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Italian Pages 457 Year 2024
Luca Polese Remaggi
Il nemico tra di noi
La sinistra internazionale di fronte alle repressioni sovietiche (1918-1957)
viella
I libri di Viella 478
Luca Polese Remaggi
Il nemico tra di noi La sinistra internazionale di fronte alle repressioni sovietiche (1918-1957)
viella
Copyright © 2024 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2024 ISBN 979-12-5469-505-0 ISBN 979-12-5469-465-7 pdf
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno
POLESE REMAGGI, Luca Il nemico tra di noi : la sinistra internazionale di fronte alle repressioni sovietiche (1918- 1957) / Luca Polese Remaggi. - Roma : Viella, 2024. - 454 p. ; 21 cm. (I libri di Viella ; 478) Indice dei nomi: p. [443]-454 ISBN 979-12-5469-505-0 1. Dissenso politico - Repressione [da parte dell’] Unione Sovietica - Atteggiamento [della] Sinistra - 1918-1957 323.0440947 (DDC WebDewey) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler
viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Ad Andrea e Caterina
Indice
Abbreviazioni Fonti archivistiche
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Introduzione
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1. Di fronte a uno stato di tipo nuovo (1918-1928) 1. Introduzione 2. Eredità del passato. Dalle prigioni zariste alle speranze del 1917 3. «Terrore rosso» e guerra civile: documentare la nascita di uno stato militare 4. Testimonianze sulle prigioni e sui primi campi 5. «Lettere dalle prigioni russe». La solidarietà internazionale al tempo della NEP 6. Intuizioni di fine decennio. Il carattere regressivo del bolscevismo al potere
29 31 47 64 83 105
2. Una «conquista in stile assiro» (1929-1938) 1. Introduzione 2. Il «grande balzo in avanti» di Stalin trova i suoi critici a sinistra 3. Moralità, potere e diritto. La prima grande mobilitazione internazionale contro il lavoro forzato sovietico 4. Gli imbarazzi antifascisti e la carestia come ultimo grande racconto prima del silenzio internazionale 5. Regressione civile e sterminio. Formazione di un paradigma interpretativo alla metà degli anni Trenta 6. A fari spenti nella nebbia: l’URSS di Stalin dietro una cortina di ferro
123 125 150 183 203 219
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Il nemico tra di noi
3. La «scoperta» dei campi sovietici (1939-1949) 1. Introduzione 2. Guerra: totalitarismo e rivoluzione documentaria 3. Verso la guerra fredda: l’allineamento di moralità, potere e diritto 4. Il dibattito intorno ai campi sovietici. Il contributo degli intellettuali 5. La macchina della guerra fredda culturale a pieni giri. Inchiesta alle Nazioni Unite e processo Kravčenko
249 250 274 291 312
4. Il lavoro forzato sovietico in un mondo in trasformazione (1950-1957) 1. Introduzione 2. David Rousset e il contesto internazionale della sua iniziativa contro i campi sovietici 3. La conoscenza del nemico, la decostruzione del suo fascino 4. Progressismo su scala globale. Il primo Comitato ad hoc contro il lavoro forzato 5. La difficile strada verso la nuova convenzione contro il lavoro forzato (1957) Indice dei nomi
337 338 360 381 403 443
Abbreviazioni
AFL
American Federation of Labor
ASS
Anti-Slavery Society
Čeka (Čk)
Črezvyčajnaja komissija (Commissione straordinaria)
CFL CIA
Chinese Federation of Labour Central Intelligence Agency
CICRC
Commission Internationale contre le régime concentrationnaire
CIO
Congress of Industrial Organizations
COMISCO
Committee of the International Socialist Conference
ECOSOC FBI
United Nations Economic and Social Council Federal Bureau of Investigation
FNDIRP
Fédération nationale des déportés et internés résistants et patriotes
FTUC
Free Trade Union Committee
GESTAPO GPU
Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di stato) Vedi OGPU
GULAG
Glavnoe upravlenie lagerej i kolonij (Amministrazione centrale dei lager e delle colonie)
ICCP
International Committee for Political Prisoners
ICFTU IFTU
International Confederation of Free Trade Union International Federation of Trade Unions
ILO
International Organization of Labour
ITWF
International Transport Workers’ Federation
IRD
Information Research Department
ITK
Ispravitel’no-trudovaja kolonija (Colonia correttiva di lavoro)
ITL IWW
Ispravitel’no-trudovoj lager’ (Campo correttivo di lavoro) Industrial Workers of the World
KOLCHOZ
Kollektivnoe chozjajstvo (Fattoria collettiva)
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Il nemico tra di noi
LSI
Labour and Socialist International
MVD
Ministerstvo Vnutrennich Del (Ministero degli Affari Interni)
NEP
Novaja Ėkonomičeskaja Politika (Nuova politica economica)
NKVD
Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del (Commissariato del popolo agli interni)
OGPU
Ob’edinënnoe Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie pri Sovete Narodnych Komissarov SSSR (1922-1934) (Direzione statale politica unificata presso il Soviet dei Commissari del Popolo dell’URSS)
ONU
Organizzazione delle Nazione Unite
OUN
Orhanizacija ukrains’kych nacionalistiv (Organizzazione dei nazionalisti ucraini)
OVRA
Opera Vigilanza Repressione Antifascista
POUM
Partido Obrero de Unificación Marxista
PSR RDR
Partija socialistov-revolucionerov (Partito socialista rivoluzionario) Rassemblement démocratique révolutionnaire
SDN
Società delle Nazioni
SFIO
Parti socialiste - Section française de l’Internationale ouvrière
SS
Schutz-Staffel (Corpi di protezione)
SPD
Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico tedesco) Telegrafnoe Agenstvo Sovetskogo Sojuza (Agenzia telegrafica dell’Urss)
TASS TUC
Trade Union Congress
UNC
Ukrainian National Council
UPA
Ukrains’ka povstans’ka armija (Armata insurrezionale ucraina)
URDP
Ukrainian Revolutionary Democratic Party
USPD
Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico tedesco indipendente)
WDL
Workers Defense League
WFTU
World Federation of Trade Unions
Fonti archivistiche
Archives at Yale University, New Haven, Connecticut Victor Serge Papers
Bodleian Libraries, Oxford Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982)
La Contemporaine, Nanterre Fonds David Rousset
The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, University of Maryland Advisors to the United Nations Economic and Social Council (1945-1952) Brown Irving Files Delaney George Files Lovestone Jay Files
ILO historical Archives, Ginevra ILO Committees on Forced Labour
International Institute of Social History, Amsterdam Abramovič Rafael Papers Berkman Alexander Papers Goldman Emma Papers Kautsky Karl Papers Labour and Socialist International Archives Labour and Socialist International. London Secretariat Archives Partija Socialistov-Revoljucionerov (Rossija) Archives Trockij Lev Davidovič/International Left Opposition Archives
National Archives at College Park, Maryland RG 59, Department of State, Decimal files (1945-49; 1950-54)
New York Libraries, New York City Raphael Lemkin Papers
Nous faisons front contre le fascisme. Comment lui barrer la route avec tant de camps de concentration derrière nous ? Le devoir n’est plus simple, vous le voyez, et il n’appartient plus à personne de le simplifier. Nul conformisme nouveau, nul men- songe sacré ne saurait empêcher le suintement de cette plaie. (Victor Serge ad André Gide. Bruxelles, maggio 1936)
People are imprisoned for years without trial, or shot in the back of the neck or sent to die of scurvy in Arctic lumber camps: this is called elimination of unreliable elements. Such phraseology is needed if one wants to name things without calling up men- tal pictures of them […] The great enemy of clear language is insincerity. When there is a gap between one’s real and one’s declared aims, one turns as it were instinctively to long words and exhausted idioms, like a cuttlefish squirting out ink. In our age there is no such thing as «keeping out of politics» (George Orwell, Politics and the English Language, 1946)
Introduzione
Il presente volume è dedicato all’intervento intellettuale, politico e or- ganizzativo della sinistra internazionale contro le repressioni sovietiche al tempo di Lenin e di Stalin. Si è inteso concentrare l’attenzione specifica- tamente sulla parte di essa che affrontò il problema, non dunque su quella che rimase abbagliata dal mito sovietico. Nel titolo stesso – Il nemico tra di noi – è condensata tutta la portata di questo intervento: di fronte alla formazione dello stato sovietico, dotatosi rapidamente di un enorme ap- parato repressivo, il vecchio adagio «pas d’ennemis à gauche», per cui lo spazio della politica doveva essere pensato esclusivamente nei termi- ni di un’opposizione tra destra-sinistra, fu mandato in soffitta. La Grande guerra, qualcuno non tardò a riconoscerlo, aveva tenuto a battesimo una varietà di «partiti milizia», i quali, al di là dell’ideologia di provenienza, affrontavano i problemi politici nei termini dello scontro armato per im- possessarsi del potere politico. I protagonisti di questo volume restarono perlopiù (anche se non sempre) persone di sinistra, legate ai valori della tradizione progressista e rivoluzionaria europea e americana. Semplice- mente non chiusero gli occhi di fronte alle notizie, alla documentazione e alle testimonianze provenienti da Mosca. Questo libro nasce dunque da un interesse storiografico e naturalmen- te risente delle idee politiche e civili di chi scrive. Resta il fatto che esso viene pubblicato in un momento del tutto particolare, quello in cui il potere in Russia spinge la propria vocazione dispotica fino al punto di proibi- re la storia intesa come recupero della memoria e impegno nella ricerca scientifica. Memorial, l’associazione non governativa che per trent’anni ha promosso la verità sulle repressioni di massa attuate dal regime sovietico, soprattutto in età staliniana, è stata messa fuori legge il 28 dicembre 2021
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in seguito alla decisione della Corte suprema della Federazione russa. Fon- data nel 1989, per tre decenni Memorial ha costituito il nerbo della società civile russa, dando impulso alla formazione di archivi civici, quando quelli ufficiali restavano chiusi, promuovendo normative per la riabilitazione dei perseguitati dallo stalinismo e per la declassificazione dei documenti, co- struendo una banca dati delle vittime e ancora partecipando in primo piano ai progressi della storiografia russa e internazionale quando negli anni No- vanta gli archivi ufficiali conobbero una fase di apertura. 1 Come ha scritto di recente lo storico francese Nicolas Werth, la can- cellazione di questa esperienza è avvenuta nel momento in cui Putin non ha potuto più sopportare che la falsificazione della storia sovietica messa in atto dal suo regime venisse discussa, contraddetta o addirittura conte- stata. Le ragioni di questa accresciuta insofferenza sono state chiarite poco dopo, allorquando il 24 febbraio 2022 l’esercito della Federazione russa ha intrapreso l’invasione dell’Ucraina. La storia di regime ha potuto così trionfare incontrastata: una volta stabilito ufficialmente che le minoranze russe in Ucraina erano oggetto di un «genocidio», non restava dunque che compiere un’«operazione speciale» per «denazificare» lo stato dove quel- le minoranze erano dipinte come oppresse. La narrazione putiniana, tutta costruita attorno alla guerra antinazista del 1941-1945, ha trovato così un nuovo capitolo da scrivere all’interno del suo grande libro di pseudo-storia, fondato sulla manipolazione dei fatti del passato e del presente. 2 Ora, gli eventi richiamati qui sopra hanno avuto un peso nella fase conclusiva di questo libro, perché è sembrato a chi scrive di trovarsi spet- tatore, pur con tutte le distinzioni del caso, di fronte a un passato che non passa mai del tutto quando si parla di Russia imperiale, Unione sovietica e adesso Federazione russa: un regime politico il quale mette a tacere le voci più vive della società, esercitando attraverso i propri apparati di polizia un controllo capillare su qualsiasi forma di opposizione. Luoghi e pratiche della repressione cambiano nel tempo, ma resta intatta la costante certezza dei cittadini politicamente attivi di essere sorvegliati, minacciati in mille modi diversi, giudicati sbrigativamente come nemici della patria e infine allontanati e rinchiusi in luoghi indegni di un paese civile. Il regime pre- 1. Sull’apertura degli archivi sovietici si veda almeno Andrea Graziosi, Rivoluzione archivistica e storiografia sovietica, in «Contemporanea», 8 (2005), pp. 57-85. 2. Nicolas Werth, Poutine, historien en chef, Paris, Gallimard, 2022 [trad. it. Putin storico in capo, Torino, Einaudi, 2023].
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tende di realizzare un monopolio sulle informazioni, impedendo che esse circolino all’estero. Quest’ultima aspirazione resta però spesso tale perché fuori dalla Russia un vario mondo di associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, spesso in collaborazione con esuli russi, svolge un’opera di contro-informazione con la quale quel regime in qualche misura deve fare i conti. La ricostituzione a Ginevra di Memorial nel maggio del 2023 rappresenta il terminale internazionale di una «Russia che resiste», come recita il bollettino di Memorial Italia. L’obiettivo è di mantenere l’opinio- ne pubblica internazionale informata sui metodi e sull’intensità della re- pressione esercitata dalle autorità contro proteste e dissenso che comunque continuano a manifestarsi all’interno di quest’enorme paese. Il volume qui introdotto potrebbe essere visto allora come un tentativo di ricostruire il passato di questo presente, anche se in un senso specifico, quello dell’impegno internazionale di associazioni, organizzazioni e anche singole personalità che nei paesi occidentali cercarono di documentare le repressioni operate durante il regime di Lenin e di Stalin. Vediamo allora il nostro punto di partenza. Una grande divergenza si produsse all’interno della sinistra internazionale, allorquando, poco dopo l’insurrezione bolsce- vica dell’ottobre 1917, il governo dei Commissari del popolo presieduto da Lenin chiuse manu militari l’Assemblea costituente prima ancora che essa iniziasse i suoi lavori nel gennaio 1918. Fu un atto gravissimo, il primo di una guerra senza quartiere contro la democrazia «borghese» e il pluralismo politico e sindacale. Con quell’atto i bolscevichi stabilirono che essi – e di fatto soltanto essi – possedevano il diritto storico di guidare la Rivolu- zione russa. Da allora la sicurezza del regime politico che essi stavano co- struendo sostituì qualsiasi altra considerazione. La garanzia dei diritti civili divenne un inutile orpello giuridico del vecchio mondo liberale, mentre il benessere delle popolazioni venne rimandato ai futuri successi del socia- lismo. Per adesso, la formazione di un apparato repressivo formidabile, le fucilazioni, gli ostaggi e i primi campi, la coscrizione e le requisizioni nelle campagne e ancora la repressione esercitata nei confronti della stessa classe operaia furono il biglietto da visita di uno stato di tipo nuovo. Esso riuscì a sconfiggere i propri nemici nel corso di una sanguinosissima guer- ra civile, ma il prezzo più alto fu pagato dalle popolazioni con la carestia del 1921 e la dura repressione delle rivolte contadine. Fino ad allora nel resto d’Europa una sorta di consenso liberale e so- cialista aveva seguito con entusiasmo le vicende rivoluzionarie nei vasti territori appartenuti agli zar. Alla fine dell’Ottocento, nelle grandi capitali
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europee e a New York si era trepidato per la sorte dei rivoluzionari, spediti in Siberia oppure costretti all’esilio. Insomma, un mondo di associazioni, scrittori, gruppi di esuli e riviste si mobilitò a lungo contro il dispotismo za- rista e la repressione che esso mise in campo soprattutto dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. La Rivoluzione del 1905 accese grandi speranze che andarono poi deluse, mentre il 1917, pur iniziando sotto i migliori au- spici con il crollo del regime imperiale, finì per tracciare non già il percorso di una rivoluzione democratica e liberale, ma la strada verso l’abisso nel quale i bolscevichi trascinarono quell’enorme spazio territoriale situato ai margini dell’Europa. Le vecchie e rassicuranti rappresentazioni occidentali all’improvviso furono messe alla corda, per il semplice fatto che non c’era più un «antico regime» che opprimeva le masse popolari e puniva i rivo- luzionari, ma invece un regime sedicente rivoluzionario in guerra con tutti coloro che osassero sfidare il suo monopolio politico. La memoria della Rivoluzione francese certamente fu mobilitata per difendere i bolscevichi, rappresentandoli come giacobini chiamati a salvare la rivoluzione dalla reazione interna e internazionale. Ma questa operazione non convinse una parte importante di quel consenso liberale e socialista che si era mobilitato nel 1905 e ancora nel febbraio 1917. Co- erentemente alle lotte antizariste, molti continuarono infatti a battersi a favore della costituzionalizzazione del potere in «Russia» con la speranza di avvicinare quest’ultima all’Occidente. Molte persone di sinistra pensa- rono che la «rivoluzione» di Lenin non era stata una vera rivoluzione, ma un colpo militare attuato da una minoranza ideologicamente compatta, che aveva scardinato irrimediabilmente certezze consolidate. Tra queste una in particolare andò in mille pezzi: la certezza che non potevano esistere nemici a sinistra, ma soltanto a destra, essendo la democrazia repubblicana una traiettoria inclusiva di diritti sempre nuovi, compresi dunque quelli sociali. Per portare a compimento questo percorso, era dunque necessario che tutte le forze ispirate ai valori del progresso, tarati sulla memoria della Rivoluzione francese, collaborassero. Di fronte al consolidarsi del regime bolscevico queste idee entrarono in crisi nella mente e nei cuori di molti progressisti europei e statunitensi: un nemico a sinistra adesso esisteva e usava metodi che facevano impallidire quelli del vecchio zarismo e persino quelli della nuova destra autoritaria d’ispirazione fascista. Se una copiosa letteratura storica e sociologica è stata dedicata negli ultimi decenni alle schiere di ammiratori occidentali del regime fondato da Lenin, lo stesso non si può dire della galassia politica di sinistra che lo ha
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osteggiato. Esiste una miriade di libri dedicati al «bagliore» irradiato da Mosca e ai pellegrinaggi politici nella Mecca del socialismo, mentre è mol- to più difficile trovare ricerche complessive sull’ostilità diffusa nel mondo dei progressisti. La galassia politica di sinistra che ha osteggiato il regime di Lenin e Stalin non è ovviamente un territorio inesplorato, anche se lo scemare delle lotte ideologiche interne alla sinistra novecentesca lo ha reso forse meno frequentato dagli storici. L’ostilità verso il regime sovietico da parte di un socialista riformista italiano in lotta contro il massimalismo, di un repubblicano francese capace di distinguere le forme del politico al di là della dicotomia destra-sinistra, l’impegno dei vertici sindacali statuni- tensi per la diffusione del free labor e infine la militanza di un anarchico concentrato in campagne di solidarietà con i propri compagni inghiottiti nell’universo concentrazionario sovietico hanno trovato i loro storici. Si è trattato di studiosi perlopiù simpatetici, che hanno sentito l’urgenza di mostrare che la fascinazione per il comunismo ha avuto dei limiti, che è esistita insomma un’altra sinistra, un altro mondo del lavoro. Ciò che scarseggia – si diceva – sono ricerche che abbiano come oggetto le con- nessioni interne di quella parte del mondo progressista internazionale che sperò nella Rivoluzione del 1905 e in quella del febbraio 1917 come avvio di un processo di costituzionalizzazione del potere e che, proprio in virtù di questa speranza, non tardò a individuare nel regime bolscevico l’agente di un’operazione inversa, ossia la costruzione di un regime assolutista. In effetti, non è facile collegare all’interno dello stesso discorso cul- ture politiche diverse (dal liberalismo fino all’anarchismo, passando per il socialismo), nonché varie forme di associazionismo (dai partiti di massa alle leghe per i diritti umani, dai sindacati alle società antischiavistiche). Neppure è compito da poco individuare quei canali informativi sfruttati dagli esuli russi di sinistra (liberali, menscevichi, socialisti rivoluzionari e anarchici) per diffondere con una certa continuità, almeno fino ai primi anni Trenta, testimonianze e documenti in Occidente circa le forme che la repressione sovietica prendeva nel corso del tempo. Inoltre, la diffusione di scritti (memoriali, saggi critici e altro ancora) in più lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco e italiano) evidenzia una costante circolazione delle idee anticomuniste a sinistra e richiede pertanto che si individuino gli epicentri di questa grande operazione di contrasto della mitologia sovieti- ca. Infine, si deve tener conto del fatto che la sinistra internazionale non operò come un soggetto separato, ma in un interscambio continuo di idee e di informazioni con altri soggetti dell’anticomunismo internazionale (dal
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conservatorismo britannico alla destra intellettuale francese fino alle chie- se cristiane e alle comunità nazionali e religiose emigrate). Se metter mano a tutto ciò non è semplice, un paziente scandaglio di fonti di archivio, di memoriali, di periodici e carteggi ha permesso di rag- giungere almeno una conclusione: un consenso socialista e liberale euro- americano contro il regime sovietico è esistito realmente, caratterizzato da una circolazione di idee e iniziative allo stesso tempo transnazionale e transideologico. Basti qui un solo un esempio. La preparazione delle Let- ters from Russian Prisons, uscite a New York nel 1925, fu il frutto di una collaborazione che coinvolse più centri (non soltanto New York, ma anche Berlino e Praga), mettendo al lavoro militanti politici di diversa appar- tenenza politica e ideologica (dai menscevichi, ai socialisti rivoluzionari fino agli anarchici). Brevi scritti di grandi intellettuali francesi, britannici e statunitensi introdussero il volume. Questo mondo così vivace nacque in risposta alle prime manifestazioni repressive del regime fondato da Lenin, organizzando la solidarietà verso i prigionieri politici per tutti gli anni Ven- ti, indagando la condizione dei lavoratori forzati nei campi del legname all’inizio degli anni Trenta, pubblicando i memoriali di quanti erano riu- sciti a fuggire dai lager di Stalin, facendo pressione sui governi perché san- zionassero il regime sovietico sul terreno delle politiche commerciali e dei rapporti diplomatici. Addirittura – lo vedremo nel terzo capitolo – du- rante la Seconda guerra mondiale maturarono i frutti di una vera e propria «rivoluzione della conoscenza» dei metodi sovietici quando l’aggressione nazista del 22 giugno 1941 provocò una crisi mortale del regime sovietico; una crisi non soltanto delle sue capacità di difesa militare, ma anche dei dispositivi che avevano impedito, per larga parte degli anni Trenta, la cir- colazione fuori confine di informazioni circa arresti di massa, deportazioni di intere popolazioni ed espansione ipertrofica del sistema dei campi. Al di là di scambi, iniziative comuni e collaborazioni, ci dobbiamo chiedere cosa tenne insieme da un punto di vista concettuale questa ga- lassia politica di sinistra ostile al comunismo sovietico. Quale che fosse la provenienza ideologica, i gruppi e le personalità di cui si narra in questo libro non rinunciarono a pensare la politica in termini di cambiamenti ra- dicali: l’idea di rivoluzione non fu gettata generalmente alle ortiche come conseguenza dell’appropriazione fattane dal regime di Lenin e di Stalin. Il progresso storico continuò a essere visto come il prodotto del conflit- to politico e dello scontro delle idee. Nessun revisionismo o pentimento, dunque, ma alcuni assunti condivisi che marcarono tutta la distanza dal
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comunismo sovietico e dai suoi amici. Il primo è quello relativo alla carat- terizzazione della violenza politica e dell’uso del terrore. Visto dagli amici del comunismo, il «terrore rosso» dei primi anni costituì un derivato di tipo giacobino, necessario per salvare la rivoluzione in pericolo. Nel primo capitolo, studieremo nel dettaglio il processo di acquisizione di documen- ti, che permise a Sergej Mel’gunov, un grande studioso russo in esilio, di rovesciare questo discorso e affermare quindi che il terrore non era un de- rivato, bensì uno strumento originario, impiegato dagli apparati repressivi bolscevichi per costruire un nuovo ordine sociale costruito sulla paura. Il secondo assunto è relativo alla collocazione stessa del regime bol- scevico nella traiettoria del progresso storico generale. Gran parte degli autori di cui discuteremo evidenziarono il carattere «regressivo» del bol- scevismo. Della prima tragica sequenza (il 1914-1922) che riportò i ter- ritori appartenuti al grande impero zarista indietro di decenni, esso ne fu responsabile soltanto a partire dal 1917-1918. Il punto fu però che, come alcuni intuirono precocemente, il bolscevismo si configurò come il prodot- to più tipico della Grande guerra, dalla quale esso imparò le pratiche e il culto della violenza, nonché l’aspirazione a comandare l’economia attra- verso apparati statali, fuori da ogni considerazione per il funzionamento dei mercati. In questo senso il regime fondato da Lenin apparve parte di una dinamica storica a carattere regressivo, dando vita a uno stato milita- re che deliberatamente considerava economia e società due ambiti a sua totale disposizione. Trockij si vantò di essere andato alla «scuola barba- ra» della guerra, ma acuti critici del bolscevismo (penso a Karl Kautsky) colsero precocemente tutta la portata del processo di de-civilizzazione in corso nello spazio sovietico ricompostosi in gran parte sui vecchi territori imperiali allo sbocco della guerra civile. La «rivoluzione dall’alto» di Stalin nel 1929 spazzò via ogni possibile posizione intermedia tra amici e nemici del comunismo. Se al tempo della NEP si era potuto credere che la liberalizzazione dell’economia avrebbe portato con sé la liberalizzazione della politica, chiudendo finalmente quel- la vergognosa realtà costituita dai campi allestiti presso le Solovki. Adesso, la collettivizzazione/dekulakizzazione, le deportazioni di massa e la for- mazione di un grande impero concentrazionario non davano più scelta: da un lato, si pensi a Otto Bauer, si reputò necessario che una società arretrata, come quella sovietica, dovesse essere trascinata nella modernità con me- todi drastici che naturalmente non sarebbero andati bene per l’Occidente; dall’altro, non mancò chi invece colse la peculiarità di un regime statuale
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Il nemico tra di noi
che quanto più trascinava in avanti l’economia pianificata, puntando sulla formazione di un grande apparato militare industriale, tanto più finiva per realizzare un’organizzazione sociale arcaica, quasi di tipo castale, con alla base immense masse di lavoratori prigionieri ridotti in schiavitù e conta- dini tornati a essere servi di un’aristocrazia, adesso comunista, che si era impossessata dello Stato. Questa nuova concettualizzazione della «regres- sione» sovietica, in risposta alle politiche di Stalin, s’intrecciò a un lavoro documentario di grande rilievo, in gran parte concentrato nei primissimi anni Trenta. Considerando l’entusiasmo di molti progressisti occidentali per l’esperimento sovietico al tempo della crisi globale del mercato, questa contro-rappresentazione acquista ancora più valore. In effetti, come ha scritto Maria Ferretti, se guardiamo la vicenda sovietica dal punto di osservazione della «genesi del gulag» (vale a dire del terminale più caratteristico della repressione sovietica), si ha di fronte una complessa «crisi della modernità», esplosa con la Grande guerra. 3 La frantumazione in Europa dell’idea di progresso che connetteva in modo ordinato passato, presente e futuro, produsse una situazione di vuoto in cui apparve possibile ai bolscevichi realizzare, sulle macerie dell’Europa libe- rale e dell’impero zarista in decomposizione, l’utopia messianica del so- cialismo. Oltre ad aver abituato milioni di persone alla violenza, la guerra aveva forgiato strumenti (i campi di concentramento e lo sfruttamento del lavoro dei prigionieri) che il nuovo regime bolscevico impiegò per «salva- re la rivoluzione». Dopo la pausa della NEP, il regime sovietico, saldamen- te nelle mani di Stalin, non esitò a far rivivere, di fronte alla resistenza della società, la tradizione russa della «modernizzazione senza la libertà», che affondava le radici nel progetto riformatore di Pietro il Grande. Corollario dunque di una crescita economica accelerata furono l’ampliamento costan- te della polizia politica, l’estensione dei reati politici e lo sfruttamento indi- scriminato del lavoro forzato dei prigionieri. Questa volta, nel pieno della modernità industriale e della società di massa del XX secolo, la violenza, le repressioni e lo sfruttamento avvennero su una scala molto più vasta. Per un’intera fase fu possibile documentare tutto questo in Occidente. Più tardi, diciamo a partire dal 1933, le cose andarono diversamente: l’ombra inquietante dei campi sovietici scomparve o quasi dalla scena internazionale grazie al perfezionamento dei dispositivi che impedirono fughe di prigionieri 3. Maria Ferretti, Pensare il Gulag: la Russia, la modernità, la rivoluzione bolscevica, in «Studi Storici», 3 (2012), pp. 559-614.
