamente alla suddivisione di Gioacchino nei sette tempora. Il primo status è quello degli apostoli; segue lo status dei martiri, poi quello dei doctores. Il quarto status è contrassegnato dalla «vita anachoretica»; la quinta epoca, che comincia sotto Carlo Magno, è quella della «vita communis», nella quale certo da un lato si fa luce uno zelo fervente, ma dall'altro, anche in seguito al possesso temporale di chierici e monaci, si può osservare un adatta
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mento sempre più vistoso alle realtà terrene. Questi cinque status della chiesa corrispondono nel contempo al secondo «principalis status»; infatti col sesto «status ecclesiae» comincia il terzo «status mundi» 63 . Questa nuova epoca della storia universale è aperta in un certo senso da Francesco d'Assisi, che suscita una «renovatio evangelicae vitae»; ma nella sua estensione piena questo sesto status ecclesiae, e quindi il terzo status mundi, comincia con la condanna di Babilonia o della meretrice. Il successivo settimo status ecclesiae, che appartiene ugualmente al terzo status mundi, comincia con l'abbattimento dell'Anticristo 64 . Dunque la sesta e la settima epoca vengono riunite dall'Olivi nel terzo status-, insieme esse costituiscono «quoddam novum et solemne saeculum»65; in esse nasce una «nova Ecclesia», che supera la vecchia, proprio come con l'avvento di Cristo sorse una nuova chiesa e la sinagoga venne ripudiata66. L'Olivi afferma senza mezzi termini che il sesto status sovrasta i cinque precedenti, e rappresenta l'inizio di un nuovo saeculum61. In simili espressioni appare chiaramente la tendenza a mettere in risalto la novità e la pienezza del terzo status nel mondo nei confronti del tempo pregresso, tendenza in certo modo contrastante con lo sforzo dell'Olivi di sottolineare la coerenza intima dei sette status della chiesa, e di presentare il terzo «status mundi» come semplice compimento dell'opera di Cristo. Si deve inoltre accennare ancora al fatto che la suddivisione della storia della chiesa in sette status da parte dell'Olivi mostra alcune differenze nei confronti della suddivisione di Gioacchino in sette tempora. Così il sesto status della chiesa nell'Olivi fa già parte del terzo status del mondo, mentre Gioacchino nella caratterizzazione del sesto tempo evidenzia molto di più il suo carattere di passaggio. Ma soprattutto, facendo cominciare il sesto status in un certo senso con Francesco d'Assisi, che apre il nuovo saeculum, l'Olivi sposta la svolta decisiva nel passato. Il nuovo dunque ha già trovato la sua forma, mentre invece Gioacchino attende nel futuro tutte le innovazioni essenziali. Tuttavia sarebbe un errore attribuire a Olivi la concezione secondo cui con l'avvento di Francesco d'Assisi la nuova età, in tutta la sua ampiezza, sarebbe già diventata realtà. Francesco rappresenta solo l'inizio; egli incarna in un certo qual modo i nuovi princìpi che si imporranno e verranno riconosciuti solo in futuro. Così l'Olivi afferma che il sesto status comincia con Francesco solo «aliqualiter», e subentra pienamente soltanto con l'annientamento di Babilonia 68 . In un altro passo discute addirittura della possibilità di assumere per l'inizio del sesto status quattro diverse date. E ricorda che secondo alcuni Fran-
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cesco e la sua Regola costituiscono il nuovo inizio; altri considerano l'avvento di Gioacchino da Fiore come l'avvenimento decisivo; la terza possibilità è il momento della caduta di Babilonia o della «ecclesia carnalis»; e infine è diffusa anche l'opinione che il sesto tempo sarà aperto da alcuni rinnovatori della Regola di Francesco, in un tempo in cui la Regola sarà disattesa da molti 69 . Perciò è molto importante delineare una panoramica più precisa del corso degli eventi atteso dall'Olivi per quel periodo di sconvolgimenti che inizia con Francesco; laddove bisognerà porre attenzione in particolare a quegli avvenimenti che l'Olivi descrive come annientamento di Babilonia. Per l'Olivi il punto di partenza di tutta la nuova fase di sviluppo è il fatto che l'ordine ecclesiastico alla fine del quinto status versa in una completa decadenza 70 . Soprattutto tre sono i mali che in questo tempo vengono fatalmente alla luce: 1. la laxatio tra i chierici, i monaci e i laici; 2. i movimenti ereticali che per questo si diffondono, e che l'Olivi ricusa nella maniera più netta; 3- la comparsa di ipocriti 71 . L'Olivi si riferisce, con particolare insistenza al primo di questi tre fenomeni di decadenza, ai guasti all'interno del clero e del mondo monastico. Così egli dice che alla fine di questo quinto tempo un «carnalis clerus» guida tutta la chiesa 72 . L'intera evoluzione avrebbe portato a questo: che la chiesa va designata più come Babilonia che come Gerusalemme, più come «synagoga reproborum» che come «Ecclesia Christi»73. Per effetto del prevalere del male la chiesa di questo tempo può essere caratterizzata come «Babylon meretrix»74, o anche come «ecclesia carnalis»; infatti in essa i buoni sono come pochi grani d'oro in uno sterminato mucchio di sabbia, o come pochi granelli di grano in una gigantesca montagna di paglia 75 . Così si spiega come l'Olivi unisca una volta il concetto di «Ecclesia Latinorum» direttamente all'attributo «carnalis», ed esprima l'attesa che presso i greci, i saraceni e i tartari, e persino presso gli ebrei, la conversione ai nuovi princìpi procederà più speditamente che nell'ambito della chiesa romana 76. Questa valutazione davvero radicalmente negativa della chiesa da parte dell'Olivi solleva la questione se per caso egli, analogamente agli eretici di quel tempo, concepisca la chiesa romana nella sua totalità e in quanto istituzione come la «meretrice di Babilonia», e quindi contesti in linea di principio la sua legittimità. L'Olivi cerca con ogni evidenza di evitare questa conseguenza ovvia. Nel contempo si sforza, e ne è convinto, di stare sul terreno della concezione agostiniana, secondo cui nella chiesa visibile, terrena, il bene e il male stanno l'uno
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accanto all'altro, e perciò — anche se il male talvolta dovesse avere il sopravvento in maniera massiccia — la legittimità dell'unica chiesa non va mai messa in dubbio. Ubertino da Casale ha certamente ragione quando, nel suo scritto in difesa dell'Olivi redatto nel 1311, dichiara che costui ha sempre sostenuto che i sacramenti amministrati da preti cattivi, ma ordinati legittimamente, hanno la medesima validità di quelli amministrati da preti buoni 7 7 . Di conseguenza l'Olivi ha sempre riconosciuto Bonifacio Vili come papa legittimo, al contrario di altri francescani spirituali; allo stesso modo, alla fine del suo Commento all'Apocalisse ha esplicitamente pregato in buona fede che la chiesa romana, «cui datum est universale magisterium», nel caso di una sua morte prematura, correggesse quello che di inammissibile ci fosse stato nel suo scritto 78 . Particolarmente significative per questo atteggiamento incline al compromesso da parte dell'Olivi sono anche quelle frasi che Ubertino, nel suo scritto di difesa in favore dell'Olivi, cita testualmente 79 . Secondo tali citazioni Olivi ha dichiarato che la chiesa di Cristo non verrà mai meno sino alla fine del mondo; allo stesso modo sarebbe errato credere che in forza dell'articolazione secondo i sette sigilli l'«ecclesia sanctorum» non sia unica e identica dall'inizio alla fine. In tutti e sette gli status l'«ecclesia electorum» è l'unica chiesa, anche se essa nei diversi tempi ha «variam prolem et varios exercitus». Sempre di nuovo si manifesta dunque lo sforzo da parte dell'Olivi di mantenere le sue concezioni conformi alla dottrina ecclesiastica. Invero la chiesa visibile si è trasformata ampiamente in ecclesia carnalis, ma egli evita consapevolmente una piena identificazione tra le due 8 0 . L'Olivi dunque non avanza le sue istanze di riforma all'indirizzo della chiesa da una visuale esterna all'ordine ecclesiastico, ma si sforza sempre di operare nel quadro della chiesa per un suo rinnovamento. Peraltro a questo proposito bisogna distinguere tra la sua intenzione soggettiva e l'incidenza oggettiva delle sue idee. Si pensi che la sua critica ai guasti nella chiesa è ancora più forte di quella di Gioacchino da Fiore, nei cui scritti un concetto come «ecclesia carnalis» è difficilmente pensabile. Allo stesso modo non si deve mai dimenticare che l'esigenza di un vincolo universale dell'ideale francescano-apostolico di povertà fondamentalmente non era compatibile con la struttura della chiesa feudalizzata. Perciò certo non è stato solo per colpa dei suoi seguaci posteriori, indubbiamente più radicali e meno propensi al compromesso, se il Commento all'Apocalisse dell'Olivi venne definitivamente condannato nel 1326 da papa Giovanni XXII 81 .
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Già si è detto che la svolta, che pone finalmente termine allo sviluppo nefasto delle condizioni ecclesiastiche nel quinto status, viene introdotta da Francesco d'Assisi, che l'Olivi identifica con l'angelo del sesto sigillo, come già avevano fatto Gerardo di Borgo S. Donnino e Bonaventura 8 2 . In antitesi a Gioacchino da Fiore, il cui terzo status introduce uno stato assolutamente nuovo, mai esistito prima, superiore, l'Olivi sottolinea di continuo che l'opera di Francesco in definitiva costituisce solo un rinnovamento del vangelo di Cristo 83 . La regola dei francescani corrisponde a quella «regula evangelica» che Gesù stesso seguì e impose ai suoi apostoli 84 . Vi sono però da superare ancora grandi difficoltà, prima che i princìpi riportati a nuova vita da Francesco si impongano universalmente. In un primo tempo sembra quasi che le potenze del male acquistino ancora più forza. Persino all'interno dell'ordine francescano «acerrimi zelatores carnalis gloriae» entreranno in campo contro i sostenitori degli ideali originari 85 ; la carnalis ecclesia infatti prende piede anche all'interno dell'ordine, il quale è chiamato a rinnovare la chiesa. Il corso degli avvenimenti successivi si svolge — per offrire una panoramica d'insieme — nel modo seguente: dopo scontri interni tra gli stati cristiani compare anzitutto il «mistico Anticristo», dal quale l'intera «ecclesia carnalis» sarà accecata in modo terribile 86 . Poi segue la «destructio» dell 'ecclesia carnalis a opera di dieci re e di un undicesimo re che li capeggia 87 ; infine appare il «grande Anticristo» 88 , con la cui uccisione comincia il settimo status. Per quanto concerne anzitutto il «mysticus Antichristus», l'Olivi vede in lui con ogni evidenza uno pseudo-papa 89 , cui danno appoggio pseudo-religiosi e pseudo-profeti, i quali sono in balìa delle «cupidites» e delle «carnalitates» 90 . A questo proposito significativo per la mutata situazione complessiva è l'accenno fatto dall'Olivi, secondo cui lo pseudo-papa e i suoi seguaci trarranno il loro armamentario spirituale per combattere lo status evangelico non dalla dottrina dei manichei, cioè delle sette catare, come ritenevano i predecessori dell'Olivi. Le dottrine di questa setta sarebbero state confutate chiaramente da Agostino e da altri, e del resto sarebbero così insensate, che potrebbero portare solo pochi fuori dalla retta via. Piuttosto sarà principalmente la filosofia di Aristotele e degli arabi a indurre in errore anche coloro che sono sperimentati tra gli eletti, e a condurli a svalutare la povertà più rigorosa 91 . Perciò lo pseudo-papa, con l'aiuto di simili dottrine filosofiche, scenderà in campo contro l'«evangelica paupertas et perfectio», e farà sì che quasi tutti abbandoneranno il vero papa 9 2 . In questo contesto l'Olivi rimanda alla visione largamente diffusa secon-
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do cui a quel tempo Federico II risorgerà in uno dei suoi discendenti. Egli è destinato a impadronirsi dell'impero, a vincere la Francia, e probabilmente a insediare come pseudo-papa un falso monaco, trasgressore della «regula evangelica»93. Qui l'Olivi si raccorda inequivocabilmente alle attese relative a Federico nella loro formulazione guelfa; secondo tale formulazione il Federico che opprime la chiesa non è il grande imperatore della pace, bensì un alleato dell'Anticristo94. A questo imperatore non viene neppure assegnata la funzione di purificare, in qualche modo senza volerlo, la chiesa con le sue persecuzioni; anzi al suo tempo, e addirittura per mezzo di lui, l'ecclesia carnalis raggiunge l'apice della sua potenza politica. Nella concezione dell'Olivi la caduta e la distruzione dell'ecclesia carnalis avvengono in un modo assai simile a quello della concezione originaria di Gioacchino. Come Gioacchino, anche l'Olivi non assegna all'impero il ruolo di distruttore dell'ordine ecclesiastico superato; sono piuttosto potenze pagane esterne ad annientare l'ecclesia carnalis. A questo proposito anche l'Olivi si riferisce alle visioni di Daniele e dell'Apocalisse sulla bestia con le dieci corna 95 , e crede che il mondo cristiano lacerato da lotte intestine verrà sconfitto da dieci re pagani e da un undicesimo sovrano che li capeggia96. Questi dieci re pagani combatteranno contemporaneamente contro Cristo e i suoi eletti da un lato, e contro la chiesa che ha rinnegato Cristo, cioè contro la meretrix ovvero contro l'ecclesia carnalis dall'altro. La loro vera intenzione, in realtà, è diretta contro Cristo e la fede in lui, che vorrebbero cancellare, e non è affatto diretta, in particolare, alla distruzione dell 'ecclesia carnalis97 ; ma, non volendo, essi contribuiscono, con la loro azione, alla distruzione dell'ecclesia carnalis e al trionfo della vera chiesa. Come Gioacchino, dunque, anche l'Olivi attribuisce la distruzione della chiesa mondanizzata a potenze maligne pagane, le quali solo inconsapevolmente compiono, insieme a molte atrocità, anche qualcosa di utile e di necessario. Anche l'Olivi quindi bolla come pagane e anticristiane le potenze che agiscono con aperta violenza contro l'ecclesia carnalis — un atteggiamento, questo, atto a neutralizzare ogni aperta ribellione contro la chiesa mondanizzata. Dopo l'abbattimento dei dieci re pagani subentra per la chiesa un breve tempo di pace — sia all'interno sia all'esterno —, poiché da un lato «Babilonia», cioè la parte corrotta della cristianità, è indebolita in maniera decisiva, e dall'altro anche la «bestia gentium infidelium» è sconfitta98. Ma subito dopo la bestia si solleverà ancora una volta «de abysso populi infidelis», guidata dal settimo e ultimo re persecuto-
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re nella storia della cristianità. Di nuovo all'interno della cristianità emergeranno molti «terreni et carnales», i quali da pusillanimi diranno: «Se Gesù, che veneriamo, fosse davvero il figlio di Dio, l'oppressione da parte dei popoli pagani, che aveva appena raggiunto lo stadio di pace, non si sarebbe riaffacciata di nuovo con tale violenza». Di fronte a questa pusillanimità ovunque diventeranno attivi falsi cristiani e falsi profeti, e si adopereranno a sedurre perfino gli eletti". In quel tempo a fianco di questo ultimo re persecutore pagano ci sarà di nuovo uno pseudo-papa, il quale è insieme la personificazione del «magnus Antichristus» 10 °. L'Olivi peraltro evita coscientemente di compromettersi in queste questioni specifiche. Così afferma che è diffusa anche l'opinione secondo cui non ci sarà una coesistenza tra un monarca antiecclesiastico e lo pseudo-profeta, ovvero lo pseudo-papa, che si presenta come Anticristo, bensì l'Anticristo diverrà egli stesso monarca, come una volta l'imperatore Giuliano l'Apostata in persona, e si farà adorare come Dio, secondo quanto è predetto dell'Anticristo. A questo passo l'Olivi aggiunge esplicitamente che gli interessa ben poco se quell'Anticristo si presenterà come re, come pseudo-papa o come l'uno e l'altro insieme 101 . In tutti questi avvenimenti, al centro dell'interesse dell'Olivi sta il destino di quel gruppo di minori che rimangono fedeli all'eredità di Francesco. Egli è convinto che la loro forza, nonostante tutte le persecuzioni e le sofferenze, crescerà; anzi queste persecuzioni sono addirittura necessarie, per elevare la verità della regola evangelica e farla irradiare con maggiore luminosità 102 . L'Olivi — seguendo una tradizione francescana più antica — ritiene assolutamente possibile, anche se non certo, che in mezzo all'afflizione provocata dall'Anticristo mistico, quando la pressione di Babilonia sui frati minori irriducibili sembrerà al culmine, e la Regola, così come lo status di Francesco, in qualche modo verrà messa in croce, come una volta Cristo, Francesco risorgerà 103 , per dare forza ai suoi. Nel tempo successivo, tra l'avvento dell'Anticristo mistico e quello del grande Anticristo, l'«ordo evangelicus et contemplativus», rimasto fedele senza riserve alla memoria di Francesco, riesce già a intensificare la sua attività di predicazione tra i popoli pagani 104 . In questo modo alla fine quasi tutto il mondo si convertirà alla fede cristiana; i greci, i saraceni, i tartari e gli ebrei aderiranno all'unica chiesa di Cristo 105 . L'Olivi non dà adito a dubbi sul fatto che in questo tempo venturo l'«ordo evangelicus» avrà il ruolo di guida all'interno della chiesa. Egli paragona questo «ordo» sorto nel sesto status della chiesa all'uomo creato nel sesto giorno della creazione, che è creato a imma-
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gine di Dio, e al quale devono essere soggetti la terra e tutti gli animali. Allo stesso modo anche questo nuovo ordine sta al di sopra di tutti gli ordini sorti nel quinto tempo precedente 106. In queste attese emerge ancora una volta l'idea di una chiesa costituita e guidata secondo i princìpi e le esigenze dei francescani rigorosi. Ma di nuovo l'Olivi attenua queste attese con l'affermazione, aggiunta subito di seguito, che anche questo nuovo ordine è suddiviso in prelati e «collegium subditorum» 107 , sicché si apre la possibilità di far assorbire il nuovo ordine, senza eccessive rotture, nella costituzione tradizionale della chiesa. Il settimo status, che è così diventato realtà, porta poi in qualche modo una precoce partecipazione tranquilla, pacifica e meravigliosa alla gloria del Regno di Dio dell'aldilà, proprio come se la Gerusalemme celeste fosse scesa sulla terra 108 . Si schiuderà il senso della Scrittura come mai si è verificato 109, e quella grande visione di pace del capitolo 2 di Isaia diventerà realtà 110 . In questo contesto va rilevato che l'Olivi avanza alcune ipotesi e fa alcuni accenni sulla durata del terzo status del mondo. In proposito Gioacchino aveva detto solo che il terzo status sarà molto breve, e quindi avrà in senso pieno il carattere di un tempo finale. Anche l'Olivi sottolinea che da questo punto di vista niente è più sicuro della certezza che dal sesto status della chiesa al tempo del giudizio finale la distanza non è più molta 111 . Tuttavia in questo passo egli fa riferimento alla concezione, sostenuta da altri e forse esatta, secondo cui il silenzio di mezz'ora, ricordato dall' Apocalisse, al momento dell'apertura del settimo sigillo va interpretato nel modo seguente: siccome da Cristo fino all'avvento dell'Anticristo sono passati 1300 anni, il settimo status che poi segue, status di perfezione e di pace — in corrispondenza del silenzio di mezz'ora — durerà solo la metà di questo tempo, dunque circa sei-sette secoli 112 . Peraltro l'Olivi evita di far propria una di queste opinioni, e si accontenta di constatare che noi non sappiamo quale periodo esattamente debba indicare questo silenzio di mezz'ora che subentra all'apertura del settimo sigillo. Di sicuro c'è soltanto che il tempo del settimo sigillo sarà più breve del tempo complessivo della chiesa 113 . Tuttavia questa espressione induce a credere che l'Olivi non considerasse il settimo status solo come una breve pausa prima dell'imminente giudizio finale, ma fosse incline ad attribuirgli una certa durata, e quindi anche un corrispondente peso autonomo. Pure in un altro passo egli accenna al fatto che il tempo dalla caduta della ecclesia carnalis sino alla fine del mondo deve essere sufficientemente lungo per
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poter convertire tutto il mondo, soprattutto gli ebrei. Inoltre l'ultimo status del mondo necessita di una durata anche perché esso pure avrà il suo mattino, mezzogiorno, sera, e infine la sua notte; in quest'ultima l'ingiustizia assumerà di nuovo tali proporzioni, che Cristo sarà costretto anche per questo ad apparire per il giudizio finale. Quindi anche il terzo status del mondo ha la sua continua evoluzione, la quale dopo l'ascesa e la fioritura conduce alla decadenza e quindi alla fine del mondo 1 1 4 . Di fronte a queste considerazioni dell'Olivi intorno al terzo status del mondo sorgono dubbi sulla conclusione di Manselli, secondo cui l'Olivi nella sua interpretazione degli ultimi tempi del mondo avrebbe completamente abbandonato il modello di Gioacchino, per ritornare in pieno alla dottrina di Agostino 1 1 5 . Di sicuro per l'Olivi il terzo status del mondo è inserito molto più che per Gioacchino nella storia unitaria della chiesa di Cristo; ma questo non cambia per nulla il fatto che l'Olivi — in posizione diametralmente opposta ad Agostino — dopo l'avvento dell'Anticristo attende il trionfo di un «novum saeculum», nel quale la chiesa raggiungerà uno stadio di perfezione, e agli uomini saranno concesse la pace e una «gustativa et palpativa experientia» della verità divina, oltre la conoscenza fino ad allora raggiunta 116 . Questa panoramica sulle dottrine fondamentali dell'Olivi ci mostra la figura tipica di un francescano convinto, il quale spera appassionatamente in una realizzazione dei suoi ideali e, per questa via, in una purificazione e guarigione della chiesa mondanizzata, ma nonostante tutte le critiche a questa chiesa non riesce mai a trarre la conseguenza di separarsene risolutamente 117 . L'indecisione e la propensione al compromesso risultanti da tale atteggiamento affiorano in lui molto più chiaramente che in Gioacchino, per il semplice motivo che questi aveva spostato nel futuro tutti gli eventi decisivi. Piuttosto, per l'Olivi la svolta era già iniziata da tempo, e i portatori del nuovo, già attivi, avevano continui conflitti con la chiesa, la quale da parte sua — all'opposto dell'Olivi — aveva riconosciuto molto bene che l'ideale francescano senza riserve era in definitiva incompatibile con la chiesa feudalizzata. Pertanto sulla base della situazione storica complessiva l'Olivi, ben più di Gioacchino, si trovò di fronte al compito di trarre decisamente le conseguenze, e proprio di questo egli non fu capace 1 1 8 . Per tale motivo è estremamente indicativa del suo atteggiamento complessivo la dottrina dell'Olivi, che emerge con particolare chiarezza nella lettera ai figli di Carlo II, circa la necessità e l'inevitabilità della sofferenza. Egli non poteva fare altro, in quella situazione assai tesa, che corroborare i sostenitori dell'ideale francescano originario nella
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loro perseveranza e nella loro capacità di sopportare pazientemente persecuzioni e sofferenze, nella consapevolezza che il nuovo può dischiudersi solo dal travaglio e dall'afflizione 119 . È indubitabile che le visioni dell'Olivi erano atte a corroborare gli spirituali francescani nella loro perseveranza; ma allo stesso modo si deve sottolineare con forza che alla sua dottrina nella sua forma originaria manca ogni efficacia mobilitante 120. Questo giudizio limitativo non viene ribaltato neppure osservando che le prospettive espresse dall'Olivi, soprattutto nel Commento all'Apocalisse, successivamente determinarono in maniera decisiva le visioni dei beghini eretici nel sud della Francia 121 . Infatti in tale contesto le dottrine dell'Olivi hanno comunque subito considerevoli trasformazioni e un inasprimento semplificante; inoltre questo movimento mostra un carattere assolutamente pacifista-passivo. L'incidenza dell'Olivi quindi consiste principalmente in questo, che egli molte volte espresse intuizioni, assai facilmente interpretabili — ma contro la sua intenzione — in senso ereticale. Così egli stesso, a dire il vero, ha senz'altro riconosciuto Bonifacio Vili come papa legittimo, ma nel contempo nelle Quaestiones de perfectione evangelica constata che non bisogna obbedire ai comandi papali contrari allo «status evangelicus», e non è valida una scomunica papale comminata a questo proposito 122 . In fondo i beghini del sud della Francia hanno agito di conseguenza. Infine non si potrà negare all'Olivi, soprattutto su un altro punto, un influsso certo non voluto, ma indubbiamente gravido di conseguenze, cioè quello esercitato dalla sua dottrina circa l'ecclesia carnalis. Certo l'Olivi fa uso di tutto il suo acume intellettuale per escludere una piena identità tra la ecclesia carnalis e la chiesa romana visibile; ma queste distinzioni erano troppo difficili per la massa dei suoi uditori e lettori, ed era perciò addirittura inevitabile che ben presto i suoi seguaci identificassero largamente questi due concetti, e infine considerassero la chiesa esistente di fatto, fino al papa compreso, come «ecclesia carnalis». Un ulteriore approfondimento delle attese dell'Olivi circa il futuro non è opportuno in questa sede, dato che un altro spirituale francescano di rilievo, Ubertino da Casale, si basa completamente sulle idee dell'Olivi, e nel suo Arbor vitae crucifixae Jesu del 1305 ne riprende le argomentazioni, in qualche parte addirittura parola per parola 1 2 3 . Pertanto mi sia consentito di trattare qui subito delle idee di Ubertino; infatti, nonostante la sua larga dipendenza dall'Olivi, l'Arbor vitae di Ubertino, e specialmente il quinto libro di quest'opera dedicato alla teologia della storia, merita una considerazione più approfondita, per-
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che Ubertino, per quanto le linee di fondo delle sue attese circa il futuro concordino con quelle dell'Olivi, mette in correlazione il suo schema storico con l'accadere storico presente, in modo diverso e più coerente. Mentre l'Olivi, che risiedeva nel sud della Francia, assume una collocazione originale all'interno della corrente spiritualistica nell'ordine francescano, Ubertino si radica molto di più nella tradizione vivente del grande, e in definitiva influente, gruppo italiano di spirituali. Si spiegano così anche molte delle particolarità presenti nelle vedute di Ubertino, nonostante la dipendenza dall'Olivi. Un indice esteriore del fatto che Ubertino è radicato molto più direttamente dell'Olivi nelle tradizioni, risalenti molto indietro nel XIII secolo, degli zelatori della causa della povertà nell'Italia centrale è, per esempio, il fatto che egli, a differenza dell'Olivi e in accordo con gli ideali francescani originari, rifiuta nettamente lo studio della teologia 124 . Allo stesso modo la sua critica esplicita a papa Nicolò III, il quale con la bolla Exiit qui seminai del 1279 aveva espressamente concesso delle facilitazioni nei confronti della Regola originaria di Francesco, è tipica dell'atteggiamento degli zelatori della causa della povertà tra i francescani italiani 125 . Le idee di Ubertino sulla decadenza della chiesa alla fine del quinto status, come pure sul ruolo storico dell'ordine francescano, fondamentalmente concordano con quelle dell'Olivi 126 ; d'altra parte la sua interpretazione delle figure dei persecutori anticristiani presenta notevoli particolarità. Come l'Olivi, anche Ubertino conosce un «Antichristus misticus» e un «Antichristus apertus» che gli succede. L'Anticristo mistico si presenta in due figure, che corrispondono a quella della «bestia ascendens de mari» e a quella della «bestia ascendens de terra» dell' Apocalisse (13,1 e 11). Ora è decisivo il fatto che Ubertino osa identificare le due incarnazioni dell'Anticristo con papi universalmente conosciuti. La «bestia ascendens de mari» indica inequivocabilmente papa Bonifacio Vili 1 2 7 . L'indicazione dell'Apocalisse, che una delle sette teste di questo mostro appare ferita a morte, rimanda, secondo Ubertino, o al fatto che i due cardinali Colonna avevano dichiarato apertamente che Bonifacio Vili non era stato eletto canonicamente, perché il suo predecessore, Celestino V, viveva ancora, e le sue dimissioni — in quanto provocate con «malitia et fraude» — erano invalide; oppure d'altra parte la ferita mortale di una testa poteva alludere anche — così ritiene Ubertino — alla condotta del re di Francia Filippo il Bello, il quale in questo caso si sarebbe dimostrato un vero lottatore di Cristo («pugil Christi»)128. Su tale questione dunque Ubertino condivide l'opinione di quei francescani spirituali che non rico-
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noscevano l'abdicazione di Celestino V, loro protettore, e contro i quali l'Olivi si era rivolto con una critica energica nella sua lettera a Corrado di Offida 129 . Anche al successore di Bonifacio Vili, papa Benedetto XI (1303-04), Ubertino nega il riconoscimento; infatti questo papa è la seconda incarnazione dell'Anticristo mistico; egli corrisponde alla «bestia ascendens de terra». Membro dell'ordine domenicano, egli è uno di quei numerosi monaci che aspirano a dignità ecclesiastiche 13°. Mentre Bonifacio Vili era un «apertus vastator», costui è un «callidus et timidus simulator» 1 3 p e r c i ò è tanto più difficile scoprirlo, e quindi tanto più pericoloso 132. Con l'identificazione di papi universalmente riconosciuti con l'Anticristo Ubertino fa inequivocabilmente un passo considerevole oltre l'Olivi. Ciò significa che egli, come altri spirituali francescani, rifiuta apertamente l'obbedienza a questi papi, e quindi sta senza dubbio sulla soglia dell'eresia. Tuttavia anche Ubertino, pur procedendo oltre l'Olivi, evita le conseguenze ultime. Anche per lui l'«ecclesia carnalis», che egli denota insieme come «nova Babylon» e come «meretrix magna»133, non è del tutto identica con l'intera chiesa romana 134 . Allo stesso modo evita di distinguere troppo nettamente la chiesa del terzo status del mondo da quella del secondo. Egli dice sì che l'ecclesia contemplativa del settimo status, in conseguenza dell'eccesso di contemplazione, otterrà dallo Spirito di Cristo ogni verità necessaria alla salvezza «absque mysterio exterioris vocis et libri»; ma nel contempo sottolinea con vigore che ciò non va inteso come se fossero destinati a venir meno qualsiasi uso «exterioris doctrine scripture» e la validità dei sacramenti. Semplicemente ci si potrà accontentare di meno libri e di meno parole di quanto finora sia accaduto 135 . Allo stesso modo delle sacre Scritture o dei sacramenti, che non perderanno il loro significato, anche il papato non verrà meno nel terzo status del mondo. Dopo l'Anticristo mistico e quello aperto Ubertino attende un «summus pontifex» esemplare, il quale viene simboleggiato dal potente angelo che scende dal cielo del capitolo 18 dz\\'Apocalisse136. Peraltro egli ritiene probabile che allora il centro della chiesa non sarà più Roma, ma Gerusalemme 137. Del resto dalle considerazioni di Ubertino emerge, ancora più chiaramente che da quelle dell'Olivi, che il principio dominante deìì'ecclesia contemplativa futura sarà la povertà evangelica, che gli apostoli vissero per primi, e che con Francesco e la sua Regola fu risvegliata a nuova vita. Egli richiama espressamente l'attenzione sul fatto che a quel tempo lo Spirito santo permise agli apostoli di riconoscere che
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lo status della perfezione evangelica non è subito applicabile alla massa. Invece, una diffusione più ampia della «perfectio vite Christi» è riservata al terzo status del mondo, nel quale la chiesa nel suo insieme godrà della «vita Christi»138. Peraltro anche nel sesto status della chiesa la guida delle anime non deve ancora essere affidata subito allo «status paupertatis», risvegliato con Francesco a nuova vita; esso al contrario deve prima essere messo alla prova in tutta umiltà con la sofferenza. Ma quando in questo modo si conseguirà la sicurezza che coloro che appartengono allo «stato di povertà», dunque palesemente i francescani fedeli alla memoria di Francesco, non cadranno mai nella presunzione, verrà loro affidata anche la guida di tutta la chiesa 139 . Queste parole mostrano con ogni evidenza che in quel tempo venturo di perfezione e di pace, in cui tutte le guerre cesseranno 14°, sostenitori dell'ideale francescano di povertà assumeranno la guida della chiesa 141 . Per quanto dunque Ubertino metta continuamente in evidenza l'intima connessione spirituale tra la chiesa del secondo status del mondo e quella del terzo, e sempre richiami l'attenzione sul fatto che la trasformazione futura è solo una «renovatio» della «vita Christi»142, tuttavia si deve dire che la realizzazione delle sue rivendicazioni di riforma avrebbe mutato profondamente la struttura dell'intera chiesa. D'altra parte non si può dimenticare che qui ancora una volta parla un monaco palesemente estraneo alla vita sociale reale, al quale interessa pressoché esclusivamente la purezza della chiesa e che di conseguenza non si dà pensiero di vedere fino a che punto anche la società secolare sia bisognosa di riforma. Egli manifesta senza esitazione l'opinione secondo cui Dio anche nel Nuovo Testamento avrebbe ammesso lo «status divitum, regum, principum et baronum» 143 . Siccome per Ubertino non si può parlare di un superamento almeno parziale del Nuovo Testamento nel terzo status del mondo, tutto lascia credere che questo principio dell'ammissione dei ricchi e dei prìncipi sarà valido anche in seguito. Evidentemente egli crede che con l'assunzione della guida spirituale e della cura dell'umanità da parte di «ecclesiastici» esemplari che vivono secondo i princìpi evangelici, ogni ingiustizia e ogni miseria verrà rimossa. Dunque sia in Ubertino sia nell'Olivi troviamo idee e attese che, come quelle di Gioacchino da Fiore, sono cresciute sul terreno del monachesimo, e hanno continuato a incidere sostanzialmente su quel terreno; infatti anche il movimento laicale dei beghini nella Francia meridionale sta in strettissimo contatto con il francescanesimo, e si mantiene largamente nel solco degli ideali monastici. Tipici di questo
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universo rappresentativo sono lo sforzo di rimanere nell'ambito della chiesa, nonostante tutta l'asprezza della critica, lo sguardo rivolto in maniera del tutto unilaterale ai problemi meramente ecclesiastici, come pure un atteggiamento passivo. I distruttori dell 'ecclesia carnalis sono potenze pagane esterne, e ai portatori e agli annunciatori del nuovo incombe solo il compito di perseverare pazientemente e fermamente in tutte le persecuzioni e le sofferenze, finché non si siano compiuti gli eventi che si svolgono secondo il piano salvifico previsto da Dio 144 . Manca la volontà di combattere energicamente la vecchia ecclesia carnalis condannata a perire. Sebbene le idee degli eretici per molti aspetti mostrino in assoluto debolezze simili a quelle delle idee dell'Olivi o di Ubertino, tuttavia bisogna evidenziare che questi due celeberrimi francescani spirituali sono ancora molto lontani da concezioni veramente ereticali. Essi evitano una conseguente separazione dalla chiesa; inoltre non si può dire in alcun modo che la loro chiesa ideale del futuro esibisca tratti veramente popolari, «democratici». Alla chiesa governata dal clero subentra piuttosto una chiesa la cui guida è nelle mani di una élite che vive secondo i principi monastici-evangelici. È pertanto significativo che perfino il più radicale degli spirituali francescani di cui si è parlato qui, cioè Ubertino, abbia contribuito in maniera essenziale alla scoperta e alla condanna della setta dello Spiritus libertatis in Umbria nel 1307 145. Indicativa dello sforzo degli spirituali di non scuotere le posizioni della chiesa attuale nelle sue fondamenta, è la valutazione della Donazione di Costantino, che per i veri eretici costituiva sempre il punto di partenza di un'evoluzione nel senso della corruzione, mettendo perciò in forse la legittimità della chiesa romana. Al contrario, l'Olivi e Ubertino giudicano del tutto diversamente l'epoca di Costantino. Nel contesto dell'interpretazione circa l'accenno dell' Apocalisse all'incatenamento di Satana per mille anni essi dichiarano concordemente che 10 si potrebbe riferire a tre avvenimenti; in primo luogo alla morte di Cristo, in secondo luogo al tempo di Costantino, in terzo luogo alla morte dell'Anticristo all'inizio del settimo status della chiesa146. 11 tempo di Costantino quindi viene considerato senza esitazione come uno dei punti culminanti della storia della chiesa, come un tempo in cui l'attività dell'Anticristo venne talmente limitata grazie all'«expulsio idolatrie», che essi credono di poter riferire anche a quel tempo il passo del l'Apocalisse sull'incatenamento di Satana. Come emerge da altre considerazioni di Ubertino, la decadenza dell'ordine ecclesiastico e l'abuso di ricchezze temporali da parte di chierici e monaci ha inizio solo dal 1000 circa147.
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Del resto questa interpretazione dell'incatenamento millenario di Satana è molto interessante anche per la valutazione del rapporto tra la visione del futuro dell'Olivi e di Ubertino, e il millenarismo del cristianesimo antico. Ammettendo entrambi la possibilità che quel periodo in cui Satana è legato sia identico al settimo status venturo, si collocano entrambi dal medesimo punto di vista dei millenaristi del cristianesimo antico. Ma siccome essi nel contempo sottolineano, come Gioacchino, che si potrebbe mettere in correlazione l'incatenamento di Satana anche con la morte e la resurrezione di Cristo, insieme affermano la concezione tradizionale di Agostino, e mettono in ombra, più che altro inconsapevolmente, il fatto che la loro attesa di un settimo status di perfezione già sulla terra è in fondo radicalmente contrapposta alla visione della storia di Agostino. Finora in questo capitolo si è parlato anzitutto, in maniera un poco più diffusa, dei rappresentanti più eminenti e di primo piano dell'ala radicale-spirituale all'interno dell'ordine francescano, cioè Angelo Clareno, l'Olivi e Ubertino. Sarebbe tuttavia errato supporre che essi con le loro concezioni assumessero una posizione particolare. Al contrario, dietro di loro c'era una schiera assai numerosa di frati minori con le stesse opinioni. Essi erano molto numerosi negli eremitaggi del centro Italia, ma anche nella Francia meridionale; in Provenza le dottrine dell'Olivi caddero su un terreno fertile. Già nel 1290 vi dovettero essere prese misure contro seguaci radicali dell'Olivi 148 , i quali in parte probabilmente andavano anche oltre le sue dottrine l 4 9 . Qui dunque ci interessano non solo tre personalità isolate; si tratta al contrario di una corrente assai considerevole all'interno dell'ordine minorità; da essa, accanto alle opere di Clareno, dell'Olivi e di Ubertino, è scaturito anche un numero assai considerevole di scritti anonimi. Per offrire un quadro in qualche modo ampio e completo delle tendenze di tale movimento spiritualistico, è perciò necessario prestare attenzione alle concezioni di questi scritti pieni di speranze di riforma, nella misura in cui essi siano accessibili mediante edizioni o indagini critiche. In tale contesto bisogna considerare anzitutto uno scritto profetico che nella sua tendenza mostra indubbiamente molte somiglianze con la letteratura francescano-spiritualistica, anche se non è stato definitivamente chiarito se questa composizione appartenga all'ambito di quella letteratura, perché la sua provenienza è ancora incerta. S'intende parlare dell'Oraculum angelicum, circolante sotto il nome di Cirillo, il terzo generale dell'ordine carmelitano, e al quale è aggiunto un commento attribuito a Gioacchino 15°.
