Il nome 8843070088, 9788843070084

Che cos'è un nome? Ha un senso approfondire una nozione apparentemente così intuitiva? Come può contribuire a una m

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Il nome
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Il

nome

Che cos'è un nome? Ha un senso approfondire una nozione apparentemente così intuitiva? Come può contribuire a una maggiore consapevolezza linguistica esaminare i modi in cui il linguaggio identifica le entità a cui pensiamo? Il libro risponde a queste e altre domande. stimolando il lettore a riflettere sul significato dei nomi. sulle loro categorie grammaticali. sulla loro forma e struttura. presentando un quadro ricco e articolato in cui confluiscono i risultati delle ricerche contemporanee in semantica. filosofia del linguaggio. tipologia linguistica. morfologia e sintassi. Paolo Acquaviva insegna a Dublino Linguistica e lingua

italiana allo University College Dublin. La sua ricerca verte soprattutto sul rapporto tra morfologia e significato lessicale. In questo ambito è autore della monografia Lexical plurals

(2oo8). pubblicata dalla Oxford University Press.

Carocci editore

€ Il ,00

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Bussole

Studi linguistico -letterari

GRAM MATICA TRADIZIONALE E LINGUISTICA MODERNA

serie diretta da Giorgio Graffì.

La serie si propone di mettere a confronto i problemi più tipici della grammatica tradizionale con le trattazioni delle teorie linguistiche moderne e contemporanee: con le ricerche di impostazione strutturalista, generativa o funzionalista e, più in ge­ nerale, con tutte le analisi che in vario modo si sono distaccate dall'abituale impianto "scolastico".

Ia edizione, ottobre 2013 ©copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma

Editing e impaginazione Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nell'ottobre 2013 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano

informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 00186 Roma tel o6 42 81 84 17 fax o6 42 74 79 31 Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Paolo Acquaviva

Il

nome

Carocci editore

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Bussole

Indice Introduzione

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1.

Il nome: sguardo d'insieme

10

1.1.

Conoscenza dei nomi e conoscenza della lingua

10

1.2.

Le componenti della nominalità

1.3.

Nomi e "cose"

1.4.

Il nome e la linguistica moderna

2.

Le basi concettuali e comunicative della nominalità

2..1.

Nomi prototipici ed entità prototipiche

2..2.

La funzione del nome e la variabilità linguistica

2..3.

La nominalità come categoria del discorso

2..4. Nomi e temporalità



13

20 25

27

27 28

32

35

Analisi e classificazione del contenuto dei nomi

3.1.

Categorie, grammatica e variazione tra le lingue

3.2.

Nomi propri e nomi comuni

3·3·

Nomi numerabili e nomi non numerabili

40

40

42

3·4· Nomi concreti e nomi astratti

48

55

3·5·

Nomi collettivi

3.6.

Nomi relazionali



Le funzioni dei nomi nel contesto sintattico

59 62.

4.1. Argomentalità e referenzialità 4.2. Nomi, articoli e interpretazione 4·3· Particolari usi non referenziali

64

64 67 73

4·4· I nomi come modificatori di parola

76

s



Le categorie grammaticali dei nomi

5·I.

Significato e categorie grammaticali

5.2.

Genere

5·3·

Numero

5·4· Caso

93

101

6.

La forma dei nomi italiani

6.1.

Classi flessionali

107

Nomi primitivi e nomi derivati

6.4. Nomi e parole composte 6.5.

Nominalizzazioni

Bibliografia

6

104

104

6.2. Genere e mozione 6.3.

82

83

u6

120

II4

109

82

Introduzione Per sapere cos'è un nome non c 'è bisogno di studiare. A differenza di quello che accade con altre nozioni che hanno un ruolo nella rifles­ sione sulla lingua, sapere "cos'è" un nome è qualcosa di intuitivo, che non si impara veramente, a differenza di "com'è fatto" o "cosa può si­ gnificare". Il motivo è che con "nome", sia inteso come nome proprio che nell'accezione grammaticale, si indica comunemente un tipo di parola che svolge una funzione talmente importante che non si rie­ sce a immaginare come se ne possa fare a meno, e cioè di significare cose. Ora, le nozioni fondamentali sono le più difficili da spiegare, e ce ne sono poche più fondamentali di "parola", "cosa" e "significare" ( o, volendo, "nominare" ) . Chi ha tempo e voglia, può naturalmente interrogarsi su questi concetti di base. Ma per chi sia interessato alla lingua e non abbia l' intenzione di ripercorrere discussioni millena­ rie, che possono portare lontano da considerazioni linguistiche, è perfettamente legittimo chiedersi che senso abbia approfondire una nozione così intuitiva. I capitoli che seguono vogliono mostrare che interrogarsi su cosa voglia dire essere un nome ha un senso perché contribuisce a una maggiore consapevolezza linguistica, e che per questo scopo è utile venire a conoscenza di quello che ha detto in proposito la linguistica moderna (e non solo moderna) . Non perché questa offra delle in­ dicazioni univoche, come se rappresentasse un solo punto di vista; ma piuttosto perché, oltre a insegnare fatti nuovi, questo tipo di ri­ flessione fa luce su quello che intendiamo quando pensiamo ai nomi come la speciale classe di parole che identificano ciò che concepiamo come "cose". Concretamente, questo vuoi dire avere un' idea più pre­ cisa delle grandi categorie in cui può ricadere il significato dei nomi, del rapporto tra nomi propri e comuni, delle categorie grammati­ cali che determinano i nomi e di come queste concorrano a deter­ minarne il senso e la forma, e soprattutto di come il significato dei nomi come espressioni linguistiche definisca contenuti concettuali che determinano ciò che è una "cosà'. Le discussioni, le generaliz7

zazioni e i risultati ottenuti in questa disciplina servono a rendersi conto dell' importante differenza tra categorie del sistema linguisti­ co, categorie della realtà e categorie del pensiero. Confrontarsi con le riflessioni linguistiche su nome e nominalità aiuta così a rendersi conto per esempio che etichette grammaticali come "plurale", "mas­ sà', o "maschile" non equivalgono semplicemente ad "avente più di un elemento", "fisicamente composto di una massa omogenea", o "di sesso maschile"; che la stessa entità può essere categorizzata in modi diversi in sistemi linguistici diversi; che infine quel che chiamiamo "cose" non sono affatto entità oggettivamente date e pronte per es­ sere etichettate con un nome, ma anzitutto contenuti mentali varia­ mente applicabili ad aspetti dell'esperienza, e che sono descritti dai nomi secondo modalità che variano in modo anche significativo da una lingua all'altra. Infatti, le lingue umane sono molto diverse, e una prospettiva comparativa e tipologica è necessaria per potersi interro­ gare sul nome come categoria del linguaggio umano, piuttosto che di una o più lingue particolari. In questa prospettiva, i capitoli che seguono descriveranno le princi­ pali dimensioni lungo le quali i nomi possono variare, prendendo l' i­ taliano come punto di partenza dell'analisi, ma sempre visto come un caso particolare nel contesto generale della variabilità linguistica. Il capitolo 1 fornisce un inquadramento generale che individua le linee direttive dell' intera discussione : anzitutto la questione fondamentale del rapporto tra nomi e "cose': introdotta da una breve retrospettiva storica; una discussione dell 'approccio tradizionale che definisce i nomi come parole dotate di un certo tipo di proprietà grammaticali e di un certo tipo di significato ; e la distinzione tra proprietà lingui­ stiche dei nomi che concernono la loro forma, il loro significato e la loro distribuzione sintattica. Tenendo presente la distinzione tra nomi come classe di elementi lessicali dai confini più o meno netti e nominalità come funzione che appare sia in un cane come in un perché, l'esame del nome dal punto di vista del significato prenderà poi in considerazione (CAP. 2.) il tipo di concettualizzazione e di fun­ zione discorsiva che, secondo approcci funzionalisti alla competenza linguistica, stanno alla base della conoscenza delle categorie lessicali e del nome in particolare. A questo succederà un catalogo ragionato 8

delle principali opposizioni di significato (CAP. 3), seguito dall'esame delle funzioni dei nomi a seconda della loro distribuzione in diversi contesti sintattici (cAP. 4 ) . L'obiettivo è di descrivere quello che i nomi vogliono dire, per mezzo di categorie e opposizioni che, in­ direttamente, rappresentano un' ipotesi su quello che i nomi possono voler dire nel linguaggio umano. A questo fine servirà anche men­ zionare l' indicazione di tempo, che sembrerebbe fondamentalmente non-nominale ed è invece un fenomeno attestato in diverse lingue. Parallelamente, l'esame delle categorie grammaticali e la tipologia dei nomi italiani nei capitoli s e 6 presenteranno una panoramica de­ gli aspetti grammaticali e morfologici, incentrata sull ' italiano ma in una prospettiva più generale. Nel capitolo s , l'esame delle categorie grammaticali che caratterizzano il nome prenderà in considerazio­ ne non solo genere e numero, ma anche caso e classe, che non sono rilevanti per i nomi italiani ma servono a collocarli in un contesto interlinguistico. Il capitolo 6 descriverà invece i nomi dell' italiano dal punto di vista morfologico. Distinzioni tradizionali come quella tra nomi primitivi e derivati, o semplici e composti, saranno illustrate nel contesto più generale di una classificazione dei nomi secondo la forma e la struttura della parola, che considera le classi in cui si posso­ no ripartire i nomi italiani, ma anche le nominalizzazioni (comprese quelle come un perché) e i tipi di significato che esprimono. Nel loro complesso, le riflessioni dei vari capitoli a proposito del significato dei nomi, delle loro categorie grammaticali, della loro forma e strut­ tura, e della loro distribuzione sin tattica presentano un quadro ricco e articolato in cui confluiscono i risultati delle ricerche contempora­ nee in semantica, filosofia del linguaggio, tipologia linguistica, mor­ fologia e sintassi, unificate dalla comune prospettiva di spiegare quale tipo di parole esprime ciò che concepiamo come "cose".

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I.

Il nome: sguardo d'insieme

1.1. Conoscenza dei nomi e conoscenza della lingua

Chiunque usi una lingua mette in atto una serie di abilità, di soli­ to inconsapevoli. La padronanza del lessico, in particolare, richiede l'abilità di riconoscere ogni parola in un dato contesto come appar­ tenente a una delle categorie tradizionalmente chiamate "parti del discorso", ognuna delle quali è associata a un tipo di significato, di forma e di proprietà grammaticali. L'esercizio di identificazione e classificazione che rientra nell'ambito dell 'analisi grammaticale tra­ dizionale mira a rendere esplicita questa abilità insita nella padro­ nanza della lingua, con l'ausilio di categorie e termini saldamente fissati nella tradizione grammaticale. Se in alcuni casi la linguistica moderna ha mostrato i limiti o l'arbitrarietà di questa tradizione scolastica, la nozione di nome e le principali sottocategorie che si possono stabilire tra i nomi (illustrate da recitazioni scolastiche come "sedia: nome comune di cosa, femminile singolare") restano strumenti utili per ragionare sulla lingua, convalidati dall 'uso scien­ tifico e sostenuti da intuizioni salde : si potrà discutere sulla catego­ ria di bianco o di davanti; ma Mario, sedia, vicissitudine sono nomi, o sostantivi, nella consapevolezza del parlante prima che in quella del grammatico. Eppure questa consapevolezza si rivela più com­ plessa di quanto non appaia a prima vista. Per rendercene conto, consideriamo la parola perché: è un nome, o la dovremmo piutto­ sto classificare come una parte del discorso diversa ? Evidentemente perché è una congiunzione, ma non c 'è bisogno di padroneggiare la terminologia grammaticale per riconoscere che si tratta di un tipo di parola fondamentalmente diverso da quello a cui pensiamo quan­ do diciamo "nome". Poniamoci ora la stessa domanda considerando però perché nel contesto di un'espressione come senza un perché. La parola è la stessa, e anche il senso globale del termine resta quello che abbiamo riconosciuto nella parola presa isolatamente ; per es­ sere più precisi, è solo se sappiamo cosa vuoi dire perché in espresIO

sioni comuni come perché te ne vai? o scappo perché si fa tardi che possiamo dare un significato a senza un perché. Ma, se la parola è la stessa, la sua funzione ora è decisamente diversa; in effetti, perché ha qui la funzione di un nome. Questo semplice esempio ci mostra che sapere l ' italiano comporta sia la capacità di suddividere le parole in classi con proprietà ben differenziate sia costruire e interpretare delle espressioni facendo uso di parole appartenenti a queste clas­ si. I nomi, in un senso intuitivo che dovremo precisare, esprimono "cose", si riferiscono a qualcosa, che sia concreto o astratto, indivi­ duale o molteplice, animato o inanimato, e così via secondo le innu­ merevoli possibilità di distinguere tipi di entità. Perché, in qualun­ que modo vogliamo esplicare il suo significato, di per sé non indica un tipo di entità; si tratta di una parola che serve a esprimere una certa interpretazione delle frasi che la seguono. Ma un'espressione come senza un X richiede che X indichi appunto un tipo di entità, qualcosa di cui si possa dire "in assenza di un X". Sapere che perché è un tipo di parola fondamentalmente diversa da cane, per esempio, e sapere anche che senza un richiede invece proprio una parola come cane convergono a determinare un'unica possibile interpretazione per senza un perché, un' interpretazione che si potrebbe parafrasare "senza qualcosa che spieghi perché le cose stanno così", o più sempli­ cemente "senza un motivo". Quindi, dalla conoscenza della lingua, in particolare dell ' italiano, deriva la conoscenza che perché, in que­ sto caso specifico, è un nome. Ma cosa è un nome ? L'esempio appena discusso ci mostra che non basta (e in realtà non serve) aver memorizzato una lista di parole etichettate come "nomi" per conoscere il senso di questa etichettatura. Perché, da questo pun­ to di vista, non condivide certo la stessa etichetta di cane, che è un nome, e nemmeno di qualcosa, che invece non è un nome ma serve, come abbiamo visto, a mediare un' interpretazione come entità che è tipica dei nomi, tramite la costruzione relativa qualcosa che... Chi parla italiano sa, quindi, che perché non è un nome, ma che si può usare come un nome in casi come senza un perché. Sa anche, però, che si tratta di un nome anomalo, ben diverso non solo da cane, ma anche, per esempio, da sapere. La differenza con cane è ovvia, appena la questione sia stata impostata in termini di "classi di parole": cane II

è univocamente un nome, perché è una congiunzione (o comunque si voglia chiamare la classe in questione ) , anche se si può usare con la funzione di nome in senza un perché. Ma cane ha un plurale, cani, mentre perché è invariabile. Certo, molti nomi sono invariabili, in particolare quelli che, come perché, terminano in una vocale accen­ tata, come caffè; in più, l'avere diverse forme a seconda del nume­ ro ( singolare o plurale ) e del genere ( maschile o femminile ) è una proprietà non solo dei nomi, ma anche e più di aggettivi come buo­ no e di pronomi come esso. Ma consideriamo ancora sapere: anche qui abbiamo a che fare con un termine che primariamente non è un nome, ma in questo caso un verbo, e che si può usare con funzione di nome. In effetti, ogni verbo può comparire come nome, in modi e con significati diversi, nella forma dell' infinito : per esempio in il suo respirare affannoso, questo continuo parlare, o l 'avere diverseforme. La differenza è che l'uso nominale di sapere è talmente ben radicato da legittimare anche una forma plurale : i saperi. Non solo : usato in que­ sta accezione, sapere è un nome con un significato distinto da quello del verbo, dato che possiamo sapere che ore sono, ma una conoscenza del genere non è probabilmente quel che si ha in mente quando si dice l'importanza del sapere o nuovi saperi. Ciò che fa di un nome un nome, quindi, non è solo il significato primitivo di una parola, che distingue cane da perché; è anche la sua funzione nel contesto, che distingue perché parti? da senza un perché. Entrambe le caratterizza­ zioni si basano sulla funzione che ha il nome, come termine preso a sé o come componente in una costruzione linguistica. In una pro­ spettiva diversa, possiamo vedere la nominalità come una relazione tra una serie di proprietà grammaticali ( in particolare, in italiano, la determinazione per genere e numero ) e una serie di proprietà di significato. È utile tenere distinte le due prospettive, perché cerca­ re di esplicitare cosa voglia dire essere un nome basandosi sulla sua funzione ( ''un nome è ciò che serve a ..." ) è cosa diversa dal cercare di esplicitare la stessa nozione in base alle proprietà che può avere come parola nel lessico di una data lingua ( ''un nome è un tipo di parola con un certo tipo di forma e un certo tipo di significato" ) . Grazie a questa distinzione, possiamo renderei conto che perché è un nome in senza un perché nel senso che in questo contesto svolge il ruolo di un 12

nome. Chiarire in cosa consista questo ruolo è una parte integrante del compito di definire cosa sia un nome per un parlante, ma non elimina la necessità di identificare i caratteri propri dei nomi come sottoclasse del lessico di una lingua; nel nostro caso, una sottoclasse di cui fanno parte cane e sapere (con il plurale saperi), ma non perché. L'obiettivo dei capitoli che seguono consiste nell' illustrare, alla luce dei principali risultati acquisiti dalla riflessione scientifica sulle lin­ gue e sul linguaggio, quali siano le componenti che concorrono a de­ finire il nome come categoria del lessico dell ' italiano, nel contesto di ciò che il confronto con altre lingue permette di ipotizzare come lo spazio di variazione del linguaggio umano. Poiché una componente primaria è proprio la facoltà di identificare ("nominare" ) tipi di en­ tità, la discussione dovrà naturalmente tener conto della nominalità come funzione, in particolare come funzione derivante dal contesto linguistico - cioè di quello che rende perché un nome in senza un perché (ce ne occuperemo in parte nel capitolo 2, tra gli aspetti del significato, e in parte nel capitolo 4, trattando di come i diversi sensi dei nomi corrispondano a diverse collocazioni sin tattiche ) . Prima di intraprendere questo esame sistematico, una panoramica sulle prin­ cipali componenti di ciò che riconosciamo come un nome servirà a inquadrare meglio la discussione.

1.2.

Le componenti della nominalità

Le ri­ flessioni su perché prendono spunto da un interessante contributo di Lo Duca e Polato (2009 ) , che verifica l'abilità nel riconoscere i nomi in un testo scritto tra ragazzi delle scuole primarie, secondarie inferio­ ri e superiori. Il riconoscimento delle principali "parti del discorso" o, come le si chiamerà d'ora in avanti, "categorie lessi cali': costituisce il nucleo fondamentale della tradizionale analisi grammaticale, e può valere a buon diritto come un indice di primaria importanza della consapevolezza linguistica di un parlante. Con questa espressione si intende l'abilità di un parlante di rendere accessibili alla riflessione e alla pianificazione una larga parte di quelle conoscenze che stanno 1.2.1. Proprietà del significato e proprietà grammaticali

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alla base dell'attività verbale, agevolando il rapporto con forme di comunicazione organizzata e determinata da contesti culturali diver­ si. Ma le componenti concettuali che concorrono a definire il nome come categoria lessicale sono varie e distinte, e le autrici mostrano con molta chiarezza come il riconoscimento spesso non riesca per quei nomi che sono, in un certo senso, meno nomi di altri: anzitutto casi come un perché, ma anche nomi che fanno parte di una costru­ zione più o meno fissa, come in perfortuna o in ritardo, e nomi che deviano dal senso canonico di "entità". Quest 'ultima caratteristica si può sostanzialmente ricondurre a due casi: dove il nome indica non un individuo, ma una proprietà di un individuo espresso da un altro nome (come poliziotto nel composto donna poliziotto, o insegnante nell'apposizione suo padre, insegnante di matematica) ; e in quei co­ siddetti "nomi d'azione" che rappresentano la versione nominale di verbi, come nomina in la nomina di Francesca. Riuscire a capire per­ ché siano proprio questi e non altri i casi che più di frequente impe­ discono il riconoscimento di un nome come tale vuoi dire cogliere le articolazioni che la categoria di nome ha per i parlanti; non come eti­ chetta da applicare (e non sempre con criteri chiari) perché così vuole la tradizione scolastica, ma come categoria fondamentale, assieme al verbo, del modo in cui la lingua riflette una concettualizzazione della realtà. La distinzione intuitivamente più chiara è quella tra il fascio di pro­ prietà legate all' idea che i nomi esprimono "entità" e le proprietà grammaticali che definiscono i nomi come un tipo di parola, nelle lingue in generale e in italiano in particolare. Una caratterizzazione di questo tipo corrisponde a quella tradizionale, e si trova rispecchia­ ta con particolare chiarezza nella dettagliata grammatica di Serianni (1 9 89, p. 87 ) : Il nome o sostantivo è una parola che ha la funzione di indicare persone, animali, cose, concetti, fenomeni (ad es. bambino, gatta, martello,giustizia, tuono). In italiano e nelle lingue romanze il nome è formalmente contraddistinto da una propria flessione grammaticale, che comprende la distinzione singola­ re l plurale (numero) e quella maschile l femminile (genere).

La prima determinazione circoscrive il tipo di significato associato ai nomi con l' indicare la loro funzione principale ; come si è visto, descrivere un tipo di significato e individuare una funzione sono in realtà prospettive distinte, così che la parola perché ha un significato che la rende diversa da un nome, ma può essere usata con funzione di nome. Fatta questa importante precisazione, e rimandando al pa­ ragrafo 1.3 per qualche considerazione più approfondita a proposito della parte che riguarda il significato, possiamo dire che i nomi sono la risorsa primaria con cui le lingue esprimono ciò che viene concepi­ to come un'entità nella comunità parlante, e che tra le caratteristiche formali che contraddistinguono i nomi nei sistemi grammaticali di tutte le lingue, l' italiano (come molte altre lingue) fa uso delle cate­ gorie di genere e numero. Per essere più precisi, il valore del numero di solito non è fisso per un dato nome, mentre lo è quello del genere ; si parlerà così di nomi maschili o femminili, ognuno dei quali potrà ricorrere al singolare o al plurale. Anche i pronomi e gli aggettivi (e i participi, se si pensa a scrivente o scritto) possono essere maschili o femminili, singolari o plurali, ma con essenziali differenze, che vale la pena di esplicitare. Rispetto ai pronomi, i nomi sono in numero infinitamente maggiore, e la differenza non è solo quantitativa ma qualitativa: è il sistema grammaticale stesso a definire la lista dei pronomi, che costituiscono una classe ristretta di parole dai significati solidali basati sulle determinazioni di parlante, interlocutore, partecipante, solitamente raggruppati sotto la catego­ ria di "personà'. Rispetto a questa classe "chiusa" o "grammaticale", come si definisce comunemente una classe di parole il cui senso e la cui consistenza numerica sono determinati dal sistema grammaticale della lingua, i nomi rappresentano il caso più chiaro di classe "aperta", o (in uno dei tanti sensi del termine) "lessicale": la loro consistenza numerica varia, anche sensibilmente, tra parlanti che pure condivi­ dono lo stesso sistema grammaticale, dato che il significato di un no­ me non è determinato da categorie grammaticali e quindi la lista può essere arbitrariamente arricchita o ridotta. Nel caso dei nomi, inoltre, l' idea di poter compilare una lista esaustiva, anche limitata a un solo 1.2.2. Il nome e le altre categorie nominali

IS

parlante e in un solo momento, si rivela problematica anche in teoria, visto che non c 'è limite a quello che si può usare come nome: non solo parole di categoria diversa, come in senza un perché, ma anche strutture complesse (dare il via libera, atmosfera da tutti-a-casa) e perfino materiale non verbale (quell'irritante 'zzz"). La differenza tra nomi e aggettivi, come anche participi, è molto meno ovvia, e non solo perché si tratta di classi aperte (nel senso appena chiarito) in entrambi i casi. Il contrasto centrale è netto : un nome ha un determinato genere, in qualsiasi suo uso, e si può usare al plurale o al singolare, se queste forme esistono e se sono compati­ bili con il senso del nome; un aggettivo, invece, in quanto elemento attributivo o predicativo, deve prendere il genere e il numero di ciò di cui è un attributo o un predicato (non necessariamente un nome). In un certo senso, è il sistema grammaticale a decidere, e non il par­ lante come per il nome. Così la scelta tra grosso, grossi, grossa, grosse dipende interamente dal contesto della frase, in particolare da ciò a cui si riferiscono : un grosso sbaglio, molti grossi sbagli, sale grosso, questa bugia e troppo grossa, l'ha fatta grossa (nell'ultimo caso, quel che determina il genere di grossa è il femminile idiomatico del pro­ nome la). Ma un aggettivo non è sempre un elemento attributivo o predicativo. Se ricco chiaramente esprime una qualità piuttosto che un tipo di entità, in usi comuni come i ricchi sembra esprimere pro­ prio un tipo di entità, cioè anzitutto persone, e non genericamente entità; poi, persone che non solo sono ricche, ma hanno anche le pro­ prietà tipiche delle persone ricche ; per esempio, i ricchi non potrà descrivere alimenti particolarmente ricchi di calorie, oppure persone povere di mezzi ma ricche di iniziativa. Allo stesso modo, pieno de­ scrive ben più che "qualcosa di pieno" in contesti come 250 km con un pieno. Queste sono, però, accezioni particolari di elementi che, presi a sé, chiaramente non sono nomi, ma aggettivi usati come nomi (come perché). Con i participi, invece, abbiamo a che fare con nume­ rosi casi in cui effettivamente sembra corretto riconoscere in forme participiali dei nomi a tutti gli effetti: cantante, morto, raccomandato (al maschile o al femminile), raccomandata (solo al femminile) sono solo pochi esempi di un modo estremamente comune di creare nomi. Non c'è da stupirsi se, allargando la prospettiva ad altre lingue, la di-

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stinzione tra nomi e aggettivi sia spesso molto labile, e in certe lingue semplicemente immotivata. Anche se non è questo il caso dell' ita­ liano, bastano i pochi esempi qui richiamati per rendersi conto che non si può distinguere in maniera netta e univoca la classe dei nomi da quella degli aggettivi e participi sull'unica base che il valore di genere e numero è originario nella prima, ma derivato per accordo nella seconda. Dovremo ritornare su queste osservazioni in seguito, soprattutto nel capitolo 4, trattando dell 'uso in funzione di modi­ ficatore che spesso motiva una doppia analisi dello stesso termine come nome (un idiota) e come aggettivo (un consiglio idiota). Per lo scopo presente di mettere a fuoco il carattere distintivo dei nomi tra le espressioni che condividono le categorie e le forme della flessione nominale, concludiamo invece richiamando la caratterizzazione dei nomi come sostantivi. Anche questo termine è originariamente un aggettivo, esattamente come lo stesso aggettivo; e si possono ancora trovare vecchie grammatiche che definiscono le due categorie come nome sostantivo e nome aggettivo, replicando in italiano la costruzio­ ne latina originaria. Il Grande dizionario italiano dell'uso (De Mau­ ro, 2ooo; d'ora in poi GRADIT ) riporta la locuzione nome sostantivo (non invece nome aggettivo) sotto la voce nome, con un rimando al lemma sostantivo; qui si legge : «Parte variabile del discorso che serve a denominare entità concrete o astratte, caratterizzate dalle categorie grammaticali di genere e numero, anche agg. » . Si noterà lo stretto pa­ rallelismo con la definizione proposta da Serianni (1989, p. 14): funzio­ ne ( « ... che serve a denominare ... » ), riferimento a tutto ciò che può essere denominato, qui sussunto sotto il termine entita, e menzione delle proprietà grammaticali. Più utile per i nostri scopi è la defini­ zione di sostantivo del Dizionario italiano (DISC ; Sabatini, Coletti, 1997 ): «Nome ; elemento del sistema linguistico (o "parte del discor­ so") che esprime il concetto di una cosa (qualsiasi ente, concreto o astratto, singolo o collettivo) ed è autosufficiente nel dare tale indi­ cazione (differenziandosi in ciò dall 'aggettivo) » . La definizione pro­ segue menzionando l'uso aggettivale del termine in nome sostantivo, a sua volta affiancato a nome aggettivo. Il contenuto è qui descritto in termini più sofisticati ("concetto di una cosa", "qualsiasi ente") ; ma ciò che più importa è la netta indicazione che il sostantivo è tale in 17

quanto autosufficiente a identificare un tipo di entità, a differenza dell 'aggettivo. Si tratta quindi di una differenza nella funzione di una parola, e non nella parola stessa presa a sé e avulsa da un contesto ; e il fatto che moltissime parole si possano usare nell'una o nell' al­ tra accezione, a cominciare da sostantivo, conferma la correttezza di questa importante intuizione. Che dire, allora, di poliziotto in donna poliziotto? Presa a sé, ma anche nella grande maggioranza dei suoi usi, questa parola certamente designa un'entità, e lo fa in modo autosuffi­ ciente. Ma qui, come membro di un composto (notare che manca la concordanza grammaticale con il femminile donna), quella indicata da donna poliziotto è un'entità che poliziotto concorre a descrivere, ma non identifica in modo autosufficiente. C 'è più che un fondo di verità, quindi, nel dire che poliziotto è in questo caso un attributo, come Lo Duca e Polato riferiscono sia stato fatto da una studentessa, aggiungendo che questo errore (perché poliziotto è un nome e non ha un uso aggettivale se non nei composti) coglie «la natura attributiva del secondo termine del composto » (Lo Duca, Polato, 20 09, p. 8 6 ). La questione sarà ripresa nei capitoli 2 e 4· 1 .2.3 . Tre dimensioni Se le definizioni tradizionali presentano la nominalità sotto il duplice aspetto di significato e di proprietà grammaticali, e se la discussione su nomi e aggettivi mostra che è op­ portuno distinguere tra nominalità come funzione e come proprie­ tà immanente a una parola, dal punto di vista dell'analisi linguistica possiamo distinguere tre dimensioni nell'attribuzione di una parola a una categoria lessicale : morfologica-grammaticale, semantica-no­ zionale e sintattica-distribuzionale. Sotto il primo aspetto, ciò che rende una parola appartenente a una classe oppure a un'altra sono le sue proprietà grammaticali, tipica­ mente intese (nelle lingue strutturate come quelle del ceppo indo­ europeo) come le categorie di flessione : tempo, modo e diatesi sono caratteristiche dei verbi; caso, oltre a genere e numero, degli elementi nominali. Una discussione esauriente di questo criterio sarebbe lun­ ga e impegnativa, poiché si tratta di discriminare le determinazioni flessive che contrassegnano una categoria lessicale in modo distintivo (per esempio, il caso non è mai una determinazione dei verbi, se non

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nelle loro forme, appunto, nominali) da quelle che sono dovute a concordanza, come per esempio numero e persona sui verbi. Questo criterio è intrinsecamente specifico a singole lingue o famiglie lingui­ stiche, dal momento che le determinazioni grammaticali non sono assolutamente le stesse per tutte le lingue, e anche determinazioni costanti o almeno commensurabili spesso si applicano a categorie lessi cali diverse. L'esempio forse più chiaro è dato dal tempo, che da Aristotele in poi è stato visto come determinazione specificamente verbale nella tradizione occidentale (cfr. PAR. 1.3.1), mentre studi re­ centi di tipologia linguistica mostrano che la marcatura temporale dei nomi (con interpretazioni simili a "ex moglie", "futura casà') è un fenomeno minoritario ma ben attestato. Sotto il secondo aspetto, l'appartenenza a una categoria lessicale si correla a un tipo di significato ; questa espressione molto vaga qui vuole comprendere sia un insieme di interpretazioni sussunto da una categoria nazionale di base, come potrebbe essere "movimento" o "cambiamento': sia una dimensione interpretativa, come può essere la nozione di entità rispetto a quella di relazione o di localizzazio­ ne. Come si vede, è sotto questo secondo aspetto che caratterizzare i nomi come designazioni di "cose" si rivela insoddisfacente, per lo meno nella misura in cui finisce per coincidere con una classifica­ zione delle categorie dell 'essere. Non è questo, però, l'unico modo di intendere una caratterizzazione delle categorie lessicali su base se­ mantica. Come vedremo più precisamente nel capitolo 2, è possibile collegare la categoria lessicale del nome, che è un concetto di natura grammaticale, a una categoria cognitiva rappresentata prototipica­ mente da oggetti estesi nello spazio e dall' identità stabile nel tem­ po. Per le teorie che sostengono un' interpretazione nazionale delle categorie lessicali, le parole grammaticalmente nominali (secondo criteri che variano tra le lingue) sono istanze più o meno tipiche della categoria, a seconda che la loro interpretazione si avvicini o si disco­ sti da quella di un oggetto concreto tipico. A sua volta, l'analisi si basa sull ' idea di fondo che mentre i verbi nelle lingue del mondo esprimono prototipicamente degli accadimenti che si sviluppano nel tempo, i nomi altrettanto prototipicamente esprimono i partecipan­ ti a questi accadimenti, e un partecipante designato da Mario o casa 19

è più prototipico (e quindi più nome) di uno designato da bellezza o tempo. Non solo : come si dirà più diffusamente in seguito, lo stesso nome avrà funzione più o meno nominale a seconda che esprima un referente nel discorso (ho parlato con un poliziotto) oppure abbia una funzione diversa, per esempio predicativa (suo zio e un poliziotto) o attributiva (come in donna poliziotto) . Sotto i l terzo aspetto, infine, quel che definisce un nome come tale è la sua distribuzione : è da questo punto di vista che possiamo ren­ derei conto che perché, sostantivo o idiota sono nomi in un perché, il sostantivo, o tre idioti, ma non in perché parli?, nome sostantivo, o un 'idea idiota. Naturalmente la collocazione sin tattica corrisponde a un' interpretazione distinta, appunto nominale ; ma da questo punto di vista non c'è bisogno di chiarire il contenuto di questa interpre­ tazione traducendolo in termini cognitivi o metafisici ( il problema è discusso nel PAR. 1.3). Come vedremo soprattutto nel capitolo 4, non è sempre così pacifico individuare dei contesti che definiscano un nome, e oltre alla variabilità linguistica, bisogna tenere conto an­ che dell 'esigenza di affiancare a una categoria definita sulla base dei suoi contesti di occorrenza una gamma di interpretazioni più o meno strettamente collegate ; il che sembra già problematico se si pensa all'uso di nomi come predicati senza determinante, come in eravamo

ragazzi. Sembra chiaro che la conoscenza che il parlante ha della categoria del nome, come parte integrante della sua competenza, combina aspetti che l'analisi linguistica distingue attraverso i tre punti di vista che abbiamo esposto. La trattazione che segue terrà presenti queste pro­ spettive, concentrandosi di volta in volta su aspetti diversi.