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e di notizie. L’avvento di Hitler al potere nel gennaio 1933 inoltre tolse, so- prattutto nelle file del socialismo internazionale, la spinta morale a condanna- re il regime di Stalin, a cui ci si doveva adesso legare. Nel 1934, Léon Blum, il quale poco tempo prima aveva animato lo spirito antistalinista di una parte del socialismo francese, salutò con entusiasmo un telegramma proveniente da Kazan’: i prigionieri di Stalin, militanti dei vecchi partiti di sinistra messi fuori legge, invitavano i compagni francesi a un grande fronte unico con i comunisti contro il fascismo! Seguendo questa strada, si può affermare che il silenzio in Occidente di partiti, movimenti, governi, gruppi intellettuali sulla carestia – che Stalin usò nel 1933 come arma punitiva contro vaste masse di cittadini sovietici (ucraini, ma non soltanto), rei di opporsi ai suoi progetti imperiali – resta una delle pagine meno nobili delle democrazie occidenta- li, delle sue classi dirigenti e della sua opinione pubblica. Un paragrafo del secondo capitolo è stato titolato «A fari spenti nella nebbia» per indicare gli anni della Grande terrore (1936-1938). È vero che la sinistra internazionale discusse dei grandi processi moscoviti, in molti casi denunciando la tragica farsa in corso, lo spettacolo raccapricciante delle con- fessioni e la negazione dei diritti della difesa. Tuttavia, a causa delle tecniche di segretezza oramai affinate, il potere sovietico riuscì a far passare inosser - vate le coeve operazioni di pulizia nazionale e sociale scatenate contro vasti settori della società. Si trattò di un vuoto decisivo dal punto di vista docu- mentario, perché, come sanno gli storici, le «operazioni speciali» del 1937- 1938 segnarono una torsione definitiva verso forme di terrore categoriale e preventivo, che, se conosciuto adeguatamente, avrebbe dato un contributo di prim’ordine alla comprensione della reale natura del regime di Stalin. Il patto Molotov-Ribbentrop, con la sua logica di cinica spartizione, fece da leva per una «rivoluzione dall’esterno» nei territori di nuova sovietizzazione, i cui strumenti repressivi erano stati ben rodati negli anni Trenta. Soltanto la guerra (quella scatenata da Hitler contro l’URSS il 22 giu- gno 1941) riaprì la partita della conoscenza delle politiche repressive so- vietiche in Occidente. Decine di migliaia di prigionieri polacchi, i quali erano stati rinchiusi nei campi di Stalin dopo la spartizione tedesco-sovie- tica della Polonia, vennero liberati in nome della comune lotta antinazista. In sostanza, come vedremo, la crisi militare del regime di Stalin aprì una falla nel muro della segretezza, innescando una vera e propria rivoluzione della conoscenza: una volta fuori dai confini sovietici, alcuni ufficiali del ricostituito esercito polacco raccolsero migliaia di interviste in cui erano raccontate le condizioni disumane nelle quali si viveva e si lavorava nei
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campi. Dopo la guerra, questo e altri corpi documentari alimentarono ne- gli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e nelle zone occidentali della Germania, l’organizzazione di grandi manifestazioni pubbliche contro la «schiavitù rossa», che s’intensificò a mano a mano che il clima internazio- nale scivolò verso la guerra fredda. La prima guerra fredda (gli anni dal 1947 al 1953) costituisce un pas- saggio decisivo di questo volume. Essa fu il punto di approdo di un grande lavoro di raccordo tra diverse istanze: quella della moralità, punto di vista proprio del vario associazionismo e dei gruppi della sinistra internazionale; quella del potere, ossia i funzionari del Dipartimento di Stato statuniten- se e del Foreign Office britannico, incaricati di riordinare e ampliare la documentazione antisovietica per renderla funzionale alla guerra fredda culturale; infine l’istanza del diritto internazionale, ossia il lavoro svol- to dalla comunità epistemica che operava nelle grandi organizzazioni so- vranazionali. Questa sequenza di moralità, potere e diritto (ricavata da un passo di Governing the World dello storico Mark Mazower) 4 possedeva un obiettivo definito: spingere l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite, a realizzare una nuova Convenzio- ne internazionale contro il lavoro forzato, ritagliata prevalentemente sui si- stemi socialisti e i loro apparati produttivi e repressivi. Fu un momento per così dire magico per i nostri gruppi, associazioni e sindacati antisovietici che si trovarono per una stagione in una sorta di cabina di regìa, dalla quale poterono influenzare governi, costruire legami con altri partiti e sindacati su scala globale. In particolare, fu premiata la lunga battaglia anticomu- nista della American Federation of Labor (AFL), la quale nel 1930-1931 era stata sostenuta soltanto in parte dall’amministrazione in carica, quel- la di Herbert Hoover. E a fianco del sindacalismo statunitense operarono sia vecchi soggetti come i menscevichi, approdati a New York durante la guerra dopo due decenni di peregrinazioni nell’Europa delle tirannie, sia nuove realtà associative come la Commissione internazionale contro il re- gime concentrazionario (CICRC), nella quale militavano gli ex deportati dei campi di Hitler. Ora, al di là del fatto che la sequenza di moralità, potere e diritto prese una forma compiuta soltanto nella prima fase della guerra fredda, essa ci appare espressiva di una determinata organizzazione dello spazio politico, 4. Mark Mazower, Governing The World. The History of an Idea. 1815 to the Present, New York, Penguin Books, 2012, p. 242.
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quella delle democrazie rappresentative, dove la società civile e l’opinione pubblica hanno facoltà di organizzarsi e di esprimersi, il potere politico è costretto a prendere decisioni rispettando la forma costituzionale dello stato e infine il diritto internazionale si profila come l’orizzonte normativo della protezione dei diritti degli individui. Per queste ragioni, l’ambito geografico della nostra storia coincide fin dal primo capitolo con quello di determinati paesi, innanzi tutto i regimi rappresentativi di più antica fondazione: Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. Ciò non ha significato peraltro trascurare altri luoghi che hanno costituito per qualche tempo l’ambiente più o meno ideale per l’agire antisovietico della sinistra internazionale. Mi riferisco alla Re- pubblica di Weimar, con Berlino al centro, luogo dell’esilio di menscevichi e anarchici negli anni Venti assieme a Praga, capitale del nuovo stato cecoslo- vacco. Più avanti, alla fine degli anni Trenta, s’incontrerà Città del Messico, dove giunsero gli esuli della guerra civile spagnola, e poi finalmente New York, dove molti dei nostri protagonisti giunsero durante la guerra. L’Italia in questo scenario appare forse un po’ sacrificata, entrando in scena soltanto nei due dopoguerra, cioè nelle fasi precedenti e successive il regime fascista. Ma non sono stati sacrificati gli italiani, i quali sono presenti in ogni passaggio di questa storia, visti come quei coraggiosi antifascisti che non chiusero gli occhi di fronte ai misfatti di Stalin. La convergenza di moralità, potere e diritto riflette le grandi ambi- zioni universalistiche insite nel codice genetico delle democrazie liberali. Ciò non significa che questa convergenza sia stata sempre all’ordine del giorno, realizzandosi in realtà soltanto per il breve tratto della prima guerra fredda. In precedenza, la crisi del 1929 e la minaccia hitleriana sconsiglia- rono alla sfera del potere politico di mettere in collegamento la battaglia delle associazioni non governative con la sfera del diritto internazionale. Si pensi soltanto al silenzio di Roosevelt di fronte alle notizie sulla carestia ucraina nel 1933. Anzi, nel 1934 il regime di Stalin, con il suo impero del lavoro forzato, entrò a far parte dell’ILO. L’ironia del caso fu che quest’ul- tima aveva già realizzato una Convenzione contro il lavoro forzato nel 1930. Nondimeno quelle ambizioni universalistiche insite nel codice gene- tico delle democrazie liberali costituiscono un aspetto importante, perché, traducendosi più tardi nella convergenza di moralità, potere e diritto, dise- gnarono la strada per contrastare la strategia globale di sicurezza appron- tata dal regime sovietico. Questa era basata da tempo sull’assunto che un conflitto tra capitali- smo e socialismo fosse inevitabile e che dunque fosse necessario conso-
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lidare un grande apparato militare-industriale. Compito dello stato era sì costruire alleanze atte ad allontanare lo spettro della guerra, ma anche, ogni qualvolta fosse possibile, realizzare acquisizioni territoriali per aumentare risorse economiche e forza lavoro coatta. Questo secondo aspetto della strategia di sicurezza fu inaugurato nel 1939, alleandosi con Hitler e fu ripresa in grande stile sul finire della guerra con l’avvio della sovietizzazio- ne dell’Europa orientale. Non è dunque un caso che la grande ambizione statunitense di far convergere moralità, potere e diritto fu realizzata proprio a partire dal 1947, ossia nel momento di massima spinta impressa da Stalin alla strategia di sicurezza sovietica. In questo contesto, le autorità statu- nitensi fecero propria, nella varietà dei dispositivi a loro disposizione, la campagna contro la «schiavitù rossa» che la AFL aveva lanciato da tempo. Si cercò in sostanza di usare la grancassa delle Nazioni Unite, e delle agen- zie che facevano capo ad essa, per rendere evidente all’opinione pubblica e alle classi dirigenti globali (si entrava nel tempo della decolonizzazione) che il modello di crescita preferibile era quello statunitense fondato sul «lavoro libero» e non quel sistema di coscrizione universale rappresentato dal mondo sovietico. Il disegno di una nuova Convenzione ILO contro il lavoro forzato fu senza dubbio parte di questo sforzo, messo in campo da una vasta coalizione per rafforzare l’egemonia statunitense nel quadro del- la guerra fredda culturale. Come sappiamo, il termine chiave di questa egemonia fu totalitari- smo, un’espressione che alcuni studiosi oggi considerano problematica quando si parla di storia sovietica, ma che allora fu indubbiamente uno strumento politico-ideologico di grande importanza nella guerra delle idee e delle immagini contro l’URSS. Come è noto, la genesi del termine risale addirittura al dibattito italiano dei primi anni Venti. Noi cerchere- mo di ricostruire l’uso che ne fece la sinistra internazionale antistalinista nel corso degli anni Trenta e durante la guerra per vedere successiva- mente come esso fu adottato dalle autorità statunitense agli albori della guerra fredda. Si trattò di un uso strumentale e ideologico, alle cui regole non sfuggì neppure la questione del lavoro forzato. Rispetto ad esso, il totalitarismo contribuì ad alimentare una serie di coppie oppositive fun- zionali allo scontro ideologico con il regime sovietico: i regimi socialisti, definiti come totalitari, erano dotati di un «sistema» di lavoro forzato (alla stregua del regime di Hitler), mentre i regimi autoritari (e i tardi re- gimi imperiali) non lo erano: si trattava piuttosto di mere sopravvivenze o deviazioni temporanee che il legame con l’Occidente (soprattutto con
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gli Stati Uniti) avrebbe gradualmente fatto sparire. Lo schema funzionò fino al 1953, alimentando una sorta di progressismo su scala globale a guida statunitense, all’interno del quale le nuove istanze della decoloniz- zazione furono in qualche misura contenute. Le cose però erano destinate a cambiare, perché dopo la morte di Stalin emerse più nitidamente lo scontro globale tra Nord e Sud del mondo a fianco di quello tra Est e Ovest. Il totalitarismo come categoria omnicomprensiva ne risultò scos- so, anche perché la stessa Unione sovietica nel frattempo cambiò radi- calmente fisionomia. Pur tra mille contraddizioni, il sistema dei campi fu smantellato entro la fine del decennio. La nostra storia termina nel 1957 con la pubblicazione della Con- venzione contro il lavoro forzato, la quale appare, come vedremo, tardi- va rispetto alle profonde trasformazioni in corso nella politica interna- zionale. Neppure gli Stati Uniti la ratificarono nell’immediato, finendo per farlo soltanto all’inizio degli anni Novanta. Il tempo dei «disgeli» sovietici nel frattempo era arrivato. Mi riferisco in primis alle rivelazioni sui crimini di Stalin fatte da Chruščëv nel 1956. Esse furono certamente parziali, e tutto sommato ambigue, ma nondimeno aprirono una nuova fase storica, quella della grande letteratura sovietica critica dello stali- nismo, la quale produsse nuove consapevolezze anche in Occidente. A partire dalla pubblicazione in inglese di Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Isaevič Solženicyn prese corpo un’altra storia di cui questo libro non narra. Per cogliere tuttavia alcuni elementi di continuità si può far riferimento qui in chiusura a un episodio significativo. In un discorso tenuto a Washington il 30 giugno 1975 durante una cena in suo onore organizzata dalla AFL-CIO, lo scrittore russo in esilio volle ringraziare i sindacati americani per aver pubblicato nel 1947 una mappa dei campi sovietici, mentre le menti più illustri del pensiero progressista occidentale «giuravano che non esistevano campi di concentramento in URSS». 5 Non sappiamo quando Solženicyn venne a conoscenza delle campagne occi- dentali contro la «schiavitù rossa», ma, almeno da un punto di vista ideale, un collegamento tra due storie fu stabilito. La prima è raccontata in questo libro e coincide con la vicenda di quei gruppi, associazioni, partiti e orga- nizzazioni internazionali che sin dagli anni Venti si batterono in Europa e negli Stati Uniti contro le repressioni sovietiche. La seconda ha come protagonista la grande memorialistica e letteratura concentrazionaria, che 5. Alexander Solzhenitsyn, Warning to the West, London, Vintage, 2018, p. 4.
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prese a circolare in qualche modo in URSS e all’estero a partire dagli anni Sessanta. Nel decennio successivo Arcipelago Gulag fu senza dubbio uno dei punti più alti di questa letteratura assieme ai Racconti della Kolyma di Varlam Tichonovič Šalamov.
Nel corso delle mie ricerche per questo libro non ho mai dimenticato un episodio accaduto nell’agosto 2015 nel corso del Congresso internazionale di scienze storiche a Jinan nella provincia dello Shandong della Repubblica popolare cinese. Dopo aver concluso la mia presentazione dedicata al dibattito occidentale sul lavoro forzato ci- nese negli anni cinquanta, un accademico locale si alzò e, in un inglese impeccabile, mi fece notare che in Occidente si era discusso inutilmente di cose inventate, perché lavoro forzato e campi di concentramento nella Repubblica popolare non erano mai esistiti. Da allora ho speso molto tempo, girovagando per archivi e biblioteche europee e statunitensi per ricostruire queste “inutili” discussioni occidentali sopra le strutture repressive non solo (e con il tempo non più principalmente) del regime comunista cinese, ma dei regimi di tipo sovietico in generale e soprattutto, come era in fondo logico, del regime fondato da Lenin sulle ceneri dell’impero zarista. Nello scrivere questo libro, ho contratto molti debiti. Andrea Graziosi è lo studio- so al quale mi sono rivolto più frequentemente, perché la sua conoscenza dell’immagi- nario occidentale della storia sovietica si è rivelata vasta e profonda. La sua generosità intellettuale e la sua amicizia sono state molto importanti per me. Scrivendo queste ri- ghe, mi vengono alla mente le persone che hanno stimolato la mia riflessione, leggen- do qualche mio saggio, conversando con me informalmente o nel corso di convegni e seminari e a volte anche soltanto dandomi buoni consigli bibliografici. Li cito in ordine alfabetico: Jars Balan, Maria Elena Cavallaro, Marta Craveri, Ettore Cinnella, Gia Ca- glioti, Simona Colarizi, Christian de Vito, Cristiano Diddi, Mark Dincecco, Sandrine Kott, Marc Lazar, Daniel Maul, Antonio Muñoz Sánchez, Roberto Pertici, Philipp Sarasin, Silvio Pons, Jaime Reis, Ilkka Tapio Seppinen, Giuseppe Vacca e Vladislav Zubok. È sempre viva in me la memoria delle conversazioni con Victor Zaslavsky. La gentilezza e la competenza di archivisti e bibliotecari (da Ginevra ad Amster - dam, da Parigi a Oxford fino a New York e all’università del Maryland) sono state preziose, ma senza il sostegno dal Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Salerno e, in un caso, della Giunta centrale per gli Studi storici non avrei potuto affrontare il costo di questi viaggi e di questa pubblicazione. Vorrei infine ringraziare di cuore gli amici Carmine Pinto, Tommaso Dell’Era, Raffaele Romanelli e ancora Andrea Graziosi per aver letto il testo. Mi hanno posto problemi di tipo concettuale e dispensato consigli per rendere la forma più scorrevole e leggibile. Come è d’obbligo dire in questi casi, la responsabilità di errori, ripetizioni e, eventualmente, passaggi poco chiari è soltanto dell’autore.
1. Di fronte a uno stato di tipo nuovo (1918-1928)
1. Introduzione In questo capitolo è ripercorso il primo decennio post-rivoluzionario (1918-1928) dal punto di vista di osservatori, gruppi politici e associa- zioni internazionali che criticarono i metodi repressivi sovietici al tempo del «terrore rosso» e della guerra civile e successivamente al tempo della NEP. Se una parte consistente della sinistra internazionale accettò l’idea che il regime sovietico incarnava, pur con tutti i suoi limiti e torsioni autoritarie, la vecchia tradizione risalente alla grande Rivoluzione fran- cese, portando a realizzazione quindi anche il messaggio di quella russa del 1905, altri gruppi e personalità ragionarono in modo completamente diverso. Essi riconobbero che i loro entusiasmi del febbraio 1917 erano stati mal riposti e guardarono l’insurrezione bolscevica dell’ottobre come avvio di una divergenza radicale rispetto alla tradizione rivoluzionaria. Se quest’ultima infatti era stata sempre opera di una pluralità di attori sociali e politici, impegnati nell’affermazione dei diritti dell’individuo di fronte al potere e nella profonda ridefinizione di quest’ultimo in senso costituzionale, il regime bolscevico sembrò invece sviluppare rapidamen- te propositi molto diversi. Il partito di Lenin, nel suo farsi regime, parve impegnato nella costruzione di un sistema di sicurezza assoluto attorno allo stato rivoluzionario, azzerando, assieme alle garanzie dei diritti indi- viduali, ogni velleità di autonomia che potesse prender forma all’interno della società. A partire dai primi mesi del 1918, notizie provenienti dai territori go- vernati dai bolscevichi alimentarono un discorso destinato a farsi strada, per quanto confinato a lungo presso esigue minoranze: l’ampiezza e il ca-
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rattere delle politiche repressive bolsceviche costituivano la dimostrazio- ne che il regime di Lenin stava costruendo uno stato di tipo nuovo, che poco aveva a che fare con vecchie tradizioni ottocentesche, agganciandosi piuttosto ai metodi di gestione della società e dell’economia forgiatisi in Europa durante la Grande guerra. Molti ebbero l’impressione di trovarsi di fronte a uno stato di tipo militare, il quale, al di là della retorica impiegata dai suoi dirigenti, era essenzialmente impegnato a estrarre risorse dalla popolazione (in particolare quella rurale) per sopravvivere allo scontro con i propri nemici, nel contesto di una guerra civile spaventosa, e quindi porre le basi del proprio consolidamento. Alcuni attenti osservatori affermarono che il terrorismo impiegato dai bolscevichi non rappresentava tanto la ri- sposta a un terrorismo di segno opposto, cioè controrivoluzionario, quanto invece uno strumento originario, connaturato all’ideologia del partito al potere, da utilizzare per edificare sulla paura il nuovo ordine sociale. Negli anni della NEP, la ridefinizione del terrore sovietico (o, per meglio dire, la sua legalizzazione) sospinse al centro del discorso della sinistra internazionale la questione dei prigionieri politici, ossia quei diri- genti e militanti dei partiti rivoluzionari entrati in conflitto con le autorità sovietiche. Si verificò una polarizzazione nel dibattito che durò tutto il decennio. Alcuni ritennero che fosse sufficiente una pressione internazio- nale per giungere alla liberazione dei prigionieri o quantomeno a mitigare l’asprezza della loro condizione. Infatti, nel loro modo di vedere, il vasto apparato repressivo costituiva prevalentemente una persistenza del passa- to in linea di continuità con il regime zarista imperiale. Con il consolida- mento della rivoluzione, questa triste eredità sarebbe scomparsa. Altri la pensavano diversamente, vedendo in quell’apparato, così capillarmente organizzato, l’elemento più caratteristico di un regime di tipo nuovo, che presto avrebbe mostrato un volto ben più feroce di quello del passato re- gime imperiale. Con queste premesse, una ricognizione sulle battaglie a favore dei prigionieri negli ultimi decenni dell’epoca zarista si impone in questo capitolo, anzi ne costituisce il punto di partenza. A cavallo tra i due secoli, alcune caratteristiche del regime imperiale (la polizia segreta come corpo separato dello Stato, dotato di larghi poteri discrezionali, e in possesso del diritto di condannare per reati politici) suscitarono reazioni molto forti nella sinistra occidentale, liberale, socialista e anarchica. Più tardi, durante il primo decennio del potere sovietico, non mancò chi de- nunciò la continuità tra l’ochranka e le varie sigle del potere poliziesco bolscevico, a partire dalla Čeka.
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Dopo il 1926 questo dibattito fu arricchito dalla circolazione di nuovi memoriali, scritti da uomini fuggiti dalle prigioni e dai campi. Trattandosi di prigionieri comuni e di «controrivoluzionari», essi mostrarono al lettore occidentale un quadro diverso da quello emerso nelle lettere dei prigionieri politici di sinistra che era stato possibile pubblicare nel 1925. Ed era un quadro molto più tragico: i prigionieri comuni e i controrivoluzionari non godevano degli stessi privilegi. Erano costretti a lavorare e sperimentavano di solito un regime concentrazionario più duro. Mentre lo sguardo sulle strutture concentrazionarie penetrava più a fondo, iniziò a prendere forma un nuovo modo di guardare il regime sovietico nel suo complesso, come espressione di una regressione formidabile sul terreno della civiltà giuri- dica. E questo nuovo modo di guardare si caratterizzò per alcune intuizio- ni importanti, destinate a rivelarsi utili per comprendere la «rivoluzione dall’alto di Stalin» a partire dal 1929. 2. Eredità del passato. Dalle prigioni zariste alle speranze del 1917 Sullo sfondo dell’impegno pubblico degli anni Venti del Novecento, agì dunque l’eredità di campagne umanitarie, condotte da un variegato mondo associativo a partire dalla fine dell’Ottocento con il proposito di coinvol- gere l’opinione pubblica occidentale nella denuncia del regime zarista. Nel decennio successivo all’assassinio di Alessandro II (1881), allorquando fu- rono esasperate le politiche repressive imperiali, esuli russi in Occidente, associazioni per i diritti umani ed esponenti del socialismo e della cultura repubblicana internazionale animarono (a New York, Londra, Berlino e Pa- rigi) iniziative pubbliche, destinate a lasciare una traccia che riemerse molto tempo dopo, allorquando si dovette fare i conti in Occidente con le galere e i campi sovietici. La caratterizzazione del regime imperiale zarista come stato di polizia, espressione di un ritardo sulla strada della civiltà giuridica mo- derna tornò dunque con intensità negli ultimi decenni dell’Ottocento, anche se quel sistema era in realtà più complesso dell’immagine che lo dipingeva come eterna incarnazione dell’autocrazia e dell’arretratezza russa. Un’im- magine che da lungo tempo circolava in Europa occidentale, rinforzata dal grande successo editoriale dell’opera di Astolphe de Custine. 1 1. Astolphe de Custine, La Russie en 1839, 4 voll., Paris, Librairie D’Amyot, 1843. Si veda per una sintesi di questo motivo The Western European Image of Russia, primo capi-
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Il regime imperiale aveva certamente rinverdito la propria tradizione repressiva nella prima metà dell’Ottocento: l’esecuzione di alcuni decabri- sti nel 1926 (e l’invio degli altri in Siberia), la repressione della ribellione polacca del 1830-1831 e in seguito l’esilio all’estero di Aleksandr Herzen e in Siberia di Fëdor Dostoevskij. La celebre «terza sezione», incaricata di prevenire i delitti politici e di sorvegliare la stampa secondo rigide norme censorie, ispirava terrore nelle élite intellettuali, soggette a un controllo capillare. 2 Eppure a un certo punto la strada delle riforme fu imboccata. Alessandro II la inaugurò con l’abolizione del servaggio nel 1861. Dal nostro punto di vista, ebbe molta importanza la riforma della giustizia del 1864 che stabilì alcuni princìpi della civiltà moderna: l’inamovibilità del giudice, il dibattimento pubblico nei processi, le maggiori garanzie per la difesa e le giurie popolari. Tribunali speciali restarono in vigore per giu- dicare uomini di chiesa, alti funzionari e militari. All’altro estremo della scala sociale, i contadini continuarono a essere giudicati, per piccoli rea- ti civili e penali, dalle corti consuetudinarie: «Pur con i suoi limiti – ha commentato Ettore Cinnella – la riforma giudiziaria contribuì molto ad avvicinare la Russia all’Europa e a promuovere nel paese una moderna coscienza giuridica». 3 In realtà, come sottolinea lo stesso Cinnella, soprattutto dopo la ripre- sa degli attacchi terroristici alla fine degli anni Settanta, si fece in modo che i processi politici venissero sottratti alla magistratura ordinaria per affidarli ai tribunali speciali e alle corti marziali. L’assoluzione nel 1878 di Vera I. Zasulič (la quale aveva ferito il capo della polizia di Pietroburgo) da parte di una giuria popolare spinse il regime in una direzione più severa, ma che nondimeno non portò all’abolizione della riforma del 1864. 4 Un sistema di registri e una rete di informatori prima sconosciuti presero forma negli tolo del volume di Bruno Naarden, Socialist Europe and Revolutionary Russia Perception and Prejudice (1848-1923), Cambridge, Cambridge University Press, 2002 (I ed. 1992), pp. 7-39. 2. Jonathan W. Daly, Police and Revolutionaries, in The Cambridge History of Rus- sia, vol. II: Imperial Russia 1689-1917, a cura di Dominic Lieven, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 637-638. 3. Ettore Cinnella, 1905. La vera rivoluzione russa, Pisa-Cagliari, Della Porta, 2008, p. 40. Un confronto con le istituzioni penali europee in Jonathan W. Daly, Russian Puni- shments in the European Mirror, in Russia in the European Context, 1789-1914: A Member of the Family, a cura di Michael Melancon e Susan McCaffray, New York, Palgrave-Mac- millan, 2005, pp. 161-188. 4. Cinnella, 1905, pp. 40-41.
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anni immediatamente successivi, ma fu l’uccisione dello zar da parte del gruppo rivoluzionario Volontà del popolo a provocare un mutamento ra- dicale. Alessandro III, il successore, impresse una spinta notevole verso la centralizzazione autoritaria dello stato, la russificazione della periferia dell’impero e il controllo capillare della polizia sulla vita delle campagne e delle città. All’inizio degli anni Novanta, un movimento clandestino, ba- sato sulla tradizione del populismo degli anni Settanta, cercò di suscitare rivolte contadine nel contesto della grande carestia del 1891-1892. Questo movimento fu duramente represso. 5 Le iniziative internazionali più importanti contro le prigioni e le de- portazioni zariste furono dunque prese nel nuovo contesto autoritario a ca- vallo tra gli anni Ottanta e Novanta. George Kennan, una curiosa figura di viaggiatore e scrittore, molto meno nota del suo celebre pronipote George Frost Kennan, pubblicò nel 1891 un lavoro dal titolo Siberia and the Exile System, nel quale era condensata l’esperienza di un viaggio che egli ave- va realizzato qualche anno addietro per conto di una rivista statunitense, «The Century Magazine». 6 Si è colpiti dall’estrema libertà che le autorità imperiali lasciarono a Kennan, permettendogli di visitare prigioni e luoghi di confino e di conferire, in un clima relativamente libero, con i prigionieri. Kennan si sentì in dovere, nelle prime pagine del suo lungo resoconto di viaggio, di spiegare che questo suo privilegio era dipeso dal fatto che le autorità lo consideravano una figura amica. In effetti, egli aveva scritto tempo addietro un avventuroso libro siberiano, scevro da critiche nei con- fronti del potere zarista. In seguito non aveva perso occasione di criticare come eccessivi gli attacchi occidentali al sistema penale imperiale. Con queste credenziali, non incontrò particolari difficoltà ad ottenere il lascia- passare dal ministero degli Interni a Mosca. 7 Con questo racconto, Kennan intese mettere le mani avanti rispetto a eventuali critiche: la possibilità di gettare uno sguardo accurato su quel mondo di sofferenze in definitiva non era dipeso dalla liberalità delle autorità, sulle quali evidentemente aveva 5. Daly, Police and Revolutionaries, pp. 639 sgg. 6. George Kennan, Siberia and the Exile System, 2 voll., London, James R. Osgood, Mc Ilvaine & Co., 1891. Su Kennan, Frederick F. Travis, George Kennan and the Ame- rican-Russian Relationships, 1865-1924, Athens, OH, Ohio University Press, 1990. Vedi anche David Engerman, Modernization from the Other Shore: American Intellectuals and the Romance of Russian Economic Development, Cambridge, Harvard University Press, 2003, pp. 35-37. 7. Kennan, Siberia and the Exile System, vol. I, p. V.
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cambiato idea, ma dall’errore di valutazione dei funzionari di Mosca che avevano data per acquisita, una volta per tutte, la simpatia di Kennan per il regime imperiale. Se le cose andarono davvero in questo modo, si trattò di un errore piut- tosto grave. Kennan infatti contribuì più di ogni altro al consolidamento dell’immagine dello stato zarista come stato di polizia, estraneo dunque ai principi dello stato di diritto occidentale. Scrisse che: L’esilio per via amministrativa significa l’esilio di una persona indesiderata da una parte all’altra dell’impero senza l’osservanza di alcuna delle formalità legali che, nella maggior parte dei paesi civili, precedono la privazione dei diritti e la restrizione della libertà personale. L’indesiderato può essere non colpevole di alcun reato […] ma se, a giudizio delle autorità locali, la sua presenza in un determinato luogo è «pregiudizievole per l’ordine pubblico» o «incompatibile con la tranquillità pubblica», può essere arrestato senza man- dato, può essere tenuto in prigione da due settimane a due anni, e può poi essere trasferito con la forza in qualsiasi altro luogo entro i limiti dell’impero e lì essere messo sotto sorveglianza della polizia per un periodo da uno a dieci anni […] Non ha il diritto di chiedere un processo, o anche un’udienza. Non può chiedere un mandato di habeas corpus. Non può fare appello ai suoi con- cittadini attraverso la stampa. Le sue comunicazioni con il mondo sono così improvvisamente interrotte che a volte nemmeno i suoi stessi parenti sanno cosa gli sia successo. È letteralmente e assolutamente privato di qualsiasi mezzo di autodifesa. 8
Questi riferimenti all’assenza dei principi fondamentali della civiltà giuridica tornarono con una continuità impressionante di linguaggio e di ragionamento nella letteratura critica sul regime sovietico. In particolare, «l’esilio per via amministrativa» fu oggetto in ogni stagione di indagini sul regime di Lenin e di Stalin, all’interno del quale il sistema delle garanzie giuridiche era completamente svuotato dalla prassi secondo cui toccava ai funzionari della sicurezza decidere della vita delle persone. Prima dell’uscita del suo libro, Kennan pubblicò nel 1887 una serie di articoli accompagnati da iniziative nel corso delle quali cercò di impres- sionare il pubblico statunitense. Si presentò sul palcoscenico di qualche teatro incatenato e indossando indumenti simili al povero vestiario dei pri- gionieri politici incontrati nel corso del suo viaggio. La campagna a difesa dei prigionieri russi sulle due sponde dell’Atlantico fu innescata in questo 8. Ivi, p. 242.