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Per la classificazione di questo scritto profetico è ovviamente importante stabilire quando ha avuto origine. Per chiarire tale questione bisogna tenere presente anzitutto che YOraculum angelicum viene citato per la prima volta in un trattato di Arnaldo di Villanova composto nel 1302-03 151. Del resto soprattutto il capitolo quarto di questo scritto, per molti versi peraltro assai difficile da interpretare, risulta correlatale senza eccessive difficoltà con i fatti storici. In tale capitolo vengono descritti inequivocabilmente i conflitti tra la casa aragonese e gli Angiò per la Sicilia. Si allude al duello, organizzato nel 1283 ma non avvenuto, tra Carlo I d'Angiò e Pietro di Aragona 152 . Di seguito vengono ricordati l'imprigionamento di Carlo II nel giugno 1284, la morte di Carlo I nel gennaio 1285 e il decesso di Pietro d'Aragona nell'autunno inoltrato del 12 85 153. Dopo l'indicazione successiva, che i figli di Pietro in un primo momento continueranno a tenere prigioniero Carlo II, alla fine si annuncia anche che un giorno l'Angiò prigioniero sarà lasciato libero 154. Ciò avvenne nell'ottobre del 1288 155. Peraltro le ultime parole su questi avvenimenti sono difficilmente interpretabili nello specifico, sicché in ogni caso è pensabile che l'oracolo sia stato scritto ancora poco prima dell'effettiva liberazione di Carlo II, dunque intorno al 12 87 156. Tuttavia ciò che interessa non è la datazione di tutto l'oracolo sulla sola base delle indicazioni facilmente identificabili del capitolo quarto. I capitoli successivi contengono accenni assai palesi ad avvenimenti posteriori. Così le considerazioni fatte all'inizio del capitolo sesto vanno sicuramente riferite al lungo conclave di Perugia del 1293-94 157, che si concluse con l'elezione di Celestino V, il «papa angelico». Questo papa, molto apprezzato dall'autore dell'oracolo, appare con gli appellativi di «Robeam», «ursus mirabilis» o «flos» 158 . A questo papa che risvegliava la speranza vengono rivolte le parole: «Robora lacertos»; egli non deve essere «micropsychos in proposito», «sis tu ductor, non ductus!»159. Queste esortazioni si adattano perfettamente al comportamento di Celestino V, il quale, nonostante la sua buona volontà, a causa della sua inesperienza, fu completamente soggetto a influssi estranei, e perciò non fu veramente un «ductor», ma un «ductus» l60 . Nel successivo settimo capitolo si racconta poi che «Jerobeam», l'avversario di «Robeam», il papa angelico, raggira questo suo predecessore giusto, per giungere egli stesso «ad palmam orbis» 161 . Secondo il commento Geroboamo designa uno «pseudopontifex» che induce l'«ortopontifex» ad abbandonare il suo ufficio 162. Sono chiare allusioni alla rinuncia di Celestino V, a provocare la quale il cardinale Benedetto Gaetani, il futuro Bonifacio VIII, di fatto non era stato del tutto
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estraneo l63 , sicché si può stabilire senza timore che l'oracolo può essere stato composto non prima della rinuncia di Celestino V. Significativa per la tendenza, e quindi anche per la provenienza, delVOraculum angelicum è infine l'accusa rivolta a questo falso papa di aver distrutto ciò che il suo predecessore aveva creato l64 . Questa affermazione viene spiegata dal commento pseudogioachimita nel senso che lo pseudopontifex cercò di abolire le concessioni e i privilegi accordati dal suo predecessore, attribuendone la responsabilità alla sua «stultitia». È evidente che con quei privilegi revocati si intendono soprattutto le disposizioni di Celestino V a favore degli spirituali francescani che si raccoglievano intorno a Liberato, dichiarate non valide da Bonifacio Vili l 6 5 . Questo potrebbe essere considerato come un indice che l'autore o gli autori dell' Oracolo di Cirillo vanno cercati in questi circoli francescani. Infine importante per stabilire il tempo di composizione di questo scritto è la frase: «Tune Gallus cum Vulpe soliti dimicabunt, donec medii paranymphi ambos sedent cum aliis prout poterunt» l 6 6 . È un'allusione alla lotta, scoppiata nel 1294, tra il re di Francia e il re d'Inghilterra, nella quale Bonifacio VIII intervenne come paciere. Egli inviò a questo scopo due cardinali legati, che nell'oracolo vengono designati come «paranymphi»> 67 . Siccome le parole della profezia alludono a una fine della contesa ottenuta in questo modo, e di fatto nel 1297 ci fu un armistizio l 6 8 , si può concludere che queste predizioni non furono scritte prima del 1297. Perciò molti indizi sono a favore dell'ipotesi di Piur, che purtroppo nello specifico non è motivata più in dettaglio, secondo cui l'Oracolo di Cirillo fu scritto «nel 1298 o subito dopo» l 6 9 . Del tutto incerto invece rimane il tempo di composizione del Commento. Piur, sulla base di una indicazione di Arnaldo di Villanova che va fatta risalire al 1304, sostiene che il commento pseudogioachimita fu scritto al più presto nel 1304 170 . Tuttavia l'accenno in questione di Arnaldo a una persona che avrebbe mirabilmente dischiuso il senso dell 'Oracolo non è tale da chiarire il tempo di composizione del Commento-, infatti che questa persona debba essere identica all'autore del commento è una ipotesi troppo vaga. In ogni caso molti indizi inducono a ritenere che il Commento sia stato scritto poco dopo la composizione dell' Oracolo, tanto più che non vengono date interpretazioni su avvenimenti successivi, e anche per il Commento la questione della legittimità di Bonifacio Vili sta palesemente in primo piano. Indicativa per la tendenza sia dell'Oracolo sia del Commento è la dura presa di posizione contro Bonifacio Vili, il quale viene parago-
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nato a Geroboamo, e quindi viene bollato come papa illegittimo. In questo contesto quindi si parla addirittura di uno scisma all'interno della chiesa 171 . Questo atteggiamento depone contro l'ipotesi di Piur, che l'Oracolo sia sorto nella cerchia dell'Olivi 172 ; questi infatti non ha mai messo in dubbio la legittimità di Bonifacio Vili. Perciò più verosimile è l'ipotesi che l'autore dell 'Oracolo e del Commento sia da ricercare nei circoli spirituali italiani. Anche molti altri indizi depongono a favore dell'ipotesi che probabilmente l'Oracolo e sicuramente il Commento pseudogioachimita abbiano avuto origine nei circoli francescano-spirituali. Così la netta avversione ai prelati, tipica dei francescani estremisti, emerge senza mezzi termini. Ad essi nel commento viene rinfacciato di addossare ai «simplices et minores» pesi insopportabili, mentre loro stessi conducono una vita ricca di piaceri 173 . L'annuncio dell 'Oracolo, secondo cui la colomba che nidifica «in corona» se ne vola via 174 , viene così interpretato dal commentatore: la «corona» indica la tonsura degli ecclesiastici e quindi il corpo ecclesiastico in generale; lì ha originariamente nidificato la colomba, che incarna lo Spirito santo; ma adesso vi si sono stabiliti l'immonda upupa, il rapace falco, il vorace avvoltoio e il lussurioso passero 175. In un altro passo il Commento rileva che il popolo cristiano ha dotato la chiesa di beni temporali per sostenere i poveri e incrementare il servizio religioso, non per costruire torri e castelli fortificati, o per arricchire i parenti degli alti dignitari ecclesiastici. Cristo si è consegnato ai suoi nemici senza opporre resistenza, invece i chierici col denaro offerto per il sangue di Cristo, cioè per i sacramenti, raccolgono forze per fare guerre 176. Soprattutto il capitolo undicesimo dell' Oracolo di Cirillo è totalmente caratterizzato dalle prospettive e dagli interessi dei francescani sostenitori radicali della causa della povertà. Qui vengono stigmatizzati i fenomeni di decadenza all'interno del monachesimo, laddove con l'espressione riguardante le «mulieres excisae de petra durissima vallis Virginis» 177 bisogna intendere chiaramente la maggioranza lassista dell'ordine francescano; infatti la «petra durissima» designa — secondo il Commento — il fondatore dell'ordine, «qui erit sanctus constans, et firmus ut petra in timore Dei» 178 . Seguono poi le lamentele, assolutamente tipiche dei francescani spirituali, contro la decadenza dell'ordine dagli ideali originari. La pristina purezza dell'ordine è stata offuscata «pedetentim muscarum stercoribus et viarum pulveribus» 179 . Mentre le espressioni dell' Oracolo spesso sono molto difficili da interpretare, il Commento presenta allusioni molto chiare alle questioni controverse all'interno dell'ordine francescano. Così a quei monaci lassisti viene
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rinfacciato di impadronirsi delle offerte che propriamente spettano ai poveri, agli ignudi, ai malati e ai vecchi abbandonati, in quanto sostengono di superare tutti nell'indigenza — un palese riferimento allo sfruttamento ipocrita dell'ideale di povertà da parte dei francescani mondanizzati. Essi avanzano la pretesa di essere indigenti addirittura «ultra formam apostolorum», perché secondo loro non possederebbero nulla né in comune né singolarmente 180 . In conclusione, il Commento attacca in un certo senso lo stesso principio del mendicare in quanto tale; Dio preferisce gli uomini che vivono del proprio a quelli che si nutrono di beni altrui 181 . In tale contesto esso rimanda alle parole del salmo: «Ti nutrirai del lavoro delle tue mani; beato te, tu sei felice» 182 . Queste indicazioni contraddicono in modo flagrante la prassi che allora era divenuta corrente all'interno degli ordini mendicanti. Infine nel Commento troviamo anche la lamentela, sollevata reiteratamente dagli spirituali, che i monaci vanno a caccia di quanto spetta ai chierici e agli altri dignitari ecclesiastici 183 , che ambiscono alle dignità ecclesiastiche e che rivendicano a sé il diritto di sepoltura spettante al clero secolare 184 . Indicativo della problematica allora ricorrente nell'ordine francescano è anche un accenno fatto nel capitolo settimo dell' Oracolo e nel commento corrispondente. Commentando la frase: «Tunc palam fieri inibunt filii lapidis insecabilis»185, la «lapis insecabilis» viene equiparata alla «petra durissima» già ricordata, dunque a Francesco, sicché con i «filii lapidis insecabilis» si devono intendere i francescani. Si profetizza che tra costoro, specialmente quelli che sono decaduti dalla regola originaria, comincerà un grande lamento, e invero «ex scissura aliqua quam intra se patientur». Deve dunque verificarsi una scissione dell'ordine, nella quale coloro «qui perfectioris cordis extiterint» si separeranno 186 . Questa è certamente un'allusione alla separazione, concessa da Celestino V, del gruppo di spirituali che si raccoglieva intorno a Liberato, la quale nella maggioranza dell'ordine suscitò grande indignazione. Le considerazioni precedenti dovrebbero aver chiaramente mostrato in quale misura le rappresentazioni e i problemi degli spirituali francescani pervadano questo scritto, in particolare il Commento pseudogioachimita. Sorge pertanto spontanea la domanda, in che misura le attese del futuro influenzate dal gioachimismo, molto diffuse in questi circoli, ossia le speranze in una riforma delle condizioni ecclesiastiche e in un inizio di un'età nuova, migliore, abbiano trovato accesso in questo scritto. In proposito si deve dire fin da principio che la dottrina caratteristica di un terzo status o di una settima età, così come
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risulta sostenuta dall'Olivi e da Ubertino in riferimento a Gioacchino, non è riconoscibile né nell'Oracolo di Cirillo né nel Commento pseudogioachimita. Ma questo non cambia nulla del fatto che l'attesa di una ampia riforma della chiesa e la speranza di un rinnovamento interiore del mondo vengono espresse molto chiaramente. Ciò vale anche per il testo, spesso oscuro, talvolta addirittura incomprensibile, dell' Oracolo stesso, nel quale in un passo si dice molto chiaramente: «Innova, Domine, innova domum tuam ethnicam et pollutam!» 187 . Ancora più chiaramente il commento esprime l'attesa che sulla chiesa incomba una «ruina vel calamitas», con cui il loglio verrà separato dal grano. In altre parole trascorso il periodo di altri quattro papi dopo «Jerobeam», cioè dopo Bonifacio Vili, subentrerà nella chiesa una «novitas non parva», per cui molti uomini degni di riprovazione verranno puniti, mentre i giusti e gli umili verranno finalmente innalzati188. Nel quadro di simili attese circa il futuro rientra appieno anche l'ipotesi che gli ebrei, illuminati dall'«intellectus spiritualis», si convertiranno al cristianesimo 189 . Si ripropone quindi ancora una volta la domanda circa il modo e i mezzi con cui, nella visione dell' Oracolo ovvero del commentatore, debba essere preparato questo rinnovamento della chiesa. In tale contesto viene considerato decisivo il fatto che la chiesa è destinata a perdere le sue ingenti ricchezze temporali e i suoi diritti di sovranità. Ciò viene chiaramente accennato già nell'Oracolo, con le parole: «Rape plurima, virgo deliciosa, quia novissime rapieris et tu». La chiesa (infatti con «virgo deliciosa» si intende senza dubbio la chiesa) può rubare finché vuole, cioè impadronirsi di beni e diritti che non le spettano, tanto alla fine anch'essa sarà a sua volta inevitabilmente privata di tutto, e dovrà vomitare di nuovo quello che ha inghiottito 190 . Viene espressa inoltre l'attesa che saranno soprattutto i sovrani secolari a impadronirsi di nuovo, con un attacco violento alla chiesa, dei diritti di sovranità e delle ricchezze temporali. Di fronte alla crescente malvagità dei chierici i re e i prìncipi ridurranno le entrate della chiesa, affinché questa, «nimia crassitate seu ubertate superbiens», non cessi di ricordarsi dei suoi doveri e di Dio 1 9 1 . Soprattutto il re di Sicilia e l'imperatore contribuiranno a privare la chiesa delle sue ricchezze. Re di Sicilia al tempo della composizione di questo scritto era appunto il già ricordato Federico III, che era in rotta con la curia. Così non è strano che nel Commento venga espresso il timore che il sovrano siciliano conquisti Roma e trasformi la chiesa di Pietro in una stalla. Peraltro egli affermerà di non voler fare niente di male, e di agire non per odio contro il Crocifisso, ma solo per odio contro coloro che si
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chiamano sì pastori, ma in realtà sono ladri. Lo stesso commentatore ammette che non c'è da meravigliarsi se un tale «dominator cleri» sia mandato «dal cielo», poiché «a causa delle colpe del clero» dovevano verificarsi tutte queste tribolazioni 192 . Accanto al re di Sicilia compete soprattutto anche alla «grandis aquila» un ruolo decisivo nella punizione del clero mondanizzato. Secondo la spiegazione del commentatore con ciò si intende un imperatore romano originario della Germania 193 . Egli è inviato per il giudizio sugli ecclesiastici, e nel suo procedimento contro la chiesa sarà sostenuto dall'imperatore bizantino. Con questa persecuzione verranno puniti duramente, anche se non annientati del tutto, pure quei francescani che hanno abbandonato la retta via 1 9 4 . Alla fine, dopo questi fatti, segue l'avvento dell'Anticristo, che va distinto dal re di Sicilia e dall'imperatore 195 ; questi, secondo il commentatore e in conformità con l'antica tradizione, nascerà in Oriente; a lui riesce in un primo momento di attirare dalla sua parte gli ebrei 196 . In verità sia dall'Oracolo sia dalle considerazioni del commentatore emerge chiaramente che alla fine l'Anticristo sarà sconfitto 197 , ma a causa del modulo narrativo molto confuso e disordinato dell' Oracolo, e in parte anche del Commento, non si può dire se dopo l'abbattimento dell'Anticristo sia destinata a venire subito la fine del mondo, oppure se dopo — in corrispondenza con lo schema gioachimita — sarà concesso ancora un periodo di tempo più lungo per uno stato di perfezione sulla terra. Nel suo insieme lo scritto suscita l'impressione che l'idea di uno stato, che duri abbastanza a lungo, di perfezione assoluta non ha acquisito una forma così nitida e chiara come in altri scritti di questo tempo influenzati dal gioachimismo. Nel Commento si sottolinea esplicitamente che sino alla fine del mondo vi saranno «rebelles ecclesie» 198 . Ma ciò non influisce sul fatto che l'Oracolo di Cirillo, e in maniera ancora più marcata il Commento pseudogioachimita che l'accompagna, sono animati dall'attesa che la chiesa mondanizzata e corrotta subirà, ancora prima della fine del mondo, una purificazione radicale attraverso dure persecuzioni da parte di sovrani temporali. Pertanto anche questo scritto nella sua tendenza di fondo concorda con la restante letteratura influenzata dal gioachimismo che ha avuto origine nell'ambito dell'ala spiritualistica del movimento francescano. Un'ulteriore testimonianza, assai significativa, delle attese del futuro tra gli spirituali francescani sono i Vaticini papali, che constano di quindici immagini e delle spiegazioni che le accompagnano; essi rappresentano una rielaborazione e una nuova interpretazione degli ora-
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coli imperiali bizantini attribuiti all'imperatore Leone il Saggio 199. Con Grundmann si può ipotizzare che sia stato il gruppo di spirituali intorno a Liberato e ad Angelo Clareno a tradurre gli oracoli imperiali bizantini, a dare loro una nuova interpretazione e a importarli in ambito occidentale. Infatti questo gruppo di spirituali dopo l'elezione di Bonifacio Vili, per paura di persecuzioni, si era rifugiato prima in un'isola del golfo di Corinto, e poi in Tessaglia. Di lì Liberato tornò in Italia nel 1304, e Angelo nel 13 0 5 20 °. Al tempo del ritorno di questo gruppo anche i Vaticini papali trovarono la loro forma definitiva; infatti nella loro forma latina essi sono stati scritti in ogni caso prima dell'elezione di Clemente V, avvenuta nel giugno 1305, e probabilmente già nell'estate del 1304 201 . Le prime sette, delle complessive quindici, figure di papi riguardano i papi da Nicolò III (1277-80) a Benedetto XI, il quale morì nel luglio del 1304. Tutti questi papi fino al quinto papa, cioè fino al «papa angelico» Celestino V, vengono duramente attaccati 202 . Significativo è il fatto che la serie di questi papi cattivi e riprovevoli cominci con Nicolò III, contro il quale già negli anni Novanta si erano diretti con particolare durezza la critica e gli attacchi degli spirituali 203 . Viceversa i successivi otto vaticini sono profezie di salvezza; in altre parole, già con l'insediamento del papa che succede a Benedetto XI si attende una svolta decisiva verso il meglio 204 . Così sotto il secondo di questi papi salutari cesserà la simonia 205 ; sotto il successivo regnerà l'«unitas», dunque la concordia e la pace. Su un'altra figura di papa c'è il motto: Charitas abundabit206. Per il resto i testi di spiegazione, essendo fondamentalmente traduzioni difettose delle spiegazioni in greco degli Oracula Leonis, offrono pochi chiarimenti sull'universo ideale di quegli spirituali; tuttavia merita attenzione il fatto che in questa profezia una serie di papi esemplari assume un rilievo centrale all'interno della riforma della chiesa che deve essere subito avviata, mentre nella letteratura gioachimita tradizionale, o v v e r o francescanospirituale, il ruolo decisivo nella purificazione della chiesa veniva assegnato al monachesimo, e viceversa il papato stava completamente, o almeno in larga parte, in secondo piano. Per il resto i Vaticini papali hanno esercitato subito un influsso considerevole sugli scritti, che allora nascevano numerosi e dovevano far luce sul futuro, provenienti dalla cerchia degli spirituali. Uno scritto chiamato Horoscopus, steso dopo la morte di Benedetto XI, è stato designato da Grundmann come «perifrasi astrologica» dei Vaticini papali201. Inoltre poco prima di questo Horoscopus sorse il Liber de
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Flore208, che subito dopo l'elezione di Clemente V, avvenuta nel giugno del 1305, fu oggetto di un ampio Commento. Nel Liber de Flore, come nel Commento ad esso, svolge un ruolo decisivo l'attesa di papi perfetti, riformatori della chiesa; laddove per questi papi viene adoperato il concetto di «pastor angelicus», che nei Vaticini papali non è impiegato. Mentre il testo base del Liber de Flore, così come YHoroscopus, parte ancora dall'idea che tra Bonifacio Vili e il primo papa angelico regnerà un solo papa 2 0 9 , l'autore del relativo Commento arriva a riconoscere, sulla base dello sviluppo reale — frattanto era diventato papa Clemente V —, che solo il terzo papa dopo Bonifacio Vili sarà il primo papa angelico che darà inizio alla svolta 210 . È sorprendente che il Liber de Flore attenda non solo la venuta di un simile papa angelico, ma metta in conto quattro papi angelici che si succedono l'un l'altro, dopo i quali poi appare l'Anticristo come precursore della fine del mondo 2 1 1 . Il tempo dei quattro papi angelici è dunque sostanzialmente identico all'epoca di pace e di giustizia sulla terra che precede la fine del mondo. Nella sua presa di posizione nei confronti delle potenze politiche temporali il Liber de Flore tradisce un atteggiamento filo-francese212. Così il primo dei papi angelici creerà imperatore il re di Francia, e col suo aiuto attuerà l'unione della chiesa greca con la chiesa latina. Inoltre il sovrano di Sicilia imparentato con la casa reale francese, dunque un membro della casa d'Angiò, non solo riconquisterà la stessa Sicilia, ma conquisterà anche il regno di Gerusalemme. Per di più al papa riesce di ricomporre tutte le discordie in Italia 213 . In questo modo verrà stabilita una condizione generale di pace, sicché al papa sarà possibile ottenere la distruzione di tutte le armi e di eliminare l'attività militare 214 . Il secondo papa angelico in ordine di successione è un francese, e il suo sforzo principale è quello della riconciliazione dei tedeschi con i francesi, i quali appunto hanno sottratto ai primi l'impero. Alla fine sotto questo papa morirà l'imperatore proveniente dalla casa reale francese; egli non avrà più alcun successore, perché le condizioni terrene nel frattempo a tal punto sono state riordinate che non è più necessario un imperatore 2 1 5 . Questa predizione è tipica delle attese circa il futuro nei circoli ecclesiastico-monastici. Già in Gerhoh di Reichersberg, e ancora più chiaramente nella letteratura gioachimita, di regola viene presupposto che l'umanità nel suo ultimo e perfetto stato di pace stia più o meno sotto una direzione ecclesiastica o monastica, e i poteri temporali tradizionali spariscano, o almeno passino in secondo piano 216 . Per quanto dunque gli spirituali rifiutino la chie-
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sa che va in cerca di sovranità temporale, terrena, e al suo posto sperino in una «ecclesia spiritualis», essi tuttavia, essendo rappresentanti tipici della chiesa, ritengono che in quel tempo ideale futuro la guida suprema dell'umanità debba competere agli ecclesiastici; su questo punto i loro princìpi a stento si distinguono da quelli dei papi che aspiravano alla sovranità temporale. L'attività del terzo papa angelico si dedica in prevalenza a stabilire un ordine interno giusto e irreprensibile nella chiesa — in antitesi ai suoi due predecessori, i quali hanno dovuto dedicare la loro attenzione soprattutto a compiti politici, in special modo a introdurre una pace generale e l'unità della chiesa. Di lui si dice che porta — come del resto già il suo predecessore — il «vestito della povertà», e dunque palesemente vivrà secondo gli ideali francescani. Ciononostante abolirà l'ordine dei frati minori, perché si è completamente mondanizzato. Allo stesso modo toglierà ai prelati le loro elevate entrate finanziarie, e quindi nel contempo impedirà la corsa degli indegni alle cariche ecclesiastiche. Concezioni sociali, che negli spirituali normalmente non svolgono alcun ruolo essenziale a motivo della loro mentalità strettamente monastica, hanno un'eco nell'attesa che le ricchezze liberate per questa via siano destinate a rifluire a vantaggio dei poveri, sicché in futuro la loro salvezza dell'anima non sarà più messa in pericolo dalla loro eccessiva povertà e indigenza 217 . Inoltre sotto questo papa le rivelazioni di Daniele e di Giovanni diventeranno comprensibili a tutti — una speranza nella quale ancora una volta affiora, peraltro in maniera molto attenuata, l'idea di Gioacchino di una intelligentia spiritualis che penetra la lettera, la quale era stata sospinta in secondo piano dall'ideale della vita apostolica. Allo stesso modo allora — del tutto in corrispondenza con le rappresentazioni tradizionali — molti saraceni e molti ebrei si convertiranno al cristianesimo. Il quarto ed ultimo papa angelico riunisce poi quasi tutti i popoli sotto la fede cristiana 218 . Non è necessario in questa sede descrivere nel dettaglio l'universo ideale francescano-spiritualistico che domina tutto il Liber de Flore. Anche qui sta in primo piano l'antitesi tra l'«ecclesia malignantium» e gli «observatores et promotores evangelice vite» 219 . Allo stesso modo il papato che è in conflitto con gli spirituali viene attaccato duramente; se lo stesso «vicarius Christi» non segue la «doctrina Christi», deve essere corrotta anche la condizione della chiesa nel suo complesso 220 . A questo proposito anche qui l'inizio di ogni male viene posto al tempo del pontificato di papa Nicolò III 2 2 1 . Infine assolutamente tipica per il movimento spiritualistico di quest'epoca è la
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netta presa di posizione contro gli eretici; essa in verità è collegata con l'ammissione che rappresentanti del francescanesimo radicale sono passati nel campo degli eretici, manifestamente in quello dei frati apostolici 222 . In conclusione si deve richiamare l'attenzione ancora sul fatto che la letteratura profetica, che allora sorgeva nel campo dello spiritualismo francescano, tuttora non è minimamente conosciuta nella sua interezza. Così sappiamo, sia dalla Historia septern tribulationum 223 sia dal Liber de Flore224, che esisteva una versione della Sibilla eritrea apparsa poco prima del 1300; essa tra l'altro descrive il destino di Celestino V ed esprime l'attesa che intorno al 1300 la «superna gloria in fideli populo condenscendet» 225 . A un'altra profezia circa il papa angelico, che dovrebbe essere sorta subito dopo il trasferimento della curia nel territorio d'influenza francese, accenna il monaco Gentilis nel suo commento alla profezia Ve mundo in centum annis 226. Questa profezia sul papa angelico predice che al tempo di una grande persecuzione della chiesa alcuni cardinali sopravvissuti si rifugeranno a Roma, per eleggervi un papa. Là una voce divina ordinerà loro di rivestire della dignità papale un «pauper nudus» vestito come Giovanni il Battista. Questi sarà poi il primo «reformator ecclesie» e riporterà la chiesa al primitivo stato di povertà e santità. Peraltro il papa non vivrà a lungo, a causa della sua età avanzata; perciò un secondo e un terzo papa continueranno e completeranno la sua opera. Poi il terzo papa santo si recherà a Gerusalemme, insieme all'imperatore a lui devoto, dove i saraceni lo accoglieranno amichevolmente. Ma dopo apparirà l'Anticristo, e quindi comincerà la fine del mondo 227 . Complessivamente, sulla base di questa panoramica delle diverse profezie, sorge l'impressione che nelle speranze circa il futuro degli spirituali francescani l'idea del papa angelico venga sempre più in primo piano nel corso del tempo. L'avvento di Celestino V, che esaudiva i loro desideri, e il duro contraccolpo, in seguito all'atteggiamento malevolo del potente Bonifacio Vili, possono aver contribuito a mettere davanti ai loro occhi la propria debolezza o la loro dipendenza dall'atteggiamento del papa. Pertanto l'emergere sempre più vigoroso delle speranze relative al papa angelico poteva essere in certa misura addirittura una conseguenza della coscienza della loro debolezza, e quindi anche della loro scarsa disponibilità a un'opposizione attiva. Nonostante qualche vuoto, la panoramica precedente dovrebbe aver chiarito i tratti fondamentali delle speranze intorno al futuro che allora erano vive all'interno dell'ala degli spirituali dell'ordine francescano. Prima di concludere questo capitolo, sia però consentito rivolgere
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lo sguardo a un'altra delle personalità che appartiene a questo contesto, cioè ad Arnaldo di Villanova. Egli peraltro non era membro dell'ordine minorità, ma era un laico, esattamente un medico, e cionondimeno nelle sue idee e nelle sue attese del futuro era fortemente influenzato dai francescani spirituali, dai quali egli da parte sua è assai apprezzato, fino a essere giudicato uno dei loro 2 2 8 . Che in cerchie di laici colti, tra le quali va annoverato Arnaldo, esistesse un interesse per le attese gioachimite del futuro, non è un fenomeno nuovo. Salimbene racconta che fin dalla metà del XIII secolo si raccoglievano intorno al gioachimita francescano Ugo di Digne «molti notai, giudici, medici e altre persone colte», per sapere qualcosa sulla dottrina di Gioacchino 229 . Chiaramente qui si tratta di un ceto borghese-intellettuale, nel quale il desiderio di una riforma delle condizioni ecclesiastiche presumibilmente era altrettanto forte quanto l'avversione a un'aperta rottura con la chiesa 230 . Con tali presupposti una teoria che predicesse una grande, inevitabile trasformazione, nel senso di una perfezione più grande, stabilita fin dal principio nel piano salvifico di Dio, doveva incontrare un grande interesse. In ogni caso Arnaldo, nato nel 12 3 8 231 , si è occupato già prima del 1290 di questioni escatologiche e di scritti gioachimiti. Una prima redazione del suo trattato De adventu Antichristi, che fece conoscere a Parigi nel 1299, chiaramente risale già al 12 8 8 232 . Nel 1292 circa stese la sua introduzione al Liber de semine Scripturarum, che egli considerava opera di Gioacchino da Fiore 233 . In questo scritto egli già menziona gli scritti autentici di Gioacchino, anzitutto la Concordia
novi et veteris Testamenti, ma anche lo Psalterium e YExpositio Apocalipsis 234.
Il trattato De adventu Antichristi raccoglie in una forma particolarmente precisa e facilmente comprensibile le attese escatologiche di Arnaldo, così come egli le sostenne nella prima fase della sua attività teologica, che giunge fino al 1304. In questo trattato, che nella forma tramandataci fu composto nel 12 9 7 235 , sostanzialmente non svolge alcun ruolo una visione del futuro nel senso della dottrina gioachimita dei tre status. Sebbene Arnaldo, come mostra la sua Introductio al Liber de semine Scripturarum, già allora fosse entrato in contatto con gli scritti gioachimiti, in lui a quell'epoca non prevale l'attesa di un nuovo status con una chiesa purificata, ma l'attesa dell'Anticristo e della successiva fine del mondo. Così per lui, proprio nel senso della dottrina ecclesiastica tradizionale, l'«ultima etas» che dura sino alla fine del mondo comincia con Cristo 236 . Del resto nelle sue predizioni si appoggia prevalentemente al profeta Daniele, e attraverso di esse
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giunge all'ipotesi che l'Anticristo apparirà nel 1378 (o nel 1376) 2 , 7 . Prima di questo evento si dovrà ancora realizzare l'unione della chiesa greca con la chiesa romana; inoltre la «dissipatio barbare nationis», cioè la sconfitta dei popoli pagani o saraceni, sarà attuata dai re cristiani 238 . Il tempo che rimane ancora sino alla fine del mondo, dopo l'avvento dell'Anticristo, è — come nello schema di Gioacchino — l'epoca dell'apertura del settimo sigillo, che Arnaldo descrive come «tempus universalis tranquillitatis et pacis ecclesie», in cui tutto il mondo riconoscerà la verità e adorerà Cristo, così che vi sarà un solo pastore e un solo gregge. In proposito Arnaldo, ricordando che nell'Apocalisse in connessione con l'apertura del settimo sigillo si parla di un silenzio di mezz'ora soltanto, dichiara esplicitamente che questo tempo di pace durerà solo poco tempo, «ut quasi dimidio anno aut medio centenario» 239 . In ogni caso allora il mondo non durerà più di un secolo intero 240 . Dopo irromperà finalmente, improvviso e inaspettato, il giudizio universale, e quindi la fine del mondo 2 4 1 . Queste opinioni di Arnaldo sul tempo di pace che inizia con l'apertura del settimo sigillo tradiscono certi influssi gioachimiti. Allo stesso modo l'esplicita accentuazione della brevità di questo tempo di pace corrisponde senz'altro alla concezione di Gioacchino. Ma a differenza delle dottrine di Gioacchino, in Arnaldo questo tempo appare — del resto analogamente a quanto avviene in Bonaventura — non come una nuova settima età del mondo, come uno status dello Spirito santo, alla cui perfezione unica l'autore orienta tutto il suo desiderio e la sua speranza. Al contrario, per Arnaldo l'intero corso degli avvenimenti è orientato all'avvento dell'Anticristo e della fine del mondo, a cui bisogna prepararsi interiormente. In tale contesto la critica allo stato attuale della chiesa, come pure l'attesa di una sua riforma e purificazione interna, sono accennate solo fugacemente; perciò l'oggetto principale delle sue riflessioni non è un'accurata descrizione dello stato e dell'aspetto di una simile chiesa rinnovata e perfetta, ma la fine del mondo e l'avvento dell'Anticristo. Le esortazioni alla conversione interiore, che egli introduce senz'altro 242 , appaiono per lo più come una conseguenza di queste due idee capitali, e perciò sono meno sviluppate nello specifico, e difficilmente si trasformano in concrete richieste di un cambiamento di queste o quelle istituzioni ecclesiastiche. Tuttavia negli anni successivi si verifica un certo spostamento di accento nelle idee di Arnaldo. A ciò hanno potuto contribuire in certa misura già i suoi attriti, cominciati a Parigi nel 1299, con i rappresentanti della chiesa, che non digerivano le sue teorie sull'Anticri-
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sto 243 . Queste tensioni probabilmente hanno acuito l'atteggiamento critico di Arnaldo nei confronti della chiesa 244 . Ma soprattutto si può ipotizzare che Arnaldo, nel corso del 1304 durante il suo soggiorno nella Francia meridionale, sia entrato in contatto diretto con le correnti francescano-spiritualistiche, che erano influenzate dalle dottrine dell'Olivi 245 . Uno degli scritti più significativi di Arnaldo in questo periodo della sua attività potrebbe essere il suo Commento all'Apocalisse, che purtroppo non ha avuto a tutt'ora un'edizione. Questo scritto finora è stato comunemente considerato una delle primissime opere di Arnaldo 246 . Questa opinione è sicuramente errata; già il solo fatto che Arnaldo vi menzioni l'Horoscopus 247, scritto nel 1304-05, depone contro questa ipotesi. Date queste circostanze un'annotazione del cod. Vat. lat. 1305 (del XV secolo), secondo cui il Commento all'Apocalisse sarebbe stato composto nel 1306 a Marsiglia248, merita credito incondizionato. Arnaldo ha palesemente scritto il suo Commento all'Apocalisse appoggiandosi in certa misura sulla Postilla all'Apocalisse dell'Olivi 249 . Egli riprende la divisione della storia universale in tre status, così come l'articolazione della storia della chiesa in sette tempora 25°. Anch'egli attribuisce il terzo status del mondo allo Spirito santo. Mentre nel primo status la paura {timor) determina il rapporto dell'uomo con Dio, e nel secondo status la «doctrina» e i «miracula» assicurano ai credenti una «sensibilem notitiam veritatis divine», nel terzo status sarà attivo il puro amore per la «vita spiritualis» e per l'«imitatio Christi». In corrispondenza perfetta con le idee di Gioacchino nel primo status sono determinanti i coniugati, nel secondo status stanno in primo piano i «clerici seculares», mentre il terzo status è lo status dei «regulares», e quindi sostanzialmente dei monaci, ovvero di coloro che vivono secondo principi monastici 251 . L'epoca decisiva nel corso storico è il sesto tempo della chiesa, che apporta il passaggio alla perfezione del settimo tempo, e il cui contenuto essenziale è perciò una «generalis reformatio ecclesie» 252 . Un ruolo guida in questo rinnovamento della chiesa verrà svolto da diversi «duces» o papi angelici, il quinto dei quali sarà contemporaneo dell'Anticristo 253 . Dopo la morte di quest'ultimo poi cessa finalmente, peraltro solo per un tempo limitato, ogni angustia «in sabbato et requie septimi status» 254 . Ulteriori considerazioni sul Commento all'Apocalisse di Arnaldo non sono possibili, perché non esiste ancora un'edizione di quest'opera, tramandata solo in pochi manoscritti. In considerazione del fatto che
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qui l'attesa di papi angelici rappresenta un momento essenziale nelle speranze di riforma di Arnaldo, sia consentito di richiamare l'attenzione sul fatto che l'attesa del papa angelico ritorna anche negli scritti successivi di Arnaldo. Così nel Rahonament del 13 0 9 255 egli esprime l'attesa che ancora prima dell'Anticristo apparirà un «papa evangelical» 256 . La stessa idea appare nello scritto di riforma di Arnaldo Seynor, vos sots tengut, che egli inviò a Federico III di Sicilia nel 1310 2 5 7 . Qui egli parla di un «papa spiritual», sotto il cui pontificato, in collaborazione con un re giusto, tutta la cristianità sarà purificata e ricondotta alla pristina verità, così come l'hanno insegnata Gesù e gli apostoli 2 5 8 . Il modello dunque, per Arnaldo come per gli spirituali francescani, è la chiesa apostolica primitiva, alla quale bisogna ritornare. Siccome Arnaldo richiama anche esplicitamente il principio, allora valido ma ben presto divenuto inefficace, che tutto era comune a tutti, Benz ha espresso l'opinione che in lui sarebbero riconoscibili i prodromi di una «curvatura dell'ideologia imperiale spiritualistica in una visione sociale ideale». Di conseguenza egli vede nelle dottrine di Arnaldo una «tendenza alla trasformazione dell'escatologia in un'utopia socialistica della società, le cui ultime forme secolarizzate sono rappresentate dalle utopie sociali comunistiche» 259 . Essendo Arnaldo un laico, e non un monaco come l'Olivi e Ubertino, di fatto è pensabile che egli, più che quegli spirituali francescani, considerasse sempre, accanto alla sfera meramente ecclesiastica, anche tutto l'ordine sodale-politico, e perciò rivendicasse non solo una riforma della chiesa in senso stretto, ma esigesse consapevolmente una trasformazione di tutto l'ordine sociale. Dunque lo «spirituale laico» Arnaldo è realmente andato oltre, nell'essenziale, le intuizioni degli spirituali francescani? Per poter rispondere a questa domanda è opportuno considerare il già citato scritto di riforma del 1310 indirizzato a Federico III, giacché qui Arnaldo espone concrete misure per il miglioramento dell'ordine sociale esistente, e Federico III il 10 ottobre 1310 ha emanato delle costituzioni per dare attuazione ai suggerimenti di Arnaldo 260 . Qui si vede che le proposte contenute nel trattato Seynor, vos sots tengut sono tutt'altro che rivoluzionarie. Vi troviamo l'esortazione al re a bandire dalla corte ogni eccesso nel cibo e nel vestito, e ad ammettere alla propria mensa i poveri 2 6 1 . Allo stesso modo propone la costruzione di ospizi per pellegrini e poveri. Inoltre chiede sì misure contro i rappresentanti della chiesa che nei possessi loro affidati amministrano male, ma nel contempo enuncia l'esigenza che il re provveda alla restituzione di tutti i beni tolti alla chiesa 262 . Per il resto dirige
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il suo sguardo soprattutto alla conversione degli ebrei e degli schiavi saraceni attesa alla fine dei tempi, laddove egli sostiene che si debbano mettere gli ebrei di fronte alla scelta o di abbracciare il cristianesimo entro un anno o di abbandonare la terra 263 . Queste proposte di riforma testimoniano con tutta evidenza che le richieste di Arnaldo non sfociano in alcun modo in un sovvertimento radicale o addirittura rivoluzionario dell'ordine esistente. Può darsi che egli consideri, un poco più dell'Olivi o di Ubertino, i fatti concreti di questo mondo, e si potrà forse dire che con questo egli supera fino a un certo punto l'utopismo monastico e l'estraneità verso il mondo tipica degli spirituali; ma in ultima analisi in lui il contatto più stretto con le realtà della vita sociale hanno portato unicamente a questo: che egli si appoggia ancora di più ai potenti di questo mondo, e cade nell'illusione di poter realizzare i suoi ideali con l'aiuto dei papi, incluso Bonifacio Vili che non era proprio uno spiritualista, e dei re. Pertanto le sue idee non hanno niente a che vedere con una «utopia socialistica della società», che Benz crede di poter riconoscere in nuce-, esse piuttosto si esauriscono, in relazione alla sfera extraecclesiastica, in alcune richieste di assistenza sociale, che non cambiano nulla sul piano dei princìpi. Nel momento in cui egli ricava dai suoi ideali generici concrete proposte per realizzare le sue speranze, si vede con tutta chiarezza che Arnaldo — come in fondo anche l'Olivi e Ubertino — non è affatto un portavoce delle masse popolari oppresse e sfruttate, ma è una specie di intellettuale e idealista «borghese». Le sue idee non mirano a un'eliminazione dell'ordine sociale esistente, anzi neppure a un mutamento veramente radicale delle condizioni ecclesiastiche, bensì sono sempre misure di riforma molto limitate, destinate a corrispondere in maniera assai formale agli ideali del cristianesimo primitivo. Per quanto concerne il suo atteggiamento nei confronti della chiesa mondanizzata, si dovrà dire addirittura che egli non ha neppure tratto conseguenze così ampie come, per esempio, Ubertino da Casale. Infatti l'idea di Ubertino, comunque davvero radicale, di identificare con l'Anticristo due papi regnanti, è impensabile in Arnaldo, il quale, ben diversamente da spirituali alquanto lontani dal mondo come l'Olivi e Ubertino, stette in contatti molto stretti con papi e re 264 . Possiamo quindi per il momento concludere la trattazione delle attese di riforma francescano-spirituali. Sottolineo ancora una volta che questo movimento spiritualistico è comprensibile nella sua originalità solo se teniamo sempre presente che esso è cresciuto sul terreno del monachesimo distaccato dalla vita quotidiana, e specialmente sul terreno del francescanesimo, che — soprattutto nei suoi esponenti più eoe-
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renti — con la restaurazione della «vita evangelica» credeva di avere in mano la chiave per la purificazione della chiesa, e quindi per la costituzione di uno stato ideale sulla terra. L'impotenza di questa piccola minoranza, e la sua repressione da parte della gerarchia ecclesiastica offrivano un terreno favorevole per speranze utopiche intorno al futuro, la cui realizzazione veniva ultimamente lasciata al governo divino della storia umana. Tuttavia nonostante questo sostanziale tratto passivo, si deve tener presente che la convinzione, che per questa via si radicava profondamente, di un prossimo trionfo della propria causa doveva contribuire a consolidare la forza di resistenza e la capacità di perseverare. Inoltre non si può dimenticare una cosa: anche se le attese del futuro degli spirituali francescani, ispirandosi all'universo rappresentativo del monachesimo, potevano incidere solo con difficoltà e dopo considerevoli metamorfosi sull'universo rappresentativo di cerchie più ampie di popolazione, tuttavia in ultima istanza esse sono solo un fenomeno parziale all'interno del grande movimento di opposizione alla chiesa mondanizzata, radicato in prevalenza negli strati inferiori e medi della società medievale. Pertanto anche gli spirituali francescani, nonostante il carattere moderato, incline al compromesso, delle loro rivendicazioni, hanno in definitiva contribuito a minare la posizione della gerarchia ecclesiastica nella società medievale. Non è affatto un caso che proprio allora, al concilio di Vienne del 1311, il problema di una riforma di tutta la chiesa appaia come un vero e proprio punto programmatico essenziale nei dibattiti conciliari 265 ; e così viene in qualche modo introdotta tutta una serie di concili riformatori del tardo medioevo.