1.3.

Nomi e "cose"

Ritorniamo a considerare la funzione fondamentale dei nomi di identificare tipi di entità. La definizione di Serianni (1 989 ) riportata sopra attribui­ sce ai nomi la facoltà di «indicare persone, animali, cose, concetti, fenomeni » , e illustra i termini di questa lista rispettivamente con 1 .3.1. Grammatica e logica : retrospettiva storica

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bambino, gatta, martello, giustizia, tuono. Non si può imputare a una

definizione di questo genere, né alle molte altre simili (di solito meno precise ) , di essere incompleta, o poco chiara, o fuorviante. Sia i ter­ mini della lista che i loro esempi riflettono l' intuizione di base che, in una lingua, i nomi sono le parole che identificano i tipi di entità di cui si parla. Elencare "persone, animali, cose, concetti, fenomeni" rende l' idea chiara e intuitiva; così intuitiva, in realtà, che a ben guar­ dare questa formulazione in effetti non cerca di descrivere quale sia il possibile contenuto dei nomi, ma richiama le classi di significato più salienti e si affida per il resto all' intuizione del lettore. Come si è visto, le definizioni del GRADIT e del DISC cercano invece di dare un nome a questa categoria così vasta di contenuti concettuali, ricorren­ do a entita ( «denominare entità concrete o astratte » ) , cosa ed ente «il concetto di una cosa (qualsiasi ente, concreto o astratto, singolo o collettivo ) » . Si tratta, come si vede, di categorie di natura filosofi­ ca, non linguistica; come del resto attesta il termine stesso sostantivo, che tramite sostanza si basa su uno dei concetti cardine della filosofia dell'essere in Occidente, rinviando direttamente ad Aristotele. Senza voler cercare di riassumere in poche righe uno snodo fon­ damentale nella storia della linguistica, per valutare correttamente l' intuizione secondo cui i nomi esprimono "cose" bisogna ricordare come lo studio delle categorie grammaticali in Occidente sia emer­ so gradualmente dalla riflessione sulla struttura logica del pensiero, così come la filosofia greca l'ha concepita sulla base della struttura della frase ; più precisamente, sulla base della frase dichiarativa, come espressione di un pensiero che può essere vero o falso, e che in questo ha un significato qualitativamente diverso da espressioni non-frasali come Socrate, unfilosofo, o arrivera domani (questo sviluppo storico è riassunto nell'etichetta tradizionale di "parti del discorso': traduzio­ ne diretta del latino partes orationis, a sua volta calco sul greco mére logou, o "minimi elementi costitutivi della frase" ) . A quanto consta, Platone (Sojìsta 262a) fu il primo a sostenere che le frasi ( dichiarati­ ve ) , in quanto espressioni di enunciati, devono consistere di due tipi di elementi fondamentali, onomata e rhé mata; questi ultimi descri­ vono "azioni", mentre i primi si riferiscono a ciò che compie queste azioni. Lo sviluppo decisivo si ha però con lo scritto Dell'interpre-

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fazione, di Aristotele, breve opera dedicata all'analisi della propo­ sizione nei suoi elementi costitutivi, e che la tradizione ha inserito nelle opere aristoteliche sulle basi logiche del pensiero, collocata tra le Categorie (dedicate ai significati dei termini di base ) e gli Analiti­ ci ( sulla concatenazione delle proposizioni in ragionamenti ) . Sono particolarmente rilevanti i primi sei capitoli, che analizzano la frase (enunciato dichiarativo che può essere vero o falso ) come un com­ plesso costituito da nome e verbo, categorie di base che Dell'inter­ pretazione definisce rispettivamente nei capitoli 2 e 3· Le due parole sono le stesse già usate da Platone, e che diventeranno tradizionali nella terminologia grammaticale ; ma è chiaro che si tratta qui di due categorie anzitutto logiche ( soggetto e predicato ) e comunicative (ciò di cui si afferma qualcosa e il contenuto dell'affermazione ) . Tut­ tavia, poiché la predicazione minima richiede appunto un nome e un verbo, Aristotele definisce le due nozioni in termini linguistici come tipi di parole, cioè unità significative, nessuna delle cui parti ha di per sé un significato ( a differenza quindi della frase ) . Inoltre, Aristotele nota che il nome prende il suo significato "senza tempo", mentre il senso del verbo comprende una specificazione temporale ; su questa importante ma laconica caratterizzazione dovremo ritornare a più riprese. La tradizione successiva, a partire dalla scuola stoica, svilup­ perà l'analisi in senso propriamente grammaticale, distinguendo per esempio nomi da participi, aggettivi e pronomi, identificando prepo­ sizioni e articoli come categorie a sé, e classificando i nomi in comuni e propri, concreti e astratti, semplici e composti oppure derivati, in una categorizzazione che nel caso del nome non è sostanzialmente cambiata fino alle grammatiche tradizionali di oggi. Per illustrare come la riflessione si fosse spostata molto presto su un piano propria­ mente grammaticale, possiamo notare che già Varrone nel I secolo a.C. concepiva l'opposizione di nomi e verbi in base alla pertinenza temporale in senso puramente morfologico : la flessione dei verbi, ma non dei nomi, comprende una categoria di tempo, legata sia pure in­ direttamente alla dimensione temporale. In realtà, anche in questa prospettiva più strettamente linguistica, la concezione del nome della tradizione grammaticale ha continuato a basarsi sulle categorie della filosofia aristotelica; in particolare, come 22

si è detto, su quella di sostanza, da cui è derivata la qualificazione di "nome sostantivo". Il grammatico latino Prisciano, nel v secolo d.C., definisce il nomen come la categoria che attribuisce a soggetti animati o inanimati una qualitas che può essere condivisa tra molti o propria di un individuo ; in questa definizione rientrano dunque gli aggettivi, che come i nomi comuni esprimono qualità e anche quantità comuni a molti individui (Istituzioni, libro n, capitoli 22-25 ) . Ciò che distin­ gue quelli che oggi chiamiamo sostantivi dagli aggettivi è che i primi esprimono una sostanza, cioè un tipo di entità ( individuale, come Fido, o di classe, come cane) che rimane la stessa al variare di altre proprietà; per esempio, se Fido è grande o piccolo ( proprietà espresse da aggettivi ) questo non lo rende meno cane ( proprietà espressa da un nome, o sostantivo ) . 1 .3. 2. Categorie di significato In questa prospettiva storica, che evidenzia le radici dell ' idea di nomi come espressione di "cose" in un preciso contesto filosofico, è più facile rendersi conto che non si possono caratterizzare linguisticamente i nomi tentando di delimi­ tare i loro possibili significati; perché questo vorrebbe dire cercare di catalogare non solo la realtà, ma tutto il pensabile e il dicibile. Elen­ care "persone, animali, cose, concetti, fenomeni" in effetti può essere utile, e certamente lo è a fini pedagogici, ma solo a patto di non pren­ dere questa lista come un' ipotesi sui possibili significati dei nomi. A un' interpretazione di questo genere (che non è quella di Serian­ ni ) si potrebbe obiettare, per esempio, che "concetti" è un'etichetta inadeguata, visto che anche termini che denotano entità materiali significano anzitutto un concetto. Infatti, suddividere troppo rigi­ damente il campo delle entità significabili in concrete e astratte non tiene conto della facoltà di pensare e nominare entità concrete ma immaginarie, al tempo stesso concrete e astratte. Oppure si potrebbe obiettare che né l'etichetta di "concetti" né quella di "fenomeni" si adatta a tutti quei nomi che descrivono intervalli di tempo come an­ no, minuto o stagione, che non sono meno fenomenici di entità estese nello spazio come persone, animali ed esseri inanimati; o che voler far posto a nozioni come tempo,fine, punto, numero o appunto nome in questa categorizzazione è impresa disperata; o che nomina in la

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sua nomina a presidente non è certo un'entità concreta, ma non sem­ bra nemmeno un'astrazione come giustizia né un "fenomeno" come tuono (benché abbia luogo nel tempo) ; senza parlare delle difficoltà causate dai sensi diversi che emergono nel contesto, come si è visto con idiota o, al limite, perché. Il problema di fondo sta nel fatto che la categoria dei nomi è un concetto linguistico, mentre la nozione di "tipo di entità': che sia o meno basata sulla filosofia aristotelica, non è un concetto linguistico. Descrivere il significato dei nomi sulla base di una categorizzazione della realtà vorrebbe dire, anzitutto, ignorare il fatto che il significato delle espressioni linguistiche corrisponde anzitutto a un concetto, per cui ciò che si cercherebbe di categorizzare non è solo tutto ciò che esiste ma addirittura l' intero contenuto dell'attività concettuale. Per esempio, giovane, giovanotto, ragazzo, adolescente corrispondono a concetti diversi, pur potendo riferirsi alle stesse entità; così anche gestore e manager, ammettendo che designino lo stesso ruolo. Ogni tentativo di restringere il ventaglio dei possibili significati dei nomi ricorrendo a categorizzazioni puramente antologiche è destinato a rivelarsi quanto meno poco illuminante, non solo perché in effetti non pone nessun limite a quel che un nome può indicare, ma an­ che perché molti altri elementi in una lingua possono venire usati in questa funzione nominale (come in un perché, o il bello). Di per sé, il designare entità non è una proprietà immanente al sistema linguistico che identifichi un settore del lessico come, per esempio, la proprietà di certi verbi di richiedere un soggetto senziente. Non deve sorprendere, quindi, che tentativi di distinguere troppo rigida­ mente tra sostantivi e aggettivi (e participi) esclusivamente su queste basi approdino a risultati insoddisfacenti, davanti a casi come quelli esemplificati nel paragrafo precedente. Questo non vuoi dire però che sia inutile cercare di organizzare e classificare i possibili significati dei nomi. Al contrario, riflettere sull ' inadeguatezza di certe definizioni permette di capire meglio che una tipologia dei significati nominali, per essere di qualche utilità, deve ricercare categorizzazioni immanenti al sistema linguistico : deve cioè chiarire che rapporto intercorre tra proprietà linguistiche dei nomi e proprietà cognitive delle categorie di concetti che espri-

mono ; quali siano le principali distinzioni di significato che trovano espressione in distinzioni di forma; con quali strumenti grammatica­ li si possano esprimere le varie concettualizzazioni possibili; quale sia lo spazio di variazione tra i diversi sistemi linguistici. Queste sono le domande che guideranno la panoramica sui significati del nome nei capitoli 2 e 3, nel contesto più ampio di un esame della categoria del nome alla luce delle acquisizioni e degli strumenti concettuali della linguistica moderna.

1.4. Il nome e la linguistica moderna

Sarebbe un errore ingenuo e antistorico imputare ad Aristotele di non aver saputo distinguere correttamente il piano logico dal piano propriamente grammaticale. Oggi, però, è doveroso tenere conto del fatto che l'organizzazione grammaticale non corrisponde all'orga­ nizzazione logica, e soprattutto che la diversità tra le lingue è tale che osservazioni basate su una o due lingue imparentate devono es­ sere rapportate a sistemi linguistici diversi prima di poter essere prese come ipotesi sulla natura del linguaggio umano in generale. Grazie a questa sensibilità per la distinzione tra lingue storicamente determi­ nate e linguaggio umano concepito unitariamente, che non è del re­ sto una conquista specificamente moderna, e soprattutto grazie alla concezione dei fatti linguistici come strutturati secondo una logica loro propria e non derivanti da un ideale di correttezza, la riflessione linguistica sviluppatasi in disciplina scientifica autonoma a partire dal XIX secolo ci permette di esaminare la categoria del nome andan­ do oltre la caratterizzazione tradizionale di categoria lessicale indi­ cante tipi di entità e marcata, in italiano, da una scelta fissa di genere e da un valore di numero. Naturalmente quella tra linguistica moderna e grammatica tradizio­ nale è una distinzione di massima, che non vuole mettere sullo stesso piano lavori di ricerca e trattazioni a scopo pedagogico, né svalutare frettolosamente punti di vista che si presentano in una veste tradi­ zionale ma che tengono presenti i risultati della ricerca recente. Per esempio, la "tradizionale" grammatica di Serianni (19 89, p. 87) citata 25

nel PAR. 1.2.1, immediatamente dopo aver elencato i tipi di entità che un nome può significare, osserva con un'affermazione profonda e di grande portata che tutte le lingue usano delle parole con la funzione di nominare, al di là di differenze tipologiche anche essenziali; e nella pagina seguente menziona la non-universalità del nome come cate­ goria lessicale, dato che alcune famiglie linguistiche non conoscono una classe morfologica corrispondente, mentre altre presentano le stesse radici lessicali in contesti che possono essere verbali o nomi­ nali, di modo che ciò che funge come nome non è una radice o una parola ma una struttura. Si tratta di osservazioni tipologiche molto pertinenti per la questione dell'universalità del nome come categoria linguistica, e che mettono in risalto la distinzione fra nome come tipo di parola ( sottoinsieme del lessico, con caratteristiche gramma­ ticali e morfologiche sue proprie ) e nome come funzione di deno­ minare, legata a determinate strutture sintattiche. Approfondiremo queste considerazioni a più riprese, soprattutto nei capitoli 3 e 4· Naturalmente l'etichetta di "linguistica moderna" non intende nem­ meno presentare la ricerca linguistica attuale come se fosse un siste­ ma unitario, invece di una molteplicità di approcci e metodologie eterogenee, finalizzate a scopi a volte del tutto diversi e spesso basate su presupposti teorici ben distinti quando non incompatibili. I pros­ simi capitoli non si propongono né di offrire un'analisi documentata della nominalità come carattere del linguaggio umano, né di presen­ tare una carrellata dei risultati della ricerca in questo campo. L'obiet­ tivo è invece di confrontarsi con gli strumenti di descrizione e analisi che sono emersi nella linguistica moderna, a rischio di entrare qual­ che volta nel tecnicismo, per poter vedere i fenomeni di una lingua come l' italiano attraverso una lente interpretativa che permetta di cogliere i diversi aspetti della nozione di nome a livello di significato, di funzione, di forma, di determinazione grammaticale, e identificar­ ne gli aspetti invarianti e quelli variabili attraverso le lingue.

2.

Le basi concettuali e comunicative della nominalità

2.1. Nomi prototipici ed entità prototipiche

Se chiamiamo nomi quegli elementi del lessico che designano tipi di entità, allora, come abbiamo visto, cercare di classificare i loro pos­ sibili significati vorrebbe dire cercare di organizzare tutto ciò che è pensabile come entità, un' impresa velleitaria oltre che inutile per ca­ pire come funziona il linguaggio. Ma l' idea che i nomi esprimano tipi di entità, di per sé, pone interrogativi di vasta portata sul rap­ porto tra struttura del pensiero e struttura della lingua. Una nozione come "entità" sembra assolutamente fondamentale nella percezione e nel pensiero umani; se effettivamente i nomi sono la classe di parole che designa tipi di entità, allora sembra difficile immaginare che un linguaggio umano possa fare a meno dei nomi. Basta davvero questa semplice osservazione per dimostrare l'universalità del nome come categoria grammaticale, in ogni lingua passata, presente o futura ? Su che basi possiamo essere così sicuri che ci sia una corrispondenza di fondo tra la nozione di "entità", come categoria cardine del pensiero, e una categoria grammaticale ? Inoltre, come possiamo paragonare le categorie di una lingua con quelle di un'altra ? Si può legittimamen­ te parlare di nomi e di verbi come proprietà del linguaggio umano, piuttosto che di lingue determinate ? Il problema, come fece notare Lyons (1 9 6 8, pp. 3 1 8-33 e 1977, pp. 42.347 ), è che "entità" e "nome" sono due nozioni interdipendenti. Per esempio, Lyons osserva che non c 'è altro motivo di pensare che il referente di bellezza sia un'entità, se non il fatto che bellezza è un nome. Per uscire dall ' impasse, e riuscire a cogliere il valore dell ' im­ portante intuizione di fondo che oppone i nomi (''cose") ad altre categorie, e in primo luogo ai verbi (''azioni", "qualità", "stati"), è ne­ cessario anzitutto applicare criteri distribuzionali che permettano di isolare in modo quanto più possibile obiettivo classi di parole 2.7

definite dai loro contesti di occorrenza e dalle loro proprietà gram­ maticali (in realtà una ripartizione di questo genere, nella pratica, lascerà inevitabili zone d'ombra, anche senza pensare a casi come un perché). In secondo luogo, è possibile riconoscere le basi nazionali e concettuali delle categorie lessicali, e in particulare del nome, a patto di non considerare queste caratterizzazioni come dei criteri necessari e sufficienti, ma solo come un'esplicazione del valore con­ cettuale più tipico dei rappresentanti della categoria. Come nota Lyons (1 977 ) , anche la caratterizzazione più generale deve poggiare su un quadro antologico di riferimento indipendente dal linguag­ gio, cioè su un' idea fondamentale di cosa voglia dire essere un'en­ tità, per non ricadere nel circolo vizioso indicato. Chiarito questo, è plausibile indicare la nozione di oggetto concreto, esteso nello spazio, dai confini netti, come il tipo di entità più immediatamente concettualizzabile, direttamente fondato sull'esperienza e sulle basi psicologiche della percezione. Stabilita in modo indipendente dal linguaggio una nozione centrale di "cosa", si potrà allora ipotizzare che i nomi, come designatori di "cose", indichino prototipicamente entità concrete di questo tipo. In effetti, le indagini tipologiche con­ fermano che se una lingua definisce una classe di elementi lessicali riconoscibili come nomi, questa contiene anzitutto nozioni corri­ spondenti a oggetti concreti; inversamente, queste nozioni sono invariabilmente lessicalizzate come nomi, nella misura in cui questa classe è riconoscibile come categoria grammaticale. Un approccio in termini di contenuto prototipico, quindi, ci dà almeno una base per caratterizzare i nomi dal punto di vista concettuale. Consideriamo ora in che misura questa categoria possa dirsi effettivamente genera­ le tra le lingue umane.

2. 2. La funzione del nome e la variabilità linguistica

Come è facile capire, la questione se esistano lingue prive di nomi ha occupato un posto centrale nel dibattito sull 'universalità delle catego­ rie lessicali, e quindi sulla variabilità delle lingue e sul rapporto tra lin­ gua e cognizione. Bisogna però intendersi su quel che si vuoi dire con

"prive di nomi". Come abbiamo visto nel capitolo precedente, non c 'è bisogno di una parola in sé classificabile come nome per dare luogo a strutture nominali come un perché; è piuttosto comune riscontrare usi nominali di parole il cui significato primario è di esprimere un predi­ cato aggettivale o verbale, così come in quechua (lingua amerindiana parlata tra l' Ecuador e l'Argentina settentrionale) hatun ha la funzio­ ne modificatrice di un aggettivo in hatun wasi "grande casà: ma con il suffisso accusativo -ta designa un'entità come complemento del verbo in hatun-ta rikaa "vedo un l l'oggetto grande" (gli esempi di questo paragrafo provengono dalla rassegna critica di Baker, 20 03). Le lingue in cui i nomi potrebbero mancare del tutto sono quelle in cui sem­ bra che non ci siano parole che ricorrano esclusivamente in funzio­ ne nominale. In lingue di questo tipo le parole che designano entità sono liberamente utilizzabili come modificatori o, forniti di flessione adeguata, come verbi. Per esempio, nella lingua austronesiana tukan besi, la parola tomba ha un significato omogeneo che si può tradurre come "fango" se segue il determinante nominale te, ma la stessa parola può avere la funzione di un aggettivo o, con il prefisso flesso alla terza persona del modo reale, di un verbo (citato da Baker, 2003, p. 176): tomba (I) a. te DETERMINANTE fango "il/un po' di fango" sala b. te DETERMINANTE strada "la l una strada fangosa" atu c. te quello DETERMINANTE "quella cosa è fango"

tomba fango no-tomba REALE-fango

Il caso più famoso, e più estremo, è fornito da lingue come il nootka, della famiglia wakash, parlata nel Canada occidentale. Qui, come anche nelle lingue salish, o in alcune lingue austronesiane (tongano, tagalog, samoano ), nominalità e verbalità sembrano due funzioni che non selezionano una parte o un'altra del vocabolario, dando l' impres­ sione che praticamente ogni parola possa fungere da nome o da ver­ bo. In un articolo importante e molto citato, Swadesh (I939) illustrò 29

questa effettiva mancanza di distinzioni categoriali a livello lessicale, che rende possibile commutare soggetto e predicato in casi come ( 2 ) : (2) a. mamu:k-ma lavorare-INDICATIVO "l'uomo lavora" b. qu:?as-ma uomo-INDICATIVO "colui che lavora è un uomo"

qu:?as-?i: uomo-il mamu: k-?i: lavorare-il

Sembra difficile, in effetti, immaginare una neutralizzazione più radi­ cale della categoria di nome di quella che ha luogo in sistemi dove ciò che viene tradotto "uomo" può presentarsi con la morfologia di un verbo e fungere da predicato, e ciò che viene tradotto "lavorare" può avere sintassi nominale e designare un'entità. Eppure, perfino in que­ sti tipi di lingue, ricerche successive hanno appurato che la funzione di designare entità ha un rapporto privilegiato con un certo gruppo di parole e non con altre ; si può, quindi, identificare una classe di parole in cui la nominalità è un carattere intrinseco. L'osservazione decisiva è che anche se ogni termine può comparire come soggetto di una predicazione, c'è un' importante differenza tra termini che pos­ sono fungere da soggetto senza altre modificazioni e quelli che per farlo hanno bisogno di un suffisso nominalizzante con funzione di articolo. Come illustrato in ( 3 ) , tratto da Baker ( 2003, p. I 7 9 ) , nella lingua makah ( come il nootka, appartenente alla famiglia wakash ) un'espressione dal significato reso con "seduto per terra" può indi­ care un partecipante all'azione ( può cioè fungere da argomento del predicato verbale ) con il senso "ciò che sta seduto per terra': ma solo se suffissato con l'articolo -iq; se non lo è, la costruzione è giudicata inaccettabile, come mostra l'asterisco in ( 3b ) : t'iq'was-iq (3) a. da:s?its vedere.PASSIVO.I.SG.SOGG seduto-per-terra-ARTICOLO "sono visto da ciò che sta seduto per terra", "ciò che sta seduto per terra mi vede" t'iq'was b. •da:s?its 30

Se invece si prende un termine come wa:q 'it, tradotto come "rana': l'uso come argomento (qui, soggetto) non richiede un suffisso nomi­ nalizzan te : (4) u:saba:c'a:l parlare-INDICATIV0.3SOGG "le rane gracidano"

wa:q'it rana

Evidentemente, "seduto-per-terra" può assumere la funzione di nome per via grammaticale, mentre "rana" ha questa funzione in maniera intrinseca: è, cioè, un nome, e non un termine primaria­ mente predicativo. Tra i vari altri indizi che chiariscono che una classe di nomi è presente anche laddove le stesse parole compaiono in funzione nominale e verbale/ predicativa, per cui si rimanda a Baker (2003, pp. 1 73-8 9 ), vale la pena di ricordarne almeno un altro. Nell'eschimese parlato in Groenlandia, sono comuni nessi in cui un nome è modificato attributivamente da un altro elemento nomina­ le. In sé questo non ha nulla di particolarmente esotico se visto dal punto di vista di lingue come l' inglese, dove costruzioni come sand cast/e "castello di sabbia" sono comunissime. L' inglese, però, possie­ de una classe di aggettivi ben definita in base a distribuzione, signifi­ cato e morfologia; per esempio, un piatto di legno è necessariamente un wooden plate, non un *woodplate. L'eschimese invece ha la stessa forma della parola sia nell 'uso nominale che in quello attributivo aggettivale : puugutaq vale "piatto", qisuk "legno", e puugutaq qisuk "piatto di legno". Se questa circostanza denota una mancanza di di­ stinzione formale tra nome e aggettivo, un'altra osservazione mostra invece che le due categorie restano ben distinte nell'organizzazione della grammatica: si può dire puugutaq qisuk "piatto di legno", ma non *qisuk puugutaq, che potrebbe avere un' ipotetica interpretazio­ ne come "legno in forma di piatto" se effettivamente la lingua non facesse differenza tra ciò che chiamiamo nomi e aggettivi, e se questi fossero semplicemente dei non-verbi nella coscienza dei parlanti. Al contrario, l'esempio illustra come la distinzione sia presente anche se non rappresentata morfologicamente. I termini non-verbali non sono confusi assieme, ma alcuni hanno univocamente il significa31

to e la funzione di nomi, e non possono fungere da modificatori aggettivali. Quelli che possono svolgere questa funzione sono in numero limitato e appartengono alle stesse categorie che anche in inglese ammettono l'uso di nomi in funzione di modificatore : ma­ teriale (come plastic bottle " bottiglia di plastica"), sesso (male nurse "infermiere uomo"), nazionalità o provenienza geografica, e pochi altri. La conclusione relativa alla variabilità linguistica, quindi, è che certi sistemi grammaticali possono oscurare quasi del tutto la speci­ ficità dei nomi come categoria linguistica, ma a quanto ci consta la funzione nominale di designare entità corrisponde universalmente a una categoria di nomi, per quanto poco distinti possano essere da altre categorie lessicali.

2.3. La nominalità come categoria del discorso

Il dibattito sull'universalità delle categorie lessicali, naturalmente, è molto più ampio, e affronta questioni di fondo come quella se le di­ stinzioni tra le classi siano in ultima analisi interne al sistema lingui­ stico o se siano basate sulla cognizione in senso più generale ; oppure se abbia senso parlare di classi lessicali, dal momento che le proprietà rilevanti (morfologiche, distribuzionali, nazionali) sono definibili spesso solo in un dato contesto, o caratterizzano non parole singo­ le ma espressioni più ampie. Resta molto significativo che ci sia un consenso di massima sull'esistenza di un'opposizione fondamentale tra nomi e non-nomi, che trascende la (grande) variabilità linguisti­ ca. Sembra, quindi, che la nozione elementare, e spesso fuorviante, che vede nei nomi l'espressione di "cose" e nei verbi l'espressione di "azioni" non sia dovuta interamente ai condizionamenti delle lin­ gue storiche in cui si è sviluppata la tradizione grammaticale occi­ dentale, nonché araba e indiana, ma rifletta qualcosa di connaturato al linguaggio. Una lunga e illustre tradizione di pensiero, che risale a Platone e Aristotele (cfr. PAR. 1.3.1 ) ed è riemersa negli ultimi decen­ ni come ispiratrice dell 'approccio funzionalista in linguistica, vede le radici di questa opposizione nel modo in cui la comunicazione si struttura in "ciò di cui si parla" e "ciò che se ne dice" (la seconda 32

espressione traduce il greco rh ema , passato poi a designare stabil­ mente il verbo). Nel classico Language, apparso nel 1921, Sapir indi­ viduava con chiarezza e semplicità (forse troppa) il nesso tra conte­ nuto incentrato su oggetti sensibili, generalità attraverso le lingue e funzione comunicativa (Sapir, 1 921, p. 1 1 9, trad. nostra) : Il soggetto del discorso è un nome. Poiché il soggetto del discorso più comune o una persona o una cosa, il nome si raggruppa intorno a concetti concreti di questo tipo. Poiché la cosa predicata è generalmente un'attività, nel senso più ampio del termine, un passaggio da un momento dell'esistenza a un altro, la forma designata per esprimere la predicazione, in altre parole, il verbo, si rag­ gruppa intorno a concetti di attività. Nessuna lingua manca totalmente di una distinzione tra nome e verbo, anche se in casi particolari la natura della distin­ zione può essere sfuggente. è

Sulla scorta della critica di Lyons (1 9 77 ) a questo passo, si dovrà os­ servare che una formulazione così semplice confonde i nomi, che sono elementi lessicali, e le espressioni nominali, che sono di solito grammaticalmente complesse - come in (2b ), dove è un determi­ nante a rendere nominale la descrizione di attività ("lavorare"). È importante distinguere ciò a cui si riferisce libro da ciò a cui si rife­ risce il libro, e l'ambiguità ha una certa rilevanza, soprattutto se la facoltà di riferirsi a qualcosa assume il ruolo di proprietà distintiva per caratterizzare la nozione di nome. Questo riguarda la stessa ca­ ratterizzazione di Lyons (1 9 77, p. 445 ) secondo cui i nomi «have a certain potential for reference » , cioè "hanno un certo potenziale di riferimento" (dal momento che non sempre fungono da espressioni referenziali) e, come si è accennato, rappresenta un tema di discus­ sione nella ricerca odierna sulle categorie lessicali. Ma al di là di quel che si può rimproverare a una formulazione breve, espressa in ter­ mini non tecnici, e risalente a quasi un secolo fa, questa citazione aiuta a cogliere un aspetto che è stato sottolineato dalla linguistica di orientamento funzionalista negli ultimi decenni: la distinzione (e il collegamento) tra il definire i nomi sulla base dei loro contenuti nazionali e della loro funzione nell 'articolazione del discorso ; una distinzione, quindi, tra un'ottica semantica e pragmatica. Svilup­ pando la riflessione in quest 'ultima prospettiva, influenti contribu33

ti come quelli di Hopper e Thompson (19 84), Langacker (1987) e Croft (1991) hanno elaborato un quadro interpretativo in cui non ci sono vere e proprie categorie universali interne al linguaggio, ma prototipi che corrispondono a distinte funzioni pragmatiche. In particolare, i nomi servirebbero prototipicamente a introdur­ re referenti del discorso, identificando ciò di cui si parla. A questa funzione pragmatica corrisponde, sempre prototipicamente, una nozione di entità incentrata su oggetti di immediata percezione e identificazione. I nomi dai significati meno prototipici ricorrono meno spesso come partecipanti a un evento, ed esprimono concetti che si prestano meno tipicamente a essere introdotti come referenti della comunicazione (ciò di cui si dice qualcosa). È il caso di astra­ zioni come bellezza (nel senso di proprietà astratta, come in la bel­ lezza sa/vera il mondo, oppure come "il fatto di essere bello", come la sua bellezza e innegabile, oppure nel senso collegato di "grado in cui qualcosa è bello" come in la sua bellezza e piu grande); ma anche dei numerosi nomi che esprimono eventi, processi, condizioni; oltre naturalmente alla massa eterogenea di concetti che non sono pro­ priamente astratti nel senso in cui bellezza astrae un'entità da una proprietà, ma che pur avendo un aggancio con entità concrete espri­ mono concetti distinti e spesso difficili da esplicare : anno, numero, lingua, stato, marea e moltissimi altri, che le lingue del mondo espri­ mono molto meno regolarmente come nomi rispetto ai concetti di individui concreti. La rassegna del capitolo 3 presenterà alcune im­ portanti opposizioni che permetteranno di vedere un'organizzazio­ ne in questo dominio di significati apparentemente senza struttura, che emerge non appena si considerino significati diversi da oggetti concreti (cane) o astrazioni da proprietà (bellezza) . Per concludere la discussione di come la nominalità sia stata definita nell'ottica di una corrispondenza prototipica tra un certo tipo di concetto (quello di entità concreta) e un certo tipo di funzione comunicativa nel di­ scorso (quello di instaurare un referente ) , sottolineiamo che un' in­ terpretazione di questo genere si basa su un approccio di fondo in cui le categorie rilevanti per l'attività cognitiva sono definite da un nucleo centrale con delle proprietà ben delineate, a cui si aggiun­ ge una periferia di casi gradualmente meno tipici. La gradualità e 34

la tipicità che caratterizzano il nome come categoria concettuale si rifletterebbero, secondo diversi ricercatori (cfr. Hopper, Thom­ pson, 1 9 8 4 ), anche nelle proprietà morfologiche e sintattiche, così che quel che è meno "nome" sul piano della funzione pragmatica e del significato lo è anche sul piano delle determinazioni grammati­ cali: per esempio, nomi impiegati in usi non direttamente referen­ ziali come nei composti mancano di solito di determinanti, o caso, o numero, come hippo- nel composto greco classico hippo-damos, "domatore di cavalli". In quest'ottica, e sorvolando sulle differenze tra le analisi, la catego­ ria dei nomi è quindi più un prototipo, in base al quale categorizza­ re i fatti linguistici concreti, che un aspetto della conoscenza della propria lingua; o, per essere più precisi, del modello di questa cono­ scenza costruito dai linguisti. È bene avvertire che questa seconda prospettiva sarà invece maggiormente in evidenza nei capitoli che seguono. Ci concentreremo quindi sul nome come categoria imma­ nente al sistema linguistico, e non come corrispondenza tra un pro­ totipo concettuale e una gamma di espressioni grammaticali.