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periodo però non tanto dall’esibizionismo di uno scrittore un po’ bizzar- ro, bensì dalla circolazione sempre più intensa di notizie sulle condizioni disumane in cui versavano quei prigionieri. Il nome di Nadežda Sigida, appartenente al gruppo di Volontà del popolo, fece il giro del mondo. Al- lorquando nel novembre 1889 l’amministrazione delle prigioni di estrema sicurezza, localizzate lungo il fiume Kara nell’estremo Oriente siberiano, decise di abolire alcuni privilegi concessi ai prigionieri politici, una serie di scioperi della fame convinse le autorità della necessità di infliggere pu- nizioni corporali. Alcuni prigionieri, tra i quali appunto Nadežda Sigida, si suicidarono, ingerendo del veleno. 9 Nel febbraio del 1890, «The Times» riportò la triste fine di Sigida con queste parole che mal celavano l’orrore per un potere che maltrattava per- sone «di rango». Si legge: Tali infamie non venivano perpetrate su signore di rango nemmeno ai tempi dell’imperatore Nicola. L’umiliazione di questa barbara forma di punizione colpì talmente la signora Sigida, la quale, in preda all’angoscia e alla paura di altre torture che il futuro avrebbe potuto riservarle, si avvelenò. Cosa possa essere successo è ancora un mistero, ma evidentemente le prigioniere politi- che, in particolare quelle che per la loro posizione e la loro educazione sono particolarmente sensibili a tutto ciò che potrebbe compromettere il loro onore e il loro senso di autostima, pensavano di non essere più al sicuro dagli insulti delle autorità. 10
Il 9 marzo si svolse in Hyde Park a Londra una manifestazione contro «la condotta disumana del governo russo nel trattamento dei prigionie- ri politici che, senza processo, venivano esiliati in Siberia, tomba a cielo aperto di innumerevoli migliaia di nobili uomini e nobili donne, la cui unica colpa era quella di aspirare a godere della libertà politica che noi in Inghilterra abbiamo ereditato dai nostri antenati». Negli Stati Uniti, il «New York Times» denunciò «l’orrore delle prigioni politiche siberiane». 11 Questo umanitarismo partecipativo, così vivo nell’opinione pubblica britannica e occidentale in generale, costituì il terreno di coltura per la for- mazione nell’aprile del 1890 della Society of Friends for Russian Freedom. L’iniziativa fu presa da un rivoluzionario russo in esilio, Sergej Michajlovič 9. Daniel Beer, The House of the Dead: Siberian Exiles Under the Tsars, New York, Alfred A. Knopf, 2017, pp. 313-314. 10. Ivi, p. 315. 11. Ivi, p. 316.
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Kravčinskij, noto con lo pseudonimo di Stepnjak, il quale diresse per lun- go tempo una newsletter mensile dal nome emblematico, «Free Russia». 12 Egli mise a disposizione del pubblico occidentale una nutrita documenta- zione sul dispotismo del proprio paese, promosse un attivismo intellettuale e politico senza tregua e strinse relazioni intense nel mondo della cultura liberale e radicale. Nel comitato della Society erano presenti alcune figure di primo piano del liberalismo e del radicalismo britannico che guardavano in direzione del nascente laburismo: da William Byles a Robert Spence Watson fino a Leonard Trelawny Hobhouse, teorico del New Liberalism, nato da uno sviluppo delle idee di John Stuart Mill. Scorrendo le pagine dell’edizione britannica di «Free Russia» si registra una varietà di interessi che vanno dalle questioni culturali – con articoli dedicati alla storia del li- beralismo russo e al tolstojsmo –, a quelle sociali, con al centro il problema dei contadini fino alla documentazione puntuale del sistema repressivo ne- gli anni di Alessandro III. Non mancavano estratti del racconto di Kennan, una disamina delle prigioni e le testimonianze di ex esiliati. La branca statunitense della Society, formatasi nel 1891, era ricon- ducibile a una peculiare genealogia intellettuale che si evince dalla stessa composizione del suo gruppo fondatore. Una parte di esso infatti proveniva dalla tradizione abolizionistica, le cui istanze morali sembrarono dunque poter rivivere nella causa dei detenuti nel sistema di lavoro penale zarista. 13 William Dudley Foulke, una delle figure più importanti della Society, era nato in una famiglia di quaccheri, i quali erano stati fortemente presenti nella causa abolizionista. Nel suo Slav or Saxon, risalente al 1887, Foulke paragonò i rivoluzionari russi ai campioni dell’abolizionismo americano, come John Brown. 14 A suo giudizio, gli uni e gli altri non si battevano per vantaggi personali, ma soltanto per la «liberazione dell’umanità oppressa». La tradizione abolizionista era ancora molto viva alla fine dell’Ottocento anche in Gran Bretagna. Organizzazioni come la Anti-Slavery Society si batterono ancora nel primo decennio del XX secolo contro il regime di sfruttamento brutale nel Congo belga, proprietà di Leopoldo II, e dopo la 12. «Free Russia»: The Organ of the English Society of Friends of Russian Freedom, Londra, J. Foulger (1892-1904). Il periodico si trova in rete all’indirizzo https://archive.org/ details/freerussiaorgan00freegoog/page/n2/mode/2up. 13. Si veda David S. Foglesong, The American Mission and the «Evil Empire»: The Crusade for a «Free Russia» since 1881, New York, Cambridge University Press, 2007. 14. William Dudley Foulke, Slav or Saxon: A Study of the Growth and Tendencies of Russian Civilization, New York-London, G. P. Putnam’s Sons, 1898.
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Grande guerra, nell’Amazzonia peruviana. Avremo modo di vedere più avanti che questo patrimonio di idee e iniziative rivisse all’inizio degli anni Trenta nella denuncia del lavoro forzato sovietico. La brutalità della condizione dei lavoratori forzati fu al centro di in- chieste sui luoghi di detenzione e sfruttamento nell’isola di Sachalin. La più celebre di queste inchieste fu, come è noto, quella di Anton Pavlovič Čechov, culminata nel 1895 nella pubblicazione di un importante volu- me. 15 La situazione era però già rimbalzata da qualche tempo dalla stam- pa locale di Vladivostok alla grande stampa internazionale. Nel febbraio 1894, il «New York Times» offrì ai lettori un riassunto della commissione d’inchiesta che era stata incaricata di verificare le condizioni dei prigionie- ri. Si legge: Il rapporto della commissione d’inchiesta sulle condizioni della stazione dei detenuti di Onor, a Sachalin, rivela numerosi casi di fustigazioni spietate e di dita e braccia mozzate con le sciabole. Il cannibalismo, provocato dalla ca- restia, è un evento comune. L’omicidio, seguito dal cannibalismo, è frequen- temente commesso al solo scopo di ottenere l’esecuzione per porre fine alla miseria della vita […] Durante il 1892 una serie quasi ininterrotta di convogli con cadaveri mutilati è passata da Onor a Rykovskoye, dove risiedono i fun- zionari. Non sono state fatte indagini, ma i corpi sono stati immediatamente sepolti. Nessuno dei due medici di Rykovskoye visitò mai Onor. 16
L’«affaire Onor» mostrò al mondo dunque non soltanto il sadismo di chi esercitava l’autorità, ma una vasta rete di incompetenza burocratica e indifferenza morale all’interno della colonia penale di Sachalin. Insom- ma, le fruste, le catene e l’isolamento impiegati dalle autorità all’interno delle colonie penali e delle prigioni della Siberia costituivano in fondo gli strumenti spuntati di uno Stato che in definitiva appariva tanto brutale quanto fragile, continuamente esposto a una intensa critica internazionale. Nel corso degli anni Novanta, fino all’inizio del nuovo secolo, questo giu- dizio dovette misurarsi con una realtà che stava entrando in un processo di rapida trasformazione: da un lato, fu evidente che le politiche avviate dal Conte Vitte andavano nella direzione della modernizzazione e dell’avvi- cinamento finanziario e politico all’Occidente (in particolare la Francia); dall’altro, il carattere arcaico delle istituzioni (a partire da quelle penali), le tensioni sociali e lo scontro con le opposizioni rivoluzionarie registrarono 15. Anton Pavlovič Čechov L’isola di Sachalin, Milano, Adelphi, 2017. 16. Beer, The House of the Dead, p. 285.
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una peculiarità del regime politico zarista che l’Occidente osservava con preoccupazione. Quando nel 1905, allo sbocco della crisi di regime avviata dalla guerra russo-giapponese, la rivoluzione investì l’impero zarista, l’entusiasmo dila- gò a Berlino, Parigi, Londra e New York. «Vorwärts», organo della socialde- mocrazia tedesca, sottolineò che la «domenica di sangue» di San Pietroburgo costituiva l’inizio di un cambiamento radicale. In mezza Europa, gruppi libe- rali, partiti socialisti e sindacati manifestarono pubblicamente il loro sdegno per il «massacro», salutando allo stesso tempo l’inizio della rivoluzione in Russia. 17 Agì soprattutto in Francia il ricordo degli eventi del 1789, come mostra l’uscita nel 1906 di un pamphlet dal titolo inequivocabile: Une Ba- stille russe. La forteresse de Schlüsselbourg. Esso si inserì nella serie di pub- blicazioni curate dalla neocostituita Société des Amis du Peuple Russe et des Peuples Annexes, alle cui attività aderirono Georges Clemenceau, Ferdinand Buisson, Anatole France, Charles Seignobos, Lucien Herr, Pierre e Marie Curie e Madame Zola. 18 Questo legame della prima Rivoluzione russa con la tradizione rivoluzionaria francese è stato sottolineato anche dagli storici. Uno di essi ha scritto che in Russia nel 1905, in un modo che non si vedeva dal 1789 in Francia, prese corpo un laboratorio molto originale, fatto di con- sigli operai, assemblee contadine, lotte di popoli contro il giogo imperiale zarista e ancora impegno dei ceti professionisti di ispirazione liberale e de- mocratica. Un laboratorio che dette vita a una rivoluzione «insieme popolare e liberale, politica e sociale […]». 19 Come in un gioco di specchi, il mondo progressista europeo realizzò una sorta di unanimità socialista-liberale nel sostenere la Rivoluzione rus- sa. 20 Max Weber si schierò dalla parte del costituzionalismo russo, offrendo ai rappresentanti dei cadetti spazio per le loro pubblicazioni su «Archiv für Socialwissenschaft». A suo giudizio, la Rivoluzione russa era un evento di portata universale, anche se si mostrò scettico riguardo la possibilità che essa trionfasse. Colse semmai un’analogia con la Rivoluzione tedesca del 1848-1849: votate entrambe alla sconfitta, esse erano tuttavia destinate ad aprire la strada a un governo di tipo costituzionale più avanti nel corso del- 17. Naarden, Socialist Europe, p. 160 sgg. 18. Eugène Petit, Une Bastille russe. La forteresse de Schlüsselbourg, Paris, Société des Amis du Peuple Russe et des Peuples Annexes, 1906. 19. Cinnella, 1905, p. 13. 20. Naarden, Socialist Europe.
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la storia. 21 La speranza che il potere dello zar venisse spinto verso un pro- cesso di reale costituzionalizzazione si alternò dunque allo scoramento per le battute di arresto, fino a quando il colpo di mano del 3 giugno 1907, con il quale Nicola II sciolse la seconda Duma, sancì la «spettacolare ripresa dell’autocrazia». 22 Negli anni caratterizzati dal conservatorismo «illumina- to» di Stolypin – basato sul progetto di consolidare la proprietà contadina e più in generale di modernizzare il paese senza fare concessioni sul terre- no delle riforme politico-istituzionali – i riflettori sulla repressione degli oppositori rimasero accesi. Nel 1909 Pëtr Kropotkin, un nobile anarchico russo che risiedeva in Gran Bretagna dal 1886, pubblicò The Terror in Russia, accurato resoconto delle ondate di repressione zarista successive alla Rivoluzione del 1905. 23 Il suo obiettivo fu di mettere ordine nelle notizie spesso confuse che il pubbli- co britannico riceveva dalla stampa. Utilizzò a questo scopo il foglio «Free- dom», nel quale era espressa la sua concezione anarco-comunista, basata sulla cooperazione sociale, il federalismo e la scomparsa della coercizione statale. Nemico del dispotismo in quanto tale, Kropotkin avrebbe salutato anche la seconda Rivoluzione russa, quella del febbraio 1917, ma – come vedremo – fu poi un critico rigoroso dei metodi e degli scopi del bolscevi- smo al potere. The Terror in Russia costituì dunque un atto di accusa con- tro il regime di Nicola II, considerato dall’autore un regime di polizia che agiva in modo sotterraneo attraverso i propri apparati, torturava i nemici, li rinchiudeva in prigioni malsane e affollate, dove si diffondevano malattie spesso letali. Era un regime che inoltre deportava, senza aver istruito veri e propri processi, decine di migliaia di persone verso luoghi estremi per con- dizioni climatiche, obbligandole ai lavori forzati. Politici e criminali erano confusi, donne e uomini mischiati e i minori trattati con brutalità. 24 21. Wolfang J. Mommsen, Max Weber and the Regeneration of Russia, in «The Journal of Modern History», 1 (1997), p. 2. 22. Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 69. 23. Pëtr Alekseevič Kropotkin, Terror in Russia: An Appeal to the British Nation, London, Meuthen, 1909. 24. Inoltre Kropotkin fece notare che se gli esili amministrativi erano in precedenza riservati a intellettuali e studenti, adesso coinvolgevano massicciamente anche contadini e lavoratori coinvolti in scioperi e rivolte. Aggiunse che le condizioni dell’esilio non erano cambiate dai tempi in cui erano state descritte da lui stesso, Stepniak e Kennan, con la sola differenza che gli oppositori del regime adesso venivano spediti in posti «inadatti per essere abitati». Ivi, p. 41.
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Kropotkin scrisse dunque un vero e proprio atto di accusa rivolto spe- cificatamente al governo presieduto da Stolypin: Poiché la politica del governo di M. Stolypin è stata negli ultimi due anni quella di vendicarsi di coloro che avevano preso parte attiva al movimento di liberazione seguito al Manifesto del 30 ottobre 1905, è facile immaginare quali masse di persone siano state arrestate, portate davanti ai tribunali, tra- sportate in Siberia o esiliate in diverse parti dell’Impero con semplici ordini amministrativi. Il risultato è che le carceri russe sono attualmente sovraf- follate, tanto da contenere, secondo le dichiarazioni ufficiali, qualcosa come 181.000 prigionieri, mentre la capacità massima per la quale erano state pro- gettate è di soli 107.000. 25
La questione del numero dei prigionieri era collegata direttamente a quegli ordini amministrativi, il cui ammontare fu al centro di un dibattito svoltosi sulle pagine di «The Times». Il lavoro di Kropotkin non fu certa- mente isolato, collegandosi piuttosto a una rete di solidarietà internazionale che aveva conosciuto un’espansione notevole come conseguenza della re- pressione seguita alla Rivoluzione del 1905. Una miriade di organizzazioni si dedicò alla raccolta di denari per l’assistenza dei prigionieri politici, alla pubblicazione di documenti sulle condizioni delle prigioni russe e infine all’organizzazione di manifestazioni di protesta contro l’impiego della tor- tura. Un comitato intitolato a Vera Figner, la grande rivoluzionaria russa detenuta per vent’anni nella fortezza di Šlissel’burg, fu fondato nel 1910 a Parigi, diffondendosi anche Bruxelles, Grenobles, Ginevra, Montpellier, Heidelberg e Monaco di Baviera. Gruppi e comitati presero forma in questi anni in Svizzera, a Losanna e a Davos. Dall’altra parte dell’Atlantico, fu fondata nel 1911 una società a favore dei prigionieri politici russi con sede a New York e con sezioni a Detroit, Cleveland, Chicago e Boston. A New York, esisteva già dal 1905 una Society of Assistance to Martyrs of the Russian Revolution, mentre altre organizzazioni operavano a Chicago e Philadelphia. In Inghilterra esisteva invece una Anarchist Red Cross Society. Tra queste organizzazioni naturalmente non poterono man- care quelle polacche, tra cui spiccava l’Unione di Cracovia per l’aiuto dei prigionieri politici, fondata nel 1910 e con sezioni a Vienna, Praga, Ginevra e, negli Stati Uniti, a Cleveland. In Germania, Karl Liebknecht, esponente della sinistra socialdemocratica, avvocato e antimilitarista, animò lo spirito 25. Ivi, p. 5.
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di solidarietà a favore dei prigionieri politici russi. Fece tradurre il lavoro di Kropotkin in tedesco e richiese ai militanti e ai dirigenti socialdemocra- tici un’attenzione costante su questo tema. Nel 1913, la commissione d’in- chiesta da lui voluta produsse un opuscolo dal titolo Für die politischen Gefangenen Russlands, tradotto in sei lingue. 26 In un clima oramai segnato dalle tensioni nazionalistiche, Kropotkin non apprezzò questo testo che gli apparve basato su una documentazione poco aggiornata. 27 In generale, a suo giudizio, la situazione dei prigionieri politici non era più quella raffigu- rata negli anni precedenti, con torture su larga scala e suicidi come forma di protesta. Sempre nel 1913 l’Unione di Cracovia pubblicò un opuscolo interamente dedicata alla tortura dei prigionieri politici in Russia. 28 La guerra mise tra parentesi la questione dei diritti umani in Russia. Lo scoppio della Rivoluzione del 1917, giunta allo sbocco di una situa- zione caratterizzata da disastri militari, disgregazione economica e sociale e impotenza politica del governo, non tardò a riaprire il discorso. Quella sorta di unanimità socialista-liberale internazionale, alla quale si è già fatto riferimento, riprese forza al diffondersi della notizia che il regime zarista era improvvisamente crollato. Lo scenario adesso appariva completamente diverso. Non era più il tempo di sostenere la battaglia per la costituziona- lizzazione del regime imperiale, mirando a una riduzione del potere degli apparati di sicurezza e allo smantellamento delle pratiche più repressive. Era invece giunto il tempo della grande speranza che i territori appartenuti allo zar potessero avvicinarsi molto più rapidamente alle soluzioni politi- co-istituzionali caratteristiche dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, risolvendo dunque il problema dei diritti umani in modo definitivo. Per un breve momento, il consenso liberal-socialista guardò insomma a Oriente, ritenendo che il dispotismo – con i suoi arresti arbitrari, torture e luoghi di confino – appartenesse oramai a un triste passato. Il mondo liberal-democratico vide la Rivoluzione del febbraio come espressione di una rinnovata volontà dei russi di sconfiggere gli eserciti degli imperi centrali. La Rivoluzione russa soprattutto facilitò a Wilson il compi- to di giustificare moralmente e ideologicamente l’intervento in guerra degli Stati Uniti. Più in generale, la fine dell’autocrazia zarista rese finalmente 26. Naarden, Socialist Europe, pp. 264-265. 27. Ivi, p. 264. 28. Tortures of political prisoners in Russia, a cura di Cracow Union of Help for Poli- tical Prisoners in Russia, Manchester-London, National Labour Press, 1913.
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coerente il compito che l’Intesa si era data di salvare la democrazia dall’au- toritarismo tedesco. 29 Questo modo di interpretare le notizie provenienti da Mosca fu caratteristico di Samuel N. Harper, storico e slavista statunitense, il quale si impegnò nel sostenere la causa della rivoluzione. 30 Egli aveva avuto qualche anno addietro la possibilità di conoscere a Chicago Pavel Miljukov, uno dei leader politici del liberalismo russo e in quel momento ministro degli Esteri nel primo governo presieduto dal principe L’vov. Harper viaggiò pri- ma della guerra ripetutamente a San Pietroburgo e a Mosca ed entrò in con- tatto con Bernard Pares, il quale lo inserì nei quadri della School of Russian Studies, fondata a Liverpool nel 1907. 31 Nelle sue memorie, Harper rievocò il senso di fiducia verso i protagonisti della Rivoluzione di febbraio. Ricordò di aver provato «una fede assoluta nella loro affidabilità. Essi si erano assi- curati l’opportunità per la quale avevano combattuto sin dal 1905. Erano i migliori leader di cui la Russia disponesse». 32 In definitiva, come affermò Michael Farbman, corrispondente del «Manchester Guardian» a Pietrogra- do, la rivoluzione costituiva il più grande risultato che la democrazia europea aveva ottenuto durante la guerra. 33 Nel mondo delle sinistre legate al movimento operaio, l’entusiasmo fu naturalmente molto diffuso. Il 31 marzo 1917 si svolse al Royal Albert Hall di Londra un incontro dal titolo Russia free! nel corso del quale inter- vennero Georges Lansbury e altri relatori provenienti dalle Trade Unions, dal Labour Party e dal mondo delle organizzazioni socialiste e radicali. Gli oratori giunsero enfaticamente a parlare di «esempio russo» che do- veva essere seguito «instaurando la libertà russa», cioè «la libertà di pa- rola e di stampa, l’abolizione delle diseguaglianze sociali, religiose e na- zionali, un’immediata amnistia per i reati politici e religiosi e il suffragio universale». 34 Questi entusiasmi furono bilanciati da giudizi più controllati 29. Arno J. Mayer, Wilson vs. Lenin. Political Origins of the New Diplomacy 1917- 1918, Cleveland-New York, Meridian Books, 1964 (I ed. 1959), p. 167. 30. Engerman, Modernization from the Other Shore, p. 87. 31. Ivi, p. 64 e p. 172. 32. Samuel N. Harper, The Russia I Believe in, Chicago, The University of Chicago Press, 1945, p. 98. 33. Michael Farbman, The Russian Revolution and the War, London, Headley Bros. Publishers, 1917. 34. Russia Free. Ten Speeches Delivered at the Royal Albert Hall, London on 31 March 1917, conservato nella Digital Collection dell’Università di Warwick, The Russian Revolution and Britain (https://wdc.contentdm.oclc.org/digital/collection/russian/id/406/).
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e da analisi più articolate della Rivoluzione russa. Karl Kautsky, ponendosi idealmente al centro del consenso liberal-socialista, guardò la Rivoluzione russa come avvio di un processo di democratizzazione e occidentalizzazio- ne. Egli considerava il problema russo come un problema di arretratezza (con buona pace di coloro i quali proponevano all’Occidente la Rivoluzio- ne di febbraio come esempio da seguire), che non poteva essere affrontato nei termini ideologici della rivoluzione proletaria, ma in quelli realistici della formazione di una repubblica democratica, caratterizzata peraltro da soluzioni fortemente «progressive» quali la nazionalizzazione di interi set- tori dell’economia, la confisca dei beni della Chiesa e della Corona e infine la riforma agraria. 35 L’assunto fondamentale del gradualismo – coltivato anche dai men- scevichi russi – fu che l’instaurazione del socialismo richiedeva una serie di premesse economico-sociali e politico-culturali, del tutto o in parte as- senti nei territori che erano appartenuti allo zar. 36 Un simile intendimen- to era diffuso nelle file del socialismo riformista italiano. Filippo Turati fu dapprima assai scettico di fronte agli eventi rivoluzionari russi, che gli apparvero come una manovra per rafforzare l’Intesa più che un genuino processo rivoluzionario. Le lettere ricevute da Anna Kuliscioff gli fecero però cambiare idea e già il 23 marzo 1917 salutò, in un discorso alla Ca- mera dei deputati, «il formidabile riscatto del popolo russo». 37 Fece eco alle sue posizioni Claudio Treves, il quale volle chiarire sulle pagine di «Critica sociale» che la rivoluzione avrebbe instaurato un regime borghese democratico, basato sui diritti civili, politici e sociali, ma non un regime socialista perché «nessun salto può varcare gli oceani». Era altresì convin- to che le libertà conquistate sarebbero state la «palestra» per lo sviluppo del movimento operaio russo. 38 35. Marek Waldenberg, Il Papa Rosso: Karl Kautsky, Roma, Editori Riuniti, 1980, vol. II, p. 764. Vedi anche Massimo Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista 1980-1938, Mila- no, Feltrinelli 1976. 36. André Liebich, From the Other Shore. Russian Social Democracy After 1921, Cambridge-London, Harvard University Press, 1997, pp. 58-70. 37. Filippo Turati, Discorsi parlamentari, vol. I., Roma, Camera dei Deputati, 1950, p. 1230 citato in Giovanna Savant, La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18, in «Diacronie. Studi di storia contemporeanea», 4, 2017 (https://doi.org/10.4000/diacro- nie.6619). 38. Claudio Treves, La crisi dell’Intesa. L’Intesa e l’intervento americano, in «Critica Sociale», 7-8, (1917), pp. 99-101.
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Queste illusioni progressiste durarono pochi mesi, come è noto. Esse in fondo si erano basate su un’idea molto ingenua, ossia che il 1917 potesse riprendere la strada del 1905, portando a compimenti gli ideali liberali e socialisti, che la reazione zarista aveva schiacciato soltanto temporanea- mente. Questo heri dicebamus in realtà non fu possibile, perché in tutta Europa la Grande guerra aveva dato origine a una cesura storica con il passato, dimostratasi particolarmente profonda nei vasti territori apparte- nuti allo zar. Il crollo delle istituzioni imperiali rese infatti ancora più gra- ve quel generale processo di brutalizzazione delle relazioni sociali, di cui hanno scritto gli storici. 39 Il clima politico e culturale che aveva dato vita alla Rivoluzione del 1905 non c’era più. Nel 1917, si assistette semmai al verificarsi di un sommovimento primordiale e distruttivo, dove dominava la cupezza e la rabbia di milioni di persone e non più quella convergenza tra diverse istanze, liberali e popolari allo stesso tempo, che aveva caratte- rizzato la Rivoluzione del 1905. In altre parole, scontate le illusioni della prima fase, il 1917 non fu una «rivoluzione» ver a e propria, ma, come è stato scritto da uno storico italiano, l’inizio di un «abisso», la cui profon- dità fu rivelata dall’ascesa dei bolscevichi al potere. 40 L’avvento di Lenin fu infatti il segnale che nei territori appartenuti allo zar era in atto una fuga dall’Occidente, dalla sua civiltà e dai suoi costumi. In effetti, un partito armato nelle città, dotato di un leader capace di rivolgersi ai contadini af- finché rompessero definitivamente gli indugi, prendendosi la terra con la forza, realizzò una nuova forma di dispotismo, che, affondando le proprie radici nella Grande guerra, si mostrò deciso a realizzare i propri disegni ideologici a tutti costi, scagliandosi contro quelle stesse masse che lo ave- vano issato al potere. Il grande sogno di una «rivoluzione senza sangue» era finito. Questa espressione si ritrova nelle prime pagine del diario tenuto da Pitirim Aleksandrovič Sorokin, un giovane sociologo, attivo nella fila del Partito socialista rivoluzionario (PSR), divenuto segretario di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij e infine deputato dell’assemblea costituente che il 39. L’espressione di George Mosse si trova in Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1998. È ripresa nell’importante saggio di Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, La violenza, la crociata e il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2000, p. 26. 40. La contrapposizione tra 1905, «vera» Rivoluzione russa, e 1917, connesso alla frattura del 1914 e origine dell’«abisso» della tirannide comunista, è tematizzata nelle opere di Ettore Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Pisa, Della Porta, 2017.
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governo dei Commissari del popolo, presieduto da Lenin avrebbe chiuso all’inizio del 1918. La sua delusione fu talmente profonda da fargli abban- donare i suoi ideali di gioventù: «Non sono più un rivoluzionario – scris- se – perché la rivoluzione è una catastrofe; non sono più socialista, perché il socialismo è sbagliato». 41 Dopo un periodo di arresti, privazioni e ansie, Sorokin riuscì ad andarsene, emigrando negli Stati Uniti, dove avrebbe avuto una brillante carriera, occupando la prima cattedra di sociologia a Harvard. Il partito nel quale aveva militato, il PSR, fu il grande sconfitto della rivoluzione. Sorto all’inizio del Novecento, esso aveva raccolto l’e- redità del populismo russo, rinnovandola fortemente grazie all’impegno intellettuale di figure come Viktor Černov, il quale prese atto dei grandi cambiamenti economici intervenuti a partire dagli anni Novanta. La parola d’ordine della «socializzazione della terra», assieme a una costante azione nei contesti urbani, fece sì che, nonostante crisi e contrasti dentro il partito, la Rivoluzione di febbraio portasse il PSR a diventare un grande partito di massa. 42 Tuttavia, l’approccio legalitario che i suoi leader mantennero una volta giunti al governo non fu d’aiuto per il consolidamento del consenso ottenuto. Černov, divenuto ministro dell’Agricoltura nel primo governo di coalizione, sostenne a più riprese che la questione agraria avrebbe trova- to soluzione soltanto dopo la convocazione dell’Assemblea costituente. 43 Forti della rete che avevano costruito nelle campagne, i dirigenti del PSR non si avvidero che la guerra contadina contro i proprietari stava per avere inizio con un terrore spontaneo che esplose definitivamente dopo l’estate. Lenin gettò benzina sul fuoco che si era acceso nelle campagne con i suoi proclami e successivamente, una volta giunto al potere, con il decreto sulla terra. Nelle campagne, questo decreto fu interpretato come un’istigazione a continuare con la violenza verso i vecchi ceti dominanti. 44 Questa «rivoluzione», realizzata da un partito militare a base operaia, sostenuta da una jacquerie contadina, non corrispondeva neppure ai pro- getti dei menscevichi. Questi ebbero già dal febbraio un ruolo decisivo nel- la formazione dei Soviet, che intendevano collocare dentro una strategia consolidata, quella che a un governo liberale e borghese poneva di fianco 41. Pitirim A. Sorokin, Leaves from a Russian Diary, Boston, Beacon Press, 1950, p. 172. 42. Cinnella, 1917, pp. 88-93. 43. Ivi, p. 136. 44. Ivi, pp. 170-177.