1
Cfr. E. B E N Z , Thomas von Aquin und Joachim von Fiore, ZfKG, 53 (1934), 52 ss. Cfr. R E N É DE N A N T E S , Histoire des Spirituels..., cit., 213 s., 226, 250; K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 130 s. 3 Cfr. supra, 168 ss. 4 Sul ruolo degli eremitaggi come centri dell'opposizione radicale all'interno dell'ordine francescano cfr. F . EHRLE, Petrus Johannis Olivi, sein Leben und seine Scriften, ALKG, III, Berlin 1887, 603 ss. 5 Cfr. il racconto di Angelo nella Historia Septem tribulationum, ALKG, II, Berlin 1886, 302 ss.; cfr. in proposito F . EHRLE, Die Spiritualen, ihr Verhältnis zum Franziskanerorden und zu den Fraticellen, ALKG, III, Berlin 1887, 615 ss.; D . D O U I E , The Nature..., cit., 53 s.; A. F R U G O N I , Celestiniana (Studi storici, 6-7), Roma 1954, 127 ss. In queste esposizioni vengono affrontati anche i destini ulteriori di questo gruppo, su cui non è il caso di diffondersi in questa sede. 2
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6 Su questo scritto cfr. L. VON Auw, Angelo Claretto et les Spirituels Franciscains, Lausanne 1 9 4 8 , 1 7 ss.; D . D O U I E , The Nature..., cit., 5 2 ; F . EHRLE, Die Spiritualen..., ALKG, II, cit., 106 ss. 7 Tra essi c'è, accanto alle sue lettere, anzitutto VExpositio regulae Fratrum Minorum (ed. L. Oliger, Quaracchi 1912), che risale ugualmente agli anni Venti del XIV secolo (cfr. L. VON Auw, Angelo Clareno..., cit., 12). 8 Così Grundmann giustamente ha richiamato l'attenzione sul fatto che Angelo, nella [Ustoria septem tribulationum, ha mitigato l'atteggiamento di opposizione che molti esponenti di questo gruppo di spirituali avevano assunto soprattutto contro Bonifacio VIII; cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien des Mittelalters, AfKG, 19 (1929), 100 s. 9 Neil'Epistuia excusatoria del 1317, in F. EHRLE, Die Spiritualen..., ALKG, I, Berlin 1885, 522 s., cfr. 527; in proposito cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 57, il quale peraltro ritiene credibili queste indicazioni di Angelo. 10 MURATORI, Antiquitates IV, 1741, 1020. 11 UBERTINO DA CASALE, Arbor vite crucifixe Jesu, V, c.8; pubblicato anche nell'edizione di L. Oliger dell'Expositio regulae Fratrum Minorum di Clareno, p. XXXIX, così come in A. FRUGONI, Celestiniana, cit., 142. 12 L. O L I G E R , Expositio..., cit., XXXVIII; cfr. dello stesso AFH, 11 (1918), 339. 13 Cfr. L. VON AUW, Angelo Clareno..., cit., 22: «Il quadro delle sette tribolazioni è d'origine gioachimita». 14 ALKG, II, cit., 276, 277, 283, 289. 15 Ivi, 289. 16 Ivi, 282 s.; di conseguenza egli si esprime criticamente nei confronti di Gerardo di Borgo S. Donnino, ivi, 277. 17 Sui Fraticelli de paupere vita, sulla cui origine e sulle cui idee, dominate da pronunciate attese di un papa angelico, in questa sede non è il caso di addentrarsi, cfr. A. FRUGONI, Celestiniana, cit., 154 ss.; F. EHRLE, Die Spiritualen..., ALKG, IV, Freiburg i. Br. 1888, 8 ss. 18 ALKG, II, cit., 277. 19 Ivi, 281; cfr. L. VON Auw, Angelo Clareno..., cit., 21 s. 20 ALKG, II, cit., 280. 21 Cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 3. 22 ALKG, II, cit., 283. 23 Questa tendenza è caratteristica altresì di una visione attribuita a Francesco, nella quale la statua di cui si parla in Dn 2, 32 viene interpretata nel senso della storia dell'ordine francescano (e non, come di consueto, nel senso della sequenza dei regni mondani); Angelo nella sua Expositio regulae ha ripreso quella visione, secondo cui questa statua significa «initium, progressum et fìnem [...], quem habitura est tua religio usque ad tempus partus eius et reformationis Christi vite et ecclesiastici status» (Expositio..., cit., 74). 24 ALKG, II, cit., 137 s. 25 ANGELO CLARENO, Expositio..., cit., 2 3 2 s. 26 Cfr. l'edizione di questa lettera in F. Tocco, Studii Francescani, Napoli 1909, 305: «Donec Deus suo tremendo et occulto iudicio mutabit tempora et suam innovabit in ecclesia vitam». Una edizione parziale di questa lettera si trova anche in F. EHRLE, Die Spiritualen..., ALKG, I, cit., 566 ss. 27 Che Clareno si aspettasse una rapida fine del mondo risulta in modo particolarmente chiaro da una lettera del 1315 pubblicata in F. EHRLE, Die Spiritualen..., ALKG, I, cit., 547. 28 Cfr. anche D . D O U I E , The Nature..., cit., 73: «Il suo schema per la rigenerazione del mondo non sembra sia andato oltre la riforma del suo ordine». 29 Cfr. la lettera del 1315, ALKG, I, cit., 555: «Melius enim est, omne genus tormenti et mortis sustinere, quam ab obedientia capitis et eius vicarii et ecclesie separari». Una affermazione analoga si trova nella lettera ad Alvaro Pelagio scritta nel 1330, cfr. V. D O U C E T , Angelus Clarinus ad Alvarum Pelagium, AFH, 39 (1946), 79 s., 104. Tuttavia qui egli introduce una limitazione nell'obbligo dell'obbedienza nei confronti di prelati; cfr. ivi, 196: «Qui talem conscientiam sibi faciunt, ut prelato peccata contra Dei legis mandatum precipienti obedire teneantur, seipsos insipienter perdunt, homines Deo preponentes et voluntatem iniquam prelati voluntati Dei». Cfr. anche D . D O U I E , Tbe Nature..., cit., 76 s. Che egli tuttavia rifiuti una protesta aper-
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ta contro il papa è dimostrato, per esempio, dalla sua lettera, quasi contemporanea, a Filippo di Maiorca; cfr. F. Tocco, Studii Francescani, cit., 306 ss.; qui egli si limita a constatare: «Qui enim excommunicat et hereticat altissimam evangelii paupertatem, excommunicatus est a Deo et hereticus coram Christo» (p. 308). L'accenno a uno pseudo-papa contenuto in questa lettera (ivi, 305) si riferisce non a Giovanni XXII, bensì all'antipapa Pietro di Corvaro; cfr. A. FRUGONI, Celestiniana, cit., 165 s. 30 Cfr. P. SABATIER, Description du Speculum Vitae beati Francisci et sociorum eius, in Opuscules de critique historique, I, 6, Paris 1903, 369; ivi, 370 ss., edizione dei Verba Conradi. Cfr. anche H. GRUNDMANN, Uber de Flore, HJb, 49 (1929), 79, n. 123. 31 P. SABATIER, Description..., cit., 3 7 6 ; cfr. anche l'analoga profezia ivi, 3 8 5 . Del resto vi sono in parte concordanze letterali tra le profezie contenute nei Verba Conradi e quelle del Commento alla Regola di Clareno; cfr. per esempio Expositio..., cit., 4 4 ss. e P . SABATIER, Description..., cit., 386. 32 Le tappe biografiche più importanti in D . D O U I E , The Nature..., cit., 82 ss. 33 La disponibilità al compromesso da parte dell'Olivi, che si esprime anche nella sua formazione teologico-scientifìca, non comune per gli spirituali, viene sottolineata da D . D O U I E , The Nature..., cit., 8 1 s., 9 7 , 9 9 , 1 0 1 ; R . MANSELLI, La «Lectura..., cit., 1 4 2 ss., il quale critica l'apprezzamento, alquanto più radicale, dell'Olivi da parte di E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 2 8 5 ss. 34 Questa lettera è pubblicata da I. JEILER, Ein unedierter Brief des P. Olivi, HJb, 3 (1882), 649 ss., e in L. ÖLIGER, Petri Johannis Olivi De renuntiatione Papae Coelestini, AFH, 11 (1918), 366 ss. 35 Diversi spirituali italiani si rifiutarono di riconoscere Bonifacio Vili: per esempio Jacopone da Todi (K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 198 ss.) e probabilmente anche Angelo Clareno e Liberato (cfr. supra, 250 s.). Del resto l'Olivi ha difeso la legittimità del ritiro di Celestino V anche nella sua Quaestio de renuntiatione Papae; cfr. L. OLIGER, Petri..., cit., 329 s., 340 ss.; F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 500, 525 ss. 36 Ci si riferisce alla bolla Exiit qui seminai del 1279, cfr. K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 82 ss. È addirittura possibile che l'Olivi abbia influenzato sostanzialmente la stesura di questa bolla; cfr. F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 414 s.; D . D O U I E , The Nature..., cit., 84. 3 7 JEILER, Ein unedierter..., cit., 6 5 6 . Che simili opinioni radicali allora venissero sostenute da diversi spirituali italiani è testimoniato anche da Paolino Minorità, MURATORI, Antiquitates IV, 120. 3 8 JEILER, Ein unedierter..., cit., 6 5 8 s.; su questa spaccatura cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 5 5 s. 39 Ciò avvenne con la bolla Ordinem vestrum emanata il 14.11.1245 da papa Innocenzo IV (cfr. K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 40 ss.). 40 Così K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 44. 41 Cfr. ivi, 161 ss. 42 Su questi conflitti e processi cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 8 4 ss., e soprattutto A . MAIER, Per la storia del processo contro l'Olivi, «Rivista di storia della chiesa in Italia», 5 ( 1 9 5 1 ) , 3 2 7 ss. L . JARRAUX, Pierre Jean Olivi, sa vie, sa doctrine, «Etudes Franciscaines», 4 5 ( 1 9 3 3 ) , 137 fa riferimento giustamente al fatto che gli «errori» teologici dell'Olivi difficilmente avrebbero attirato l'attenzione, se egli non avesse suscitato risentimenti col suo zelo riformatore; analogamente F. EHRLE, Petrus..., A L K G , III, cit., 4 1 6 . 43 Adopero nel seguito questo titolo divenuto di uso corrente; esso non solo è stato adottato nella letteratura moderna, ma veniva di regola usato anche dai seguaci dell'Olivi. R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 177 ritiene probabile che il titolo suonasse Lectura super Apocalipsim-, io tuttavia rimanderei ai passi del testo in F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 482, 2, in cui lo stesso Olivi utilizza contemporaneamente i termini «lectura» e «postilla». Il Commento all'Apocalisse è stato scritto nel 1297; ciò risulta da un passo che è riprodotto in I. VON DÖLLINGER, Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters, II, München 1890, 572. 44 Cfr. R . MANSELLI, La «Lectura..., cit., 163. 45 Pubblicato in F.-M. DELORME, Textes Franciscains, «Archivio italiano per la storia della Pietà», 1 (1951), 192 s. 46 Cfr. R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 149s.
L'ATTESA DI RIFORMA FRANCESCANO - SPIRITUALE
291
Cfr. supra, 109 s. Cfr. F.-M. DELORME, Textes Franciscains, cit., 193; anche nella sua Lectura super Genesim l'Olivi parla dell'attesa di una settima aetas, nella quale «speratur quies»; cfr. R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 146s. 49 Cfr. P. GRATIEN, Une lettre inèdite de Pierre de Jean Olivi, «Etudes Franciscaines», 29 (1913), 421. Sulla datazione di questa lettera cfr. C. PARTEE, Peter John Olivi. Historical and Doctrinal Study, «Franciscan Studies», 20 (I960), 221 s. 50 Cfr. il testo di questa lettera in F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 534: «Corruptio unius est generatio alterius». Cfr. in proposito E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 259 ss. 51 ALKG, III, cit., 535. 52 Ivi, 537 s. 47
48
53
Cfr. R. MANSELLI, La «Lectura...,
cit., 170 s., 172.
Purtroppo quest'opera importante non è stata ancora pubblicata. Pertanto nei commenti che seguono ci dobbiamo basare in primo luogo su due pareri pubblicati, che contengono ampi estratti del testo. Entrambi i pareri si basano su estratti del testo raccolti dal cardinale di Ostia, il quale fece una selezione di passi scandalosi, e li sottopose in un primo momento per una verifica a un teologo sconosciuto. La risposta di quest'ultimo, insieme ai passi selezionati, costituisce il primo parere tramandato. Esso comparve nel 1318, comprende 84 articoli, ed è pubblicato in I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., II, cit., 527-585; cfr. in proposito F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 453. Il secondo parere, approntato da otto teologi, e fondato ugualmente sugli estratti del cardinale Nicolò di Ostia, fu steso nel 1319, è suddiviso in 60 articoli, ed è pubblicato in BALUZE-MANSI, Miscellanea, II, 258-270. Cfr. J. KOCH, Der Prozeß gegen die Postille Olivis zur Apokalypse, RTAM, 5 (1933), 303 ss.; E. PÄSZTOR, Le polemiche sulla «Lectura super Apocalipsim» di Pietro di Giovanni Olivi fino alla sua condanna, BISI, 70 (1958), 373. Va poi ricordato ancora un altro parere, con estratti tradotti in latino, dello scritto catalano De statibus ecclesiae secundum expositionem Apocalypsis, perché tale scritto è una succinta rielaborazione del Commento all'Apocalisse dell'Olivi; questo parere è stampato in J.M. POU Y MARTI, Visionarios, Beguinos y Fraticelos Catalanos (Siglos XIII-XIV), Vich 1930, 483 ss. Infine scarsa attenzione raccoglie l'importante selezione di passi dal Commento all'Apocalisse dell'Olivi presente in F. Tocco, Lectura Dantis: il canto XXXII del Purgatorio, Firenze 1904, 39 ss. (riproduzione sintetica del commento dell'Olivi al capitolo 17 dell'Apocalisse). Ho inoltre consultato il manoscritto della Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi custodito nella Biblioteca di Stato di Berlino (ms. lat. oct. 432). 55 BALUZE-MANSI, II, 260, art. XIII; cfr. anche i riferimenti al terzo status, ivi, 270, art. LIX, LX. 56 R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 187; cfr. anche 189; sia qui consentito solo un rimando all'affermazione dell'Olivi in BALUZE-MANSI, II, 259, art. VII: «Tertius principalis status saeculi appropriate gerens imaginem spiritus sancti». L'attribuzione del terzo status allo Spirito santo non può essere espressa in maniera più chiara. 57 Cfr. gli estratti in R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 187; qui si trova anche l'affermazione secondo cui nel terzo status gli ebrei e i pagani «reviventur sub vitali et vivifico calore et lumine vite Christi per unicum et unitivum spiritum eius et sui patris». Con ciò si esprime in maniera inequivocabile la piena e intima unità tra l'operare di Cristo e l'operare dello Spirito santo. 54
58
R. MANSELLI, La «Lectura...,
59
BALUZE-MANSI, I I , 2 5 9 , art.
cit., 187. V.
60
E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 301.
61
Cfr. D. DOUIE, The Nature...,
cit., 114.
Cfr. BALUZE-MANSI, II, 258, art. I. Per questo l'Olivi, quando parla dei tre grandi status della storia universale, e non dei sette status della storia della chiesa, usa per lo più termini come «principalis» ovvero «generalis status»; cfr. ivi, 259, art. VII; 270, art. LX. « Ivi, 260, art. XIII. 64 L'articolazione dei sette status ecclesiae è esposta dettagliatamente in BALUZE-MANSI, II, 258, art. I. « Ivi, 259, art. IV. 66 Ivi, 259, art. IV: «Ut videatur quoddam novum saeculum seu nova ecclesia tunc formari, veteribus iam reiectis, sicut in primo Christi adventu formata est nova Ecclesia, veteri synagoga reiecta». 62
292
IL R E G N O
FUTURO
DELLA
LIBERTÀ
67 Cfr. la nota precedente e BALUZE-MANSI, II, 258, art. II. Anche qui il passaggio dal quinto al sesto status viene paragonato alla svolta al tempo di Cristo. 68 Ivi, 258, art. I. 6' Ivi, 261 s., art. XXIII. 70 Analogamente a Gioacchino, e diversamente dalla maggior parte degli eretici, l'Olivi ritiene che la chiesa non si sia affatto allontanata dalla retta via con Costantino e Silvestro; cfr. E . BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 309, 312; cfr. anche F. EHRLE, Zur Vorgeschichte des Konzils von Vienne, ALKG, II, cit., 399, in cui Ubertino cita un passo della Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi; da tale passo emerge che l'Olivi intende la donazione alla chiesa di beni e diritti temporali da parte di Carlo Magno come una «magnificatio ecclesiarum et monasteriorum», anche se ammette che per questo avvennero certi abusi. 71 I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., cit., II, 553. 72 BALUZE-MANSI, II, 268, art. XLVIII. «Carnalis clerus in hoc quinto tempore regnans et toti Ecclesiae praesidens». Cfr. anche R. MANSELLI, La "Lectura..., cit., 266. 73 BALUZE-MANSI, I I , 2 6 4 , art. XXXIII. 74 Ivi, 261, art. XIX. 75 Ivi, 267, art. XLVI. 76 Ivi, 266, art. XL. 77 Cfr. F. EHRLE, Zur Vorgeschichte..., ALKG, II, cit., 412; cfr. D . DOUIE, The Nature..., cit.,
112.
78 Cfr. R. MANSELLI, La 'Lectura..., cit., 220. L'opinione opposta di L . Hödl, secondo cui l'Olivi nella Postilla sull'Apocalisse avrebbe qualificato Bonifacio Vili come pseudo-papa e come personificazione dell'Anticristo, non è in alcun modo fondata; cfr. L . H Ö D L , Die Lehre des Petrus Johannis Olivi O.F.M. von der Universalgewalt des Papstes (Mitteilungen des Grabmann-Instituts der Universität München, 1), München 1958, 24 s. 7 9 Cfr. F. EHRLE, Zur Vorgeschichte..., ALKG, II, cit., 408. I passi di Ubertino qui citati si trovano nel manoscritto di Berlino della Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi (ms. Lat. oct. 432) ai ff. 5ra e 6va. 8 0 Pertanto un passo dell'estratto catalano della Postilla sull'Apocalisse dovrebbe restituire correttamente la concezione dell'Olivi. Vi si dice che egli chiama «ecclesiam carnalem eos qui male vivunt in ecclesia»; cfr. J . M . Pou Y MARTI, Visonarios..., cit. 506, art. XXX; cfr. anche R. MANSELLI, La "Lectura..., cit., 221 ss. 81 Cfr. F. EHRLE, Petrus..., A L K G , III, cit., 455; J. KOCH, Der Prozeß gegen die Postille Olivis zur Apokalypse, R T A M , 5 (1933), 314 s. Già nel 1319 gli scritti dell'Olivi erano stati proibiti da un capitolo generale dell'ordine francescano; cfr. anche E . PÄSZTOR, Le polemiche..., cit., òli. 82 BALUZE-MANSI, II, 2 6 1 , art. XXI; 2 6 3 , art. XXVIII. Cfr. anche R. MANSELLI, La «Lectura..., cit., 2 1 1 , e l'estratto del testo in L . H Ö D L , Die Lehre..., cit., 2 3 , da cui emerge che l'Olivi ascoltò a Parigi una predica di Bonaventura nella quale questi indicava Francesco come l'angelo del sesto sigillo. 83 Cfr., per esempio, BALUZE-MANSI, I I , 261, art. XVI: «Competit sexto statui, cuius proprie est profiteri et servare evangelicam legem seu regulam non solum praeceptorum, sed etiam consiliorum Christi». 84 Ivi, 261, art. XXII. « Ivi, 262, art. XXVI. 86 Ivi, 269, art. LIII. 87 Ivi, 268, art. XLIX. Questo undicesimo re è nel contempo il sesto dei sette re persecutori nella storia del cristianesimo; la loro serie, come in Gioacchino, comincia con Erode; cfr. F. Tocco, Lectura Dantis..., cit., 45. 88 BALUZE-MANSI, II, 266, art. XLIII. 8 9 Cfr. ivi, 269, art. LII, in cui l'Olivi fa riferimento all'opinione diffusa secondo cui sia l'«Antichristus mysticus» sia l'«Antichristus magnus» sarebbero pseudo-papi. Cfr. anche ivi, 266, art. XLII e 267, art. XLIV, in cui la bestia ascendens de terra (Ap 13, 11) viene messa in relazione alternativamente con lo pseudo-papa e con 1 'antichristus mysticus-, cfr. anche R. MANSELLI, La 'Lectura..., cit., 219. 90 BALUZE-MANSI, I I , 2 6 7 , art. XLIV.
L'ATTESA
DI
RIFORMA
FRANCESCANO-SPIRITUALE
293
91 Cfr. l'estratto del testo in L. H Ö D L , Die Lehre..., cit., 23. Del resto qui, all'inizio di questo passo, si legge (secondo il ms. Lat. oct. 432, f. 74ra): «Quod autem futura temptatio mystici Antichristi non deberet principaliter ex secta Manicheorum assumi, docet multiplex ratio: Prima est...«. 92 BALUZE-MANSI, II, 267, art. XLV. Significativo in questo contesto è il fatto che qui l'Olivi riferisce il noto passo di 2Ts 2, 3 sulla discessio che precede l'Anticristo non, come era usuale fino allora (cfr. per esempio Gioacchino da Fiore in Expos, ff. 192r, 197v) alla caduta dell'impero, che nella concezione generale dell'Olivi non svolge alcun ruolo di rilievo, bensì all'apostasia del papato; cfr. anche BALUZE-MANSI, II, 265, art. XXXVII. 93 Ivi, 267, art. XLV. 94 R . KESTENBERG-GLADSTEIN, The Third Reich..., cit., 2 5 0 sbaglia, quando vede nelle opinioni dell'Olivi a questo proposito un accostamento al punto di vista ghibellino. 95 Dn 7, 7; Ap 17, 3. 96 BALUZE-MANSI, I I , 2 6 8 , art. X L I X ; cfr. 2 6 0 , art. X , in cui l'Olivi parla allo stesso modo della «damnationem meretricis et carnalis Ecclesiae fiendam a decem cornibus bestiae». Ivi, 269, art. LVI, i dieci re vengono designati espressamente come «pagani». 97 I. V O N D Ö L L I N G E R , Beiträge..., II, cit., 579, artt. 72-73. Questo passo si trova nel suo intero contesto in F. Tocco, Lectura Dantis..., cit., 52. 98 F. Tocco, Lectura Dantis..., cit., 45. 99 Ivi, 44. 100 Ciò è testimoniato dall'espressione: «Magnus Antichristus cum Rege Monarchia sibi cohaerente» in BALUZE-MANSI, II, 266, art. XLIII. 101 Ms. Lat. oct. 432, f. 103ra: «Quidam tarnen putant, quod sicut Julianus apostata factus est imperator contrarius Christo, sic apostata Antichristus per suas fraudes optineat monarchiam imperium super totum orbem et quod tunc de filiis christianis surgant multi falsi prophete illi adulantes et per falsa signa illum ab omnibus fortius adorare facientes et legem ab ilio datam predicent et apparere faciant esse veram, et quod isti vocentur hic bestia secunda (Ap 13, 11), Antichristus vero rex vocetur bestia prima. In cuius conspectu isti facient signa et quam facient ab omnibus adorari. Mihi autem non est magne cure an ille qui proprie est Antichristus et qui adorabitur ut Deus et qui dicet se Messiam Judeorum sit rex vel Pseudopapa vel simul utrumque. Sufficit enim mihi scire quod est fallax et Christo contrarius». Cfr. anche ivi, f.l29vb, in cui egli lascia ugualmente impregiudicato se lo pseudoprofeta, o il sovrano suo alleato, sia l'Anticristo vero e proprio: «Sed an ille sit pseudopropheta et fingens se Deum vel solus pseudopropheta praedicens primum [ = regem] ut Deum, non constat». 102
103
BALUZE-MANSI, I I , 2 6 3 ,
art.
XXX.
Ivi, 263, art. XXVIII. Ivi, 266, art. XLI; sulla predicazione dei francescani per convertire i popoli non cristiani cfr. ivi, 266, art. XXXVIII. 10 ' Ivi, 260, art. XIV (anche 266, art. XXXVIII e XL). 106 Ivi, 259, art. VIII. 107 Ivi, 259, art. Vili: «[...] distinguetur autem in praelatos et collegium subditorum quasi in virum et uxorem». 108 Ivi, 258, art. I. 109 Cfr. il passo tratto dalla Quaestio XIV delle Quaestiones de perfectione evangelica in L. H Ö D L , Die Lehre..., cit., 20. 110 L'Olivi cita Is 2, 4 («Conflabunt gladios suos in vomeres») alla fine del commento al cap. 7 dell'Apocalisse, per caratterizzare il settimo status venturo; cfr. ms. Lat. oct. 432, f. 66va. 104
111
112
BALUZE-MANSI, I I , 2 7 0 ,
art.
LVIII.
Ivi, 270, art. LVIII. Del resto dal passo qui citato della Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi emerge che egli conosceva il Liber de semine Scripturarum-, cfr. anche il più nutrito florilegio di testi in R. MANSELLI, La religiosità d'Arnaldo da Villanova, BISI, 63 (1951), 12 ss.; secondo l'autore anche l'Olivi riteneva che il Liber de semine fosse un'opera di Gioacchino. Del resto in collegamento con l'Olivi anche Ubertino da Casale ha affermato la possibilità che il terzo status potesse durare circa settecento anni; cfr. U B E R T I N O , Arbor vite, V, 12, 482. 113 Ms. Lat. oct. 432, f. 66rb: «Ergo nec noscimus quantum spacium temporis seu annorum et dierum significetur hic per mediam horam. Non enim oportet quod significet dimidium
294
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
totius temporis novi testamenti, satis tamen patet, quod tempus septimi status est minus quam sit totum tempus ecclesie, nec mirum quia omnis pars minor est suo toto». 114 Un'idea simile non si trova nelle opere di Gioacchino, a eccezione della tavola 21 del Liber Figurarum. Piuttosto, l'idea della decadenza alla fine del terzo status compare anche in Ubertino da Casale (Arbor vite, V, I, 4l6a), il quale qui, come su altri punti, raccoglie la concezione dell'Olivi. 115 R . MANSELLI, La «Lectura..., cit., 2 2 8 . In generale si deve constatare che Manselli, nello sforzo senz'altro legittimo di correggere l'interpretazione un poco troppo radicale dell'Olivi da parte di Benz, cade a sua volta nell'errore di minimizzare le divergenze dell'Olivi dalla dottrina dominante, e di allontanare troppo la concezione della storia dell'Olivi da quella di Gioacchino. 116 Proprio contro questa dottrina si è pronunciato, non senza ragione, papa Giovanni XXII in una predica tenuta nel 1325-26, con la motivazione significativa che gli uomini, se fosse concessa loro una simile esperienza immediata del divino, non avrebbero più bisogno di un «mediator» tra sé e Dio; cfr. E. PÄSZTOR, Le polemiche..., cit., 418, cfr. 413 s. 117 Cfr. la calzante caratterizzazione in M. VAN HEUCKELUM, Spiritualistiscbe Strömungen an den Höfen von Aragon und Anjou während der Höhe des Armutsstreites, Berlin-Leipzig 1912, 31, cfr. anche 28. 118 Cfr. anche E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 291. 119 Cfr. le pertinenti osservazioni di E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 263, 303, 305 sulla grande rilevanza del motivo della sofferenza nella teologia della storia dell'Olivi. 120 Cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 209, che qualifica l'Olivi, al pari di Angelo Clareno, come «esempio di un ribelle contro la sua volontà». 121 Su questo movimento ereticale della Francia meridionale cfr. adesso soprattutto R. MANSELLI, Spirituali e Beghini in Provenza, Roma 1959, il cui merito è quello di aver evidenziato l'incidenza, che in questo caso viene alla luce, delle visioni francescano-spirituali su cerchie di laici; cfr. anche E. BENZ, Ecclesia Spiritualis, cit., 349 ss. 122 Cfr. il passo in F . EHRLE, Die Spiritualen..., A L K G , I V , cit., 2 s. (dalla Quaestio XVI-, egli sostiene analoghe limitazioni del potere papale anche nella Quaestio XIV, cfr. L . H Ö D L , Die Lebre..., cit., 19 s. 123 Cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 134; E. K N O T H , Ubertino von Casale, Marburg 1903, 40 ss. 124 Cfr. K . BALTHASAR, Geschichte..., cit., 193, cfr. 168; D . D O U I E , The Nature..., cit., 151. 125 UBERTINO, Arbor vite, V, 6, 446a. 126 Cfr., per esempio, ivi, V, 1, 409b s. e 4l6b (concorda ampiamente con le considerazioni dell'Olivi in BALUZE-MANSI, II, 259, art. Vili); V, 7, 452b (concorda ampiamente con le considerazioni dell'Olivi in I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., II, cit., 553). 127 UBERTINO, Arbor vite, V, 8, 460b. 128 Ivi, V, 8, 464a. Cfr. supra, 254. 130 UBERTINO, Arbor vite, V , 8, 46la. 131 Ivi, V , 8, 465a; cfr. anche F. CALLAEY, L'Idéalisme franciscain spirituel au XlVe s. Etüde sur Ubertin de Casale, Louvain 1911, 126 ss. 132 L'odio di Ubertino verso Benedetto XI può essere motivato tra l'altro anche perché questo papa è corresponsabile del fatto che Ubertino dovette cessare la sua attività pubblica a Perugia, e ritirarsi nell'eremo della Verna, dove nel 1305 compose l'Arbor vite-, cfr. K. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 248; D . D O U I E , The Nature..., cit., 124 s. 133 UBERTINO, Arbor vite, V, 10, 474a. 134 Cfr. anche C H . T . DAVIS, Dante and the Idea of Rome, cit., 2 1 4 s. 135 UBERTINO, Arbor vite, V , 1 2 , 479b. 136 Ivi, V, 11, 474b; cfr. F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 22, che rimanda anche ad Arbor vite, V, 8, là dove viene espressa l'attesa di un successore di quel papa illegittimo, il quale «legitime sederet et omnia reformaret». 137 UBERTINO, Arbor vite, V , 12, 476b. Già l'Olivi ritiene possibile uno spostamento a Gerusalemme del centro della futura chiesa unita e purificata; cfr. i passi citati in F. Tocco, Lectura Dantis..., cit., 53.
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Arbor vite, V, 3, 420a. Ivi, V, 3, 422b: «Prius enim debuit status paupertatis in humilitate probari, ut postea in prelatione non addisceret extolli». 140 Ivi, V, 12, 478b. 141 Cfr. anche ivi, V, 12, 479a: «Paupertas tunc triumphabit super omnes suos impugnatores». 142 Cfr. in particolare ivi, V, 2, 420a. >« Ivi, V, 2, 4l8b. 144 Questo atteggiamento di fiducia nel piano salvifico di Dio e di negazione dell'agire umano emerge con particolare evidenza nella lettera a Corrado di Offida; cfr. I. JEILER, Ein unedierter..., cit., 656: «Sic circa tempus suscitationis spiritus Christi et reformationis status evangelici, non humanitus nec per hominem fiendi aut possibilis fieri, sed solius Christi divinissimo flatu et actu». 145 Cfr. L. ÖLIGER, De secta spiritus libertatis in Umbria saec. XIV, Roma 1943, 27, 88; E. KNOTH, Ubertino von Casale, cit., 7, 62. 146 UBERTINO, Arbor vite, V, 12, 481a; cfr. anche 482a: «Anno Domini CCCXXXIV obiit sanctus papa Silvester [...] quo tempore facta est diaboli ligatura». Le corrispondenti considerazioni dell'Olivi suonano (ms. Lat. oct. 432, f. 130rb): «Notandum, quod ligatio Sathane [...] potest [...] referri ad tria tempora. Primo scilicet ad tempus mortis et resurrectionis Christi, in quo Christus eius potestatem ligavit ne posset sanctos patres amplius detinere in limbo inferni nec alios sanctos cum moriuntur illuc includere, nec etiam posset impedire conversiones gentium ad deum, sicut prius ab initio ydolatrie usque ad Christum fecerat. Secundo potest referri ad tempus expulsionis ydolatrie de orbe sub tempore Constantini. Ex tunc enim non potuit sic seducere gentes ad colendum demones et ydola sicut primo fecerat. Tertio refertur ad tempus mortis Antichristi et septimi status, in quo ligatur, ne posset sic seducere orbem et tempestare ecclesias sicut in reliquis sex etatibus earum fecerat». 147 UBERTINO, Arbor vite, V, 12, 482b. 148 Cfr. F. EHRLE, Petrus..., ALKG, III, cit., 432 ss. 149 Cfr. ivi, 14 s., 158 s.; secondo quanto detto ivi, essi si sarebbero ribellati alla costituzione di Nicolò III del 1279; ma l'Olivi non li approvò. Paolino Minorità racconta addirittura che negli anni Novanta del XIII secolo, probabilmente dopo le dimissioni di Celestino V, un certo «frater Matthaeus de Bosicis» fuggì a Roma dalla Provenza con degli scritti dell'Olivi, e lì si fece eleggere papa da cinque beghini e tredici donne (MURATORI, Antiquitates IV, 1021). Ma questa notizia è chiaramente tendenziosa, come dimostra una Confessio di frater Matthaeus che ci è stata tramandata; cfr. R. MANSELLI, Spirituali..., cit., 41 ss.; F.-M. DELORME, La confessio fidei du frère Matbieu de Bouziges, «Etudes Franciscaines», 49 (1937), 224 ss. 150 L'Oraculum angelicum Cyrilli fu pubblicato, accanto al commento pseudogioachimita, da P. Piur nella quarta parte del carteggio di Cola di Rienzo, curato da K. Burdach e P. Piur, Berlin 1912 ( = Vom Mittelalter zur Reformation II, 4), 223 ss. (d'ora in avanti: Piur). 151 Cfr. Briefwechsel des Cola di Rienzo, V. Teil, Berlin 1929, 369. Su questo trattato di Arnaldo cfr. anche H . FINKE, AUS den Tagen Bonifaz Vili., Münster 1 9 0 2 , CXXII. Anche nelVEulogium di Arnaldo, quasi contemporaneo, viene menzionata la «revelatio» di Cirillo; cfr. J.M. Pou Y MARTI, Visionarios..., cit., 4 6 . Va qui ricordato il fatto, finora poco considerato, che Arnaldo fa riferimento a «Cirillum presbiterunu come redattore di scritti profetici anche nel suo Commento all'Apocalisse-, cfr. E. BENZ, Die Geschichtstbeologie der Franziskanerspiritualen des 13. und 14. Jahrhunderts, ZfKG, 5 2 ( 1 9 3 3 ) , 1 0 6 , n. 4 2 . Tuttavia questa non può essere considerata come una testimonianza ancora più antica dell'esistenza dell 'Oraculum Cyrilli, perché il Commento all'Apocalisse di Arnaldo chiaramente non fu scritto, come comunemente ritenuto finora, negli anni Novanta del XIII secolo, ma sicuramente solo nel 1306 (in proposito cfr. più avanti, n. 246). 152 Piur, 270. Per un orientamento su questi avvenimenti cfr. E.G. LÉONHARD, Les Angevins de Naples, Paris 1954, 150 s. Piur, 270; cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte..., cit., III, 563, 566. 154 Piur, 270: «Catulus [= Carlo II] salubriter reservetur». 155 F.X. SEPPELT, Geschichte..., cit., III, 574. 158
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UBERTINO,
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156 B. Zimmermann suppose questo tempo di composizione; cfr. Monumenta histórica Carmelitana, I , a cura di B . Zimmermann, Lirinae 1 9 0 7 , 2 9 6 ; allo stesso modo J . B I G N A M I - O D I E R , Etudes sur Jean de Roquetaillade, Paris 1952, 54. 157 Piur, 280. 158 Ivi, 281-283; cfr. anche le considerazioni del Commento pseudogioachimita, ivi, 292, 295. 159 Ivi, 283. 160 Cfr. F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 1943, 103, sull'influsso di Carlo II d'Angiò. 161 Piur, 296. Sulla figura di Roboamo, figlio di Salomone, e del suo avversario Geroboamo cfr. IRe, 11 e 12. 162 Piur, 298: «Sit seducturus Robeam, id est ortopontificem, forte ut cedat officio». 163 Cfr. F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 169, 173. 164 Piur, 296; «Structa ab ilio demoliens, ascribens inscitis perpetrata». 165 Cfr. D. D O U I E , The Nature..., cit., 5 5 s.; F. BALTHASAR, Geschichte..., cit., 186 ss. 166 Piur, 296. 167 Cfr. il Commento pseudogioachimita, ivi, 300. 168 Cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte..., cit., IV, 15. 169 Briefwechsel des Cola di Rienzo, V, 371. 170 Ivi, 371. Il passo in questione di Arnaldo si trova in H. FINKE, AUS den Tagen..., cit., CLXXXIX. 171 Piur, 297; cfr. anche il Commento a questo passo, ivi, 303. 172 Briefwechsel des Cola di Rienzo, V, 369. Questa congettura di Piur si spiega soprattutto per il fatto che egli riferisce all'Olivi le asserzioni sul «Sol» dei capp. I e II dell'Oraculum Cyrilli, potendosi egli poggiare su un corrispondente accenno di Angelo Clareno (cfr. ALKG, II, cit., 290). L'identificazione del «Sol» con l'Olivi però, nonostante la testimonianza di Angelo, che era vicino agli avvenimenti, non è possibile. Ad esempio il «Sol» secondo l'oracolo (Piur, 251) è nato nel 1254, mentre l'Olivi era nato nel 1247-48 (cfr. D . D O U I E , The Nature..., cit., 82). Anche gli altri dati del capitolo I dell'Oracolo non si lasciano in alcun modo ricondurre alla vita dell'Olivi. 173 Piur, 301. 174 Ivi, 305. 175 Ivi, 306. 176 Ivi, 2 9 0 s. 177 Ivi, 315. Con le «puellae de monte umbroso» nominate subito dopo si intendono chiaramente i domenicani. 178 Ivi, 318; sulla «petra» cfr. anche 326. 179 Ivi, 315. 180 Ivi, 320. 181 Ivi, 323. 182 Ivi, 322 (Sai 127, 2). Questi princìpi non sono affatto in contraddizione con gli ideali originari di Francesco, il quale non dà affatto così esclusivo risalto al principio del mendicare. Così lo stesso Francesco cita nella Regula prima le parole del salmo indicato; cfr. H. B Ö H M E R , Analekten zur Geschichte des Franziskus von Assisi, Tübingen 1930 2 , 5. Anche nella Vita b. Fratris Aegidii, che riflette la tendenza della cerchia degli spirituali, viene sottolineata con vigore l'esigenza di guadagnarsi da vivere col lavoro manuale; cfr. Documenta antiqua Franciscana, ed. L. Lemmens, parte I, Scripta Fratris Leonis, Quaracchi 1901, 42 s. Sulla questione del lavoro manuale agli inizi dell'ordine minorità cfr. K. ESSER, Die Handarbeit in der Frühgeschichte des Minoritenbrüderordens, «Franziskanische Studien», 40 (1958), 145 ss. 183 Piur, 320. 184 Ivi, 321 s.; cfr. l'analoga lista di lagnanze contro la maggioranza dell'ordine nella Historia Septem tribulationum di Clareno (ALKG, II, cit., 297). 185 Piur, 298. 186 Ivi, 304 s. 187 Ivi, 306. 188 Ivi, 305. 189 Ivi, 287. Qui il commentatore cita anche 2Cor 5, 17: «Vetera transierunt et omnia nova facta sunt».