2.4. Nomi e temporalità

La distinzione tra nomi che designano entità concrete e nomi che designano altri tipi di entità non è evidentemente l'unica differenza concettuale che abbia rilevanza grammaticale. Le strutture e il vo­ cabolario dell' italiano, come succede per moltissime lingue, sono sensibili alla caratterizzazione di certi referenti come esseri umani; per esempio, un'espressione come i ricchi non può che riferirsi a es­ seri umani (a differenza di il sublime, ma anche di quelli ricchi) ; cer­ ti pronomi possono denotare solo esseri non-umani e non-animati, come cio, oppure solo esseri umani, come colui. Questi sono semplici esempi di come la categorizzazione concettuale della realtà influen­ zi l'organizzazione della lingua, e il prossimo capitolo esaminerà le principali dimensioni nelle quali le differenze di significato condi­ zionano opposizioni grammaticali. A monte di queste nozioni, c 'è però un altro tipo di caratterizzazione del significato dei nomi, molto 35

più generale, e che riaffiora regolarmente nella lunga storia dei ten­ tativi di definire la concettualizzazione di base espressa dai nomi: si tratta dell' idea che i nomi esprimano un significato che è, nella la­ conica formulazione di Aristotele (Dell'interpretazione, capitolo 2) "senza tempo". Secondo un' interpretazione strettamente grammaticale, questo sta­ rebbe a significare che i nomi, intesi come classe di parole in una lin­ gua, non sono sensibili a una categoria flessiva come quella del tem­ po per i verbi ( più modernamente, del complesso di tempo, modo e aspetto ) . Ma oggi è risaputo che una caratterizzazione di questo tipo non vale globalmente, perché ci sono lingue in cui i nomi esprimo­ no informazioni di anteriorità, contemporaneità o posteriorità, non solo come semplice concordanza con il verbo finito della frase, ma di per sé stessi. Si tratta di un fenomeno minoritario, ma non ecceziona­ le, di cui la tradizione grammaticale classica non poteva tenere conto perché presente soprattutto nelle lingue dell'America del Nord e del Sud, in Australia e in certe lingue africane come il somalo. Come illustrazione, consideriamo l'esempio ( s ) nella lingua amazzonica ta­ riana ( arawak ) , tratto dalla rassegna di Nordlinger e Sadler (20 0 4 ) con glosse leggermente semplificate : hi waripere (s) kayumaka così Walipere questo.ANIMATO di-kakwa-pidana unyane-pena diluvio-FUTURO 3sg.masc-preparare-PASSATO "Così questo Walipere preparava il diluvio a venire" Il suffisso -pena su unyane-pena esprime posteriorità, anche se il pre­ dicato verbale della frase è al passato ; unyane-pena vale quindi "dilu­ vio venturo". Così anche dapana "casa': combinato con -pena e con il prefisso possessivo di seconda persona singolare, risulta in pi-ya­ dapana-pena "la tua futura casa': e il prestito correio "ufficio posta­ le", più il suffisso nominale passato -miki (e il maschile -ri) diventa correio-miki-ri "ex ufficio postale". La mancanza di una categoria flessiva di tempo, quindi, non è un cri­ terio di nominalità. Tuttavia, l' intuizione secondo cui la temporali-

tà distingue il verbo dal nome, o per meglio dire il predicato (verba­ le) dal soggetto (nominale), va più in profondità. L' interpretazione nominale prototipica come oggetto concreto corrisponde a una no­ zione di entità che resta stabile nel tempo, non nel senso che non è soggetta a cambiamenti, ma nel senso che la sua identità resta stabile attraverso i cambiamenti nel tempo : espressioni come "ex ufficio po­ stale" o "ex moglie" si riferiscono a entità che hanno perso nel tempo la proprietà di essere un ufficio postale o il ruolo di moglie, ma resta­ no gli stessi individui. Questo aiuta a capire perché in lingue come l' italiano e l' inglese la prefissazione con ex sia possibile soprattutto con denominazioni di ruolo e funzione, come "ufficio postale", "mo­ glie': "presidente': "soldato". Lingue come il tariana estendono consi­ derevolmente questo tipo di modificazione temporale, per esempio in nomi dalla struttura "aquila-PASSATo", che Nordlinger e Sadler (200 4 , p. 7 80) traducono come «the remains of the eagle (lit. the "ex-eagle") » , e che non esprimono un ruolo o una funzione. Que­ ste forme indicano l'estensione di un'entità nel tempo : non "la cosa che era una casa (e adesso è qualcos'altro)", ma "la cosa che era un' a­ quila (e che non esiste più)". C 'è poi una classe particolare di nomi che descrivono entità definite da uno stato limitato nel tempo : per esempio, ragazzo descrive uno stadio nello sviluppo di una persona, ed evaso si riferisce a una persona in quanto partecipante (agente) di un'evasione. In casi come questi, il significato del nome localiz­ za nel tempo l'evento o lo stato, e rende possibili strutture come i fuggitivi sono in questo momento di nuovo in prigione, dove l'unico modo per riconciliare "fuggitivi" e "in prigione" sta nell' interpretare l'evento di fuga come anteriore al momento presente dell'enuncia­ zione. Tra le lingue che esprimono morfologicamente la determina­ zione temporale dei nomi, il somalo spicca perché questa compare sul suffisso che ha la funzione di articolo determinativo : così «hai visto la mostra ? » può avere come complemento oggetto bandhig­ gii "mostra-la.PASSATo" oppure bandhig-ga "mostra-là'; nel primo caso, si intende che la mostra è finita, nel secondo è ancora in corso, anche se l'azione descritta dal verbo ha luogo comunque nel passato ( ivi, p. 7 8 6 ) . Se, oltre a concetti di entità stabili nel tempo, i nomi esprimono 37

anche (meno prototipicamente) concetti come mostra, o guerra, o appunto evento ci si può chiedere legittimamente se questo progres­ sivo allontanamento dalla nozione centrale di oggetto concreto non finisca per eliminare ogni distinzione tra i possibili significati dei nomi e dei verbi. L'obiezione è molto seria, e rivela una debolezza di fondo nella concezione dei nomi come prototipi ca espressione di oggetti concreti. Si tratta di una difficoltà già riconosciuta da Tom­ maso d'Aquino nel suo commento a Dell'interpretazione (libro I , lectio IV, paragrafo 4 2): perché Aristotele dice che il nome si diffe­ renzia dal verbo ed esprime il suo significato «senza tempo » , visto che ci sono nomi come giorno e anno? Tommaso risponde che, in quanto entità (res quaedam, "una qualche cosà'), non solo i referenti di giorno e anno, ma anche di tempo possono essere espressi da un nome. Ciò che viene misurato sull'asse del tempo è in primo luogo il cambiamento (motus ), distinto nelle due categorie grammaticali tradizionali di actio e passio, cioè evento agentivo o esperienziale ; ed è questo il significato dei verbi, in contrapposizione a quello dei nomi. Già Prisciano (Istituzioni, VI I I , paragrafo 9 1 ) aveva distinto nel termine armatus l' interpretazione come participio del verbo armor ( ''colui che è stato armato"), che esprime un evento subito (passio) e si riferisce al passato, da quella come nome (''soldato che porta le armi"), che non esprime né passio né tempo. Tommaso non esplicita in che senso un nome come anno o tempo sia una "sostan­ za considerata come tale" che non può essere misurata sull'asse del tempo, al pari di cane; ma sembra chiaro che né anno, né tempo, né evento concettualizzano "cambiamenti" attribuiti a delle entità. Nomi come guerra o incontro indubbiamente denotano eventi che si dispiegano nel tempo, e che coinvolgono delle entità come parteci­ panti; ma il fatto di esprimere queste nozioni con un nome permet­ te di dire, per esempio, "la guerra durò sei anni" o "l ' incontro durò due ore", come se guerre e incontri fossero entità in sé complete che persistono e durano appunto attraverso il tempo, invece di eventi le cui parti si susseguono e si accumulano fino ad arrivare alla tota­ lità dopo un certo periodo. Quel che avvicina significativamente il senso di espressioni nominali al senso di espressioni verbali non è

propriamente il riferirsi a qualcosa di esteso nel tempo, ma piuttosto l'espressione di un evento come relazione tra partecipanti: è quanto avviene in nominalizzazioni come smarrimento in lo smarrimento del portafoglio, che nominalizza la struttura verbale smarrire il por­ tafoglio ( a differenza dell 'accezione non basata su una struttura ver­ bale, come uno smarrimento momentaneo). I nomi derivati da verbi in questo modo sono, in effetti, molto vicini all 'uso di verbi con funzione di sostantivo nella forma nominale del loro paradigma, e cioè nell ' infinito. È questo, dunque, il terreno di incontro tra le ca­ tegorie del nome e del verbo.

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Analisi e classificazione del contenuto dei nomi

3.1. Categorie, grammatica e variazione tra le lingue

Il capitolo precedente ha esplorato i rapporti tra nominalità e co­ gnizione. In questo capitolo ci concentriamo invece sul significato , dei nomi sotto l aspetto più propriamente linguistico, prendendo in esame le principali categorie di significato. Lo scopo non è es­ senzialmente diverso da quello che motiva l'analisi grammatica­ le tradizionale, e che consiste nel classificare un nome (o meglio, un'occorrenza di un nome in un dato contesto) per mezzo di una serie di opposizioni: comune o proprio, concreto o astratto, indi­ viduale o collettivo, numerabile o non numerabile, per seguire la ricca e accuratamente strutturata grammatica scolastica di Sensini (2010, p. 8o ), a cui si aggiungerà qui la categoria dei nomi relazio­ nali. Naturalmente, anche categorie grammaticali come il maschile e il femminile poggiano su un'opposizione concettuale ; ma queste categorie, malgrado la loro etichetta, in realtà corrispondono solo indirettamente a categorie interpretative (il femminile non deno­ ta sempre esseri animati di sesso femminile, singolare e plurale non esprimono sempre unità e molteplicità e così via). Di loro ci occupe­ remo separatamente, nel capitolo S · Le categorie discusse in questo capitolo corrispondono invece di per sé a interpretazioni distinte. Ciò non vuoi dire che corrispondano a tipi distinti di entità, ma piuttosto a modi linguisticamente media­ ti di rappresentare un contenuto. Per esempio, il contrasto trafoglie (plurale, numerabile) e fogliame (singolare, non numerabile) espri­ me grammaticalmente due concettualizzazioni distinte. Rispetto a un'analisi tradizionale, che spesso dà per scontata un' idea intuitiva di cosa vogliano dire queste categorizzazioni, si cercherà di esplicitare il loro contenuto da una prospettiva il più possibile generale, incen­ trata sull' italiano ma tenendo presente che questa è una particolare 40

realizzazione storica delle categorie soggiacenti al linguaggio e alla cognizione. In particolare, è opportuno ricordare che parole appa­ rentemente simili possono celare concettualizzazioni diverse. L' in­ glese information, che sembra la diretta traduzione di informazione, in realtà si usa come nome non numerabile, e quindi si potrà dire the age oJ information "l'era dell' informazione" oppure a piece oJ infor­ mation "un' informazione" ma non *an information. In casi del genere, le parole variano ma le categorie grammaticali restano le stesse (numerabilità, numero singolare o plurale). Na­ turalmente, però, non tutte le lingue organizzano i loro nomi per mezzo delle stesse categorie, né una categoria che sembra la stessa ha esattamente il medesimo valore. In arabo, nozioni come "lacrime': "mucche", "uova': "piccioni': "mosche", "onde" e moltissime altre sono espresse per mezzo di nomi collettivi, nei quali la forma non modificata del nome designa una molteplicità di oggetti, e per rife­ rirsi a un'unità è necessaria una forma del nome fornita di un suffisso individualizzante (cfr. PAR. 5 .3). Ma la forma non suffissata non è la versione plurale di quella suffissata nel senso in cui mucche è il plura­ le di mucca in italiano, se non altro perché quella suffissata ha già il suo plurale, perfettamente regolare e numerabile : un esempio tratto dallo standard moderno è baqar-a "singola mucca", forma suffissata singolare, con il suo plurale baqar-aat "mucche (individualmente)", entrambe basate sulla base non-suffissata baqar "mucche (non indivi­ dualmente)". Non solo : a volte, la forma collettiva, o non-individua­ le, possiede essa stessa un plurale distinto, spesso con valore intensi­ vo : nel dialetto di Damasco, per esempio, moo:i "onde (collettivo)" ha il plurale amwaa:i "onde (molte e grandi)". In questo esempio, è legittimo parlare ancora in termini di singolare, plurale o collet­ tivo, ma con l'avvertenza che queste etichette non hanno in arabo esattamente lo stesso valore che in italiano. In altri casi abbiamo a che fare con categorie grammaticali di natura diversa; è il caso delle classi nominali ( PAR. 5 .2.3), che in molte lingue suddividono i nomi in un numero variabile di classi (fino a una ventina) con morfologia distinta, e che raggruppano nomi sulla base di categorie di senso più o meno ben definite. Se si allarga ulteriormente lo sguardo alle lingue che esprimono nomi per mezzo di classificatori ( PAR. 3.3.2), associa41

ti a nozioni come "essere umano" o "animale domestico': ma anche "di forma allungata", ci si rende conto che le categorie di significato grammaticalmente rilevanti nelle lingue europee non esauriscono certo le possibilità del linguaggio umano. Detto questo, distinzioni come quella tra nomi propri e comuni, o in termini di numerabilità e individuazione, sono centrali per ogni sistema linguistico.

3.2.

Nomi propri e nomi comuni

3 . 2.1. Descrivere e identificare Non è un caso che in italiano e in molte altre lingue ( ma non in inglese) lo stesso termine "nome" de­ signi sia una categoria lessicale, cioè un concetto grammaticale, sia quel che si intende di solito per nome proprio, che è un concetto del linguaggio comune. Non c'è certamente bisogno di spiegare co­ sa si intenda in questo secondo senso, tanto è fondamentale r idea di identificare qualcosa con un contrassegno stabile che permetta di parlarne e che ne garantisca la re-identificabilità in occasioni succes­ sive ( per esempio, a differenza di lui o quella cosa la). È per questo motivo che, come abbiamo visto nel capitolo 1, Serianni (1 989, p. 8 7 ) sottolinea l'universalità del nome come uso di elementi linguistici con lo scopo di nominare e di identificare. Da questo punto di vista, la nominalità è un modo di usare certi oggetti linguistici, invece di una loro proprietà immanente ; e così come il capitolo 2 ha mostrato che ogni lingua ha delle strutture nominali che designano referenti del discorso caratterizzati come tipi di entità, ogni lingua usa elemen­ ti linguistici per identificare direttamente un'entità, nominandola. Se i nomi specializzati in questa funzione sono detti "propri", tutti gli altri saranno "comuni". Una formulazione classica di questa distinzione vede nei nomi co­ muni espressioni designanti una classe (cane), e nei nomi propri espressioni designanti un individuo particolare (Fido). Non bisogna però interpretare questa formulazione semplicisticamente, come se dicesse che i nomi comuni significano "molti" e quelli propri "uno": se è vero che cane si adatta alla descrizione di uno qualsiasi tra molti cani, presenti, passati o futuri, esistenti o possibili, il significato di pa-

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role comunissime come sole, cielo o amore, ma anche acqua ofortuna, non è concettualizzato come la designazione di una molteplicità di individui. Naturalmente quello che importa non è se esista o meno un solo referente, né se solo uno sia pensabile ; la questione può essere irrilevante, come per sole, o addirittura priva di significato, perché nomi come acqua (concreto) o amore (astratto) semplicemente non definiscono in modo univoco una nozione di individuo. Ciò che ren­ de i nomi comuni designazioni di una classe, invece, è il loro valore descrittivo. Immaginiamo di spiegare il significato di questi nomi a qualcuno che non li conosca, senza poterli semplicemente tradurre nella sua lingua: solo in certi casi si potrà procedere ostensivamen­ te, mostrando delle istanze di referenti (''questa è acquà: "quello è il sole") ; ma in tutti i casi si potrà cercare di dare una descrizione basata sull'aspetto, la funzione, la costituzione, l'origine e altre caratteristi­ che del tipo di entità designato dal termine, che aiutino l' interlocu­ tore a farsene un concetto il più possibile simile a quello che ne ha il parlante. In questo senso, quindi, un nome comune è associato a una serie di proprietà, che descrive il tipo di entità a cui si può applicare. Un tipico nome proprio è ben diverso. Se a uomo è associata una rete di conoscenze che globalmente identificano un concetto, e che si possono (in parte) esplicitare tramite una descrizione, il nome Socra­ te non descrive nessuna proprietà, se non quella di essere identificato, appunto, da questo nome. Volendo essere più precisi, in realtà la scel­ ta di un nome piuttosto che un altro comporta quanto meno delle implicazioni, come per esempio quella che un individuo chiamato Socrate sia umano e maschile, o che uno chiamato Fido sia un cane. Si tratta però di convenzioni sociali, in ogni caso di valore parziale, perché si applicano solo a certi referenti (non per i nomi geografici, per esempio), ma comunque di valore ben diverso dal significato dei nomi comuni: affermare che un gatto è un cane vuoi dire o afferma­ re il falso o non conoscere il significato di quella parola in italiano, mentre chiamare il proprio gatto "Fido" potrà tutt'al più violare del­ le aspettative, ma non per questo denota una mancata conoscenza della lingua e del suo lessico. Non a caso, i dizionari di solito non includono i nomi propri nell' inventario del lessico di una lingua, a meno che non abbiano un referente unico e siano di uso generalizza43

to come certi nomi geografici. Il punto è precisamente che riferirsi a cani e non a gatti è una componente centrale del significato (conven­ zionale) del nome cane; mentre essere utilizzato per un cane non fa parte del significato della parola Fido, ma è piuttosto una convenzio­ ne relativa al suo uso. In questo senso i nomi comuni, anche quando non siamo in grado di specificare i termini della descrizione (come descrivere cos'è un cielo?), hanno un contenuto descrittivo che rende possibile usarli in funzione predicativa, come in questo e un cane. La funzione dei nomi propri è invece di identificare un referente, senza descrivere il tipo di entità di cui è un' istanza. Basta sostituire "classe" a "tipo di entità" in quest'ultima frase per capire in che senso si possa affermare che i nomi comuni denominano non direttamente un in­ dividuo, ma una classe. La distinzione di fondo tra identificazione e descrizione ha svolto un ruolo importante nella filosofia del linguaggio degli ultimi decenni, prendendo l'avvio dalla teoria di Kripke (19 7 2) secondo cui i nomi propri differiscono irriducibilmente dalle descrizioni nel rapporto che intrattengono con i loro referenti. Senza pretendere di esporre in poche parole un tema filosofico importante e complesso, possiamo illustrare i termini di base del contrasto considerando il nome Dante Alighieri e la descrizione l'autore della Divina Commedia. Supponia­ mo di essere d'accordo sul fatto che entrambi si riferiscano alla stes­ sa persona. Naturalmente l'autore del poema avrebbe potuto essere un'altra persona, per cui la descrizione si riferisce a Dante secondo ciò che sappiamo, ma di per sé potrebbe benissimo riferirsi ad altri. D 'altro canto non ha senso, a quel che sembra, chiedersi se la persona identificata come Dante Alighieri non potrebbe essere un'altra perso­ na, se cioè Dante non avrebbe potuto essere identico a un individuo diverso da Dante ; Dante non avrebbe potuto essere altri che Dante. Dunque, quando un nome proprio viene usato come etichetta per una persona, identifica quell' individuo una volta per sempre, in ogni possibile e ipotetico stato di cose o "rigidamente". Ovviamente un individuo che porta un nome avrebbe potuto portarne un altro ; ciò che è in questione è la variabilità o l' invariabilità dell ' identificazione, e la tesi sostiene che un nome identifica un referente una volta per tutte e non ammette identificazioni alternative, nella misura in cui 44

è un nome proprio e non una descrizione ( se lo stesso bambino nel 1 26 5 fosse stato battezzato come "Pippo': il nome Dante non avrebbe identificato quella persona) . Sembra quindi che la distinzione tra de­ scrizione e identificazione fornisca una base solida per interpretare le differenze nell'uso dei nomi. 3 .2.2. I nomi propri come espressioni linguistiche Abbiamo parlato dei nomi propri come se fossero una sottocategoria del lessico ben delimitata e costituita da espressioni prive di significato descrit­ tivo. In realtà non è sempre così. Inoltre, non si è ancora menzionato il fatto che un unico nome proprio spesso si applica a più di un'entità ( ci sono diverse persone chiamate Carlo) e che una stessa entità può avere più di un nome. Per mettere a fuoco le due funzioni abbiamo quindi fatto astrazione da una serie di circostanze, che devono però essere prese in considerazione ai fini dell'analisi grammaticale. Anzitutto, ripartire il lessico nominale in queste due categorie può essere fuorviante. A rigore, quel che definisce un nome proprio è la sua funzione di identificatore, non un qualche contrassegno forma­ le. In linea di principio, qualsiasi espressione può fungere da nome proprio in questo senso. Se una data situazione rende facile o efficace identificare un referente del discorso tramite la sua provenienza geo­ grafica o il suo posto in una sequenza, si potrà dire "entra in campo il numero tre" o, in un contesto adatto, "così disse coi-baffi a senza­ baffi". Ma espressioni di questo tipo richiedono ambiti particolari, mentre per altre l'uso comune sancisce un' interpretazione primaria come nome proprio indipendentemente dal contesto : Giuseppe, Pin­ co Pallino o Serbelloni Mazzanti Viendalmare appartengono a questa categoria ( notare che la possibilità di combinare i nomi tra loro in nomi complessi comporta che non si possano realisticamente elen­ care tutti i nomi propri disponibili nella comunità, a differenza di quelli comuni ) . È vero, quindi, che in una data cultura alcuni nomi sono primariamente propri e altri sono primariamente comuni, ma resta il fatto che ogni nome, e al limite ogni espressione, può fungere da nome proprio. In secondo luogo, però, anche nomi "intrinsecamente" propri pos­ sono essere usati come portatori di un contenuto descrittivo, con la

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distribuzione sintattica di nomi comuni. La rianalisi prende valori anche molto diversi, come in un ercole, novello Icaro, un Beethoven passabile, o l'Alberto di cui parlavo. Nei primi due casi il nome di per­ sona X viene a indicare "una persona dalle caratteristiche di X"; nel terzo, il nome assume metonimicamente il valore di ciò che nel sa­ pere enciclopedico condiviso dai parlanti si presume associato alla persona indicata, qui la musica; nel quarto, infine, tra le varie inter­ pretazioni possibili spicca quella in cui il nome vale "individuo di nome X". Si tratta, come si vede, di estensioni che aggiungono un contenuto descrittivo a nomi ancora sentiti come denominazioni di individui specifici, diversamente da casi come machiavello nel senso di "trucco, raggiro" (citato da Serianni, 19 89, p. 88). Gli esempi appena menzionati hanno già introdotto l' importan­ te tema della relazione tra funzione di nome proprio e costruzione sintattica, con l'articolo che accompagna un ercole o l'Alberto, o an­ che il plurale di tre Marie. Prima di considerare questo aspetto nel prossimo paragrafo, aggiungiamo come terza osservazione che non è affatto necessario che una lingua possieda una categoria a parte di nomi (primariamente) propri, privi di contenuto descrittivo. Nel sistema latino, il cognomen era una parte integrante del nome pro­ prio ma era almeno originariamente una qualificazione descrittiva, come "dal naso grosso"; lo stesso vale per le designazioni del tipo di "Harald bella-chioma". Anche l' inserzione di un patronimico, a ben vedere, comporta l'aggiunta di una descrizione in quanto "figlio" o "discendente". Non solo, ma l' intero nome può essere formato da ele­ menti di per sé descrittivi, come "tasso-che-saltà: o etimologicamen­ te "passo-di-lupo" per Wolfgang. L'essenziale è che, usate come nomi propri e quindi come identificatori, queste espressioni assumono un valore diverso. Un uomo soprannominato Nasone può avere il naso piccolo, senza che questo comporti la falsità di un enunciato come invece l'asserzione "quest 'uomo ha il naso grosso". Ma non c 'è biso­ gno che il valore della descrizione sia soppresso, perché in ogni caso descrizione e identificazione stanno su piani diversi. Quindi ci pos­ sono essere nomi "parlanti" come citta-di-Ho-Chi-Minh o citta-di­ Sta/in (Stalingrad), e addirittura ci si può riferire al valore descrittivo e a quello identificativo nello stesso tempo, come nella frase (dovuta

a Willard van Orman Quine) «Giorgione fu chiamato così a causa della sua statura » . L'essenziale è che quel che viene identificato da questi nomi non dipende dal significato delle descrizioni che incor­ porano, certamente non nel senso in cui il riferirsi a un gatto dipende dal senso della parola gatto. Ancora una volta, distinguere l' identifi­ cazione dalla descrizione aiuta a comprendere meglio i fatti linguisti­ ci, in questo caso il fatto che i nomi propri non siano universalmente privi di contenuto descrittivo. 3 .2.3 . Collocazione sintattica

È la differenza sintattica tra

quell'uomo e Ercole e quell'uomo e un ercole, o tra conosco Maria e co­ nosco tre Marie, l' indizio immediato del diverso valore delle espres­ sioni Ercole e Maria. Sembra quindi che la funzione identificativa dei nomi propri vada di pari passo con una sintassi particolare, più precisamente con l'assenza di determinanti (articoli, dimostrativi ed espressioni di quantità come tre o molti) e con il numero singolare. C 'è molto di vero in questa caratterizzazione, e in questa prospetti­ va si comprende anche meglio che nomi comuni usati in funzione di propri comportino tipicamente l'eliminazione dell 'articolo : è il caso di esempi inglesi (soprattutto americani) come Congress has voted "il Congresso ha votato", oppure Company A pulled back "la compagnia A si è ritirata". In italiano si possono citare costruzioni come mamma oca o compare orso, dove i nomi comuni diventano parte di un nome proprio complesso (paralleli a zia Amelia o com­ pare Onoftio ) . Si può notare che i nomi che permettono quest 'uso sono anche quelli che si utilizzano più spesso al vocativo ; c 'è uno stretto legame, come si può immaginare, tra vocativo e identifica­ zione di un individuo. Se però Compare orso vale sia come vocativo che come nome pro­ prio complesso, cosa pensare di il signor Orso? Data la presenza dell 'articolo, l'espressione non può essere usata come vocativo, ma a parte questo non sembra apprezzabilmente diversa da com­ pare Orso. A ben guardare, infatti, la relazione tra essere un nome proprio e la mancanza di determinante non è così stretta. Esempi come la Pagnoni e, nelle varianti settentrionali dell ' italiano, il Pie­ ro, o anche il burocratico il Fumagalli, ci mostrano che l'articolo 47

può accompagnare un nome proprio anche quando quest 'ultimo non è re-interpretato come nome comune ( a differenza di un 'altra Pagnoni) . In tutti questi casi, l'articolo non è una parte integrante del nome, dal momento che quest ' ultimo si può usare da solo. Ma esempi come L:Aia, o in francese le Havre ( dove le funge effetti­ vamente da articolo, come mostra le port du Havre), indicano che l' articolo può essere parte integrante di un nome. Non solo : tra i nomi geografici troviamo anche nomi plurali, come Cannae in latino, o, assieme all 'articolo, le Alpi, les Champs Élysées, the Ne­ therlands. Per fare un ultimo esempio, marzo è intuitivamente un nome proprio, e come tale viene utilizzato senza articolo ; ma ogni tipo di modificazione impone di usarlo con la sintassi di un nome comune (nel marzo scorso, un marzo piovoso) , come del resto suc­ cede, e non solo in italiano, quando si aggiungono delle modifiche a qualsiasi nome proprio, come la Roma che conoscevo o l 'Obama di oggi. A differenza che in un ercole, che indica "una persona come Ercole", in questi casi il referente del nome rimane lo stesso, ma la modificazione restringe l' interpretazione rimandando a un aspetto particolare tra altri possibili. Si dovranno naturalmente distinguere meglio i sensi di Roma in Roma e la capitale d'Italia e in la Roma dei papi, ma per inquadrare la posizione dei nomi propri tra i nomi possiamo fermarci qui.