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organismi operai, attribuendo a questi la funzione di pungolare quello sulla strada delle riforme democratiche. Certamente questa linea moderata, incar- nata da Iraklij Cereteli e Fëdor Dan, non fu certamente condivisa da tutti. Julij Martov, ancora in esilio, si batteva ad esempio per una soluzione più radicale che trascinasse la Russia fuori dal conflitto. 45 Con l’avvento dei bolscevichi al potere, Martov, nel frattempo rientrato dall’esilio, fu però tra i primi ad esprimere una critica frontale del nuovo regime. All’inizio del 1919, giudicò il bolscevismo come espressione della «crisi morale» prodot- ta dalla Grande guerra. I metodi primitivi che il regime non tardò a manife- stare («requisizioni, contributi, confische, lavori forzati a carico dei vinti») costituivano il frutto della regressione operata dal conflitto bellico del 1914- 1918. 46 Il partito di Lenin al potere stava mostrando tutto il suo massimali- smo, un disprezzo sconfinato per la produzione sociale e un ossessivo culto della violenza come metodo della soluzione dei problemi politici. Mentre il suo partito veniva aggredito più volte tra 1918-1919, con la stampa e le assemblee costantemente oggetto di una repressione brutale da parte bolscevica, Martov maturò un pensiero del tutto peculiare: per quanto odioso potesse risultare, il regime bolscevico era comunque figlio della Rivoluzione russa e un rovesciamento di quel regime avrebbe provocato una situazione ben peggiore, quella dell’avvento di una spietata controri- voluzione. La conseguenza logica di questo giudizio fu che i menscevichi si sentirono chiamati ad agire come opposizione legalitaria al regime di Lenin, con il proposito di spingerlo sulla strada della democratizzazione e del ripristino delle libertà. 47 Queste idee erano destinate a incarnare il nucleo centrale della «linea Martov» che si impose per tutti gli anni Venti, custodita e promossa da Dan, trovatosi a capo della Delegazione estera dei menscevichi. Essa in definitiva inaugurò un modo di vedere le cose presto diffusosi nel socialismo internazionale e, più in generale, in quella parte della sinistra che, pur critica delle repressioni sovietiche, non era disposta a separare concettualmente Rivoluzione russa e bolscevismo. Compito dei progressisti internazionali era semmai quella di accompagnare il regime fondato da Lenin verso un processo di democratizzazione, non certo quello di auspicarne il crollo per mano delle potenze occidentali alleatesi con la controrivoluzione interna. 45. Ivi, pp. 94-98. Vedi anche Liebich, From the Other Shore, pp. 62-70. 46. Julij Martov, Bolscevismo mondiale, Torino, Einaudi, 1980, p. 14. 47. Liebich, From the Other Shore, p. 83.
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All’appello iniziale dei critici del regime sovietico mancarono figure che invece ebbero in periodi successivi un’importanza decisiva. Aleksandr Berkman, Boris Souvarine e Victor Serge, vale a dire esponenti di una sinistra radicale occidentale (con un retroterra familiare nel mondo russo o ucraino), si rifiutarono di riconoscere la frattura denunciata da altri tra la Rivoluzione di febbraio e l’insurrezione di ottobre. Salutando la prima come una straordinaria rivolta delle masse contro odiose e arcaiche gerar- chie sociali, contro l’oppressione politica e soprattutto contro la guerra, si convinsero che Lenin fosse il più coerente interprete di questi sentimenti popolari. Non avevano del tutto torto, perché, come sappiamo dagli stori- ci, l’ottobre 1917 non fu soltanto l’insurrezione armata di Pietrogrado, un putsch di derivazione blanquista. Sotto la spinta delle rivolte del mondo contadino, che i socialisti rivoluzionari non avevano saputo guidare, Lenin e il suo partito fecero spazio nella loro visione alla tradizione del baku- nismo sociale, che predicava la spontaneità di masse contadine, infuriate contro l’ordine costituito. 48 Questa visione di democrazia partecipata, «dal basso», dovette avere un peso importante nelle scelte di uomini legati alla tradizione dell’anarchismo come Serge e Berkman oltre che dei socialisti rivoluzionari di sinistra. Tutta questa gente si gettò nella lotta a fianco del bolscevismo, partecipando in diversi modi alla storia del regime sovietico. La loro delusione, che avvenne in tempi diversi, fu quella dei «disincan- tati» del comunismo, i quali entrarono in ritardo nella storia che stiamo raccontando, ma con il grande merito di portarvi – come vedremo – un contributo di prim’ordine non soltanto nella denuncia delle politiche re- pressive sovietiche, ma anche nell’interpretazione complessiva del regime fondato da Lenin. 3. «Terrore rosso» e guerra civile. Documentare la nascita di uno stato militare Il vario mondo della sinistra internazionale, che aveva confidato nel- le potenzialità democratiche della Rivoluzione del febbraio 1917, dovette presto fare i conti con una realtà molto diversa, quella di una formidabile regressione storica che, iniziata con lo scoppio della Grande guerra, acce- lerò il suo corso allorquando il bolscevismo prese il potere, provocando, 48. Cinnella, 1917, p. 170.
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con il suo stesso modo di agire, lo scatenamento di una multiforme guerra civile. Allo sbocco di essa, seguì una terribile carestia nel 1921 che mie- té probabilmente più di cinque milioni di vittime. Nello spazio imperiale in dissoluzione, la formazione dello stato militare bolscevico avvenne in competizione con altri progetti di ricostruzione statale (o statal-nazionale come in Ucraina) nell’ambito di una guerra interna che coinvolse enormi masse umane. La violenza su larga scala fu espressione non semplicemente delle divergenze ideologiche, ma soprattutto delle esigenze di controllo di vaste aree rurali con lo scopo di estrarne uomini e risorse per tenere in pie- di gli eserciti contrapposti. Non si trattò insomma soltanto di un conflitto tra «rossi» e «bianchi» – tra rivoluzione e controrivoluzione – come i bolscevichi vollero far credere. 49 E, in definitiva, lo stesso intervento degli Alleati (altro cavallo di battaglia della propaganda bolscevica) giocò un ruolo limitato, perché fu intermittente e di continuo frenato dalle indecisio- ni e dagli interessi in conflitto dei vari promotori. Il regime bolscevico fu inizialmente sfidato dai socialisti rivoluzio- nari, i grandi sconfitti della Rivoluzione del 1917, i quali parteciparono, assieme alle altre forze messe fuori giuoco dalla chiusura dell’Assemblea costituente, alla formazione di un governo antibolscevico a Samara, gran- de città nella zona centrale del Volga. Liberata dalle truppe cecoslovacche nel giugno 1918, Samara divenne la sede di un esperimento politico e sociale di brevissima durata, inteso però a dimostrare la vitalità politica di un’altra sinistra, decisa a riprendere la guerra contro la Germania e a edi- ficare uno stato liberal-democratico, fondato sul rispetto delle minoranze nazionali e su un programma di rinnovamento sociale. Tuttavia a Omsk, nel novembre 1918, un colpo di Stato proclamò Aleksandr Vasil’evič Kolčak «supremo reggitore» delle forze antibolsceviche: d’un tratto, la guerra tra bolscevismo e socialismo democratico (durata dall’autunno del 1917 all’autunno del 1918) fu trasformata in guerra tra «rossi» e «bian- chi», trascinandosi a lungo nell’immenso spazio ex zarista. Sullo sfondo continuò ad agire la rabbia dei contadini soggetti a continue ondate di re- quisizioni e coscrizioni da ogni parte in lotta. Questa rabbia alimentò una resistenza «verde» contro tutti gli eserciti al di là del loro colore politico. L’esercito anarchico di Nestor Machno se ne fece interprete in Ucraina. In più di una occasione, esso collaborò con i bolscevichi russi, aiutandoli a 49. Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin. Storia dell’Unione sovietica. 1914- 1945, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 102-131.
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combattere i nazionalisti ucraini e gli eserciti bianchi, ma alla fine entrò in conflitto con l’Armata Rossa. 50 Come è noto, il «terrore rosso», codificato all’inizio del settembre 1918 in seguito agli attentati dell’agosto che coinvolsero anche Lenin, si mostrò più sistematico di quello operato dai generali bianchi per non dire degli altri soggetti in campo: durante la guerra civile, i bolscevichi realiz- zarono in misura massiccia massacri di detenuti e ostaggi, la repressione brutale degli scioperi operai e delle rivolte contadine contro requisizioni e coscrizione e avviarono la decosacchizzazione, come primo tentativo di eleminare una popolazione in quanto tale. Questi metodi brutali culminaro- no nella repressione scatenata nel giugno 1921 nella provincia di Tambov, dove aveva imperversato una guerra contadina contro il potere bolscevico oramai vittorioso sulle armate bianche: fucilazioni, uso di gas asfissianti e campi di concentramento furono la risposta. 51 Non è intenzione di chi scrive ripercorrere i giudizi di coloro i quali in Occidente accolsero di buon grado la versione ufficiale bolscevica della guerra civile come scontro tra «rossi» e «bianchi», bollando l’intervento dei propri governi come impe- rialistico. Essi preferirono chiudere gli occhi di fronte alla realtà. È più in- teressante allora provare a ricostruire cosa effettivamente si venne a sapere di quegli eventi lontani, quindi quali componenti del mondo progressista internazionale mostrassero disponibilità ad andare oltre la vulgata della cittadella rivoluzionaria sotto assedio. Va subito detto che informazioni circa la realtà del «terrore rosso» circolarono subito a Londra, New York, Parigi e Berlino, dando vita a un dossier sempre più fitto di informazioni sulla natura e sui metodi del bolscevismo al potere. Nel 1919 il quotidiano liberale tedesco «Berliner Tagenblatt» pubblicò alcuni estratti del volume di Hans Vorst dal titolo Das bolschewistische Russland. 52 Emerse il quadro di uno stato militare di polizia che scioglieva le stesse organizzazioni sovietiche e i consigli dei contadini, sopprimeva la stampa indipendente e aboliva le corti giudizia- rie. L’autore concluse che il vertice della sicurezza di stato aveva mono- polizzato le più importanti questioni riguardanti l’amministrazione della 50. Cinnella, 1917, pp. 412-413. 51. Per una prima ricognizione, il saggio di Nicolas Werth, Uno stato contro il suo popolo. Violenze, repressioni, terrori nell’Union sovietica, in Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, Mondadori, 2000, pp. 37-252. 52. Hans Vorst, Das bolschewistische Russland, Leipzig, Der Neue Geist Verlag, 1919.
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giustizia, emettendo sentenze abnormi e realizzando innumerevoli esecu- zioni extragiudiziarie. Il sistema della violenza e dell’arbitrio gli apparve peggiore di quello del regime zarista. Il metodo della via amministrativa, già sperimentato in epoca imperiale, era dunque usato in uno spettro mol- to più largo e in una prospettiva molto più radicale. È interessante che il racconto di Vorst venne riprodotto in Gran Bretagna su «Justice», animato dai collaboratori e compagni di Henry Hyndman. Diffusore delle idee di Marx in Gran Bretagna fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento, Hyndman fu da subito un critico frontale del regime bolscevico, che egli definì come un «sabotaggio della Rivoluzione», realizzato da «fanatici furiosi», autocrati crudeli, disposti a usare metodi brutali per instaurare un «dispotismo di minoranza» che non aveva niente a che fare con il socialismo. 53 Una collezione di documenti britannici, destinati alla discussione in Parlamento, descrisse la situazione dei territori sotto il regime bolscevico nel periodo tra l’estate del 1918 e la primavera del 1919. Si trattava di infor- mative prodotte da rappresentanti ufficiali di Sua Maestà, sudditi britannici di ritorno dalla Russia e ancora testimoni ritenuti imparziali, appartenenti ad altre nazionalità. 54 La Collection circolò ampiamente non soltanto nei paesi di lingua inglese, ma anche in Francia dove il «libro bianco inglese» fu pubblicato nell’aprile 1919 e diffuso in conformità a una decisione presa dal governo. 55 Tanto il governo britannico quanto quello francese intende- vano sostenere con queste pubblicazioni le ragioni della spedizione mili- tare contro il regime di Lenin. Nella premessa della Collection, si avvertì il lettore che i documenti «non sono accompagnati né da commenti né da introduzione, dal momento che essi sono sufficientemente eloquenti nella presentazione dei principi e dei metodi impiegati dal governo bolscevico, degli eventi terribili che ne accompagnano l’esercizio, delle conseguenze economiche che ne seguono e della miseria quasi incalcolabile che esso produce» 56 . Le forme brutali che il «terrore rosso» assunse nei vasti territori inve- stiti dalla guerra civile furono documentate puntigliosamente. Emerse un 53. Markku Ruotsila, H.M. Hyndman and the Russia Question after 1917, in «Journal of Contemporary History», 4 (2011), pp. 772 sgg. 54. A Collection of Reports on Bolshevism in Russia, Presented to Parliament by Command of His Majesty, London, His Majesty’s Stationary Office, 1919. 55. Le Bolshevisme en Russie. Livre Blanc Anglais, Avril 1919, Nancy-Paris-Stra- sbourg, Berger-Levrault, 1919. 56. A Collection of Reports, p. VI.
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quadro di violenza primitiva, fatta di annegamenti di massa, stupri, fuci- lazione di ostaggi e torture indicibili. M. Lockhart scrisse il 10 novembre 1918 a George Clerk, funzionario del Foreign Office, che alcune notizie provenienti dalla Russia potevano risultare interessanti per il ministro, Ar- thur James Balfour. Si leggeva che i bolscevichi «hanno soppresso anche le forme più primitive di giustizia», fucilano senza tregua e ricorrono ai «me- todi barbarici della tortura», aggiungendo che gli interrogatori avvengono sovente «con una pistola puntata alla testa». Ma era soprattutto «la pratica odiosa di prendere ostaggi» che fece inorridire l’autore di questa missiva. 57 Non molto diversi i toni del colonnello Kimens, viceconsole britannico a Pietrogrado. Si legge nel suo rapporto del 12 novembre: Ogni libertà di azione e di parola è stata soppressa. Il paese è governato da un’autocrazia che è infinitamente peggiore di quella dell’antico regime; la giustizia non esiste; e ogni atto di una persona che non appartiene al «proleta- riato» è interpretato come controrivoluzionario e punito con la prigionia e, in molti casi, con l’esecuzione, senza dare alla vittima una possibilità di difen- dersi davanti a un tribunale, perché le sentenze sono emesse senza giudizio.
Un altro esempio fu il reportage che Balfour ricevette qualche tempo dopo, il 20 gennaio 1919, da Vladivostok. Alston, funzionario britannico sul posto, raccolse le confidenze di un medico della Croce Rossa, il quale espresse la convinzione che «persino la ferocia dei Turchi in Armenia non può essere comparata a quello che i bolscevichi hanno fatto in Russia» 58 . Fece l’esempio delle centinaia di persone innocenti assassinate a Perm’, del- le mutilazioni dei preti e dei soldati della legione cecoslovacca, di altra gente a Kiev prelevata dagli ospedali e massacrata «senza pietà e senza giustizia». Qualche giorno prima, il 14 gennaio, Alston aveva scritto a Balfour circa la situazione delle città bagnate dall’Ural (Orenburg, Orsk, Orël, Atyrau): Il numero dei cittadini innocenti ammazzati in modo barbaro nelle città dell’Ural è oramai di alcune centinaia. Agli ufficiali caduti nelle loro mani i bolscevichi hanno inchiodato le insegne dei gradi sulle spalle; hanno violen- tato donne e ragazze; sono stati trovati dei civili, con gli occhi cavati o il naso mozzato; a Perm’ sono stati fucilati venticinque preti; il vescovo Andronik è stato sepolto vivo. Mi hanno promesso di procurarmi la cifra totale degli uccisi e altri particolari non appena li avranno raccolti. 59 57. Ivi, pp. 11-12. 58. Ivi, p. 27. 59. Ivi, p. 26.
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Nel corso dello stesso 1919 uscirono alcuni importanti volumi che rafforzarono questa documentazione. Robert Vaucher, giornalista svizzero già autore nel 1916 di un libro sull’esercito italiano sotto il comando di Cadorna, descrisse il periodo del «terrore rosso» in un volume dal titolo L’Enfer bolchevique, tradotto in Italia dalla casa editrice milanese dei fra- telli Treves. 60 Il libro, frutto del viaggio che Vaucher svolse nella prima- vera-estate del 1919 come inviato speciale di «Illustration», documentò l’«odio sanguinario» dei bolscevichi e le modalità in cui il terrore rosso ve- niva organizzato. L’autore riportò un lungo discorso del Commissario del popolo alla stampa e alla propaganda, nel quale era espressa la necessità che il terrore prendesse forme «organizzate», senza peraltro escludere l’uc- cisione sul posto di avversari qualora questi fossero riusciti a nascondersi o a fuggire. Altri testimoni colsero la natura dei metodi del bolscevismo al potere. Tra questi, Erich Köhrer documentò le forme del terrore bolscevico nelle province baltiche in due volumi: uno sul «vero volto» del bolscevi- smo, l’altro sulla condizione della Russia «sotto il governo» comunista. 61 Un grande rilievo ebbero i documenti raccolti dalla Commissione che il generale Anton Denikin, comandante delle forze armate della Russia me- ridionale, istituì per gettare luce sui crimini bolscevichi in Ucraina, nel Kuban’, nella regione del Don e in Crimea. 62 In un atto istruttorio riguar- dante l’occupazione bolscevica della città di Taganrog, nella regione di Rostov, erano descritte le efferatezze commesse tra il 20 gennaio e il 17 aprile 1918. Quando i bolscevichi furono cacciati dal distretto, la polizia locale procedette alla riesumazione dei cadaveri, giungendo alla conclusio- ne che «le vittime del terrore bolscevico prima di morire dovevano essere state sottoposte ad atroci sevizie». Il testimone aggiunse che: Su molti cadaveri, oltre ai colpi di arma da fuoco, c’erano ferite e trafitture causate da attrezzi da punta e da taglio sul corpo vivo, spesso in gran nu- 60. Robert Vaucher, L’Enfer bolchevik à Petrograd sous la Commune et la terreur rouge, Paris, Perrin, 1919. L’edizione italiana è Roberto Vaucher, L’inferno bolscevico, Milano, Fratelli Treves, 1919. 61. Erich Köhrer, Das wahre Gesicht des Bolschewismus! Tatsachen, Berichte, Bilder aus den Baltischen Provinzen: November 1918-Februar 1919, Berlin, Verlag für Sozialwis- senschaft, 1919; Id., Unter der Herrschaft des Bolschewismus, Berlin, Der Firn, 1919. 62. I documenti della commissione pubblicati come Krasnyj terror v gody graždanskoj vojny («Il terrore rosso negli anni della guerra civile»), Moskva, 2004. Su Denikin, Dimitry V. Lehovic, White against Red. The Life of General Anton Denikin, New York, W.W. Nor- ton & Company, 1974.
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mero e su tutte le membra; in alcuni casi il corpo era tagliuzzato da capo a piedi; le teste di molti, se non dei più, erano sfondate e ridotte a una massa informe; estremità e orecchie tagliate; su alcuni erano rimaste delle fasciature chirurgiche: prova evidente che erano stati prelevati nelle cliniche e ospedali cittadini. 63
Nella cittadina di Evpatorija in Crimea le truppe bolsceviche erano en- trate il 14 di gennaio 1918, scatenando una «notte di san Bartolomeo» con arresti discriminati di ufficiali, membri delle classi agiate e «controrivolu- zionari». Nel giro di pochi giorni furono arrestate 800 persone, perlopiù destinate all’esecuzione, così raccontata da un testimone: Le esecuzioni avvenivano in questo modo: i condannati a morte venivano portati a gruppi sul ponte (dal battello Rumynija) e dopo averli dileggiati li fucilavano e li gettavano fuori bordo. Altri li buttavano in acqua vivi ma dopo aver legato loro da dietro polsi, gomiti e caviglie; qualche volta la cor- da veniva stretta anche attorno al collo e annodata agli altri legacci e i piedi zavorrati con pesi. 64
La Commissione Denikin presentò un quadro documentario desolan- te, man mano che i suoi membri trovavano le fosse comuni che restituirono decine e decine di «cadaveri dalle mani tagliate, con le ossa maciullate, le teste mozzate […] mascelle fracassate, organi sessuali asportati». 65 Nelle sue memorie, pubblicate a Londra nel 1930, Denikin avrebbe rievocato i metodi della gestione del potere da parte dei bolscevichi, rammentando la «persecuzione della Chiesa e dei suoi servitori», la chiusura delle scuole superiori e l’abolizione di «tutte le leggi e di tutte le corti giudiziarie», l’i- nondazione di «carta moneta priva di valore» in cambio della quale i «bol- scevichi drenavano tutte le risorse – grano, forniture e materie prime». Come conseguenza, regnava l’inflazione e la rovina dell’economia agraria e industriale. E il quadro fu completato con la menzione delle «prigioni tra- boccanti», delle «camere di tortura della Tcheka» e i «campi di concentra- mento, dove migliaia di vittime perivano in mezzo a sofferenze indicibili». Denikin concluse che la Commissione speciale aveva rilevato 1.700.000 vittime del terrore bolscevico, precisando peraltro che «il numero esat- 63. Questo episodio è citato da Sergej P. Mel’gunov, Il Terrore rosso in Russia (1918-1923), a cura di Sergio Rapetti e Paolo Sensini, Milano, Jaca Book, 2010, p. 139. 64. Ibidem. 65. Ivi, p. 141.
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to è conosciuto soltanto da Dio». 66 Harold Williams, inviato per il «New York Times», scrisse il 24 agosto 1919 del ritorno della città di Poltava, nell’Ucraina centrale, sotto la giurisdizione dell’esercito di Denikin e della missione britannica. Sottolineò che la popolazione salutò l’esercito bianco dopo aver sperimentato il «terrore rosso» in una situazione di carestia e di ritorno del regime di «lavoro forzato della servitù». Infine, l’esule mensce- vico A. Lokerman documentò ripetuti fatti di violenza estrema, tra cui le esecuzioni a Rostov sul Don di seminaristi e ginnasiali (tra i 14 e 16 anni), rei di essersi pronunciati a favore dell’arruolamento nelle armate bianche. 67 Nell’ambito di queste testimonianze è importante ricordare infine il lavoro di Stanislav Volskij, un bolscevico che aveva abbandonato il partito nella primavera del 1917 in rottura con la radicalizzazione ideologica por- tata da Lenin. Divenuto direttore di un periodico critico del bolscevismo, Volskij fu costretto a dimettersi quando i suoi ex compagni giunsero al potere. La sua testimonianza intrecciò una vasta messe di informazioni con un tentativo di interpretazione complessivo degli eventi in corso. Osservò che secondo Feliks Dzeržinskij, fondatore della Čeka, la «guerra di classe significa[va] sterminio», e che in generale la giustizia rivoluzionaria consi- steva per la classe dirigente bolscevica nella sicurezza dello Stato di fronte ai suoi nemici, veri o presunti. La giustizia «borghese», con le sue garanzie giuridiche, appariva ai bolscevichi alla stregua di un fastidioso e inutile marchingegno, utilizzato in definitiva principalmente dai nemici di classe. Era dunque necessario superare questa forma angusta di giustizia, impie- gando metodi che fossero davvero efficaci per la sicurezza dello stato quali l’uso massiccio delle fucilazioni sul posto, il principio della responsabilità collettiva, l’impiego di brutali misure preventive e l’uso della tortura. 68 Le stesse autorità bolsceviche non nascosero la volontà di dar vita a un regime di arbitrio assoluto dal punto di vista giuridico. In un articolo, pub- blicato il primo novembre 1918 su «Kransnyj Terror», Martyn Ivanovič Lacis istruì i cekisti a non cercare documenti e prove a sostegno delle accu- se rivolte a un arrestato che si trovasse già nelle mani della polizia politica: 66. Anton Denikin, Memoirs, vol. 2: The White Army, Westport Connecticut, Hyperi- on Press, Inc., 1973 (I ed. 1930), pp. 291-292. 67. Citato in Mel’gunov, Il Terrore rosso, p. 142. Il lavoro di Lokerman fu tradotto e pubblicato in italiano con il titolo di I bolscevichi all’opera: settantaquattro giorni di ditta- tura bolscevica a Rostov sul Don, Roma, Libreria russa Slovo, 1921. 68. Stanislav Volsky, Dans le royaume de la famine e de la haine. La Russie bolche- viste, Paris, Imprimerie Union, 1920.
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Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nell’istruttoria non cercate docu- menti o prove su ciò che l’accusato ha commesso, nei fatti o con le parole, contro il potere sovietico. La prima domanda che dovete porgli è a quale classe appartiene, quali sono le sue origini, l’educazione, l’istruzione, la pro- fessione. Sta in questo il senso e l’essenza del terrore rosso. 69
L’opinione pubblica europea e statunitense, e in particolare quella progressista, era dunque chiamata a fare i conti non soltanto con atrocità indicibili, frutto in generale delle regressione storica provocata dalla se- quenza guerra-rivoluzione-guerra civile, ma anche, più precisamente, con la negazione radicale del diritto «borghese», per cui in un colpo solo – nel clima della difesa rivoluzionaria – erano stati spazzati il principio della responsabilità penale individuale, l’habeas corpus, le garanzie processuali per gli imputati, l’autonomia del giudice dal potere politico e, ancora, il principio dell’irretroattività delle pene. Sulla base di questo apparato informativo, formatosi tra 1918 e 1919, alcune importanti istituzioni della sinistra internazionale denunciarono arresti, deportazioni, prigioni e campi, ossia i terminali del «terrore ros- so». In Italia «Critica sociale» pubblicò nel gennaio 1918 una lettera che Martov aveva inviato al «Journal du Peuple», negando l’esistenza di un accordo tra lui e Lenin. Anzi aggiunse che «per ottenere una maggioranza leninista, parecchi membri della Costituente furono arrestati, compresa tut- ta la minoranza borghese». Martov definì il regime bolscevico un «regime del terrore» che doveva essere fermato prima di compromettere i risultati della Rivoluzione russa. Fu l’occasione per la rivista del riformismo ita- liano di stigmatizzare gli entusiasmi leninisti di tanta parte del socialismo italiano. 70 Nell’ottobre successivo, «Critica sociale» pubblicò uno scritto di Vasilij V. Suchomlin, dirigente socialista rivoluzionario, nel quale erano denunciati i metodi bolscevichi che oramai conosciamo bene. La redazione della rivista scelse un titolo forte, Il Terrore, con l’obiettivo di scuotere l’opinione pubblica socialista, che – si legge nella nota introduttiva – era spaventata di fornire argomenti alla stampa reazionaria. In realtà, proprio ignorando le «voci dei socialisti russi più noti e insospettabili», come era quella di Suchomlin, si finiva per fare il gioco della reazione. 71 Suchomlin aveva raccontato in una serie di articoli pubblicati su «L’Avanti» nella pri- 69. Citato in Mel’gunov, Il terrore rosso, p. 93. 70. Very-Well, Lenin, Martoff … e noi !, in «Critica sociale», 1 (1918), p. 4. 71. Vassily Souckhomline, Il terrore, in «Critica sociale», 19 (1918), p. 223.
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mavera e nell’estate del 1917 il groviglio tra guerra e rivoluzione che i socialisti erano chiamati a dipanare. 72 Qualche mese prima, in Francia il gruppo dirigente della SFIO e la Ligue des droits de l’homme organizzarono un banchetto per salutare la presenza di Kerenskij a Parigi. «L’Humanité» dette risonanza alle afferma- zioni dell’ex capo del governo provvisorio secondo il quale il bolscevismo costituiva «il pericolo peggiore per il socialismo» 73 , proprio perché negava i più elementari diritti umani. Kerenskij fece inoltre sapere che il Comitato inter-partito dell’Assemblea costituente, sciolta con la forza nel gennaio dai comunisti, rifiutava ufficialmente la pace di Brest-Litovsk, sottolinean- do che la Russia era spiritualmente ancora in guerra con la Germania. Lo stesso comitato avrebbe più avanti pubblicato un memorandum sulle pri- gioni sovietiche. 74 Dal canto suo, la Ligue des droits de l’homme promosse un’inchiesta sulla situazione in Russia, che si svolse in sette sedute pub- bliche tra la fine del novembre 1918 e l’aprile 1919. Dopo aver ascoltato una serie di testimoni, emigrati russi e cittadini francesi, il comitato della Ligue condannò il bolscevismo, il quale, dopo aver illegittimamente chiu- so i battenti della Costituente, si era poi mantenuto al potere «sopprimendo la libertà di stampa, di riunione, di voto; decretando l’imprigionamento, la condanna e l’esecuzione dei suoi avversari fuori da ogni forma legale; sostituendo l’arbitrio alla legge e abolendo, con il pretesto della procedura rivoluzionaria, le regole e le garanzie della giustizia» 75 . Più avanti, il 5 febbraio 1920, «Les Cahiers des droits de l’homme» pubblicò un numero dal titolo En Russie. Vi spicca un articolo di Gabriel Séailles, vecchio dreyfusardo, socialista e professore di storia della filoso- fia presso la Sorbona. Egli scrisse a proposito del regime di Lenin: Le forme più elementari della giustizia sono soppresse: arresti in massa di uomini, di donne e di bambini, sistema degli ostaggi, assenza di istruzione, difesa e di giudizio. Una fossa è scavata, gli infelici sono fucilati in fila e 72. Antonello Venturi, La lotta per l’immagine della rivoluzione: i socialisti rivoluzio- nari russi in Italia tra il 1917 e la nascita del PCdI, in L’Italia e la rivoluzione d’ottobre. Masse, classi, ideologie, miti tra guerra e primo dopoguerra, a cura di Giorgio Petracchi, in «Annali della Fondazione Ugo La Malfa», XXXI (2016), pp. 245-247. 73. Christian Jelen, L’aveuglement. Les Socialistes et la naissance du mythe sovié- tique, Paris, Flammarion, 1984, p. 38. 74. Les prisons soviétiques. Memorandum du Comité exécutif de la Conférence des membres de la Constituante de Russie, Paris, Presse Franco-Russe, 1921. 75. Citato in Jelen, L’aveuglement, p. 53.