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Ivi, 297; cfr. anche il Commento a questo passo, ivi, 302. Così il Commento, ivi, 284. 192 Ivi, 290. Il Commento pseudogioachimita rimanda qui a un ignoto «Polycarpus dyaconus» come precedente di queste prognosi circa il futuro; cfr. Briefwechsel des Cola di Rienzo, V, 394 s. 193 Piur, 308 s. Il commentatore qui si richiama alle considerazioni fatte, a quanto si dice, da lui stesso, cioè da Gioacchino, nel Commento a Isaia. Ma non c'è motivo di congetturare, come fa Piur (p. 224), che il Commento pseudogioachimita M'Oraculum Cyrilli provenga dalla stessa mano del Commento a Isaia, ugualmente circolante sotto il nome di Gioacchino. 194 Piur, 309. 195 In proposito cfr. il capitolo X dell'oracolo (Piur, 312). 196 Ivi, 287. 197 Ivi, 315. 198 Ivi, 268. 199 Ciò è stato riconosciuto per la prima volta da H. Grundmann; cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 89 s. Si tratta delle figure 16-30 delle numerose edizioni del XVI secolo. Io ho avuto a disposizione i Vaticinia sive Prophetiae abbatis Joachimi et Anselmi episcopi Marsicani, Venezia 1589 (su questa edizione cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 82 s.). Una lista sinottica, nella quale a ogni vaticinio papale viene messo di fronte il corrispondente vaticinio imperiale bizantino, è offerta da K. BURDACH, Briefwechsel des Cola di Rienzo, V, 400. Sugli oracoli imperiali bizantini cfr. adesso C. MANGO, The Legend of Leo tbe Wise, in Zbomik radova. Srpska Akademija Nauka 65, Beograd I960, 59 ss. 200 Cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 99 ss.; ID., Liber de Flore, cit., 36; cfr. anche D. DOUIE, The Nature..., cit., 39, 57 s. Nella loro permanenza in territorio greco alcuni di questi spirituali hanno imparato il greco, come sappiamo con sicurezza a proposito di Angelo Clareno; cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 100, n. 2. 201 H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 103, 107; ID., Liber de Flore, cit., 40s. 202 Nel Vaticinium, sopra la sua figura appare il motto: «Elatio paupertatis, obedientia, castitas, gastrimargiae et hypocritarum desctructio». 203 Ciò emerge tra l'altro dalla lettera dell'Olivi a Corrado di Offida e dal racconto di Paolino Minorità; cfr. supra, n. 37 di questo capitolo. Cfr. anche F. EHRLE, Zur Vorgeschichte..., ALKG, III, cit., 158 s. 204 Cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 92. Sia consentito però richiamare l'attenzione sul fatto che il commentatore del Liber de Flore, che ben presto dovrà essere menzionato, intende evidentemente solo gli ultimi sette vaticini come profezie salvifiche; egli infatti ritiene che «Rabanus» (con questo termine si intendono i Vaticini papali-, cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 107) ponga tra Bonifacio Vili e il primo papa angelico altri due papi. Di fatto l'ottavo vaticinio in questione, dei complessivi quindici, presenta una figura poco adatta a suscitare l'idea di un papa angelico. 205 Cfr. il vaticinium 24 nell'edizione del 1589. 206 Ivi, vaticinium 27. Su questi motti, che al contrario del restante testo non sono semplicemente delle traduzioni dal greco, e perciò gettano una luce particolare sulle opinioni di quel gruppo di spirituali, cfr. H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 91. 207 H. GRUNDMANN, Die Papstprophetien..., cit., 107; ID., Liber de Flore, cit., 40 s. 208 Probabilmente in origine il titolo suonava: Liber Joachimi de Flore de summis pontificibus; cfr. H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 42. 209 Cfr. H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 68, n. 85. 210 Ivi, 40. 211 Ivi, 74. Grundmann ipotizza che il quadruplice numero dei papi angelici sia da ricondurre ugualmente a una conoscenza dei bizantini Oracoli di Leone; invero allora abbiamo a che fare con una diversa interpretazione degli Oracoli di Leone indipendentemente dai Vaticini papali appena ricordati, giacché nei Vaticini papali si parla di otto (almeno sette) papi salvifici (ivi, 69). 212 Questa tendenza filofrancese è in parte ripresa dal Liber regum che circola sotto il nome di Merlino; cfr. H. GRUNDMANN, «Gòtting. gelehrte Anzeigen», 190 (1928), 568 ss. In proposito va osservato che per la comune ostilità a Bonifacio Vili gli spirituali e il re di Francia 190 191
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Filippo IV divennero alleati, fino a un certo punto; così Filippo IV è appunto anche per Ubertino da Casale un «pugil Christi»; cfr. supra, n. 128. 213 Cfr. H. GRUNDMANN, «Gotting, gelehrte Anzeigen», 190, 571: «Pastore suadente angelic o Italici unum fìent». 214 Cfr. H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 70-72. 215 Ivi, 73: «Quia omnia plana erunt, executore temporale minime indigebunt». 216 Vi appare molto chiaramente la differenza tra le attese degli spirituali e quelle di Dante, sebbene entrambi sperassero nell'unione dell'Italia. In Dante è il «veltro» imperiale, qui è il papa angelico a dover realizzare ciò. 217 Cfr. H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 73. 218 Ivi, 73 s. 219 Cfr. per esempio le considerazioni del Commento, ivi, 87. 220 Ivi, 90: «Quia si cecus cecum ducit, ambo in foveam cadunt». Cfr. il Commento a questo passo, ivi, 91: «Quod prima et potissima causa perversitatis in toto populo christiano est perversitas aut corruptio capitis seu universalis ecclesie». 221 Ivi, 81, n. 6. 222 Ivi, 81: «Ipsorum aliqui et aliqui ex electis ad gradum non salutiferum transfretabunt, quia illi parti habenti desideria prava se adherebunt et una cum illis layce et inhoneste vivendo trutanticam vitam eligent»; cfr. in proposito le considerazioni di Grundmann, ivi, 54 s. 223 ALKG, II, cit., 287. 224 H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 74 s. 225 Ivi, 75, n. 107. 226 Cfr. H. FINKE, AUS den Tagen..., cit., 217 ss. La profezia Ve mundo in centum annis sorse prima del 1301, e fu raccolta da Arnaldo di Villanova nel suo trattato, composto a quell'epoca, De mysterio cymbalorum. Questa profezia, che nel nostro contesto non è molto interessante, e che promette una unificazione della chiesa greca con quella romana e attende un «nuovo David», è pubblicata inJ.M. Pou y MARTI, Visionarios..., cit., 54. Sia consentito infine menzionare un'altra profezia dell'epoca di Filippo il Bello, riprodotta in N. BOUTARIC, Notices et extraits de documents inédits relatifs à l 'histoire de France sous Philippe le Bel, in Notices et Extraits des Manuscrits de la Bibliothèque Imperiale, voi. 20, 2, Paris 1862, 235 ss. Questa profezia si basa ampiamente su un trattato, peraltro sconosciuto, di un certo «frater Columbinus», il quale suddivide il tempo d o p o Cristo, secondo i sette sigilli, in sette epoche, ognuna di 220 anni. Secondo tale profezia, intorno al 1320, d o p o la persecuzione dell'Anticristo, comincia il settimo tempo della pax et tranquillitas. A «Columbinus» fa riferimento anche Ugo di Newcastle, cfr. R.E. KASKE, «Traditio», 17 (1961), 204. 227
C f r . H . FINKE, Aus
den
Tagen...,
cit., 2 2 0 , n. 1.
Ciò appare soprattutto dal giudizio su Arnaldo nel Liber de Flore, in cui egli è qualificato come «unto» (unctus); cfr. H. GRUNDMANN, Liber de Flore, cit., 58 ss., e il passo citato ivi, 84 s. Anche Angelo Clareno nella sua Historia septem tribulationum racconta di Arnaldo, nel quale vede un uomo «Celans pro reformatione evangelice status»; cfr. ALKG, II, cit., 129. SALIMBENE, MG SS XXXII, 236, 239. 230 p e r c i ò il netto rifiuto, da parte di Arnaldo, della setta dello «Spiritus libertatis» in T o scana è senz'altro tipico; cfr. P. DIEPGEN, Arnald von Villanova als Politiker und Laientheologe, Berlin-Leipzig 1909, 64. 231 Cfr. R. MANSELLI, Arnaldo da Villanova, diplomatico, medico, teologo e riformatore religioso alle soglie del sec. XIV, «Humanitas», 8 (1953), 269. 232 Ciò emerge dal Tractatus in quo respondetur obiectionibus que fiebant contra Tractatum Arnaldi de Adventu Antichristi, pubblicato in M. BATLLORI, Dos nous escrits espirituals d'Arnau de Vilanova, «Analecta sacra Tarraconensia», 28 (1955), 61; cfr. in proposito ivi, 51 s. La versione pubblicata a Parigi nel 1299 è stata tuttavia scritta nel 1297, cfr. H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., CXXXI. 233 Sul tempo di composizione di questo scritto cfr. H. FINKE, AUS den Tagen..., cit., CXVIII. Questa Introductio è pubblicata in R. MANSELLI, La religiosità..., cit., 43 ss. 228
234
C f r . R. MANSELLI, La
religiosità...,
cit., 55, 56,
57.
Questo trattato è pubblicato in H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., CXXIX-CXXXIX, e viene poi riportata una sua prosecuzione composta solo nel 1300. 235
L'ATTESA DI RIFORMA FRANCESCANO - SPIRITUALE
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Ivi, CXXXI: «Est ultima etas, que a Christo incepit...». Ivi, CXXXII. Su questa indicazione cronologica cfr. A. MAIER, Handschriftliches zu Arnaldus de Villanova und Petrus Johannis Olivi, «Analecta sacra Tarraconensia», 21 (1948), 62. 238 H. FINKE, AUS den Tagen..., cit., CXXXII s.; cfr. anche p. CXXXIII, dove questi avvenimenti vengono descritti come «negocium Grecorum» e «negocium Saracenorum». ™ Ivi, CXXXIII s. 240 Ivi, CXXXIII: «Quod autem post tempus Antichristi non sit seculum uno centenario duraturum, ex predictis patet». 236
237
241
Ivi,
CXXXIV.
Cfr., per esempio, le sue considerazioni nella prosecuzione del trattato De adventu antichristi, scritta a Parigi nel 1300, in H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., CXLVI s. 243 Cfr. P. DIEPGEN, Arnald..., cit., 17, 30 s. 244 Cfr. H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., 223 s. 245 Cfr. H. GRUNDMANN, Líber de Flore, cit., 59. Qui Grundmann fa riferimento al fatto che Arnaldo, nel suo programma di riforma inviato a papa Benedetto XI nel giugno 1304, intervenne direttamente a favore degli spirituali francescani della Provenza, i quali erano perseguitati (cfr. H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., CLXXXVI s.). Contro Grundmann F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 1933, 21, fondandosi su E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 100 ss., ha sostenuto l'opinione che Arnaldo fosse entrato già prima in stretti rapporti con gli spirituali. In proposito si deve osservare che sia Baethgen sia Benz procedono dall'errata supposizione che il Commento all'Apocalisse di Arnaldo risalga a prima del 1300. Per il resto è sicuramente giusto che Arnaldo già prima del 1300 era venuto a contatto con il patrimonio di idee fiancescanogioachimita (e di ciò Grundmann può aver tenuto troppo poco conto). D'altra parte però si potrà continuare a ipotizzare con Grundmann che Arnaldo entrò solo intorno al 1304 in collegamento diretto e attivo con la corrente spiritualistica che, nel sud della Francia, si raccordava all'Olivi, e che per questo nelle idee di Arnaldo subentrò non una trasformazione completa, ma un certo spostamento di accento. 242
24é Cfr. H. FINKE, Aus den Tagen..., cit., CXVII; M. MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia de los Heterodoxos Españoles, III (Obras Completas, 8), Madrid 1917, 196; P. DIEPGEN, Arnald..., cit., 15; E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 105 (il quale opta per il 1298 circa, «dopo la Postilla sull'Apocalisse dell'Olivi»). Anche Manselli colloca questo scritto intorno al 1290 circa; cfr. R. MANSELLI, Arnaldo da Villanova e i Papi del suo tempo, «Studi Romani», 7 (1959), 147; ID., Spirituali e Beghini..., cit., 56 ss. Qui (pp. 59 s.) Manselli adduce tra l'altro come argomento, per l'origine precoce del commento all'Apocalisse di Arnaldo, il fatto che quest'opera è dominata completamente dall'attesa di un papa angelico, e già per questo motivo non potrebbe essere stata scritta dopo il deludente fallimento del papa angelico Celestino V. A mio parere questo argomento è errato. Le testimonianze citate sopra a proposito delle attese del papa angelico mostrano proprio che l'apogeo di simili speranze intorno al futuro va collocato solo negli anni immediatamente successivi al 1300. Si può addirittura dire che l'episodio di Celestino V non ha minimamente sottratto terreno alle attese del papa angelico, ma al contrario ha dato loro veramente le ali — analogamente a come il fallimento di Tile Kolup non ha soffocato l'attesa di un ritorno di Federico II, bensì ha inequivocabilmente contribuito in modo decisivo alla sua diffusione.
Cfr. il passo citato in E. BENZ, Die Gescbichtstheologie..., cit., 106, n. 42. Cfr. M. BATLLORI, DOS nous Escrits..., cit., 49. 249 In questo senso depone, per esempio, la piena concordanza nella dichiarazione dei «tria gravissima mala» alla fine del quinto tempo della chiesa: 1. la «laxatio clericorum, monachorum et laicorum», 2. la diffusione delle eresie, 3. la «multiplicatio ypocritalium religiosorum». Cfr. le citazioni dal Commento di Arnaldo in E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 107, n. 45, e le corrispondenti considerazioni dell'Olivi in I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., II, cit., 553. 250 Cfr. il passo riprodotto in J.M. Pou Y MARTI, Visionarios..., cit., 47; E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 106 s. 251 J.M. Pou Y MARTI, Visionarios..., cit., 47 s. Perciò non mi pare giusto, quando R. MANSELLI, Spirituali e Beghini..., cit., 60 dice «che nell'impostazione generale come nei particolari Arnaldo da Villanova non tiene presente né Gioacchino né Pietro Olivi», anche se bisogna 247 248
300
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
concedere che Arnaldo non si attenne così strettamente all'Olivi come, per esempio, Ubertino da Casale, e in molti passi sviluppò proprie idee. 252 Cfr. E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 107, n. 44. 253 Ivi, 109 s. La pluralità dei papi angelici denota la conoscenza, da parte di Arnaldo, dei Vaticini papali o della letteratura spirituale sorta in relazione a essi. Egli menziona, accanto a Gioacchino e a Ildegarda, VHoroscopus e Cirillo (cfr. E. B E N Z , Die Geschichtstheologie..., cit., 106, n. 42). 254 Ivi, 106, n. 42. 255 Su questo scritto cfr. P . DIEPGEN, Arnald..., cit., 76 ss. Il Rahonament è pubblicato in M. MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia..., III, cit., XCIIss. 256 M . MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia..., I I I , cit., C I . 257 Cfr. in proposito P . DIEPGEN, Arnald..., cit., 89ss. Questo scritto è pubblicato in M. MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia..., III, cit., LXXXIIIss. 258 Ivi, XCI. Cfr. in proposito F. BAETHGEN, Der Engelpapst, cit., 1933, 21. 259 Cfr. E. BENZ, Die Geschichtstheologie..., cit., 107 s. (in particolare n. 45). 260 Queste costituzioni sono state riprese da Federico III in una lettera al fratello, Giacomo II di Aragona; tale lettera è pubblicata negli Acta Aragonensia, ed. H. Finke, II, 1908, 695 ss. Cfr. in proposito P . DIEPGEN, Arnald..., cit., 92 s. 261 Cfr. M . MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia..., III, cit., LXXXV, LXXXIX. Cfr. a questo proposito, e per quanto segue, P . DIEPGEN, Arnald..., cit., 89ss.; R. MANSELLI, Arnaldo da Villanova..., cit., 276 ss. 262 M . MENÉNDEZ Y PELAVO, Historia..., III, cit., LXXXVII. 2« Ivi, LXXXVIII. 264 Di questi rapporti tratta in maniera succinta il saggio di R. MANSELLI, Arnaldo da Villanova e i Papi del suo tempo tra religione e politica, «Studi Romani», 7 (1959), 146 ss. 265 Cfr. F.X. SEPPELT, Geschichte..., IV, cit., 7 6 .
VI. Il ruolo delle speranze millenaristiche nel quadro dei movimenti ereticali del medioevo centrale
I capitoli svolti finora hanno mostrato quale diffusione abbia avuto nel XII, e ancora di più nel XIII secolo, l'attesa che prima della fine del mondo si realizzi, per un tempo più o meno breve, uno stato ideale sulla terra. Tuttavia le visioni del futuro finora descritte di solito non furono affatto una componente dell'ideologia di movimenti di massa autonomi e ampi. Si trattò piuttosto o di sogni utopici di limitate cerchie monastiche, che nonostante tutte le critiche all'ordine esistente erano più vicine alla classe dominante che non alle masse popolari sfruttate, o invece — come nel caso delle attese relative a un imperatore della pace — di rappresentazioni che vennero sì incontro a confusi desideri popolari, ma che fondamentalmente vennero sfruttate per interessi dinastici. Solo in pochissimi casi — per esempio nell'attesa relativa a Federico, così come la tramanda Giovanni di Winterthur — le testimonianze finora ricordate permettono di concludere che esse riflettono direttamente e assai fedelmente l'universo rappresentativo delle masse popolari. Finora in nessun caso si è parlato di un movimento popolare ben identificabile, nella cui ideologia attese millenaristiche o simili costituissero una componente stabile. Sorge quindi la domanda in che misura nei movimenti ereticali del medioevo, radicati in primo luogo negli strati popolari bassi, abbiano giocato un ruolo degno di nota tali attese chiliastiche. Di per sé sorge spontanea l'ipotesi che nei movimenti di massa ereticali e di altro tipo i presupposti per la ripresa di idee millenaristiche o simili fossero favorevoli. Infatti anche qui, come tra i francescani estremisti, si coniugavano un netto rifiuto dello stato esistente e una certa incapacità di eliminare con le proprie forze il vecchio, corrotto stato di cose. Perciò anche in questo caso la convinzione che in un tempo non troppo lontano, secondo un piano salvifico di Dio e con l'intervento diretto di forze sovrumane, dovesse avvenire una grande trasformazione nell'ordine terreno, poteva contribuire sostanzialmente a rafforzare la capa-
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cita di resistenza e l'autocoscienza di quegli eretici. N. Cohn, nel suo The Pursuit of the Millennium, ha studiato il problema della connessione tra i movimenti popolari religioso-sociali e le speranze millenaristiche. A suo avviso la crociata dei «poveri» scatenata nel 1096 rappresenta il primo movimento di massa nel quale speranze «millenaristiche» abbiano avuto un ruolo essenziale1. Prima di lui soprattutto P. Alphandéry aveva sottolineato l'efficacia di rappresentazioni escatologico-millenaristiche all'interno del movimento delle crociate 2 . Di fatto nel movimento delle crociate, soprattutto nella prima crociata dei contadini, certe speranze utopiche hanno avuto un qualche ruolo. Senza dubbio il monaco Roberto, nella sua Historia Jherosolimitana riporta idee largamente diffuse, quando mette in bocca a papa Urbano II al concilio di Clermont le parole: i crociati devono strappare ai pagani quella terra, in cui scorre latte e miele. «Gerusalemme è l'ombelico del mondo, una terra più fertile di tutte le altre, quasi un paradisus deliciarum»3. Purtroppo sappiamo poco di questa crociata: con quali promesse per esempio Pietro l'Eremita trascinò con sé alla volta di Gerusalemme schiere di contadini insieme alle loro famiglie 4 e altra povera gente. L'Annalista Sassone fondamentalmente riporta con esattezza il sentimento comune, quando racconta che Pietro avrebbe esibito una lettera celeste, nella quale la cristianità veniva esortata a recarsi armata a Gerusalemme, e a cacciare di lì i pagani; inoltre avrebbe ammesso che nella lettera era contenuta la promessa che da allora in poi Gerusalemme sarebbe rimasta in mano ai cristiani, conformemente all'annuncio di Gesù: «E Gerusalemme sarà calpestata dai pagani, finché non sarà compiuto il tempo dei pagani» (Le 21,24)5. Dunque il tempo delle crociate fu sicuramente un tempo di predizioni, visioni e falsi profeti 6 . Soprattutto vi sono indizi per ritenere che quelle antiche profezie secondo cui Gerusalemme e i territori d'Oriente immediatamente prima dell'avvento dell'Anticristo sarebbero stati riguadagnati alla fede cristiana, trovarono allora una diffusione molto ampia 7 . Non ultime anche le persecuzioni degli ebrei testimoniano della diffusione e dell'efficacia di siffatte rappresentazioni escatologiche proprio tra le misere schiere dei crociati; infatti secondo le opinioni allora dominanti, gli ebrei alla fine dei giorni avrebbero dovuto essere convertiti oppure — nella misura in cui si fossero opposti — annientati. Con questo non va affatto negato che nella condotta verso gli ebrei avessero un ruolo essenziale motivazioni molto reali, predatorie; ma senza dubbio quelle motivazioni escatologiche derivanti dall'universo rappresentativo ecclesiastico hanno contribuito a produrre
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l'isteria di massa necessaria per tali misfatti. Infine rientra in questo quadro anche l'indicazione di Eccheardo di Aura, che in quei giorni sarebbe sorta la credenza che Carlo Magno sarebbe come risorto dai morti 8 , evidentemente per assumere la guida della spedizione a Gerusalemme quale «imperatore finale» vittorioso. Ora anche se nello specifico è diffìcile in questo contesto separare l'interpretazione degli eventi da parte di singoli individui dotati di formazione teologica dalle reali speranze dei partecipanti alla crociata, tuttavia si dovrà ammettere che l'idea di Gerusalemme e della Terrasanta come di un luogo in cui «scorre latte e miele», e la convinzione, alimentata dalle antiche profezie sull'imperatore degli ultimi tempi, di un trionfo della cristianità sui popoli non cristiani, trionfo atteso subito prima dell'Anticristo, mettevano ali all'entusiasmo e alle speranze delle masse in marcia verso la Terrasanta. Ma d'altra parte non vi sono elementi per ritenere che tra i «poveri» che parteciparono alla prima crociata fosse attiva più che una sorda speranza in un'esistenza migliore. Anche se tra quelle masse popolari sono presenti indici di un apprezzamento più positivo dei «poveri»9, tuttavia manca una chiara idea sia di ciò che deve essere superato, sia di ciò che concretamente deve distinguere l'esistenza futura migliore da quella attuale. Perciò le vaghe attese dei crociati provenienti dagli strati popolari inferiori a stento si distinguono, per consapevolezza e chiarezza, dal confuso anelito a un felice impero di pace che appare nelle profezie sull'imperatore degli ultimi tempi dell'alto medioevo. Manca ancora un ideale chiaramente espresso e intelligibile per tutti che si possa contrapporre al presente e del quale si possa postulare la realizzazione per il prossimo futuro. In sostanza solo il XII secolo, con la sua creazione e diffusione dell'idea della vita apostolica, seppe contrapporre un proprio modello all'ordine presente di cui si avvertiva la corruzione. Pertanto la prima crociata può essere inquadrata al massimo nella preistoria, non nella vera e propria storia dei movimenti millenaristici del medioevo. Possiamo quindi occuparci senz'altro di movimenti ereticali veri e propri dell'XI secolo e dei secoli seguenti, e porci la domanda in che misura essi abbiano influito sulle attese ottimistiche del futuro. Per quanto concerne anzitutto le eresie influenzate dal manicheismo, che cominciano a diffondersi già nell'XI secolo, Rodolfo il Glabro, a proposito degli eretici scoperti a Orléans nel 1022, racconta che essi avevano creduto che in breve tutti gli uomini, non importa di quale condizione, si sarebbero convertiti alla loro fede 1 0 . Affermazioni di tenore simile fa Egberto di Schönau nei suoi Sermones contro i catari del
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circondario di Colonia, composti nel 1163 11 . Secondo quanto afferma, quei catari erano convinti che non era ancora giunto il tempo per manifestarsi apertamente; ma presto sarebbe arrivato il momento che Dio avrebbe innalzato la loro chiesa 12 . Se seguiamo ulteriormente il movimento cataro, negli anni Quaranta del XIII secolo incontriamo ancora una volta idee simili nella Francia meridionale. Da una deposizione fatta davanti all'Inquisizione nell'agosto 1247 si può desumere che un cittadino di Toulouse, di nome Pietro Garcia, insieme ad altre idee eretiche espresse altresì l'opinione che la chiesa nel giro di vent'anni sarebbe andata in rovina 13 ; egli dunque attende chiaramente che in tale arco di tempo la chiesa dei catari trionferà sulla chiesa romana. Queste sono tutte le notizie finora conosciute, che all'interno del movimento settario che in Occidente si riallacciava alle tradizioni manichee, ossia soprattutto all'interno del catarismo, testimoniano delle attese di un trionfo della propria causa sulla chiesa corrotta. Perciò di fronte al materiale documentario riguardante i catari si potrà dire che simili speranze in una trasformazione per loro favorevole di tutta la situazione della chiesa non costituiscono affatto un tratto tipico dell'indirizzo di questa setta. Ciò è senz'altro comprensibile, tenuto conto della tendenza di fondo del movimento cataro, che giudicava negativamente ogni realtà terreno-corporea; è — come dice giustamente Borst — «un tratto assai poco coerente con l'orientamento dei catari attendere ancora qualcosa dal futuro terreno» 14 . L'altro movimento popolare importante del basso medioevo è quello valdese. Ci troviamo dunque di fronte alla questione fino a che punto la loro ideologia abbia incluso attese millenaristiche o simili, ovvero speranze di un trionfo futuro della chiesa valdese che viveva secondo gli ideali della vita apostolica. Alcune indicazioni iniziali sulle idee escatologiche dei valdesi ci vengono offerte da Gioacchino da Fiore. Egli attacca aspramente la negazione del lavoro corporale da parte dei «poveri di Lione», e nel contempo accenna che essi tra l'altro fondano questo loro atteggiamento sul richiamo alla fine del mondo immediatamente incombente 1 5 . Pertanto questi eretici vivono soprattutto nell'attesa della fine del mondo, non tanto in quella di una trasformazione del mondo. Alquanto diverse suonano le indicazioni del domenicano Moneta nella sua Summa adversus Catharos et Waldenses composta nel 1241 l6 . Secondo Moneta i valdesi spiegano il loro atteggiamento nel corso della storia rifacendosi all'Apocalisse. Essi credono che l'«ecclesia Dei» abbia praticamente cessato di esistere da papa Silvestro. Da allora la chiesa
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romana è l'«ecclesia malignantium», che nell'Apocalisse è designata come la grande meretrice ovvero come «Babylon magna». Ma nell'ultima epoca del mondo da questa «ecclesia malignantium» nascerà la loro chiesa, cioè quella dei valdesi, così che verrà ricostituita la «ecclesia Dei» andata in rovina sotto Silvestro. Per giustificarsi essi rimandano ad Apocalisse 18,4, là dove una voce celeste ordina: «Uscite da essa [dalla grande Babilonia], popolo mio, per non essere contaminati dai suoi peccati». I valdesi quindi introducono nel tempo finale della storia terrena una «restitutio ecclesiae Dei», così come deve aver profetizzato Giovanni nell'Apocalisse 11 . Non si dice però se essi credano che alla fine, in connessione con questa restaurazione dell'«ecclesia Dei», 1'«ecclesia malignantium» sia destinata a perdere completamente la sua potenza. L'esplicito richiamo alla «damnatio meretricis magnae» descritta nel capitolo 18 dell'Apocalisse lo fa tuttavia apparire credibile 18. Che simili speranze apparissero isolatamente tra i valdesi emerge da un accenno della Summa de catharis et pauperibus de Lugduno, attribuita all'Anonimo di Passau, composta precisamente nel 1260. Secondo tale accenno i valdesi avrebbero confidato che alla fine essi avrebbero ricondotto il clero allo «status paupertatis apostolorum», e quindi avrebbero esercitato nei confronti della chiesa quel potere che ora la chiesa esercita nei loro confronti. In quel tempo futuro essi avrebbero altresì potuto predicare pubblicamente, così come fanno già ora in Lombardia, confidando nel numero e nella forza dei loro adepti e protettori 19 . Questa notizia è però fino al 1300 l'unica testimonianza attualmente disponibile, in cui l'attesa di un trionfo dei valdesi sulla chiesa corrotta venga espressa in modo palese. Se consideriamo i secoli seguenti, incontriamo presso i valdesi di Augsburg, nel 1393, la credenza che la loro setta continuerà a sussistere in clandestinità fino all'avvento di Elia e di Enoch, ma poi uscirà alla luce del sole 20 . Siccome Elia ed Enoch, secondo lo schema escatologico consueto, compaiono subito prima del giudizio finale, può esserci solo un periodo estremamente breve prima della fine del mondo, per cui quei valdesi possano presupporre un felice operare della loro setta; non vi sono dunque autentiche possibilità per uno sviluppo effettivo di attese millenaristiche. Un poco più lontano sembrano essere andati i valdesi del Piemonte nel XV secolo, in quanto ripresero l'attesa di un «veltro», di un salvatore 21 . Per il resto proprio dal periodo intorno al 1400 si tramandano fonti provenienti dall'ambiente valdese, le quali depongono contro la pre-
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senza di idee marcatamente millenaristiche. Così la composizione poetica valdese La nobla Leigon, che dovrebbe essere stata scritta poco prima del 1400 22 , propugna visioni escatologiche che corrispondono all'insegnamento ecclesiastico dominante. Si fa riferimento alla prossima fine del mondo, che si annuncia con il moltiplicarsi del male e la diminuzione del bene sulla terra 23 . Questo componimento divide l'intero corso storico in tre periodi, di cui il primo giunge fino a Mose, il secondo fino a Cristo e il terzo da Cristo sino alla fine del mondo. In diretta antitesi con la dottrina gioachimita si dice chiaramente che dopo lo status inaugurato da Cristo non ve ne sarà più alcuno 24 . Infine assai significativa è una predica valdese risalente al 1400 circa, nella quale un predicatore valdese sviluppa le proprie idee sul destino futuro della propria setta. Egli in sostanza adopera lo stesso procedimento di Gioacchino da Fiore per indagare il futuro; procede dalla concordanza degli avvenimenti del periodo dell'Antico Testamento con gli avvenimenti dopo Cristo 25 . Come da Abramo fino a Cristo la luce della verità e della pietà non si spense mai completamente, ma sempre alcuni, non importa se molti o anche solo pochi, vissero in modo esemplare, così anche da Cristo sino alla fine del mondo la vera «ecclesia Dei» non scomparirà mai del tutto, ma vi saranno sempre in qualche parte nel mondo alcuni «sancti». Il predicatore esorta i suoi ascoltatori a perseverare ancora, portando l'esempio della luna, che pure talvolta sembra sparire, ma è sempre presente, anche se non la vediamo. Allo stesso modo succede con la vera chiesa, che qualche volta raccoglie un grande numero di uomini pii ed è forte, qualche altra invece sembra scomparire. Perciò se al presente la vera chiesa è quasi annientata per la superbia dei senza-Dio, la negligenza dei prelati e le dure persecuzioni in molti territori, essa tuttavia sicuramente continua a sussistere in alcuni luoghi, almeno presso un piccolo numero di uomini. Infine il predicatore incoraggia i fedeli, facendo presente che in base a molti passi della Scrittura bisogna attendere che la vera chiesa alla fine «in magna parte et quantitate resurgat»26. Questa finale alquanto ottimistica è tuttavia ben lontana da una speranza, qualificabile come millenaristica, in uno stato ideale sulla terra che duri più o meno a lungo. Però proprio questa predica valdese riproduce molto fedelmente le opinioni correnti all'interno della setta. Indicativa di tutto questo movimento è evidentemente non la prospettiva di un prossimo trionfo della propria causa, ma la paziente, disarmata perseveranza, pur nella distretta e nel pericolo, con la convinzione che la verità, per quanto non possa mai vincere pienamente tutte le resistenze, tuttavia non può mai essere completamente soffo-
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cata. Tutto lascia credere che le attese chiliastiche di una grande trasformazione futura del mondo non siano affatto una componente tipica e stabile dell'ideologia del movimento valdese, ma al massimo emergano come fenomeni marginali solo attraverso qualche accenno. Il millenarismo dunque non ha avuto nessun ruolo essenziale nelle due correnti ereticali più importanti del medioevo centrale, cioè tra i catari e i valdesi. Alquanto diversamente stanno le cose in due movimenti ereticali del secolo XII, più circoscritti nello spazio e nel tempo, cioè tra i gruppi ereticali che si raccolsero intorno a Tanchelmo e a Eone della Stella27. Tanchelmo, che operò tra il 1112 e il 1115 nel territorio di Anversa28, era convinto di aver ricevuto la pienezza dello Spirito santo; siccome Cristo, in quanto possedette lo Spirito santo, è Dio, ne consegue che anch'egli, Tanchelmo, è simile a Dio, e può chiamarsi Dio 29 . Congruente con tali idee è anche la notizia che al seguito più stretto di Tanchelmo apparteneva un gruppo di dodici uomini «in figura duodecim apostolorum», e una donna «in figura b. Mariae»30. Tanchelmo dunque si presenta come un nuovo Cristo. Di conseguenza si ritiene egli in qualche modo un nuovo messia, chiamato a eliminare dal mondo il male e l'iniquità? Bisogna qui osservare che alcuni seguaci di Tanchelmo circolavano armati e usavano violenza contro il clero 31 . Il carattere militare e la pretesa di essere giudice del bene e del male appaiono anche nel fatto che Tanchelmo si fa precedere da un vessillo e da una spada, e quindi si presenta come un re investito di funzioni giudiziarie32. Perciò Alphandéry ritiene di poter concludere: «È possibile che Tanchelmo si sia presentato come il Paraclito, incarnato per regnare sugli uomini durante la terza età del mondo» 33 . Sembra che tale giudizio sia fondamentalmente corretto; tuttavia il riferimento esplicito a una futura «terza età del mondo» esigerebbe che si attribuisca alle idee di Tanchelmo una precisione e una chiarezza troppo grandi. Un atteggiamento per molti versi simile a quello di Tanchelmo viene assunto da Eone della Stella, che compare in Bretagna dal 1145 34. Costui ritiene di poter comprendere la sua collocazione nella storia della salvezza con l'aiuto dell'espressione liturgica: «Per Eum, qui venturus est judicare vivos et mortuos et seculum per ignem» 35 ; egli equipara l'«Eum» che ricorre in tale espressione al suo nome «Eon», e perciò ritiene di identificarsi con il Cristo che ritorna come giudice del mondo 3 6 . Simbolo del suo ufficio di giudice è un bastone a forcone. Egli ritiene che se il forcone in cima al bastone indica l'alto, due terzi del mondo appartengano a Dio, e un terzo a lui; se invece indica il basso, il rapporto sia esattamente inverso 37 . Anche Eone e
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i suoi seguaci usano violenza agli eremiti dei boschi della Bretagna, e talvolta anche alle chiese e ai monasteri 38 . Ancora una volta quindi ci troviamo di fronte alla domanda: Eone, che si ritiene il Figlio di Dio che ritorna e giudica il mondo, crede di essere chiamato ad annientare il male nel mondo e ad aprire una nuova età del mondo sotto la sua signoria in quanto Figlio di Dio? È verosimile che simili concezioni messianiche, che si avvicinano al millenarismo — anche se in una forma alquanto confusa e senza alcuna sistematicità — fossero efficaci. Dunque il movimento ereticale guidato sia da Tanchelmo sia da Eone della Stella ha in certa misura un carattere messianico. I due leader rivendicano la funzione di giudici del mondo, e vi sono indizi certi che essi intendessero presentarsi come iniziatori di una purificazione del mondo da ogni male. In questo c'è senza dubbio un inizio di concezioni millenaristiche; tuttavia si deve dire che non è stata chiaramente sviluppata una visione del futuro dai contorni netti. L'azione di Tanchelmo e di Eone della Stella si esaurisce essenzialmente in una negazione della chiesa esistente. Manca una concezione in qualche modo chiara dell'ordine che essi intendono instaurare con la distruzione della corrotta chiesa attuale. In sostanza nel loro universo concettuale non svolge alcun ruolo l'ideale della vita apostolica, che emergeva sempre più chiaro nell'XI e soprattutto nel XII secolo, quell'ideale che almeno in parte avrebbe potuto colmare questa lacuna 39 ; al contrario, a proposito di Eone si racconta esplicitamente che comparisse addirittura in pompa regale e che i suoi seguaci fossero vestiti lussuosamente 40 . Anche Tanchelmo deve aver indossato vestiti riccamente dorati, e deve aver fatto splendidi pranzi, evidentemente un assaggio del banchetto messianico 41 . Chiaramente entrambi, con questa esibizione esteriore di magnificenza, volevano sottolineare ai loro seguaci e al mondo la sublimità della loro missione messianico-divina. Di conseguenza, caratteristica di entrambi questi movimenti sono idee, prive di particolare chiarezza, circa il nuovo ordine che si vuole introdurre; al contrario, essenziale è solo l'esistenza di eminenti figure-guida messianiche, ovvero la disponibilità a seguirle senza condizioni. Così manca chiaramente un sistema di nuove norme, atte a offrire a ciascuno un criterio per la propria condotta in vista del superamento del vecchio stato. Perciò bisogna constatare che, nelle condizioni allora date, l'ideale della vita apostolica era senza dubbio il più idoneo a contrapporre alla situazione ecclesiastica esistente un modello completamente opposto e universalmente comprensibile. Proprio perché Tanchelmo ed Eone non ripresero questo ideale apostolico di povertà, i loro princìpi si esaurirono nella negazione delle condizioni ecclesia-