3·3·

Nomi numerabili e nomi non numerabili

L'opposizione tra nomi nu­ merabili e non-numerabili non risale alla tradizione grammaticale classica, ma si è largamente imposta a partire dalle riflessioni filoso­ fiche e linguistiche del xx secolo. L' idea di base è molto semplice : certi nomi designano entità individuate, che si possono isolare a una a una ed enumerare, come cane o libro; altri designano entità che non si possono enumerare, o perché non sono empiricamente individua­ te, come acqua oppure ossigeno, o perché non sono concettualizzate in termini di individui, come sabbia o uva ( che pure consistono di elementi discreti, ognuno dei quali si può considerare separatamente 3 ·3·1 · Il contenuto della distinzione

in linea di principio, se non in pratica). Gli esempi più chiari di entità individuate sono oggetti concreti, ma la lingua tratta come numera­ bili anche concetti come idea, ora, azione, evento, o i nomi che descri­ vono eventi, come incontro. Possiamo dire un cane o tre idee ma non *una sabbia o *tre ossigeni; ogni libro, qualche ora ma non *ogni acqua, *qualche sangue; mangiare i torte/lini a uno a uno ma non *mangiare la pasta a una a una. Schematicamente, quindi, certi concetti sono individuali, i loro referenti si possono distinguere ed enumerare e i nomi che li designano si possono usare in certe strutture grammati­ cali, mentre altri no. Per merito soprattutto della ricerca degli ultimi anni, oggi sappia­ mo che un'opposizione così semplice non riflette l'organizzazione della lingua. A parte l' intera questione dell'applicabilità di questa distinzione a sistemi linguistici eterogenei, a impedire l'uso della numerabilità come tratto discriminante per categorizzare il lessico nominale c'è anzitutto il fatto che lo statuto di numerabile dipende molto più di quanto si pensasse in passato dall'accezione in cui si usa un termine : acqua non sembra numerabile, ma possiamo usare tre acque per parlare di un'ordinazione al bar, oppure di marche di acqua minerale ; l'astratto bellezza non designa una classe di individui, ma possiamo riconoscere questa interpretazione in frasi come ho intervi­ stato tre bellezze una dopo l'altra; più insidiosamente, possiamo usare informazione come termine non numerabile (un simbolo che porta meno informazione) ma anche numerabile (vorrei un 'informazione, ho ricevuto tre informazioni riservate), senza che il senso cambi così chiaramente come con bellezza. Resta molto utile poter distinguere tra nomi diversi, o sensi diver­ si, in termini di numerabilità; ma per far ciò è necessario anzitutto chiarire che questa nozione ha un lato grammaticale e un lato con­ cettuale, e che inventariare le strutture grammaticali con cui una lin­ gua esprime la numerabilità non è la stessa cosa che esaminare i tipi di significato che definiscono una concettualizzazione. In Word and Object, Quine (19 6 0, pp. 9 0-100) individuò nella nozione di "divi­ sione del dominio di riferimento" l'aspetto fondamentale del signi­ ficato dei termini numerabili. Conoscere il significato di mela vuoi dire, tra le altre cose, poter valutare se un dato oggetto dell'esperien49

za è una mela intera, oppure una sua parte, oppure più di una mela. L'apprendimento e l'uso di acqua, invece, non comportano cono­ scenze del genere. In questo senso solo mela comporta un criterio per suddividere in unità individuali ciò di cui la descrizione può essere vera (il dominio di riferimento). Acqua, invece, ha un tipo di riferi­ mento che Quine definisce cumulativo : se un'entità X è acqua, pos­ so aggiungervi un'altra entità Y che è ancora acqua, e avrò sempre qualcosa (X+ Y) che risponde alla stessa descrizione, cioè acqua. Se invece ho una mela, e la unisco a un'altra mela (o a più mele, o a pezzi di mele), l'entità risultante non si potrà chiamare mela, se mai mele al plurale, ma solo se è interamente scomponibile in individui distinti. Questa classica analisi ha molte importanti implicazioni, tra cui spicca l' idea (oggi in larga parte smentita dalla psicologia sperimen­ tale) che il bambino in fase prelinguistica non possa concettualiz­ zare individui come tali, ma solo come percezioni indifferenziate (''more mama': come dice Quine, cioè "più mammà'). Qui importa piuttosto che Quine abbia modellato la nozione di non-numerabi­ lità su nomi che descrivono entità concrete, estese nello spazio (per esempio, acqua). Come sappiamo, però, lo stesso comportamento grammaticale è proprio di nomi come filosofia, amore o coraggio, in una data interpretazione, che semplicemente non descrivono entità a proposito di cui si possa chiedere se un pezzo più un altro pezzo siano ancora descrivibili con lo stesso nome. In realtà, interpretare la distinzione di numerabilità in termini così concreti e fisici oscura la comprensione globale della nozione, perché ci impedisce di vedere chiaramente la differenza concettuale tra il dire la filosofia e alcu­ ne filosofie. Quine stesso, inoltre, tiene ben presente il fatto che lo stesso termine abbia spesso (soprattutto in inglese) più di un' inter­ pretazione : mela può stare a significare non un oggetto individuale definito da una certa forma, colore e altre proprietà, ma solo la so­ stanza materiale di cui è composto ; per cui si può dire c 'e della mela nell'insalata (in italiano un esempio più idiomatico potrebbe essere c 'e troppa cipolla). In conclusione, ricondurre la concettualizzazione individuale a proprietà di oggetti concreti è per molti aspetti illumi­ nante, ma non può definire il significato della numerabilità. Distin­ guendo chiaramente tra individuazione concettuale e i suoi riflessi

so

linguistici, possiamo ora concentrarci sulla numerabilità come feno­ meno grammaticale. In primo luogo, i nomi che de­ signano individui possono essere quantificati da un numerale car­ dinale : questa è la motivazione centrale per chiamare "numerabili" i nomi che la terminologia inglese chiama count, contrapposto a mass ( in italiano "nomi di massa", per esempio nel GRADIT, s.v. no­ me). Contare delle entità, nel senso preciso di stabilire la cardinalità dell ' insieme, consiste nel porre ogni entità in una relazione uno-a­ uno con un elemento della progressione aritmetica che corrisponde alla serie dei numeri naturali; per fare questo, deve essere chiaro in cosa consiste un'entità intera, piuttosto che una parte, e ogni entità deve essere ben distinta dalle altre, per non contare più volte la stessa. In altri termini, il nome che definisce il tipo di entità da enumerare deve definire un individuo. Ciò che vale per numeri semplici come 3, 4 o 9 vale anche per numeri complessi come 1.239; ma a questo proposito bisogna notare che un certo tipo di numeri cardinali ha un significato di "grande quantità'', e in questi casi la modificabilità da parte di un numerale non implica veramente individualità, come in cento cose dafare o mille pensieri. Molto vicino a quest 'uso è il valore di espressioni come mille e mille, oppure migliaia l dozzine di X, che non specificano un valore numerico preciso. Almeno in italiano, pe­ rò, anche questo tipo di modificazione numerale richiede solitamen­ te un nome che sia modificabile da un numerale semplice, tranne che in casi come migliaia e migliaia di truppe di terra ( che contrasta con l' inaccettabile *23 truppe) . Prima di passare ad altre strutture grammaticali che discriminano sulla base della numerabilità, bisogna ricordare che proprio con i numerali sono particolarmente frequenti in molte lingue del mon­ do i cosiddetti "classificatori". Con questo termine ci si riferisce a marcatori di individualità distinti dal nome a cui si accompagnano, con funzione simile ( non identica ) a quella difilo in un filo d'erba o teste in tre teste di aglio: esprimono cioè delle unità standard che possono essere contate. Mentre filo e testa sono però grammatical­ mente dei nomi a tutti gli effetti, e quindi il nome che prendono 3 .3.2. Differenze grammaticali

SI

come complemento (erba, aglio) è introdotto dalla preposizione di, i classificatori sono invece dei morfemi grammaticali, che si combi­ nano ai nomi secondo grandi categorie di significato come "essere umano", "essere animato", "contenitore", o anche categorie che sem­ brano strane se giudicate dalla prospettiva di un 'altra cultura, come "relativo all'acquà' oppure "di forma semicircolare". Generalizzan­ do, si tratta di categorie che hanno a che fare con l' animatezza, la collocazione sociale, l' aspetto e la funzione. In pratica, in queste lingue tutti i nomi sono non-numerabili, perché tutti necessitano la mediazione di un "divisore" (per così dire) quando compaiono in una struttura che richiede individuazione. Senza addentrarci in questo tema ampio e affascinante, possiamo illustrare l'uso dei clas­ sificatori con i numerali (che non è l'unico) con due esempi, rispet­ tivamente dalla lingua amazzonica yucuna parlata in Colombia e dalla lingua dravidica malto parlata nell' India nordorientale (tratte da Aikhenvald, 20 0 0, pp. 1 0 6 e 1 1 2; il classificatore, abbreviato C L nelle glosse, nel secondo esempio è suffissato al numerale) : maq o:ydu malto (dravidico) (I) a. tini tre CL.INANIMATO mucca "tre mucche" yahui yucuna (arawak) b. pajluhua-na uno-CL.ANIMATO cane un cane, "

"Mucca" e "cane" sono concetti che di per sé definiscono un indivi­ duo, eppure queste lingue richiedono un'espressione grammaticale di individualità per poter enumerare i nomi corrispondenti. Questo non vuoi dire che i parlanti non siano sensibili, per così dire, alla dif­ ferenza tra questi concetti e altri come "acqua". Al contrario, ci sono di solito classificatori appositi che hanno la funzione di definire un'u­ nità da una massa, un po' come i nomi usati come unità di misura, anche non standard, come una cucchiaiata di zucchero. Questa è per esempio la funzione di mal in coreano, che come spiega Aikhenvald (2 o o o , p. 1 1 5 ) esprime specificamente una misura standard di vino di riso, makkeli: 52

(2)

makkeli han mal vino-di-riso uno CL.VINO-D I-RI S O "una misura di vino di riso"

coreano

Tra i numerali cardinali, l'espressione dell'unità occupa un posto spe­ ciale, e non a caso è spesso identica o imparentata con il determinante in funzione di articolo indeterminativo, se la lingua ne ha uno. La possibilità di ricorrere con l'articolo indeterminativo, quindi, denota lo statuto numerabile di un nome. Tuttavia, in questo caso la sempli­ ce co-occorrenza, come fatto distribuzionale, non basta a classificare i nomi in modo univoco. Si deve, infatti, tenere conto della relativa facilità con cui un nome altrimenti non numerabile ammette un' in­ terpretazione come varietà tra altre possibili varietà: acqua è non numerabile, ma non c 'è bisogno di interpretazioni particolari come marca o misura standard per legittimare un'espressione comunissima come un 'acqua piu pura. Lo stesso vale per un 'aria migliore o un 'altra aria, considerando che non ci sono tipi o misure standard di aria. La modificazione con numerali non è evidentemente l'unica costru­ zione che discrimina in base alla numerabilità. La pluralizzazione normalmente garantisce un' interpretazione numerabile, per il sem­ plice fatto che per avere una pluralità di individui bisogna partire da una nozione di individuo. Quindi, libro, idea e ora definiscono entità individuali, e i loro plurali designano insiemi di tali individui; invece sangue, latte e ossigeno concettualizzano unicamente in modo non­ individuale, e non sembra accettabile volgerli al plurale. È un dato di fatto, però, che siano ben pochi i nomi dall ' interpretazione così rigidamente non numerabile da non ammettere un plurale. Conside­ riamo un altro nome di sostanza comeformaggio: il plurale è di uso corrente e perfettamente comprensibile, ma in un senso significativa­ mente diverso, cioè come "varietà di formaggio". In questo modo si possono pluralizzare moltissimi termini che al singolare tendono ad avere un valore non individualizzante. Il valore preciso del plurale, cioè cosa può essere inteso come individuo di base in una pluralità, dipende da nome a nome :filosofie si riferisce a movimenti di pensiero individuati storicamente ; acque o birre a varietà commercializzate, o a misure standard come delle porzioni; eta a epoche (mentre al sin53

golare può voler dire "misura dell'anzianità", come in alla tua eta); oggi, criticita vale anche "problema': e come tale ammette il plurale, che invece non è compatibile con il senso "qualità o grado di essere critico". Il punto centrale è che moltissimi nomi sono numerabili in un senso ma non nell'altro ; il che porta ineluttabilmente alla conclu­ sione che a essere numerabile non è tanto un nome, quanto un senso di un nome, o meglio, un nome in un determinato contesto d'uso, che ne fa emergere una particolare interpretazione. C 'è però dell'altro a proposito di pluralizzazione e numerabilità. Ac ­ que non vuoi dire solo "tipi di acqua': ma anche qualcosa come "quan­ tità in commensurabile di acqua", come in le acque del cielo ma anche, più modestamente e concretamente, le acque del.fiume. Dei plurali di nomi di sostanza come le nevi eterne o le sabbie del deserto hanno in comune di denotare estensioni concrete, ma anche di comparire tipicamente con l'articolo determinativo, o comunque in contesti definiti piuttosto che indefiniti. Lo stesso sembra valere per inter­ pretazioni leggermente differenti, come le piogge nel senso di "eventi ripetuti di pioggià'. Ancora diverso è il caso dei pluralia tantum che sono anche non numerabili, come interiora o macerie, o dei casi non numerabili tra quei plurali che hanno un' interpretazione distinta da quella del singolare, come fondamenta o cervella. In tutti questi casi, sarebbe sbagliato prendere il plurale come un criterio di nume­ rabilità. Senza volerei addentrare nei dettagli di queste costruzioni, possiamo senz' altro concludere che il rapporto tra pluralizzazione e numerabilità è quanto meno indiretto. Se un nome è numerabile può apparire al plurale, ma non tutti i nomi al plurale sono numerabili. Assieme ai numerali cardinali semplici, le espressioni che più catego­ ricamente comportano numerabilità sono quelle il cui senso implica un' interpretazione distributiva, cioè dove il predicato si applica a ognuno di vari individui distinti. È chiaro che espressioni come a uno a uno, o uno dopo l'altro, o ciascuno si possono riferire a una serie di individui piuttosto che a una massa; lo stesso vale per reciproci come l'uno... l'altro. Per questo si può dire i mobili erano accatastati l'uno sull'altro ma non *la mobilia era accatastata l'una sull'altra, perché mobilia, pur denotando lo stesso referente di mobili, è una denomi­ nazione singolare collettiva e non fornisce a l'una o l'altra il senso 54

richiesto di individui che separatamente compongono la moltepli­ cità dei mobili. Ciascuno, in particolare, non funge solo da elemento correlativo, come in le mele costano IO centesimi ciascuna, ma anche da determinante (ciascuna mela); altri determinanti per loro stessa na­ tura numerabili sono ogni, alcuni e qualche, sempre con l'avvertenza che certi nomi non numerabili possono passare a interpretazioni nu­ merabili come "tipo di" in questi contesti; si può dire qualche capello, forse qualche acqua ( nella misura in cui si accetta un 'acqua in senso numerabile ) , ma non *qualche sangue. Determinanti non numerabi­ li, al contrario, sono molto, poco, parecchio se usati al singolare. Infi­ ne, un' interpretazione distributiva è associata a verbi come contare, elencare o enumerare, che per il loro significato mal si accordano con complementi oggetti come l'acqua o il vasellame. D 'altra parte, verbi come classificare descrivono la creazione di una pluralità, piuttosto che un'operazione su di essa, e sono compatibili con un'espressione singolare : per esempio, si può classificare il vasellame. Per concludere con un cenno comparativo, osserviamo che anche lingue che, come l' italiano, distinguono abbastanza nettamente tra singolari primariamente numerabili (porco) e primariamente non nu­ merabili (acqua), possono avere una sintassi diversa per questi termi­ ni. È il caso del latino, a quanto sembra di poter capire da strutture come [villa] abundat porco, haedo, agno, gallina, lacte, caseo, melle ( Cicerone, De Senectute 1 6, s 6), letteralmente " [ la villa ] abbonda in porco, capretto, agnello, gallina, formaggio, miele", laddove il verbo corrispondente italiano ( ma è allora davvero corrispondente ? ) ri­ chiederebbe un complemento non numerabile o plurale. Lo spagno­ lo conosce un uso simile, come in mucho turista "molto turista", nel senso di "molti turisti".

3·4· Nomi concreti e nomi astratti

Come per la catego­ ria precedente, la classificazione dei nomi come concreti o astratti ha radici da un' intuizione chiara e solida, e cioè che certi nomi si riferiscono a entità esperibili sensorialmente, e altri no. E anche in 3·4·1· Un'opposizione da relativizzare

ss

questo caso, una riflessione più approfondita ci mostra che l'oppo­ sizione è sì utile e appropriata, ma non permette una classificazione che renda piena giustizia ai fatti linguistici. Descrivere come "astrat­ tà' l' interpretazione di bellezza in la bellezza di questa citta e come "concreta" quella della stessa parola in bellezze al bagno è intuitivo e senza dubbio corretto ; ma questa banale osservazione non fa che mostrare, ancora una volta, che lo stesso nome può ricadere sotto più di una categoria di significato. Inoltre, le interpretazioni disponibili per ciascun nome non ricadono sempre in modo univoco e chiaro nell'una o nell'altra categoria. Prendiamo un caso esemplare come libro: l ' interpretazione come oggetto concreto è fondamentale, ma non bisogna dimenticare la distinzione tra tipo ( per esempio, un cer­ to romanzo, come creazione di un autore ) e istanza (un volume sullo scaffale ) ; in quanto tipo, il referente di libro non è certo un'entità estesa nello spazio o individuabile attraverso i sensi. Se poi conside­ riamo il significato preso da questa parola in espressioni come questi sono in realta due libri in uno, oppure piegare a libro, o l'argomento ri­ chiederebbe un libro, si può capire che suddividere i nomi in concreti e astratti è un compito molto meno semplice di come sembrerebbe a prima vista. Libro è un caso chiaro ; romanzo, molto simile, problematizza la di­ stinzione ulteriormente. Perché se è vero che un romanzo deve essere letto (o ascoltato ) per essere percepito, e quindi esperito sensorial­ mente, bisogna anche ricordare che il concetto di romanzo è indi­ pendente da quello di libro come oggetto concreto ; un romanzo non è necessariamente contenuto in un'entità che abbia continuità nello spazio e nel tempo, per esempio se appare a puntate in un giorna­ le. Passando a casi come .frase, l'ambiguità sempre latente tra tipo e istanza diventa un vero problema, e non per niente la filosofia del lin­ guaggio distingue tra frasi, proposizioni, enunciazioni ed enunciati; resta il fatto che il termine .frase, come elemento della lingua d'uso, non si può univocamente classificare come concreto o astratto. Perfi­ no criteri apparentemente solidi come l' esperibilità attraverso i sensi, o l'estensione nello spazio o nel tempo possono diventare problema­ tici se applicati a nozioni come elettrone, che pure fanno parte di una descrizione fisica della realtà.

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Invece di continuare l'esemplificazione con nomi via via più pro­ blematici ( pensiamo a insieme: se raggruppa oggetti concreti, è esso stesso un'entità concreta ? ) , sembra più proficuo constatare che la concretezza o l'astrattezza non caratterizza un nome di per sé, ma una sua interpretazione, corrispondente a un modo di concettualiz­ zare un'entità. A seconda del tipo di entità che descrivono, i nomi possono privilegiare concettualizzazioni più o meno concrete, e questo dipende dal tipo di concetto. Il concetto di libro esemplifica ciò che gli psicologi chiamano "concetti di livello base", che identifi­ cano entità esperibili e riconoscibili direttamente, di solito tangibili, ben individuate, di dimensioni medie rispetto all'essere umano, e in base alle quali altre entità sono categorizzate come tipi subordinati o sovraordinati. Per esempio, se i concetti di automobile e albero sono di base, quelli di s uv e di quercia sono subordinati, e quelli etichettabili come "veicoli a motore" e "vegetazione" sovraordinati. Come mostra questo esempio, i concetti di base sono tipicamen­ te espressi da un nome, cosa che non sempre succede con quelli di livello inferiore e, specialmente, superiore. In realtà è un falso pro­ blema se il nome animale sia da classificare come concreto ( perché si riferisce a esseri concreti ) o astratto ( come categoria che sussume molte nozioni concrete come cavallo o scarafaggio). In italiano, ci si può accontentare di dire che animale corrisponde a un concetto so­ vraordinato ad altri, che individuano esseri viventi concreti. L'oppo­ sizione tra concreto e astratto resta utile, ma solo una volta chiarito che i nomi non sono concreti o astratti così come sono parisillabi o imparisillabi. 3 .4.2. Due classi particolari : unità di misura e nomi d 'azione

Sembra intuitivo che termini come chilogrammo siano piuttosto astratti che concreti: ciò che si estende nello spazio e si può esperire sensorialmente è la sostanza quantificata in termini di chilogram­ mi, non l'unità di misura in sé. È la stessa funzione di unità di mi­ sura a determinare questo carattere, poiché le unità di misura non designano dei tipi di entità, ma impongono una segmentazione in una dimensione ( peso, lunghezza, velocità ecc. ) . I nomi che hanno questa funzione, quindi, sono astratti perché non descrivono entità, 57

non perché descrivono entità aventi certe caratteristiche piuttosto che altre. Le cose cambiano quando un termine solitamente usato , in funzione di unità di misura nomina direttamente un entità, come in gli ultimi due chilometri sono in salita, dove a essere in salita è una concreta parte di un tracciato. Questo richiama ancora una volta la distinzione tra il nome e la sua interpretazione, come anche il fatto che molte unità di misura, tipicamente quelle tradizionali, derivano da descrizioni di entità, come piede o anche giornata (di cammino) . Molte lingue a classificatori, infatti, possono usare lo stesso termine , sia come nome sia come classificatore corrispondente a un unità di , misura, un po come cucchiaio esprime una misura in tre cucchiai di olio. Un nome con questa funzione può avere particolarità che lo avvicinano a un classificatore, come nel tedesco drei Sack Mehl, "tre sacchi di farinà: dove Sack è singolare e non richiede una preposizio­ ne prima di Mehl. Termini come chilogrammo, che pure sono morfologicamente e sin­ tatticamente dei nomi, non possono quindi esprimere un referente del discorso (cfr. CAP. 2 ) . Considerazioni simili valgono per una clas­ se molto più ampia, costituita dai cosiddetti nomi di azione. Lettu­ ra, costruzione, allevamento e moltissimi altri nomi derivati da verbi ammettono sistematicamente due tipi di interpretazioni: una, che si può chiamare concreta, in cui il termine descrive un oggetto o (in casi come lettura) un insieme di oggetti. Questi sono intesi come parte­ , cipanti all evento descritto dal verbo corrispondente, spesso ma non esclusivamente con il ruolo di complemento oggetto : ciò che si legge (le sue letture mi stupiscono), il risultato delle azioni di descrivere o costruire (una descrizione di poche righe, una costruzione imponente), , oppure l'oggetto che risulta dall azione di tradurre (una traduzione timbrata ), o il luogo in cui si svolge razione di allevare (allevamen­ , to) . In un altra interpretazione, il nome ha una funzione molto più vicina a quella del verbo corrispondente, che descrive revento come relazione tra partecipanti (tipicamente roggetto del verbo), a volte accompagnato da modificatori che esprimono proprietà di un evento esteso nel tempo: avremo in questo caso la mia lettura de/libro, la sua

descrizione del quadro, la.frequente costruzione di case abusive, l'imme­ diata traduzione di questo romanzo in molte lingue, l'allevamento di

ss

ovini a scopo commerciale. Possiamo chiamare "astratta" questa inter­ pretazione, ma la caratterizzazione non coglie pienamente nel segno perché, anche questa volta, non si tratta di descrivere referenti che sono astratti ma potrebbero essere concreti, bensì relazioni eventive che necessariamente, come classe di interpretazione, non possono de­ signare oggetti concreti. Non solo : a ben guardare, anche l' interpre­ tazione non eventiva non indica sempre un'entità concreta. È il caso di nomi come spiegazione, per esempio. C 'è una differenza interpre­ tativa tra l'uso di questo termine in la sua spiegazione dei ritardi, che si collega direttamente al senso del verbo spiegare ( "il fatto che abbia spiegato l il modo in cui ha spiegato" ) , e in non trovo nessuna spiega­ zione al suo comportamento, dove il termine descrive un'entità e non un accadimento. Ma questa entità non corrisponde necessariamente a un oggetto esteso nello spazio o un evento esteso nel tempo. Lo stesso può dirsi di conoscenza, che soprattutto al plurale esprime "no­ zioni ( astratte ) conosciute" oppure "persone ( concrete ) conosciute", e soprattutto di quella numerosa classe di nomi derivati da verbi che, come difesa, amministrazione, assistenza, collegano sistematicamente un senso astratto di istituzione ( identificata da una funzione ) a uno più concreto di collettività di persone e risorse raggruppate sotto questa funzione, e spesso anche un senso più concreto ancora come luogo che ospita il collettivo. In conclusione, concretezza e astrattezza sono utili per distinguere i vari sensi, tra un nome e l'altro o nello stesso nome ; ma non sono applicabili ovunque ( si pensi a cosa e tempo), e spesso sono solo il riflesso di certe interpretazioni, come quella di misura o di azione.

3·5· Nomi collettivi

Spesso si distingue tra nomi individuali, come pecora, e collettivi, come gregge. In realtà questa opposizione non sta sullo stesso piano di quelle che abbiamo considerato, poiché non tutti i nomi comu­ ni designano o un individuo o una somma di individui; i numerosi nomi non numerabili che significano sostanze o astrazioni non rica­ dono né in una categoria né nell'altra. Inoltre, i due valori non sono 59

simmetrici, perché se non c 'è nulla di particolare in un nome che designa individui, ciò che è degno di nota è che il vocabolario com­ prenda nomi che indicano molteplicità. Naturalmente entrambe le caratterizzazioni hanno una loro utilità, in primo luogo per descri­ vere il significato di nomi la cui stessa forma impone un' interpreta­ zione collettiva o astratta, come vicinato, oppure individuale, come pianista o stagnino. Ma queste determinazioni riguardano piuttosto le funzioni dei suffissi nella formazione dei nomi; ne riparleremo nei capitoli s e 6. Gli esempi più tipici di ciò che si intende per nomi collettivi posso­ no nascondere importanti differenze. Gregge, mandria, costellazio­ ne, ma anchefamiglia, plotone, orchestra, popolo, banda formano una categoria compatta e ben definita di termini numerabili che nomi­ nano non semplicemente una pluralità di entità di un certo tipo, ma una pluralità identificata dalla propria funzione o dai rapporti intercorrenti tra i membri. Ognuno di questi complessi è in sé stesso un concetto individuale, definito però come un gruppo formato da individui. Anche amministrazione, o foresta, o al limite libro, sono concetti individuali che descrivono entità formate da una moltepli­ cità di individui collegati nello spazio ( alberi e altre piante, pagine ) . Ma, anzitutto, un libro non consiste solo di pagine, né una foresta solo di alberi, mentre il referente di un nome collettivo è interamen­ te costituito da una pluralità di individui dello stesso tipo ( oltre a determinazioni come la funzione e il modo di stare insieme, impor­ tanti ma distinte dalla costituzione in parti ) . In secondo luogo, un nome collettivo significa primariamente una pluralità di individui omogenei, mentre molti nomi che pure, di solito, descrivono entità articolate in parti individuali esprimono un concetto che può an­ che fare a meno di questa caratterizzazione. Abbiamo considerato, per esempio, i vari sensi di libro; e certamente è concepibile che un libro si presenti in un formato senza pagine ( come testo continuo su un supporto elettronico, per esempio ) ; così come un albero po­ trebbe essere privo di rami, se formato dal solo tronco. Casi come regolamento o amministrazione, che si potrebbero concepire come tali anche se consistessero in una sola regola e un solo impiegato, stanno alla periferia di questa classe, anche perché l' interpretazione

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collettiva è un aspetto non centrale del loro significato, a differenza dei nomi che elaborano la nozione di "gruppo" come individuo che consiste in una pluralità. Non è troppo minuzioso distinguere i nomi collettivi nel senso di "gruppo" da un'altra classe, sempre espressa da nomi al singolare, che sono anche legittimamente chiamati collettivi ma sono spesso non numerabili e non descrivono un individuo circoscritto ma una pluralità per così dire "aperta': come folla, gente, clientela. Gramma­ ticalmente, si può parlare di una folla, o di folle; gente (distinto dal latineggiante gente come "gruppo etnico") ammette legenti ma non è numerabile (cfr. *qualche gente, *una gente piuttosto che un 'altra); en­ trambi si riferiscono a una pluralità di persone ma non a un gruppo di dimensioni determinate. Le orchestre hanno un numero di membri variabile, ma ogni orchestra ha un numero di membri ben definito a un certo momento ; i nomi di questa classe esprimono invece una pluralità indefinita. Soprattutto, i membri di un'orchestra somma­ ti ai membri di un'altra orchestra non formano automaticamente, come implicazione del significato dei termini, un'orchestra; men­ tre persone descrivibili come gente o folla, più altre descrivibili allo stesso modo, formano una pluralità ancora descrivibile come gente ofolla. Clientela o mobilia appartengono a questa classe, e illustrano più chiaramente di gente efolla la categoria dei collettivi non nume­ rabili che identificano un tipo di entità come tutto ciò che (da qui il senso collettivo) ha una certa funzione ed è spesso collegato spa­ ziotemporalmente. Una molteplicità di oggetti concreti sfuma così in una categoria astratta, e non è un caso che le letture collettiva e astratta (anche nel senso di nome d'azione) siano spesso compresen­ ti, ed espresse dalla stessa morfologia: clientela come il puramente astratto curatela, vicinato come interpretariato, o in inglese readership "l' insieme di lettori, il pubblico di lettori" come professorship, "digni­ tà, rango, posizione di professore", e in francese arrivage, "arrivo di merci, carico" come chantage, "ricatto". Non tutti i nomi collettivi sono singolari. La qualifica di "collet­ tivi" spesso accompagna quei plurali che, indipendentemente dal fatto di avere o meno un singolare, denotano non solo una pluralità di individui omogenei, ma anche una pluralità in un certo modo 61

organica e tale da costituire un'entità complessa: è il caso di molti plurali in -a, come ossa,fondamenta, lenzuola e, più chiaramente di tutti, mura. Anche qui bisogna spiegare che l'entità complessa può essere non solo un individuo completo in sé stesso, come una cin­ ta di mura o l' insieme di strutture che fanno da fondamenta a una costruzione, ma anche una materia o una sostanza, come cervella. Il fenomeno non è ristretto a plurali irregolari: anche rifiuti o sco­ rie descrivono qualcosa di molteplice che, nel suo insieme, forma una sostanza; e trattandosi di una sostanza, dei rifiuti più altri rifiuti sono ancora rifiuti.

3.6. Nomi relazionali Concetti come "padre': "genitore" o anche "amico", sono inerente­ mente relazionali: non si può essere padre o amico se non di qualcu­ no. Anche i referenti di cane, naturalmente, devono stare in qualche relazione con altre entità, in particolare in relazione di filiazione bio­ logica con i propri genitori; ma questo non fa parte del concetto di "cane". Invece, nomi come padre o sorella si riferiscono a esseri umani in quanto termini di una relazione. Immaginare un cane, o una per­ sona, senza genitori potrà essere più o meno irrealistico, ma immagi­ nare un'entità descritta come figlio senza genitori è un controsenso dal punto di vista del significato, quanto lo è dire che una quantità pari è anche dispari. Anche questa caratterizzazione, come quella collettiva, riguarda solo un nucleo ristretto di nomi. Vale però la pena di menzionarla, perché non avendo riscontri morfologici passa solitamente inosser­ vata, anche se a ben vedere ha degli effetti significativi. Supponiamo di parlare di un uomo che fa il marinaio e ha dei cugini. Per riferire , , l arrivo di quest uomo, le frasi e arrivato un uomo e e arrivato un marinaio sono perfettamente adeguate, mentre e arrivato un cugino è quanto meno strana a meno che il contesto non renda chiaro che si intende "un cugino della persona rilevante qui e ora". In altre paro­ le, un nome come cugino descrive una persona come termine di una relazione, ma in sé e per sé questa caratterizzazione non aiuta a iden-

tificare il referente. Di solito, se il secondo termine della relazione è lasciato implicito, è interpretato come riferito al parlante o all' in­ terlocutore, ma non necessariamente : dei poliziotti che sorvegliano la casa di un sospettato possono annunciare con perfetta chiarezza: « Attenzione, è arrivato il cugino » , riferendosi alla persona che sta in relazione di "cugino" con il referente di cui si sta parlando. Con verbi di possesso come avere il secondo termine della relazione può anche essere fornito dal soggetto della frase, come in Giacomo ha un .fratello (e anche con verbi che presuppongono una relazione di pos­ sesso, come in Giacomo vorrebbe un .fratellino nel senso di "vorrebbe avere") . Un altro effetto concreto è evidenziato da frasi come Anna e Irma sono sorelle. Nell ' interpretazione più naturale, questa frase vuoi dire che sono sorelle l'una dell'altra, non che ognuna di loro ha almeno un fratello o una sorella. Quel che rende possibile questa let­ tura reciproca non è solo il fatto che sorella sia un nome relazionale, ma più precisamente che la relazione sia simmetrica: se x è fratello o sorella di y, y è fratello o sorella di x. Con una relazione asimme­ trica, come "figlio", l' interpretazione reciproca evidentemente viene a mancare. Essere in una relazione descritta da questi nomi non è una questione di gradazione : o si è amici, nonni o colleghi, o non lo si è. Ma la con­ cettualizzazione linguistica non si lascia determinare in questo modo dalle circostanze fattuali. Ognuno di questi termini ha anche un con­ tenuto aggiuntivo a quello relazionale, così che certi termini più di altri si prestano a esprimere delle proprietà graduabili e complesse, legate a ciò che ci si aspetta dal ruolo in questione. Essere nonna, per esempio, comporta delle aspettative convenzionali che invece man­ cano per l'essere cugino ; di conseguenza, ci potranno essere nonne più tipicamente nonne di altre, e si potrà direJàre la nonna piuttosto cheJàre il cugino (sarebbe interessante considerare a questo proposi­ to il concetto di zio d:America). Ancora una volta, le categorie discus­ se in questo capitolo servono a comprendere meglio i significati dei nomi e delle loro interrelazioni, piuttosto che a suddividere il lessico nominale in classi rigidamente distinte.