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alla rinfusa cadono dentro questa fossa che loro stessi hanno scavato con le proprie mani. Le prigioni sono un inferno, dove i detenuti stipati dentro celle troppo strette, asfissiando, muoiono di inazione, mentre sono divorati dai parassiti. 76
All’interno della Ligue des droits de l’homme tuttavia, vi era posto anche per considerazioni di segno opposto, favorevoli alle politiche del re- gime sovietico. Georges Mauranges, avvocato presso la Corte di appello di Parigi, giudicò positivamente il regime sovietico perché esso «non conosce l’ipocrita separazione dei poteri». Quest’uomo di diritto trovò altresì molto democratico che fossero esclusi dal godimento dei diritti civili e politici i rentiers, gli sfruttatori del lavoro altrui, i negozianti privati, i monaci e le suore, i condannati per delitti infamanti e i devianti. Mauranges era affasci- nato dall’idea che il lavoro fosse divenuto il fondamento della democrazia sovietica: una democrazia che in definitiva escludeva non soltanto le vec- chie classi, ma anche gli indolenti, i malfattori e «gli incoscienti». 77 Questo dibattito interno alla Ligue mostrò che la guerra civile russa, con lo scate- namento del terrore «bianco» e «rosso», aveva riattizzato antiche passioni francesi: per alcuni, la guerra civile russa incarnava il momento in cui le forze rivoluzionarie, rinchiuse nella loro cittadella assediata, s’impegnava- no in una lotta all’ultimo sangue con la reazione interna e internazionale; per altri, invece, il regime militare instaurato dai bolscevichi apparve come un esperimento oppressivo, radicato non tanto nella tradizione rivoluzio- naria, quanto nelle pratiche dirigiste della Grande guerra. Si trattava in definitiva di un progetto di riaffermazione del dominio sulle campagne con metodi ben più oppressivi di quelli impiegati negli ultimi decenni di vita dell’impero zarista. Questa divaricazione ideologica interna alla sinistra si diffuse ben ol- tre la Sorbona e le Corti di appello parigine. Essa costituisce il problema forse più significativo della storia di tutta la sinistra internazionale tra le due guerre: definirsi cioè rispetto al comunismo sovietico e, più precisa- mente, interrogarsi sul tipo di traiettoria che esso stava disegnando: era il comunismo sovietico una formazione di tipo giacobino che nel farsi stato, mirava a strappare dall’arretratezza decine di milioni di persone, trascinan- 76. Gabriel Séailles, La méthode bolscheviste, in «Les Cahiers des droits de l’homme», 3 (1920), p. 5. 77. George Mauranges, Le Régime soviétique, in «Les Cahiers des droits de l’homme», 9 (1920), p. 4.
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dole verso la liberazione dalla miseria? Oppure la tradizione rivoluzionaria c’entrava fino a un certo punto, essendo il bolscevismo un soggetto poli- tico-militare figlio della guerra, dalla quale aveva ereditato la predisposi- zione dei singoli alla violenza e determinate pratiche politiche? Per coloro i quali posero la questione in questo modo, era evidente che la storia non era stata indirizzata dai bolscevichi verso l’emancipazione di larghe masse, ma verso una riorganizzazione della società su basi più primitive. La storia, insomma, invece di incamminarsi verso il sol dell’avvenire sembrava aver fatto macchina indietro, nonostante i propositi dei dirigenti bolscevichi. La questione del carattere regressivo della rivoluzione bolscevica si annunciò così dirimente da spingere alcune grandi figure della sinistra internazio- nale, collocate su opposte sponde, ad intervenire pubblicamente. Venne insomma il tempo della celebre polemica tra Karl Kautsky, il grande teori- co della socialdemocrazia tedesca, e Lev Trockij, artefice dell’insorgenza dell’ottobre e poi capo dell’Armata Rossa. Kautsky fu subito ostile al bolscevismo al potere, benché questa posi- zione non gli portasse popolarità tra gli amici e nella base del suo partito. 78 Comunque egli non dovette aspettare di raccogliere un dossier comple- to sulle azioni del bolscevismo per intraprendere la sua lunga battaglia contro il comunismo sovietico. In La dittatura del proletariato, uscito nel 1918, sostenne che, dopo decenni di elaborazione teorica e di esperienze politiche e sindacali, il socialismo marxista era oramai indissolubilmente legato alla democrazia: «Per socialismo moderno noi intendiamo non sol- tanto un’organizzazione sociale della produzione, ma anche un’organiz- zazione democratica della società» 79 . L’arretratezza economica e sociale della Russia era tale che una rivoluzione proletaria, lungi dall’indirizzare quei territori verso un esperimento socialista, avrebbe alla fine portato alla disgregazione del regime e a un ritorno del capitalismo. 80 Insomma, la de- mocrazia politica era agli occhi di Kautsky una dimensione ineludibile del socialismo, la stessa democrazia che i bolscevichi avevano invece azzera- to, chiudendo manu militari l’Assemblea costituente nel gennaio 1918. 81 78. Kautsky aveva aderito nel 1917 all’USPD, il partito socialista indipendente formato dall’opposizione interna della SPD alla guerra. Waldenberg, Il Papa Rosso, p. 795. 79. Citato in Massimo Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 387-388. 80. Waldenberg, Il Papa Rosso, pp. 796-797. 81. Ivi, pp. 818 sgg.
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Nello stesso 1918 il grande teorico socialista mise mano all’opera che avrebbe completato soltanto nel giugno dell’anno successivo, ossia Terro- rismo e comunismo, oggetto di una dura risposta da parte di Trockij. È in- teressante notare che l’interruzione del processo di scrittura fu dovuto con tutta probabilità al convulso passaggio della storia tedesca che Kautsky vide svolgersi sotto i propri occhi: la Rivoluzione di novembre, la forma- zione della Repubblica consiliare di Kurt Eisner in Baviera, la creazione della Repubblica di Weimar e ancora il tentativo spartachista del gennaio 1919 e la sua repressione. 82 A suo giudizio, in Russia, in Germania e in tutta Europa era in atto uno scontro all’ultimo sangue tra socialismo democrati- co da un lato e «socialismo da caserma» dall’altro. Quest’ultima definizio- ne rimandava naturalmente al regime bolscevico e ai suoi sodali tedeschi che avevano rifiutato il processo di maturazione del socialismo europeo. Quest’ultimo era avvenuto sulla scia di quella «mitigazioni dei costumi» che nel corso dell’Ottocento aveva investito anche il movimento operaio, consegnando alla storia giacobinismo, tradizione blanquista e insorgenze anarchiche. 83 Purtroppo, la Grande guerra aveva messo in discussione que- sto faticoso cammino verso la civiltà, innescando anzi un vero e proprio «regresso», talmente accentuato da favorire la rinascita di vecchi sogni insurrezionali e violenti, adesso combinati con l’attrazione per il modello prussiano dell’economia di guerra. 84 Nel fuoco della polemica, il regresso storico fu rivendicato da Trockij, il quale iscrisse idealmente il proprio par- tito alla «scuola barbara» della guerra, collocando dunque sulla stessa linea di sviluppo guerra, rivoluzione, insurrezione armata e «terrore rosso». 85 82. Ivi, pp. 830 sgg. 83. Kautsky, Terrorismo e comunismo, Milano, Fratelli Bocca Editori, 1946 (I ed. 1919), p. 121. 84. Ivi, p. 147. Ancora Waldenberg, Il Papa Rosso, pp. 884-885. 85. Lev Trockij, Terrorismo e comunismo, Milano, Sugarco, 1977, p. 99. Trockij argo- mentò che chi ripudia il terrorismo, come Kautsky, ripudia di fatto l’idea della dittatura del proletariato. Uno dei suoi biografi, Robert Service, ha commentato: «Questo sarebbe andato benissimo se Trotsky intendeva dire che i rivoluzionari dovevano essere disposti a usare la violenza contro gli eserciti sul campo. Ma lui e i suoi compagni bolscevichi erano andati ben oltre nella guerra civile. Avevano ucciso ostaggi innocenti. Avevano privato grandi gruppi sociali dei loro diritti civili. Avevano esaltato idee terroristiche e si erano gloriati del- la loro applicazione. Il partito bolscevico aveva trattato selvaggiamente persino gli operai e i contadini ogni volta che si erano impegnati in un’opposizione attiva. Le precedenti idee di Trotsky sull’autoliberazione «proletaria» erano come vecchie monete cadute inosservate dalla sua tasca». Robert Service, Trotsky. A Biography, Cambridge, Mass., Belknap Press
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La critica del bolscevismo come regressione storica operata da uno stato militare circolò tra le menti più lucide del socialismo russo e tedesco. Pavel Aksel’rod, legato a Kautsky da una amicizia profonda, condivise il medesi- mo giudizio sul regime bolscevico 86 . Nelle fila dei socialisti rivoluzionari in esilio, Mark Slonim criticò frontalmente l’idea secondo cui il bolscevismo al potere, in quanto punto di approdo della Rivoluzione russa, dovesse es- sere collocato all’interno della tradizione rivoluzionaria che risaliva al 1789 (o più precisamente al 1793). La critica era rivolta a coloro i quali – ad esempio lo storico francese Albert Mathiez – si sforzarono in tutti i modi di favorire questa collocazione per così dire nobilitante. 87 Slonim insistette sulla guerra mondiale come matrice del bolscevismo, il quale pertanto dove- va essere messo in relazione non tanto con vecchie tradizioni rivoluzionarie quanto con esperienze coeve, come quella del movimento e poi del regime fascista in Italia. 88 Questi confronti gli furono suggeriti dall’esperienza. Slo- nim risiedette infatti dal 1919 al 1922 in Toscana, collaborando con il quoti- diano democratico milanese «Il Secolo», spendendosi in una fitta attività di conferenziere e infine pubblicando libri. Vide dunque il fascismo avvicinarsi al potere con i suoi metodi violenti, non del tutto diversi da quelli usati dai bolscevichi. Si trasferì a Praga nel 1922, dove collaborò per la parte letteraria alla rivista socialista rivoluzionaria «Volja Rossii». 89 Un contributo significativo provenne dalle file del socialismo riformi- sta italiano. Rodolfo Mondolfo, autore nel 1919 di un importante studio su Marx, affermò che l’idea della «rivoluzione contro il Capitale», avanzata da Gramsci già alla fine del 1917, era sbagliata. 90 Se era vero che Marx aveva of Harvard University Press, p. 2009, p. 267. La gravità della sconfessione del terrore dal punto di vista del capo rivoluzionario è sottolineata da Francesco Benigno, Terrore e terro- rismo. Saggio sulla violenza politica, Torino, Einaudi, 2018, p. 138. 86. Abraham Ascher, Axelrod and Kautsky, in «Slavic Review», 1 (1967), pp. 94-112. 87. Sui confronti storici di Mathiez, si veda François Furet, Le passé d’une illusion. Essai sur l’idée communiste au XXe siècle, Paris, Robert Laffont, 1995, pp. 89-91 [trad. it. Il passato di una illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, Mondadori, 1995]. 88. Mark L. Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, Firenze, Le Monnier, 1920. Uscì in Francia l’anno successivo con il titolo Le Bolchévisme vu par un Russe, Paris, Bossard, 1921. 89. Claudia Scandura, L’emigrazione russa in Italia: 1917-1940, in «Europa Orienta- lis», 14 (1995), p. 343. E sopra tutto Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia: 1917- 1921, Milano, Feltrinelli, 1979. 90. Si veda Luciano Pellicani, Gramsci e Mondolfo di fronte alla Rivoluzione bol- scevica, in L’Italia e la rivoluzione d’ottobre, pp. 333-339. Il volume su Marx è Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Bologna, Cappelli, 1919.
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visto la rivoluzione come un rovesciamento sul terreno della praxis, ciò non andava disgiunto dalla considerazione circa la maturazione delle condizioni sociali ed economiche per realizzarla: un paese arretrato e contadino come la Russia poteva al massimo realizzare un «regime comunistico primitivo», non certo la «società socialistica dei liberi lavoratori associati». 91 Mondolfo insistette sulle molte contraddizioni proprie dell’insorgenza massimalistica di Lenin e compagni. Volendo forzare i tempi della storia, essi rischiavano di assoggettare il proprio paese a capitalisti stranieri, a cui stavano concedendo lo sfruttamento delle risorse locali in assenza di un vigoroso sviluppo indu- striale. Esso «in Russia parte mancava, e parte è stato stroncato dall’insor- gere del massimalismo […]». 92 Il giudizio sul bolscevismo come attivismo massimalista rimandava, anche se non esplicitamente, al clima della Grande guerra. Le posizioni di Turati, direttore della rivista, non differivano granché da quelle di Mondolfo. In particolare Turati sottolineò a più riprese il nesso inscindibile tra socialismo e democrazia. 93 Questi ragionamenti ebbero una qualche circolazione anche in am- bienti minoritari della sinistra britannica. Si è già menzionato Hyndman, diffusore delle idee di Marx, e critico feroce del bolscevismo. A suo giu- dizio, Lenin e compagni erano stati ispirati dal «militarismo prussiano», l’odio per il quale aveva spinto Hyndman a rompere nel 1916 con il British Socialist Party e a fondare un National Socialist Party. La critica del bol- scevismo, enunciata da Hyndman, influenzò alcune figure del socialismo statunitense. John Spargo realizzò un percorso analogo. Nel 1917, in rot- tura con il pacifismo della maggioranza del Partito socialista statunitense, questo importante leader politico della sinistra statunitense organizzò as- sieme a Samuel Gompers, presidente dell’American Federation of Labor, l’American Alliance for Labor and Democracy. Questa organizzazione si impegnò nello sforzo bellico a fianco dell’amministrazione Wilson. Dopo aver sperato nella Rivoluzione russa di febbraio, Spargo affermò che il re- gime sovietico costituiva una «tirannia mostruosa e arrogante», basata sul controllo capillare di un’economia militarizzata secondo metodi tedeschi. 94 91. Rodolfo Mondolfo, Leninismo e socialismo, III, in «Critica sociale», 8 (1919), p. 88. 92. Rodolfo Mondolfo, Leninismo e socialismo, IV, in «Critica sociale», 9 (1919), p. 106. 93. Vedi Giulio Bedeschi, I socialisti riformisti italiani e la rivoluzione bolscevica in Russia, in L’Italia e la rivoluzione d’ottobre, pp. 191-195. 94. Il punto di vista di John Spargo è ben illustrato nelle due opere che pubblicò nel 1920: Russia as an American problem, New York, Harper, 1920; e Id., The Greatest Fai- lure in History: A Critical Examination of the Actual Workings of Bolshevism in Russia,
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Non furono soltanto esponenti della sinistra internazionale a rovesciare i convincimenti progressisti degli amici del giovane regime sovietico: espo- nenti del liberalismo condivisero alcuni degli argomenti che abbiamo illu- strato. Nel dopoguerra, il giurista austriaco Hans Kelsen andò elaborando un’idea della democrazia liberale come sistema di regole e procedure contro i regimi di partito che si stavano affermando nel nome di sostantivi come «popolo», «classe» e altri enti collettivi. 95 Del bolscevismo al potere egli colse il tratto forse più significativo, ossia quella mescolanza di anarchismo e statalismo estremo che costituiva una cifra largamente contradditoria, ma destinata a produrre la sostanza di un regime autoritario su basi militari come quello sovietico. 96 Kelsen era un liberale di sinistra, che guardava invece con simpatia a un «ritorno a Lassalle» nelle file del socialismo riformatore. Quest’ultimo, ben rappresentato da una figura come Kautsky, aveva preso da tempo a ragionare sullo stato in termini moderni, rinunciando cioè alla palingenesi marxista, con tutto il suo portato di assolutismo politico e morale e di predominio di una minoranza sacerdotale, votata ad interpretare il senso della storia e, come tale, ad imporsi su grandi masse. Il relativismo dei valori di Kelsen ben si sposò con una concezione gradualistica del socialismo in opposizione ai nascenti movimenti e regimi tirannici di destra e di sinistra. 97 Nelle file di un’altra parte della cultura liberale l’idea che il bolscevismo fosse un sistema autocratico, amministrato su basi militari, prese le forme di una critica del socialismo tout court. In Stato, economia e nazione, Ludwig von Mises sottolineò la convergenza tra conservatorismo prussiano e sociali- smo marxista. Egli riteneva che il problema non fosse individuare il soggetto che comanda in una società amministrata (il re, il popolo o un partito), ma cogliere il fatto che suddetta società fosse prodotta dallo sradicamento dei diritti civili e della libertà individuale. Il conflitto epocale dunque non era tra destra e sinistra, ma tra «liberalismo politico-economico e socialismo». Quest’ultimo, annichilendo il mercato, non soltanto distruggeva la libertà di scelta dei consumatori, ma anche la possibilità di razionalizzare i costi, New York, Harper, 1920. Sulla circolazione di questi temi anticomunisti, Markku Ruotsila, British and American Anticommunism Before the Cold War, London-New York, Routledge, 2001, p. 45. 95. Si vedano gli scritti raccolti in Hans Kelsen, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 1995. 96. Hans Kelsen, Socialismo e stato. Una ricerca sulla teoria politica del marxismo, Bari, De Donato, 1978, pp. 224-225. 97. Salvadori, Democrazia, pp. 370-372.
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rendendo così il sistema economico nel suo complesso un apparato burocra- tico oppressivo e inefficiente 98 . Anche nelle file del conservatorismo inter - nazionale fu stabilito un nesso tra concezione prussiana dello stato e regime bolscevico. Tra i repubblicani statunitensi, William Howard Taft individuò questo nesso, riducendolo alla «tirannia del socialismo e alla minaccia con- tro l’unico sistema che ha assicurato una reale libertà», cioè la democrazia rappresentativa e lo stato di diritto 99 . Un altro repubblicano, David Jayne Hill, ex ambasciatore statunitense a Berlino, giudicò la concezione prussiana dello stato, adottata dai bolscevichi, una regressione sul terreno storico. La sostanza di questa concezione era «la mistica, amorale concezione prussiana dello stato come un’entità che esiste soltanto per la sua stessa espansione, senza i limiti posti da obbligazioni morali o dati dalle convenzioni». 100 In conclusione, si può affermare che le informazioni sullo svolgimento della guerra civile, sul terrore rosso e sulla violenza di massa fecero da leva tra 1918 e 1919 per la formazione di un paradigma discorsivo, volto ad il- luminare il carattere regressivo del regime fondato da Lenin. La spaccatura interna al mondo della sinistra fu accentuata sin dai primi mesi del potere bolscevico. A fronte della diffusa idealizzazione di quest’ultimo, un vario mondo di socialisti, repubblicani e democratici (in un confronto con forze più orientate al liberalismo classico e al conservatorismo) colse precoce- mente che l’eredità della Rivoluzione russa (quella del 1905 e quella del febbraio 1917) era andata dispersa. Lo stato sovietico, sorto dall’insurre- zione dell’ottobre 1917, doveva esser visto come l’inizio di un’altra storia, le cui radici erano da ricercare nel conflitto bellico, vero e proprio retro- terra del dispotismo di tipo moderno. La categoria stessa di dispotismo entrò dunque dentro un laboratorio di idee per uscirne negli anni successivi radicalmente trasformata. Essa non poteva essere più intesa come persi- stenza del passato, ancorata ai vecchi stilemi dell’autocrazia ottocentesca e della sua eredità, bensì doveva essere còlta nel suo carattere dirompente e innovativo, quello dei partiti milizia di estrema sinistra e di estrema destra, issatisi al potere grazie alla crisi definitiva delle strutture sociali e politiche del vecchio mondo. 98. Ludwig von Mises, Stato, nazione ed economia. Contributi alla politica e alla storia del nostro tempo, con un saggio di Andrea Graziosi, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 163. 99. Ruotsila, British and American Anticommunism, pp. 92-93. 100. Ivi, pp. 57-58.
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4. Testimonianze sulle prigioni e sui primi campi (1918-1922) La dimostrazione più evidente del fatto che il bolscevismo era andato alla scuola della Grande guerra, ricavandone strumenti idonei per la costru- zione dello stato, è rappresentata dalla diffusione, già a partire dal 1918, di una rete di campi di concentramento nei territori da esso governati. La pratica di concentrare i nemici in luoghi isolati, ed eventualmente utilizzar- li come lavoratori forzati, ci riporta alla fine dell’Ottocento a Cuba, dove le autorità spagnole rinchiusero nei campi intere comunità accusate di so- stenere la guerriglia nazionalista. All’inizio del Novecento, nel contesto della seconda guerra anglo-boera, l’esercito britannico deportò una parte della popolazione boera, rinchiudendola in campi di concentramento. 101 Spostandoci più avanti, il contributo della Grande guerra a questa storia infausta fu da questo punto di vista massiccio nella misura in cui nel 1914- 1918 si realizzò una sorta di «totalizzazione del conflitto» le cui forme furono varie: dalla trasformazione di cittadini in «stranieri nemici», alla diffusione dei campi di concentramento fino alla pratica del lavoro forzato nei territori occupati dalla Germania. 102 Strumenti collaudati per isolare i nemici e distruggere ogni forma di opposizione politica e militare, i campi di concentramento e di lavoro furono utilizzati ben presto dal governo dei commissari del popolo, presieduto da Lenin. 103 La logica concentrazionaria conobbe un primo punto di svolta in se- guito agli attentati di fine agosto 1918 che ebbero come obiettivo Lenin e altri dirigenti del partito. All’inizio del mese successivo, un decreto sul «terrore rosso» sancì il diritto della repubblica sovietica a difendersi dai propri nemici, isolandoli in campi di concentramento. 104 Una misura che 101. Joel Kotek e Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio, Milano, Mondadori, 2001, pp. 31-52. 102. Daniela Luigia Caglioti, War and Citizenship. Enemy Aliens and National Be- longing from the French Revolution to the First World War, Cambridge-New York, Cam- bridge University Press, 2021. Vedi anche Audoin-Rouzeau e Becker, La violenza, la cro- ciata, il lutto, pp. 49-50. 103. Werth, Uno Stato contro il suo popolo, pp. 67 sgg. Per questa primissima fase si fa riferimento, a Michael Jacobson, Origins of the Gulag. The Soviet Prison Camp system 1917-1934, Lexington, The University Press of Kentucky, 1993. Si veda anche Francine- Dominique Liechtenan, Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema concentrazionario sovietico, Torino, Lindau, 2009. 104. Fabio Bettanin, Il lungo terrore. Politica e repressioni in Urss 1917-1953, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 19.
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peraltro non valse per gli attentatori, i quali furono fucilati immediatamen- te. Il nascente sistema dei campi fu affidato alla Čeka, e dotato di una base giuridica nei primi mesi del 1919 sulla scia del succitato decreto. Un decreto del 15 aprile distinse tra campi di concentramento (che raggruppa- vano per lo più «ostaggi» sulla base di sentenze amministrative) e campi di lavoro forzato (dove si trovavano, almeno in linea di principio, persone condannate da un tribunale). La distinzione tuttavia era soltanto nominale, a causa della sovrapposizione di competenza tra vari organi. Il numero degli internati crebbe comunque rapidamente dai 16 mila del maggio 1919 ai 70 mila del settembre 1921. 105 I campi sovietici suscitarono l’interesse diffuso della sinistra interna- zionale, dalle cui file si levarono voci a sostegno dei prigionieri politici. Si deve innanzi tutto considerare che a Mosca operava, sia pure in condizioni molto difficili, una Croce Rossa politica, che dal 1922 divenne l’associa- zione di aiuto ai prigionieri politici, presieduta da Ekaterina Peškova. 106 Questa organizzazione non riuscì mai ad imporre un rafforzamento del- le garanzie della difesa all’interno di processi regolari, come in un pri- mo tempo i suoi promotori cercarono di fare. Piuttosto, prese a funzionare come ufficio informativo per mantenere i contatti con i prigionieri e tra essi e i loro familiari, favorendo così l’invio di denari e beni. L’aspetto più interessante dal nostro punto di vista è che nel corso della sua lunga storia, questa organizzazione riuscì a stabilire legami con l’emigrazione politica, ottenendo da essa e da altri amici stranieri importanti somme di denaro. 107 All’estero, le iniziative più importanti furono prese dai gruppi socialisti rivoluzionari, i quali, al di là dei loro scontri interni, rappresentavano il nemico frontale del bolscevismo al potere, quella parte cioè della sinistra russa che aveva cercato di combatterlo armi alla mano. Adesso, una volta giunti in esilio, dirigenti e militanti decisero che era arrivato il momento di
105. James Bunyan, The Origins of Forced Labor in the Soviet State, 1917-1921: Documents and Materials, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1967, pp. 72-73. Si veda anche Nicolas Werth, La terreur et le désarroi. Staline et son système, Paris, Perrin, 2007, pp. 206-207. 106. Stuart Finkel, The «Political Red Cross» and the Genealogy of Rights Discourse in Revolutionary Russia, in «Journal of Modern History», 1 (2017), pp. 79-118. Si veda anche Maria Cristina Galmarini, Defending the Rights of Gulag Prisoners: The Story of the Political Red Cross, 1918-38, in «Russian Review», 1 (2012), pp. 6-29. 107. Galmarini, Defending the Rights of Gulag Prisoners, p. 17.
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passare dal fucile alla penna, documentando la realtà del regime sovietico per farla conoscere in Occidente. 108 Tra 1920 e 1922 i fuoriusciti socialisti rivoluzionari combatterono una guerra culturale, volta a mostrare alla sinistra internazionale nel suo complesso che il regime di Lenin aveva costruito un apparato di polizia e giudiziario, organizzato per realizzare lo sterminio dei propri nemici: non soltanto i cosiddetti controrivoluzionari, ma anche quei militanti del- le forze di sinistra, socialisti rivoluzionari e anarchici, che in momenti diversi avevano preso le armi contro il bolscevismo. La descrizione dei campi – lo vedremo – fu mirata a raffigurare uno sterminio di massa nell’ottica di una guerra civile adesso a senso unico, combattuta dagli aguzzini delle prigioni e dei campi contro prigionieri inermi. Quando nel 1922 si giunse alla condanna a morte di una parte del gruppo diri- gente socialista rivoluzionario, rimasto clandestinamente in Russia, tutta la sinistra internazionale agitò una campagna umanitaria in difesa dei condannati. Anche i menscevichi, con la loro tattica legalitaria inscritta nella «linea Martov» si unirono alla protesta. Già da qualche tempo, del resto, la parte dell’anarchismo che aveva aderito al regime bolscevico era entrata in rotta di collisione con esso: gli esuli, capeggiati da Aleksandr Berkman, alimentarono una battaglia su vari fronti, mobilitandosi per i loro compagni in prigione, ma anche impegnandosi per stabilire la verità sull’esercito di Machno e sui fatti di Kronstadt. Questo lavoro informati- vo, svolto dai socialisti rivoluzionari e dagli anarchici, tese a caratteriz- zare il regime bolscevico come un regime militare, retto da una duplice regola: la sicurezza dello stato e l’eliminazione dei nemici. Al culmine di questo lavoro informativo, troviamo l’opera di Sergej Mel’gunov, che costituisce una sistemazione del lavoro svolto fino ad allora. Uscita nel 1923, quest’opera mise a nudo – grazie alla raccolta dei documenti che stiamo presentando – la natura del terrore bolscevico: lungi dall’essere uno strumento di legittima difesa da parte di un regime rivoluzionario in lotta contro i nemici della rivoluzione, esso si caratterizzava come stru- mento originario per costruire un determinato ordine politico, fondato sul monopolio di un partito che si era fatto stato. La violenza e l’intimi- dazione, strumenti arcaici di dominio, dunque al posto del diritto e della sicurezza dei cittadini. 108. Elisabeth White, The Socialist Alternative to Bolshevik Russia. The Socialist Revolutionary Party (1921-1939), London-New York, Routledge, 2011.