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stiche attuali, e manca un'idea minimamente chiara di ciò che essi desiderassero davvero e volessero fare di diverso. Pertanto i due movimenti hanno un carattere anarchico relativamente primitivo, non un carattere rivoluzionario. Il carattere di questi due movimenti, che fuoriesce alquanto dal consueto quadro delle correnti ereticali del medioevo centrale, andrebbe spiegato in gran parte alla luce della loro base sociale. Le due eresie sono chiaramente radicate in ambienti non molto evoluti sotto il profilo economico e sociale, con una popolazione fortemente differenziata; solo in tali ambienti l'ideale apostolico di povertà aveva innegabilmente una forza di attrazione molto grande per gli strati inferiori. La Bretagna, il territorio in cui opera Eone della Stella, è senza dubbio una terra relativamente arretrata dal punto di vista economico e sociale. Tra i suoi seguaci si annoveravano, oltre a un certo numero di compagni di condizioni nobili 42 , i quali evidentemente sfruttarono questa occasione per pareggiare i loro conti con la chiesa che diventava sempre più ricca, boscaioli incolti, abituati a una vita dura e indipendente. Inoltre Tanchelmo iniziò a operare evidentemente non nella città di Anversa; gli riuscì invece, come si dice nella lettera del capitolo del duomo di Utrecht, di inoculare il «veleno» della sua dottrina anzitutto a un «rudi populo» «in maritimis locis»43. Questo radicamento sociale peculiare dei due movimenti potrebbe essere all'origine del fatto che nei due casi una eminente figura messianica di guida domini di gran lunga su tutte le altre, che così facilmente si passi ad azioni di violenza, e che non si dimostri alcuna inclinazione per l'ideale evangelico di povertà. Possiamo quindi in sintesi affermare che nelle rappresentazioni e nelle intenzioni di Tanchelmo e di Eone della Stella sono sì presenti elementi che tendono al millenarismo, a causa del ruolo messianico da loro rivendicato, ma in entrambi i casi non è stata sviluppata una visione del futuro espressamente millenaristica. Pertanto il primo movimento ereticale nel quale appare formata l'attesa di un'epoca nuova e perfetta, attesa che andrebbe giudicata in termini millenaristici, potrebbe essere la setta degli amalriciani, che divenne attiva nella prima metà del XIII secolo anzitutto nel territorio di Parigi, e ben presto anche in Champagne, e dunque significativamente in ambienti altamente evoluti sotto il profilo economico 44 . Amalrico di Bène (presso Chartres), morto nel 120 6 45, aveva elaborato a Parigi, soprattutto sotto l'influsso di Giovanni Eriugena 46 e sulla scia di alcune tendenze della scuola di Chartres 47 , un sistema filosofico che sostanzialmente va qualificato come panteistico. Le sue idee, contrastanti col dogma ecclesiasti-
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co, furono condannate, mentre egli era ancora vivo, da papa Innocenzo III 4 8 . Uno dei problemi più difficili quando si vuole dare un giudizio su Amalrico e sulla storia delle origini della setta amalriciana, sta nel segnare una chiara demarcazione tra la filosofia di Amalrico e le concezioni del movimento ereticale che da lui prese il nome. Molti elementi inducono a pensare che i suoi seguaci e discepoli dopo la sua morte abbiano acuito, sviluppato e volgarizzato in senso antiecclesiastico le dottrine filosofiche di Amalrico 49 . Già il fatto che egli fu in buoni rapporti con il successore al trono di Francia 50 , e che infine, nonostante la condanna delle sue dottrine, venne sepolto regolarmente in un cimitero monastico 5 1 , fa apparire improbabile che lo stesso Amalrico abbia sostenuto tutte quelle dottrine, decisamente radicali, antiecclesiastiche, che, per esempio, Cesario di Heisterbach attribuisce agli amalriciani. Il punto di partenza filosofico della dottrina di Amalrico potrebbe essere stato il principio, di tendenza panteistica, che Dio è tutto in tutti 52 . Ma ciò che rese le sue concezioni adatte al radicamento in un movimento ereticale più ampio non fu certo questo principio filosofico, preso in se stesso, bensì furono le conseguenze che ne risultavano a proposito dell'uomo e delle sue azioni. Qui però già tocchiamo quel territorio in cui non si riesce a distinguere chiaramente ciò che Amalrico medesimo insegnò, e ciò che venne aggiunto dai suoi seguaci. Dal principio che Dio è tutto in tutti si ricava consequenzialmente che anche l'uomo ha una natura divina, ovvero è un «membrum Christi» 53 . Chi ha riconosciuto ciò, e di conseguenza possiede la consapevolezza che Dio opera tutto in lui, non può più peccare 5 4 , perché in ultima istanza anche il male è divino 5 5 . Chi viceversa attribuisce a se stesso e non a Dio le proprie azioni, è ignorante 56 , e quindi nel contempo è destinato alla dannazione. Questa eresia mette al centro della propria dottrina la consapevolezza da parte dell'uomo di essere un membro di Cristo, e che tutto il proprio agire è opera di Dio, puntando quindi sulla conoscenza della nuova dottrina e facendo dipendere totalmente da questa la salvezza dell'uomo 5 7 ; tuttavia ne consegue ultimamente una svalutazione di tutte le istituzioni ecclesiastiche e i mezzi di salvezza, come pure una spiritualizzazione dei tradizionali concetti ecclesiastici. Significativa sotto questo profilo e l'affermazione degli amalriciani, che, per esempio, un ebreo, il quale consegua la conoscenza della verità da loro richiesta, e faccia propria la loro dottrina, non ha più bisogno del battesimo 58 . Inoltre un «iniziato» non ha bisogno di osservare la penitenza imposta
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dal sacerdote per una qualsiasi mancanza; una concezione, questa, che induce l'autore del trattato Contra Amaurianos alla constatazione, perfettamente giustificata, che in questo modo i sacramenti vengono privati del loro valore 5 9 . Infine dalla tesi fondamentalmente panteistica consegue anche un rifiuto del sacramento dell'eucaristia. Infatti se Dio è ovunque, allora non è presente soltanto, come insegna la chiesa, nel pane consacrato dal sacerdote, bensì in qualsiasi pezzo di pane 6 0 . Gli amalriciani perciò, analogamente a Gioacchino da Fiore, sostengono la concezione secondo cui tutti i sacramenti scompariranno, perché sono solo segni esteriori 6 1 . Allo stesso modo in forza di questa tendenza spiritualizzante vengono completamente dissolte dottrine ecclesiastiche centrali. Per loro non esistono più il paradiso e l'inferno nel senso tradizionale; al contrario, secondo la dottrina da essi sostenuta, la conoscenza della verità che essi hanno conseguito è già il paradiso, e l'ignoranza è invece l'inferno 6 2 . Allo stesso m o d o negano la dottrina, insegnata dalla chiesa, della resurrezione del corpo; al contrario già la conoscenza piena della verità da loro insegnata è la resurrezione 63 . Già dagli accenni fatti finora appare su diversi punti una concordanza delle concezioni degli amalriciani con quelle di Gioacchino da Fiore. In Gioacchino è la visione della verità divina attesa nel terzo status, visione immediata, contemplativa, che renderà superflue tutte le forme esteriori e i simboli nella chiesa spirituale futura; negli amalriciani la «cognitio veritatis» conduce a conseguenze simili. Pertanto anche la chiesa auspicata dagli amalriciani appare come una «ecclesia spiritualis» nella quale, al posto dei simboli esteriori così come i sacramenti li rappresentano, subentra il sapere della vera dottrina reso possibile dallo Spirito santo. Significativamente gli amalriciani si sono chiamati, anche del tutto apertamente, «spirituales»64. Queste somiglianze tra le dottrine di Gioacchino e quelle degli amalriciani vengono ulteriormente rafforzate perché questi ultimi hanno accolto nel loro sistema di fede una dottrina dei tre status che concorda quasi completamente con la concezione di Gioacchino. Anche nella visione degli amalriciani c'è un'epoca di Dio Padre, a cui seguono l'epoca di Cristo e quindi l'epoca, da loro aperta, dello Spirito santo, che durerà sino alla fine del mondo 6 5 . Come con l'avvento di Cristo cessarono le «formae legales» dell'Antico Testamento, così anche adesso, diventando efficace lo Spirito santo, tutte le forme con le quali il Figlio, cioè Cristo, ha operato, specialmente i sacramenti, perdono il loro valore. Perciò ora ognuno è in grado di trovare la propria salvezza mediante la grazia dello Spirito santo, la quale opera nell'intimo
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senza alcuna azione esteriore 66 . In questo contesto gli amalriciani, in corrispondenza con la loro concezione panteistica di fondo e a differenza di Gioacchino, parlano di una incarnazione di ognuna delle tre Persone divine in una delle tre epoche 67 . Dio Padre si è incarnato in Abramo e negli altri patriarchi dell'Antico Testamento, il Figlio in Gesù e in altri cristiani, lo Spirito santo in loro stessi, gli «spirituales»68. A questo proposito essi sono convinti che nel corso dei prossimi cinque anni — a partire dal 1210 circa — tutti gli uomini saranno «spirituales», sicché allora ognuno possa dire di sé: «Io sono lo Spirito santo» 69 . In queste concezioni si annuncia assai chiaramente ed esplicitamente un'attesa chiliastica di una nuova età, un'età dello Spirito santo, nella quale la nuova dottrina trionferà nel superamento del vecchio 70 . Quindi per gli amalriciani, come per Gioacchino da Fiore, non si tratta dell'introduzione di uno stato ideale mediante il ripristino di uno stato originario, di una «renovatio» ovvero «reformado», ma, nel vero senso della parola, dell'inizio di una terza epoca del mondo completamente nuova — in antitesi, per esempio, alla modulazione interpretativa delle idee di Gioacchino nel senso dell'idea di renovatio operata dagli spirituali francescani. Perciò, nonostante alcune differenze, sulle quali presto vi sarà da dire ancora qualche parola, le concordanze tra le idee di Gioacchino e quelle degli amalriciani — soprattutto nella dottrina delle tre epoche del mondo — sono così marcate che è molto verosimile una ripresa diretta di idee gioachimite da parte dei settari parigini 71 . A questo proposito è senz'altro possibile che la dottrina gioachimita dei tre status sia stata accolta non da Amalrico medesimo nel sistema concettuale amalriciano, bensì dai suoi discepoli solo dopo il 1206 72 . Tuttavia, nonostante l'ampia concordanza formale nell'articolazione del corso della storia universale, sarebbe errato considerare la dottrina di Gioacchino e quella degli amalriciani come del tutto omogenee nella sostanza73. Gioacchino, in quanto monaco, aveva sviluppato la sua immagine del terzo status venturo a gloria del monachesimo e, con l'orientare unilateralmente la sua visione del futuro verso un ideale monastico eremitico, aveva reso molto difficile un'efficacia diretta delle sue attese in cerchie popolari più ampie. Al contrario, Alphandéry ha parlato del «carattere totalmente popolare della dottrina degli amalriciani»74; questa osservazione — come avremo modo di mostrare ben presto — è del tutto corretta, nonostante il punto di partenza «puramente» filosofico della dottrina della setta amalriciana. Così l'incondizionata avversione ai sacramenti, la negazione di azioni esteriori e di simboli sono negli amalriciani per molti aspetti
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simili a quelle di movimenti ereticali precedenti, anche se gli amalriciani motivavano il loro atteggiamento con altri argomenti. Inoltre quella tendenza ali'autodivinizzazione, che come fenomeno singolo viene alla luce già in Tanchelmo e in Eone della Stella, contiene senza dubbio un elemento popolare, come mostra con ogni evidenza l'ulteriore sviluppo del movimento settario del Libero spirito dal XIII al XV secolo 7 5 . In proposito bisogna osservare che l'incarnazione dello Spirito santo secondo gli amalriciani non avverrà solo in una cerchia limitata di privilegiati, bensì tutti coloro che aderiscono alla loro dottrina sono «spirituales», ed essi profetizzano che entro cinque anni tutti gli uomini diventeranno «spirituales». In questo, diversamente che in Gioacchino da Fiore, il quale proponeva come modello l'ideale del monachesimo eremitico, irraggiungibile e impraticabile per la massa, viene alla luce un tratto innegabilmente «democratico» degli amalriciani; esso favorì la diffusione e la sopravvivenza delle dottrine amalriciane 76 . Una vena sicuramente popolare nelle dottrine degli amalriciani è costituita anche dalle profezie, chiaramente introdotte nell'universo rappresentativo di questo movimento ereticale soprattutto da «Wilhelmus Aurifaber», che Cesario di Heisterbach designa come il «profeta» degli amalriciani77. Con tali profezie è stata introdotta anzitutto l'attesa dell'imperatore degli ultimi tempi, in un senso favorevole al re di Francia, nella visione amalriciana dell'età ventura dello Spirito santo. Secondo Cesario di Heisterbach, Guglielmo Aurifaber avrebbe profetizzato che il re di Francia, ovvero il successore al trono, avrebbe sottomesso in un tempo molto prossimo tutti i regni, sicché nell'età dello Spirito santo si sarebbe instaurata anche la pace universale sotto il dominio del re di Francia. Peraltro l'umanità prima di allora, cioè nei prossimi cinque anni, dovrà subire ancora quattro grandi piaghe. La prima investirà la massa del popolo, nella forma di una grande carestia, che causerà una strage. La seconda piaga viene indicata come la piaga della spada; essa è diretta contro i prìncipi, i quali si stermineranno in conflitti intestini. La terza piaga annienterà i «burgenses», con i quali evidentemente si intendono soprattutto i ceti urbani più ricchi. La quarta persecuzione infine si abbatterà sulla chiesa e sui prelati, che vengono indicati come membra dell'Anticristo, mentre il papa — proprio nel senso delle concezioni ereticali — è l'Anticristo stesso, e Roma viene considerata come Babilonia 78 . Da queste profezie emerge chiaramente un atteggiamento avverso al clero, in particolare contro i prelati ricchi e il papa, così come avverso ai prìncipi, i quali finora hanno portato alla Francia guerre intestine, disordini e travagli, e infine avverso ai ricchi borghesi. Con que-
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sto si rivela altresì la base sociale dell'universo rappresentativo di questa setta; infatti questi sono innegabilmente i desideri di ceti popolari più ampi, rurali e soprattutto urbani. Significativamente accanto alla consueta avversione nei confronti della chiesa mondanizzata e della ricca borghesia cittadina sta l'avversione contro i prìncipi, dei cui interessi egoistici, faide e guerre proprio le masse popolari in Francia avevano sofferto molto; in questo senso risulta pertinente l'attesa secondo cui il re di Francia estenderà il suo potere su tutti i regni, e quindi potrà operare ovunque, naturalmente anche nella stessa Francia, per stabilire la pace 79 . Il fatto che gli amalriciani predicessero la fine per fame anche di una gran parte del populus non è un argomento contro l'ipotesi che questa dottrina ereticale sia orientata principalmente contro clero, prìncipi e borghesi ricchi; ma ciò dimostra ancora una volta che sarebbe errato presupporre sempre una chiara coscienza di classe nelle sette ereticali del medioevo. La norma della morale cristiana, che sotto l'influsso ecclesiastico era diventata determinante in tutti i fenomeni della vita, era poco idonea ad attribuire alle grandi masse un rilievo particolare. Così non è strano che nell'universo rappresentativo delle eresie popolari di allora vi fosse sì una certa chiarezza su dove cercare i nemici e gli sfruttatori principali; ma ci volle un lungo processo prima che si raggiungesse la consapevolezza di quali forze sociali fossero davvero capaci di abbattere questi nemici e di introdurre il nuovo. Date queste circostanze, non è neppure strano che secondo gli amalriciani siano le piaghe decretate da Dio, e non per esempio essi stessi, a dovere in definitiva annientare quelle potenze che si oppongono all'introduzione dello stato ideale venturo. Su questo punto quindi gli amalriciani non sono andati oltre, nella sostanza, le concezioni di Gioacchino e degli spirituali francescani. Pertanto il movimento amalriciano è caratterizzato, contrariamente ai più battaglieri Tanchelmo e Eone della Stella, da un tratto più quietistico. Tuttavia il giudizio di Smirin è troppo negativo, quando afferma che l'inizio del terzo status non costituirebbe per gli amalriciani «un grande evento nell'evoluzione storica del mondo, non un sovvertimento generale del mondo, ma un processo di perfezionamento individuale. Ogni uomo, indipe'ftdentemente dall'evoluzione generale del mondo, raggiunge da solo lo stato supremo attraverso l'atto individuale di adesione alla setta degli amalriciani» 80. Certo, questo tratto individuale ha un ruolo essenziale negli amalriciani; ma non si può dimenticare che almeno dopo la morte di Amalrico si diffuse tra loro l'idea secondo cui per il trionfo della loro causa sarebbe stato necessario un profondo sovvertimento del-
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l'ordine sociale ed ecclesiastico esistente; un sovvertimento, peraltro, che non pensavano di produrre loro stessi, e i cui contorni rimasero estremamente vaghi 81 . Senza dubbio tutto il complesso di rappresentazioni popolari appena descritto testimonia anche che le idee degli amalriciani, così come ci appaiono nel 1210, non costituiscono esclusivamente il sistema dottrinale di un magister più o meno originale dell'università di Parigi, bensì una dottrina settaria largamente radicata; indiscutibilmente una spinta essenziale le è venuta da parte di un maestro universitario, ma nell'insieme essa è fortemente influenzata dall'universo rappresentativo di larghi strati popolari 82 . Quindi anche l'esempio degli amalriciani, che fuoriesce alquanto dal quadro consueto, dimostra la validità di queste parole di E. Werner: «Alla formazione della dottrina hanno partecipato tanto il basso quanto l'alto, tanto il corpo della setta quanto il capo di essa, e una eresia si manteneva tanto più tenace e vitale, quanto più vigorosamente quel corpo aveva preso parte alla formazione del sistema dottrinale» 83 . Questa concezione è confermata anche dalle fonti, perché appunto in questa setta da un lato viene sempre sottolineato il ruolo-guida di uno strato limitato di chierici colti, ma dall'altro nel contempo si dice chiaramente che oltre a questa ristretta cerchia erano partecipi anche settori popolari più ampi. Guglielmo Brito racconta che oltre a «sacerdotes» e «clerici» anche laici e donne aderivano a questa dottrina settaria; peraltro la condanna puniva soltanto le guide autorevoli della setta, e aveva risparmiato quelle donne e altri «simplices» che venivano considerati come fuorviati 84 . Conformemente a tale testimonianza, la Cronaca di Mailros racconta che i predicatori amalriciani frequentavano anche le case di vedove, e seducevano una gran quantità di innocenti 85 . Questa è una chiara indicazione, continuamente confermata dallo sviluppo nel periodo successivo, che simili idee, che si polarizzavano sul diventare una sola cosa con Dio, trovavano una grande eco proprio presso donne abbandonate a se stesse. Inoltre va tenuto presente che col Sinodo di Parigi del 1210, nel quale le discussioni sugli amalriciani ebbero un rilievo essenziale, fu emanata anche una disposizione contro scritti teologici in lingua francese, sicché si può congetturare che anche nelle cerchie degli amalriciani fosse allora già diffusa una letteratura del genere in lingua volgare 86 . Dunque la dottrina ereticale degli amalriciani come fenomeno complessivo non è affatto in primo luogo un sistema filosofico originale e difficilmente comprensibile, bensì in essa, accanto ad altre concezioni ereticali più antiche, sono contenute per la prima volta anche
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certe rappresentazioni popolari, che hanno svolto un ruolo decisivo nelle eresie mistiche e del Libero spirito del secolo seguente. Pertanto è significativo che il tratto estatico-visionario, tipico di queste eresie che si diffusero nel XIII secolo, sia presente senz'altro anche presso gli amalriciani, i quali accentuavano in modo così marcato il «sapere» della vera dottrina. Cesario di Heisterbach racconta che Rodolfo di Nemours, il quale tradì la setta, cercò di ottenere la loro fiducia presentandosi col volto sollevato quasi fosse stato rapito in spirito in cielo, e poi raccontando le sue visioni 87 . Anche qui appare che la «conoscenza» presso gli amalriciani va intesa non tanto in senso razionalistico, quanto piuttosto in senso gnostico-mistico. Inoltre è molto indicativo che già con gli amalriciani quella tendenza orientata all'autodivinizzazione, la quale rompe e supera tutte le norme morali finora valide, si unisca strettamente con l'attesa chiliastica di una nuova, perfetta età del mondo. Come dimostra l'ulteriore sviluppo, esiste palesemente una certa affinità tra l'eresia del Libero spirito, ovvero la tendenza all'autodivinizzazione da un lato, e le attese chiliastiche dall'altro 88 . Una delle cause della frequente unione di questi due complessi rappresentativi potrebbe essere sicuramente ravvisata nel fatto che il superamento di tutte le norme finora vigenti, mediante lo Spirito di libertà, si armonizzava con l'attesa di un nuovo e perfetto stato del mondo molto meglio che gli sforzi di restaurazione dello stato apostolico primitivo, tipici, per esempio, dei valdesi. Un'altra setta nella quale le attese millenaristiche costituiscono parte integrante della dottrina sono gli ortliberiani, il cui iniziatore fu Ortlieb, che risiedeva a Strasburgo e notoriamente operò al tempo di papa Innocenzo III, dunque quasi nello stesso periodo degli amalriciani 89 La fonte più attendibile sulle concezioni di questa setta, che presenta influssi provenienti dagli apporti più disparati 90 , è l'Anonimo di Passau 91 . Anche per gli ortliberiani è sintomatico che in virtù di una interpretazione soggettivo-spiritualistica, in parte addirittura razionalistica, la dottrina ecclesiastica, i dogmi e i sacramenti vengano pressoché dissolti 92 . Così costoro rifiutano la concezione trinitaria della Chiesa, e affermano che la seconda Persona, il Figlio, ci fu solo dall'avvento, o meglio dalla conversione, provocata da Maria, alla loro setta da parte di Gesù, che fino allora era un peccatore. La terza Persona, lo Spirito santo, si aggiunse dopo, quando Gesù cominciò a predicare e a guadagnare adepti; di conseguenza Pietro, che per primo fu accanto a Gesù e lo sostenne nella sua opera, è lo Spirito santo. Ma questa interpretazione storica della Trinità in definitiva è solo una possibilità nel quadro di una spiegazione soggettivo-spiritualistica
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ancora più estesa di questo dogma ecclesiastico centrale; infatti propriamente ciascun membro più anziano della setta, che con la sua predicazione converte un altro, può rappresentare il Padre, mentre il convertito è allora il Figlio. Lo Spirito santo secondo questa visione è ciascun individuo perfetto che appartiene alla loro setta 93 . Anche la storia della passione di Gesù non viene presa alla lettera; essa piuttosto consiste nell'accettare la «croce» della vera fede, cioè la dottrina della loro setta. Secondo tale interpretazione la morte del Figlio avviene ogni volta che un membro della setta cade in peccato mortale o abbandona la setta. Allo stesso modo disprezzano i sacramenti della chiesa. Il battesimo dei bambini è inutile; un ebreo che aderisce alla loro dottrina può trovare la salvezza anche senza battesimo. Il pane consacrato della cena rimane per loro pane comune, mentre il loro corpo è il vero «corpus Christi». Di conseguenza rifiutano completamente la gerarchia ecclesiastica. Il papa per loro è il capo di ogni male e i preti sono «fautores viae mendacii» 94 . Perciò rifiutano anche il pagamento della decima 95 . Sebbene in queste dottrine appaiano senza dubbio diversi punti di contatto con le concezioni degli amalriciani, sarebbe tuttavia errato porre in connessione diretta queste due eresie. Negli ortliberiani non c'è traccia del panteismo che rappresenta la base filosofica delle dottrine amalriciane. Soprattutto i loro princìpi etico-morali sono addirittura opposti a quelli degli amalriciani. Mentre questi ultimi, in base alla consapevolezza che Dio opera tutto in loro, ritengono esenti da peccato tutte le loro azioni, gli ortliberiani sostengono princìpi rigorosi, addirittura ascetici. L'Anonimo di Passau deve riconoscere senz'altro che essi vivono in modo «puro», e quando incorrono eventualmente in trasgressioni, ne fanno dura penitenza. Ammettono il matrimonio solo a condizione che i coniugi vivano in continenza; rifiutano i rapporti sessuali come i catari 96 , le cui dottrine in sostanza evidenziano palesemente moltissimi punti di contatto con le loro. Inoltre essi ritengono — ancora una volta in netta antitesi con gli amalriciani — che la loro setta non rappresenti affatto un nuovo fenomeno con nuove norme morali; anzi per loro già Adamo è il primo rappresentante della loro fede; proprio per questo sarebbe stato indicato nella Bibbia come il primo uomo creato da Dio 97 . Sebbene quindi gli ortliberiani non avanzino in alcun modo la pretesa di introdurre una nuova norma morale per l'umanità e di iniziare in qualche modo una nuova epoca, tuttavia la loro dottrina sul corso degli eventi storici culmina in una visione che va giudicata come mil-
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lenaristica. Essi cioè credono che alla fine anche l'imperatore e il papa si riconosceranno nella loro setta. Inoltre, tutti gli uomini che non aderiranno alla loro setta verranno annientati. Questa grande svolta da loro attesa è indicata nella loro visione dal giudizio universale annunciato nella sacra Scrittura; infatti non ci sarà una vera e propria fine del mondo. Il mondo sussiste già dall'eternità, non è creato da Dio, e continuerà anche a rimanere in eterno 98 . Quindi dopo il trionfo universale della loro setta anche l'umanità continuerà a esistere per sempre, ma allora — contrariamente a prima — vivrà «in maxima tranquilli tate», e i singoli uomini continueranno a nascere" e a morire come finora 10°. Questa visione di un trionfo della loro setta e di uno stato terreno più perfetto, in cui si godrà al massimo grado della pace, possiede, sebbene manchi una dottrina esplicita degli status, tratti essenziali inequivocabilmente millenaristici. Peraltro in questa visione del futuro mancano concezioni così caratteristiche, così come sono offerte dalla dottrina gioachimita e amalriciana di un terzo status dello Spirito santo. Pertanto non è neppure strano che dalle idee degli ortliberiani su questo argomento non siano derivati effetti ulteriori. Nella chiesa cattolica altri movimenti popolari ereticali in cui compaiano attese del futuro esplicitamente millenaristiche, nel periodo fino al 1300 circa si possono incontrare solo in ambito italiano. Accanto alla piccola setta milanese dei guglielmiti, colpita nel 1300 dall'Inquisizione 101 , e su cui qui non è il caso di soffermarci, è significativa in questo contesto soprattutto la setta dei frati apostolici. Prima di delineare la storia di questo movimento popolare ereticale, occorre affrontare la questione in che misura, nel grande movimento italiano dei flagellanti del 1260, furono attive speranze gioachimite nell'inizio di un nuovo status. La maggioranza degli studiosi suppone che le predizioni di Gioacchino abbiano avuto un ruolo più o meno importante nella nascita e nell'universo rappresentativo del movimento dei flagellanti 102 . Al contrario, soprattutto H. Hefele ha negato in linea di principio simili connessioni tra le attese escatologiche gioachimite e il movimento dei flagellanti, e ha addirittura affermato «che un capriccio del destino fece sorgere lo strano movimento proprio nell'anno critico di Gioacchino» 103 . In effetti è strano che la maggior parte dei cronisti nei loro racconti, spesso veramente minuziosi, sull'esplosione del movimento dei flagellanti non spendano una parola circa le attese gioachimite di una grande svolta epocale. Solo Salimbene racconta che secondo molti il terzo status sarebbe iniziato con la processione dei flagellanti nel 1260 104. Ma anche questa osservazione non è tale da indurre a pensare che tra gli stessi flagellanti, o almeno tra gli iniziato-
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ri del movimento, fossero diffuse simili attese. D'altra parte però l'inizio delle processioni di flagellanti proprio nell'anno considerato critico da molti gioachimiti è così sorprendente che difficilmente si può credere a un semplice «capriccio del destino». Vale dunque la pena di considerare un p o c o più attentamente le asserzioni delle fonti su questo movimento popolare. Molti cronisti raccontano concordemente che il movimento cominciò nel territorio di Perugia 1 0 5 . Inoltre possiamo oggi affermare con sicurezza che un eremita di nome Raniero Fasani sia stato uno degli iniziatori decisivi; infatti la sua azione a Perugia è testimoniata da documenti 1 0 6 . Sappiamo però che esattamente in questi territori dell'Italia centrale a quell'epoca in numerosi eremitaggi vivevano molti di quei frati minori fedeli senza compromessi alla regola originaria di Francesco, fra i quali le idee gioachimite continuavano a proliferare. È sì dubbio se Raniero fosse egli stesso un eremita francescano del genere 107 , ma è in ogni caso evidente che egli — anche se non era frate minore — aveva sentito parlare di quelle attese dei gioachimiti francescani. Peraltro gli Annali di Genova, di per sé bene informati, non contengono alcun cenno al fatto che quell'eremita di nome Raniero abbia, per esempio, annunciato come Gioacchino accanto alle terribili persecuzioni da parte dell'Anticristo anche il successivo inizio di un terzo status di perfezione; si dice solo che Raniero avrebbe lanciato un appello agli abitanti di Perugia, dicendo che un angelo gli aveva annunciato che la città in breve tempo sarebbe stata distrutta se essi non avessero fatto penitenza. Di conseguenza i flagellanti avrebbero dovuto invocare soprattutto Maria, perché pregasse Gesù di allontanare l'imminente castigo 108 . Anche gli Annali di S. Giustina a Padova raccontano che a quell'epoca gli uomini in pochissimo tempo compirono molte opere pie fuori dell'ordinario, come se temessero che altrimenti sarebbero stati annientati dall'onnipotenza di Dio o con un fuoco dal cielo o con un terremoto o con altre piaghe 1 0 9 . Dunque in tutte le fonti si parla solo della paura di un castigo divino, non della speranza nell'inizio di un nuovo status perfetto. Di fronte a questa situazione si potrà congetturare che le idee gioachimite furono sì attive all'inizio del movimento dei flagellanti, ma non nella forma dell'attesa di un terzo status, bensì in quella, più volgare, che abbiamo potuto osservare in particolare nei primi decenni dopo la morte di Gioacchino, allorché l'abate di Fiore veniva normalmente inteso non come profeta di un nuovo status del mondo, ma come annunciatore di afflizioni da parte dell'Anticristo, e della fine del mondo. Così si potrà assumere che in ultima analisi, per esempio, quei timori, susci-
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tati ugualmente da Gioacchino, che avevano preso forma nei versi «Cum fuerint anni completi mille ducenti / et seni decies post partum virginis alme / tune Antichristus nascetur demone plenus» 110 , a quell'epoca erano più diffusi che l'idea di Gioacchino circa un futuro terzo status di massima perfezione 111. In questi vaticini, suscitati da Gioacchino solo indirettamente l'anno 1260, non funge più come anno critico per l'inizio del terzo status, bensì per l'avvento dell'Anticristo e delle afflizioni da temere con quell'avvento. Questi timori chiaramente assai diffusi possono aver svolto un ruolo nell'esplosione del movimento dei flagellanti. Se quindi certo nella nascita del movimento dei flagellanti non può essere esclusa un'incidenza di rappresentazioni ultimamente risalenti a Gioacchino, tuttavia sullo sfondo non sta Gioacchino annunciatore di un nuovo, terzo status, ma annunciatore dell'Anticristo imminente. Pertanto non vi sono elementi più sicuri per l'ipotesi che in questo movimento fossero attive speranze millenaristiche esplicite. Palesemente lo sforzo di allontanare una sciagura ancora maggiore stava in primo piano. Solo secondariamente la penitenza e la conversione richiesta dai flagellanti poteva risvegliare anche speranze, non solo di allontanare in questo modo la minaccia di un giudizio, ma anche di realizzare uno stato migliore su questa terra. A questo proposito si deve osservare che il movimento dei flagellanti di regola suscitò misure pratiche per estirpare i dissidi cruenti nelle città italiane e per assicurare la pace interna 112 . Obiettivi del genere si potevano condensare in speranze che non fossero più molto lontane da una genuina visione millenaristica del futuro. Se la «lettera celeste», che il cronista di Strasburgo Closener ha messo in relazione con il movimento dei flagellanti del 1348, fu davvero scritta già nel 1261-62, come ipotizza A. Hùbner, allora almeno in questa fonte viene testimoniata l'incidenza di simili speranze, per quanto esse fossero assai indeterminate. Infatti in questa lettera Dio promette agli uomini che, se si convertiranno, donerà loro la sua benedizione e una pace universale, e che allora la terra — così come promettevano le più antiche profezie imperiali — porterà abbondanti frutti 113 . Peraltro queste attese non mostrano un'impronta gioachimita. Va infine sottolineato ancora una volta espressamente che l'ipotesi qui formulata, che le idee gioachimite in forma mutata e volgarizzata abbiano svolto un certo ruolo nel movimento dei flagellanti, può contribuire solo a chiarire le occasioni esteriori ovvero i momenti di nascita del movimento. Le cause più profonde della diffusione rapida e straordinariamente ampia di questo movimento vanno ricercate evidentemente nelle condizioni interne dell'Italia, specialmente nei terribili e
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interminabili conflitti all'interno delle città dopo la morte dell'imperatore Federico II; essi risvegliarono nelle masse urbane il desiderio di pace. Inoltre molte cose fanno pensare che il movimento dei flagellanti fu promosso e sfruttato dal partito ecclesiastico-guelfo, per assicurare la propria posizione che proprio allora veniva minacciata dai successi di Manfredi di Sicilia e dei ghibellini 114 . Possiamo considerare ora i frati apostolici, che costituiscono senza dubbio la più interessante tra le sette apparse fino al 1300 circa con attese millenaristiche. Gli inizi di questo movimento ereticale cadono, secondo le indicazioni di Salimbene, nella sostanza senz'altro esatte, nello stesso anno delle grandi processioni di flagellanti, dunque nel 1260 115 . Come iniziatore di questo movimento può essere ritenuto Gerardo Segarelli, che chiaramente subì l'influenza dell'idea della povertà apostolica e dell'imitatio Christi, e soprattutto per questo, come molti dei suoi contemporanei, considerò Francesco d'Assisi come modello per il raggiungimento dei suoi scopi. Perciò l'indicazione di Salimbene, secondo cui Gerardo Segarelli in un primo momento aveva espresso il desiderio di essere accolto nel convento dei frati minori a Parma, potrebbe essere senz'altro esatta 116 . Infatti possiamo supporre che allora, agli occhi di gran parte della popolazione laica, non solo i princìpi enunciati da Francesco fossero ritenuti come il compendio della via alla perfezione cristiana, ma che anche l'ordine francescano in quanto tale fosse tuttora riconosciuto ancora come una istituzione adatta per la realizzazione di questo ideale. Tuttavia con lo sviluppo dell'ordine già da tempo quello stato iniziale, con tutti i suoi ideali irrealizzabili, risultava superato; erano passati i tempi in cui l'ordine offriva posto a chiunque fosse insoddisfatto della situazione sociale, e quindi sperasse di ottenere la salvezza per sé e per gli altri attraverso una «sequela di Cristo» senza compromessi, nella povertà e nell'umiltà. È anzi innegabile che l'ordine francescano, essendo un ordine radicato nella città, in poco tempo era diventato fondamentalmente espressione dei ceti alto-borghesi. Perciò mentre da un lato si spiegano alcune innegabili differenze rispetto agli ordini monastici più antichi, in prevalenza radicati nella nobiltà feudale, dall'altro in forza di questa base sociale del francescanesimo sviluppato consegue che sarebbe completamente errato mettere quest'ordine in un'opposizione di principio con le strutture della chiesa esistente. Diverse affermazioni di Salimbene sullo stato interno dell'ordine rivelano con estrema chiarezza che già allora, intorno al 1260, il francescanesimo non poteva più essere un ricettacolo per coloro che vole-
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vano separarsi da un mondo ritenuto completamente marcio con un'incondizionata sequela della vita apostolica, a prescindere del tutto dal fatto che già lo stesso Francesco aveva disinnescato quel desiderio di una «reformatio» con la sua volontà incondizionata di obbedienza nei confronti della chiesa. Così già per quel periodo si può dire «che la molto famosa goccia di olio sociale, con la quale i francescani dovettero essere unti, in definitiva accrebbe solo la loro arrendevolezza»117. Sono significativi sotto questo profilo alcuni accenni di Salimbene al rapporto tra i frati laici e i chierici all'interno dell'ordine. Egli si indigna perché all'epoca della sua permanenza in Tuscia (1239-47) tra i membri dell'ordine ivi residenti i frati laici avevano superato in numero i chierici; rapporti del genere sono secondo lui «ruditates et abusiones», ed egli manifesta la propria soddisfazione perché questi frati laici incolti, i quali avvertivano come detestabile l'uso della lingua latina, col passare del tempo erano stati opportunamente eliminati, in quanto la loro ammissione era stata quasi del tutto proibita 118 . Quindi non si era più verificata la situazione delineata da Giacomo di Vitry nella sua Historia occidentalis, scritta intorno al 1220, secondo cui l'entrata nell'ordine era aperta a chiunque 119 . Ma con ciò il francescanesimo perdeva la capacità di assorbire energie dotate di spinte attivistiche dagli strati popolari inferiori sfruttati, e quindi di renderle sostanzialmente innocue. Un tipico esempio in questa prospettiva è appunto quello di Gerardo Segarelli, la cui domanda di ammissione fu respinta dai monaci. Dopo questo insuccesso Segarelli decise di realizzare di propria iniziativa la vita apostolica, anzitutto elevando sostanzialmente l'ideale e i princìpi di Francesco a proprio modello. Seguendo i precetti del Vangelo vendette — come una volta Francesco e anche Pietro Valdo — i suoi averi, e ne distribuì il ricavato tra i poveri della città di Parma. Poi percorse alla maniera di un apostolo predicatore le strade di Parma, e chiamò gli abitanti alla penitenza 12°. Presto si raccolsero intorno a lui dei seguaci, i quali allo stesso modo obbedirono nella forma più rigorosa al precetto della povertà. Mentre lo stesso Francesco aveva sempre permesso ai membri dell'ordine di avere due sai 121 , i frati apostolici, seguendo letteralmente le affermazioni del Vangelo, si accontentarono di un solo saio 122 . Anche essi quindi vivevano come monaci mendicanti delle elemosine del popolo 123, ma erano più coerenti dei frati minori, accettando di regola solo cibo che consumavano sulla strada davanti agli occhi di tutti, abbandonando quello che superava il loro bisogno in quell'istante, per essere fedeli al precetto di non preoccuparsi del domani 124 . Per quanto questo principio di vita men-