Le funzioni dei nomi nel contesto sintattico

4. 1. Argomentalità e referenzialità

L'analisi grammaticale prende in esame le parole considerate in sé stesse, anche se in un dato contesto. Con il variare del contesto, però, cambiano anche le proprietà delle parole : Carneade è un nome pro­ prio in Carneade partecipo a un 'ambasciata a Roma, ma comune in una lista di carneadi; e conoscenza ha un' interpretazione astratta e non numerabile in la conoscenza del bene, dove il termine è singo­ lare e non potrebbe essere che singolare, mentre ha un' interpreta­ zione concreta e numerabile in ho incontrato una vecchia conoscenza. Questo capitolo considera quegli aspetti del contenuto dei nomi che sono dovuti specificamente al modo in cui è strutturato il contesto linguistico in cui appaiono ; vale a dire, le funzioni dei nomi in quan­ to determinate dalla struttura sintattica. Non si tratta di affrontare l' intero tema della sintassi dei nomi, ma di chiarire gli aspetti del contenuto determinati contestualmente, che sono di solito trascurati nel passaggio dall 'analisi delle singole parole ("grammaticale") all 'a­ nalisi della struttura della frase (''logica"). In logica e in linguistica, si dicono "argomenti" i termini che si com­ binano con un predicato per generare un'espressione conclusa che può essere interpretata come vera o falsa. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, "essere-figlio-di" è una relazione tra due indivi­ dui, rappresentabile come un predicato a due posti, e i termini che designano gli individui in questa relazione (un genitore e suo figlio) sono gli argomenti del predicato. Tradizionalmente i verbi si conce­ piscono come predicati, a un posto (come camminare), a due o più posti (incontrare,fornire), o anche a zero posti (piovere). Abbiamo visto che anche un nome come figlio si può interpretare come una relazione, tra la persona descritta come "figlio" e la persona di cui è figlio ; ma anche questo tipo di nome contribuisce a esprimere un

argomento del predicato della frase. Per esempio, possiamo con­ cepire la struttura di mio .figlio cammina come un predicato a un posto (camminare) che si combina con un argomento per formare una proposizione. Quel che esprime l'argomento, quindi, non è .fi­ glio, ma mio.figlio; al posto di questa espressione complessa ce ne po­ trebbero essere altre, semplici come Giorgio o più complesse come quell'uomo brizzolato sull'altro lato della strada. Ciò che esprime l' argomento non è il nome in sé, ma il costituente della frase di cui il nome è l'elemento centrale. Nei termini delle teorie sintattiche con­ temporanee, chiamiamo questo costituente "sintagma nominale", perché è un costituente potenzialmente complesso (sintagma) le cui proprietà grammaticali e interpretative sono determinate a partire da una parola centrale, la "testa", che in questo caso è un nome. La categoria dei nomi, quindi, è primariamente collegata ali' argo men­ talità, ma ciò che esprime un argomento in una frase è propriamente un sintagma nominale. Lo stesso vale per una nozione legata all'argo mentalità e cioè quel­ la di referenzialità. Non è il nome in sé stesso, ma il sintagma no­ minale a essere interpretato come denotante un individuo specifico in quell'uomo, la persona di cui mi parli, lui, o Carlo; o un insieme di individui in alcuni uomini, certe persone di cui mi parli, alcuni o tutti i Carli che sono in questa stanza; così come è l' intero sintagma nominale a esprimere una lettura quantificata in ogni uomo o nessun altro, o anche nel soggetto di frasi come gli uomini sono spesso ingenui (ambiguo tra la lettura "tutti gli uomini, come classe, si dimostrano ingenui in numerose occasioni", e "sono molti i casi in cui un uomo si dimostra ingenuo"). A seconda della composizione e struttura del sintagma nominale, in particolare dei determinanti, l'argomento as­ sume una denotazione tra diverse possibili. Alcune di queste riferi­ scono il sintagma direttamente a un'entità, o a una pluralità di entità; altre specificano un tipo di entità e ne quantificano le istanze (per esempio "per ogni X tale che X è un uomo"); altre non denotano un referente specifico, ma hanno un riferimento generico, come il sog­ getto di una persona bene educata non parla cosi. Se consideriamo una frase come cerco la mia penna, il complemento oggetto corrisponde a uno degli argomenti definiti dal predicato cercare (l'altro è espresso

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dal soggetto ) e si riferisce ali'entità descritta come la mia penna, pre­ supposta in questo caso come unica ed esistente a causa dell'articolo. Se invece di cerco {la mia penna} prendiamo cerco {una soluzione}, lo stesso argomento avrà un' interpretazione non referenziale, in cui ciò che si cerca può corrispondere a una qualsiasi entità descrivibile come una soluzione, che potrebbe anche non esistere. È intuitivo che non sia la parola penna da sola a determinare a cosa ci si riferisce quando si dice una penna a sfera non scrive sott 'acqua o cerco la mia penna. I concetti di argomentalità e di referenzialità permettono di chiarire questa intuizione. Riguardo alla prima ca­ tegoria, possiamo osservare che i nomi hanno sì un ruolo centrale n eli'espressione degli argomenti, ma anzitutto non sono indispen­ sabili per questa funzione, dato che un argomento si può esprimere con un pronome, con una frase (lavorare stanca, non serve che tu ti arrabbi), o con una qualsiasi espressione usata con valore nomina­ le (questo "ah" non mi piace); in secondo luogo, i nomi a volte non concorrono a esprimere un argomento, ma un predicato. Il caso più ovvio è rappresentato da ciò che tradizionalmente va sotto il nome di predicato nominale (questa e una mela); ma ricade in questa cate­ goria anche l'uso attributivo di nomi in costruzioni appositive, come ragazza è predicato di sua nipote in una struttura come sua nipote, ragazza di buon cuore, sparava ai passeri per sport. A questo proposito è utile ricordare l' importante distinzione tra predicazione, che consi­ ste nell'attribuire una proprietà a un referente (Gianni e un maestro), e identificazione, in cui si afferma che due descrizioni identificano lo stesso referente (Gianni e il maestro). La distinzione tra funzione argomentale e non argomentale si dimo­ stra utile non solo all' interno della frase, ma anche in parole com­ plesse: il composto donna poliziotto si riferisce a un'entità descritta in primo luogo come donna, e ulteriormente qualificata come poliziot­ to; d'altro canto, ciò che si intende come caposala ha una struttura argomentale, in cui sala specifica ciò di cui il referente è a capo ; un po' come "capo di una sala': dove un nome determina un argomento come in padre di unfiglio o in descrizione di una battaglia. C 'è quindi una differenza tra la funzione di poliziotto in donna poliziotto e quella di sala in caposala, che consiste nella funzione argomentale del nome 66

nel secondo caso. È importante notare, però, che anche in funzio­ ne di predicato, o di modificatore, un nome resta una descrizione di un'entità. Mela descrive un tipo di entità, e una mela come predicato esprime la proprietà di essere quel tipo di entità; e poliziotto modifica la descrizione donna qualificandola con un ruolo, che è quello delle entità descritte come poliziotto. La nozione di referenzialità permette di precisare un'altra importan­ te distinzione, questa volta tra capo di una sala e caposala. All' interno della frase, il sintagma nominale una sala può riferirsi a una sala spe­ cifica, oppure a una che si presume esistente ma di cui non si conosce l ' identità, oppure a qualsiasi cosa che corrisponda alla descrizione ; ma -sala, all ' interno del nome composto caposala, ha necessariamen­ te quest'ultima interpretazione, e non può designare un referente del discorso (ci sono lingue in cui questo non è del tutto vero, ma la loro struttura differisce considerevolmente da quella di lingue come l ' i­ taliano) . Lo stesso vale per altri composti, come poggiatesta (dove si possono poggiare "teste': in generale, non una o più teste particolari), e ancor più chiaramente in casi come scacciacani, in cui la struttura argomentale è riconoscibile ma non determina le proprietà referen­ ziali del composto. In effetti, chi conosce il significato della parola scacciacani è in grado di riconoscere come tale anche un'arma che potrebbe non essere mai usata per scacciare cani.

4.2. Nomi, articoli e interpretazione

4.2.1. Articoli e referenzialità Nel contesto della frase è dunque l' intero sintagma nominale a determinare l' interpretazione di un nome, in termini di argomentalità e referenzialità; e per questa fun­ zione ha un ruolo chiave la scelta del determinante, in particolare dell'articolo. Ma a questo riguardo non tutti i nomi si comportano allo stesso modo. I nomi propri come Carlo o Compagnia A, anzitut­ to, non hanno bisogno di articoli per avere un' interpretazione refe­ renziale, anche se è bene ricordare che strutture come il signor Rossi o le Alpi esprimono nomi propri ma sono descrizioni definite (cioè strutture come l'uomo o le montagne). In italiano, certi nomi comu-

n i hanno un' interpretazione sostanzialmente pari a quella dei nomi propri, e denotano quindi rigidamente un individuo specifico (cfr. PAR. 3.2.1 ) , quando sono seguiti da un aggettivo possessivo, in assen­ za di un articolo ; questi nomi cambiano a seconda delle varietà, ma espressioni come mamma tua, casa sua, camera mia sono piuttosto diffuse : casa mia e qui vicino, che dirai a mamma tua ?, camera mia e alprimo piano. Si tratta di concetti che facilitano la presupposizione di un solo referente, legati in questa costruzione sintattica all'uso come vocativo per esseri umani (mamma mia!) e all' indicazione di un luogo per gli inanimati (torna in camera tua) . Si può osservare che la preposizione in comporta la costruzione senza articolo quan­ do è usata con indicazioni di luogo che si presuppongono uniche per un possessore : in ufficio, in camera, in albergo (cioè nell'unico ufficio, camera, albergo del referente di cui si parla, o del parlante o interlocutore in mancanza di altre indicazioni). L' interpretazione referenziale di queste espressioni contrasta con l'uso senza articolo in dipendenza di senza, che ha invece una lettura non referenziale : se in casa vale "nella casa, univocamente determinata, del referente in questione", senza casa vale "senza una casa propria quale che sia". Molto più rilevante a proposito dell 'uso dei nomi e dell'articolo è il fenomeno delle cosiddette "preposizioni complesse" come in mezzo a, per tramite di o in jàvore di, nelle quali un nome senza articolo fa parte di una locuzione interpretata globalmente. Anche se non mancano esempi di locuzioni fisse che invece prevedono l'artico­ lo, almeno come possibilità (nel mezzo di, all'insaputa di), sembra naturale collegare la mancanza dell 'articolo in questo caso a un uso chiaramente non referenziale del nome. Quest'ultimo non è "svuo­ tato" di senso, ma si tratta di un senso convenzionale, che fa tutt 'uno con il significato dell' intera locuzione, e ben lontano dal ventaglio di interpretazioni disponibili per il nome quando non ricopre que­ sta funzione. In realtà, i nomi che fanno parte di queste locuzioni non sono più membri a tutti gli effetti di una classe aperta o lessicale (cfr PAR. 1.2.2 ) , ma costituenti di espressioni grammaticalizzate. Le locuzioni preposizionali non sono in questo qualitativamente diffe­ renti da quelle che in italiano sono identificate come preposizioni polisillabiche, come senza o fuori, il cui contenuto lessicale spesso 68

deriva storicamente da un nome (absentia "assenza" per senza, fores "porte" perfuori). Tenendo presente che la separazione grafica tra le parole è una convenzione scrittoria, si può scorgere una progressione continua da nomi che mantengono le loro caratteristiche di elementi lessicali "pieni': come aspetto in locuzioni come sotto l'aspetto di (cfr. sotto certi aspetti), a casi in cui non si può più parlare di un nome come elemento di una classe lessicale aperta, come in all'insaputa di (cos'è una "insaputà' fuori di questa locuzione ?), fino a che il nome non sia interamente scomparso alla percezione dei parlanti, come in senza. Considerazioni simili valgono, allargando il campo, per locu­ zioni come di ritorno, di partenza, di valore, o di qualita, che non hanno funzione preposizionale ma esprimono delle proprietà per mezzo di una collocazione più o meno fissa di una preposizione e un nome (di qualche l nessun valore, ma non *di recente ritorno). Naturalmente non tutte le lingue si comportano esattamente allo stesso modo dell' italiano, e non so­ lo perché molte non hanno una categoria corrispondente all'arti­ colo (come il latino e le lingue slave), o all 'articolo indeterminativo (come il greco classico e le lingue celtiche, tranne il bretone). Non è opportuno estendere la discussione a come l'uso dei determinanti nominali possa variare da una lingua ali ' altra, che è un argomento troppo vasto e, a ben guardare, tangenziale rispetto a quello della determinazione contestuale del contenuto dei nomi. Possiamo di­ re infatti, con riferimento al paragrafo precedente, che la tipologia della determinazione nominale riguarda piuttosto il contenuto e la struttura dei sintagmi nominali che non il valore dei nomi come ca­ tegoria lessicale. È invece significativo che lingue anche tipologica­ mente prossime varino nell 'utilizzo di nomi senza nessun determi­ nante a seconda dell' interpretazione, come illustrato dal contrasto tra l' italiano l 'acqua e una risorsa preziosa e la sua traduzione inglese water is a precious resource. L' inglese, come l'italiano, ha articoli de­ terminativi e indeterminativi; tuttavia, per designazioni generiche che si riferiscono a un'entità come tipo astratto, l' inglese sistemati­ camente e obbligatoriamente non usa l'articolo davanti a nomi non numerabili, sia concreti come water, che astratti come philosophy (e 4.2.2. Variazione tra le lingue

sistematicamente con i nomi di lingue, come Italian "1 ' italiano") . Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l a numerabilità non è tanto una caratteristica intrinseca in un termine quanto una pro­ prietà di un' interpretazione ; quindi non sorprende che la stessa co­ struzione senza articolo sia obbligatoria se un nome generalmente numerabile viene usato in senso non numerabile per indicare un tipo astratto, per esempio lamb is delicious, "l'agnello [cioè la carne di agnello] è buonissimo". Questo non è che un aspetto di una diffe­ renza più generale. Anche in un' interpretazione assolutamente con­ creta, l' inglese usa il nome senza articolo per indicare una quantità indefinita: water was drippingftom the tap, "dell'acqua gocciolava dal rubinetto"; la struttura con l'articolo descrive invece una quan­ tità circoscritta e univocamente identificata, come in the water in the kettle "l 'acqua nel bollitore". Ancora, l' inglese usa senza articolo i nomi al plurale che hanno un significato generico, come /talians do it better "gli italiani lo fanno meglio" o beavers bui/d dams "i castori costruiscono dighe" (the Italians è appropriato per un referente che è in qualche misura già noto o presupposto, non generico) . In ita­ liano, i nomi che svolgono queste funzioni possono apparire senza determinante solo se vengono dopo il verbo, e con altre determi­ nazioni: con un senso indefinito, come in hanno avvistato castori

in quest 'area, mi diede risposte evasive, non voglio bere acqua sporca; oppure generico, come in ci sono castori, dire bugie, bere vino. Altre lingue mostrano comportamenti diversi, come il francese, che non ammette praticamente mai un nome senza determinante (e usa il determinante partitivo in casi come manger de la viande, "mangiare carne"). In sintesi: l'uso dell 'articolo varia sensibilmente a seconda del valore del nome nel sintagma nominale, sia in una lingua data che tra una lingua e un'altra. Con­ cludiamo l'esame del rapporto tra determinante e significato del nome riepilogando le costruzioni in cui, in lingue come l' italiano, i nomi sono sistematicamente privi di articolo. Nel capitolo prece­ dente abbiamo considerato i nomi propri, notando come l'assenza di articolo sia in realtà una proprietà più sfumata di quanto sembri, 4.2.3. Riepilogo delle costruzioni senza articolo in italiano

soprattutto se si considerano appellativi in cui il nome si accompa­ gna a una qualifica ( forme come san Michele sono senza articolo, ma all' italiano il signor Verdi, o il cardinal Rossi fanno riscontro gli ingle­ si Mister Verdi e Cardinal Rossi). Abbiamo poi menzionato l'uso di nomi senza articolo in apposizioni predicative (sua nipote, ragazza di buon cuore in PAR. 4 .1 ) , in strutture come casa mia, e in locuzioni come per mezzo di o di valore ( PAR. 4 .2. 1 ) . Infine, in strutture come mangio carne ( PAR. 4 .2.2), con interpretazione generica o con rife­ rimento a una quantità indefinita ma concretamente specifica (ho mangiato carne avariata e ora sto male). A questi contesti sono da ag­ giungere altre quattro costruzioni, diverse per natura e importanza. La prima è rappresentata da coordinazioni come nonno e nipotino, madre efiglia, cane e gatto, cane e padrone, in cui due termini al sin­ golare, intrinsecamente collegati in funzione del loro significato e privi di modificatori, creano una sorta di descrizione definita iden­ tificata contestualmente : "la coppia formata dall' X e dall' Y conte­ stualmente rilevanti". Si tratta, come si vede, di un uso argomentale e referenziale. Similmente argomentale, legittimata da una configurazione sintatti­ ca e legata a un' interpretazione particolare, ma non referenziale allo stesso modo, è l'occorrenza di nomi senza articolo legittimati dalla negazione : non disse parola, non c 'era studente che sapesse rispondere, nessuno batteva ciglio. È specificamente il legame con la negazione a caratterizzare questa costruzione, visto che molti nomi postverbali possono apparire senza articolo : dire stupidaggini, avere obiezioni, jàre ostruzionismo, dare coraggio. Con la negazione, però, si possono inserire in posizione postverbale anche nomi numerabili al singolare, con una caratteristica lettura "nemmeno un X" che rafforza il senso negativo, presupponendo che, se affermativa, la frase avrebbe potuto riferirsi a una molteplicità di "X"; per cui si dirà non c 'era studente che lo sapesse, ma non *non c 'era incrocio dopo il semaforo ( rispetto a c 'e un incrocio dopo il semaforo). Diversi fattori si intrecciano, però, nel determinare il comportamento dei nomi in queste circostanze. Esserci, di per sé, favorisce l'uso di nomi senza articolo anche senza negazione : c 'e vento, c 'e modo di arrivarci, c 'e motivo di pensare che. . . sono strutture perfettamente naturali, m a più o meno fisse e quindi 71

limitate nella scelta delle parole. Per esempio, problema si usa idio­ maticamente in frasi negative, e non in quelle affermative (non c 'e problema, ma *certo che c 'e problema) . Ma il tratto più caratteristi­ co di questa costruzione sta nell' interpretazione del nome singolare come "minimizzatore", sulla base dell' implicazione "neanche un X, quindi niente del tutto": a una domanda come ha un accendino?, che verte sull'esistenza di un oggetto particolare, non sembra plausibile rispondere *no, non ho accendino. La categoria dei minimizzatori sarà esaminata a parte in seguito (cfr. PAR. 4 .3). Costruzioni come aver jàme costituiscono una terza categoria di nomi senza articolo. Anche in questo caso si tratta di locuzioni con­ venzionali e in larga parte fissate dall'uso, anche se ogni termine man­ tiene più o meno il suo significato e, cosa importante, certi nomi am­ mettono modificatori : aver moltajàme l un po' difreddo l una voglia matta di X. I verbi usati hanno evidentemente un significato molto generico, ma rispettano comunque la loro struttura di verbi transitivi, per cui i nomi complemento possono a buon diritto essere giudicati come loro argomenti. Quanto la loro interpretazione possa dirsi "re­ ferenziale", invece, varia di caso in caso, e in ultima analisi dipende da quel che si intende precisamente con questo termine. Il significato stesso dijàme,freddo, sonno implica un'esperibilità fisica; ma se o in che misura i termini corrispondano a delle entità, per quanto astratte, nella rappresentazione mentale del parlante, sembra un interrogativo più psicologico che linguistico. Le cose stanno diversamente per altre locuzioni più chiaramente metaforiche, come mettere bocca, e soprat­ tutto per casi comejàre attenzione,jàre caso a, avere idea che, in cui è difficile sostenere che il nome denoti un'entità in un qualsiasi senso. L'ultimo tipo di struttura che prenderemo in considerazione è il­ lustrata da casi come Gianni e ingegnere. In questo caso l'assenza dell'articolo si correla direttamente a un aspetto specifico del signifi­ cato del nome, e cioè la descrizione di un'entità sulla base di un'atti­ vità che identifica una funzione o un ruolo. Più precisamente, nomi come studente, presidente, imbianchino classificano gli esseri umani in funzioni socialmente riconosciute e di natura relativamente stabile (ma non necessariamente permanente), spesso ma non sempre attivi­ tà professionali (sonofotografo a tempo perso, sono ripetente). In prati-

ca, l'entità viene caratterizzata tramite ciò che "fà' istituzionalmente, anche se il nome non sempre esprime in cosa consista l'attività (no­ tare sono padre, Dio e anche madre), e non tramite una descrizione di ciò che "è': cioè di quale categoria di entità istanzi. Poiché si tratta di proprietà non intrinseche dei loro referenti, accanto a Gianni e dottore si può dire Gianni e un dottore mancato, dove la funzione di dottore caratterizza il soggetto proprio per la sua assenza (''Gianni non è un dottore ma avrebbe potuto esserlo"). Questo non si verifica con predicati nominali che invece descrivono una proprietà intrin­ seca; per esempio, sia *Fido e cane che *Fido e un cane mancato sono inaccettabili se non con interpretazioni particolari. Se volessimo catalogare gli usi del nome senza determinante, a que­ sto punto dovremmo considerare casi come Gianni e piu uomo di te, dove il nome ha funzione di aggettivo, o come ci siamo travesti­ te da streghe; o ancora l'uso di nomi con verbi predicativi diversi da essere, per esempio come mi sento donna in questi momenti. Ma per dare un' idea di come l'assenza dell 'articolo si colleghi al senso di un nome, con riferimento alle nozioni di referenzialità e argomentali­ tà, non c 'è bisogno di considerare altre strutture, e possiamo tornare all'argomento principale, cioè il valore dei nomi nel loro contesto.

4·3· Particolari usi non referenziali

I nomi contribuiscono in maniera essenziale a instaurare dei referenti di discorso, cioè le entità di cui si parla nella comunicazione e che fan­ no da soggetto della predicazione e da partecipanti agli eventi descritti. Nella prospettiva di chi privilegia questa funzione come cardine della nozione stessa di nominalità, gli usi non referenziali dei nomi sono un fenomeno, se non periferico, certamente non centrale, e in effetti è soprattutto in quest'ambito che la variazione tipologica si mostra più sensibile (cfr. PAR. 2.2 ) . Da questo però non consegue affatto che, laddove una lingua contempli usi non referenziali della nominalità, questi siano in qualche modo secondari nel suo sistema grammatica­ le. Al contrario, si tratta di usi pienamente sistematici che sono parte integrante della competenza linguistica del parlante. Per rendersene 73

conto, sarà utile riassumere le costruzioni in cui i nomi hanno sistema­ ticamente funzione non referenziale in lingue come l' italiano. La categoria di gran lunga più importante è costituita da tutte le co­ struzioni in cui un nome esprime un predicato : non solo i predicati nominali formati con il verbo essere, ma anche con altri verbi predica­ tivi (sembra un sogno, si rivela un miraggio); i cosiddetti complemen­ ti predicativi, espansioni di un argomento nominale che esprimono predicazioni secondarie rispetto a quella principale della frase (con­

sidero Elena una sorella, tu mi piaci come amico, ti dichiaro cavaliere, con Silvia presidente non abbiamo speranze, e anche tu, presidente?); altre predicazioni che prendono forme diverse nelle varie lingue, come ti parlo da amico, o il francese il parle en experte "parla da, in quanto esperto': o l' inglese she went home a happy mother, "tornò a casa [che era] una madre felice". A questi tipi vanno aggiunte le appo­ sizioni illustrate nel paragrafo 4 .1. Se consideriamo anche i nomi usa­ ti come modificatori attributivi di altri nomi, particolarmente diffusi in lingue come l' inglese e il tedesco (steel biade, "lama d'acciaio"), ma sempre più comuni anche in italiano con strutture come commissio­ ne ricorsi, ci si può rendere conto della vastità del fenomeno. Anche fermandosi alla funzione predicativa, l'uso dei nomi in senso non re­ ferenziale quindi è un fenomeno tutt'altro che periferico. Ma la funzione predicativa non è l'unico caso di non referenzialità nominale ad avere una sistematica realizzazione sin tattica. Abbiamo già menzionato i nomi in funzione di minimizzatori, come parola in non disse (una) parola. Dobbiamo ora precisare che sono molti i nomi che si prestano a essere usati con un significato convenzional­ mente fissato dalla frase negativa con il valore di "alcunché", "niente del tutto, nemmeno un X", e che l'uso senza articolo illustrato da non dire verbo, non direparola, non battere ciglio è in realtà minorita­ rio. Molto più comune è l' interpretazione idiomatica per un nome preceduto dall'articolo indeterminativo, specializzato in funzione espressiva e quindi intrinsecamente non referenziale (un acciden­ te, un tubo); marginalmente si possono avere anche strutture più complesse, sempre idiomatiche e convenzionali, come un accidente di niente. Dal punto di vista del senso, bisogna distinguere i mini­ mizzatori di uso generale, ammessi in ogni frase negativa, da quelli 74

che fanno parte di locuzioni fisse come muovere un dito o battere ciglio. In generale, anche i nomi dall' interpretazione più idiomatica mantengono una distinzione tra quelli applicabili a esseri inanimati, come negli esempi precedenti, o animati ( un 'anima, un cane; cfr. il tedesco kein Schwein, "nessuno", letteralmente "nessun porco") . Nel corso del tempo i minimizzatori spesso perdono del tutto il senso del nome originario, per diventare non più nomi ma pronomi inde­ finiti, come nel caso di niente (probabilmente da nec-ente ), o sempli­ ci particelle che contribuiscono alla negazione ma non esprimono un argomento (come mica, originariamente "briciola': o il francese pas, "passo"). Ma con questa fase dell'evoluzione si esce dalla cate­ goria dei nomi. Un'altra classe di nomi sistematicamente non referenziali usati in funzione non predicativa è costituita dalle unità di misura come chi­ logrammo o cubito, di cui abbiamo parlato nel paragrafo 3. 4 .2. Si trat­ ta anche qui di una categoria ristretta, consistente in una lista chiusa di termini usati in un contesto sintattico specifico. Ma, anzitutto, il fatto che siano usati in questa funzione dei termini che, gramma­ ticalmente, sono nomi a tutti gli effetti (anche perché ammettono modificazione aggettivale come in miglio marino e derivazioni mor­ fologiche come due chi/etti) di per sé evidenzia come la sistematici­ tà nell 'utilizzo non referenziale sia una parte integrante di quel che sa il parlante sull'uso dei nomi nella sua lingua. In secondo luogo, anche senza considerare lingue tipologicamente distanti, nelle qua­ li spesso la funzione di classificatore è aperta a una parte consisten­ te del lessico nominale (cfr. PAR. 3.3.2), i nomi usati come unità di misura sono una classe più ampia di quanto comunemente si creda. Nel paragrafo 3.4.2 abbiamo visto l'esempio tedesco drei Sack Mehl, "tre sacchi di farina", dove Sack ha la forma singolare e vale "quanti­ tà corrispondente a un sacco". Oltre che una forma irregolarmente singolare, i nomi-unità possono avere un plurale speciale : così in in­ glese (europeo), il plurale di penny è regolarmente pennies per deno­ tare delle monete concrete, ma pence come unità di misura astratta. A ben guardare, anche in italiano si possono individuare casi in cui la funzione di unità di misura corrisponde a una forma speciale di un nome, se pensiamo non solo a termini come milione, ma anche 75

a espressioni come tre-mila, che contengono, viste storicamente, un plurale di mille in -a. Ma non c'è bisogno di affrontare il vasto tema della sintassi e morfologia dei numerali, che notoriamente costitui­ scono microsistemi a volte estremamente complessi e sensibilmente differenti anche tra lingue tipologicamente o geneticamente vicine. Ciò che importa è constatare come la categoria dei nomi-misura, in­ tesa in senso da abbracciare anche i casi più chiaramente nominali dei numerali, sia effettivamente una categoria immanente ai sistemi linguistici; il che a sua volta ribadisce la conclusione che per capire come le lingue organizzano la classe dei nomi bisogna tener conto anche dei loro usi non referenziali come parte integrante del sistema.

4·4·

I nomi come modificatori d i parola

4·4·1· Lessico e parole composte ll contesto che determina l' in­ terpretazione di un nome non è solo quello di una frase o di un sintag­ ma. Già alla fine del paragrafo 4.1 abbiamo ricordato parole composte come caposala e altri composti come donna poliziotto, e nel paragrafo 4.2.1 abbiamo considerato locuzioni come per mezzo di o all'insaputa di, in cui il nome svolge una funzione non referenziale come com­ ponente di una costruzione fissa. Evidentemente c 'è una differenza sostanziale tra il ricorrere come parola nel contesto di una frase e il ricorrere come elemento costitutivo di una parola composta; ma sono soprattutto le convenzioni ortografiche a dare l' impressione di una bipartizione netta tra sintagmi come capo della sala (dove i termini lessicali sono commutabili, per esempio in parete della sala) e parole composte come caposala ( a cui non fa riscontro un ipotetico *parete­ sala). In realtà, basta pensare a locuzioni come per mezzo di per ren­ dersi conto che gli elementi immagazzinati nel lessico di un parlante comprendono non solo parole singole, ma anche strutture complesse che hanno parole al loro interno. Non solo : bassa pressione e pressione bassa illustrano costruzioni che sono a tutti gli effetti dei sintagmi, re­ golari sia nella forma che nel contenuto, e con elementi commutabili liberamente (pressione alta, bassa intensita ecc. ) ; eppure basta la di­ versa collocazione dell'aggettivo per determinare due interpretazioni

nettamente diverse del nome pressione, come "pressione atmosfericà' e "pressione sanguignà'. Infine bisogna considerare casi come occhiali da sole, sacco a pelo o bollettino di versamento, che non sono in alcun senso parole composte ma hanno un forte carattere unitario, sia nella forma (che è fissa) che nel significato, e mostrano ancora più chiara­ mente che la conoscenza del lessico di una lingua comporta la cono­ scenza di una grande quantità di espressioni complesse, consolidate dall'uso e fornite di un' interpretazione canonica; da questo nasce l 'esigenza di far posto a una classe di cosiddette unità polirematiche in dizionari quali il D ISC e il G RADIT, distinte dagli esempi di fraseolo­ gia e lemmatizzate a sé o descritte a parte nel corpo del lemma. D 'altra parte, la "fissità" di certe espressioni nell'uso non è un criterio così affidabile come sembra per individuare quelle costruzioni che contano come voci singole nel lessico di un parlante. Un motivo è che se si dovessero considerare come elementi lessicali tutte le strut­ ture più o meno fisse nella coscienza dei parlanti, il lessico così conce­ pito non sarebbe praticamente delimitabile : perché non considerare parola una volta qui era tutta campagna, o i proverbi, o i cosiddetti tormentoni ? Un altro motivo è dato dalla presenza di costruzioni come sistema gestione risorse umane, che si differenziano chiaramente da strutture sintattiche complete (per la mancanza di articoli e pre­ posizioni e l'assenza di modificatori e avverbi), ma assomigliano più a frasi che a parole composte perché non sono espressioni del tutto fisse ma permettono di sostituire le parole al loro interno (entro certi limiti), e soprattutto si possono interpretare anche senza averle mai sentite prima, come espressioni liberamente formate e non cristalliz­ zate nell 'uso. In realtà, l'etichetta di "parola compostà' si riferisce a una moltepli­ cità di costrutti, i cui elementi costitutivi sono collegati più o meno strettamente, sia dal punto di vista della forma che da quello del con­ tenuto. La loro classificazione è compito dello studio della struttura delle parole. Le grammatiche più scientificamente aggiornate, anche scolastiche come Sensini ( 2010 ), non trascurano questo aspetto e considerano i nomi anche dal punto di vista della loro struttura mor­ fologica (sulla base di un'ampia letteratura specialistica, nella quale spicca la dettagliatissima analisi dell ' italiano di Grossmann, Rainer, 77

200 4 ) . Sarà il capitolo 6 a offrire una panoramica della struttura mor­ fologica dei nomi ( italiani ) ; qui importa piuttosto evidenziare come anche nel formare parole e altre espressioni lessicalizzate complesse i nomi abbiano funzioni che variano a seconda del contesto. 4 . 4. 2. I nomi nelle parole composte : teste, attributi, argomenti