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Procediamo con ordine, iniziando dal lavoro dei socialisti rivoluzio- nari. L’opera di Mark Višnjak fece da battistrada. Socialista rivoluzionario ed ex segretario dell’Assemblea costituente, egli pubblicò in Francia nel 1920 Régime soviétiste un’analisi puntuale del regime politico-giuridico del bolscevismo. Il suo obbiettivo era contrastare l’«epidemia» spiritua- le che aveva spinto molti dirigenti e militanti della sinistra internazionale ad esaltare gli eventi dell’ottobre 1917. Višnjak fece una disamina pun- tale della Costituzione sovietica del 1918, mostrando che erano presenti in essa difformità marcate rispetto alla tradizione democratica, alla quale invece molti in Occidente la riconducevano. L’uguaglianza giuridica non era prevista, i meccanismi elettorali prescindevano dal suffragio univer- sale e uguale, l’organizzazione del potere giudiziario era fragilissima dal punto di vista dell’autonomia rispetto al potere politico e infine il diritto di sciopero non era contemplato. 109 Višnjak era arrivato a Parigi da Odessa, via Marsiglia, nel maggio 1919. Avvalendosi del contributo di Miljukov e di altri esuli liberali russi, Višnjak propose la convocazione della confe- renza degli ex membri dell’assemblea costituente, con l’intento di scuote- re l’opinione pubblica democratica in Francia e nel mondo occidentale in generale. Svoltasi tra l’8 e il 21 gennaio 1921, vi parteciparono in maggio- ranza membri del PSR (tra i quali Zenzinov, Černov e Slonim) e in misura minore membri del Partito costituzionale democratico (a cui apparteneva Miljukov). Erano presenti delegati di altri partiti. L’assemblea votò una risoluzione nella quale si affermò che: Compiuta la rivoluzione liberatrice del mese di marzo, la Russia non ricono- scerà alcuna tirannia come potere legale dello stato e in particolare la tirannia bolscevica che nega i princìpi più elementari delle libertà politiche e della sovranità del popolo; potere che si appoggia sulla forza brutale delle baionet- te e su un terrore senza pietà, che distrugge sistematicamente l’economia na- zionale e tende ad edificare un sistema basato sul lavoro forzato degli operai e dei contadini asserviti. 110
109. Mark Višnjak, Le Régime soviétiste: étude juridique et politique, Paris, Impr. Union, p. 29. 110. Conférence privée des membres de l’assemblée constituante de Russie – The private conference of members of the constituent assembly, Paris, Zemgor, 1921, p. 35. Il testo è conservato in Partija Socialistov-Revoljucionerov (Rossija) Archives, Other subjects – 1027 Documents concerning the Conference of members of the Constituent As- sembly in Paris 1921.
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La risoluzione menzionò le «sollevazioni continue» e l’«attitudine ir- riducibilmente ostile» della popolazione nei confronti di un regime il qua- le, non essendo riconosciuto dai suoi stessi cittadini, non doveva pertanto essere riconosciuto dagli altri stati. 111 Due socialisti italiani, partecipi di una missione italiana che aveva visitato nell’estate del 1920 la Russia, in- sistettero nello stesso periodo sulla ostilità delle masse contadine verso le «requisizioni violente organizzate manu militari dal Governo bolscevico» che culminò in una «vera guerra civile» con villaggi distrutti e contadini fucilati da un lato, atti di sabotaggio e di violenza contro i funzionari co- munisti dall’altro. 112 Un ruolo di primo piano fu svolto dal gruppo socialista rivoluzionario approdato a Praga, il quale poteva godere in questa città della simpatia (e dei finanziamenti) degli uomini collocati al vertice del nuovo stato democratico cecoslovacco, Edvard Beneš e Tomáš Masaryk. A Praga ripresero le pubbli- cazioni dell’organo ufficiale del partito, «Revoljucionnaja Rossija» e circolò una vivace rivista di dibattito politico e letterario, «Volja Rossii» («Libertà della Russia»). 113 Ethel Snowden, moglie del noto politico laburista britan- nico, femminista e attivista a favore dei diritti umani, ricevette il 25 giugno 1921 una lettera dalla redazione di «Volja Rossii» che la invitava a sensi- bilizzare le alte sfere del laburismo britannico: era necessario predisporre un «intervento sul piano umanitario contro le persecuzioni e le atrocità che stanno subendo i socialisti e i lavoratori russi». 114 Gli esuli si rivolsero diret- tamente ai leader laburisti. Ramsay MacDonald fu informato l’11 gennaio 1922 dello sciopero della fame che alcuni detenuti nelle segrete della Butyr - ka, la famigerata prigione moscovita, avevano intrapreso come forma di pro- testa in seguito alla decisione di deportarli in Turkestan. La notizia era già circolata nel mondo socialista europeo, giacché le delegazioni all’estero dei 111. Ibidem. 112. Gregorio Nofri e Fernando Pozzani, La Russia com’è. «Tutta la terra ai contadi- ni», in «Critica sociale», 1 (1921), p. 6. Gli articoli che questi due autori pubblicarono su «Critica sociale» erano stralci del volume in uscita con lo stesso titolo: La Russia com’è, con prefazione di Filippo Turati, Firenze, Bemporad, 1921. 113. White, The Socialist Alternative, pp. 19 sgg. Si veda anche Antonello Venturi, L’impossibile sconfitta dei socialisti-rivoluzionari russi, in «Meridiana», 88 (2017), pp. 113-132. 114. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International. London Secretariat Archives, The trial of socialists rev- olutionaries at Moscow, 91, Correspondence concerning the terrible conditions in the Rus- sian prisons for political prisoners, in particular socialists-revolutionaries.
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menscevichi e dei socialisti rivoluzionari l’avevano girata come telegramma a «Le Populaire», diretta da Léon Blum. Secondo gli esuli russi, soltanto l’intervento dei vertici del socialismo internazionale avrebbe portato ad una revoca dell’ordine brutale inflitto a quei prigionieri. 115 Nell’ottica di sensibilizzare il socialismo internazionale, l’Ufficio cen- trale del PSR in esilio pubblicò nel 1922 un volumetto dal titolo Če-ka nel quale fu ribadito che l’assenza di adeguate garanzie costituzionali costituiva la premessa del ruolo abnorme ricoperto dalla polizia politica nei primi anni di vita del regime. 116 Nel volume erano contenute testimonianze di militanti della sinistra, per lo più socialisti rivoluzionari, i quali avevano sperimentato la realtà del carcere e dei campi sovietici. Per proteggere la loro identità, na- turalmente, i nomi utilizzati nel testo erano fittizi. Il volume fu aperto da uno scritto di Černov, nel quale il regime di Lenin era definito «figlio legittimo della guerra», una sorta di «comunismo militare» in preda a una «mistica statista». Queste caratteristiche rendevano la Čeka l’istituzione chiave di un regime ossessionato dal proposito di forgiare una «morale nuova». Non è privo di interesse che questo volume venne pubblicato, oltre che in Francia e Germania, anche in Italia. 117 Ciò avvenne grazie all’iniziativa dello scrittore, giornalista e sociologo russo Karl Ludvigovič Vejdemjuller, direttore dell’I- stituto russo e gestore a Roma della libreria e casa editrice Slovo, politica- mente vicina a Kerenskij. 118 L’anno successivo lo slavista Ettore Lo Gatto, direttore della rivista «Russia», pubblicò le lettere che lo scrittore ucraino Vladimir G. Korolenko aveva inviato ad Anatolij Lunačarskij, commissario sovietico all’istruzione e anch’egli scrittore. In esse era espresso un giudizio durissimo sul governo bolscevico. Esso aveva dato vita al «primo esperimen- to di introdurre il socialismo per mezzo della soffocazione della libertà». 119 115. Ibidem. 116. Tché-ka. Matériaux et documents sur la terreur bolcheviste recueillis par le bure- au central du parti socialiste révolutionnaire russe, Paris, J. Povolozky & C., 1922. 117. Vittorio Cernov [Viktor Černov], La Ce-ka. Il terrore bolscevico, Milano, La Promotrice, 1923. 118. Anche l’opera di Višnjak fu pubblicata in Italia: Marc Vichniac [Mark Višnjak], Il regime soviettista: studio giuridico e politico, Roma, Libreria russa Slovo, 1921. Su que- sti temi, si è fatto riferimento a Venturi, L’emigrazione russa in Italia e più in generale a Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-1925, prefazione di Renzo de Felice, Roma-Bari, Laterza, 1982. 119. Le lettere, trafugate a Mosca, furono consegnate da Andrea Caffi a Umberto Za- notti Bianco e pubblicate in Italia cfr. Marco Bresciani, La rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 87.
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Il volume di Višnjak e quello aperto dallo scritto di Černov usciro- no nel contesto oramai mutato della NEP. La relativa liberalizzazione dell’economia, in particolar modo quella rurale, fu dovuta alla precisa cognizione da parte di Lenin che il regime, continuando lungo la strada del comunismo di guerra, sarebbe stato rovesciato dal fiume in piena della Rivoluzione russa, che adesso si ergeva contro i bolscevichi al po- tere. La grande rivolta contadina con centro a Tambov e la rivolta dei marinai della base di Kronstadt indicavano chiaramente questa prospet- tiva. 120 E infatti, la svolta della NEP non significò assolutamente mettere in discussione il monopolio politico del partito bolscevico, né tantomeno smantellare l’apparato repressivo. In una lettera a Kamenev del 3 mar- zo 1921, Lenin scrisse che: «È un errore colossale pensare che la NEP abbia posto fine al terrore». 121 Pertanto, quelle indagini, nate all’interno del mondo socialista rivoluzionario, restarono attuali, anche se non era ancora del tutto chiaro quale strada avrebbero preso le politiche repres- sive sovietiche. È interessante inoltre notare che questa letteratura uscì a cavallo dell’avvento al potere di Mussolini in Italia nell’ottobre 1922, suggerendo confronti non banali tra i due regimi. È noto che l’espressione totalitarismo fu impiegata per la prima volta nel contesto italiano, utilizzata da Giovanni Amendola sulle pagine del «Mondo» a partire dal 1923. 122 In seguito, il ter- mine servì allo stesso leader liberale per collegare fascismo e comunismo. Nel luglio 1925 egli scrisse a proposito della «reazione totalitaria» contro il liberalismo, incarnata appunto tanto dal fascismo italiano quanto dal co- munismo sovietico. 123 Questo confronto era destinato a una lunga storia, mostrando però già adesso alcuni problemi di tenuta concettuale. Andrea Caffi, il quale aveva vissuto da vicino l’esperimento bolscevico, costruì il 120. Ettore Cinnella, La Russia di Stalin. La formazione del regime totalitario, Pisa, Della Porta, 2021, pp. 57-58. 121. Citato ivi, p. 70. 122. Simona Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 4. 123. Ivi, p. 5. Sul variegato mondo liberale italiano di fronte all’esperimento bolsce- vico, Danilo Breschi, Il vario liberalismo italiano e la rivoluzione d’ottobre, in L’Italia e la rivoluzione d’ottobre, pp. 144-166. A questo modo critico di guardare i due regimi da parte degli antifascisti corrispose l’avvio delle «relazioni pericolose» del fascismo italiano con il comunismo sovietico sul terreno diplomatico, politico e commerciale. Vedi adesso Maria Teresa Giusti, Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista, Bologna, Il Mulino, 2023.
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proprio giudizio sul fascismo proprio a partire dalla realtà di quell’espe- rimento che in una prima fase aveva approvato, ma che presto lo avrebbe deluso profondamente. Per quanto egli cogliesse l’analogia tra due regi- mi, giudicò «puerile» mettere a confronto l’enorme apparato della Čeka, con «le sue migliaia di prigioni e di scannatoi, i suoi trecentomila armati (battaglioni della GPU) e il mezzo milione di spie», con l’organizzazione segreta creata presso il Viminale, responsabile dell’assassinio Matteotti. La posizione di Caffi non era ispirata a un qualche relativismo etico e politico, perché questo giudizio era espresso nel contesto di un’accusa frontale nei confronti del fascismo italiano. 124 Dalla lettura di Če-ka emerse in effetti che la realtà sovietica era difficile da confrontare con altre, dando così ragione alle distinzioni operate da Caffi. Compito della polizia politica sovietica era di gestire gli «scarti» umani – così erano chiamati i prigionieri –, che venivano trasferiti in massa dalle prigioni al «campo di concentramento con il suo lavoro forzato». 125 Era descritto nel dettaglio l’intero viaggio nell’in- ferno cekista: il prigioniero, arrestato illegalmente, veniva classificato, posto in isolamento, dove la fame e la sporcizia erano interrotte soltanto da interrogatori e torture. In alcuni casi, questo supplizio finiva con colpo alla nuca inferto nei sotterranei. A questo proposito, il cekista fu descritto come l’uomo che aveva trovato nella colt il suo strumen- to preferito, perché, trattandosi di un grosso calibro, questa tipologia di arma presentava un grande vantaggio, quello di fracassare la testa con un colpo solo, rendendo «impossibile identificare la vittima». Chi sopravviveva alle prigioni, veniva deportato nei campi. Tra la miriade di questi ultimi, gli autori del libro descrissero quello di Cholmogory. Costruito dopo il maggio 1920, situato nell’oblast’ di Arcangelo, questo campo venne raffigurato come un luogo degli orrori: la spoliazione dei beni e dei vestiti all’ingresso, la fame, il freddo, il lavoro forzato e le malattie. 126 Non si contano le testimonianze che definirono questi luoghi «campi della morte» dove venivano sterminati i «nemici di classe». Una testimo- nianza sulla crudeltà del comandante di Cholmogory vale la pena di essere qui ricordata: 124. Bresciani, La rivoluzione perduta, p. 108. 125. Tché-ka, p. 18. 126. Ivi, pp. 289-296.
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Di lui si raccontano cose spaventose. Dicono che abbia suddiviso i detenuti in gruppi di dieci ciascuno, rendendo responsabili e punibili per la colpa di uno tutti gli altri componenti. Così quando uno dei detenuti fuggiva e non era subito ripreso, il comandante faceva fucilare gli altri nove suoi compagni. Il fuggiasco viene poi catturato, processato e condannato a morte. Lo portano sull’orlo della fossa già pronta; il comandante in persona, insultandolo, lo colpisce così violentemente al capo da farlo cadere nella fossa, dove lo sep- pelliscono, tramortito ma ancora vivo. 127
La logica dello sterminio, come tratto saliente del terrorismo di stato bolscevico, prese a un certo punto la forma del processo politico. Nel giu- gno 1922, otto membri del comitato centrale del PSR e altri quattro espo- nenti del partito, da tempo detenuti, furono condannati a morte nell’ambito di un processo che è stato definito come il primo dei grandi processi farsa sovietici. 128 Già dalla primavera la questione aveva assunto un rilievo in- ternazionale a causa del grande lavoro informativo svolto dai compagni in esilio a favore degli imputati. L’8 marzo il gruppo socialista rivoluzionario parigino inviò a MacDonald un telegramma nel quale si denunciava il nuo- vo tentativo del regime di Lenin di «sterminare i nostri compagni detenuti» per «crimini inventati di sana pianta». Rivoluzionari che «avevano cono- sciuto i bagni zaristi» si ritrovavano nuovamente in una situazione dram- matica, privati di ogni garanzia giuridica. Si pregava dunque di «interve- nire con una protesta pubblica immediata». 129 E delle garanzie giuridiche a favore degli imputati del processo prossimo venturo discussero esponenti delle tre Internazionali (la Seconda, la cosiddetta Internazionale due e mez- zo e l’Internazionale comunista) nel corso di riunioni, tenutesi all’inizio di aprile a Berlino. Mentre era in corso un estremo tentativo di salvare la prospettiva del fronte unito tra socialisti e comunisti, elaborata alla fine del 1921, la situazione dei prigionieri politici a Mosca esplose, non contri- buendo certamente alla serenità del dibattito. Proprio nel contesto di queste
127. Ivi, pp. 242-243. 128. Si è tenuto presente per la ricostruzione del processo Marc Jansen, A Show Trial Under Lenin. The Trial of the Socialist Revolutionaries, Moscow 1922, The Hague-Boston- London, Martinus Nijhoff Publishers, 1982. 129. Il telegramma è conservato in International Institute of Social History (Amster- dam), Labour and Socialist International. London Secretariat Archives, The trial of socia- lists revolutionaries at Moscow, 93, Correspondence concerning the trial of Socialists Rev- olutionaries at Moscow.
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riunioni la delegazione socialista rivoluzionaria all’estero chiese di poter presentare un memorandum sulle prigioni sovietiche. 130 La prima fase dell’intervento del socialismo internazionale fu dunque volta a imporre le ragioni del diritto all’interno del processo, muovendo dall’assunto che questa pressione avrebbe condizionato il regime sovietico in cerca di legittimazione internazionale. In realtà, come ebbe a scrivere Rubanovič a MacDonald il 24 aprile 1922 gli accordi stipulati a Berlino non impegnavano in alcun modo il potere sovietico, che – nelle parole del commissario della Giustizia – avrebbe mantenuto la prerogativa di con- dannare a morte i condannati, subordinando la grazia a «un impegno dei condannati di non fare mai più ricorso alle armi nella loro lotta contro il governo bolscevico». 131 Il modo in cui il processo si svolse fece cadere ra- pidamente le residue speranze di veder garantiti i diritti della difesa, come dovette constatare amaramente la delegazione socialista internazionale nelle cui file si trovava Émile Vandervelde, il celebre dirigente socialista belga. Il clima moscovita infatti apparve subito quello di una macchina- zione inquisitoriale e propagandistica più che quello di un processo dotato di un minimo di garanzie e rispetto delle procedure. Il 12 giugno Vander- velde, Theodor Liebknecht (avvocato e fratello di Karl) e Kurt Rosenfeld (anch’egli avvocato e membro della USPD) scrissero a MacDonald in ri- ferimento al rifiuto ricevuto dalle autorità sovietiche a partecipare come membri della difesa al processo di Mosca: «[…] il tribunale, rifiutandosi di ammettere i tre avvocati per la difesa richiesti dagli accusati, ha già di- mostrato che gli accordi di Berlino non saranno riconosciuti interamente». La «possibilità della condanna a morte» si era fatta quindi più concreta, rendendo pertanto urgente un intervento internazionale, volto a denunciare questa situazione. 132 130. Vladimir Michajlovič Zenzinov , Il’ja Adol’fovič Rubanovič, Nikolaj Sergeevič Rusanov, Vasilij V. Suchomlin e Viktor Michajlovič Černov , Mémorandum présenté par la délégation du Parti Socialiste-Révolutionnaire de Russie à l’étranger au Congrès des Trois Unions internationales des partis socialistes et communistes, Berlin, 1922. 131. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International. London Secretariat Archives, The trial of socialists rev- olutionaries at Moscow, 93, Correspondence concerning the trial of Socialists Revolution- aries at Moscow. 132. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International. London Secretariat Archives, The trial of socialists rev- olutionaries at Moscow, 94, Correspondence concerning the trial.
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La mobilitazione internazionale contro il piano inclinato delle con- danne a morte fu vasta. Grazie all’iniziativa di Martov, i menscevichi av- vicinarono Maksim Gor’kij, che allora risiedeva a Berlino. Lo convinsero a intervenire, assieme ad Anatole France, con un appello rivolto al governo sovietico affinché si evitasse il bagno di sangue. Se il processo si fosse con- cluso con l’assassinio dei condannati, l’«Europa socialista» avrebbe realiz- zato un «blocco morale» del regime sovietico. 133 Si mobilitarono, firmando appelli, molte figure del mondo progressista europeo: Romain Rolland, Gerhart Hauptmann, Herbert George Wells, Bernard Shaw e molti altri. Gran parte di queste figure non era avversaria del bolscevismo, ma aveva comunque a cuore l’unità internazionale della sinistra. 134 Con il trascorrere delle settimane, la mobilitazione si intensificò. Nel corso di una conferenza congiunta delle due Internazionali socialiste e dell’Internazionale dei sin- dacati (IFTU), tenutasi ad Amsterdam il 19-20 luglio, la delegazione dei menscevichi e quella dei socialisti rivoluzionari denunciarono il rischio di una «controrivoluzione bonapartista» a Mosca. Compito dei socialisti e dei sindacati era dunque dar vita a una campagna di «agitazione nella stampa», di «organizzazione di incontri» e di manifestazioni pubbliche. 135 Il pesante verdetto, in seguito al quale i dodici imputati furono con- dannati a morte, fu oggetto di tensioni in loco che si manifestarono già fuori dal tribunale. Ne fu testimone Umberto Zanotti Bianco, organizza- tore del comitato italiano per il soccorso ai bambini vittime della carestia. Trovandosi a Mosca, poté osservare assieme a Caffi l’uscita dal tribunale dei condannati in un clima di forte agitazione, prima che le guardie rosse intervenissero per disperdere la folla. 136 All’estero, la contestazione vide in prima linea non soltanto i socialisti rivoluzionari in esilio a Praga e a Parigi, ma anche il gruppo menscevico a Berlino, costituitosi a partire dalla seconda metà del 1920, allorquando Martov e Rafail Abramovič avevano deciso di non rientrare in Russia dopo la fine del congresso socialdemocra- 133. Jansen, A Show Trial Under Lenin, pp. 164-165. 134. Ivi, p. 165. 135. Il documento è conservato in International Institute of Social History (Amster- dam), Labour and Socialist International. London Secretariat Archives, The Trial of So- cialists Revolutionaries at Moscow, 94, Correspondence concerning the trial. Sull’IFTU si veda Geert Van Goethem, The Amsterdam International: The World of the International Federation of Trade Unions (IFTU), 1913-1945. Aldershot, Ashgate, 2006. 136. Umberto Zanotti Bianco, Diario dall’Unione sovietica, 1922, a cura di Marghe- rita Isnardi Parente, in «La Nuova Antologia», marzo-aprile-maggio (1977), p. 396.
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tico tedesco. A Berlino, a mano a mano che nel corso dell’anno successivo affluirono altri dirigenti, fu fondata la rivista «Socialističeskij Vestnik», che iniziò le sue pubblicazioni il primo febbraio 1921. Il gruppo menscevico fu protetto e aiutato dalla socialdemocrazia tedesca nello spirito della solida- rietà tra socialisti. Un ruolo di grande importanza fu svolto da Alexander Stein, giornalista influente di origine russe e capo del settore culturale ed educativo della SPD. 137 Abramovič, il quale era stato membro del comita- to centrale del Bund, prese a collaborare con il più grande quotidiano in yiddish del mondo, il «Forverts» («Jewish Daily Forward») che si pub- blicava a New York. Dal canto suo, Fëdor Dan, che assunse le redini della Delegazione estera dei menscevichi, pubblicò proprio a Berlino nel 1922 le sue memorie degli ultimi due anni, nel corso dei quali aveva alternato viaggi per la Russia come medico assoldato dallo stato sovietico a periodi di detenzione nelle prigioni del regime, come la Butyrka a Mosca. Alla fine fu esiliato. Queste pagine contengono, assieme a importanti notazioni sulle condizioni di vita della gente comune al tempo del comunismo di guerra e sulla situazione delle prigioni, l’illustrazione, quasi un chiodo fisso, della «linea Martov» di cui Dan stava diventando l’interprete più accreditato. 138 Fu un altro importante esponente del menscevismo, Vladimir Vojtinskij, a curare il volume dedicato al processo contro i socialisti rivolu- zionari, scrivendone una gran parte. Il libro uscì in russo, tedesco, inglese, francese e ceco; per dare la misura del grado di coinvolgimento del socia- lismo internazionale in questa vicenda, è sufficiente ricordare che Kautsky accettò di scriverne la prefazione, nella quale ribadì il carattere «bonaparti- sta» del dispotismo sovietico. 139 Queste convergenze furono importanti da un punto di vista generale, anche se va messo in rilievo che la disponibilità di Vojtinskij corrispose più al carattere irregolare del suo percorso politico che a una linea del menscevismo ufficiale. 140 Resta il fatto che tanta acqua era passata oramai sotto i ponti anche per quest’ultimo. La prospettiva di 137. Liebich, From the Other Shore, p. 101. 138. Fëdor I. Dan, Due anni di peregrinazioni, a cura di André Liebich, Lars Lih, Andrea Panaccione, Milano, Biblion, 2022. 139. Karl Kautsky, Prefazione a The Moscow Trial and the Bolsheviki, in Wladimir Woytinsky et al., The Twelve Who Are to Die. The Trial of the Socialists-Revolutionists in Moscow, Berlin, pubblicato dalla Delegazione del Partito socialista rivoluzione, 1922. 140. Andrea Panaccione, Una discussione del novembre 1931: Vojtinskij, la crisi, la disoccupazione, il socialismo, in Vladimir S. Vojtinskij. Le vie per combattere la crisi mon- diale, a cura di Milly Berrone, Milano, Biblion, 2021, p. 25.
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consolidarsi come opposizione legale interna al regime sovietico era tra- montata. E se per qualche tempo i menscevichi rimasti in patria non subi- rono le stesse violenze subìte da altri prigionieri politici, tuttavia – come ha ricordato Liebich – i «giorni felici» dei menscevichi erano giunti alla fine. 141 E anche questo naturalmente rendeva possibile all’estero almeno immaginare una convergenza dei socialisti russi contro il bolscevismo con il sostegno dei compagni europei. Non molto più che immaginare, forse, visto il carattere appartato dello stato maggiore menscevico rispetto al re- sto dell’emigrazione russa a Berlino, che derivava dalla profonda diversità di giudizio sul regime sovietico. 142 Comunque, l’eco del processo non si affievolì rapidamente. Fu questo probabilmente a spingere il regime sovie- tico a commutare le condanne a morte in lunghe pene detentive da scontare nelle prigioni e nei campi di concentramento. A nome della delegazione socialista rivoluzionaria all’estero, Černov e altri dirigenti scrissero da Berlino il 23 novembre 1923 all’indirizzo delle tre «Internazionali della classe operaia» a proposito della dispo- nibilità da parte sovietica a liberare qualche condannato che versava in condizioni di cattiva salute. La proposta era ispirata a una logica di scambio, per cui la liberazione dei socialisti rivoluzionari sarebbe stata subordinata soltanto al rilascio di comunisti detenuti nelle galere di paesi occidentali. A suo giudizio, la notizia costituì la conferma che il potere sovietico stava ragionando nei termini di uno scambio di ostaggi, persi- stendo dunque al suo interno una logica militare e guerresca. Černov e gli altri scrissero che il bolscevismo era capace di «resuscitare in piena pace le istituzioni primitive della responsabilità collettiva e degli ostag- gi». I dirigenti socialisti rivoluzionari all’estero dunque stigmatizzarono «questa barbarizzazione» delle nozioni di diritto e dei metodi della lotta politica. 143 La frattura tra socialismo internazionale e regime bolscevico si era definitivamente realizzata, prendendo le forme di uno scontro di civiltà che mandava in frantumi il già faticoso dialogo, che Mosca aveva voluto per dare vita a un «fronte unito» dentro il movimento operaio internazionale. 141. Liebich, From the Other Shore, p. 93. 142. Panaccione, Una discussione, p. 27. 143. Il documento si trova in International Institute of Social History (Amsterdam), Partija Socialistov-Revoljucionerov (Rossija) Archives, Correspondence, 1010-1011, Cor- respondence with Socialist International 1919-1925, 1.
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Se riflettiamo dunque sulla produzione di libri, testimonianze, appelli e carteggi provenienti dal mondo socialista rivoluzionario, troviamo un’im- portante conferma di ciò che avevamo già osservato nel paragrafo prece- dente. Una parte della sinistra russa e internazionale (si pensi a Kautsky e a Mondolfo ad esempio) colse cioè il carattere regressivo del regime sovie- tico, il quale, nell’ansia di inseguire il sogno della rivoluzione proletaria, aveva scartato l’ipotesi di consolidare le fragili forme dello stato di diritto esistenti e di investire su una gestione pluralistica del potere, tracciata dalle elezioni per la Costituente. Pensando di fare un balzo in avanti, bruciando le tappe della rivoluzione, il bolscevismo aveva contribuito paradossalmente a sprofondare gli enormi territori appartenuti allo zar in una condizione più primitiva, caratterizzata da un arcaico modo di gestire i problemi sociali ed economici in continuità con il processo di de-civilizzazione, cominciato con la Grande guerra. In definitiva, testimonianze, azione pubblica a favo- re dei prigionieri e riflessione s’intrecciarono costantemente producendo questo importante risultato dal punto di vista interpretativo: una minoranza armata, organizzata su basi ideologiche, aveva costruito uno regime mili- tare che non soltanto operava con metodi disumani pur di consolidarsi al potere, ma aveva distrutto la possibilità di una graduale democratizzazione senza la quale la prospettiva del socialismo era priva di senso. A un certo punto entrarono in scena gli anarchici. Mi riferisco a quella magmatica rete internazionale di gruppi e associazioni che ebbe per al- cuni anni il suo quartier generale a Berlino e che non tardò a trovare in Aleksandr Berkman uno dei suoi principali punti di riferimento. Emigrato negli Stati Uniti di origini russe, Berkman legò le proprie vicende personali e le idee antimilitariste alle sorti della Rivoluzione del 1917. Convinto che a San Pietroburgo si stesse lottando per «mettere fine alla guerra», egli sen- tì come suo dovere battersi affinché gli Stati Uniti non entrassero nel con- flitto. Fondò a New York con Emma Goldman la No Conscription League e stampò il giornale antimilitarista anarchico rivoluzionario, «The Blast». Entrambi furono più volte arrestati e incarcerati. Dopo la fine del conflitto, Berkman e Goldman furono espulsi assieme ad altri rivoluzionari libertari e deportati verso la Russia. 144 L’entusiasmo per il nuovo regime – che agli esordi apparve come l’incarnazione delle loro idee – non resse l’urto con 144. Paul Avrich e Karen Avrich, Sasha and Emma. The Anarchist Odissey of Alex- ander Berkman and Emma Goldman, Cambridge, Mass.-London, The Belknap Press of Harvard University Press 2012, in particolare pp. 252 sgg.