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dicante possa suscitare dubbi 125 , bisogna considerare, a giustificazione dei frati apostolici, che dietro questo principio c'era il rigetto assoluto di qualsiasi attività diretta al guadagno, e che quindi essi enfatizzavano all'estremo il principio di povertà. Questo rifiuto incondizionato di qualsiasi possesso terreno si esprime in maniera particolarmente evidente in un'azione simbolica introdotta molto presto; essa viene intrapresa soprattutto nell'ammissione alla fraternità, come pure diverse volte in altre occasioni: i frati apostolici usano raccogliersi in notevole numero in una chiesa, o anche in altri luoghi, e lì si liberano completamente del loro vestito. Poi i vestiti, ammucchiati da una parte, vengono distribuiti di nuovo a caso. Questa azione, che Salimbene denota come «expropriare», per colui che entra da novizio nella fraternità è un «signum expoliationis» 126, dunque un segno di rinuncia a qualsiasi proprietà; persino il vestito non appartiene a un singolo, ma è comune a tutti. Con ciò essi vogliono mostrare di seguire veramente nudi il nudo Cristo 127. Un'altra testimonianza della volontà di Segarelli di mantenere immune la comunità dei frati apostolici da tutte le storture dell'ordine ecclesiastico è il suo principio di non accettare in alcun modo una funzione di guida all'interno della fraternità; ogni articolazione gerarchica, comunque si configuri, gli appare a priori riprovevole 128. Tuttavia, per quanto questo principio sia notevole e comprensibile, in esso nel contempo appare che Segarelli non era in alcun modo una personalità cui premesse l'azione e l'aperta opposizione. Ciò peraltro viene confermato anche dalla descrizione di Salimbene, la quale peraltro è estremamente tendenziosa e mira costantemente a denigrare e a screditare Segarelli, o a bollarlo addirittura come pazzo 129. Ma pur tenendo conto di ciò, rimane comunque l'impressione che si tratti di un esaltato, certo coerente e convinto, ma comunque alquanto ingenuo. Anche il successo e la diffusione dei frati apostolici, palesemente molto rapida e considerevole, potrebbero essere ricondotti non tanto alla personalità del fondatore, quanto piuttosto alla popolarità dell'ideale apostolico contrapposto alla chiesa mondanizzata. Salimbene stesso allude al fatto che allora in Italia e nella Francia meridionale si svilupparono numerose comunità eremitico-evangeliche, le quali su molti punti si rifacevano all'ideale di Francesco 13°. Quanto fosse popolare il comportamento dei frati apostolici emerge anche dal fatto che Salimbene deve ammettere che talvolta i predicatori dei frati apostolici attiravano le masse popolari più dei predicatori francescani 131 , e che gli abitanti di Parma preferivano fare offerte ai frati apostolici invece che ai membri dei due grandi ordini mendicanti 132 ; ciò si potrebbe spie-
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gare in primo luogo perché i primi seguivano il precetto evangelico della povertà in modo più convincente dei francescani e dei domenicani. Da questi accenni emerge altresì che i frati apostolici in un primo momento non operarono di nascosto, come di consueto gli eretici, ma come i monaci mendicanti comparivano in pubblico e addirittura predicavano nelle chiese 133 . Da ciò è evidente che Segarelli e i frati apostolici, nonostante tutte le critiche alla chiesa mondanizzata, non erano decisi fin dall'inizio a separarsi dalla chiesa e a combatterla apertamente. Anche la chiesa, che un tempo aveva riconosciuto con i francescani l'ideale della vita apostolica e lo aveva inserito con successo nell'ordinamento ecclesiastico, all'inizio non si mostrò impaziente e ostile nei confronti di Segarelli e dei suoi seguaci. Certo, il vescovo di Parma Opizo, in un momento non ben determinabile, fece mettere in prigione Segarelli, ma presto gli restituì la libertà e gli consentì addirittura di frequentare la corte vescovile 1 3 4 . Inoltre è noto che allora una «domus religionis Apostolorum» fu esentata, secondo gli statuti della città di Parma, da determinati tributi della città 135 . In un'aggiunta agli statuti di Parma, che risale al 1264, viene concesso un appoggio da parte della comunità cittadina ai «Fratres qui dicuntur Apostoli», come del resto anche ai saccati 136 , e infine il vescovo Opizo nel 1269 concede un'indulgenza a tutti coloro che fanno pervenire elemosine alla «sorores diete apostolorum» 137 . Tutto ciò induce a credere che in un primo momento fosse ancora del tutto indeciso se i frati apostolici si sarebbero evoluti come una delle fraternità di laici riconosciute, così numerose a quell'epoca, o come una setta antiecclesiastica 138 . Tuttavia alla fine si giunse a una rottura tra la chiesa e i frati apostolici, in seguito alla quale questi ultimi si evolsero come una vera setta. Per spiegare tale fenomeno si deve tenere presente che quell'ideale evangelico di povertà, quando ci si atteneva ad esso in maniera coerente e lo si giudicava assolutamente vincolante almeno per tutti gli ecclesiastici, era incompatibile con la struttura della chiesa feudalizzata e legata alla classe dominante. Lo zelo per questo ideale si sviluppa sempre da una profonda insoddisfazione per l'ordine ecclesiastico esistente, e i presupposti per un'insoddisfazione del genere si verificano quando, nel medioevo, accanto alla classe dominante si affermano più attivamente nella vita sodale-politica anche altri strati della popolazione, che riescono a sviluppare proprie rappresentazioni e propri ideali. Tuttavia sarebbe errato considerare ogni sostenitore dell'idea della povertà apostolica come esponente di un'opposizione coerente
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e consapevole all'ordine ecclesiastico nel suo insieme; anzi in molti casi si può trattare anche di un desiderio di riforma che ultimamente ha motivazioni conservatrici. Quindi i propugnatori dell'idea della povertà apostolica nel XII-XIII secolo possono essere da un lato riformatori, che con alcune misure limitate vogliono semplicemente conservare le basi dell'ordine dominante, ma dall'altro possono essere anche propugnatori di un ordine davvero nuovo. I confini tra questi due gruppi non sempre si possono tracciare con esattezza, perché talvolta un riformatore conservatore, che propriamente sta dalla parte della classe dominante, può sviluppare rappresentazioni ideali di una chiesa riformata non più compatibili con l'ordine esistente, come avviene in Gioacchino da Fiore; d'altra parte però anche sforzi di riforma che si radicano senz'altro negli strati oppressi della società possono rimanere prigionieri dell'illusione di poter raggiungere lo scopo collaborando con i rappresentanti della chiesa. Quest'ultima possibilità risultò senz'altro evidente proprio nel XIII secolo, perché il riconoscimento dell'ideale evangelico di povertà di impronta francescana da parte della chiesa potè avere tra l'altro anche l'effetto che ci si facessero idee illusorie sulla gerarchia e sul ruolo della chiesa in generale. Bisogna tenere presente tutto questo, per riconoscere che anche il comportamento, per esempio, di un Segarelli, che a prima vista appare così incoerente, era senz'altro espressione dei contrasti di classe, dell'insoddisfazione degli oppressi nei confronti dell'ordine dominante rappresentato dalla chiesa; solo che questo contrasto di classe qui non fu colto consapevolmente, e perciò anche le conseguenze che se ne trassero furono inadeguate, e quasi incomprensibili dal punto di vista odierno. Di fronte all'atteggiamento di Segarelli e dei suoi seguaci, che in definitiva, nonostante lo zelo per l'ideale evangelico di povertà, non era bellicoso ed evitava una rottura con la chiesa, è più importante chiedersi quale atteggiamento assunse la chiesa verso questa comunità. Poteva la chiesa, che aveva riconosciuto il movimento suscitato da Francesco, rendendolo così fondamentalmente innocuo, continuare a procedere in questo modo senza limiti, e trattare alla stessa stregua le correnti animate da simili ideali e in parte ancora più coerenti? Nel frattempo lo sviluppo dell'ala radical-spiritualistica all'interno dell'ordine minorità aveva reso manifesto che già non era facile tenere sotto controllo il francescanesimo e disinnescarne fin da principio, soffocandole, le tendenze inevitabilmente pericolose per la chiesa e le conseguenze dell'idea di povertà apostolica. Appare così evidente che la chiesa poteva tollerare correnti del genere solo se una organizzazio-
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ne affidabile, stabile e facilmente controllabile vigilasse a che un simile ordine non diventasse un ricettacolo di sentimenti di opposizione degli strati popolari inferiori. Per la chiesa non era tollerabile una crescita selvaggia di numerose comunità monastiche, o simili, che non ponessero limiti all'afflusso di appartenenti agli strati popolari oppressi, e nutrissero ambiziosi ideali di riforma. Infatti piccoli gruppi di questo genere troppo facilmente potevano offrire terreno di radicamento per movimenti che sarebbero andati oltre, avrebbero potuto essere inficiati da idee come quelle diffuse nelle eresie popolari, e quindi in definitiva avrebbero potuto minacciare l'autorità e la posizione della chiesa. Pertanto non è strano che nel Concilio di Lione del 1274 furono vietati tutti gli ordini, in special m o d o gli ordini mendicanti, di nuova fondazione a partire dal Concilio Lateranense del 1215, e non esplicitamente approvati 139 . I frati apostolici non osservarono — al contrario, per esempio, dei saccati — questo divieto; perciò papa Onorio IV si vide costretto a rinnovare quest'ingiunzione l ' i l marzo 1285, avendo di mira specialmente i frati apostolici l4 °, e infine ancora papa Nicolò IV, nel 1290, reiterò il divieto dei frati apostolici 141 . L'ordine di papa Onorio del 1285 sembra abbia indotto anche il vescovo di Parma Opizo, il quale non aveva contrastato i frati apostolici e in diverse occasioni li aveva addirittura sostenuti, a cacciarli da Parma l 4 2 , senza riuscire con tale misura a soffocare questo movimento nel territorio della sua diocesi. Poi a partire dal 1294 esistono testimonianze di un procedimento diretto dell'Inquisizione contro i frati apostolici. In quest'anno quattro di essi vengono mandati al rogo a Parma, mentre Gerardo Segarelli in un primo momento è condannato all'ergastolo 143 , per poi essere mandato anch'egli al rogo nel luglio del 1300 144. Sappiamo inoltre che a Bologna, già nel 1299, si tennero numerosi processi di Inquisizione contro frati apostolici 145 . Interrompiamo qui la storia ulteriore dei frati apostolici, giacché siamo giunti all'epoca in cui Dolcino assunse una posizione di guida all'interno della setta e diede un nuovo indirizzo a tutto il movimento. È quindi opportuno fare ancora alcune osservazioni sulla natura di questa setta, sulle sue concezioni e sulla sua composizione sociale fino al 1300. Per quanto riguarda la composizione sociale, vanno prese in considerazione tra l'altro diverse affermazioni di Salimbene; tuttavia non si deve mai dimenticare che questo cronista si è sempre adoperato per esporre al disprezzo e al ludibrio i frati apostolici, sentiti come scomodi rivali. Così in un passo egli lamenta che una delle loro molte follie consisterebbe in questo, che essi avrebbero rifiutato quei mestieri
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per i quali soltanto erano adatti; cita in proposito il mestiere di bovaro e di guardiano di porci, così come il lavoro del contadino in generale. Perciò a suo avviso i frati apostolici devono riprendere la vanga e dissodare la terra 146 . Sebbene dietro queste affermazioni vi sia certamente il desiderio di presentare i seguaci di Segarelli come esponenti di mestieri spregevoli e rozzi, tuttavia anche l'osservazione di Salimbene secondo cui essi, entrando nella fraternità, vendevano «le loro casette, i loro giardini, i loro campi e i loro vigneti»147, testimonia che molti piccoli contadini e altri abitanti poveri della campagna nelle immediate vicinanze di Parma aderirono ai frati apostolici. Anche Gerardo Segarelli non proveniva dalla stessa Parma, ma da un paese vicino, Alzano 148. Questo fenomeno diventa comprensibile se si pensa che intorno alla metà del XIII secolo la situazione economica di gran parte della popolazione rurale del centro e del nord Italia, ove erano disseminate città, non era affatto prospera. Nella letteratura molto spesso si sono giudicate troppo positivamente le ripercussioni sulle campagne circostanti del sempre maggiore dominio delle città del centro e del nord Italia149. I miglioramenti dello status giuridico dei contadini, che indubbiamente si verificarono e che rientravano nell'interesse delle città fiorenti, non significavano sempre anche un mutamento positivo della situazione economica della popolazione rurale. Infatti si deve tenere presente che gli interessi degli abitanti delle città nei confronti della popolazione delle campagne in Italia riuscirono ad affermarsi sempre più non solo in forza della superiorità economica della città; infatti tale superiorità fu ulteriormente rafforzata anche dal suo dominio politico sulle campagne circostanti; le campagne quindi furono asservite agli interessi delle città ancor più che negli altri paesi europei, nei quali le città non disponevano nella stessa misura di quello strumento di dominio politico 15°. Infine con l'accresciuta importanza del rapporto merce-denaro rispetto alla terra le sperequazioni economiche all'interno della popolazione contadina si accentuarono 151 , sicché — anche se è possibile supporre per i contadini con maggiori possedimenti un'esistenza economica in qualche modo garantita, e addirittura un certo miglioramento della loro situazione — in ogni caso si formò un ampio strato di piccoli contadini, la cui situazione economica era estremamente precaria 152 . Dunque, stando alle testimonianze delle fonti, l'ideale della vita apostolica predicato da Segarelli ha esercitato una grande attrazione soprattutto sugli esponenti di questi strati poveri della popolazione rurale a ridosso delle città. Oltre a ciò si può ipotizzare che i frati apostolici avessero un largo seguito anche nelle fila degli
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abitanti più poveri della città. Perciò possiamo pensare che i membri effettivi della setta dei frati apostolici — per i promotori e i seguaci della setta è diverso — presentassero una composizione simile ai beghini e begardi eretici che compaiono al nord delle Alpi. Ciò è testimoniato anche dal fatto che presso entrambi i gruppi ereticali il mendicare ha rilievo decisivo 153; questo fenomeno indubbiamente non si spiega solo in base a una imitazione formale dei princìpi dei monaci mendicanti; esso piuttosto, come ha dimostrato Erbstòsser, per questi gruppi sociali rappresenta la possibilità di sussistenza più praticabile >54. Per quanto concerne le visioni dei frati apostolici intorno al 1300, sarebbe ovviamente interessante soprattutto appurare se, in rapporto allo stadio iniziale così come è descritto in particolare da Salimbene, si sia verificata un'evoluzione verso concezioni ereticali più accentuate. Nell'insieme sembra che tra i frati apostolici le deviazioni dirette dal dogma ecclesiastico siano state di minor conto che nella maggior parte delle altre sette medievali. Così essi, che percorrono le contrade predicando a imitazione degli apostoli155, nei loro viaggi amano recarsi nei luoghi dei grandi pellegrinaggi, come per esempio Santiago, ma anche Roma 156 ; ciò testimonia che, per esempio, non rifiutavano in linea di principio, contrariamente alla maggioranza delle altre sette medievali, il culto delle reliquie. D'altra parte però dai verbali dei processi di Inquisizione del 1299 emerge che i frati apostolici presero le distanze in modo sempre più consapevole dalla chiesa. Così essi affermano che la chiesa, fino a papa Silvestro, cioè prima della Donazione di Costantino, si trovava in una condizione di maggiore perfezione che non dopo, perché allora viveva in uno stato di povertà 157 . Di conseguenza pensavano di trovarsi in uno stato di perfezione maggiore che non, per esempio, Agostino o papa Gregorio I. Perciò nemmeno il papa ha la potestà e l'autorità di costringerli ad abbandonare il loro status, che corrisponde a quello della ecclesia primitiva 158. Su questo punto appare già la disobbedienza aperta nei confronti dell'autorità della chiesa; essa è fondata sulla convinzione di aver raggiunto lo stato di perfezione con l'osservanza dello «status perfectionis» dell'«ecclesia primitiva». In ciò si palesa la rottura con la chiesa, anche se si può ancora constatare almeno in parte lo sforzo per trovare una mediazione; così uno dei frati apostolici interrogato nel 1299 afferma che la chiesa avrebbe sì perso lo «status perfectionis» dopo la Donazione di Costantino, però si troverebbe egualmente in uno «status sanctitatis»159.
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Va inoltre rilevato un altro fatto, che si può intravvedere dai processi del 1299- In quell'occasione i frati apostolici si sono designati per lo più come «pauperes Christi» o come «minimi», mentre il nome «apostoli» era usato soprattutto fuori della loro cerchia 160 . In proposito è particolarmente interessante il termine «minimi», che sembra un consapevole accrescitivo di «minores», dunque del nome dei francescani. Con ciò evidentemente i frati apostolici avanzano la pretesa di realizzare l'ideale francescano originario della povertà in una forma ancora più pura e più perfetta dei francescani. Infine importante per un confronto con altre correnti ereticali del tempo è che in forza della convinzione di trovarsi nello «status perfectionis», tra i frati apostolici si sviluppano concezioni che rivelano una certa affinità con dottrine del Libero spirito-adamitiche. Accanto alì'expropriatio, che in parte ricorda pratiche adamitiche 161 , bisogna fare riferimento soprattutto al fatto che già Segarelli cercava di dimostrare la propria castità, e quindi la propria perfezione, giacendo a letto svestito con una donna, senza unirsi con lei 162 . Anche nelle deposizioni del 1299 troviamo affermata la concezione secondo cui chi si trova nello stato di perfezione può sostenere prove del genere, e che per lui non sono peccaminosi «tactus impudici et carnales» l63 . Da qui ai princìpi del Libero spirito vero e proprio il passo non è più lungo, e perciò non è strano che uno degli iniziatori della setta dello «Spiritus libertatis», che compare in Umbria all'inizio del XIV secolo, per un certo tempo abbia aderito ai frati apostolici 164 . In ogni caso questa evoluzione evidenzia che il fossato tra le eresie che affermano l'ideale evangelico di povertà e le eresie del Libero spirito non sempre è così grande, come per lo più si ritiene l65 . Tuttavia sulla base delle considerazioni precedenti dovrebbe essere diventato chiaro che il principio di povertà rigorosa dei frati apostolici contraddiceva sì profondamente la struttura ecclesiastica, ma che essi prima del 1300 avevano accolto nel loro universo rappresentativo solo molto limitatamente ovvero solo per qualche cenno princìpi dottrinali direttamente eretici. E ciò trova conferma nel fatto che papa Onorio, nel suo divieto dei frati apostolici, da un lato fa certo riferimento al fatto che alcuni tra loro si sarebbero macchiati di eresia, ma dall'altro dispone nel contempo che quei frati apostolici che intendano condurre incondizionatamente una «vita religiosa» debbano entrare in un altro ordine riconosciuto. Questa possibilità sicuramente non sarebbe stata loro concessa, se questa comunità si fosse già completamente trovata sulla strada dell'eresia 166 .
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Infine occorre affrontare anche la questione in che misura i frati apostolici abbiano sviluppato chiare attese millenaristiche fin dall'inizio, o almeno prima della comparsa di Dolcino, dunque prima del 1300. In proposito bisogna anzitutto dire che nei processi di Inquisizione avvenuti a Bologna nel 1299, prima dell'avvento di Dolcino, non vi sono cenni di alcun genere alla presenza di una visione millenaristica del futuro. Per chiarire questo problema ci si dovrebbe chiedere ulteriormente se, per esempio, poiché Segarelli iniziò la sua opera proprio nel 1260, si possa concludere che erano presenti attese gioachimitiche; laddove bisognerebbe chiarire soprattutto quale senso avesse l'appello alla penitenza che i frati apostolici predicavano incessantemente, e che è spesso testimoniato nelle fonti: «Fate penitenza, perché il regno dei cieli si avvicina» l 6 7 . Con le parole «appropinquabit regnum coelorum» volevano forse indicare la venuta del regno dei cieli dell'aldilà, e quindi la prossima fine di questo mondo, oppure con regno dei cieli essi intendevano uno stato celeste perfetto sulla terra, per esempio nel senso del terzo status di Gioacchino? Possiamo tentare una risposta a tale domanda considerando che il movimento dei frati apostolici ebbe inizio nell'anno del grande movimento dei flagellanti, cioè nel 1260. È perciò evidente che le rappresentazioni degli avvenimenti venturi in sostanza erano le stesse nei flagellanti, in Segarelli e nei suoi seguaci. Questo assunto viene confortato dal racconto di una fonte, peraltro alquanto posteriore, secondo la quale gli eremiti che suscitarono le processioni dei flagellanti del 1260, gridavano al popolo allo stesso modo: «Penitentiam agite, quia appropinquabit regnum coelorum» l 6 8 . Siccome però, come si è mostrato sopra, tra i flagellanti con ogni evidenza le attese non erano dirette tanto all'inizio di un nuovo, perfetto status del mondo, bensì soprattutto a un minaccioso giudizio divino e alla fine del mondo eventualmente collegata a quello, è molto verosimile che anche in Segarelli e nei suoi seguaci fossero predominanti opinioni simili. Si deve perciò ipotizzare che le rappresentazioni dei frati apostolici fossero dominate ugualmente dall'attesa di un castigo divino e del successivo giudizio universale col quale sarebbe iniziato il regno dei cieli nell'aldilà, e che il loro appello alla penitenza intendesse preparare gli uomini a questi eventi. Non c'è dunque alcuna ragione che spinga ad annoverare i frati apostolici prima del 1300 tra quelle sette del cui universo rappresentativo le speranze millenaristiche erano parte integrante. Le cose cambiarono quando Dolcino nel 1300, subito dopo la morte sul rogo di Segarelli, assunse un ruolo-guida all'interno della setta. Dolcino, di cui non si conosce l'anno di nascita, proveniva dalla dio-
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cesi di Novara ed era figlio illegittimo di un prete, come testimoniano concordemente diverse fonti l 6 9 . Secondo il racconto abbastanza credibile di Benvenuto di Imola, egli ricevette da giovane a Vercelli una certa formazione spirituale; ciò è confermato anche dal fatto che le sue lettere, di cui presto parleremo, presuppongono una considerevole erudizione e cultura. Siccome la maggioranza dei frati apostolici proveniva da ceti popolari, cui di regola erano precluse possibilità di formazione culturale, le capacità e le conoscenze di Dolcino in campo spirituale hanno probabilmente contribuito in maniera essenziale a far riconoscere molto presto nella setta la sua pretesa di prenderne la guida. Siccome Dolcino, secondo la ben informata Historia Fratris Dulcini, avrebbe dichiarato, o subito prima della morte nel 1307 o durante la lotta sulle montagne, dunque tra il 1304 e il 1307, che egli era nella setta da sedici anni, possiamo congetturare che fosse stato accolto nelle fila dei frati apostolici intorno al 1290 170. Non abbiamo indicazioni circa un suo ruolo particolarmente attivo all'interno della setta nel periodo precedente il 1300; tuttavia già il mese successivo alla morte di Segarelli sul rogo, dunque nell'agosto 1300, scrisse una lettera aperta nella quale — nonostante l'affermazione che nella loro «congregatio» non vi fosse alcun vincolo di obbedienza esteriore, ma solo quello di un'obbedienza interiore — egli dichiara apertamente di essere la guida della setta, inviato da Dio e beneficiato da particolari rivelazioni 171 . In ogni caso negli anni immediatamente dopo il 1300 Dolcino operò per un certo tempo nel territorio di Trento, dove conobbe anche Margherita, che sarebbe stata la sua fedele compagna 1 7 2 . Qui svolge un ruolo importante accanto a Dolcino il fabbro Alberto, proveniente dal villaggio di Cimego; nella casa di costui un certo Secondino di Brescia mise per iscritto — come si afferma nel dicembre 1303 — alcune cose relative alle dottrine dei frati apostolici, usando una «compilacio» scritta da Dolcino, che era presente 173 . Inoltre sappiamo che sia Dolcino sia Alberto di Cimego soggiornarono a Bologna in un periodo difficilmente databile 174 . Nel dicembre 1303 poi Dolcino scrive la sua seconda lettera aperta, nella quale espone in dettaglio ancora una volta le sue attese circa il futuro e altre dottrine. Prima di una descrizione del successivo destino personale di Dolcino e della sua lotta contro i suoi persecutori, potrebbe essere utile, sulla base delle due lettere aperte del 1300 e del 1303, soffermarsi sulle sue visioni, soprattutto sulle sue speranze millenaristiche. Possedendo gli estratti veramente ampi offertici dall'autore del trattato De seda illorum, la base documentaria per una tale analisi risulta
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molto significativa se confrontata con i materiali trasmessici dalle altre fonti sui movimenti ereticali del medioevo. Nella prima lettera aperta Dolcino dà un'interpretazione complessiva del corso della storia del mondo. In proposito egli distingue quattro «status sanctorum» 175 . Al primo appartengono i patriarchi e i profeti dell'Antico Testamento. In questo tempo il matrimonio era senz'altro ammesso, allo scopo di accrescere l'umanità. Alla fine di questo periodo si moltiplicarono i fenomeni di decadenza, per superare ed eliminare i quali alla fine furono inviati Cristo e gli apostoli. Con ciò iniziò il secondo status, nel quale la castità venne posta al di sopra del matrimonio, e la povertà ovvero la rinuncia a un proprio possesso ebbe più valore del possesso e della ricchezza. Questo secondo status durò fino a papa Silvestro e all'imperatore Costantino, e nel suo stadio finale è caratterizzato allo stesso modo da una decadenza rispetto alla «perfectio priorum». Nel terzo status, che così comincia, i popoli pagani si convertirono alla fede cristiana in misura sempre maggiore. In connessione a ciò fu utile — prosegue Dolcino — a papa Silvestro e ai suoi successori ammettere per la chiesa possedimenti e ricchezze temporali; allo stesso modo ora è stato meglio governare il popolo e dirigerlo, per mantenerlo nella fede. Ma ben presto si registrarono un abbandono dell'amore di Dio e del prossimo, così come un allontanamento dal «modus vivendi sancti Silvestri», sicché divenne necessario fondare un modo di vita più rigoroso, che fu incarnato da Benedetto da Norcia. Tuttavia in un primo momento lo status dei buoni chierici continuò a essere ritenuto buono e legittimo accanto a quello dei monaci. Quando poi si verificò in generale, sia presso i chierici sia presso i monaci, una decadenza dei costumi, Francesco e Domenico introdussero ancora una volta una svolta verso il meglio, poiché essi in rapporto al possesso temporale e al dominio secolare sostennero princìpi ancora più rigorosi di Benedetto. Ma alla lunga anche così la generale decadenza della chiesa non si arrestò, sicché al presente tutti, prelati, chierici e monaci, si sono raffreddati nell'amore di Dio e del prossimo. In queste circostanze l'unica cosa che può giovare è un cambiamento radicale, che deve consistere in una restaurazione, una «reformatio» del «modus vivendi» originario degli apostoli. Questa nuova grande trasformazione, che apre il quarto e ultimo status, secondo Dolcino è già stata introdotta da Gerardo Segarelli. A questo punto Dolcino sottolinea espressamente che questo modo di vita apostolico rinnovato da Segarelli si distingue notevolmente dai princìpi dei francescani e dei domenicani, i quali appunto avanzano la stessa pretesa dei frati apostolici. Infatti i membri di questi due ordini
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hanno molte case, nelle quali accumulano i proventi del loro mendicare; «noi invece — prosegue Dolcino — non abbiamo né case né possiamo trattenere quello che abbiamo mendicato» 1 7 6 . Perciò nello schema complessivo di Dolcino i due ordini mendicanti possono eliminare solo in modo transitorio certe storture all'interno del terzo status sanctorum, ma mai superare in linea di principio tale status e introdurre un'epoca veramente nuova. In tal modo Dolcino si distanzia consapevolmente dalle ambiziose attese dei gioachimiti-francescani del XIII secolo, i quali vedevano nel loro ordine lo strumento idoneo a produrre un terzo status di perfezione. Come Dolcino distingue quattro status all'interno della storia universale, così dall'avvento di Cristo — palesemente in corrispondenza con il metodo della concordanza già impiegato da Gioacchino — si sono verificate quattro trasformazioni (mutationes) all'interno della storia della chiesa. Nel primo periodo, da Cristo fino a Silvestro, quindi in corrispondenza al secondo status del mondo, la chiesa fu buona, povera, vergine, pura e perseguitata. Nel secondo periodo essa fu «ricca, onorata, perseverante nel bene e nella purezza». I princìpi validi per questo stato furono incarnati in maniera esemplare da Silvestro, Benedetto, Francesco e Domenico. Quando tuttavia i chierici e i monaci si allontanarono da questi princìpi, subentrò la terza trasformazione, che ebbe come conseguenza che la chiesa divenne cattiva, ricca, avida, superba e onorata. Invece dopo la quarta «mutatio», che nel contempo introduce il quarto status del mondo ed è già riconoscibile nei suoi inizi, la chiesa ridiventa come era nel primo periodo, dunque buona, povera e anzitutto sofferente sotto le persecuzioni; poi essa rimarrà perfetta e porterà frutti sino alla fine del mondo 1 7 7 . La dottrina di Dolcino sui quattro status del mondo, così come viene esposta diffusamente nella sua prima lettera, induce ovviamente un confronto con la dottrina gioachimita dei tre status. Si può assumere per certo che su questo punto Dolcino, nonostante tutte le indiscutibili differenze, si ricollega alle dottrine di Gioacchino. L'ideale dell'«ecclesia spiritualis» di Gioacchino, che già era stato incurvato dai francescani nel senso dell'idea di povertà apostolica, continua a operare senza dubbio anche in Dolcino, e invero in questa formulazione francescana. Così Dolcino indica la comunità dei frati apostolici come «congregatio spiritualis et apostolica» 178 ; nel tempo venturo anche gli «spirituales» degli altri ordini aderiranno ai frati apostolici, e riceveranno tutti la grazia dello Spirito santo 179 . Anche la rivendicazione di Dolcino, di possedere la capacità «ad aperiendum prophetias», così come l'«intelligentia novi et veteris Testamenti», ricorda rappresenta-
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zioni gioachimite 180; ciò innegabilmente corrisponde in certa misura aH'«intelligentia spiritualis» di Gioacchino, che allo stesso modo comprende il senso più profondo delle sacre Scritture e nel contempo svela il futuro. Peraltro in Dolcino non si tratta tanto di un collegamento diretto con le idee di Gioacchino quanto di un impiego di queste idee nella loro formulazione francescana; ciò è testimoniato soprattutto dal fatto che Dolcino non pensa mai all'introduzione di uno status dello Spirito santo totalmente nuovo, unico, ma sempre e solo a una reiterazione della chiesa primitiva apostolica. «Reformatio, renovatio della chiesa nel vero senso della parola è il fine, non invece un futuro al di là di tutte le possibilità e le realtà del passato», così Grundmann ha demarcato in modo assolutamente pertinente le attese di Dolcino rispetto a quelle di Gioacchino 181 . Solo che sarebbe rischioso sminuire le idee di Dolcino perché sono meno originali e meno ardite — dal punto di vista della storia delle idee — di quelle di Gioacchino. Infatti si deve sottolineare sempre di nuovo che l'ideale eremitico, quietistico e contemplativo, di Gioacchino era sì estremamente originale, ma in questa forma non avrebbe mai potuto diventare efficace in cerchie più vaste. Se la dottrina di Gioacchino circa uno status venturo di perfezione assoluta voleva diventare un fattore efficace del processo storico ovvero della vita sociale del tempo, allora era inevitabile lasciar cadere molti tratti singoli, invero oltremodo interessanti, e collegare i tratti fondamentali, ma semplificati, della sua dottrina con l'ideale della povertà apostolica. Inoltre dovrebbe essere fuori discussione che la rivendicazione di una restaurazione della chiesa primitiva apostolica poteva significare una rottura con l'ordine esistente tanto radicale quanto l'attesa di uno stato completamente nuovo, mai esistito; anzi, in questo caso si potrebbe addirittura dire che l'ideale concreto di povertà evangelica, sebbene sotto il profilo formale si accontentasse della «renovatio» ovvero della «reformatio» di uno stato che si pretendeva già esistito una volta, per combattere la chiesa mondanizzata e amalgamata con la classe dominante era più adatto delle rappresentazioni ideali di Gioacchino d'impronta mistica e monastica. In base a questa alta valutazione della vita apostolica si spiega anche la evidente differenza tra l'idea di storia di Dolcino e quella di Gioacchino, cioè la divisione della storia universale in quattro, non solo in tre status. In questo modo l'epoca che nello schema di Gioacchino costituiva il secondo status viene suddivisa in due periodi. Il periodo aggiuntivo è costituito dall'epoca di Silvestro e di Costantino, il momento dunque in cui, secondo la maggioranza degli eretici medievali, la
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chiesa si era allontanata dalla retta via ed era diventata la meretrice di Babilonia 182 . Tuttavia su questo punto le opinioni di Dolcino non sono pienamente simili a quelle, per esempio, dei valdesi o dei catari; infatti anche se sostiene l'idea che con Silvestro si conclude il tempo della chiesa primitiva apostolica, tuttavia, al contrario di molti altri eretici, egli è disposto a riconoscere per un certo tempo alla chiesa, con i suoi beni temporali e diritti di sovranità, un'esistenza legittima. Pertanto Silvestro rientra, accanto a Benedetto, Francesco e Domenico, tra i santi che per questo periodo sono assolutamente esemplari e irreprensibili 183 . Senza dubbio si tratta di un giudizio sulla chiesa romana molto più favorevole rispetto a quello usuale tra gli eretici; sembra che su questo punto abbiano influito le visioni dei frati apostolici del periodo precedente, i quali tendevano a un compromesso con la chiesa ,84 . Ma sarebbe del tutto errato volerne dedurre un atteggiamento sostanzialmente più moderato e più incline al compromesso da parte di Dolcino. Bisogna anzi sottolineare che, proprio con la trasformazione della dottrina gioachimita dei tre status in una dottrina dei quattro status, l'epoca della chiesa apostolica primitiva, essendo un'età del mondo autonoma, viene separata in linea di principio dal tempo della chiesa romana dotata di possedimenti e di diritti di sovranità. Di conseguenza, prescindendo dalla comune professione di fede cristiana, non c'è più nulla che leghi la chiesa apostolica primitiva alla ricca chiesa romana, e perciò non c'è neppure nulla che possa gettare un ponte di collegamento tra questa chiesa ricca e la pura chiesa ventura, così come è incarnata da Segarelli. Mentre secondo Gioacchino coloro che rientrano senz'altro ancora nel quadro della chiesa clericale del secondo status possono essere comunque già iniziatori del terzo status venturo, come per esempio Benedetto, Dolcino separa nettamente persino un Francesco e i suoi princìpi da ciò che è iniziato con i frati apostolici, sicché nessuno dei rappresentanti della chiesa attualmente dominante può essere precursore della chiesa nuova, perfetta del quarto status. Perciò è sicuramente giusto quanto ipotizza KestenbergGladstein, che proprio questo apprezzamento elevato della vita apostolica, spinto fino alle ultime conseguenze, indusse Dolcino a suddividere la storia del mondo in quattro status, allontanandosi in ciò da Gioacchino 185. In ogni caso il particolare principio di suddivisione di Dolcino mostra inequivocabilmente che per lui non poteva esserci alcun compromesso tra la vita apostolica e il modus vivendi della chiesa attuale.