Il significato di un nome può fondersi in misura variabile con il signi­ ficato dell' intera espressione : se il senso globale di donna poliziotto o treno merci richiede un riferimento ben chiaro a entrambe le nozioni espresse nel composto, questo è meno vero per casi apparentemente simili come busta paga ( che non è necessariamente una busta) , e indi­ viduare concetti di entità distinte diventa problematico in casi come ferrovia. Per cogliere più chiaramente i vari ruoli svolti dai nomi in queste espressioni, è utile richiamare ancora una volta le nozioni di argomentalità e referenzialità. Come parte di un'espressione lessicale complessa, un nome non iden­ tifica di per sé un referente del discorso ( funzione che, comunque, è svolta da un intero sintagma nominale e non da un nome ) . Ma anche senza esprimere un referente del discorso, un nome può avere funzio­ ne di soggetto di una predicazione, e descrivere un tipo di entità a cui un altro nome aggiunge una determinazione appositiva: così nave scuola (un tipo di nave ) esprime un'entità descritta come una nave, e ulteriormente qualificata dalla funzione di scuola. A questa categoria appartiene anche donna poliziotto, dal capitolo 1, come descrizione di un'entità che è una donna ed è ulteriormente qualificata come poliziotto. In questo caso possiamo evidenziare la funzione diversa svolta dai due membri del composto contrapponendolo a poliziotto donna. C 'è quindi un'asimmetria tra le funzioni dei due elementi di questo tipo di composti, riflessa dal fatto che il nome soggetto è an­ che quello che determina il genere dell' intero composto (una donna poliziotto, un poliziotto donna). L'asimmetria è più marcata quando si può chiaramente discernere una relazione di subordinazione tra un elemento principale, che univocamente determina il tipo di entità denotato dal composto, e un elemento con funzione classificatoria che assegna l'entità a una sottocategoria, senza caratterizzarla come istanza di un'altra entità: un pesce gatto ( come originariamente p e-

scecane) è solo un pesce, e non è "anche" un gatto nel senso in cui una nave scuola è anche una scuola. L' italiano ha moltissimi di questi composti subordinativi, come vagone merci o ufficio informazioni, in cui l'elemento determinativo è collegato a quello primario da un rap­ porto di argomentalità. In altri casi, siamo invece in presenza di una vera e propria coordi­ nazione di due descrizioni, in cui entrambe concorrono a definire il tipo di entità espresso dal composto senza che una fornisca il concet­ to di base e l'altra una determinazione ulteriore : si tratta di giustap­ posizioni come buono regalo, attore-regista o bar-tavola calda (dove tavola calda corrisponde a un concetto lessicalizzato unitariamente, non certo all' idea di una "tavolà' che è anche "caldà'), ma anche di composti in cui il grado di fusione maggiore è riflesso dalla grafia, come cassapanca, cajfèlatte o vetroceramica. In molti casi, la coordina­ zione serve a esprimere un concetto di entità che non corrisponde a nessuno dei due elementi; per esempio, l'animale metà capra e metà cervo immaginato da Aristotele nel capitolo 1 di Dell'interpretazione come referente del composto tragélaphos (latinamente, "ircocervo") non è, strettamente parlando, né una capra né un cervo. Dal punto di vista del rapporto tra i significati degli elementi e dell ' intero com­ posto, possiamo quindi dire che quando due espressioni nominali sono coordinate in questo modo, si ha una struttura complessa AB che esprime un'entità di tipo A modificata da B; oppure una struttura più strettamente coordinativa, dove AB designa un'entità di tipo c , che A e B contribuiscono in modo paritario a identificare senza però che nessuno dei due termini la possa definire, preso a sé. Si deve notare che i termini giustapposti in questo tipo di coordi­ nazioni a volte non sono parole intere : è il caso di cantautore, un esempio molto comune che illustra le cosiddette "parole macedo­ nia" (termine coniato da Bruno Migli orini, come informa l' accurata disamina di Thornton, 2004b ), in cui un pezzo di parola si combina a un altro pezzo, o date certe condizioni fonologiche anche a una parola intera, per dare origine a un nesso che giustappone i signifi­ cati delle parole così combinate (come cattocomunista o digitronica; un cattocomunista, per esempio, riunisce le proprietà di un catto­ lico e di un comunista) . Questo tipo di combinazione, nella quale 79

una parola è costituita da frammenti della forma di più parole, i cui significati lessicali si sommano senza veramente fondersi, è molto comune e anzi fortemente produttiva in inglese, dove va sotto il nome di blend ( Thornton nota una serie di differenze rispetto alle classiche parole macedonia italiane ) . Per curiosità, si può ricordare che Arrigo Castellani propose il termineJubbia per rendere l' inglese smog, composto di smoke "fumo" efog "nebbià'. Fa parte della natu­ ra dell ' italiano, come proprietà della forma delle parole in questa lingua, la tendenza a non combinare così liberamente frammenti di parole anche minimi come fa l' inglese, ma piuttosto sequenze po­ lisillabiche che, pur non essendo formalmente parole intere, corri­ spondono a temi lessicali con un ambito di significati riconoscibile, come auto-, elettr(o)-, tele-; come si vede, si tratta in larga parte di elementi di origine classica, spesso diffusi in varie lingue come inter­ nazionalismi. Poiché non si tratta di nomi, non ci soffermeremo sul­ la funzione svolta da questa classe di elementi nella formazione delle parole italiane, se non per notare la loro importanza, come portatori di significato che è parte integrante del significato di parola, pur non avendo le proprietà grammaticali né il contenuto di parole lessicali. C 'è una differenza intuitivamente chiara tra i tipi di composti esami­ nati finora e un altro tipo, esemplificato da gestione clienti, trasporto bestiame, ufficio registro o anche ufficio complicazione affari semplici. Soprattutto l'ultimo esempio mette in evidenza il carattere gerarchi­ camente strutturato di queste espressioni, che hanno una struttura sintattica perfettamente riconoscibile e sono in effetti dei sintagmi ridotti, non necessariamente lessicalizzati come espressioni fissate dall'uso ( anche se questo resta il caso più comune ) ma prodotti in base alle stesse regole di combinazione delle parole che soggiacciono alla creazione di qualsiasi frase. La struttura sin tattica di queste espres­ sioni è determinata da una struttura argomentale, in cui il secondo elemento esprime l'argomento del primo nome: questo è particolar­ mente chiaro quando al primo posto si trova un nome derivato da un verbo, come gestione o complicazione, o che comunque esprime un'a­ zione, come trasporto. Il termine che esprime l'argomento, quindi, non è necessariamente un nome, ma può anche essere un nome mo­ dificato da un aggettivo (affari semplici). In un modo diverso, e certa8o

mente con distribuzione più ristretta, anche casi comefine settimana si possono ricondurre a una struttura argomentale, dal momento che nomi come.fine sono relazionali (una fine è necessariamente la fine di qualcosa) . In un certo senso si può estendere la stessa interpretazione anche ai numerosi casi come ufficio registro, in quanto riduzioni di nessi testa-complemento come "ufficio del registro" o "ufficio per la complicazione degli affari". Come si vede, con questa categoria si rag­ giunge la zona di transizione tra i composti subordinativi, i cui ele­ menti sono legati da un rapporto di argomentalità, e i numerosi altri composti subordinativi in cui l'elemento subordinato non può dirsi un argomento della testa. Per esempio, treno merci sembra simile a trasporto merci; e la parafrasi "treno per le merci" suggerisce un' inter­ pretazione di merci come complemento, tanto più che le merci sono in effetti ciò che viene trasportato, e che si può considerare l'azione di trasportare come una componente del senso di treno. Ma resta il fatto che treno o vagone descrivono semplicemente delle entità, senza richiedere una relazione con altri argomenti. A questo corrisponde il fatto che composti come treno merci, pur essendo diffusi, restano limitati a espressioni fissate nell'uso, a differenza dei veri composti argomentali. In fin dei conti, anche il contenere è una componente del senso di contenitore, ma contenitore penne non è assolutamente un composto che faccia parte del lessico dell' italiano, se non come espressione compendiaria tipica di un catalogo. In conclusione, espressioni composte con un rapporto subordinativo argomentale comportano una netta distinzione tra il ruolo della testa e del complemento : la testa treno determina tutte le proprietà dell'e­ spressione come descrizione di un'entità, mentre il complemento merci descrive ciò che ha il ruolo di argomento nell 'azione espressa o implicata dalla testa, in questo caso quella di trasportare qualcosa. Si tratta però pur sempre di sintagmi ridotti, nei quali il termine che funge da complemento è necessariamente non-referenziale. Un'enti­ tà può essere descritta veridicamente come un treno merci pur non avendo mai trasportato merci ( per esempio, se è appena uscito dalla fabbrica ) . Ancora una volta, distinguere argomentalità e referenzia­ lità si rivela indispensabile per cogliere aspetti importanti di quelle conoscenze che un parlante estrinseca nell'uso della sua lingua. 81



Le categorie grammaticali dei nomi

s . I . Significato e categorie grammaticali

Nel capitolo 1 abbiamo visto come il modo più diffuso di definire una categoria lessicale, e in particolare quella del nome, consista nel distinguere una serie di caratteristiche che riguardano funzione e significato (''un nome serve a identificare entità") da altre di natura più propriamente grammaticale, definibili solo nel contesto di un sistema linguistico ("un nome è flesso per genere, numero e caso") . Sarebbe fuorviante interpretare questo schema, tradizionale per­ ché utile e sensato, come una distinzione tra proprietà di significato e proprietà di forma, per il semplice motivo che le categorie in cui si organizzano le forme di una lingua hanno una precisa relazio­ ne con il significato. Ci si può naturalmente concentrare sul siste­ ma delle forme, come faremo nel capitolo 6, lasciando in secondo piano il contenuto delle opposizioni che lo costituiscono. Questo capitolo esamina invece il senso delle categorie che definiscono la morfologia nominale : genere, numero e caso. Tutte e tre contri­ buiscono a determinare il nome come oggetto grammaticale, ma in modi diversi. Anzitutto, molte lingue sono prive di una, due o tutte e tre le categorie. Inoltre, quando genere e numero sono pre­ senti, variano sensibilmente attraverso i tipi linguistici, non solo negli aspetti formali ma anche nel significato, e soprattutto nel loro stesso statuto di proprietà grammaticali, applicabili in linea di prin­ cipio a tutte le parole di categoria appropriata, piuttosto che lessi­ cali, ristrette a particolari parole. Dal punto di vista dell' italiano è naturale pensare che ogni nome, preso a sé, abbia un determinato genere, e compaia sempre in uno tra i valori di numero adatti al suo significato e al contesto . In realtà, in molte lingue il numero è una determinazione accessoria oppure limitata a certi nomi; e la nozio­ ne di "genere" si applica a sistemi molto diversi, a volte compatibili con l' idea che lo stesso nome ammetta più di un genere o, in questi casi, "classe".

Terremo presente questa variazione tipologica, senza però perdere di vista l'obiettivo principale di una migliore comprensione del nome come oggetto grammaticale. L'essenziale è che per il nome queste de­ terminazioni sono inerenti e non riprodotte per accordo ; sono cioè determinate dalla scelta stessa di un certo nome, da una particolare interpretazione e da un contesto sin tattico. Si tratta poi di determina­ zioni che dipendono dalla scelta di una parola e sono spesso legate al suo significato. Per questi motivi, genere e numero sono più rilevanti del caso, che marcando i rapporti sintattici tra costituenti della frase è anzitutto una proprietà di sintagmi, non legata alla scelta di una pa­ rola. Ci occuperemo quindi principalmente del genere e del numero a proposito del contenuto concettuale che viene espresso in termini di individuazione. Il capitolo si concluderà con una breve discussione sul caso, meno rilevante per i nomi, specialmente in italiano.

5.2.

Genere

s. 2.I . Genere , forma e accordo n genere è quella categoria che ci permette di dire che una forma come turista illustra non una ma due parole, ben distinte nel senso e nelle proprietà grammaticali: una è usata per descrivere un certo tipo di referenti, ha come plurale turisti, e ai fini dell'accordo sintattico si comporta esattamente come libro o fiore; l'altra si applica a un altro tipo di referenti, ha come plurale tu­ riste, e per la sintassi è indistinguibile da palla o chiave. Dal punto di vista della forma, quindi, la distinzione di genere si riflette sia a livello distribuzionale, cioè nella forma che devono avere le parole collegate a turista tramite l'accordo sin tattico, che nell' inventario delle forme disponibili per la parola in sé, cioè nel suo paradigma morfologico. Le due dimensioni vanno tenute distinte :fiore e chiave, per esempio, hanno lo stesso paradigma morfologico ma differiscono nel tipo di accordo che determinano, così come anche podesta e citta, che non hanno forme diverse per singolare e plurale. L'autonomia delle pro­ prietà di accordo dalla forma del nome è ancora più chiara in lingue che distinguono vari casi: così in latino poeta si declina esattamente come puella, "ragazza': e pirus, "pero" come pilus, "pelo"; o, in russo,

djadja, "zio" ha le stesse terminazioni di njanja, "bambinaia" in tutti i casi; ma il primo membro di queste coppie determina un tipo di accordo e il secondo membro un altro. 5.2. 2. Motivazione È molto più semplice parlare di genere ma­ schile e femminile, piuttosto che di "tipi di accordo". Ma questa peri­ frasi evidenzia che un genere è anzitutto uno schema di congruenza tra parole che hanno certe forme. Non è la -a finale di puella o njanja, né se è per questo la -e di chiave, a qualificare questi nomi come fem­ minili, ma la concomitanza di queste terminazioni con quelle che compaiono sui loro modificatori e su altre espressioni congruenti; per il semplice motivo che le classi di accordo possono essere diverse a parità di terminazioni (un fiore piccolo, una chiave piccola). Questo non esclude, in linea di principio, che un genere sia interamente de­ terminato dalla forma, così che in qualche lingua, tutti i nomi con un certo contrassegno formale (per esempio, una terminazione, o un profilo sillabico o accentuale) ricadano sistematicamente in un genere. Questo stato di cose è effettivamente attestato, ma non nelle lingue affini all ' italiano o al russo (un' illustrazione si ha nell 'ara­ pesh, parlato in Papua Nuova Guinea e oggi ben conosciuto grazie alla trattazione di Aronoff [199 4 ] ; i generi dell 'arapesh sono però almeno una mezza dozzina) . Ciò che si constata nella maggior parte delle lingue in cui sia definibile una categoria di genere, invece, è una relazione molto più indiretta, dove alcune forme si allineano in modo preponderante a un certo genere, altre meno, ma mai in mo­ do che una forma corrisponda a un genere in modo deterministico. Piuttosto, le etichette tradizionali di maschile, femminile e neutro o di animato e inanimato suggeriscono che la scelta del genere dipenda dal significato. I generi sarebbero quindi delle categorie grammatica­ li basate su una categorizzazione concettuale ; nel caso più familiare, una categorizzazione degli esseri animati in base al sesso, estesa se­ condariamente a coprire tutti i nomi della lingua. Si dirà allora che la scelta del genere è almeno parzialmente motivata e non arbitraria; in questi casi, motivata dal significato, e non dalla forma come in arapesh. Per una lingua come l' italiano, e per molte altre, la descrizione appena

tratteggiata non è tanto sbagliata, quanto potenzialmente fuorvian­ te. Che le etichette di "maschile" e "femminile" abbiano una solida giustificazione nell'attribuzione di genere ai nomi di esseri animati è indubitabile. La rilevanza di questa concettualizzazione diventa ancora più evidente quando si pensa ai pronomi personali, che non descrivono dei tipi di entità ma, se applicati a esseri animati, hanno un genere direttamente determinato dal loro referente. I generi restano, però, categorie grammaticali, non concettuali, cosa che denominazio­ ni come "maschile" o "inanimato" tendono a oscurare. È in quanto categorie del sistema grammaticale che i generi si estendono a tutti i nomi del lessico, ripartendoli in classi con proprietà linguistiche di­ stinte. Per questo, non c'è da stupirsi se occasionalmente un nome ha il genere "sbagliato': come il femminile guardia se riferito a un uomo (non come djadja, che è maschile nonostante la terminazione non ca­ nonica in -a). Le differenze tra le lingue nell'attribuzione di genere a nomi dal significato affine, nel numero e nella motivazione dei generi, nella stessa esistenza di opposizioni di genere (assenti, per esempio, nelle lingue agglutinanti come il turco) riguardano appunto il siste­ ma linguistico, non la percezione della realtà, come invece dovremmo concludere se un termine come "femminile" volesse dire la stessa cosa nella sua accezione grammaticale e in quella non grammaticale. L'aggancio con la dimensione concettuale avviene non direttamente tramite la classificazione dei nomi in generi, ma nel grado e nel modo in cui queste categorie sono motivate semanticamente. Per merito soprattutto dei lavori di Corbett (specialmente il classico Gender, del 1 9 9 1 ), oggi si distingue comunemente tra sistemi in cui la clas­ sificazione in generi è globalmente fondata sulla base del significato e sistemi (più comuni) in cui a un sottoinsieme di nomi, in cui la scelta di genere è semanticamente motivata, fa riscontro un insieme di nomi altrettanto o anche più consistente in cui funge come puro contrassegno formale. Le lingue dravidiche forniscono un' illustra­ zione spesso citata di attribuzione su base semantica; il tamil, per esempio, distingue un genere per esseri umani e divinità maschili, un altro per esseri umani e divinità femminili e un terzo per tutti gli altri concetti. Per moltissime altre lingue, invece, la ripartizione in generi non coincide con una categorizzazione concettuale ; entrambe sono

ss

presenti, ma su livelli distinti. La concettualizzazione chiaramente influisce sulla scelta del genere, non solo nei casi più ovvi di concetti differenziati sulla base del sesso, ma anche laddove l'opposizione di genere serva a esprimere altre categorie di significato : per esempio, il femminile è tipicamente usato in alcune varianti dell' inglese per riferirsi a navi, nazioni o manufatti; il maschile in italiano ha una funzione connotante nella descrizione di automobili più grosse della norma, o (meno gentilmente) in casi come puttanone. Anche dove la scelta di un genere è funzionale ali'espressione di un certo significato, quindi, non corrisponde di per sé stessa a una categoria di significato ; in particolare non a quella suggerita da termini come "maschile" o "animato". Quel che più conta, spesso la scelta di un genere semplice­ mente non ha un risvolto interpretativo. In breve, in questi sistemi la grammatica mette a disposizione delle opposizioni, che sono varia­ mente sfruttate per esprimere delle opposizioni di senso che gravi­ tano intorno a valori centrali (come maschile e femminile), motivati solo per un sottoinsieme di concetti. C 'è chiaramente una differenza sostanziale tra le lingue che ripartiscono il loro lessico nominale in due, tre o quattro generi e quelle in cui le classi indivi­ duabili sono dieci o venti. Nel secondo caso si parla generalmente di "classi nominali" (noun classes ) , soprattutto nella letteratura sulle lingue africane di ceppo Niger- Congo. Si tratta di classi individuate da affissi particolari che spesso ricorrono anche sugli elementi che si accordano con i nomi e appaiate in modo da formare delle coppie in­ terpretate come "singolare" e "plurale". Per esempio, la classe I in kuj a­ maat j6ola (una lingua Niger- Congo atlantica, parlata in Senegal ) è caratterizzata dal prefisso a- (a-sck, "donnà' o a-pil, "bambino") ; la classe 2, con il prefisso ku-, esprime il plurale dei nomi corrisponden­ ti (ku-sck, "donne': ku-pil, "bambini"), così che si può parlare delle classi I e 2 come di un genere. Allo stesso modo sono collegati c-ycn, "cane" e si-ycn, "cani", dove c- e si- marcano rispettivamente le classi 3 e 4 (esempi tratti da Aronoff, Fudeman, 200 5 ) . Le classi individuabili sono ben I 9, comprendendo quelle marginali. S enza entrare in questioni tipologiche che ci porterebbero piutto5·2·3· Genere e classificazione nominale

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sto lontano, possiamo però dire che le lingue che distinguono un numero limitato di generi e quelle con un numero spesso molto superiore di classi in realtà rappresentano varianti della stessa stra­ tegia, che consiste nel classificare il lessico nominale per mezzo di strumenti morfologici appositi, in modo da formare delle classi definite dal tipo di accordo sintattico, più o meno congruenti con classi definite concettualmente. In un senso ancora più ampio ri­ entra tra le strategie di classificazione nominale, oltre ai generi in senso stretto e alle classi nominali, anche l'uso dei cosiddetti "clas­ sificatori" (PAR. 3.3.2). Le lingue che generalizzano l'uso di classifi­ catori rappresentano una categoria tipologicamente molto diversa, in particolare per quanto riguarda la costituzione stessa della no­ minalità: i classificatori formano una specie di "super-lessico" ri­ stretto, i cui membri esprimono le principali categorie concettuali in cui si organizza l ' intero insieme dei nomi. Nelle costruzioni che richiedono un classificatore, è solo combinandosi con uno di questi elementi che un tema nominale diviene un nome dal punto di vista sin tattico ; per cui non si tratta tanto di marcatori di categoria gram­ maticale, quanto di elementi che esprimono essi stessi una categoria concettuale e che si combinano con temi nominali per creare nomi sintatticamente completi. Tornando al genere, in lingue come l' italiano un caso come mamma ci offre un'ultima considerazione a proposito della classificazione dei nomi. È evidente che, per quanto parziale sia il ruolo della mo­ tivazione semantica sulla base del sesso del referente, in casi come questo il nome è femminile in un senso intrinseco, sulla base cioè del significato intrinseco di questo nome ; il genere femminile come proprietà grammaticale è del tutto naturale o, se si vuole, ridondante. In realtà le cose non stanno propriamente così e per convincersene basta considerare la forma mammo, ben attestata per descrivere un essere umano maschile che svolge il ruolo di mamma. In questo caso, che non va naturalmente generalizzato ma ha una sua importanza, osserviamo che la componente "femminile", inscindibile dal signifi­ cato centrale del nome, può accompagnarsi a un valore referenziale maschile. li punto è che quel che rende mammo un predicato appli­ cabile a esseri maschili non è altro che la terminazione, che a sua voi-

ta esprime il genere. In casi come mammo, quindi, non è il nome a es­ sere classificato sotto un genere sulla base del suo significato lessicale, ma il genere che riclassifica il nome sotto un'altra categoria. È anche vero che questo richiede la presenza di una classificazione originaria (di mamma) dovuta al significato lessi cale. In ogni caso è necessario distinguere tra una visione del genere come un'assegnazione di un nome a una particolare categoria e un'altra, in cui ciò che decide il genere è una parte costitutiva del nome (come un classificatore ; cfr. PAR. 5.2.5). 5· 2·4· Genere e accordo Per le lingue che lo permettono, l'ac­ cordo in tratti grammaticali è il contrassegno distintivo di parole che stanno tra loro in un legame di costruzione sintattica. Non c 'è accordo, per esempio, in donna poliziotto, dove due nomi sono giu­ stapposti a creare una parola complessa. Non bisogna confondere pe­ rò la congruenza grammaticale in senso proprio con corrispondenze motivate dal significato. In tedesco, Mddchen, "ragazzà: è di genere neutro (una proprietà determinata dal suffisso diminutivo), e quindi determinanti e modificatori che si accordino con questo nome de­ vono essere neutri: das Mddchen, "la ragazza", jedes Mddchen, "ogni ragazzà'. Ma spesso il sintagma neutro ein Mddchen è ripreso da un pronome femminile come sie: ein Mddchen hat angerufen; sie hat eine Nachricht hinterlassen, "ha chiamato una ragazza; [lei] ha lasciato un messaggio". Si parla in questi casi di accordo su base semantica, per distinguerlo dalla congruenza grammaticale. In inglese, dove solo i pronomi e gli aggettivi pronominali hanno forme distinte per genere, l'accordo in genere è solo su base semantica (il che beninteso non vuoi dire che il genere sia una categoria del significato piuttosto che della grammatica) . Differenziare l'aspetto propriamente grammatica­ le aiuta a rendersi conto che è semplicistico identificare l' assegnazio­ ne del genere con una scelta concettuale. Per esempio, se l' inglese non distingue il genere di lawyer, "avvocato': è perché il sistema ha perso, nel corso dei secoli, le opposizioni morfologiche di genere su nomi e aggettivi, non perché i suoi parlanti abbiano una mentalità particolar­ mente aperta (del resto, l' inglese, ma non le lingue romanze, indica il genere del possessore : his l her book, "il suo [di lui] l [di lei] libro") . 88

Il ruolo del sistema grammaticale emerge chiaramente quando a determinare l'accordo è un'espressione con valori di genere contra­ stanti. Se in italiano si dice Gianni e Anna sono partiti, con partiti al maschile plurale, è perché il "maschile" agisce da default, cioè da scelta predeterminata quando il genere non può essere scelto sulla base delle proprietà di un nome. Questo vale per sintagmi coordi­ nati dai valori contrastanti, ma anche per nominalizzazioni come un perché o quel 'zzz". Naturalmente non è un caso che il genere scelto per default in questi casi corrisponda proprio a quello che, quando è motivato, si usa per gli esseri animati di sesso maschile ; né che siano plurali maschili come .figli o genitori ad avere un' in­ terpretazione collettiva che neutralizza la distinzione di genere (e si pensi allo spagnolo padres nel senso di "genitori", o all'americano you guys, letteralmente "voi ragazzi" come plurale di you con genere indifferenziato ) . I generi, quindi, hanno valori disuguali, e quello più ampiamente usato come default è il maschile ; ma è per questo che si può parlare di un'asimmetria concettuale, non perché Gianni e Anna siano visti come un'entità "prevalentemente" maschile. La ri­ prova si ha nel fatto che altre lingue adottano strategie parzialmente diverse. Anche in rumeno, i sintagmi complessi designanti esseri di sesso opposto si accordano al maschile (Maria fi fon sunt destepfi [masc. pl.] , "Maria e lon sono eleganti"); ma per gli inanimati si usa il femminile : casa [sg.] fi peretele [masc. sg.] sunt vopsite [fem. pl.], "la casa e il muro sono verniciati"; copacul fijloare [fem. sg ] sintfru­ moase [fem.pl.] ; ele [fem. pl.] sunt in gradina mea, "l 'albero e il fiore sono belli; essi sono nel mio giardino". Evidentemente, non è molto plausibile ipotizzare una differenza ideologica con l' italiano sulla base di questo semplice fatto grammaticale. Non può essere un caso che il rumeno usi il "femminile" come scelta di default non solo per sintagmi comprendenti generi diversi, ma anche per riprendere pronominalmente espressioni che di per sé non hanno un genere, come in fon a venit acasa, ;i aceasta [ fem.] mafocefericit, " lo n è venuto a casa, e questo [fem.] mi rende felice". Inoltre, il rumeno ha una classe molto numerosa di nomi maschili al singolare e femminile al plurale : per esempio, un toc bun, "una penna buonà' (con un e bun maschili) diventa al plurale doua tocuri

bune, "due penne buone" (con doua e bune femminili). La proprietà di avere generi diversi al singolare e plurale compare anche nei nomi italiani come uovo-uova, ma con la differenza sostanziale che nel caso del rumeno non si tratta affatto di un piccolo gruppo di nomi con una forma particolare e significati più o meno speciali come l' inter­ pretazione di mura rispetto a muri. In effetti, i molti nomi rumeni come toc, "penna", sono in un certo senso un terzo genere, distinto sia dal maschile che dal femminile : così come attribuiamo la pro­ prietà di determinare un tipo di accordo a certi nomi, e un altro tipo ad altri, possiamo riconoscere la proprietà di determinare un valo­ re al singolare e l'altro al plurale come il contrassegno di una terza classe di nomi. Senza addentrarci in questioni che non riguardano specificamente i nomi, segnaliamo però che la problematica è meno esotica di quanto sembri, poiché una situazione simile a quella del rumeno si ritrova in certi dialetti dell' Italia meridionale e mediana (Loporcaro, 2009, pp. 1 3 5- 6 ) . Qui i fatti sono meno conosciuti, ma non meno interessanti; anzi, Loporcaro e Paciaroni (201 1 ) mostrano come la situazione sia più complessa, con dialetti che distinguono ben quattro schemi di accordo distinti. Abbiamo già menzionato la dif­ ferenza tra i nomi, per i quali il genere, se presente nella lingua, è fisso, e gli elementi su cui invece ha un valore variabile, determinato per accordo grammaticale o basato sul significato. Va da sé che la di­ stinzione non è sempre netta, anche perché non è sempre chiaro se una parola vada considerata un nome o un aggettivo (si pensi a casi come raccomandato o raccomandata). Ma a parte queste considera­ zioni, discusse nel PAR. 1.2.2, la distinzione tra elementi che si accor­ dano ed elementi che determinano l'accordo è chiara. Merita invece un approfondimento il modo in cui il genere trova espressione nella forma dei nomi. Partendo da esempi italiani, abbiamo visto ( PA R. 5 .2.1) che un genere non coincide con una forma. Bisogna quindi distinguere il genere da quello che si chiama tradizionalmente declinazione, cioè uno sche­ ma della flessione nominale ; per usare un termine più aggiornato, che copre sia la declinazione (per nomi, aggettivi, pronomi) che la 5 .2.5. Genere e classi Bessionali

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coniugazione (per i verbi), parleremo piuttosto di classeflessionale. Il genere, come si è visto, è la categoria che suddivide il lessico nomina­ le in classi distinte e definisce gli schemi in cui si organizza l'accordo sintattico. La classe flessionale è invece definita non dal tipo di ac­ cordo tra parole, ma dall' inventario delle forme (paradigma mor­ fologico) di una singola parola: turista-turiste appartiene alla classe flessionale definita dalle terminazioni -a (singolare) ed -e (plurale), mentre turista-turisti a quella -al-i. In sostanza, una classe flessionale è un modo di dare espressione a una serie di proprietà grammaticali; turista-turiste differisce da turista-turisti solo nella forma del plura­ le, mentre i paradigmi di libro-libri e penna-penne differiscono in tutte le forme possibili (qui, solo due). D 'altra parte, sia mano-mani che libro-libri rientrano nella stessa classe, così come citta e podesta, anche se hanno generi diversi e richiedono classi flessionali distinte per le parole a loro congruenti (questa citta, questo podesta ) . Come si vede, i modificatori ricevono un valore di genere dal nome con cui si accordano, mentre è una loro proprietà intrinseca, che distingue una parola dall 'altra, esprimere le determinazioni grammaticali secondo lo schema di una classe flessionale piuttosto che un'altra; per esem­ pio, grande esprime ogni combinazione di genere e numero secondo l'unica classe -el-i, mentre grosso ricorre a due classi per esprimere i due generi, -ol-i e -al-e. È questo uso per così dire specializzato di certe classi flessionali per esprimere un certo genere sui modificatori che rende tanto naturale pensare che -al-e "voglia dire" femminile e -ol-i maschile; in realtà, questi non sono altro che due schemi for­ mali, che vanno tenuti separati dal genere che servono a esprimere. La differenza è anche più chiara in lingue che distinguono vari casi, come si è visto per il russo djadja, "zio", che determina lo schema di accordo dei nomi maschili ma si flette secondo la classe flessiona­ le dei nomi come njanja, " bambinaià', in prevalenza femminili. Gli esempi si possono moltiplicare facilmente ; ricordiamo solo un caso dal greco classico, e cioè il tipo neanfa, "ragazzo", maschile anche se in una classe prevalentemente femminile (la prima declinazione, in termini tradizionali), ma con l' importante differenza che una voce del paradigma (il genitivo singolare) ha sistematicamente la termi­ nazione -ou che appartiene invece alla classe flessionale con nomi91

nativo in -os ( la seconda declinazione ) , prevalentemente maschile. Come si vede, i rapporti tra genere e classe flessionale sono com­ plessi e dipendono in ultima analisi dai singoli sistemi grammaticali. Il concetto di classe flessionale perde in larga misura il suo valore quando i generi di una lingua hanno le proprietà delle "classi nomi­ nali" ( cfr. PAR. 5 .2.3) tipiche di molte lingue africane, caucasiche e australiane ; quando cioè si ha a che fare con un numero di classi de­ cisamente superiore a due o tre, almeno alcune delle quali sono appa­ iate in modo da esprimere singolare e plurale. Molto spesso ognuna di queste classi è caratterizzata da un singolo contrassegno forma­ le, eventualmente con delle variazioni motivate fonologicamente. Lo swahili fornisce un esempio classico, dove in una frase come ( I ) nome, verbo, aggettivo e numerale s i accordano per classe e hanno tutti il prefisso ki- della classe 7 al singolare e il prefisso vi- della classe 8 al plurale ( cit. da Corbett, I 99I, pp. 43-4): k.i-moja k.i-kubwa (I) a. k.i-kapu 7-cesta ?-grosso 7-uno "una grossa cesta è caduta" b. vi-kapu vi-kubwa vi-tatu 8-cesta 8-grosso 8-tre "tre grosse ceste sono cadute"

k.i-lianguka 7-cadere.PASSATO vi -lianguka 8-cadere.PASSATO

Anche in questi sistemi, in realtà, il prefisso di una classe spesso ha re­ alizzazioni diverse a seconda della categoria lessicale ( nomi, pronomi o verbi ) ; per esempio, il prefisso della classe I sul verbo likuja è a-, non m- come sul nome e sul numerale ( ivi, p. u 8 ) : m-moja (2) m-tu I-persona I-uno "una persona è venuta"

a-likuja I-venire.PASSATO

Il fatto essenziale resta che, mentre un genere può comprendere di­ verse classi flessionali, una coppia di classi con funzione di singolare e plurale non determina ulteriori suddivisioni. 92