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la realtà dei metodi impiegati dai bolscevichi. Entrambi, dopo la brutale repressione di Kronstadt, decisero di lasciarsi alle spalle l’esperienza so- vietica, giungendo nel gennaio 1922 a Stoccolma assieme ad Alexander Schapiro e ad altri militanti anarchici. Gli anarchici che avevano avuto il permesso di lasciare la Russia non persero tempo e organizzarono comitati per aiutare i loro compagni imprigionati. Iniziò allora una nobile storia di impegno a favore di chi era rimasto nelle mani del potere sovietico. Berkman, Goldman, Schapiro, Volin, Mark Mračnyj, Grigorii Maksimov, Senya Flešin e Mollie Stei- mer si dedicarono a un lavoro continuo di informazione, raccolta fondi e varie altre iniziative, dando vita a organizzazioni che operarono fino agli anni Trenta. 145 Dal 1923 al 1926, operò a Berlino il Comitato congiun- to per la difesa dei rivoluzionari imprigionati in Russia. 146 Dal gennaio di quest’anno prese vita a Londra il gruppo per il sostegno degli anar- chici russi, che pubblicava in yiddish un giornale dal titolo «Hilsruf». Nel settembre apparve su «Freedom» un appello rivolto agli anarchici affinché si battessero per rendere consapevole l’opinione pubblica oc- cidentale delle condizioni delle prigioni russe. L’appello recava in calce una varietà di sigle che insieme formavano la galassia anarchica inter- nazionale: l’Unione dei socialisti rivoluzionari massimalisti, il comitato degli anarco-sindacalisti per la difesa russa, nominato dall’Associazione internazionale dei lavoratori (rifondata a Berlino nel 1922), il gruppo dei rifugiati anarchici in Germania e infine i rappresentanti del comitato mo- scovita per il sostegno degli anarchici imprigionati in Russia. A partire dall’ottobre, Berkman animò il «Bulletin of the joint committee for the defense of Revolutionists in Russia», con l’intenzione di «fornire al mon- do informazioni riguardanti la situazione dei rivoluzionari nella Russia sovietica» senza rinunciare a esprimere solidarietà «con le vittime della reazione dappertutto». 147 145. Maksimov avrebbe raccolto nel 1940 tutto il materiale che queste organizzazioni avevano nel tempo prodotto. Gregory Petrovich Maksimov, The Guillotine at work, vol. I: The Leninist Counter-revolution; vol. II: Data and Documents, Chicago, Cienfuegos Press, 1979 (I ed. 1940). 146. Paul Avrich, The Russian Anarchists, Princeton, Princeton University Press, 1971, p. 235. 147. The Tragic procession The Tragic procession: Alexander Berkman and the Rus- sian Prisoner Aid (The Reprinted Bulletin of the Joint committee for the defense of revolu- tionists imprisoned in Russia and Bulletin of the Relief Fund of the International Working
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La mobilitazione anarchica s’intrecciò con una riflessione di grande interesse sul giovane stato sovietico, svolta principalmente da Berkman. All’inizio del 1922, egli pubblicò su «Freedom» un articolo nel quale mo- strò di voler dar immediatamente battaglia contro il regime di Lenin e Trockij che fucilava gli anarchici. 148 Qualche mese più tardi, nell’apri- le, denunciò dalle pagine di questo foglio anarco-comunista le menzogne bolsceviche sugli anarchici e in particolare su Machno, il quale, a suo giudizio, era stato l’eroe dei contadini in lotta contro le requisizioni e la coscrizione obbligatoria imposte tanto dai «bianchi» quanto dai «rossi». 149 L’attività frenetica di scrittore culminò nel pamphlet The Russian Tragedy nel quale denunciò l’«idiozia criminale» e la «prostituzione letteraria» dei simpatizzanti occidentali del regime sovietico, i quali non erano in grado di cogliere l’estrema forma di oppressione statale da esso realizzata. Scrisse che: Arresti, ricerche notturne, […] esecuzioni sono all’ordine del giorno. Le commissioni straordinarie (Čeka), originariamente organizzate per com- battere la contro-rivoluzione e la speculazione, stanno diventando il terrore di ogni lavoratore e di ogni contadino. I suoi agenti segreti sono dovunque, sempre dediti a scoprire «trame», in concreto a sparare a centinaia di persone senza udienza, processo o appello. 150
Berkman ricondusse lo scatenamento della violenza comunista al tra- monto della democrazia operaia, di cui la rivolta di Kronstadt era stata l’ultimo tragico vessillo. Tuttavia, egli aveva fatto già un passo in avanti nella comprensione della fondamentale differenza esistente tra uno stato di diritto e uno stato di polizia, accettando, pur a malincuore, che quest’ulti- mo potesse nascondersi sotto le insegne del socialismo e della libertà. An- che a Berkman le realizzazioni del bolscevismo al potere apparvero come un ritorno indietro più che un avanzamento della vita sociale. Si consideri Men’s Association for Anarchists and Anarcho-Syndacalists Imprisoned or Exiled in Russia 1923-1931), London, Kate Sharpley Library/Alexander Berkman Social Club, 2010, p. 1. 148. L’articolo Bolsheviks shooting anarchists è conservato ibidem. 149. Il testo è conservato in International Institute of Social History (Amsterdam), Alexander Berkman Papers, Articles and Notes, 183, Manuscript of «Some Bolshevik Lies about the Russian Anarchists», February 1922. With a copy of «Freedom», April 1922, in which it was published. 150. Il testo è conservato in International Institute of Social History (Amsterdam), Al- exander Berkman Papers, Articles and Notes, Manuscript of «The Russian Revolution – A Review and an Outlook», p. 12.
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soltanto come, in uno dattiloscritto del 1922, Berkman definì il regime sovietico agli esordi della NEP: esso era un insieme di «capitalismo primi- tivo» e «dispotismo non mitigato con un potere di governo assoluto nelle mani di una piccola clique comunista» 151 . Ora, carattere primitivo dell’economia e dispotismo erano tratti che mostravano che il bolscevismo mirava ad impadronirsi di una parte del mondo borghese, il mercato, rifiutandone un’altra, ossia l’impalcatura di norme che lo regolavano. Consapevole della realtà del capitalismo mo- derno, Berkman affermò che quest’ultimo poteva funzionare soltanto se la «sicurezza personale, la libertà di movimento, la santità dell’investimen- to e una qualche fiducia nella relativa stabilità dell’ordine esistente delle cose» fossero garantite giuridicamente. Proseguì, osservando che «tutto ciò manca sotto il regime della dittatura comunista, e perciò una ripresa della vita industriale ed economica della Russia è fuori questione». Sol- tanto un cambio di rotta nella direzione delle «riforme radicali», dei «di- ritti popolari e libertà civili» e dell’abolizione del «terrorismo» avrebbe reso possibile la ricostruzione economica e sociale dell’immenso spazio sovietico. 152 Berkman sottovalutò certamente le possibilità di ripresa che la NEP conteneva in sé, grazie al compromesso che il regime sottoscrisse con i contadini, le nazionalità e gli «specialisti borghesi». 153 Allo stesso tempo però, egli intuì che l’accordo tra libertà economica, peraltro molto relativa, con l’impalcatura ferrea di uno stato di polizia, organizzato su basi ideologiche, non fosse fatto per durare a lungo. Il lavoro di documentazione che si è presentato fu utilizzato a piene mani dall’autore forse più importante di questi primi anni di vita del regi- me. Mi riferisco a Sergej Mel’gunov, il quale pubblicò a Berlino nel 1923 Krasnyj terror v Rossii 1918-1923 (Il terrore rosso in Russia 1918-1923). Quest’opera uscì in un clima fortemente conflittuale, culminante nel tenta- tivo fallimentare della rivoluzione comunista in Germania nell’ottobre del- lo stesso anno. Pubblicata in russo per l’editore Vataga, l’opera fu tradotta dallo stesso editore in tedesco. L’edizione in lingua inglese del 1925, The Red Terror in Russia, riguardò Gran Bretagna e Canada, mentre la prima 151. Il dattiloscritto è conservato in International Institute of Social History (Amster- dam), Alexander Berkman Papers, Articles and Notes, 185, Manuscript of the article «The Bolshevik Government and the Anarchists», October 1922, p. 1. 152. Ivi, p. 5. 153. Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, pp. 175-182.
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versione francese, con alcune aggiunte, risalì al 1927, allorquando l’autore si era stabilito a Parigi. Allo stesso anno risale la versione spagnola. 154 Al di là della circolazione, quest’opera ebbe il merito di concettualizzare, e inquadrare storicamente, le forme e la funzione del terrore sovietico, che l’autore stesso aveva vissuto sulla propria pelle. Animatore prima della guerra della casa editrice Zadruga, studioso di storia e specialista di proble- mi religiosi, Mel’gunov, in quanto dirigente del Partito socialista-popolare, incappò presto nella macchina repressiva della Čeka. Processato nel 1920 per l’appartenenza a gruppi cospirativi collegati con gli eserciti bianchi, venne condannato alla pena di morte, anche se poi questa fu commutata a dieci anni di prigione. Grazie all’intervento di esponenti dell’Accade- mia delle Scienze, di Vera Figner e, poco prima che morisse, dello stesso Kropotkin, Mel’gunov fu rilasciato il 13 febbraio 1921 dopo un anno di reclusione nella prigione di Butyrka. La sua esperienza di oppositore, con- clusasi con l’emigrazione a Berlino nell’ottobre 1922, fu dunque all’origi- ne della riflessione sul terrore sovietico. 155 Conosciamo già alcune delle fonti che egli mise a profitto: le testimo- nianze di Köhrer, Lokerman e Vaucher, la Collection britannica, la stampa socialista rivoluzionaria, il volume Če-ka e infine i documenti della Com- missione Denikin. Sostenuto da questo apparato documentario, arricchito da molti altri riferimenti in russo, tedesco, francese e inglese, Mel’gunov descrisse in modo particolareggiato le forme del «terrore rosso», smontan- do l’idea, così cara a tanta parte della sinistra internazionale, che esso do- veva esser considerato alla stregua di una reazione legittima all’aggressio- ne perpetrata dalla controrivoluzione interna e internazionale. Dopo aver vagliato un nutrito corpo documentario, Mel’gunov concluse senza indugi che queste idee erano sbagliate. Scrisse: La dichiarazione dei bolscevichi che il terrore rosso è stato provocato da un terrore «bianco» risponde esclusivamente a intenti demagogici: motivava «l’eliminazione dei nemici di classe che tramavano per mandare al patibolo il proletariato operaio-contadino». È lecito pensare che proprio appelli di que- sto tenore all’Armata Rossa abbiano fin dall’inizio reso la guerra civile così accanita, crudele e veramente efferata. 156 154. Sergio Rapetti, Nota biobliografica: Sergej P. Mel’gunov, vita e opere, in Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia, p. 47. 155. Ivi, pp. 41-47. 156. Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia, p. 157.
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Questa osservazione giunse non a caso dopo lunghe pagine dedicate all’impatto brutale dell’Armata Rossa sulle campagne sovietiche, dove evi- dentemente il problema non era stato esclusivamente quello dello scontro con gli eserciti bianchi, ma principalmente quello del controllo delle risor- se dei contadini. Mel’gunov citò l’ordine di una commissione plenipoten- ziaria, emanato l’11 giugno 1921 con l’obbiettivo di rafforzare la gestione militare delle campagne in via di pacificazione. Per far fronte alle ultime sacche di resistenza, ridotta oramai a casi di famiglie che nascondevano gli ultimi insorti o armi, si invitava a «fucilare sul posto e senza processo», a «prelevare ostaggi tra i contadini» e a procedere «all’arresto e alla depor- tazione dal governatorato con confisca delle proprietà». 157 Da documenti come questo, era difficile trarre la conclusione che il terrore sovietico era stato un terrore difensivo, volto a respingere nemici pericolosi. Nel ragionamento di Mel’gunov insomma il terrore aveva un carat- tere, per così dire, originario, funzionale al radicamento con tutti i mezzi possibili del partito bolscevico dentro lo stato e la società in costruzione. Se al posto del consenso si era deciso di utilizzare l’intimidazione e la violenza su larga scala, allora era evidente che l’istituzione chiave del re- gime non era il partito, bensì l’apparato della Čeka, con la sua specifica funzione di braccio armato del potere, il suo disprezzo per ogni limite e infine i suoi meccanismi di reclutamento tra la feccia degli strati più bassi della popolazione. Il capitolo che Mel’gunov dedicò specificatamente ai metodi «cekisti» si avvalse non soltanto delle fonti summenzionate, ma anche dei ricordi personali del periodo che egli aveva trascorso in prigione. Complessivamente, emerse un quadro terribile dove fame, freddo, sporci- zia e malattie erano il pane quotidiano dei detenuti. La parte più rilevante fu probabilmente quella dedicata alle torture, di cui furono protagonisti ad esempio gli uomini del comandante della Čeka a Char’kov. 158 Nel complesso, il lavoro di Mel’gunov costituì il punto di approdo di un’intera stagione di lavoro informativo sul terrore bolscevico iniziato nel 1918. Il merito dell’autore fu grande. Innanzi tutto, seppe utilizzare un corpus documentario che era certamente incompleto e non sempre affida- bile, ma che egli riuscì mettere a frutto, appoggiandosi sulle proprie com- petenze di storico. Ad esempio, affermò con argomenti inoppugnabili che i documenti prodotti dalla commissione Denikin erano affidabili, stigma- 157. Ivi, p. 151. 158. Ivi, pp. 175-176.
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tizzando semmai il «truismo» di coloro i quali screditavano le deposizioni dei testimoni raccolte dalla commissione in quanto soggettive. 159 Tuttavia, il merito più grande fu di aver concettualizzato la natura stessa del terro- re. L’ideazione, i metodi e finanche gli uomini a cui il potere ne affidò la realizzazione mostravano che esso non possedeva affatto una dimensione difensiva, caratterizzandosi piuttosto come strumento decisivo per la co- struzione di uno stato di tipo nuovo. Questa consapevolezza non era natu- ralmente una sua esclusiva, ma Mel’gunov fu colui il quale sistematizzò un giudizio storico-politico di capitale importanza, fondandolo su uno scavo documentario di prim’ordine. Riepilogando quanto si è detto negli ultimi due paragrafi, l’intera fase 1918-1922 fu oggetto di un intenso dibattito all’interno della sinistra oc- cidentale, suscitato in gran parte dalle iniziative degli esuli russi. Una do- cumentazione inoppugnabile rese impossibile agli amici internazionali del bolscevismo negare il carattere brutalmente violento del regime di Lenin, spingendoli semmai a giustificarlo come una necessaria reazione rispetto all’aggressione controrivoluzionaria. Questa giustificazione fu confutata con decisione e, come si è visto, sulla base di un apparato documentario di prima qualità. I critici del potere sovietico dettero dunque forma all’im- magine di un regime di tipo militare, disposto ad impiegare metodi brutali pur di realizzare la totale sicurezza dello stato, con l’evidente implicazione che il terrore scatenato a partire dalla seconda metà del 1918 era stato una scelta originaria, espressione di un determinato modo di intendere l’edifi- cazione del socialismo con metodi bellici. 5. «Lettere dalle prigioni russe». La solidarietà internazionale al tempo della NEP La dimostrazione più evidente del carattere «ambiguo» della NEP, a metà strada tra liberalizzazione dell’economia e riproduzione del mono- polio del partito al potere, è data dal fatto che la fuoriuscita dalla guerra civile, nella quale aveva imperversato la Čeka con i suoi metodi brutali, non coincise con il ripristino delle garanzie elementari dei diritti civili e politici, proprie di uno stato di diritto. Piuttosto, questo passaggio segnò l’avvio della formazione di un apparato repressivo permanente, che prese 159. Ivi, p. 64.
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adesso il nome di Direzione politica di stato (GPU), mantenendo ai suoi vertici Dzeržinskij. 160 Nel febbraio 1922, contestualmente a questa riorga- nizzazione, fu deciso di smantellare i campi allestiti nel 1918, realizzando al loro posto un duplice sistema: da un lato, i Commissariati degli interni e della giustizia vennero incaricati di occuparsi del sistema carcerario e coloniale, dall’altro la nuova GPU (OGPU dal 1923) venne investita del compito di gestire i «campi a destinazione speciale» (SLON), situati presso le isole Solovki, un arcipelago nel Mar Bianco a meno di duecento chilo- metri di distanza dal circolo polare artico. 161 Questa soluzione fu pensata per la punizione dei crimini contro-rivo- luzionari e di altri che minavano gli interessi dello stato (quali forme estese di banditismo e falsificazione monetaria). Nello stesso 1922, fu promulga- to il codice penale che non mise fine al terrore, semmai gli fornì una base legale più solida, come disse espressamente Lenin a Kurskij, commissario del popolo alla giustizia. 162 Il nuovo codice estese grandemente i crimini controrivoluzionari, i quali, nel corso della revisione del codice stesso nel 1926, furono definitivamente fissati nel celebre articolo 58. Le persone designate come criminali entrarono dunque nella giurisdizione d’eccezio- ne della OGPU, la cui Conferenza speciale detenne da allora il potere di condannare a pene di detenzione nei campi dai tre ai cinque anni, e inviare i condannati alle Solovki. Queste isole divennero in sostanza il terminale dello Stato di polizia sovietico ai tempi di NEP, il luogo dove peraltro si prese a sperimentare il lavoro forzato come metodo di rieducazione. La rieducazione venne di fatto a coincidere con l’inquadramento delle energie fisiche e mentali dei prigionieri nello sforzo produttivistico del regime. 163 La sinistra internazionale critica del regime sovietico fu inizialmen- te disorientata da questo processo di legalizzazione del terrore, basato su elementi di continuità e discontinuità rispetto alle pratiche repressive del recente passato. Una marcata diversità di giudizio sul regime sovietico 160. «Fu così – è stato scritto – che proprio negli anni della NEP vennero poste le basi di quell’onnipresente e onnipotente Stato di polizia, che avrebbe costituito il massimo elemento di continuità e il tratto fondamentale del sistema sovietico per l’intera durata della sua esistenza». Cinnella, La Russia di Stalin, p. 159. 161. Anne Applebaum, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Milano, Mondadori, 2003, pp. 47-69. 162. Le Goulag. Témoignages et archives, Édition établie, annotée et présentée par Luba Jurgenson et Nicolas Werth, Paris, Éditions Robert Laffont, 2017, pp. 34-35. 163. Ivi, p. 36.
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accompagnò le iniziative prese a livello internazionale a favore dei pri- gionieri delle Solovki. La parte maggioritaria della sinistra internazionale (soprattutto, la sua componente socialista) era convinta di poter giocare un ruolo di primo piano nel favorire una liberalizzazione politica del regi- me a seguito della liberalizzazione economica impostata dalla NEP. Una parte minoritaria invece non si fece illusioni, convinta che la persistenza dell’autoritarismo e del ruolo abnorme degli apparati di sicurezza nella vita dei cittadini sovietici avrebbe alla fine reso precario lo stesso processo di liberalizzazione dell’economia. Pur partendo da condivise premesse di ca- rattere umanitario, le conclusioni sul terreno politico furono quindi diame- tralmente opposte. Ripercorrendo le iniziative più importanti, ci accorgere- mo che l’afflato umanitario a sostegno dei prigionieri avvicinò vari gruppi della sinistra progressista, socialista e anarchica, senza tuttavia produrre necessariamente un significato condiviso delle battaglie intraprese. Una frattura interpretativa si era dunque verificata tra due modi di raffigurare il posto del regime sovietico nella traiettoria del progresso storico. E questa frattura fu in un certo senso definitiva, destinata a riproporsi anche negli anni Trenta, sia pure in forme diverse. La nascita dell’Internazionale socialista e operaia (LSI) nel 1923 rap- presentò la presa d’atto dell’esistenza di una distanza siderale tra socialisti e comunisti, messa ben in evidenza dall’esito del processo contro i sociali- sti rivoluzionari a Mosca. Tra 1923 e 1925 la questione dei prigionieri e la repressione sovietica in Georgia sollevarono uno sdegno unanime, anche se presto emersero interrogativi sulla strategia da adottare. Ci si doveva limitare a una denuncia sul piano morale, auspicando la liberalizzazione del regime sovietico, oppure battersi con maggiore impegno, affermando che prestiti e riconoscimento diplomatico dovevano essere subordinati a una maggiore disponibilità sul terreno dei diritti civili? Queste domande rimasero puramente teoriche nel corso del 1923, ma acquistarono più senso in seguito. Nel corso del 1924, con il tentativo di rivoluzione in Germa- nia dell’ottobre 1923 alle spalle, molte cose cambiarono: Stalin impose la centralità della costruzione socialista in URSS, obiettivo che gli stessi partiti aderenti al Comintern dovevano perseguire. Fu ricomposta sia pure a fatica la ferita nelle relazioni con la Germania di Weimar, ridando credito da ambo le parti allo «spirito di Rapallo» con il suo corollario di collabora- zione sul terreno economico e militare. Soprattutto arrivarono nel corso di quest’anno i successi diplomatici: il riconoscimento ufficiale da parte della Gran Bretagna a guida laburista (il primo governo MacDonald) e quello
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dell’Italia fascista. Un grande successo diplomatico fu raggiunto in ottobre con il riconoscimento da parte del governo francese di Édouard Herriot, a capo del cartello delle sinistre che aveva vinto le elezioni in primavera. 164 L’afflato comune per la sorte dei prigionieri fu forte sin dagli esor- di della nuova organizzazione socialista internazionale, grazie alle notizie che giungevano ininterrottamente dalla Russia. Alla vigilia del congresso di Amburgo della LSI, che fu inaugurato il 21 maggio 1923, un gruppo di detenuti della prigione di Taganka riuscì a far recapitare un appello, nel quale si avvertiva che erano all’ordine del giorno situazioni «sconosciute persino nei peggiori momenti dello zarismo». I prigionieri dettero queste informazioni: Anziani sono stati esiliati nella tundra siberiana o mandati in campi di con- centramento sulle spiagge del Mar Bianco a morire di fame sulla base di un mero sospetto circa la loro appartenenza alla socialdemocrazia o per appar- tenere ufficialmente a quel partito; intellettuali e lavoratori, senza distinzione di età e di sesso, giovani e ragazze di 18-19 anni, vecchi militanti che hanno spesso alle spalle molti anni nelle prigioni o in esilio sotto lo zarismo sono stati esiliati senza processo o persino senza interrogatorio. Durante questi mesi soltanto, diverse centinaia di socialdemocratici, socialisti rivoluzionari e anarchici sono passati nelle prigioni moscovite. 165
Secondo la delegazione socialista rivoluzionaria all’estero, la situazio- ne rischiava di peggiorare dopo l’assassinio a Losanna di un diplomatico sovietico, occorso il 10 maggio. I socialisti non erano coinvolti nell’atten- tato, che fu infatti attribuito dalle autorità svizzere a un emigrato bianco, ma l’occasione era buona per la stampa sovietica di minacciare brutalmen- te ritorsioni verso i prigionieri socialisti nei campi. 166 Durante i lavori del congresso di Amburgo fu votata una risoluzione Sulla Russia nella quale 164. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 173 sgg. 165. Il testo dell’appello è conservato in International Institute of Social History (Am- sterdam), Labour and Socialist International Archives, Russland, Dossiers und Dokumente, 2593, An appeal to the Hamburg Congress von verhafteten Sozialdemokraten in Moskau, 1923. 166. Si legge in un comunicato: «Nei campi di concentramento di Pertominsk e So- lovetsk regnavano condizioni terribili che dovevano uccidere lentamente uno a uno i loro prigionieri – i socialisti. I primi, e forse non gli ultimi, suicidi del S.D. Aronowitch e del S.R. Sandomitch. Aronowitch e del S.R. Sandomir hanno confermato le nostre peggiori previsioni. Ora la stampa bolscevica minaccia apertamente di cambiare questo sistema crudele in uno an- cora più crudele, di iniziare un aperto terrore». Il comunicato si trova in International Institute
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la questione delle prigioni, delle deportazioni e dei campi venne sollevata con forza. Si richiese «l’immediata cessazione delle persecuzioni contro i socialisti e gli operai e contadini dissenzienti in Russia e nella Georgia occupata da truppe russe» e «l’immediata liberazione di tutte le persone che sono state condannate, imprigionate o esiliate per la propaganda delle loro posizioni politiche». Si andò più in là, richiedendo anche il «com- pleto abbandono del sistema della dittatura di partito terroristica e il pas- saggio al sistema della libertà politica e dell’autogoverno democratico del popolo» 167 . La nuova Internazionale socialista divenne dunque un punto di riferimento stabile per i prigionieri sovietici. Friedrich Adler e Tom Shaw, rispettivamente segretario e segretario aggiunto dell’Internazionale, invia- rono il 20 giugno successivo una circolare ai partiti affiliati, ricordando loro che la risoluzione votata al congresso doveva servire da guida per giudicare i fatti di cui si veniva man mano a conoscenza. Accanto al problema dei prigionieri, si stava imponendo nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica socialista internazionale la questione georgiana, e delle nazionalità in generale. 168 È stato scritto che tra 1923 e 1927 si verificò «una pausa nello scontro tra il regime e la società» e che fu realizzato un sistema di compromessi (con i contadini, le nazionalità e gli «specialisti borghesi»), senza che tuttavia questa pausa e questi com- promessi impedissero la formazione dei campi speciali e la repressione sistematica alla periferia dell’impero. Nel 1923 venne domata la rivolta dei basmachi in Asia centrale, una rivolta spontanea contro l’oppresso- re russo, il quale, vestiti panni sovietici, adottò i metodi di una guerra di pacificazione coloniale. Nel 1924, l’insurrezione georgiana fu duramente repressa e infine nel 1925 giunse il momento della normalizzazione della Cecenia. 169 Queste situazioni critiche furono oggetto di dibattiti e iniziati- of Social History (Amsterdam), Partija Socialistov-Revoljucionerov (Rossija) Archives, Cor- respondence,1012-1014, Correspondence with individual socialist parties 1918-1925. 167. Citato in Andrea Panaccione, Presupposti e linee di sviluppo del dibattito nella IOS sul bolscevismo e sull’Urss, in L’Internazionale operaia e socialista tra le due guerre, a cura di Enzo Collotti, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 337. 168. La documentazione a riguardo è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International Archives, Russland, Dossiers und Dokumente, 2594, Zirkulare betr. den bolschewistischen Terror in Russland und Georgien. 1923. Sul ruolo di Adler si veda Enzo Collotti, Appunti su Friedrich Adler segretario della Internazionale Operaia Socialista, in L’Internazionale operaia e socialista tra le due guer- re, pp. 65-103. 169. Werth, Uno stato contro il suo popolo, pp. 128-129.
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ve all’interno del socialismo internazionale, che sentiva come propria la causa delle nazionalità oppresse: soprattutto la Georgia per l’esistenza di un forte legame politico (e sentimentale) con l’esperienza della repubblica democratica guidata dai menscevichi tra il 1918 e il 1921, prima che questa venisse distrutta dall’invasione sovietica. 170 Conviene dunque fare un passo indietro. Nell’estate del 1920 figure eminenti del socialismo quali Vandervelde, Kautsky, Camille Huysmans, MacDonald, Shaw e Ethel Snowden avevano viaggiato alla volta della Ge- orgia. 171 A quel tempo, il governo menscevico georgiano incarnava agli occhi del socialismo internazionale un esperimento di governo di sinistra in una nazione di contadina, ossia un’alternativa democratica al socialismo militare dei bolscevichi. Kautsky restò in Georgia fino al gennaio 1921, poche settimane prima che l’Armata Rossa invadesse il paese e mettesse fine a questo esperimento, normalizzando il paese attraverso il dispiega- mento di una repressione capillare. Kautsky trasse dal suo soggiorno l’idea di scrivere un volume, che realizzò nel settembre successivo, allorquando la bolscevizzazione della Georgia era oramai avviata da mesi. Il grande teorico del socialismo si sforzò di persuadere i suoi lettori dell’opposizione tra i «metodi georgiani di socializzazione» e quelli propri del «socialismo da caserma» dei bolscevichi. Questi ultimi immaginavano che l’economia potesse essere gestita «con una rigida centralizzazione dell’insieme del- le forze produttive», a loro volta subordinate «alla dittatura di un piccolo comitato» che escludeva «ogni forma di autogoverno» 172 . La posizione di Kautsky rafforzò le ragioni dei dirigenti stessi del menscevismo georgia- no. Vojtinskij partecipò alla breve esperienza di governo come redattore 170. Stephen Jones, Between Ideology and Pragmatism: Social Democracy and the Economic Transition in Georgia 1918-21, in «Caucasus Survey», 1-2 (2014), pp. 63-68: Eric Lee, The Experiment: Georgia’s Forgotten Revolution 1918-1921, London, Zed Books Ltd, 2017. 171. Ethel Snowden raccontò come la delegazione aveva preso forma. Vedi il suo A Political Pilgrim in Europe, London, Cassell & Co, 1921, p. 189. Ella fu coinvolta grazie all’esperienza che aveva già fatto come membro di una delegazione britannica recatasi precedentemente in Russia, da dove riportò impressioni piuttosto negative, compresa quella del suo nuovo capo, Lenin, che ebbe la ventura di intervistare cfr. Ethel Snowden, Through Bolshevik Russia, London, Cassell & Co, 1920, pp. 115-119. 172. Karl Kautsky, Georgien. Eine Sozialdemokratische Bauernrepublik: Eindrücke und Beobachtungen, Wien, Verlag der Wiener Volksbuchhandlung, 1921, tradotto lo stes- so anno in inglese Georgia: A Social-Democratic Peasant Republic – Impressions and Observations, London, International Bookshops Limited, 1921.