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Perciò non sorprende che Dolcino nelle sue lettere predichi un radicale annientamento di tutta la chiesa, ovvero una eliminazione diretta e fisica totale di tutti coloro che appartengono a questa chiesa, sia chierici sia monaci. La costruzione di una nuova chiesa apostolica gli sembra possibile solo sulla base di una distruzione totale del vecchio. Proprio su questo punto allo stesso modo si rileva un significativo spostamento di accento nei confronti delle visioni di Gioacchino come pure degli spirituali francescani influenzati da Gioacchino. In verità anche l'Olivi e Ubertino da Casale attendono una violenta distruzione dell'«ecclesia carnalis». Ma essi non equiparano mai l'«ecclesia carnalis» da annientare, in modo del tutto chiaro e inequivocabile, con l'insieme degli ecclesiastici della chiesa romana, ovvero in generale con la chiesa come istituzione; anzi nell'unica chiesa di Cristo i buoni e gli eletti sono sempre uniti con i cattivi, che certo in ultima analisi sono la maggioranza, sicché la continuità rimane sempre preservata. Gioacchino aveva formulato le sue concezioni in modo ancora più cauto e meno aggressivo; infatti egli, quando parla della Babilonia da castigare, ha sempre presente la cristianità corrotta nel suo insieme, e mai esclusivamente i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica 186 . Dolcino invece già nella sua prima lettera profetizza chiaramente che entro i prossimi tre anni «tutti i prelati della chiesa, così come gli altri chierici, dal più alto al più basso, e allo stesso modo tutti i monaci e tutte le monache [...] tutti i frati e le suore dell'ordine domenicano e francescano [...] e anche papa Bonifacio Vili» devono essere uccisi 187 . Quest'opera di eliminazione di tutto il clero secondo Dolcino sarà eseguita da Federico III, eletto re di Sicilia nel 1296 contro la volontà del papa; su di lui si appuntavano anche le speranze dei ghibellini italiani. Le acute tensioni tra la curia e Federico III, perduranti fino al 1303 188, nonché le speranze, già da lungo tempo vive nei circoli ghibellini, in un terzo Federico, il quale avrebbe sottomesso il partito ecclesiastico e castigato la stessa chiesa mondanizzata 189 , possono aver suscitato in Dolcino la convinzione che questo sovrano fosse chiamato a liquidare la chiesa corrotta. Collegandosi con le attese dell'imperatore finale connesse al nome di Federico, Dolcino predice che il re di Sicilia diventerà imperatore e con l'aiuto di nove re da lui insediati 190 vincerà il papa e lo ucciderà insieme agli altri chierici. Qui emerge ancora un'altra notevole differenza tra le profezie di Dolcino, sull'imperatore persecutore che avrebbe castigato la chiesa, e quelle della maggioranza dei gioachimiti. Infatti per Dolcino Federico III e i re che gli sono a fianco, i quali liquidano il clero, non sono
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i rappresentanti di potenze anticristiane o, per così dire, pagane, che contro la loro volontà eseguono un'opera gradita a Dio 1 9 1 ; anzi, in netta antitesi con simili concezioni, sostenute oltre che da Gioacchino in primo luogo anche dagli spirituali francescani, Federico III viene giudicato positivamente sotto ogni aspetto. Dolcino esprime l'attesa secondo cui Federico, insieme ai nove re e con un «papa sanctus» inviato da Dio dopo l'uccisione di Bonifacio Vili, governerà come imperatore fino alla comparsa dell'Anticristo, e più di qualsiasi altro imperatore avrà il dominio su tutto il m o n d o 1 9 2 . Dunque il sovrano che perseguita la chiesa non appare come alleato di uno pseudopapa 1 9 3 , bensì come alleato di un «papa sanctus», e dominerà il mondo secondo le antiche profezie dell'imperatore degli ultimi tempi; in altri termini, sarà l'imperatore della pace che compare prima della fine del mondo e che porta la felicità agli uomini. Ne consegue che per Dolcino la liquidazione del clero non è più, come per gli spirituali francescani, un'opera necessaria sì, ma in fondo anticristiana, ma è un'impresa buona sotto ogni profilo, da approvare soggettivamente e oggettivamente. L'uso della violenza senza riguardi contro la chiesa corrotta non viene più avvertito solo come un male inevitabile, ma viene caldeggiato e giustificato. Peraltro Dolcino in questo giudizio incondizionatamente positivo sulla persecuzione della chiesa aveva già dei modelli, appunto nelle attese di Federico secondo la versione dei ghibellini filo-svevi, le quali sicuramente gli erano note 1 9 4 . Infatti anche in questa tradizione il terzo Federico, oppure Federico II che ritorna, appare allo stesso tempo come purificatore della chiesa con l'uso della violenza e come imperatore finale della pace, che domina e rende felice il mondo. Tuttavia, nonostante questa concordanza, sarebbe errato identificare completamente queste concezioni dei circoli ghibellini con quelle di Dolcino. Infatti il motivo da lui mutuato dell'imperatore Federico che purifica con la forza la chiesa, inserito nell'universo concettuale del movimento ereticale e popolare dei frati apostolici, assume un carattere completamente diverso da quello che gli ineriva nel quadro delle visioni del partito ghibellino. Quelle profezie ghibelline, in verità, sono influenzate dall'esigenza di una chiesa liberata da interessi di dominio temporale-politico, e a questo scopo riprendono rappresentazioni popolari, in parte diffuse nei movimenti ereticali; ma non contengono mai una rottura ereticale così netta con tutta la tradizione ecclesiastica, e una liquidazione fisica così globale di tutta la gerarchia ecclesiastica. Tutt'al più le successive deformazioni popolari dell'attesa di Federico,
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così come per esempio si riflettono nel racconto di Giovanni di Winterthur, vanno equiparate alle concezioni di Dolcino. Sulla base delle considerazioni finora svolte possiamo constatare che la profezia di Dolcino, secondo cui tutto il clero mondanizzato, compreso il papa, e i monaci sarebbero stati sterminati, testimonia un atteggiamento antiecclesiastico così radicale, quale difficilmente ci è noto nell'epoca precedente 195 . A ciò si aggiunge che l'uso della violenza necessario per l'annientamento del clero non solo è considerato inevitabile, ma è pienamente approvato. Tutte queste idee — l'attesa dell'inizio di una nuova età del mondo, la distruzione violenta dell'ordine esistente, e soprattutto l'approvazione incondizionata dell'uso della violenza connessa a tale distruzione — contengono senza dubbio elementi essenziali della moderna idea di rivoluzione. Però per quanto Dolcino con le idee e le rivendicazioni contenute nelle sue lettere sia arrivato più vicino a un'ideologia rivoluzionaria che gli eretici dell'epoca precedente, non si può tuttavia dimenticare che nelle sue visioni — in antitesi per esempio con i princìpi dei chiliasti all'interno del movimento rivoluzionario hussita — manca un elemento essenziale, quello di un coerente programma rivoluzionario. Quei chiliasti taboriti del 1420 sono convinti che loro stessi «in quest'ora di vendetta sono la schiera di Dio, mandati per spazzare via ogni scandalo e ogni male dal regno di Cristo», e che loro stessi devono agire «con fuoco e spada contro i nemici di Dio» 196 . Diversamente da queste visioni davvero rivoluzionarie, Dolcino affida la battaglia aperta contro la chiesa mondanizzata e i suoi rappresentanti a un'altra potenza, ossia al re di Sicilia e futuro imperatore Federico III, che dispone di forze militari sufficienti. Né nella lettera aperta del 1300 né in quella del dicembre 1303 Dolcino parla minimamente del fatto che i frati apostolici sarebbero entrati armati in lotta contro il clero mondanizzato e tutti gli altri nemici. Anzi si dice espressamente che il compito dei frati apostolici è la predicazione, e lo sarà sempre, con la sola differenza che dopo la completa liquidazione del clero operata da Federico III essi potranno predicare apertamente, mentre adesso devono farlo di nascosto 197. Ciò significa che i frati apostolici fin dall'inizio e anche per il futuro rivendicano in qualche modo il ruolo di un nuovo, anche se di genere completamente diverso, «corpo ecclesiastico», nel cui ambito di competenza rientra la cura pastorale degli uomini e non per esempio un attacco violento contro l'ordine esistente; a loro spetta soltanto di motivare la legittimità e la necessità di un tale uso della violenza, e di farne propaganda. Sebbene nelle circostanze esistenti intorno al 1300
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anche una tale impresa non vada sottovalutata, già in base al fatto che Dolcino attribuisca a una delle potenze politiche dominanti il compito di abbattere con la violenza le condizioni esistenti si può concludere che Dolcino nelle sue due lettere aperte — al contrario dei chiliasti hussiti del 1420 — non è ancora arrivato a sviluppare un'ideologia rivoluzionaria vera e propria 198 . Nella seconda lettera aperta del dicembre 1303 Dolcino ha tentato di adattare alla mutata situazione storica le attese del futuro espresse nel 1300; ciò era diventato necessario già per il fatto che le sue predizioni circa l'annientamento del clero nei successivi tre anni espresse nel 1300 non si erano verificate. D'altra parte l'aggressione a papa Bonifacio Vili ad Anagni, e la morte di quest'ultimo avvenuta subito dopo, devono averlo confortato nella convinzione che la catastrofe della chiesa mondanizzata fosse imminente. Perciò ora egli sposta le grandi persecuzioni degli ecclesiastici agli anni 1303-05. Nel 1303 esse si abbattono su Bonifacio Vili, nell'anno seguente i cardinali verranno annientati insieme al nuovo papa, e nel 1305 i chierici, i monaci e le monache verranno uccisi dappertutto. Queste misure violente del 1304 e 1305 saranno opera — su questo punto Dolcino rimane fermo, nonostante la conclusione di una pace tra il re di Sicilia e la curia, avvenuta nel maggio 1303 — di Federico III 199 . A queste profezie Dolcino collega una profezia papale, la quale riguarda quattro pontefici. Il primo e l'ultimo di questi papi saranno papi buoni; e qui Dolcino, in pieno accordo con gli spirituali francescani, ritiene che col primo papa sia da intendere il «papa angelico» Celestino V. I due papi successivi, entrambi cattivi, sono Bonifacio VIII e Benedetto XI, il quale all'epoca della stesura della lettera era stato appena eletto; ma Dolcino non lo chiama per nome. Poi, dopo l'eliminazione di quest'ultimo papa, vaticinata per il 1304, deve comparire di nuovo un «papa sanctus», il quale non sarà più eletto dai cardinali, che saranno ugualmente uccisi, ma da Dio stesso. Sotto di lui cesseranno tutti i travagli dei frati apostolici, che così potranno rinnovare la chiesa 200 . Purtroppo l'anonimo autore del trattato De secta illorum non ci ha tramandato, come per le altre due lettere, il contenuto di una terza lettera aperta a lui nota 201 . Tuttavia De Haan ha formulato l'ipotesi molto plausibile che alcune profezie, a loro volta leggermente modificate, che sono contenute in questo trattato 202 , e sono sostanzialmente conformi alle indicazioni corrispondenti della Historia fratris Dulcini20}, risalgano a questa terza lettera aperta 204 . Secondo tali fonti Dolcino, probabilmente alla fine del 130 4 205 , ha ancora una volta
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alquanto differito cronologicamente le sue profezie, e ha spostato tutti gli eventi essenziali al 1305. Secondo tali profezie in quest'anno Federico III è destinato a diventare imperatore e a uccidere il papa, i cardinali e i chierici in genere, esclusi coloro che aderiscono ai frati apostolici. Inoltre a questo riguardo sia l'autore del trattato De secta iliorum, sia la Historia fratris Dulcini affermano che, dopo la distruzione della vecchia chiesa, Dolcino stesso sarebbe diventato papa 2 0 6 . Di ciò nella prima e nella seconda lettera aperta non si diceva nulla; anzi dalla prima lettera risulta evidente che allora Dolcino distingueva chiaramente il papa sanctus venturo dalla sua persona; infatti egli vi si identificava con l'angelo di Tiatira dell 'Apocalisse, mentre il futuro papa santo veniva messo in relazione con l'angelo di Filadelfia 207 . Tuttavia è possibile che 1 'Historia e il trattato diano un resoconto fedele, e che quindi Dolcino nel 1304-05 abbia mutato realmente la sua visione su questo punto. Il fatto che anche un'adepta dei frati apostolici, il 6 giugno 1305 a Bologna, asserisca che Dolcino sarebbe diventato papa 2 0 8 , costituisce un sostegno sicuro per questa ipotesi. La Historia fratris Dulcini ci fornisce ancora alcune indicazioni circa le idee di Dolcino a proposito del corso ulteriore degli eventi dopo l'elevazione dell'imperatore Federico III e l'insediamento del papa sanctus — forse ancora una volta principalmente sulla base delle predizioni della terza lettera aperta di Dolcino —, mentre sotto questo profilo sono inservibili gli estratti delle lettere del 1300 e del 1303 riportati nel trattato De secta illorum. Secondo tali indicazioni l'imperatore Federico regnerà, con i nove re da lui insediati, tre anni e mezzo. Nel primo mezzo anno il papa, i cardinali e i chierici saranno definitivamente liquidati e alla chiesa saranno tolti tutte le ricchezze e i diritti di sovranità. Poi Dolcino, elevato al papato, e i suoi seguaci predicheranno per tre anni il minaccioso arrivo dell'Anticristo, il quale comparirà una volta trascorso questo periodo. Per sfuggire ai travagli che quindi cominceranno, Dolcino e i frati apostolici saranno rapiti in paradiso, da cui ritorneranno di nuovo solo dopo la morte dell'Anticristo, per poi convertire alla vera fede di Cristo tutti gli uomini con la loro predicazione 209 . Rimane indeterminato quando, dopo tutto questo, debba venire la fine del mondo col giudizio universale. Quindi in rapporto alle attese circa il futuro di Dolcino possiamo concludere che egli profetizza l'inizio di un nuovo status con un ordine ecclesiastico radicalmente mutato; l'affermazione di questo nuovo status implica una piena, completa restaurazione dei princìpi apostolici, che per Dolcino sono la quintessenza della perfezione. Al posto del clero ricco e corrotto, i frati apostolici, senza possedimenti e quindi
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irreprensibili, assumeranno la cura pastorale degli uomini e l'ufficio della predicazione. Ma ciò significa evidentemente che le rigorose regole della vita apostolica, nella forma da loro richiesta, potranno essere valide solo per questa ristretta cerchia, non per tutti gli uomini 210 . Del resto che il modo di vita dei frati apostolici non potesse diventare una regola per tutti risulta già dal principio del mendicare da essi sostenuto, il quale doveva documentare la loro completa nullatenenza e quindi la loro perfezione, ma nello stesso tempo rendeva loro impossibile a priori di sviluppare ulteriormente i loro princìpi nel programma di una trasformazione profonda di tutto l'ordine sociale. Qui ci troviamo di fronte a uno dei problemi decisivi di tutti i movimenti ereticali del medioevo, per i quali l'ideale della vita apostolica era normativo. Infatti la rinuncia letterale e coerente a ogni possesso, in quanto presupposto per una vita perfetta secondo i precetti evangelici, poteva essere realizzata integralmente sempre e solo da una cerchia ristretta, lontana dalla vita reale. La conseguenza fu che in quasi tutte le sette medievali si può constatare una stratificazione in due gruppi; da un lato vi sono i «perfecti», che non posseggono nulla di proprio e girano per le contrade come predicatori; dall'altro c'è la massa dei seguaci, dei fedeli, per i quali non vigono norme così rigorose 211 . Certo da tutti questi fedeli si esige che anche essi, come i membri della chiesa primitiva, seguano la regola che tutto è comune a tutti; ma in forza di questo principio nelle condizioni economiche di allora non si riusciva a cambiare molto dei rapporti sociali esistenti. Infatti i fedeli continuavano a vivere come avevano fatto fino allora nella loro professione; dovevano essere soltanto pronti in ogni momento a sostenere i «perfecti» ovvero i predicatori della loro setta, che andavano in giro, ed eventualmente anche i fratelli che fossero in condizioni di bisogno. La conseguenza di questa strutturazione della setta era che la cerchia limitata dei predicatori, che in qualche modo avevano rilevato la funzione del clero, viveva sì in modo completamente diverso dagli ecclesiastici mondanizzati, immersi nella struttura della società feudale, ma i rapporti economici e sociali per la massa dei fedeli non cambiavano molto. In corrispondenza con questa articolazione reale delle sette avveniva che, sotto il profilo ideologico, si avevano sì idee chiare su quello che nella chiesa, specialmente all'interno della gerarchia, era pernicioso, e in quale misura i rapporti finora esistenti in questa sfera ecclesiastica dovessero cambiare; ma ci si trovava disarmati di fronte alla questione fino a che punto i rapporti sociali nel loro insieme dovessero essere trasformati. Ciò ha come conseguenza che di regola la critica degli eretici alla chiesa era molto concreta, e
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da questo punto di vista si sapeva quale ordine doveva subentrare al posto della gerarchia attuale, mentre invece la critica all'ordine sociale esistente passava decisamente in secondo piano, ed era poco chiara e indeterminata quanto all'obiettivo. Queste osservazioni, che valgono sia per i catari sia per i valdesi, risultano vere anche per i frati apostolici. Anche in costoro si forma con ogni evidenza una bipartizione, tra gli apostoli che predicano per le strade da un lato e i loro seguaci e fautori dall'altro, laddove questi ultimi, che molte volte appartengono agli strati medio-borghesi e non alla popolazione povera della città, fondamentalmente continuano a svolgere la loro vita professionale consueta 212 . In corrispondenza di ciò anche i frati apostolici attaccano soprattutto la chiesa corrotta, e predicano una trasformazione violenta e complessiva dell'ordine ecclesiastico, mentre non hanno alcuna chiara idea di un cambiamento complessivo di tutta la struttura sociale. Certo Giovanni Villani, nella sua Cronaca, dice a proposito di Dolcino che egli avrebbe predicato che tutto deve essere comune a tutti nell'amore 213 ; ma non vi sono elementi per sostenere che Dolcino, come per esempio i taboriti nello stadio iniziale del movimento rivoluzionario hussita, abbia ulteriormente sviluppato questa idea del cristianesimo primitivo circa la comunità dei beni in un programma di sovvertimento di tutto l'ordine sociale. Per la cerchia dei veri apostoli questa esigenza della comunità dei beni era sì una realtà, come dimostra assai visibilmente lo scambio dei vestiti con l'expropriatio, ma per la massa dei seguaci mancano evidentemente chiari princìpi che vadano oltre i precetti di una beneficenza caritativa, per cambiare lo stile di vita finora adottato 214 . Tuttavia va tenuto ben presente che anche in queste rappresentazioni «comunistiche» poco sviluppate non si tratta mai di uno sforzo di perfezione puramente religiosa; esse invece si radicano ultimamente in un rifiuto delle condizioni sociali dominanti, e quindi sono espressione dei desideri e degli aneliti degli strati oppressi della società. Che durante il medioevo si vedesse effettivamente nell'ideale della comunità dei beni una via di uscita dalle miserie sociali e politiche risulta, non da ultimo, da un'espressione di Salimbene, il quale, riferendosi a una descrizione delle rovinose faziosità e delle lotte intestine nelle città italiane esclama: «Perciò è bello stare in cielo, dove non ci sono partigianerie, divisioni, ambizioni, bensì tutto quello che si possiede lì appartiene in comune da tutti, ed è posseduto in comune da tutti» 215 . Qui il principio della comunità dei beni viene considerato inequivocabilmente come l'unico mezzo appropriato per il superamento delle miserie sociali del tempo, laddove è significativo che per Salim-
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bene, che sta senz'altro dalla parte della classe dominante, un tale stato sia possibile solo in cielo, non sulla terra. Si deve dunque constatare che con Dolcino e i suoi seguaci possiamo sì presupporre una profonda insoddisfazione oppure un atteggiamento di opposizione nei confronti dell'ordine sociale esistente, ma che non esistono idee chiare sulla necessità di un mutamento che sovverta non solo l'ordine ecclesiastico, bensì l'intera compagine sociale. Questa prospettiva unilaterale polarizzata sull'ordine ecclesiastico è una debolezza che i frati apostolici condividono con la maggior parte dei movimenti ereticali del tempo, diversamente dai movimenti successivi come, per esempio, i taboriti, i quali nel 1420 costruiscono effettivamente una comunità che vive secondo i princìpi della comunanza dei beni, una comunità che comprende tutti, non solo i predicatori, ma anche i laici 216 . Oltre alla indisponibilità ad abbattere il vecchio ordine anche con la violenza, questa incapacità dei frati apostolici di rompere la limitatezza tipica dei movimenti ereticali, e di sviluppare princìpi universalmente vincolanti di un nuovo ordine sociale, anche se necessariamente utopico nelle condizioni di allora, è un altro motivo che rende impossibile l'attribuzione, a Dolcino e ai suoi seguaci, di un programma rivoluzionario già esplicito, consapevole. Queste osservazioni vengono confermate se teniamo ancora una volta presente quelli che Dolcino considera come i suoi nemici principali, coloro che devono essere combattuti e annientati da Federico III. Anche su questo punto un confronto col programma davvero rivoluzionario dei chiliasti taboriti del 1420 mette in luce il grado di maturazione delle idee di Dolcino; infatti le visioni dei taboriti consentono di capire ciò che si poteva conseguire in questo senso in una situazione rivoluzionaria all'interno dell'ordine sociale medievale. Quei chiliasti boemi hanno riconosciuto chiaramente, nel 1420, che le carenze e l'ingiustizia delle condizioni esistenti non erano solo una conseguenza delle storture nella chiesa, anche se essi (né c'è da attendersi diversamente) mettono chiaramente in evidenza la corruzione della situazione ecclesiastica. Essi però sanno comunque che la costruzione di un ordine ideale sulla terra non presuppone solo la liquidazione della gerarchia ecclesiastica, bensì l'abbattimento della classe finora dominante. Perciò secondo la visione dei primi taboriti nel regno venturo di Cristo non solo non vi saranno più prelati e chierici nel senso attuale, ma non vi saranno più neppure re o signori temporali in genere 217 . Piuttosto per Dolcino — come dimostrano le sue lettere aperte — i nemici da combattere e da annientare sono quasi esclusivamente i membri della gerarchia ecclesiastica e i monaci. Di conseguenza dopo la
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piena affermazione del quarto status non vi saranno più né chierici né monaci, però vi saranno ancora senz'altro un imperatore e nove re. Nelle sue lettere si trova solo un cenno al fatto che Dolcino annovera tra i suoi nemici, accanto agli ecclesiastici e ai monaci, anche molti «de populo 2 1 8 , de potentibus et tyrannis» 219 . Ma quest'unico riferimento, senz'altro degno di nota, è troppo vago e non si è ancora consolidato nella consapevolezza che coloro che appartengono alla classe dominante debbano essere combattuti sia nella sfera ecclesiastica sia in quella temporale. Dolcino fondamentalmente pensa che Federico III debba eliminare i prelati, i chierici e i monaci. Una volta che ciò sia avvenuto, sono stati eliminati gli ostacoli decisivi per una piena vittoria dell'ordine nuovo e giusto. Per rispondere alla domanda fino a che punto noi possiamo considerare rivoluzionarie le idee di Dolcino, così come esse emergono dalle sue lettere prima dello scoppio della lotta aperta, si dovrà dunque osservare che la sua rivendicazione di una estirpazione violenta del clero eccede notevolmente le finalità dei movimenti ereticali del tempo, e quindi senza dubbio contiene in nuce elementi di un'ideologia rivoluzionaria; e ciò, di fronte al grado di maturazione allora raggiunto dallo sviluppo sociale, è assai considerevole. Tuttavia non è possibile, sulla base di quelle fonti, vedere in Dolcino il rappresentante di princìpi rivoluzionari evoluti, anche se utopici, come invece si può dire dei chiliasti boemi del 1420. Per sintetizzare i risultati finora conseguiti si può dire: vi sono soprattutto tre motivi che rendono impossibile una valutazione di Dolcino in termini simili a quelli dei primi taboriti. 1. Egli assegna il compito dell'uso della violenza contro la chiesa corrotta a uno dei poteri politici esistenti, non alla propria comunità reclutata all'interno delle masse popolari. 2. I princìpi sviluppati da Dolcino e dai frati apostolici in genere, che dovrebbero liquidare il vecchio ordine, sono essenzialmente attuabili solo da una cerchia ristretta, la quale in definitiva subentra al posto del clero attuale, e non da parte di tutti. 3. Si vuole colpire soloja chiesa, la quale costituisce soltanto una, anche se essenziale, componente della classe dominante; i membri secolari della classe dominante rientrano solo in maniera estremamente vaga nel quadro dei nemici da combattere. Dopo questa panoramica sulle idee, e specialmente sulle attese del futuro da parte di Dolcino fino al 1304 circa, bisogna ancora fare alcune osservazioni sulla provenienza di queste idee. L'attesa di uno status nuovo e perfetto, con una chiesa che viva secondo i princìpi apostolici, la profezia dell'avvento di un imperatore Federico che purifichi la
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chiesa con la forza, e di un «papa sanctus» paragonabile al «papa angelico»: tutte queste sono idee che tradiscono una inequivocabile affinità con le attese influenzate dal gioachimismo di circoli francescanospirituali, anche se è incontestabile che Dolcino ha trasformato queste attese, adattandole alla sua concezione globale. Si ricordi soltanto il suo apprezzamento positivo di Federico III, in netta antitesi con la concezione degli spirituali francescani, che di regola vedono nel Federico persecutore della chiesa una forza dell'Anticristo. Si potrà dunque presupporre in ogni caso che Dolcino non abbia sviluppato le sue idee in totale indipendenza, bensì abbia conosciuto e utilizzato attese del futuro diffuse in circoli di spirituali. Peraltro non si può dire con sicurezza se egli abbia conosciuto direttamente determinati scritti gioachimiti o influenzati dal gioachimismo, ad esempio il Commento a Geremia o il Commento a Isaia220, o addirittura direttamente il Commento all'Apocalisse dell'Olivi. In ogni caso si dovrà considerare anche la possibilità di una trasmissione orale di simili idee; infatti con ogni evidenza esistevano in certa misura legami molto stretti tra i frati apostolici e i francescani radical-spirituali, che dovrebbero essere stati ancora abbastanza numerosi soprattutto negli eremitaggi dell'Italia centrale anche intorno al 1300. Che a quell'epoca in tali territori esistessero legami incrociati, che per la chiesa non potevano passare inosservati, tra diversi gruppi religiosi, appare con molta chiarezza da due lettere papali del 1296 e 1297, nelle quali si parla di «apostate diversarum religionum», dunque di persone che si sono separate da determinati ordini monastici, e di altre persone, che non erano mai appartenute a nessun ordine e vengono chiamate bizochi-, tutti costoro, principalmente nelle Marche o in Abruzzo, devono condurre una vita da eremiti, oppure devono andare in giro senza essere legati ad alcun luogo fisso 221 . Si potrà verosimilmente ipotizzare che tra questi individui «allontanatisi da diversi ordini», i quali conducevano di propria iniziativa una vita religiosa, e per questo in parte aderirono, del tutto apertamente, ai frati apostolici 222, si trovassero soprattutto francescani di tendenze radicali. Anche un accenno del Liber de Flore, composto prima dell'elezione di papa Clemente V, lascia trasparire che alcuni spirituali estremisti si separarono dall'ordine e passarono «ad gradum non salutiferum» per condurre una «vita trutanica», cioè la vita di vagabondi; e con ciò si può intendere solo il modo di vita dei frati apostolici, che rifiutavano qualsiasi legame con un luogo 223 . Occorre inoltre osservare che nei processi di Inquisizione celebrati a Bologna tra il 1303 e il 1305 sono presenti diversi accenni al fatto che eremiti, in particolare donne, nel vasto circondario di Bologna
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appartenevano al novero dei fautori dei frati apostolici. Così nel 1303 una eremita di nome Benvenuta, nel frattempo deceduta, viene annoverata tra gli «amici et receptatores» dei frati apostolici 224 . Nella diocesi di Modena vengono ricordate Ugolina e una certa Luchisia, insieme con la sorella, come eremite che davano alloggio ai frati apostolici 225 . Una «heremita Bona», a sua volta, insegna a una visitatrice che coloro che ascoltano le prediche dei frati mendicanti sono esclusi dalla salvezza, ma che vi sarebbero persone illuminate direttamente da Dio, le quali possono portare gli uomini sulla via della salvezza, e queste sarebbero Dolcino e i suoi discepoli 226 . Inoltre in questi processi viene ricordata una eremita, la quale riceve da un angelo rivelazioni che poi è solita comunicare ai frati apostolici 227 . Di fronte a queste testimonianze assai numerose sui legami tra frati apostolici e cerchie di eremiti, così come sul passaggio diretto dagli spirituali francescani alla setta, è senz'altro spiegabile una ripresa da parte di Dolcino e dei suoi seguaci delle rappresentazioni gioachimite diffuse nelle cerchie degli spirituali. Infine in questo contesto è significativo il fatto che Dolcino si sia preoccupato, con grande energia e con i mezzi più diversi, di far conoscere, velocemente e senza lacune, le sue dottrine e le sue profezie a tutti gli aderenti della comunità ereticale. A questo scopo, come emerge chiaramente dalle fonti, vennero preparate in quantità considerevole note scritte che riportavano le dottrine essenziali di Dolcino. Le tre lettere aperte di quest'ultimo sono già state ricordate molte volte; tra le altre testimonianze sull'esistenza di una letteratura del genere va menzionata la deposizione di un prete interrogato dall'Inquisizione nel 1303, il quale conosce un libro «in quo scripta erat fides et credentia et doctrina Dulcini»; egli ammette inoltre che intendeva far copiare tale libro a proprie spese 2 2 8 . A Bologna uno dei seguaci di Dolcino afferma che egli ha predicato la dottrina dei frati apostolici «secundum documenta et precepta sibi tradita a Dolcino» 229 ; inoltre menziona un altro membro della setta, un certo Secondino di Brescia, che, appoggiandosi a una «compilacio» composta da Dolcino, scrisse molte cose sulle opere di Dio 230 . Infine un inquisitore nel marzo 1305 dà del danaro a un commissario che gli ha procurato una lettera del «prefectus apostolorum»; con ciò probabilmente si intende la terza lettera aperta di Dolcino 2 3 1 . Questi riferimenti relativamente numerosi, che significativamente risalgono tutti al periodo successivo al 1300, all'esistenza tra i frati apostolici di una letteratura propria della setta, testimoniano dell'intenso sforzo fatto da Dolcino per offrire a tutti i membri della setta
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una dottrina fedele e ben definita, e così consolidare la coesione interna del movimento. Vi sono chiari indizi che il sistema dottrinale dei frati apostolici dopo il 1300, dunque dopo l'avvento di Dolcino, venne ampliato e acquisì una forma più stabile, che anzi in sostanza solo in questi anni fu sviluppato un edificio dottrinale autonomo e in sé concluso. Basti solo confrontare le deposizioni dell'apostolo Zaccaria di S. Agata del 1299 232 con quelle del 13 0 3 233 — quando egli fu catturato una seconda volta dall'Inquisizione — per avere un quadro dello sviluppo dottrinale nell'intervallo di tempo; soprattutto le deposizioni del 1299, al contrario di quelle del 1303, non contengono alcuna traccia di una prospettiva millenaristica circa la distruzione radicale della chiesa esistente e il trionfo dei frati apostolici in un quarto status venturo 234. Perciò è perfettamente legittimo far cominciare col momento in cui Dolcino assunse una posizione-guida all'interno della setta una seconda nuova tappa nella storia dei frati apostolici 235 . Già il fatto che Dolcino, in contrasto con i princìpi di Gerardo Segarelli, rivendicò chiaramente una posizione-guida all'interno della fraternità 236 , mostra chiaramente che egli procedeva da altri presupposti e perseguiva altri fini rispetto al suo predecessore. Con questo abbiamo esposto, nei loro tratti fondamentali, le dottrine e le idee dei frati apostolici, e specialmente di Dolcino, nel periodo tra il 1300 e il 1304, dunque nel periodo che precedette lo scoppio della lotta aperta. Siccome una delle caratteristiche salienti del movimento dei frati apostolici è senza dubbio che esso sfociò in un'insurrezione aperta, sorge ovviamente la domanda in che misura le dottrine e i princìpi di questa setta contenessero già prima dell'inizio dei combattimenti motivazioni che dovessero favorire un passaggio alla lotta armata da parte del movimento ereticale, o addirittura la racchiudessero in sé come conseguenza logica. Dalle considerazioni finora svolte dovrebbe essere risultato chiaro che la dottrina dei frati apostolici, anche nel periodo della leadership di Dolcino, non conteneva princìpi direttamente combattivo-rivoluzionari; il compito dell'eliminazione violenta della chiesa veniva attribuito a Federico III, mentre i frati apostolici rivendicavano per sé solo funzioni puramente religiose. Perciò non si potrà dire che dalle loro dottrine e dai loro princìpi risultasse di necessità uno sbocco del movimento in un'insurrezione aperta. D'altra parte però si dovrà considerare che la prospettiva millenaristica di una radicale trasformazione, che si sarebbe compiuta in pochissimo tempo, dell'ordine ecclesiastico, così come l'approvazione senza riserve dell'uso della violenza nei confronti della chiesa, poteva in certa misura favorire il passaggio a proprie iniziative nell'uso della forza.
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Ma anche se si considera questa possibilità, in ogni caso si potrà presupporre che solo sulla base di determinate circostanze e influssi esterni il movimento dei frati apostolici giunse fino al punto di una sollevazione aperta. Da ciò deriva che, nella seguente descrizione del corso degli eventi del 1304, va sempre tenuta presente la domanda circa tali influssi esterni. Per quanto concerne il corso cronologico degli eventi, si tramanda che Dolcino, insieme a un gruppo molto esiguo di compagni, sia comparso nel 1304 nelle vicinanze del territorio che in seguito divenne teatro della battaglia, ossia dalle parti di Gattinara e Serravalle, ai piedi delle Alpi a nord di Vercelli sul fiume Sesia 2 3 7 . Lì non si venne ad alcuna azione di guerra 238 ; l'autore della Historia fratris Dulcini fa anzi esplicitamente riferimento al fatto che Dolcino operava «clandestinamente», alla maniera consueta degli eretici medievali, ed evidentemente con grande successo 2 3 9 . Siccome l'Inquisizione gli stava alle calcagna, Dolcino presto dovette abbandonare questi due paesi. Accettò quindi l'invito di un «ricco contadino» di nome Milano Sola, di Campertogno, paese in prossimità di Varallo, lungo l'alto Sesia. In questo paese Dolcino e il suo seguito rimasero per molti mesi. Ma presto anche qui non si sentirono più sicuri dall'Inquisizione; perciò Dolcino e i suoi seguaci che lo accompagnavano fin dall'inizio, ma anche quel Milano Sola e «molte persone di Campertogno e dai luoghi vicini con tutti i loro averi», si rifugiarono su un monte chiamato Balma 2 4 0 . Ciò dovrebbe essere avvenuto negli ultimi mesi del 1304. Ma anche su questo monte, sul quale si erano già costruiti alloggi stabili, poterono rimanere solo pochi mesi, poiché il vescovo di Vercelli e gli inquisitori raccoglievano un esercito contro di loro. È questo il primo accenno al fatto che si riteneva necessario procedere con mezzi militari contro Dolcino e i suoi seguaci 241 . Di fronte a questa minaccia gli eretici ripararono, forse all'inizio del 13 0 5 2 4 2 , sul «mons parietis calve», la cui inaccessibilità è chiaramente connotata dal nome. Secondo le indicazioni della Historia fratris Dulcini dovevano essere circa millequattrocento gli uomini e le donne che si raccolsero intorno a Dolcino su questo monte. Erano, oltre a Dolcino e ai suoi pochi compagni della prima ora, contadini di Campertogno e dei paesi vicini — come già ricordato —; inoltre si dice espressamente che cercarono lì riparo aderenti della setta da «diverse parti del mondo», in primo luogo certo dall'Italia del nord 2 4 3 . L'autore della Historia fratris Dulcini racconta a questo punto per la prima volta che la schiera trincerata sulla montagna fece ricorso a misure violente per procurarsi i mezzi necessari per vivere, e comin-
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ciò a saccheggiare il territorio intorno a Varallo 244 . Allo stesso tempo anche da parte dell'Inquisizione e degli altri poteri del luogo furono intensificati gli sforzi per sopraffare con la forza delle armi il gruppo ereticale. Il 9 maggio, per esempio, Cremona contrasse un credito di centocinquanta scudi, per allestire alcuni convogli militari con soldati e vettovaglie contro Dolcino, in conformità alla richiesta dell'inquisitore Enrico di Genova 245 . Inoltre il 24 agosto 1305 i signori della Valsesia si riunirono in una lega per combattere gli eretici, laddove essi potevano già richiamarsi a una indizione di crociata da parte di papa Clemente V, eletto da pochi mesi 246 . Interessante e significativo nello statuto di questa lega è soprattutto l'accenno che una parte della Valsesia, dopo essere stata appena liberata dalla tirannia dei conti di Biandrate, sia stata ora occupata dagli eretici; in questo passo gli eretici vengono indicati come «eorum milites», e ciò deve significare senz'altro: come milites dei Biandrate 247 . Qui dunque i conti di Biandrate e i frati apostolici raccolti intorno a Dolcino vengono messi palesemente in connessione diretta. Questa indicazione necessita di una spiegazione più dettagliata. I conti di Biandrate, che appartenevano da sempre al partito ghibellino, erano precisamente i signori originari della Valsesia. Nel corso del XIII secolo tuttavia le città di Novara e Vercelli — in parte lottando tra loro — avevano assoggettato in maniera crescente questo territorio al loro influsso. Infine negli anni Sessanta del XIII secolo Novara aveva preso il sopravvento in questi scontri, e aveva ridotto sotto il suo dominio la maggior parte della Valsesia248. Peraltro intorno a questo periodo i paesi e i signori della Valsesia si erano già uniti in una propria «universitas», per allontanare il più possibile qualsiasi dominio estraneo, sia quello dei conti di Biandrate sia quello delle città. Nell'ottobre 1275 questa «universitas» stipulò un trattato con Novara, nel quale la città si impegnava a eliminare numerosi abusi e doveva riconoscere alla comunità della valle il diritto di un'ampia amministrazione autonoma 249 . Rimase però intatta la sovranità di Novara 250 . Nel periodo in cui Dolcino comparve in questo territorio sia Novara sia Vercelli stavano dalla parte del partito guelfo, mentre i Biandrate erano ghibellini. A fronte di questa situazione politica è senz'altro possibile che i conti di Biandrate non avessero ritegno a usare l'eretico Dolcino per sottrarre parti della Valsesia all'influsso di Novara e di Vercelli. D'altra parte allo stesso modo è ben possibile che Dolcino, il quale riponeva così enormi speranze nel più importante esponente delle forze ghibelline in Italia, Federico III di Sicilia, sperasse e cercasse appoggio anche da parte di altri rappresentanti del partito ghibellino.