S·3·

Numero

Se il genere è la categoria che distingue infermiere da infermiera, il numero distin­ gue infermiere da infermieri. Oltre che nell 'esprimere l'opposizione tra uno e più di un referente, il numero differisce dal genere perché infermiere e infermieri sono due forme di un solo nome, mentre infermiera e infermiere sono due nomi distinti. In un altro senso, però, anche il numero è una proprietà inerente dei nomi: è vero che un dato nome può essere singolare o plurale, ma la scelta non è deter­ minata dal contesto grammaticale, come per i determinanti e per le categorie che si accordano per numero. In altri termini, il femminile è inerente in casa per la scelta stessa del nome ; il numero non è ine­ rente nello stesso senso, ma la scelta dipende da quello che vogliamo esprimere, ed è per così dire decisa dall ' interno del nome ( in base al significato che si intende esprimere ) e non dall'esterno ( in base al contesto sin tattico ) . La determinazione di numero ha un ruolo centrale nel contenuto di un nome, perché è intimamente legata all' individuazione. Se il gene­ re, con un valore fisso per ciascun nome, suddivide il lessico in classi di accordo più o meno direttamente correlate a categorie concettua­ li, il numero consiste nella scelta, per ogni nome a cui si applica, di un valore tra vari possibili che qualificano il referente come "uno" oppure "non-uno", come individuo singolo contrapposto a individui molteplici, ma anche a coppie, ad altre pluralità, oppure alla man­ canza di qualsiasi individuazione. Anche per il numero, come per il genere, è il caso di ricordare come si abbia a che fare con una cate­ goria grammaticale e non concettuale, per cui sarebbe quanto meno fuorviante tradurre direttamente ogni valore di numero in termini concettuali. Per esempio, ciò che chiamiamo "singolare" si adatta a descrivere individui concretamente singoli (cane) così come entità concrete prive di delimitazioni naturali (acqua) o astrazioni di vario tipo (altezza, prezzo, amore) . Ma come categoria grammaticale, il numero ha comunque un rapporto con il significato più diretto del genere, perché mentre le opposizioni di genere servono a classificare il lessico nominale indipendentemente da quanto siano motivate, S·3· I · Funzione grammaticale e individuazione

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le opposizioni di numero tra forme dello stesso nome "significano" sempre qualcosa; e anche in mancanza di un'opposizione, un valo­ re di numero piuttosto che un altro esprime una determinazione relativa ali ' individuazione (tranne in rari casi come, per esempio, i nomi propri plurali). Il numero esprime quindi attraverso un'oppo­ sizione grammaticale un aspetto centrale del significato dei nomi, e cioè la concettualizzazione in termini di individualità. L' opposizio­ ne fondamentale distingue concetti individuali, per i quali si sa cosa vuoi dire essere uno o più di uno, o intero o non intero, da concetti come "acquà', "orgoglio", "altezzà'. Per questo, come abbiamo visto nel capitolo 3 , una delle proprietà più chiare che distinguono i nomi numerabili da quelli di massa è che solo i primi ammettono libera­ mente la pluralizzazione. In realtà, il contrasto fondamentale tra singolare e plurale, anche in una lingua come l ' italiano, non è tanto fra "uno" e "più di uno': quan­ to fra "uno" e "non-uno". Anzitutto, se è vero come accennato che solo i nomi numerabili ammettono liberamente la pluralizzazione, secondo uno schema interpretativo perfettamente regolare (appun­ to, "uno-più di uno"), molti nomi di massa si presentano al plurale :

le esalazioni del pozzo, le nevi eterne, solidefondamenta, abbondan­ ti ricchezze e moltissimi altri esempi mostrano come il plurale non comporti affatto numerabilità (quante esalazioni o nevi ? abbondanti ricchezze è ben diverso da *numerose ricchezze). Inoltre, anche con l' interpretazione numerabile canonica, il plurale a ben guardare non designa sempre delle pluralità. Se una scatola contiene un solo fiam­ mifero, alla domanda ci sono fiammiferi nella scatola ? bisognerà ri­ spondere affermativamente se si vuole essere veritieri. La domanda non si può parafrasare come "ci sono pluralità di fiammiferi ?", inten­ dendo solo insiemi con almeno due membri. Allo stesso modo, chi ha un solo figlio dovrà rispondere di sì alla domanda haifigli ? Questi usi si spiegano ammettendo che il plurale abbia un significato in un certo senso generico, mentre il singolare ha il senso più specifico di "uno" (applicato a un certo nome). L'uso del plurale implicherebbe che il referente non è espressamente qualificato come "uno", risultan­ do così "non-uno"; nel caso più frequente, applicato a nomi numera­ bili, questo equivale allora a "più di uno". 94

Traducendo in un 'opposizione morfologica il fondamentale contrasto concettuale tra "uno" e "non-uno", il numero ha un'applicazione che va al di là della cate­ goria dei nomi. Non si intende con questo il fatto che anche verbi, aggettivi e modificatori del nome possano flettersi per numero. In moltissime lingue la congruenza grammaticale tra varie espressioni in accordo riguarda il numero, come e più del genere, per cui in i miei genitori sono tornati il plurale compare su articolo, aggettivo possessivo e verbo ( sia sull'ausiliare sono che sulla terminazione di tornati). In questo esempio, la forma plurale del verbo riflette la pluralità del sintagma soggetto i miei genitori; ma non è il verbo a essere interpretato pluralmente. Ora, a differenza di questa caratte­ rizzazione puramente grammaticale, ci sono invece dei casi in cui una determinazione di numero qualifica un verbo come singolare e plurale anche a livello di interpretazione. Ci sono cioè lingue che hanno forme speciali del verbo per esprimere il contrasto tra una o più di un' azione ; un evento verbale può quindi essere grammatical­ mente marcato come "plurale", se lo stesso tipo di evento è replicato su molti partecipanti, uno per evento ; oppure se consiste in nu­ merose sottoparti ( come i singoli spasmi in un 'azione continuata descritta come singhiozzare) ; oppure se è indefinitamente ripetuto come un'abitudine. Per esempio, nel dialetto eschimese della Gro­ enlandia occidentale il suffisso -qattaar- trasforma un verbo che descrive un evento singolo ( qui, un'esplosione ) in uno che descrive una serie indefinita di eventi: 5 ·3 · 2· Numero e nominalità

( 3 ) quaartartut

sivisuumik qaar-qattaar-put bombe a.lungo esplodere-PLURALE-3.PLURALE "continuarono a lungo a esplodere delle bombe"

Van Geenhoven (2004), da cui è tratto l'esempio, nota che se il verbo restasse "internamente" plurale ma accordato con un soggetto singo­ lare, l' interpretazione sarebbe di una bomba che continua a esplo­ dere ( evento ripetuto ) ; mentre togliendo al verbo in (3) il suffisso -qattaar- la frase significherebbe che ogni bomba esplode a lungo ( unico evento ) . 95

Queste forme illustrano una pluralità intrinsecamente verbale, in cui la caratterizzazione di essere "uno" o "più di uno" si applica agli even­ ti descritti dai verbi e non alle entità descritte dai nomi : l' individua­ zione è un concetto talmente fondamentale che il suo ruolo va al di là della nominalità. D'altra parte, i valori della categoria di numero non si riducono a singolare e plurale, né il loro senso a "uno" e "molti". Ab­ biamo già esaminato (cfr. PAR. 3·3) l' importanza dell' individuazione per la concettualizzazione di entità; qui ci interessano piuttosto gli aspetti grammaticali in cui il numero esprime questi contenuti. Nonostante la cen­ tralità della dimensione di individuazione, non tutte le lingue hanno una categoria di numero grammaticale. Per rendersi conto di come una componente concettuale così importante possa non trovare espressione grammaticale, bisogna anzitutto ricordare che un' indi­ cazione di pluralità o singolarità su un nome è spesso fondamental­ mente ridondante. In casi come tre cani o un certo numero di cani, co­ noscere il significato del numerale o delle espressioni di quantità (che qui non sono al plurale) già di per sé comporta il riconoscimento che l' intero sintagma nominale deve riferirsi a una pluralità; in modo si­ mile, in un po' di cani, chi sa che cane è un nome numerabile sa anche che, costruito con questo determinante complesso, il nome non può che indicare una quantità di individui; così come basta sapere che sabbia è un nome di massa per sapere che un po' di sabbia indica una quantità che non è concettualizzata come una pluralità di individui ma come un'unica massa. In questi casi, quindi, i valori di numero sul nome riflettono, più che determinare, l' interpretazione definita a livello del sintagma. Non sorprende quindi che proprio in questi ca­ si molte lingue omettano le opposizioni di numero sul nome, come succede in turco o in ungherese, dove compare obbligatoriamente il singolare. Oppure, una lingua può avere un'opposizione di numero, ma ridurre anche considerevolmente la sua espressione sui nomi; si arriva così a un esempio come il francese (moderno), dove a parte casi assolutamente minoritari come os (''osso': pronunciato con la s ) - os (''ossa': pronunciato [o : ] ) o cheval, i nomi hanno perso qualsiasi con­ trassegno formale dell'opposizione, che però è presente nella lingua 5·3·3· Tipologia del numero grammaticale

-

e determina forme diverse di determinanti e aggettivi: singolare [l;) liv"M ] , plurale [k li w] ). Altrove, invece, si è ristretto il dominio di ap­ plicazione della categoria: nell' inglese di oggi, non c'è distinzione di numero per l'articolo determinativo e per gli aggettivi, ma solo certi determinanti e per i nomi (in verità, non per tutti) . Se questo avviene i n lingue che hanno una categoria grammaticale di numero, non c'è da stupirsi se altri tipi linguistici fanno del tutto a meno di questa categoria. È piuttosto comune che una lingua abbia delle forme nominali senza distinzione di numero, che se riferite a in­ dividui si possono interpretare indifferentemente come designanti un singolo o una pluralità: nella lingua amerindiana dene sqliné, parlata in Canada, Bal lue ndghélnfgh significa "Val ha comprato pesci" o "un pe­ sce': perché la forma lue è generica quanto al numero (l'accento acuto indica tono ascendente e l sta per una fricativa laterale sorda). Queste forme possono essere disambiguare, quando serve, anzitutto da espres­ sioni di quantità, ma anche dai verbi che le reggono, se la lingua ha pluralità verbale (cfr. PAR. 5 .3.2): applicato al generico lj, "cane-cani': il verbo singolare nddhèr dice che "ci abita un cane': ma la forma nddé, intrinsecamente plurale (non per accordo), serve a esprimere che "ci abitano dei cani" (cfr. Wilhelm, 2o o8). La maggior parte delle lingue senza numero nominale appartiene a un'altra categoria, in cui i tipi di individualità linguisticamente rile­ vanti sono espressi per mezzo di classificatori, cioè morfemi gramma­ ticali separati dai nomi e che tipicamente accompagnano numerali o espressioni di quantità (cfr. PAR. 3.2.2). Tramite i classificatori, le opposizioni interpretative che concernono l' individuazione caratte­ rizzano così le espressioni di quantità, piuttosto che i nomi. Si tratta di due strategie essenzialmente complementari e per molto tempo si è pensato che avere un sistema di classificatori e una categoria gram­ maticale di numero implicasse due possibilità mutualmente esclusi­ ve ; oggi sappiamo che espressioni di pluralità possono coesistere con un classificatore, ma piuttosto raramente e di solito non tanto come elementi grammaticali quanto come modificatori, spesso opzionali. In un certo senso, le lingue che esprimono l' individuazione senza un'opposizione di numero occupano l'estremo di una scala, al cui lato opposto si trovano le lingue in cui questa categoria è interamente 97

grammaticalizzata, e non solo esprime l' individuazione ma compa­ re per accordo anche dove non ha nessun valore interpretativo, ed è applicata all' intero lessico nominale anche quando la motivazione semantica è debole o nulla; per esempio, in toponimi plurali, o in nomi convenzionalmente solo duali come l'ebraico mayim, "acqua" o solo plurali come il russo zamorozki, "gelatà: o il latino calendae, "ca­ lende". In questa prospettiva, possiamo considerare un caso interme­ dio quello delle lingue a classe nominale (PAR. 5 .2. 5 ), che hanno dei "generi" costituiti da due classi appaiate, una per l' interpretazione singolare e l'altra per quella plurale. Il motivo è che solo alcune classi sono appaiate in questo modo. Per restare allo swahili, se "pietra" ha un singolare di classe sji-we e un plurale di classe 6 ma-we, molti altri nomi di classe 6 designano sostanze come ma-ji, "acqua" o majuta, "olio': e non hanno un corrispondente singolare. Inoltre, la classe 6 può formare nomi come ma-ta, designanti un complesso di arco e frecce, appaiato a u-ta "arco" (classe I I ) . La classe 6 quindi non è "il" plurale della classe s, ma una categoria che raccoglie designazioni di entità non individuate, sia masse che complessi suddivisibili in ele­ menti; nel secondo caso un'altra classe denota gli elementi singoli. La concettualizzazione come entità non individuata trova quindi espressione nell'appartenenza a un'unica classe, che neutralizza l'op­ posizione di unità e molteplicità. Ritornando ora alle lingue basate sull'opposizione grammaticale di numero nella flessione nominale, un' importante dimensione di varia­ zione riguarda i valori che essa può prendere. Anzitutto, come è ben noto, singolare e plurale sono a volte accompagnati da un terzo valore esprimente il duale ; sono attestate anche forme speciali di triale, per esempio in lingue austronesiane. In realtà, a volte i valori di duale o triale sono ristretti a pronomi o espressioni di accordo pronominale, che forniscono un' indicazione di quantità sussidiaria a un numerale, un po' come in "noi due andiamo", "voi tre andate". In effetti, nono­ stante etichette come "duale" e "triale" suggeriscano il contrario, le lingue non categorizzano i sintagmi nominali su basi aritmetiche, ma sulla base dell ' individuazione. Il duale, in particolare, spesso dà espres­ sione morfologica a una concettualizzazione come paio, ed è quindi usato per entità che formano "naturalmente" delle coppie (scarpe, oc-

chi e altri organi abbinati), piuttosto che genericamente per insiemi di due elementi. In effetti, duale e triale spesso sfumano in ciò che la letteratura chiama "paucale': che concettualizza una pluralità ridotta, di cardinalità maggiore o uguale a due (la pluralità minima) ma ab­ bastanza piccola per lasciar riconoscere gli elementi singoli. Inoltre, in una tipologia del numero vanno inclusi quei valori che esprimo­ no l'opposto del paucale, cioè una molteplicità indeterminata perché troppo grande per enumerarne gli elementi; oltre a forme "generali': che non esprimono informazioni relative a unità o molteplicità. Quest 'ultimo fenomeno merita una menzione particolare. In italia­ no, la morfologia del numero oppone semplicemente il singolare al plurale ; ma entrambi i valori possono esprimere un' interpretazione indeterminata, tipicamente in frasi generiche come nell'oggetto di Franklin invento il parafulmine o nel soggetto di Gli inglesi giocano bene a golf, che non si riferiscono in senso stretto né a un individuo né a una pluralità. Invece la forma lue, "cane-cani" del dene sqliné, ci­ tata poco sopra, esprime questa indeterminatezza anche morfologi­ camente perché non è né singolare né plurale. Il fenomeno è partico­ larmente diffuso nelle lingue creole, in cui gli schemi grammaticali di più lingue native si sono radicalmente modificati a contatto tra loro e con una lingua dominante che ha fornito la base del vocabolario; un esempio tratto dal creolo giamaicano, su base inglese, è pumpkin, singolare in inglese (''zucca") ma qui indeterminato (Bobyleva, 2 0 1 1 ) : (4) we decide seh we haffi have pumpkin too "abbiamo deciso che dovevamo avere anche qualche zucca". Poiché queste forme si iscrivono in sistemi che hanno opposizioni di numero, l ' interpretazione indeterminata è parte integrante di un sistema di numero grammaticale. In altre lingue con opposizione di numero, una forma che non è contrassegnata né come singolare né plurale ha invece un' interpretazione determinata, che per certi nomi è singolare e per altri plurale. È risaputo, per esempio, che in inglese il plurale (regolare) si forma suffissando -s al nome di base, 5·3·4· Numero inerente al nome

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che coincide con la forma del singolare (pen-pens), il che equivale a dire che il singolare non ha un contrassegno di numero ma il plurale sì. Ma la situazione può essere inversa: in gallese, dai! (senza nessun contrassegno formale) si accorda al plurale, e si traduce come "fo­ glie" o "fogliame"; il corrispondente singolare è dailen, "foglià: con un suffisso -en che regolarmente forma il singolare a partire da nomi­ base plurali. Ma, in gallese, non tutti i nomi-base sono plurali; an­ zi, nella grande maggioranza sono singolari e sono pluralizzati con l'aggiunta di un suffisso come in inglese (per esempio, cath, "gatto': -cathod, "gatti"). Vanno quindi distinti nomi, per così dire, origina­ riamente plurali, che possono diventare grammaticalmente singola­ ri per mezzo di un contrassegno formale apposito; e altri che sono originariamente singolari, e diventano plurali in maniera derivativa. Nelle lingue in cui vige questa distinzione, i nomi originariamente plurali tendono a designare entità come foglie, fiori, alberi, insetti, frutti, animali da lavoro o da cortile, pesci, onde e molte altre ac­ comunate dal fatto di apparire di solito come molteplicità e di non permettere facilmente di distinguere un membro dall'altro ; questo comprende anche certi esseri umani, per esempio "bambini" (galle­ se plant, singolare plentyn) o sostanze granulari come il bretone bi­ li, "ghiaia", o l'arabo rami, "sabbia". È evidente che questi nomi sono inerentemente plurali non per caso, ma perché i loro referenti sono concettualizzati primariamente come pluralità. Si tratta cioè di nomi "collettivi", che abbiamo illustrato brevemente nel PAR. 3 . 1 , notando che il termine è ambiguo dal momento che confonde plurali come l' arabo, baqar "mucche, bestiame': con singolari come l' italiano be­ stiame o anche orchestra. I nomi singolari derivati da questi collettivi, come dail-en, "foglià', sono noti come "singolativi". Un nome singolativo è quindi singolare in maniera derivativa, grazie a un contrassegno che modifica una base non singolare. È importante precisare "non singolare" piuttosto che "plurale" o "collettiva", perché a sua volta la base può avere un' interpretazione indeterminata, come nella coppia basa!, "cipolla/ cipolle", basdl-tu, "singola cipolla", della lingua cuscitica afar parlata in Etiopia e in Eritrea. Un singolativo, quindi, è derivato sia nella forma che nel contenuto. In una coppia come il gallese dail-dailen, nella misura IOO

in cui è corretta la traduzione "foglie-foglia", l 'opposizione esprime effettivamente le letture plurale e singolare ; ma non tutte le lingue sovrappongono in questo modo l'opposizione collettivo-singola­ tivo a quella singolare-plurale. Alcune trattano il singolativo come un nome a sé stante, con singolare e plurale propri; come l'arabo, che distingue la forma-base baqar, "mucche ( indifferenziate )", il singolativo baqar-a , "mucca", e il suo plurale baqar-aat, "mucche (una ad una)". La derivazione singolativa è in questo caso un modo per creare una nuova parola. Anche un particolare valore di numero può diventare una parte in­ tegrante di un nome. Il plurale è inscindibile dalla scelta del nome nei cosiddetti pluralia tantum, come nozze o viveri; ma più interes­ sante è l' incrocio di numero e genere in casi come membra o brac­ cia, dove il plurale femminile determina un' interpretazione con un contenuto concettuale sensibilmente diverso da quello disponibile per il maschile, e anche da quello del singolare, che abbraccia i due sensi tenuti distinti al plurale ( membro come elemento di un gruppo oppure di un organismo vivente, e braccio come parte del corpo op­ pure elemento meccanico o estensione di mare di forma allungata). Anche in lingue a classi nominali, l'assegnazione di un nome a una classe piuttosto che a un'altra può rideterminare il contenuto con­ cettuale di un nome : in kujamaat j6ola, lingua parlata in Senegal, il nome massa mu-mel, "acqua" (classe I I ) , può venire riassegnato alla classe I O, tipica per le descrizioni di piccole entità, con interpre­ tazione numerabile (ji-mel, "una piccola quantità d' acquà') . S iamo quindi riportati, ancora una volta, al tema dei rapporti tra contenu­ to concettuale e proprietà inerenti al nome.

S ·4· Caso

Con la determinazione di caso, molte lingue esprimono la funzione di un sintagma nominale (tra cui i pronomi) tramite la forma di uno o più elementi del sintagma. Per esempio, il tedesco marca la fun­ zione di possessore con una terminazione -s nel sintagma maschile singolare des grossen Baums, "del grosso albero", che compare sul deIOI

terminante des e sul nome Baum-s; mentre per il femminile singolare e per tutti i plurali questa marca di "genitivo" appare regolarmente solo sui determinanti e non sul nome. In altre lingue, il caso deter­ mina invece una differenziazione formale solo sul nome. In italia­ no possiamo riconoscere una sopravvivenza del caso in opposizioni come quella tra i pronomi io e me, la cui scelta dipende interamente dalla funzione sintattica. Per lingue che hanno caso morfologico si intendono generalmente quelle che lo manifestano sui nomi, oltre che eventualmente su altri elementi congruenti. Si tratta quindi di una categoria nominale, nel senso che concerne la forma dei nomi, pronomi ed eventualmente aggettivi. Questi possono avere forme caratteristiche per la funzione di soggetto o di oggetto indiretto o di soggetto di verbo transitivo ; oppure per funzioni come la localizza­ zione, la provenienza o la causa. Anche quando concerne solo la forma dei nomi, il caso è quindi una proprietà di un sintagma e, non strettamente parlando, di un nome. Infatti, ciò che intrattiene un certo rapporto con il resto della frase o del sintagma è, per definizione, un suo costituente, che corrisponda o meno a una parola singola. A causa della sua natura necessariamente sintattica e relazionale, quindi, il caso non è una proprietà costituti­ va dei nomi, come invece il genere, che marca l'appartenenza a una delle classi che la lingua riconosce come nomi, o come il numero, che qualifica l' individuazione dell'entità descritta dal nome. Anche qui, come per la definizione della nominalità in termini comunicativi (cfr. CAP. 2 ), bisogna fare attenzione a non confondere ciò che è pro­ prio del nome con ciò che è proprio del sintagma nominale. Il caso rientra nella seconda categoria, e in questo senso è considerato già nella tradizione grammaticale classica una delle determinazioni "no­ minali"; a buon diritto, va aggiunto, perché è verissimo che la facoltà di flettersi secondo il caso contraddistingue, per esempio, le forme del paradigma verbale che hanno le proprietà grammaticali di nomi (tedesco des Liebens, "dell'amare", dove l' infinito ha la terminazione -s del genitivo) o aggettivi (latino ab urbe condita, "dalla città fonda­ tà: cioè "dalla fondazione della città''). Ma la nominalità palesata da queste e simili forme è anzitutto morfologica, nel senso che si tratta di parole la cui forma è determinata dalle categorie che caratterizza102

no quella di nomi, determinanti, aggettivi e pronomi; non è quindi una determinazione di nomi in senso stretto. In realtà nemmeno dal punto di vista della forma il caso è sempre una determinazione dei nomi, dal momento che in certe lingue le oppo­ sizioni rilevanti appaiono soprattutto sui determinanti piuttosto che sui nomi stessi; è il caso del tedesco, in cui i contrasti di caso sui nomi sono ridottissimi. In altre lingue, una marca morfologica di caso ap­ pare in una posizione fissa alla periferia del sintagma, come nel basco etxe zaharr-etan, "in una vecchia casà', letteralmente "casa vecchio­ " L O CATivo . Ma le categorie grammaticali non coincidono con le categorie di contenuto, nonostante quel che possono suggerire espli­ cazioni come "caso del soggetto o di chi compie l'azione". Soggetto e oggetto sono relazioni grammaticali, definite dal ruolo di un costi­ tuente nella struttura della frase, e non corrispondono direttamente a nozioni come agente, esperiente, strumento o paziente. Inoltre, nella pratica, l'uso di un determinato caso raramente corrisponde a un'u­ nica funzione in termini grammaticali e un'unica funzione spesso prende casi diversi in sistemi diversi. Per esempio, l'accusativo latino trova impiego in una quantità di altri contesti oltre a quello di ogget­ to diretto : su espressioni di moto a luogo come ire domum, "andare a casa", senza preposizione, o per beneficiari in costruzioni a doppio accusativo come docere aliquem aliquid, "insegnare qualcosa a qual­ cuno"; il predicato nominale invece appare in nominativo in latino o in greco, ma allo strumentale in russo. È però vero che in certe lingue con un numero di casi elevato, questi tendono a suddividersi in casi "strutturali", la cui distribuzione è determinata dai rapporti sintattici, e casi più o meno direttamente legati a un tipo di interpretazione. Si tratta in particolare di nozioni di moto e posizione nello spazio, che in lingue come il finnico sono espresse da terminazioni casuali apposite come nel cosiddetto "illativo" ( per moto diretto all' interno di entità) o "allativo" ( moto verso un'entità) . Come si vede, anche il caso "semantico", come quello "strutturale': è una proprietà di costi­ tuenti della frase e del sintagma, e non propriamente di nomi, se non a livello della concreta espressione morfologica. È proprio a questa che si rivolge il prossimo capitolo.

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6. La forma dei nomi italiani

6.1. Classi flessionali Dopo aver considerato da vari punti di vista il contenuto concettuale e grammaticale della nozione di nome, concludiamo con uno sguar­ do sul modo in cui questa categoria trova espressione in un sistema linguistico specifico, quello dell ' italiano. In prospettiva tipologica, la nominalità in italiano ha le caratteristiche di un tipico sistema basato su genere e numero, senza classificatori (cfr. CAP. 3). Genere e nu­ mero hanno ciascuno due valori, e la scelta è generalmente motivata dalle opposizioni concettuali tra maschile e femminile e tra uno e più-di-uno, quando siano applicabili; ma la discussione del capitolo precedente, e soprattutto il fatto che per moltissimi nomi il genere non abbia questa motivazione, o non ne abbia affatto, mostra che le categorie grammaticali non sono isomorfiche a quelle concettuali. Esaminiamo ora più da vicino come la lingua esprima queste catego­ rie grammaticali in un sistema di forme. Un carattere distintivo della morfologia italiana consiste nel privilegiare parole con terminazione in vocale non accentata, non solo nell'ambito nominale e verbale ma più generalmente, anche per parole che non si flettono come quando o sempre. In questo sistema, i valori grammaticali delle parole non sono espressi ognuno per proprio conto da morfemi distinti, come avviene nel tipo linguistico agglutinante, ma attraverso l'alternanza di terminazioni vocali che che fondono in sé l'espressione di genere e numero. In concreto : la vocale finale di case esprime, fusi insieme, i valori di femminile e plurale, che -e possiede non di per sé ( altrove esprime il singolare, maschile come infiore o femminile come in chia­ ve) ma in quanto contrasta con la -a al singolare. Gli abbinamenti sin­ golare-plurale tra vocali finali definiscono così delle classi flessionali (cfr. CAP. s ), corrispondenti agli schemi tradizionali penna-penne, libro-libri,fiorejìori, poeta-poeti e uovo-uova. In più, una descrizione completa deve anche far posto alla nutrita serie di invariabili, tipica­ mente nomi (re, citta,foto, boia, sport ecc. ) ma anche aggettivi (blu 104

e i nomi usati come aggettivi di colore, come rosa) . Quello che defi­ nisce l'appartenenza a una classe è quindi un abbinamento di forme al singolare e plurale, non una vocale finale, nemmeno abbinata a un genere (boia e poeta, entrambi maschili in -a, appartengono a classi distinte): etichette come "nomi in -a" o "nomi maschili in -a': quindi, non sono appropriate. È importante distinguere la morfologia dei nomi da quella degli aggettivi, dei pronomi e delle forme nominali del verbo. I pronomi costituiscono una classe ampia e morfologicamente eterogenea, che comprende elementi come egli, lui, noi, chi, costei, loro e altri come esso, quale; gli elementi del primo tipo sono estranei al sistema appena descritto, dal momento che non esprimono dei valori grammaticali con un sistema di alternanze nelle vocali finali, ma attraverso l' intera forma della parola: è in questo modo che sopravvivono alternanze di caso (egli-lui, ma anche chi-cui). Dal punto di vista della forma, invece, esso e quale rientrano nello stesso sistema morfologico degli aggetti­ vi. n catalogo delle classi flessionali appena illustrato, però, vale nella sua interezza solo per i nomi in senso stretto. Così come in latino, gli aggettivi fanno uso solo di alcune di queste classi flessionali, collega­ te tra loro in modo da creare una sorta di macroclassi: un aggettivo che al maschile segue lo schema buono-buoni non può che seguire lo schema buona-buone al femminile; mentre il tipoJortejorti neutraliz­ za sistematicamente l'opposizione tra maschile e femminile. Ci sono aggettivi che si comportano diversamente : cittadini belgi e dittatura nazista illustrano la classe -al-i in funzione aggettivale ; ma si tratta di un fenomeno circoscritto, quasi del tutto limitato a certi suffissi (-ista, ma anche -ota, -ita come in idiota, cipriota, vietnamita). Il fatto che gli aggettivi usino solo alcune delle classi flessionali dispo­ nibili per i nomi illustra un fenomeno più generale : le classi flessio­ nali non sono tutte sullo stesso piano. Come è noto, i nomi del tipo uovo-uova non sono solo irregolari nell'avere un plurale femminile (e con terminazione -a, senza riscontri per il femminile plurale in italiano), ma costituiscono anche una classe ristretta e, quel che più conta, chiusa, cioè un gruppo di parole di numero variabile a seconda del parlante ma che non accoglie nuove voci al suo interno. Anche il tipo poeta-poeti non è più produttivo nell' italiano di oggi, ma la sua 105

consistenza numerica e l'esistenza di formazioni recenti come troni­ sta danno l' impressione che si tratti di un modello tuttora vitale. In realtà, quel che è vitale è la creazione di nomi per mezzo del suffisso -ista, che al maschile segue questo tipo di flessione ( in minor misura anche per mezzo della terminazione -ma per formazioni dotte come enzima); ma il modello flessionale -al-i in sé non si estende a nuovi suffissi, come non si estende a nuove parole. Il contrasto tra la vitalità di -ista nel produrre nuove parole e l' impro­ duttività della classe flessionale -al-i deve mettere in guardia contro il rischio di identificare la produttività con la consistenza numerica. L'utile e informata rassegna di Lorenzetti ( 2ou, p. 72 ) , elaborando i risultati di D 'Achille e Thornton ( 2003 ) , mostra che le classi che comprendono più nomi sono quelle di libro-libri e penna-penne, ri­ spettivamente con il 41,2% e il 30,3% dei 4.soo nomi del vocabolario di base del GRADIT ; non sorprende che queste siano anche classi pro­ duttive, come illustrano adattamenti recenti come gazebo-gazebi ( più significativa ancora la tendenza a declinare euro-euri) e lambada­ lambade. La terza classe per numerosità è quella di.fiore-fiori, con un 20,6 % che contrasta con le classi restanti, numericamente marginali con valori del 5 ,4% ( invariabili come citta), dell' 1,2% (poeta-poeti) e dello 0,2% (uovo-uova). Ora, la classe degli invariabili è visibilmente vitale, non solo per via degli innumerevoli prestiti non adattati come sport e boutique, ma anche per via di formazioni come euro o video. Invece la classe in -el-i deve la sua consistenza numerica soprattutto alla grande diffusione di suffissi come -ore, -trice, -ante/-ente, -ione. Per completare questo veloce schizzo della flessione dei nomi italia­ ni, ricordiamo l'elasticità esibita da certi nomi che appartengono a più di una classe, spesso ma non sempre con variazioni di significa­ to : non solo casi come braccio-braccia-bracci, ma anche fluttuazioni come quella tra l'uso di superficie come invariabile, storicamente ori­ ginario, e il più diffuso superficie-superfici. In un senso più esteso, si possono considerare sotto questo aspetto anche oscillazioni come quella tra arancia e arancio, forma stigmatizzata ( ma in uso) per esprimere lo stesso referente di arancia, e cioè un frutto. Ma in questa sede è più opportuno soffermarsi brevemente sui nomi invariabili. È naturale considerare questa categoria come al di fuori del sistema 106

flessionale vero e proprio, dato che non ha opposizioni formali. In effetti si tratta di una categoria a parte, ma non per questo marginale. Più che la sua consistenza numerica, ciò che la rende grammatical­ mente significativa è la sua relativa sistematicità. Molti nomi, come è noto, sono invariabili a causa della loro forma: monosillabi (re), voci uscenti in consonante (film) o terminanti in vocale accentata (citta). A questi bisogna però aggiungere i femminili di origine greca in -i, come analisi; tutti i nomi composti che non si flettono, come fine settimana o buttafuori; tutta una serie di maschili in -a come boia o puma; nominalizzazioni come i distinguo; inoltre, i nomi usati con un genere opposto a quello che hanno in quanto parole flesse, come la Topolino-le Topolino (anche casi come la ministro non ammettono un plurale *le ministri, ma qui è il plurale stesso a essere problematico, in qualsiasi forma) . I nomi invariabili dell' italiano, insomma, sono più che una semplice lista di eccezioni.

6.2. Genere e mozione Nel quadro del sistema flessionale appena delineato, il genere non corrisponde a un tipo di forma. Questo non vuoi dire che non ci siano corrispondenze più o meno regolari tra genere e forma; i nomi della classe -al-e sono tutti femminili senza eccezione, e quelli del­ la classe -ol-i tutti maschili tranne mano, per citare solo gli esempi più ovvi. Anche per questi casi macroscopici si tratta comunque di corrispondenze tra genere e classi, dove le categorie propriamente morfologiche sono queste ultime. In un altro senso però il genere ha un ruolo nel sistema morfologico, come comune denominatore delle derivazioni con cui da nomi originariamente di un certo genere si formano nomi del genere opposto per descrivere esseri viventi di ses­ so diverso. Naturalmente, come si è visto nel paragrafo 5 . 2, il genere in italiano è solo in parte motivato dal significato, e anche quando questa motivazione è presente, quella tra esseri maschili e femminili è l'opposizione concettuale primaria, ma non l'unica, come mostra­ no mela (frutto )-melo (pianta) o buca ( cavità)-buco(foro, apertura) . Possiamo però riconoscere come fenomeno unitario i vari modi in 107

cui l'opposizione di genere esprime un'opposizione concettuale ba­ sata sul sesso : parliamo a questo proposito di mozione, termine intro­ dotto stabilmente nella tradizione linguistica italiana a partire dallo studio di Thornton (2004a), da cui sono presi gli esempi seguenti e a cui si rimanda per una descrizione particolareggiata. Il concetto di mozione ci aiuta a cogliere l'unitarietà che sta dietro ai vari modi di esprimere l' idea di "deputato di sesso femminile" come la deputato, la deputata, la deputatessa, il deputato donna, la donna deputato; ma an­ che ciò che collega coppie come ragazza-ragazzo e mamma-mammo,

infermiere-infermiera, dottore-dottoressa. Dal punto di vista del significato, le parole formate per mezzo di questa famiglia di derivazioni comprendono in realtà un ventaglio di interpretazioni. Voci come ambasciatrice e duchessa sono altrettanto appropriate sia per donne che ricoprono il ruolo in questione sia per donne collegate a un ambasciatore oppure a un duca per matrimonio o parentela; il suffisso -essa oggi funge stabilmente per il femminile di professore, studente o leone, ma è molto meno stabile su nomi come avvocatessa, e la sua gamma interpretativa comprende, oltre a "N di sesso femminile': non solo il senso "moglie di N" (soprattutto dove i due tendono a coincidere, con nomi di titoli quali duchessa), ma an­ che un senso spregiativo che emerge in casi come ministressa o, senza riferimento a esseri animati, articolessa. Il neologismo pillolo, che il G RADIT definisce come "pillola contraccettiva destinata al maschio", mostra quanto possa essere indiretto il collegamento con l'opposi­ zione originaria. La mozione può avvenire tramite un semplice cambiamento di clas­ se flessionale, oppure per mezzo di suffissi, o ancora con la costru­ zione di composti come deputato donna o ricciofemmina. I cambia­ menti di classe del tipo amico-amica (o pillola-pillolo) riguardano tendenzialmente solo le classi produttive e univocamente associate a un genere, cioè -ol-i e -al-e; a queste si devono aggiungere le corri­ spondenze del tipo turista-turisti/turista-turiste, dove a un maschile di una classe non produttiva fa fronte un femminile nella classe -al-e. A parte i composti, la mozione si esplica in tutti gli altri casi per mezzo di suffissi. Alcuni di questi ammettono il passaggio di genere senza un cambiamento di forma, come il/la presidente o il/la turista; 108

altri, la maggioranza, impongono un cambiamento nella forma, di modo che da inferm-iere si ha inferm-iera, da padr-one si ha padr-ona e (tipo meno frequente) da assess-ore si ha assess-ora. In altri casi, un suffisso realizza la variante di genere opposto non passando ad altra classe flessionale, ma estendendo il nome originario come in eroe/ ero-ina, o strega/streg-one, e soprattutto poeta/poet-essa o stud-ente/ stud-ent-essa. Come mostrano questi due esempi, la suffissazione per mezzo di -essa può avvenire anche su nomi in cui la vocale finale al singolare o anche la classe flessionale è di per sé compatibile sia con il maschile che con il femminile (poeta appartiene alla classe di turista, e studente a quella di badante). In generale, i nomi suffissati ammettono più facilmente di quelli morfologicamente semplici il cambio di terminazione e di classe flessionale. Questo si vede con chiarezza nei nomi in -e, che ammettono mozione con cambiamen­ to di classe flessionale solo se ciò che cambia è un suffisso : a padr-one fa riscontro padr-ona, ma a testimone o giudice non corrispondono *testimona o giudicia.

6.3. Nomi primitivi e nomi derivati 6.3 . 1 . Nomi e suffi.ssazione Quella tra nomi primitivi come por­ ta e nomi derivati come portiera, porticina, portone, sportello è una

distinzione importante che a buon diritto figura regolarmente nelle grammatiche descrittive e scolastiche. Mentre, però, nozioni quali numerabilità, individuazione, genere, classe sono altrettante facce di ciò che rappresenta la categoria del nome, la distinzione tra parole morfologicamente semplici e parole con una struttura morfologica riconoscibile, tipicamente basate su (o "derivate da") parole semplici, non ha nulla di specificamente nominale. La base dei nomi derivati può essere un nome semplice oppure una parola di categoria diver­ sa dal nome oppure una base che non ha una categoria immediata­ mente evidente ; il nome derivato comporta dei morfemi prefissati o suffissati alla base, i quali possono avere un valore semantico più o meno univoco (pensiamo a -iera in portiera come "portinaia" o co­ me "porta della macchina"), o anche nessun valore sincronicamente 109

riconoscibile (la s- di sportello, la -ic- di porticina, o ancora -iera in crociera). Invece che aggiungendo dei morfemi a una base, una pa­ rola può essere costruita combinando due basi, come in paraocchi, o anche autoscatto, a seconda di quel che si intende per "base"; infi­ ne, il contrassegno morfologico della relazione tra nomi può ridursi a un semplice cambiamento di classe flessionale, come ci mostrano amico-amica e mamma-mammo (accomunati ad attore-attrice in quanto realizzazioni della mozione), ma anche melo-mela. Tutte queste operazioni, però, fanno parte della morfologia derivazionale, come formazione delle parole in generale e non solo di nomi. An­ che restringere il campo all' italiano non serve a isolare una famiglia di procedimenti e di forme essenzialmente legati al nome, per due motivi: la morfologia nominale italiana (e non solo) riguarda come si è visto nomi, aggettivi, determinanti e pronomi, mentre quel che contraddistingue i nomi in senso stretto non sono di solito proprietà della forma ma del significato e della distribuzione sintattica; in se­ condo luogo, anche là dove si può parlare di morfologia che riguarda specificamente i nomi, i procedimenti e i concetti applicabili riman­ gono quelli del sistema morfologico in generale o del sottosistema nominale (pre- e suffissazione, composti, segmentabilità, restrizioni combinatorie sui morfemi, loro contenuto, loro relazione con il ge­ nere o classe flessionale). A temperare questa constatazione bisogna aggiungere che i composti costituiti da due basi lessicali formano in misura preponderante i nomi, e quindi meritano una trattazione a parte ; resta però che la composizione produce anche aggettivi (bene­ augurante, dolceamaro, centroafticano ), verbi (manomettere) e avver­ bi (sottobraccio ) . Inoltre, è una caratteristica della morfologia italiana che gli affissi usati nella derivazione di nomi siano sistematicamente suffissi, non prefissi (usati invece nella morfologia verbale e aggetti­ vale). Stando così le cose, non stupisce che una grammatica scolastica dettagliata come quella di Sensini ( 2010 ) , su quattro pagine dedicate alla struttura dei nomi (pp. 89-92), ne riservi mezza alla derivazione con suffisso, ma due ai composti; e che rimandi una trattazione più ampia, nel volume dedicato al lessico, alla derivazione delle parole in generale (pp. 3 6-44). I fattori che riguardano specificamente i nomi si possono ricondurre 110

a due : la funzione degli affissi e l' inventario delle forme usate nella formazione di nomi derivati. Per avere un' idea di entrambi, riassu­ miamo qui i tipi principali di suffissazione nominale, su basi sia no­ minali sia verbali, categorizzati nell 'opera più completa e aggiornata in materia, il già citato Grossmann e Rainer (2004) : •

suffissi che derivano nomi "di agente", cioè designazioni di esseri

umani variamente individuati da attività o condizioni caratteristiche: nomi in -tore o in -ore come lettore o estensore, spesso con una contropar­ te in -trice; participi presenti come

badante o richiedente, anche formati bracciante ( senza un verbo "'bracciare) ; participi passati come abbonato; continuatori del latino -arius (-aio, -aro, -aro/o, -aio/o, -iere, -iero ); -ista; -ino (crocerossina); -one (mangione,.fricchettone) ; for­ mazioni più sporadiche in -ano (isolano), -eta (projèta), -ardo (testardo), -giano (alpigiano); • suffissi che realizzano la mozione ( cfr. sezione precedente) , non solo come caso particolare dei nomi "di agente" come -ante/-ente; -(i)ere/- (i) era, -tore -trice, ma anche come ampliamenti di formazioni già indicanti individui, come -essa; su nomi come



suffissi che derivano nomi "di strumento", spesso semanticamente

contigui ai nomi di agente, a volte anche ai nomi di luogo: soprattutto

-tore/-trice (frullatore, lavatrice); -to(r)io (filatoio, colluttorio ); -ino (mi­ surino); -iere/-iera (tagliere, bistecchiera); • suffissi che derivano nomi "di luogo", soprattutto -a(r)io, -ile, -fa, da nomi (abetaia, lebbrosario,fienile, libreria) e -o (r)io, -fa da verbi (galop­ patoio, mangiatoia, stireria); • suffissi che derivano nomi "di status" come precariato, cittadinanza, signoria; •

suffissi che derivano nomi "collettivi", cioè singolari ma designanti

pluralità o masse costituite da elementi molteplici, come

-ume o -ame in

pattume o pollame, -aglia in ragazzaglia, -io in gracidio, o con suffissi non specializzati in questa funzione, quali -eria in cavalleria o -istica in modu­ listica; come discusso nel paragrafo 3 . 5 , le designazioni di concetti astratti spesso servono a riferirsi alla pluralità di individui che ricadono sotto il concetto •

(manualistica, amministrazione, velatura, tendaggio, vicinato);

suffissi che derivano nomi "di qualità", e denotanti o l a qualità come

(bisogna ammirare la grandezza) o come istanzia­ zione particolare, spesso nel senso di "grado" (non conosco la sua granastrazione generica

III

dezza); o ancora come "fatto" (non metto in dubbio la sua grandezza); a -ezza si affiancano -ita/-eta, -ia, -fa, -nza, -aggine ( velocita, serieta, su­ perbia, pazzia, scemenza, dabbenaggine); uno dei sensi di "qualità" può essere espresso tramite suffissi solitamente adoperati per funzioni con­ tigue ma distinte, come

-ismo (nervosismo)

e soprattutto

-(z)ione (edu­

cazione, delusione) ; •

suffissi che derivano nomi "di azione", esprimenti cioè eventi o stati e

generalmente derivati da verbi ( tranne in qualche caso come sciacallag­ gio ); si tratta di una categoria amplissima, sia nelle interpretazioni a essa riconducibili che negli strumenti morfologici che le realizzano : descri­ zioni di eventi specifici o generici, corrispondenti ad azioni continuate, stati, cambiamenti di stato che possono o meno costituire il culmine di un processo, o anche ripetizioni frequenti, a seconda delle proprietà dei verbi da cui derivano; formate senza suffisso (arrivo, proroga), spesso

(corsa, raccolta, sorpresa), o con l ' in­ finito (il suo continuo cantare, il potere); oppure con una serie di suffissi che comprendono -aggio, -io, -mento, -tura, -za, -zio ne (con varianti col­ legate -gione, -ione, -sione) : per esempio, scorrimento, correzione, guari­ gione, gestione, decisione, pulitura,jìltraggio, sofferenza, lavorio. con il tema del participio passato

Queste tradizionali categorie, piuttosto grossolane, valgono più che altro da punti di riferimento per riconoscere i diversi ambiti di signi­ ficato in cui si organizzano i nomi italiani derivati per suffissazione. Altre prospettive giustificano categorie diverse ; in particolare, biso­ gna menzionare almeno la cosiddetta derivazione in -ata consistente in nomi femminili o corrispondenti a participi passati (nuotata, cor­ sa, presa, raccolta), oppure formati con il suffisso -ata pur non deri­ vando da verbi (americanata, nottata, gomitata, boccata, cancellata) . Si tratta d i uno schema morfologicamente coerente m a con interpre­ tazioni distinte : nomi d'azione (nuotata, corsa) ma anche descrizioni di eventi non basate su verbi (nottata, gomitata, americanata) o an­ che di entità non eventive, misure (boccata) o sporadicamente oggetti complessi (cancellata) . L a derivazione in -ata illustra i rapporti complessi che intercorrono tra una classe di derivazione morfologicamente unitaria e le varie interpretazioni dei 6.3 . 2. Le funzioni di diminutivi e accrescitivi

112

nomi così formati. Da questa prospettiva vale la pena di considerare qui almeno un altro caso, quello delle derivazioni cosiddette "valu­ tative", cioè dei diminutivi e accrescitivi come ragazzo-ragazzino­ ragazzone-ragazzetto-ragazzaccio. Le grammatiche che distinguono nomi morfologicamente semplici e complessi di solito includono al­ meno questa classe, tipicamente sotto l'etichetta di nomi "alterati". In realtà, il rapporto tra suffissi e interpretazioni è molto più comples­ so. Notiamo anzitutto che questi suffissi differiscono da quelli che abbiamo considerato finora perché formano sistematicamente nomi a partire da nomi, invece che da verbi, aggettivi o altre categorie. In secondo luogo, è vero che queste formazioni spesso forniscono al no­ me un senso che si può legittimamente qualificare come "diminuti­ vo': "accrescitivo" o "peggiorativo"; ma questa funzione non è l'unica. Se si considera la relazione di zuccherino, panino, panetto, ghiacciolo con i nomi primitivi corrispondenti, si può constatare che la deri­ vazione diminutiva può trasformare un nome di massa in un nome numerabile, risultando in un' interpretazione come "piccola unità della sostanza N". Non è uno slittamento di senso automatico, dal momento che acqua o vino rimangono nomi di massa nei diminutivi acquetta o vinello; ma il fatto che si tratti di uno schema ampiamente attestato in altre lingue ( cfr. tedesco Brot-Brotchen, "pane-panino" ) suggerisce un fenomeno sistematico. Nei casi appena considerati la funzione diminutiva si combina con quella individualizzante ; ma formazioni come postino, stradino, guardone, mangione, imbroglione mostrano che i suffissi altrimenti usati con senso "valutativo" posso­ no anche esprimere solo una lettura individualizzante. Il caso di -o ne è particolarmente chiaro : usato in questo senso, il suffisso si applica a verbi, non a nomi, e li trasforma in nomi designanti esseri umani caratterizzati in senso più o meno negativo dali' attività descritta dal verbo soggiacente, sistematicamente passibili di mozione (imbro­ glione-imbrogliona), come del resto succede anche quando una de­ rivazione in -one non è né accrescitiva né individualizzante, come in padrone-padrona. Senza addentrarci oltre nelle interessanti proprietà di questo tipo di derivazione, concludiamo osservando che i suffissi come -in o, -one, -etto meritano l'attenzione che ricevono in molte grammatiche, ma non solo in quanto costituenti di nomi "alterati". 113

6.4. Nomi e parole composte A differenza della formazione di parole tramite affissazione, la for­ mazione di parole composte ha un rapporto privilegiato con i nomi. Questo perché, anche se non mancano composti con valore di agget­ tivi (agrodolce), o più sporadicamente anche di avverbi (malvolen­ tieri) o verbi (manomettere), la stragrande maggioranza delle parole italiane composte da più basi lessicali hanno la funzione di nomi, che siano la testa di sintagmi argomentali (riparare il salva vita) o modificatori (il dispositivo salva vita). In effetti, visto che la lingua permette di trattare come un nome non solo ogni parola, ma anche (in linea di principio) ogni struttura, come quel non so che, un non­ ti-scordar-di-me, non deve sorprendere che lo stesso avvenga quando a essere composte sono basi lessicali, non solo nominali. Abbiamo esaminato nel capitolo 4 i modi in cui un nome semplice può con­ tribuire al significato di un nome composto, come elemento coordi­ nato (studente lavoratore) o subordinato (treno merci), con funzione di classificazione (pesce gatto) o modificazione attributiva (donna poliziotto) o di complemento (trasporto merci). In questo contesto abbiamo anche considerato i diversi gradi di fusione tra i membri del composto, da parole fortemente coese sia nella forma che nel senso (smog, digitronica, galantuomo) alle cosiddette unità lessicali polirematiche (un non so che, il via libera) e alle strutture sin tattiche ridotte (ufficio reclami, saldo interessi attivi e passivi). Ai fini di una rassegna morfologica dei nomi italiani, quello che ci interessa è ora definire più precisamente la forma dei composti in quanto parole. Lasciamo quindi da parte le nominalizzazioni di strutture sintatti­ che chiaramente complesse, per concentrarci sui cosiddetti composti "stretti" come cassaforte. Nonostante la loro struttura interna, queste formazioni non hanno né la forma né l' interpretazione di sintag­ mi e costituiscono un singolo dominio di parola dal punto di vista della fonologia; non comprendono al loro interno elementi di rac­ cordo sintattico come preposizioni (a differenza di saltinbocca), né permettono permutazioni di elementi come quella che ha derivato il neologismo giornalista squillo dal composto (largo) ragazza squillo. I composti che ci interessano sono invece combinazioni di basi les114

sicali, e si possono anzitutto categorizzare a seconda della categoria, appunto, di queste basi. In italiano, le combinazioni che formano composti nominali sono le seguenti: • • • • • • •

nome + nome : pescecane, capotreno, arcobaleno; nome + aggettivo : cassaforte, camposanto, pellerossa; aggettivo + nome : gentiluomo, mezzosangue, biancospino; verbo + nome : poggiatesta, tirapiedi, aspirapolvere; preposizione + nome : sottopassaggio, soprannome, lungomare; verbo + verbo :fuggifuggi,parapiglia, saliscendi; verbo + avverbio : buttafuori, posapiano.

Non tutte le combinazioni possibili danno origine a dei nomi: com­ posti come malvolentieri (avverbio + avverbio), manomettere (nome + verbo) e sempreverde (avverbio + aggettivo) illustrano rispettiva­ mente un avverbio, un verbo e un aggettivo composti con una base alla loro sinistra. Ma si tratta di formazioni assolutamente minorita­ rie, non solo per numero ma anche perché sono ristrette a schemi in cui il composto mantiene la categoria della base lessicale che funge da testa, intendendo con questo termine il costituente che determina le proprietà sia grammaticali che di significato del composto intero (la testa di capostazione è capo, che è un nome, maschile e animato come l' intero composto). Invece, un composto può risultare in un nome indipendentemente dal fatto che la sua testa sia un nome (gen­ tiluomo, pescecane) oppure no (tirapiedi, saliscendi) . In effetti, non c 'è nemmeno bisogno che una parte del composto sia una base nomi­ nale, come si vede dagli ultimi due tipi della lista, e l'autonomia del nome risultante dalle parti costitutive del composto è ulteriormente evidenziata da casi come .fine settimana, maschile nonostante consi­ sta di due basi nominali femminili. La conclusione è ancora più ge­ nerale : distinguendo, come d'uso, i composti in "endocentrici" (cioè comprendenti una testa) ed "esocentrici" (in cui nessuna delle due basi ha questa funzione), possiamo constatare che tutti i composti italiani della seconda categoria sono nomi (pellerossa, tirapiedi, aspi­ rapolvere,Juggifuggi, purosangue, buttafuori, senzatetto, cacasotto ) , ol­ tre alla maggior parte degli endocentrici. IIS

L'esame dei composti italiani richiede però che si considerino anche altri tipi di basi. Anzitutto non bisogna dimenticare che le cosiddet­ te "parole macedonia, ( PAR. 4.4.2.) comprendono basi la cui forma è spesso troncata, come nel già citato digitronica (e molto più este­ samente nei blends inglesi come brunch, da breakfast, "colazione,, e lunch, "pranzo,). Più significativi sono però quegli elementi come auto- o tele-, jero o -crazia che si ritrovano in moltissimi composti, soprattutto (ma non solo) dotti, come autopilota, telecrazia,ftigoriJero. Si tratta di elementi che esistono solo come costituenti di parole complesse, ben diversi quindi dalle basi lessicali che formano i com­ posti. D'altra parte, si differenziano da affissi come -zione o -imo, per­ ché hanno un contenuto decisamente più univoco, simile a quello di parole lessicali, tanto da poter a volte fare a meno di una base lessicale (bio-logo e tele-crazia sono formati solo da questi elementi, che ritro­ viamo in bio-massa, vulcano-logo, tele-visione e demo-crazia). Inoltre, alcuni ricorrono a inizio di parola, altri alla fine, e certi in entrambe le posizioni (-filo ha più o meno lo stesso senso in.franco-filo ejilo-.france­ se) . La letteratura specialistica ha riconosciuto da tempo l' importanza di questo tipo di costituenti nella morfologia italiana, chiamandoli variamente "pre-/suffissoidi': "confissi" o "semiparole,. Questi ele­ menti di provenienza dotta si combinano con basi e suffissi dando luogo a effetti sistematici; si pensi alle caratteristiche terminazioni -i e -o di elementi di composizione latina come agri-turismo, erbi-voro o davanti a elementi di origine greca come in lacrimo-geno, danto-filo.

6.5. Nominalizzazioni Per completare la panoramica degli strumenti morfologici con cui sono costruiti i nomi in italiano, consideriamo ora i procedimenti con cui questo sistema può realizzare un nome a partire da parole che non sono nomi. Inventariando questi procedimenti sulla base della loro funzione, otterremo una panoramica ragionata dei tipi di nome come parola derivata da altre parole ; non basata su una classificazio­ ne del senso apportato dai suffissi, come nel paragrafo 6.3.1, ma che più in generale comprenda ogni tipo di uso nominale di una parola, n6

, indipendentemente dalla sua morfologia. Dall esame delle forme e del loro sistema ci spostiamo quindi a un livello più astratto, consi­ derando non più il modo in cui suffissazione e composizione creano nuovi nomi, ma la creazione in sé, come fenomeno unitario di cui l'uso di morfemi nominalizzanti è un caso particolare. La prima categoria da riconoscere è quella che si potrebbe chiamare , "nominalizzazione genericà: illustrata dall uso nominale di perché in casi come senza un perché, con cui abbiamo iniziato la discussione , nel capitolo 1. Si tratta semplicemente dell uso di una qualsiasi pa­ rola (o anche una non-parola tipo zzz, come si è visto) nel contesto sintattico che caratterizza un nome, senza contrassegni morfologici. La parola ricategorizzata sin tatticamente è reinterpretata come desi­ , gnazione di un entità, in sensi diversissimi che vanno da quello pura­ mente metalinguistico, in cui viene semplicemente citata come tale ("se è una congiunzione,), a quello di evento o azione a essa collegati (senza se e senza ma, cioè "senza dire se o ma,), a quello metonimico e generalizzante di un perché come "un motivo,. Qualsiasi espressione, anche non linguistica, può essere nominalizzata in questo modo : in particolare, anche espressioni sintatticamente complesse, che forma­ , no così un ampia periferia di sintagmi più o meno fissi (il via libera, un clima da tutti a casa) attorno ai veri e propri composti, sia "stretti" che "larghi,. Certi sintagmi fissi possono poi essere suffissati alla stre­ gua di basi lessicali, come in menefreghismo o celodurismo. Ben diverso è il caso di aggettivi in funzione di nome, come i miti, qualche indeciso, sei un buono. Come abbiamo visto nel PAR. 1.2.2, , non c è in realtà un confine netto tra nomi e aggettivi come parole a sé, prescindendo dalla distribuzione sintattica. Per molte lingue in effetti le due classi corrispondono a usi diversi di una stessa classe "nominale,, anche se le due funzioni rimangono concettualmente distinte. In questo contesto tipologico, r italiano giustifica una diffe­ renziazione delle due classi, visto che non tutti gli aggettivi si posso­ no usare come nomi, anche quando hanno un senso simile : uno sftga­ to è più corrente di uno fortunato, per esempio. Inoltre, un aggettivo , che è anche a pieno titolo un nome ha di solito un interpretazione particolare, così che un grande vale "una persona di eccezionale va­ lore e dignità,, ben diverso da uno grande. Di solito queste nomina1 17

lizzazioni si riferiscono a esseri umani, ma non necessariamente (cfr. un pieno); la restrizione a referenti umani è più chiara in costruzioni generiche come i ricchi. Infine, bisogna considerare a parte l'ampia classe dei participi, che anche nominalizzati possono mantenere la struttura argomentale tipica dei verbi in casi come gli aventi diritto (ma non *gli aventifame, il che dimostra che il fenomeno è lessical­ mente ristretto). Con quelle che possiamo chiamare "nominalizzazioni di proprietà" passiamo a un'altra categoria, già in parte discussa sotto l'etichetta di nomi "di qualità" ( PAR. 6.3.1) ma limitatamente alle formazioni suffissate, come altezza. Accanto a queste dobbiamo ora considerare anche formazioni come il bello nel senso di "la bellezza': non preci­ samente come nome della proprietà di essere bello, ma come reifica­ zione della proprietà come oggetto, privato della sua natura predi­ cativa e quindi senza argomenti nominali, unico e necessariamente accompagnato dall'articolo determinativo. La differenza è sottile, ma empiricamente chiara: sopprimendo un sorriso, la possiamo riscon­ trare paragonando una grande bellezza a *un grande bello, le bellezze del mondo a *i belli del mondo, la sua bellezza a *il suo bello (il tipo il bello della diretta ha un senso diverso : "la parte bellà'). La variazione di accettabilità tra una parola e l'altra (il bello, ma *l'alto, *ilgentile) è una spia della natura lessicale del fenomeno, che riguarda un numero limitato di parole specifiche. Così come i nomi "di qualità" comprendono nominalizzazioni mor­ fologicamente diverse, tra cui quella senza suffissazione, allo stesso modo possiamo sussumere una serie di formazioni sotto la categoria di nomi di evento : la maggior parte delle derivazioni in -ata (e più generalmente una forma participiale femminile), sia deverbali che denominali (corsa, boccata, stangata, anche l' irregolare vendita); una serie di formazioni latine originariamente participiali (riso, salto); forme deverbali senza suffisso (arrivo, confisca) ; ma soprattutto ricade in questa categoria l' interpretazione concreta, estesa nel tempo, dei nomi "di azione" ( PAR. 6.3.1). Ciò che giustifica una categoria di nomi di evento, distinta da quest'ultima, è che riferendosi specificamente a una interpretazione, e non a una famiglia di formazioni morfologiche, ci permette di cogliere il carattere che lega per esempio proroga e sftut118

tamento al senso eventivo di molti nomi formati con suffissi general­ mente indicati in "qualità': come criticita con il significato di "episodio problematico" o vestizione o imprudenza come "atto imprudente" (cfr. anche PAR. 3.4.2). In altri termini, i suffissi e le formazioni morfolo­ giche non corrispondono uno-a-uno a categorie interpretative ; per comprendere le funzioni delle nominalizzazioni, e per raggruppare la loro morfologia in modo coerente, occorrono categorie più astratte. Seguendo la stessa logica, possiamo ricondurre una numerosa fami­ glia di nominalizzazioni alla funzione di designare individui, più precisamente (perché anche gli eventi sono entità individuali) indi­ vidui concreti estesi nello spazio, corrispondenti a nomi numerabi­ li (cfr. CAPP. 3 e s, in particolare PAR. 5 .2 ) . Questa categoria coglie l 'unitarietà delle formazioni "di agente" o "di strumento': nella mi­ sura in cui esse descrivono persone oppure oggetti concreti. Non è un caso che le due funzioni siano sistematicamente collegate, spesso espresse dagli stessi suffissi (spazzino come misurino, cameriera come bistecchiera, e così via) né che alcuni di questi suffissi formino nomi che non descrivono propriamente agenti o strumenti, come festone o socialista; né che l'uso non valutativo di -one e -ino abbia una funzio­ ne individualizzante ( PAR. 6.3.2). Le nozioni di agente e di strumen­ to indicano le interpretazioni più comuni e chiare di un'unica cate­ goria soggiacente, a cui dobbiamo riferirei per descrivere la funzione di nomi con suffissi come -ista, -tore, -iere, -ario o -in o. Beninteso, anche uomo, che non è derivato, descrive individui; ma non è il frutto di una nominalizzazione. I tipi che abbiamo identificato corrispondono invece alle principali varietà in cui il sistema dell' ita­ liano può formare nomi a partire da altre parole. Come abbiamo visto in apertura del volume, per capire cosa intendiamo per "nome" dob­ biamo comprendere non solo le proprietà di certi elementi del lessico, ma anche le relazioni tra grammatica e concettualizzazione che ci per­ mettono di usare la parola perché in senza un perché, e di essere capiti immediatamente. Le forme corrispondenti a queste nominalizzazioni sono gli strumenti con cui l' italiano ci permette di riconcettualizzare certi contenuti come entità. Dalla morfologia nominale siamo così ritornati al tema che ci ha guidato per tutto il libro : il sistema della lingua e il concetto di entità o, più semplicemente, i nomi e le cose. 1 19

Bibliografia Letture consigliate Capitolo

1

Ogni discussione di categorie lessicali dedica ampio spazio al nome. Oltre alle parti rilevanti in opere di riferimento o manuali, riguardano specificamente le categorie lessicali BAKER

(2003)

e BISANG

vedano MARCANTONIO, PRETTO

Capitolo

(2on).

Per il nome in italiano, si

(2001) e CASTELLI (2001).

2

( 1990) per la storia dei concetti grammaticali in diverse tradi­ (2ooo) sviluppano la prospettiva fun­ zionalista descritta nel capitolo, che KEMM ERER, E G G LE STON (2o10) collega­ Si veda LEPS CHY

zioni. Vari capitoli in VOG EL, COMRIE no con gli studi di neurolinguistica.

Capitolo 3 B ORER

(2oos)

sviluppa una teoria sintattica del nome ( e del lessico ) che unifi ­

ca numerabilità, pluralità, classifi c atori e interpretazione come nome proprio; RIJKHOFF

(2002)

offre un punto di vista complementare, cognitivo -funzio­

nalista. Per i nomi d ' azione si veda MELLONI pp.

(2oo8),

e CASALEGNO

(1997),

227-62, per i l retroterra filosofico dei nomi propri.

Capitolo

4

Si veda LONG OBARD I

(1994)

per le varie interpretazioni dei nomi e la sintassi

dei determinanti, e FABREGAS, S CALI SE

(2012, pp. I II-27) per i tipi di signifi­

cato dei nomi composti.

Capitolo

5

Tra i molti studi su genere, numero e caso, per l ' italiano si veda specificamen­ te THORNTON D RING

(2009).

Ricordiamo anche le bibliografie commentate di AU­

(2011) e ACQUAVIVA (2013).

Capitolo

6

Il testo segue da vicino le parti sulla fo rmazione dei nomi in G RO SSMANN, RAINER

(2004). Si vedano inoltre le sezioni rilevanti in BERRETTA (1993) e in (2oo8) e FABREGAS, SCALI S E (2012), questi ultimi manuali

S CALIS E , BIS ETTO

di argomento generale ma con molti esempi dall' italiano.

120

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WILHELM A.

1 23

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Tradurre lo spagnolo Gianluca Lauta

Letteratura e giornalismo

Esercizi di grammatica storica

Stefano Rastelli

Angela Ferrari

Che cos'e la didattica acquisizionale

Tipi difrase e ordine delle parole

Gabriella Alfieri Ilaria Bono mi

Lingua italiana e televisione Adriano Colombo

La coordinazione Francesca Cocco

l/ linguaggio dell'enigmistica Claudio Giovanardi Pietro Trifone

L'italiano nel mondo Mariangela Lopopolo

Letteratura comparata Grazia Basile Anna Rosa Guerriero Sergio Lubello

Competenze linguistiche per l'accesso all'universita ( n.e. ) Giorgio Inglese

Dante: introduzione alla Divina Commedia ( n.e. )

Andrea Bernardelli

Che cos'e l'intertestualita Michele Prandi

L 'a nalisi delperiodo Giorgio Zanchini

Ilgiornalismo culturale ( n.e. ) Marco Bernini Marco Caracciolo

Letteratura e scienze cognitive Giorgio Mariani

Leggere Me/ville Giampaolo Salvi

Le parti del discorso Massimo Bianco

Leggere Baudelaire Riccardo Capoferro

Leggere Swi.ft

Natalie Malinin

Stefano Telve

Tradurre il russo

L'italiano:Jrasi e testo ( n .e. )

Roberto Moscati

Federica Spinella

L'universita: modelli e processi

Leggere Valéry