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Dell'esistenza di simili contatti tra Dolcino e i circoli ghibellini testimoniano anche altri cenni presenti nelle fonti, sia pure non esenti da qualsiasi dubbio. Si tratta delle deposizioni contro i Visconti rese davanti all'Inquisizione; esse avvennero in quanto papa Giovanni XXII, dall'inverno 1317-18, si mosse con tutti i mezzi disponibili contro i principali rappresentanti dei ghibellini in Italia; tra loro c'erano in primo luogo i Visconti, signori della potente Milano. Per minare la loro posizione, il papa aprì un processo di eresia contro Matteo, e poi anche contro Galeazzo Visconti 2 5 1 . A questo scopo furono ascoltati molti testimoni; uno di loro afferma che Matteo Visconti avrebbe incontrato Dolcino a Martinengo; inoltre avrebbe udito «per famam» che Dolcino avrebbe raccolto la sua armata sulla montagna addirittura dietro suggerimento di Matteo. Inoltre Dolcino stesso si sarebbe qualificato come amico del Visconti 2 5 2 . Anche contro Galeazzo Visconti nelle deposizioni dei testimoni viene sollevata l'accusa che avrebbe avuto uno scambio di idee con Dolcino 2 5 3 . Naturalmente è difficile stabilire fino a che punto queste affermazioni siano esatte. Può trattarsi senz'altro di calunnie variamente sollecitate, o di semplici voci. L'affermazione che Dolcino avrebbe raccolto la sua armata per istigazione diretta di Matteo Visconti dovrebbe essere falsa in questa forma. D'altra parte esistono alcuni indizi che queste affermazioni non sono completamente infondate. Così sappiamo che Martinengo, il presunto luogo dell'incontro tra Dolcino e Matteo, nel 1304-05 era un'importante roccaforte dei ghibellini, a quell'epoca pesantemente incalzati, e nell'autunno 1304 fu assediata inutilmente dai guelfi 254 . Ancora più sorprendente è il fatto che l'Inquisizione, nella primavera del 1305, dovette dedicare a questo paese un'attenzione accresciuta, a causa dell'intensa attività di predicazione dei frati apostolici 255 . Inoltre bisogna considerare che i Visconti poco tempo prima, cioè nel 1302, erano stati cacciati da Milano ed erano stati provvisoriamente spodestati 256 . Se si tiene presente tutto ciò, che cioè a quell'epoca ai Visconti era stato sottratto il potere ed essi erano grati di ogni alleato, che Martinengo era una affidabile roccaforte dei ghibellini e insieme un centro operativo dei frati apostolici, allora è verosimile che Dolcino in quel periodo, dunque nel 1304 circa, entrasse in contatto con i Visconti, proprio come poco dopo entrò palesemente in contatto con i conti di Biandrate. Non si può stabilire quali forme, quali misure e quali conseguenze ebbero precisamente questi contatti, se per esempio i seguaci di Dolcino vennero riforniti di armi da questo versante. Ma che esistessero in generale legami sotterranei di questo tipo, lo si potrà
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ben congetturare da quanto detto 257 . Anzi per altra via è altresì noto che il duro contrasto tra papa e chiesa da una parte e i ghibellini italiani dall'altra spesso spinse questi ultimi a simpatizzare con gli eretici, 0 almeno a tollerarli 258 . Le considerazioni svolte finora hanno mostrato che i frati apostolici, al più tardi dopo il loro insediamento sul «mons parietis calve» avvenuto nella primavera del 1305, non rifuggirono dal compiere azioni militari aperte e incursioni armate nei paesi circonvicini. Si dovrà addirittura ipotizzare che Dolcino, fin dal momento in cui con i suoi adepti si ritirò su una montagna, e ciò dovrebbe essere avvenuto alla fine del 1304, quando scelse come luogo di residenza il «Balma», fosse deciso ad affrontare i suoi persecutori con la forza. A tale ipotesi si attaglia anche l'accenno già ricordato della Historia fratris Dulcini, secondo cui il vescovo di Vercelli e gli inquisitori raccolsero un esercito contro di loro già all'epoca dell'insediamento dei frati apostolici sul monte Balma. Questa sarebbe stata una misura del tutto insensata, se attorno a Dolcino fosse stata allora radunata solo una piccola schiera disarmata. Se teniamo presenti ancora una volta l'evoluzione e gli eventi degli anni 1304-05, e ci interroghiamo sugli influssi e le circostanze esterne che possono aver contribuito a far diventare il movimento dei frati apostolici, che fino allora non avevano mai rivendicato il compito dell'uso della forza, un movimento insurrezionale armato, allora si dovranno considerare soprattutto questi moventi. In primo luogo la persecuzione ostinata e intensa dei frati apostolici da parte dell'Inquisizione ha contribuito senza dubbio a far sì che alla fine Dolcino e i suoi seguaci non vedessero altra via di scampo che quella di difendere la loro vita con le armi in mano. Tuttavia questa indicazione da sola non è in alcun modo sufficiente come spiegazione dello sfociare del movimento ereticale in una sollevazione armata. Più influente dovrebbe essere stato il fatto che Dolcino nei territori a nord di Vercelli, soprattutto tra la popolazione contadina a Campertogno e nei villaggi circonvicini, sia stato accolto con grande favore per precisi motivi. L'autore della Historia appunto fa riferimento esplicito al fatto che nel ritiro forzato da Campertogno molti abitanti di questo paese e dei villaggi vicini si ritirarono sulle montagne con tutti i loro averi. In sostanza Dolcino potrebbe aver offerto per la prima volta a questa schiera di contadini, chiaramente molto numerosa, la possibilità di contrastare con le armi 1 suoi persecutori. Perciò non è certo un caso che l'autore della Historia ricordi l'afflusso di numerosi frati apostolici dagli altri territori d'Italia solo in connessione con l'insediamento sul «mons parietis cai-
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ve» 259 . Di fatto tutto lascia credere che i frati apostolici minacciati dall'Inquisizione nelle più diverse città d'Italia si siano affrettati a raggiungere Dolcino soltanto dopo che si era venuto a sapere che costui aveva occupato, insieme a una nutrita schiera di persone del luogo, una munita postazione sulle montagne, e per questo era forte abbastanza per affrontare i persecutori. Dunque il nerbo del movimento di rivolta era formato evidentemente da contadini insoddisfatti provenienti dall'alta Valsesia 260 . Date queste circostanze, sarebbe ovviamente essenziale conoscere qualcosa di più preciso sulla condizione dei contadini in questo territorio. Purtroppo però finora mancano i presupposti per una tale conoscenza. Si può dire soltanto che in questi luoghi, ubicati già nelle valli alpine, l'economia del pascolo aveva un ruolo essenziale 261 . Simili condizioni non erano molto propizie per il formarsi di una popolazione contadina numerosa e benestante. Inoltre bisogna pensare che il dominio di Novara, e in parte quello di Vercelli, instaurato su questi territori nel corso del XIII secolo, molte volte aveva addossato alla popolazione nuovi pesi, che a stento venivano compensati da eventuali miglioramenti dello stato giuridico della popolazione contadina dipendente 2 6 2 . Il trattato del 1275, col quale Novara dovette concedere all'«universitas», che si andava consolidando, della Valsesia un certo grado di autonomia amministrativa, portò sì certi miglioramenti, ma per il resto fa trapelare solo quanto fosse sentita oppressiva la dominazione della città 263 . Rimane non chiarito anche in quale misura la piccola nobiltà terriera locale sfruttasse i contadini. In ogni caso è ovvia l'ipotesi che anche questo ceto, di fronte alla crescente ricchezza delle città, si industriasse a ottenere imposte più elevate dai contadini. Inoltre è possibile che lo sfruttamento dei contadini in questo territorio difficilmente accessibile ai margini delle Alpi fosse in genere relativamente leggero, prima della penetrazione dell'economia mercantile con tutti i fenomeni che l'accompagnavano, e solo nel corso del XIII secolo diventasse più pesante. Per il momento non si possono offrire indicazioni più precise su questo insieme di problemi; tuttavia sulla base degli accenni riportati appare del tutto plausibile che tra la popolazione contadina dell'alta Valsesia regnasse una grande insoddisfazione. In questa situazione bisognerebbe cercare con ogni probabilità la ragione per cui dal movimento ereticale dei frati apostolici si sviluppò proprio in questo territorio una specie di rivolta contadina. Infine un altro fattore ancora ha sicuramente contribuito a far sì che Dolcino decidesse, insieme agli adepti, di affrontare armato i persecutori: si tratta dei rapporti già descritti con i detentori del potere
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ghibellini. Peraltro non è possibile dire come questi rapporti si siano precisamente sviluppati. Ma quando sentiamo dire che «milites et divites» di Firenze misero a disposizione di Dolcino del denaro, allora è senz'altro ipotizzabile che i Biandrate o i Visconti lo abbiano sostenuto finanziariamente o con forniture di armi, sia pure in maniera nascosta. Inoltre già il sapere che in Italia si allestiva una forte formazione contro il partito ecclesiastico-guelfo dovrebbe aver confortato Dolcino a non desistere dalla propria causa e a contrastare i suoi persecutori. Né ci deve sorprendere il fatto che una guida così radicale di eretici quale Dolcino potesse credere che quei signori ghibellini, allo stesso modo di Federico III di Sicilia, perseguissero sostanzialmente i suoi stessi obiettivi e lo aiutassero a far trionfare la sua causa. Basterebbe ricordare soltanto che ancora nel 1524 Thomas Miintzer, che sotto molti aspetti aveva una visione essenzialmente più chiara ed era più radicale, nella Predica ai prìncipi chiedeva la cooperazione del duca di Sassonia. Peraltro sarebbe del tutto errato se, sulla base di simili rapporti con i circoli ghibellini influenti, che appartenevano alla classe dominante, si vedesse nella lotta di Dolcino nient'altro che un episodio interno allo scontro tra ghibellini e guelfi. Questo conflitto, che allora agitava tutta l'Italia, ha certo avuto un ruolo anche nella sollevazione di Dolcino, ma è comunque solo un motivo marginale. Al contrario, nella sostanza la lotta della schiera capeggiata da Dolcino rientra chiaramente nella serie di sollevazioni degli strati oppressi della popolazione, in particolare dei contadini, contro la classe dominante; in altre parole, si tratta fondamentalmente, anche se non esclusivamente, di una sollevazione contadina 264 . Possiamo dunque in sintesi affermare che il passaggio a una sollevazione aperta del movimento dei frati apostolici, che fino allora era stato completamente pacifico, dovrebbe essere ricondotta all'incidenza di questi fattori esterni: 1. l'incessante persecuzione da parte dell'Inquisizione; 2. i legami con circoli ghibellini influenti; 3- la forte eco che la predicazione di Dolcino trovò tra la popolazione contadina nel circondario di Campertogno — e questo dovrebbe essere stato il fattore decisivo —. Con ciò il movimento dei frati apostolici, che a quel tempo era già assai diffuso negli strati medi della popolazione urbana 265 , acquisì fino in certa misura una nuova base sociale, sul cui fondamento soltanto divenne possibile la svolta verso l'attività violenta. Inoltre alla fine si dovrà tenere conto anche delle caratteristiche di Dolcino, una personalità estremamente vigorosa, di ferrea volontà e sollecito all'azione. In questo senso va notato che Dolcino, già nella sua prima lettera aperta, composta nel 1300, si identifica precisamente
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con l'angelo della comunità di Tiatira, cui il Signore nell'Apocalisse promette un bastone di ferro, col quale pascerà i pagani, e una stella del mattino 266 . All'interpretazione qui sostenuta, che l'appello alla sollevazione violenta non costituì fin dall'inizio una componente integrante dell'ideologia dei frati apostolici ovvero di Dolcino, si potrebbe opporre, con una considerazione superficiale, la lista degli «errori» dei frati apostolici contenuta nella Historia fratris Dulcini. Secondo questa lista appunto Dolcino deve aver insegnato tra l'altro che a lui e ai suoi adepti sarebbe permesso uccidere, mutilare, incarcerare e rapinare uomini che stiano dalla parte della chiesa romana; allo stesso modo essi avrebbero potuto distruggere e incenerire paesi che erano sotto l'obbedienza della chiesa, come pure fare prigionieri per estorcere riscatti. Essi avrebbero potuto fare tutto questo senza cadere in peccato; in sostanza, fare tutto il male possibile agli uomini piuttosto che morire loro stessi di fame o rinunziare alla propria fede 267 . Queste proposizioni quindi affermano il principio di violenza in maniera illimitata. Bisogna tuttavia considerare che simili princìpi sono assenti non solo nella lista degli «errores», che l'autore del trattato De seda illorum, di per sé bene informato, offre a proposito delle dottrine dei frati apostolici 268 , ma anche in tutte le deposizioni davanti all'Inquisizione, fatte sia prima sia dopo la sollevazione, che sono giunte fino a noi. Inoltre bisogna considerare che l'autore della Historia fratris Dulcini introduce la sua lista degli errori dei frati apostolici con le parole: «Nam ipse Dulcinus, dum stetisset super montibus antedictis et etiam dum stabat in Valle Sicida dixit, credidit, docuit, et publice predicavit multis vicibus et predicari iussit...» 269 . L'autore della Historia intende dunque parlare con ogni evidenza specialmente di quelle dottrine che Dolcino ha sostenuto durante le lotte sulle montagne. Date queste circostanze, è evidente che gli articoli che affermano l'uso della violenza furono aggiunti solo successivamente alle dottrine più antiche dei frati apostolici, sotto la pressione degli eventi 270 . Dunque non sono stati questi articoli a favorire il passaggio dei frati apostolici alla lotta aperta, bensì il passaggio alla sollevazione armata, avvenuto per altri motivi, ha indotto a sviluppare successivamente questi princìpi, in qualche modo per giustificare il proprio agire. Ancora un altro tratto caratteristico è da prendere in considerazione in questi articoli che giustificavano l'uso della violenza. In essi non si dice affatto che le azioni militari contro i nemici dei frati apostolici perseguono in qualche modo l'obiettivo di annientare i rappresentanti del vecchio status condannato al tramonto; anzi, tutto fa credere che
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Dolcino sperasse ancora che la trasformazione radicale dell'ordine ecclesiastico sarebbe stata provocata dall'intervento militare di Federico III ed eventualmente di altre forze ghibelline. In ciò appare di nuovo una differenza significativa rispetto all'ideologia rivoluzionaria dei chiliasti all'interno del movimento rivoluzionario hussita. Mentre questi ultimi vedono in se stessi la schiera mandata da Dio, in quanto chiamati a estirpare dal mondo con la spada tutto il male e i malvagi, e quindi in qualche modo la loro azione di guerra ha come obiettivo la «rivoluzione mondiale», nei frati apostolici gli articoli destinati a giustificare le misure violente presentano quasi esclusivamente un carattere difensivo 271 . È meglio uccidere e saccheggiare che andare in rovina. Anche questo atteggiamento depone chiaramente a favore del fatto che la rivendicazione dell'uso della violenza da parte dei frati apostolici non rappresenta una componente originaria, in qualche modo logica, della loro visione complessiva, bensì venne sviluppata solo posteriormente, sotto l'incalzare degli eventi. Ma per quanto questi princìpi di Dolcino che esprimono la necessità dell'uso della violenza siano poco sviluppati, tuttavia merita attenzione il fatto che qui si manifesta il prodromo di un superamento anche teorico dell'atteggiamento di fondo passivo, altrove predominante, dei movimenti ereticali del medioevo. Si evidenzia quindi che un'ideologia ereticale avvolta in forme religiose in certe circostanze non solo non impedisce il passaggio ad azioni violente, ma al contrario può persino essere congruente con una tale evoluzione. Dopo queste considerazioni su una serie di questioni di principio posteci dalla sollevazione di Dolcino, tracciamo brevemente il corso successivo degli eventi. Partendo dal «mons parietis calve», le schiere di Dolcino, nel corso del 1305, operarono con successo una serie di attacchi, che servirono soprattutto a procurarsi mezzi di sostentamento. In uno di questi attacchi riuscì loro addirittura di fare prigioniero il podestà di Varallo, che dovette essere liberato con un forte riscatto. Si dice che col passare del tempo essi abbiano taglieggiato quasi tutti gli agglomerati sopra Varallo in Valsesia. Nell'inverno 1305-06 la situazione alimentare divenne estremamente difficile, tanto più che l'ampio circondario del loro luogo di residenza era stato saccheggiato; perciò Dolcino si decise ad abbandonare il «mons parietis calve» il 10 marzo 1306, e a scegliere come nuova base d'appoggio il «mons Rebellus», che pure era di difficile accesso. Questo monte non si trovava più nel territorio sotto l'influsso di Novara, ma in quello di Vercelli, nelle vicinanze di Tri vero. Devono essere stati ancora più di mille gli uomini che seguirono Dolcino in quel momento 272 . In seguito il
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vescovo di Vercelli ordinò di rafforzare le contromisure militari. Ma Dolcino seppe rendere le proprie posizioni pressoché inattaccabili, facendo erigere sul monte dispositivi fortificati; sul declivio, a circa un miglio dalla vetta fortificata del monte, fu scavato un pozzo, al quale conduceva un passaggio sotterraneo. Infine il 1° maggio 1306 le schiere di Dolcino, usando uno stratagemma, inflissero all'esercito che le assediava una pesante sconfitta, nella quale vennero fatti molti prigionieri, e con il loro riscatto la situazione alimentare degli eretici potè essere migliorata sensibilmente 273 . In seguito il vescovo di Vercelli pregò urgentemente il papa di prendere misure adeguate per proseguire la lotta contro gli eretici. Difatti alla fine di agosto del 1306 papa Clemente V indirizzò lettere agli inquisitori dell'Italia del nord, all'arcivescovo di Milano e al duca di Savoia, per sollecitare sforzi più intensi 2 7 4 . Quasi contemporaneamente il vescovo di Vercelli fece fortificare un monte posto di fronte al «mons Rebellus» e ivi fece costruire due catapulte, per le quali le schiere di Dolcino subirono perdite considerevoli. Anche il comune di Vercelli fece costruire a proprie spese un altro dispositivo del genere. Viceversa il tentativo di costruire su un'altra montagna un'altra fortificazione venne reso vano da un attacco di Dolcino. In quel periodo agli eretici riuscì di occupare sei cime nei dintorni e a fortificarle 2 7 5 . Nel dicembre 1306, col sopraggiungere dell'inverno, gli assediami dovettero addirittura abbandonare le fortificazioni finora tenute; molte borgate particolarmente minacciate furono sgombrate dalla popolazione 2 7 6 . Ma adesso gli assediami eressero in un circuito più vasto cinque fortificazioni, e con esse tagliarono agli eretici ogni via di collegamento. Con ciò si riuscì di fatto a accerchiare stabilmente le schiere di Dolcino, una misura che proprio nell'inverno doveva avere terribili conseguenze per gli assediati. Molti morirono allora di fame o di freddo, e i sopravvissuti devono aver consumato carne umana. Finalmente il 23 marzo 1307, giovedì santo, gli assedianti iniziarono il loro attacco decisivo agli eretici stremati, i quali vennero sopraffatti in una sanguinosa battaglia durata quasi l'intera giornata 277 . Secondo le indicazioni molto attendibili dell'autore del trattato De secta illorum in quell'occasione devono aver trovato la morte oltre quattrocento eretici, mentre circa centoquaranta furono fatti prigionieri, e tra essi lo stesso Dolcino e la sua compagna Margherita 278 . Margherita fu arsa viva sotto gli occhi di Dolcino; quest'ultimo fu torturato a morte in maniera atroce, mente lo si portava su di un carro per le strade di Vercelli 2 7 9 . La forza dei frati apostolici era così annientata, anche se negli anni seguenti affiorano ancora qua e là adepti di questa setta 2 8 0 .
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Con ciò possiamo concludere l'indagine sulla setta dei frati apostolici. L'esito di tale indagine è che le speranze millenaristiche di questa setta, sviluppate soprattutto da Dolcino, rappresentano l'elaborazione più radicale e più anticlericale delle attese gioachimite di un nuovo status. D'altra parte si è mostrato poi che con Dolcino non possiamo ancora parlare di un'ideologia rivoluzionaria evoluta e coerente, sebbene questo movimento sia sfociato in una sollevazione aperta; il grado di maturazione constatabile nei chiliasti all'interno del movimento rivoluzionario hussita non viene affatto raggiunto, neppure dopo lo scoppio degli scontri militari. Ciò tuttavia non sorprende, se teniamo presente la situazione di partenza e la dimensione della sollevazione di Dolcino da un lato, e del movimento rivoluzionario hussita dall'altro. Il movimento hussita derivò da una situazione veramente rivoluzionaria, nella quale si mise in movimento tutta la popolazione oppressa di un intero paese, compresi gli strati inferiori della classe degli sfruttatori. Solo sulla base di questa situazione rivoluzionaria complessiva i ceti infimi della società, i contadini e i poveri delle città, poterono sviluppare un programma autonomo, veramente rivoluzionario. Una tale situazione rivoluzionaria non esisteva in Italia, specialmente nel nord, intorno al 1300, nonostante tutta l'asprezza delle tensioni sociali. Perciò bisogna guardarsi anche dal farsi idee esagerate sulla dimensione della sollevazione di Dolcino. Come è noto, si parla di millequattrocento uomini e donne che hanno seguito Dolcino sulle montagne, e si tratta di un numero più per eccesso che per difetto. Nella sconfitta del movimento si contarono più di quattrocento morti e di centoquaranta prigionieri. Inoltre la rivolta affonda le sue radici nel territorio molto circoscritto attorno a Campertogno, anche se affluì da altre parti d'Italia un certo numero di adepti della setta. Inoltre non tutta la popolazione contadina della alta Valsesia partecipò compatta alla rivolta, ma solo una parte limitata 281 . Perciò appare molto problematico mettere questa sollevazione sullo stesso piano delle grandi rivolte contadine del XIV secolo. Se teniamo presenti queste circostanze reali, in realtà non desta meraviglia se non possiamo ancora ravvisare in Dolcino un programma consapevolmente rivoluzionario di impronta contadino-plebea. Tuttavia, nonostante queste doverose osservazioni, bisogna sottolineare che Dolcino, e la setta dei frati apostolici da lui guidata, su alcuni punti andarono oltre le dottrine dei movimenti ereticali precedenti. Soprattutto lo sfociare del movimento in una rivolta aperta, e l'esplicita giustificazione di un proprio uso della violenza, mostrano quali
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IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
possibilità di sviluppo vi fossero nell'eresia medievale; tali possibilità potevano diventare realtà non appena eresie del genere avessero incontrato una reale situazione rivoluzionaria.
1 Cfr. N. COHN, The Pursuit..., 40 ss. [tr. it. cit.]. Il libro di Cohn contiene una sintetica esposizione di tutti quei movimenti popolari nei quali giocano un ruolo più o meno rilevante concezioni millenaristiche ovvero — ciò significa la stessa cosa — chiliastiche. Peraltro egli si preclude la strada per una comprensione storica di tali aspirazioni e movimenti, quando li giudica prevalentemente sulla base di criteri psicologici, e mette in evidenza, come loro caratteristica principale, un irrazionalismo megalomane e psicopatico, che poi ritrova anche nelle rappresentazioni hitleriane di un Reich millenario, e che crede di riconoscere anche nel bolscevismo (ivi, 309 s.). Sicuramente oggi le concezioni dei chiliasti del medioevo ci appaiono per molti aspetti confuse e in parte addirittura malate, ma non si può trascurare il fatto che queste idee sono state suscitate da grandi disagi sociali, da una pesante miseria sociale e dal giusto desiderio di superare tutti questi mali. 2 Cfr. P. ALPHANDÉRY, Notes sur le messianisme médiéval latin (Xle-XIIe siècles), Paris 1912, l6s.; ID., La chrétienté et l'idée de croisade. Les premières croisades, ed. A. Dupront, Paris 1954, 64, 78 [tr. it., La cristianità e l'idea di crociata, Bologna 1974, 55-56, 76]. 3 Roberti Monachi Historia Jherosolimitana, Recueil des historiens des croisades. Historiens occidentaux, III, Paris 1866, 728, 729. 4 Cfr. per esempio la descrizione di GUIBERT DE NOGENT, Gesta Dei per Francos, in Ree. des. bist, des croisades. Hist. occ., IV, 1879, 142 (üb. II, c.6). 5
ANNALISTA SASSONE, M G
SS VI,
728.
Cfr. Ekkhehardi Uraugiensis abbatis Hierosolymita, ed. H. Hegenmeyer, Tübingen 1877, 119, 117 (anche MG SS VI, 214). 7 Cfr. GUIBERT DE NOGENT, Gesta Dei per Francos, cit., 1 3 8 : «Necesse est iuxta prophetas ante adventum Antichristi in illis partibus aut per vos aut per quos Deo placuerit renovari christianitatis imperium». 8 Ekkehardi..., cit., 120 (MG SS VI, 215). Cfr. in proposito anche K. HEISIG, Die Geschichtsmetaphysik des Rolandsliedes und ihre Vorgeschichte, «Zeitschr. f. roman. Philol.», 55 (1935), 52 ss. 9 Cfr. i riferimenti in N. COHN, The Pursuit..., cit., 45 s. [tr. it. cit.]. 10 RAOUL GLABER, Les cinq livres de ses histoires, pubi, par M. Prou, Paris 1886, 75. Cfr. A. B O R S T , Die Katharer, cit., 76. 11 Sui Sermones contra catharos di Egberto cfr. A. B O R S T , Die Katharer, cit.., 6 s.. 12 P L 195, coll. 20 s. Cfr. E . WERNER, Pauperes Christi, Leipzig 1956, 182. 13 Documents pour servir à l'histoire de l'inquisition dans la Languedoc, pubi, par C. Douais, II, Paris 1900, 94, cfr. 97, 113- In proposito cfr. A. B O R S T , Die Katharer, cit., 112, n. 13, il quale riporta in modo scorretto questo passo della fonte, perché parla della ripresa di una «profezia gioachimita della fine del mondo, nel 1260». Nella dichiarazione invece non si parla né della fine del mondo né dell'anno 1260, bensì solo della scomparsa della chiesa nei successivi vent'anni. Non è sicuro che qui esistano effettivamente influssi gioachimiti, tanto più che Egberto di Schönau fa riferimento alla convinzione dei catari che la loro chiesa sarà elevata al di sopra della chiesa romana; il che certo significherebbe anche una fine di questa chiesa. Tuttavia non è da escludere la possibilità di un influsso della dottrina di Gioacchino, tanto più che quel Pietro Garcia ha un fratello membro dell'ordine minorità, che quindi poteva avere assai facilmente conoscenza di Gioacchino; cfr. Documents..., cit., II, 90. 14 A. B O R S T , Die Katharer, cit., 112, n. 13; cfr. anche ivi, 172 s., in cui Borst offre una sintesi delle altre visioni catare sullo sviluppo ulteriore del mondo, visioni che non hanno nulla di millenaristico. 6
MILLENARISMO
E MOVIMENTI
ERETICALI
NEL
MEDIOEVO
CENTRALE
3 5 9
15 Cfr. Tractatus super quatuor evangelio di Gioacchino da Fiore, ed. E. Buonaiuti, 319. Cfr. in proposito G. GÖNNET, Il Valdismo Medioevale. Prolegomeni, Torre Pellice 1942, 69 ss.; G. KOCH, «Zeitschrift f. Geschichtswissenschaft», 7 (1959), 914. È difficile ipotizzare per queste visioni escatologiche dei valdesi un influsso di Gioacchino, che peraltro Koch ritiene verosimile; infatti l'attesa di una prossima fine del mondo — e qui si tratta proprio di questo, non dell'attesa di un nuovo status — era così diffusa nel medioevo, sia pure con intensità variabile, che per questo non c'era bisogno di stimoli da parte di Gioacchino. l é Su questa fonte cfr. A. B O R S T , Die Katbarer, cit., 1 7 . 17 Cfr. anche le considerazioni, fondamentalmente simili, di Raniero Sacconi nella Summa de Catharis et Pauperibus de Lugduno: «Item quod ecclesia Christi permansit in episcopis et aliis prelatis usque ad beatum Silvestrum et in eo defecit, quousque ipsi eam restauraverunt» (Un traité néo-manichéen du XIII siècle. Le Liber de duobus principiis, pubi, par A. Dondaine, Roma 1939, 78). 18 Cfr. MONETA CREMONENSIS, Adversus Catharos et Valdenses libri V, ed. Th. A. Ricchinius, Roma 1743, 405. 19 Cfr. l'estratto dell'Anonimo di Passau in I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., cit., II, 301. Analogamente l'edizione, che sicuramente risale a manoscritti precedenti, di parti dell'Anonimo di Passau, nella Maxima Bibliotheca veterum patrum et antiquorum scriptorum ecclesiasticorum, XXV, Lyon 1677, 264: «Audivi ab ore haereticorum, quod intendebant clericos redigere et claustrales ad statum fossorum [si intende certo: apostolorum] per ablationem decimarum et possessionum et per potentiam et multitudinem credentium ipsorum et fautorum». Inoltre un eretico avrebbe detto: «Si status noster non esset minoratus, potestatem, quam exercetis contra nos modo, hanc nos exercuissemus contra vos, omnes scilicet clericos et religiosos». 20 I. VON DÖLLINGER, Beiträge..., cit., II, 364. 21 Cfr. G . GÖNNET, Il Valdismo..., cit., 62. 22 Cfr. A. DE STEFANO, La Noble leçon des Vaudois du Piémont, Paris 1 9 0 9 , L X X I X . 23 Ivi, 5 s. (versi 3-11). 24 Ivi, 35 s. (versi 448-469); cfr. ivi, LXXI. 25 Cfr. il testo della predica in CH. SCHMIDT, Aktenstücke besonders zur Geschichte der Waldenser, «Zeitschr. f. d. historische Theologie», 22 (1852), 241: «Consideremus quod tempora que adventum Christi precesserunt, umbra et figura fuerunt istorum temporum que a Christo usque in finem seculi perdurabunt». 26 Ivi, 242. 27 I due movimenti furono classificati da Alphandéry e Cohn tra i movimenti pregioachimiti di carattere messianico-millenaristico. Cfr. P . ALPHANDÉRY, Notes sur le messianisme..., cit., 26; ID., De quelques faits de prophétisme dans les sectes latines antérieur au Joachimisme, «Revue de l'histoire des religions», 52 (1905), 187, 189 s.; N . COHN, The Pursuit..., cit., 35 ss. [tr. it. cit.], 28 Cfr. A. B O R S T , Die Katharer, cit., 84 s.; E. D E MOREAU, Histoire de l'église en Belgique, III, Bruxelles 1945, 415 ss. 2 9 Cfr. la lettera dei canonici di Utrecht all'arcivescovo di Colonia del 1112-14, riprodotta nel Corpus documentorum inquisitionis haeretice pravitatis Neerlandicae, ed. P. Fredericq, parte I, Gent-s'Gravenhage 1889, 16 (si trova anche in Oorkondenboek van het Sticht Utrecht, I, Utrecht 1920, 260 s., n. 284). Un accenno, che fondamentalmente concorda con questo, si trova nella Theologia di Abelardo, riprodotta in P. FREDERICQ, Corpus..., cit., I, 26. 30 P. FREDERICQ, Corpus..., cit., I, 17. 31 Ivi, I, 17: «[...] décimas fratrum ecclesiae s. Petri invasit, presbyterum ipsorum armata manu ab altari et ecclesia eiecit». Cfr. anche la Vita Norberti (A), ivi, 23 (anche MG SS XII, 691): «Et sequerentur eum circiter tria millia pugnatorum». 32 P . FREDERICQ, Corpus..., cit., I, 16. 33 P. ALPHANDÉRY, De quelques faits..., cit., 190. 34 A . B O R S T , Die Katharer, cit., 8 7 s. 35 Cfr. GUILLELMUS NOVOBURGENSIS, Rer. Brit. medii aevi SS 82, I, 60, 63. 36 Ivi, 61: «Crederei se esse dominatorem et judicem vivorum et mortuorum». Cfr. anche Chronic. Britann., RHF XII, 558; Sigeberti Contin. Gemblac., MG SS VI, 389: «Ut diceret et credi cogeret se esse filium Dei».
360
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
63 s.; cfr. i tentativi di spiegazione in A. B O R S T , Die KathaPauperes Christi, cit., 1 8 0 . 38 GUILLELMUS NOVOBURGENSIS, 6 1 ; Chronic. Britann., R H F X I I , 5 5 8 . Cfr. anche E . W E R NER, Pauperes Christi, cit., 179. 39 Cfr. E. WERNER, Pauperes Christi, cit., 1 8 0 , 1 9 4 . Viceversa di recente W . Möhr e J.M. De Smet sostengono l'opinione che Tanchelmo si radichi nel movimento di riforma gregoriana della fine del secolo XI, e che la lettera del capitolo di Utrecht riporti in modo completamente distorto le dottrine di Tanchelmo; cfr. W . MOHR, Tanchelm von Antwerpen, «Annales Univers i t ä r Saraviensis. Phil.-Lettres», 3 ( 1 9 5 4 ) , 2 3 5 ss.; J.-M. D E SMET, De monnik Tanchelm en de Utrechtse Bischopzettel in 1112-1114, in Scrinium Lovaniense. Mélanges historiques E. van Cauuienberg, Louvain 1961, 216 ss. Per quanto preziosi siano nello specifico i riferimenti soprattutto di De Smet, e per quanto tendenziosa possa essere la lettera del capitolo di Utrecht, tuttavia a mio avviso non si può misconoscere che in Tanchelmo vengano alla luce concezioni che contrastano con gli ideali apostolici di riforma, e che provengono da un altro strato della tradizione religiosa; cfr. P. ALPHANDÉRY, Le gnosticisme dans les sectes médiévales latines, «Revue d'histoire et de philosophie religieuse», 7 ( 1 9 2 7 ) , 3 9 7 ss., e E. WERNER, Messianische Bewegungen im Mittelalter I, «Zeitschr. f. Geschichtswiss.», 1 0 ( 1 9 6 2 ) , 3 8 5 ss.; entrambi fanno riferimento alle somiglianze con concezioni gnostiche. Per esempio un confronto con la descrizione di Simon Mago da parte di Ireneo (Adv. haereses I, 23), mostra di fatto alcune concordanze. Ma nonostante gli indubbi punti di contatto con le rappresentazioni gnostiche (cfr. anche G. KOCH, Frauenfrage und Ketzertum im Mittelalter, Berlin 1 9 6 2 , 9 9 , 1 0 2 ) , non si può dimenticare che né in Tanchelmo né in Eone si possono ravvisare le dottrine dualistiche fondamentali caratteristiche della gnosi, sicché non mi sembra del tutto felice, quando E. WERNER, Messianische Bewegungen, cit., 385 pretende di caratterizzare queste figure con la connotazione «redentore gnostico cristianizzato». 37
GUILLELMUS NOVOBURGENSIS,
rer, cit.,
40
88,
145;
E . WERNER,
GUILLELMUS NOVOBURGENSIS,
61.
Vita Norberti ( A ) , in P. FREDERICQ, Corpus..., cit., I, 2 3 (anche M G S S X I I , 6 9 1 ) . Per l'interpretazione dei pranzi cfr. N . COHN, The Pursuit..., cit., 5 4 [tr. it. cit.]. 42 GUILLELMUS NOVOBURGENSIS, 6 1 : «Accedebant ad eum plerumque noti eius et propinqui, erit enim non infimi generis». 43 Cfr. P . FREDERICQ, Corpus..., cit., 16. Anche il Sigeberti Gemblac. Cont. Vaiceli., MG SS VI, 459 racconta che Tanchelmo presso Anversa «Walacram et circumiacentes insulas et maritima loca in partibus illis multis haeresibus infecerat». Cfr. le considerazioni di L.J.M. PHILIPPEN, Der heilige Norbertus en de strijd tegen het Tanchelmisme te Antwerpen, «Bijdragen tot de Geschiedenis», 25 (1934), 273 s., il quale rende plausibile che Anversa non fosse il centro dell'attività di Tanchelmo. Cfr. anche le considerazioni di E. D E MOREAU, Histoire..., cit., I I , 421 s., e di W. MÖHR, Tanchelm, cit., 238; soprattutto le argomentazioni di J . - M . D E SMET, De monnik Tanchelm..., cit., 220 ss. mostrano che il centro dell'attività di Tanchelmo stava nelle isole dell'Olanda, e che solo di lì la popolazione di Anversa fu parzialmente guadagnata alla causa di Tanchelmo. 44 Cfr. A. B O R S T , Die Katharer..., 113 s.; N. COHN, The Pursuit..., cit., 158 [tr. it. cit.]. 45 Cfr. H . GRUNDMANN, Religiöse Bewegungen in Mittelalter, Berlin 1935, 360 [tr. it., Movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna 1974, 305]. 46 All'influsso di Giovanni Scoto Eriugena rimandano B. G E Y E R , Die patristische und scholastische Philosophie (= secondo volume del manuale di Überweg), Darmstadt 1 9 5 8 1 3 , 2 8 0 ; G. BAEUMKER, Contra Amaurianos, «Beiträge zur Gesch. der Philosophie des Mittelalters», 2 4 ( 1 9 2 6 ) , I X . Cfr. anche H . LEY, Studie zur Geschichte des Materialismus im Mittelalter, Berlin 1957, 222 s., il quale riconosce sì l'influsso di Eriugena, ma nel contempo sottolinea giustamente che Amalrico andò oltre. G.C. CAPELLE, Autour du décret de 1210: III - Amaury de Bène, Paris 1932, 51 ss., in particolare 67, ammette sì che Amalrico sfruttò l'opera di Eriugena, ma la fraintese completamente; É. Gilson (ivi, 5 nell'introduzione al libro di Capelle) distingue con decisione ancora maggiore Amalrico dallo sviluppo del pensiero precedente e dichiara in sintesi: «Amalrico di Bène è la fonte di se stesso». Cfr. in proposito le osservazioni di M. DAL PRA, Amalrico di Bène, Milano 1951, 74 s., che giustamente fa riferimento al tentativo tendenzioso di Capelle e Gilson, i quali tracciano una chiara linea di demarcazione tra le dottrine ereticali di Amalrico e le speculazioni teologiche precedenti, tollerate ovvero approvate dalla chiesa. 41
MILLENARISMO E MOVIMENTI ERETICALI NEL MEDIOEVO CENTRALE
361
47 Sulla scuola di Chartres cfr. M. D E W U L F , Le Panthéisme Chartrain, in Aus der Geisteswelt des Mittelalters. Studien und Texte M. Grabmann zur Vollendung des 60. Lebensjahres gewidmet, Mùnster 1935, 282 ss. De Wulf potrebbe certo aver ragione, quando afferma che nella maggior parte degli esponenti della scuola di Chartres non si debba parlare di un panteismo in senso stretto. D'altra parte però gli scritti di esponenti di questa scuola — per esempio di Teodorico di Chartres — contengono senza dubbio formulazioni che molto facilmente potevano essere volte in senso panteistico. Cfr. anche M . - D . T H E N I J , La théologie..., cit., 3 1 9 , nota [tr. it. cit., 360, n. 18]. 48 GUILLELMUS ARMORICUS, Gesta Philippi Augusti, in Oeuvres de Rigord et de Guillaume le Breton, ed. F. Delaborde, I, Paris 1882, 231. 4 9 Che le dottrine di Amalrico dopo la sua morte siano state sviluppate e inasprite viene ritenuto probabile, ma senza addurre prove, da G.C. CAPELLE, Autour du décret..., cit., 3 1 . Cfr. del resto P . ALPHANDÉRY, Les idées morales..., cit., 1 4 4 ; H . GRUNDMANN, Religióse Bewegungen..., cit., 3 6 4 [tr. it. cit., 3 0 6 s.]; N. C O H N , The Pursuit..., cit., 1 5 8 [tr. it. cit.]; M. E R B S T Ò É E R - E . W E R N E R , Ldeologische Probleme des mittelalterlichen Plebejertums, Berlin I 9 6 0 , 8 5 . In questo contesto va osservato che GUILLELMUS ARMORICUS, 2 3 1 pone una netta cesura tra la descrizione delle dottrine di Amalrico e quelle dei suoi seguaci. Viceversa W . P R E G E R , Gescbicbte der deutschen Mystik, I, Leipzig, 1874, 183, 179 ritiene che già Amalrico «stesso avrebbe enunciato tutte le dottrine che in seguito si rintracciarono tra i suoi seguaci». La descrizione di Guglielmo Brito, che contrasta con questa sua opinione, viene spiegata in base al fatto che costui ebbe riguardo per la famiglia reale, in particolare per il successore al trono, il quale era stato in stretto rapporto con Amalrico. Di fatto un accenno di Enrico di Segusio nella sua Lectura sive apparatus domini Hostiensis super quinque libris decretalium, Argentine 1512, I, f. 5vb depone per la possibilità di un tale riguardo per protettori altolocati: «Si queras, quare dogma istud [di Amalrico] non fuit specificatum in hoc concilio [il Lateranense IV del 1 2 1 5 ] , respondeo in genere quod Amalricus iste habuit quosdam discipulos tempore huius concilii adhuc superstites, ob quorum reverentiam suppressum extit dogma istud, quorum etiam nomina adhuc honorantius est supprimere quam specialiter nominare». Cfr. W. PREGER, Gescbicbte der deutschen Mystik, cit., I, 184. 50 Cfr. la nota precedente e Chronicon anonymi Landunensis, RHF XVIII, 714. 51
GUILLELMUS ARMORICUS,
231.
C. BAEUMKER, Contro Amaurianos, cit., 24: «Dicunt, quod Deus est omnia in omnibus». A questo proposito Amalrico si poggia su ICor 15, 28. Che su questo punto si possa benissimo pensare a influssi della scuola di Chartres è dimostrato, per esempio, dal commento Librum bunc al De Trinitate di Boezio composto sicuramente da Teodorico di Chartres, nel quale già si trova la affermazione che «Deus sit omnia»; cfr. W . JANSEN, Der ICommentar des Clarenbaldus von Arras zu Boethius De Trinitate (Breslauer Studien z. hist. Theologie, 8), 21; tuttavia il senso più vero di questa formulazione di Teodorico è chiarito solo da proposizioni come: «Quod forma divina omnes est formae [...]. Forma divina verum omnium forma est» (ivi, 16). Dunque la forma divina è la forma di tutte le cose; perciò Teodorico respinge esplicitamente la concezione secondo cui una pietra o un pezzo di legno è Dio (ivi, 21). D'altra parte però secondo Teodorico la «materia informis» non ha un vero essere; solo mediante la forma le cose diventano realtà (ivi, 86, 89 s.); la forma è dunque l'elemento propriamente essenziale, ed essa è essenzialmente divina. In effetti da una simile concezione il passo verso il panteismo pieno non è molto lungo. Pertanto è significativo che anche presso gli amalriciani vi siano indizi che essi non legavano l'essenza divina dell'uomo alla materialità del corpo, bensì all'essere vero, intimo dell'uomo. In questo senso depone l'affermazione dell'amalriciano Bernardo, secondo cui egli non poteva essere arso «in quantum erat, quia in eo quod erat se deum dicebat». Cfr. W . PREGER, Gescbicbte..., cit., I, 176. A favore di questa interpretazione del panteismo amalriciano depone anche l'asserzione di Tommaso d'Aquino nella Summa Theol. I, q. Ili, a. 8: «Aliì dixerunt Deum esse principium formale omnium rerum et haec dicitur fuisse opinio Amalricianorum». Cfr. anche M.-D. CHENU, La théologie..., cit., 319, [tr. it. cit., 360], che caratterizza la dottrina degli amalriciani con le parole: «Identità di tutto nell'essere; ma l'essere è forma; ogni realtà, nell'essere, ha dunque la forma di Dio». È chiaro che queste sottili distinzioni potevano svolgere un ruolo solo nelle teste pensanti del movimento amalriciano, mentre per la massa dei seguaci la cosa decisiva era la piena divinizzazione dell'uomo. 52
362
IL REGNO FUTURO DELLA LIBERTÀ
53 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 24; similmente GUILLELMUS ARMORICUS, 231: «Quilibet christianus teneatur credere se esse membrum Christi». 54 Cfr. C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 9, 12: «Qui cognoscit deum in se omnia operari, etiam si fornicationem faceret, non peccaret». 55 Ivi, 7. 56 Ivi, 13. 57 Questa enfasi accordata al sapere ovvero alla conoscenza della verità, che non va intesa senz'altro come razionalistica, ricorda la gnosi; cfr. A. B O R S T , Die Katharer, cit., 113. Anche in Eriugena, dalle cui visioni gli amalriciani sono influenzati, è riconoscibile una forte accentuazione del sapere e della verità; cfr. H. DÖRRIES, Zur Geschichte der Mystik. Eriugena und der Neuplatonismus, Tübingen 1925, 71. Nonostante questa somiglianza tra la dottrina degli amalriciani e la gnosi, difficilmente si possono collegare, come fa A. MENS, Oorsprong..., cit., 36, 148, gli amalriciani con i catari, che in definitiva si ricollegavano alla gnosi; cfr. le obiezioni di H. GRUNDMANN, Neue Beiträge..., cit., 178, come pure le osservazioni di E. WERNER, in T. BÜTTNER - E. WERNER, Circumcellionen und Adamiten, Berlin 1959, 97 s. 58 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 17. 59 Ivi, 18 s. 60 Ivi, 3 9 , 4 7 ; cfr. anche il protocollo dell'interrogatorio in M. T H . D ' A L V E R N Y , Un fragment du procès des Amauriciens, «Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 2 5 / 2 6 ( 1 9 5 0 / 5 1 ) , 3 3 1 : «Confessus est etiam quod Christus erat in altari ante prolationem verborum sicut et post». 61 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 4 8 : Cfr. anche GUILLELMUS ARMORICUS, 2 3 2 come pure CAESARII HEISTERBACENSIS MONACHI Dialogus miraculorum, ed. J . Strange, I, Köln-BonnBruxelles 1851, 305. Con questo concorda anche il fatto che gli amalriciani rifiutavano la venerazione delle reliquie e delle immagini dei santi; cfr. CESARIO DI HEISTERBACH, 3 0 4 ; W . PREGER, Geschichte..., cit., I, 177 s. 6 2 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 13, 16; M . T H . D ' A L V E R N Y , Un fragment..., cit., 333. 6 3 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 21; di conseguenza essi negano anche la resurrezione corporea di Cristo. Cfr. anche la lista degli errori degli amalriciani nel Chartularium Universitatis Parisiensis, ed. H. Denifle, I, 1889, 4, 71: «Et hec revelatio nihil aliud erat quam mortuorum resurrectio». Similmente CESARIO DI HEISTERBACH, 304. 64 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 30, 51. 65 Chartul. Univers. Paris. I, 72. 66 GUILLELMUS ARMORICUS, 2 3 2 : «In hoc ergo tempore dicebant Testamenti novi sacramenta finem habere et tempus sancti spiritus incepisse». 67 Cfr. in proposito anche G.C. CAPELLE, Autour du décret..., cit., 82. 6 8 C. BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 30; cfr. anche Chartul. Univ. Paris., cit., I, 71: «Spiritus sanctus in eis incarnatus...». 69 C . BAEUMKER, Contra Amaurianos, cit., 5 1 . Il termine di cinque anni è ricordato anche
d a CESARIO DI HEISTERBACH,
305.
Secondo GUILLELMUS ARMORICUS, 2 3 2 essi si richiamano alla parola della Scrittura: «Novis supervenientibus abjicientur vetera». 71 Ritengono verosimile un tale influsso diretto di Gioacchino sugli amalriciani: H. GRUNDMANN, Religiose Bewegungen..., cit., 3 6 5 [tr. it. cit., 3 0 7 ] . M . T H . D'ALVERNY, Un fragment..., cit., 3 3 4 ; M . W . BLOOMFIELD - M . REEVES, The Penetration ..., cit., 7 8 3 ; E . W E R N E R , in T . B Ü T T N E R - E . W E R N E R , Circumcellionen..., cit., 9 4 s.; M . DAL PRA, Amalrico di Bène, cit., 5 9 . G . C . CAPELLE, Autour du décret..., cit., 8 1 ritiene non impossibile, ma poco probabile, un influsso da parte di Gioacchino, ed esprime l'opinione poco convincente che sia possibile uno sviluppo indipendente da parte degli amalriciani della dottrina dei tre status-, similmente anche A . B O R S T , Die Katharer, cit., 1 1 4 , n. 1 8 , e N. COHN, The Pursuit..., cit., 1 5 9 [tr. it. cit.]. Sia consentito un riferimento al fatto che — come hanno notato M . W . BLOOMFIELD e M . REEVES in The Penetration..., cit., 782 — Guarnerio (Werner) di Rochefort, già in una predica tenuta tra il 1208 e il 1210, per designare la Trinità usò lo stesso tetragramma di Gioacchino (PL 2 0 5 , coll. 7 1 3 - 7 1 5 ) ; allo stesso modo il tetragramma appare nel trattato Contra Amaurianos, che dovrebbe essere ugualmente stato composto da Garnerius di Rochefort (cfr. C . BAEUMKER, 70
MILLENARISMO E MOVIMENTI ERETICALI NEL MEDIOEVO CENTRALE
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Contra Amaurianos, cit., 34 s.). Ciò potrebbe essere considerato come un indice del fatto che intorno al 1208/10 all'università di Parigi già si era a conoscenza di qualcosa delle speculazioni di Gioacchino; ciò eleva la probabilità che anche gli amalriciani sapessero di Gioacchino. 72 Benché egli ritenga improbabile un influsso da parte di Gioacchino, secondo l'opinione di C.G. CAPELLE, Autour du décret..., cit., 31 è ben possibile che la dottrina dei tre status sia stata sviluppata dai discepoli di Amalrico, non