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dell’organo governativo «Bor’ba» e poi come sostenitore della Repubblica georgiana in missione ufficiale in Francia e in Italia. 173 Cogliendo il perico- lo che la simpatia per il socialismo georgiano si diffondesse a livello inter- nazionale, Trockij attaccò Kautsky, accusandolo di aver scritto un «trattato pio, dedicato alla costruzione di un mito», quello appunto della Georgia socialdemocratica. 174 Il dibattito sulla Georgia riprese vigore in seguito, allorquando il pro- cesso di sovietizzazione non poté impedire la rivolta. Nonostante che la Čeka avesse esercitato fin dal 1921 un potere illimitato, collocandolo nel- le mani di Lavrentij Berija, un giovane destinato ad affermarsi ai vertici dello stato sovietico, alla fine dell’anno successivo nacque all’estero un comitato segreto che, assieme ad altri partiti antibolscevichi, organizzò l’insurrezione. Cominciata alla fine dell’agosto 1924, essa dovette affron- tare la macchina repressiva sovietica che entrò subito in funzione. Soltanto tra 29 agosto e 5 settembre furono fucilate 12.578 persone. 175 Le notizie rimbalzarono fuori dall’URSS. In Francia, sulle pagine di «Le Populaire» vennero condannate «le atrocità dell’armata bolscevica». Noj Žordanija, ex presidente della Repubblica georgiana, denunciò «la barbarie bolsce- vica di Mosca» che aveva inviato le truppe contro la popolazione inerme. Intervenne anche Cereteli, membro georgiano dell’Esecutivo dell’Interna- zionale socialista e operaia, puntando l’indice contro le decine di «fucilati senza sentenza» con il pretesto che i condannati avevano organizzato e guidato l’insurrezione. A nome della SFIO, e in qualità di direttore politico del giornale, Paul Faure avanzò l’ipotesi di un arbitrato internazionale. 176 Il 25 settembre l’assemblea della Società delle Nazioni votò una risoluzione a favore della Georgia, richiedendo al Consiglio di seguire con attenzione ogni opportunità possibile per migliorare la situazione in quei territori con 173. Ricavo la notizia da Panaccione, Una discussione, p. 24. Panaccione richiama le diverse edizioni del libro di Vojtinskij sulla repubblica georgiana: Wl. Woytinsky, Una vera democrazia (La Georgia), Roma, La Voce, 1920; Id. La démocratie géorgienne, Paris, Alcan, 1921. 174. Vedi Lev Trotzky, Between Red and White A Study of Some Fundamental Que- stions of Revolution, With Particular Reference to Georgia (Social Democracy and the Wars of Intervention), 1922. Questo scritto è riprodotto in https://www.marxists.org/archi- ve/trotsky/1922/red-white/index.htm. 175. Werth, Uno stato contro il suo popolo, p. 129. 176. Questi interventi si trovano in La Géorgie en révolte. Atrocités de l’armée bol- cheviste, in «Le Populaire», 18 settembre 1924, p. 1.
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mezzi pacifici e nel quadro della legalità internazionale. 177 E a Ginevra, nel corso dello stesso 1924, era nato un Comitato internazionale per la Georgia, presieduto da Jean Martin, redattore del «Journal de Géneve». Il Comitato esecutivo dell’Internazionale socialista si riunì a Londra, in occasione del sessantesimo anniversario della nascita della Prima Interna- zionale. Fu dichiarato un «sentimento di orrore» per quanto era accaduto e, allo stesso tempo, s’invitò i partiti socialisti a battersi per il ritiro delle truppe sovietiche come primo passo in vista di un «libero referendum del popolo georgiano». In questo documento, si richiese infine «un’amnistia generale» per i prigionieri politici georgiani in URSS, detenuti alle Solovki e negli altri campi e prigioni. 178 In vista del secondo congresso dell’LSI, programmato a Marsiglia per il 22 agosto 1925, Cereteli scrisse ad Adler e a Shaw una lettera nella quale era denunciata la «parodia cinica della sentenza» che aveva chiuso il processo contro il Comitato dell’indipendenza georgiana, accusato di aver organiz- zato la sollevazione dietro ordine di potenze straniere. Secondo Cereteli, i giudici non erano altro che loschi figuri, che già «avevano preso parte alle esecuzioni senza giudizio di migliaia di uomini». L’istruzione del processo si era basata essenzialmente su «deposizioni estorte nelle segrete della Čeka a delle persone semicoscienti, estenuate dalle torture». E infine, concluse che gli accusati non avevano potuto «scegliere i loro difensori, né indicare i loro testimoni, ben sapendo fin dall’inizio che ogni difensore o testimone richie- sto da loro» sarebbe diventato «dopo il processo una vittima della Čeka». 179 Il congresso di Marsiglia si concluse con un voto a favore di una risoluzione che auspicò il ritiro delle truppe sovietiche dalla Georgia. In virtù del suo ruolo di dirigente dell’Internazionale, Cereteli insi- stette anche in seguito sulla situazione dei prigionieri politici georgiani. Il 9 dicembre 1926 girò ad Adler il testo di un appello, che aveva appena ricevuto dalla Georgia, nel quale si richiedeva un sostegno finanziario per i prigionieri deportati alle Solovki, la cui situazione fu così descritta: 177. Assieme alla copia del resoconto della seduta del 25 settembre, si trova La situa- tion en Géorge. Rapport de la sixième commission à la cinquième Assemblée. https://ava. ge/archivarius/uploads/1/text_documents/7bf59faba7e952d6d370faf150758102.pdf 178. Une manifeste de l’IOS aux travailleurs de tous pays, in «Le Populaire», 15 ottobre 1924, p. 3. 179. Il testo è conservato in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International Archives, Georgien, Korrespondenz, 1656, Tseretelli, I. Paris. 1924-1930, 1934. 68 Bl.
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I detenuti, condannati dalla Čeka alla deportazione, furono indirizzati a Mo- sca dove furono messi agli ordini della OGPU. Dal 1924, i deportati politici georgiani vengono inviati per lo più alle SOLOVKI. I deportati partono da Tbilisi senza denaro, la maggior parte di loro è poco ve- stita, spesso mezza nuda, e senza alcuna speranza di essere salvata. – Quasi in ogni convoglio ci sono persone malate. 180
Il quadro generale del paese era dipinto a tinte fosche, con arresti e fucilazioni, seguite a sentenze di tipo amministrativo. L’attenzione dell’o- pinione pubblica internazionale restò viva ancora per qualche tempo, ali- mentata dalle attività del Comitato ginevrino di cui si è detto. Nel 1926, esso curò la pubblicazione del lavoro di Edgar Milhaud. 181 La questione georgiana s’intrecciò costantemente con quella dei prigionieri politici in generale. Al congresso di Marsiglia, un rapporto del PSR aveva ricordato innanzi tutto «quale commedia vergognosa si nascondesse sotto la masche- ra del Tribunale rivoluzionario» che aveva condannato il gruppo dirigen- te di quel partito nel 1922. Quanto al presente, si puntò l’indice contro i campi a destinazione speciale, sottolineando che «gli orrori delle Solovki» avevano «di molto sorpassato la triste gloria dei bagni zaristi». 182 L’afflato umanitario non bastò a produrre una visione condivisa della situazione sovietica. Per cogliere le distanze interne ai vertici del socia- lismo internazionale, si può partire dalle tesi espresse da Kautsky in Die Internationale und Sowjetrussland, un saggio pubblicato in tedesco dalla casa editrice della SPD e discusso al congresso di Marsiglia. 183 Il grande teorico socialista sostenne che la solidarietà con i prigionieri non era suf- ficiente. Piuttosto, i partiti aderenti all’Internazionale dovevano far pres- sione sui governi dei propri paesi affinché questi subordinassero prestiti e 180. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International Archives, Georgien, Dossier, Dokumente und Drucksa- chen, 1626, Dossier betr. den bolschewistischen Terror in Georgien (Deportation nach den Solowietski-Inseln usw.). 1926. 19 Bl. 181. Edgard Milhaud, La Géorgie, la Russie et la S.D.N., Genève, imp. du Journal de Genève, 1926. 182. Il rapporto è conservato in Partija Socialistov-Revoljucionerov (Rossija) Archi- ves, International contacts. Congresses and conferences, 1007-1008, Documents concer- ning the congress of the LSI in Marseille, 1925. 1924-1925, 1007: I. Rapport du Parti socialiste révolutionnaire russe, p. 1. 183. Karl Kautsky, Die Internationale und Sowjetrussland, Berlin, J.H.W. Dietz Na- chfolger, 1925. La traduzione in francese è L’Internationale et la Russie des Soviets, Paris, Librarie Populaire, 1925.
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aiuti al regime sovietico a una consistente liberalizzazione politica. 184 La proposta era coerente con il nuovo quadro internazionale, caratterizzato dal riconoscimento dell’URSS da parte dei governi britannico e france- se. 185 Secondo Kautsky, soltanto azioni incisive sul terreno degli scambi commerciali e delle transazioni finanziarie avrebbero potuto rafforzare la causa dei prigionieri politici in Unione sovietica. Era tuttavia una posizio- ne minoritaria che non riuscì a orientare le azioni del movimento socialista nel suo complesso. L’altro aspetto del ragionamento di Kautsky prese spunto dalla re- pressione dell’insorgenza georgiana. A suo giudizio, la tradizionale presa di posizione contro forze reazionarie interne e internazionali che minava- no il regime sovietico era diventato uno stanco ritornello dei tempi della guerra civile. Ora, era giunto il momento di guardare in faccia la realtà e sostenere – o quantomeno non condannare – insorgenze popolari rivol- te ad instaurare un regime democratico nei territori sovietici. Il motivo della rivoluzione democratica si impose dunque nella proposta politica di Kautsky parallelamente al tentativo di confutare l’argomento retorico della solidarietà rivoluzionaria internazionale. Il putsch dell’ottobre 1917 costi- tuiva ai suoi occhi infatti una frattura irreparabile, della quale si doveva adesso finalmente prendere atto, sostenendo dunque quelle forze interne all’URSS che si battevano per una nuova rivoluzione di carattere democra- tico. Kautsky infine non esitò ad illustrare le analogie esistenti tra fascismo e comunismo come regimi a partito unico, ostili alla libertà di informazio- ne e dotati di un vasto apparato di polizia. 186 I ragionamenti di Kautsky non erano condivisi da molti altri dirigenti. In particolare, Otto Bauer si dimostrò ostile a questo tipo di concettualiz- zazione «proto-totalitaria», convinto che il regime sovietico, incalzato con continuità e pazienza dal socialismo internazionale, avrebbe prima o poi imboccato la strada di una graduale democratizzazione. Violenze, repres- sioni e distruzione dello stato di diritto rappresentavano sì aspetti odiosi del regime bolscevico, non costituendo tuttavia il nocciolo della opera di quest’ultimo. Esso si trovava invece alle prese con un intenso sforzo di 184. Su questo passaggio importante si veda ancora il saggio di Panaccione, Presup- posti e linee di sviluppo del dibattito nella IOS, pp. 342-346. 185. Per un quadro generale, A. Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo. Mosca, il Komintern e l’Europa di Versailles (1918-1928), Roma, Carocci, 2004. 186. Andrea Panaccione, Kautsky e l’ideologia socialista, Milano, Franco Angeli, 1980.
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modernizzazione economica e sociale che il socialismo internazionale era chiamato a sostenere, pur non condividendone i metodi. Bauer aveva di- stinto sin dal 1920, come è noto, le diverse traiettorie che la rivoluzione proletaria era destinata a percorrere. Pur estraneo alla prassi della democra- zia politica, caratteristica della rivoluzione in Occidente, il regime fondato da Lenin gli apparve comunque iscritto nella storia delle grandi rivoluzio- ni, destinato dunque a contribuire all’emancipazione dell’umanità dall’op- pressione sociale. Il confronto tra fascismo e comunismo non era pertanto possibile dal suo punto di vista, giacché le dittature non potevano essere considerate tutte nello stesso modo: alcune erano il prodotto della reazione contro il cambiamento della società, altre erano invece il prodotto stesso di questo cambiamento in determinate situazioni. 187 Liebich ha sottolineato come nel corso degli anni Venti i menscevichi provarono a barcamenarsi tra i due poli opposti rappresentati da Kautsky e Bauer, assumendo all’in- terno dell’LSI una sorta di «giurisdizione» sulla questione russa, che decli- narono nei termini che tutto il mondo socialista condivideva: la denuncia dei maltrattamenti subiti dai prigionieri politici. 188 Al loro interno tuttavia il contrasto di idee attorno al regime sovietico si fece sempre sentire, con- tenuto, per qualche tempo ancora, dalla «linea Martov». La strada indicata da Kautsky (cioè fare pressioni sui governi) ebbe poco successo: anche laddove la sinistra era giunta al potere, gli accordi commerciali con l’URSS pesarono ben più dei diritti umani. Il caso del primo governo MacDonald è espressivo di questa situazione: all’inizio del febbraio 1924 fu sancito il riconoscimento diplomatico del governo sovie- tico e nell’aprile iniziarono le trattative per un primo accordo commerciale in agosto. 189 Tutti gli sforzi fatti dagli esuli russi per far pressione sul gover- no laburista caddero nel vuoto. Quando circolò la notizia che il 19 dicem- 187. Ewa Czerwińska-Schupp ha scritto che Bauer era convinto del «carattere pro- gressivo del bolscevismo» e che concepì l’idea di un socialismo «senza premesse democra- tiche». Evidentemente, al di là di ogni discorso sull’arretratezza, la democrazia era priva per lui di un «valore intrinseco», Ewa Czerwińska-Schupp, Otto Bauer (1881-1938): Thinker and Politician, Leiden-Boston, Brill, 2017, p. 233. Le prime riflessioni di Bauer sulla rivo- luzione bolscevica sono discusse in Christine Buci-Glucksmann, L’austro-marxisme face à l’expérience soviétique. Aux origines d’une «troisième voie»? in L’URSS vue de gauche, a cura di Lilly Marcou, Paris, Press Universitaire de France, 1982, pp. 71-91. 188. Liebich, From the Other Shore, pp. 167-169. 189. Andrew J. Williams, Labour and Russia. The Attitude of the Labour Party to the USSR, 1924-1934, Manchester-New York, Manchester University Press, 1989.
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bre 1923 alcuni prigionieri delle Solovki erano stati freddati dalle guardie, Vasilij V. Suchomlin, rappresentante dei socialisti rivoluzionari nell’ese- cutivo dell’LSI, redasse un memorandum, indirizzato a MacDonald, nel quale menzionò «la tragedia del 19 dicembre». Scrisse che,uccidendo a sangue freddo dei prigionieri, il regime fondato da Lenin «sorpassava in crudeltà» il regime zarista. 190 Anche i menscevichi erano fiduciosi che un governo amico come quello laburista e i dirigenti dell’LSI potessero fare qualcosa. 191 I menscevichi chiesero misure concrete a difesa dei prigionieri diret- tamente ad Adler, il quale era d’accordo che qualcosa andasse fatto. Egli stesso scrisse il 22 ottobre 1924 a Charles Buxton, leader socialista britan- nico e tesoriere dell’Indipendent Labour Party che: «i nostri amici russi, piuttosto giustamente, desiderano che le condizioni di vita presso le isole Solovki siano esaminate da osservatori non tendenziosi». Dietro l’espres- sione «nostri amici russi» era celata la figura di Abramovič, il quale aveva inviato l’11 ottobre un messaggio contenente l’auspicio di una «Commis- sione sulla Russia». 192 Adler invitò più volte alla pazienza, probabilmente convinto che il governo laburista avrebbe alla fine mostrato un segno di interesse. Ma le cose non andarono così. Nessun esponente del governo MacDonald ricevette mai gli esuli russi e anzi la stampa laburista non volle pubblicare appelli, denunce e racconti sulle Solovki, partendo dal presupposto che la «comprensione» nei confronti del regime comunista, e non gli attacchi ripetuti, avrebbero migliorato la situazione dei prigio- nieri. Addirittura, MacDonald affermò a proposito dei prigionieri sovie- tici: «Non posso prendere parte a tutto questo. Se devono esserci degli approcci, essi non possono essere sottoposti a mia conoscenza o avanzati con il mio consenso». 193 Anche se molti esponenti comunisti internazionali 190. I memorandum è conservato in International Institute of Social History (Am- sterdam), Partija Socialistov Revoljucionerov (Rossija) Archives, Correspondence, 1012- 1014, Correspondence with individual socialist parties 1918-1925, 1012, Memorandum by Mr Vassily Soukhomline. Representative of the Russian Social Revolutionary Party on the International Executive. 191. Abraham Ascher, The Solovki Prisoners, the Mensheviks and the Socialist Inter- national, in «The Slavonic and East European Review», 109 (1969), pp. 423-435. 192. Le due lettere sono conservate in International Institute of Social History (Am- sterdam), Labour and Socialist International Archives, Russland, Dossiers und Dokumente, 2595, Dossier betr. die Gefangenen auf den Solowietski-Inseln. 1923-1924. 58 Bl. 193. Williams, Labour and Russia, p. 16.
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pensavano che MacDonald potesse essere un Kerenskij britannico, e che cioè la rivoluzione democratica avrebbe aperto le porte a quella comunista anche in Gran Bretagna, le cose non andarono così. La caduta del governo laburista rappresentò per Mosca la perdita di un interlocutore importan- te. 194 Un interlocutore oltretutto disposto a chiudere un occhio sulle notizie provenienti dalle prigioni e dai campi di concentramento sovietici. Gli «amici russi» di cui aveva parlato Adler svolsero comunque un lavoro di documentazione imponente, trasformando il memorandum so- pra menzionato in un volumetto uscito a Berlino nel 1925 per la casa editrice della SPD. 195 In esso, si intese indagare la «radice» del terro- re sovietico, sottolineando che quest’ultimo aveva dunque un carattere originario, non derivato dalla violenza e dagli attentati degli oppositori, come avrebbero voluto far credere i bolscevichi. Il terrore, come aveva già spiegato Mel’gunov, risiedeva nell’ideologia stessa e nelle pratiche del bolscevismo. Fu indagata pertanto la «pianificazione di un massiccio sistema» di arresti di massa, prigioni, esili e campi di concentramento. Compito dei socialisti europei – conclusero gli autori – era combattere la «dittatura antisocialista in Russia», un «sistema terroristico che […] non ha paralleli in nessun altro luogo». Queste parole pesavano come pietre in un contesto internazionale in rapida evoluzione. Dal piano Dawes, il piano di aiuti alla Germania attivato dagli Stati Uniti già nell’estate del 1924, agli accordi di Locarno dell’ottobre 1925, che prevedevano il rico- noscimento tedesco delle frontiere occidentali fissate a Versailles, appar- ve ai dirigenti sovietici evidente il rischio che la Repubblica di Weimar potesse venire risucchiata in una rete finanziaria e politico-diplomatica occidentale, mandando così in frantumi l’eredità di Rapallo con i suoi accordi tedesco-sovietici sul piano economico e militare. 196 D’altra parte neppure i rapporti con il governo statunitense erano buoni: tutta l’epo- ca dei presidenti repubblicani (come vedremo, Hoover compreso) mo- strò una riluttanza assoluta a riconoscere il governo sovietico sul terreno diplomatico. Sotto l’egida della LSI, il volumetto uscito a Berlino venne pubbli- cato negli Stati Uniti con un titolo leggermente diverso, affidato alle cure 194. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 186-188. 195. Der Terror gegen die Sozialistischen Parteien in Russland und Georgien, Berlin, J.H.W. Dietz Nachfolger, 1925. 196. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 189-193.
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del Committee for Political Prisoners in Russia. 197 Questo slargamento in direzione degli Stati Uniti fu molto importante, perché fece emergere un nuovo soggetto nella battaglia contro le prigioni sovietiche, ossia quella parte del mondo progressista statunitense che non era disposta a credere che violenza e repressione delle altre forze socialiste fossero necessarie per realizzare la grande emancipazione delle masse sovietiche. Roger Bal- dwin fu la figura chiave di questo interesse. Pacifista radicale di sinistra, e critico della restrizione dei diritti civili durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, egli fu a capo della American Civil Liberties Union. Fondò in seguito l’International Committee for Political Prisoners (ICCP), ossia una rete di comitati che nel 1925 patrocinò la pubblicazione di un volume dal titolo Letters from Russian Prisons per i tipi degli editori newyorkesi Albert and Charles Boni, i quali di lì a breve arricchirono il loro catalogo con opere di autori di sinistra come Max Eastman. 198 Nel milieu di sinistra a cui apparteneva Baldwin (aderirono all’ICCP Jane Addams, Eugene V. Debs, William Edward Burghardt Du Bois e Norman Thomas) l’interesse per la persecuzione globale dei prigionieri politici fu esteso alla metà degli anni Venti all’Italia fascista, alle colonie britanniche, al Giappone e alla Polonia. In realtà, le posizioni intorno all’URSS mostrarono una notevole di- somogeneità, quasi una polarizzazione, che abbiamo già notato a riguar- do del socialismo europeo: alcuni intrapresero una critica senza quartiere verso un regime ritenuto dispotico e sostanzialmente estraneo agli ideali dell’emancipazione delle masse popolari; altri, molto più cautamente, denunciarono gli aspetti brutali della dittatura sovietica, senza mettere in discussione che si trattava di un regime comunque impegnato nell’eman- cipazione delle masse operaie e contadine. Baldwin fu fautore di questa seconda, ottimistica, visione. Si legge nell’introduzione del volume: 197. Bolshevik Terror Against Socialists. Documents and Facts Collected by Authority of the Socialist Labor International, New York, Committee for Political Prisoners in Rus- sia, 1925. 198. International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons: Consisting of Reprints of Documents by Political Prisoners in Soviet Prisons, Prison Camps and Exile, and Reprints of Affidavits Concerning Political Persecution in Soviet Russia, Official Statements by Soviet Authorities, Excerpts from Soviet Laws Pertaining to Civil Liberties, and Other Documents, New York, Albert and Charles Boni, 1925. L’altra opera citata nel testo è Max Eastman, Marx and Lenin: The Science of Revolution, New York, Albert and Charles Boni, 1927.
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[…] molti dei membri del Comitato considerano la rivoluzione russa come il più grande e audace esperimento mai intrapreso per ricreare la società nell’in- teresse dei produttori e in termini di valori umani, per quanto difettoso possa essere stato il suo corso e per quanto scoraggianti i suoi numerosi compro- messi. Molti di loro guardano alla Russia di oggi come a un grande laborato- rio di esperimenti sociali di valore incalcolabile per lo sviluppo del mondo. È per questo motivo, tra gli altri, che si preoccupano che questo primo governo della classe operaia non riproduca le cattive pratiche dei governi reazionari di tutto il mondo. 199
Posizioni di questo genere si ritrovano in abbondanza in alcuni dei brevi scritti introduttivi affidati a grandi protagonisti della cultura libera- le, progressista e socialista di quel tempo, tra i quali Gerhart Hauptmann, Harold Laski, Albert Einstein, Thomas Mann, Romain Rolland, Bertrand Russell. Se Russell, già autore nel 1920 di un volume critico del bolscevi- smo, puntò l’indice contro la repressione sovietica, Rolland preferì usare un ambiguo metodo comparativo, asserendo che l’«ignominia» delle pri- gioni sovietiche faceva il paio con quella delle «prigioni della California, dove vengono martirizzati i lavoratori dell’IWW». 200 Rolland declinò ad- dirittura la proposta che Isaac Don Levine, uno dei curatori del volume, gli aveva rivolto per scrivere l’introduzione. Il rifiuto – scrisse – era deriva- to dalla volontà di non offrire «un’arma contro un partito nelle mani di altri partiti che non sono né meglio né peggio». 201 Un giudizio di questo tipo era tipico di persone distanti dai fatti in oggetto e che avevano a cuore più la difesa della tradizione rivoluzionaria, pensata come un monolite, che la conoscenza della verità. Pur confezionato con l’intento di risultare digeribile a tutto il mondo progressista, il volume si basò in realtà su un lavoro meticoloso di rac- colta di documenti senza che le contorsioni mentali di Rolland e Baldwin avessero un’influenza decisiva. Ciò fu dovuto al fatto che i centri di oppo- sizione russa in esilio (menscevico, socialista rivoluzionario e anarchico) si mobilitarono, riuscendo a coordinare un lavoro di raccolta di lettere e altri documenti che passarono le frontiere in qualche misura grazie anche 199. International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons, p. XV. 200. Ivi, p. 12. Il volume di Bertrand Russell è The Practice and Theory of Bolshe- vism, London, George Allen &Unwin LTD, 1920. 201. International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons, p. 13.
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l’organizzazione della Peškova. 202 Per le dichiarazioni di ex detenuti espa- triati fu fatto un lavoro di autenticazione notarile. Infine, si raccolsero fonti normative affinché il quadro delle prigioni sovietiche fosse completo, con le sue pratiche, la sua dura realtà, ma anche le sue leggi. A dimostrazione della tensione tra l’approccio di Baldwin e quello dei gruppi che partecipa- rono alla raccolta dei documenti si può fare riferimento al carteggio tra lo stesso Baldwin e Emma Goldman. Proprio tra 1923 e 1924, quest’ultima aveva raccolto in due volumi la serie di articoli pubblicati per il «New York World» nei quali espresse una forte delusione per la deriva autori- taria del regime fondato da Lenin. 203 Il carteggio con Baldwin permette di ricostruire la distanza che man a mano si era venuta a creare all’interno del mondo libertario e progressista americano, che a suo tempo aveva con- diviso l’antimilitarismo e le battaglie pacifiste. Una distanza derivata dal diverso giudizio sul regime sovietico. L’impazienza della Goldman per le simpatie che questo regime aveva riscosso nella sinistra americana emerse in una lettera del 18 marzo 1924. Ella condannò apertamente la «faccia menzognera del bolscevismo», de- nunciando Lenin come un «moderno inquisitore». Soprattutto si rivolse a Baldwin per conoscere la sua opinione sul «silenzio dei liberals americani». In una lettera successiva del 3 giugno, la Goldman insistette sul fatto che molte vite avrebbero potuto essere salvate se la sinistra radicale internazio- nale non fosse stata «sotto l’influenza ipnotica di Mosca». Goldman dovette constatare che Baldwin era molto sensibile al parere dei progressisti favo- revoli all’URSS. Quando infatti Baldwin arrischiò l’ipotesi che non esistes- sero gli estremi per una condanna definitiva del regime sovietico, Goldman reagì duramente, come si apprende da una lettera del 6 novembre: «ti stai mettendo nella posizione del cattolico medio», per il quale nessuna «quanti- tà di dati e fatti storici che riguardano la Chiesa cattolica sarà convincente». E proseguì: «Ora, ascolta, caro ragazzo: ti abbiamo mandato una lista di un migliaio di nomi di vittime sovietiche in prigione, campi di concentra- mento ed esilio. Questa lista è soltanto una parte molto piccola delle molte migliaia di persone che sono state incarcerate, affamate, torturate o anche 202. Galmarini ha ricordato che Peškova e altri dirigenti della Croce Rossa politica si muovevano piuttosto liberamente attraverso le frontiere con un visto polacco, Galmarini, Defending the Rights of Gulag Prisoners, pp. 16-17. 203. Emma Goldman, My Disillusionement in Russia, New York, Doubleday, Page and Co., 1923; Id., My Further Disillusionement in Russia, New York, Doubleday, Page and Co., 1924.
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fucilate». 204 L’irrigidimento della Goldman era espressione di una fatica che ella stava compiendo affinché la sinistra statunitense non venisse fagocitata da un filosovietismo che ne avrebbe a suo giudizio snaturato le ragioni. Al suo fianco operava da sempre Berkman il quale proprio nel 1925 pubblicò il suo diario russo e ucraino che copriva il periodo del 1920 e 1921. Berkman affidò la pubblicazione del suo scritto a Boni and Liveright, prima della separazione dei due tronconi della casa editrice. 205 L’interesse mostrato per la Rivoluzione russa era già emerso nella pubblicazione del celebre reportage di John Reed nel 1919. 206 Horace Liveright scrisse il 15 dicembre 1924 a Elinor Fitzgerald, agente letteraria di Berkman, che l’o- pera «venderà molte più copie sia a radicali sia a conservatori di qualsiasi altro titolo sul quale noi potremmo puntare». 207 Queste aspettative erano da mettere in relazione al fatto che si trattava di un testo davvero di grande pregio, perché si soffermava, tra altro, sulla guerra fatta dai bolscevichi a tutti gli altri rivoluzionari, con arresti, torture e invio nei campi. Berkman denunciò in queste pagine il «barbarismo intellettuale» e «il terrore irre- sponsabile» dei bolscevichi al potere. 208 La cronaca delle giornate della repressione della rivolta di Kronstadt dette la misura della scissione tra le azioni del bolscevismo al potere e la tradizione rivoluzionaria che esso comunque continuava a celebrare. Il lettore del 1925 poté leggere cosa Berkman aveva annotato a questo proposito nel 1921 su una pagina del suo diario: 17 marzo – Oggi Kronstadt è caduta. Migliaia di marinai e operai giacciono morti nelle sue strade. Continuano le esecuzioni sommarie di prigionieri e ostaggi.
204. Queste lettere sono conservate in International Institute of Social History (Am- sterdam), Emma Goldman papers, Correspondence with others, 52, Baldwin, Roger N. (New York, USA; Geneva, Switzerland). Per un resoconto della polemica tra i due, Robert C. Cottrell, Roger Nash Baldwin and the American Civil Liberties Union, New York, Co- lumbia University Press, 2000, pp. 176-177. 205. Alexander Berkman, The Bolshevik Myth Diary (1920-1922), New York, Boni & Liveright, 1925. 206. John Reed, Ten Days that Shooked the World, New York, Boni and Liveright, 1919. 207. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Alexander Berkman Papers, The Bolshevik Myth, 169, Correspondence relating to the pu- blication of The Bolshevik Myth by Boni & Liveright. 208. Cito dalla coeva edizione inglese: Alexander Berkman, The Bolshevik Myth Diary (1920-1922), London, Hutchinson, 1925, pp. 168-169.
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18 marzo – I vincitori celebrano l’anniversario della Comune del 1871. Trockij e Zinov’ev denunciano Thiers e Galliffet per il massacro dei ribelli parigini […] 209
Il libro ebbe recensioni positive come quella del «New York Times Book Review», ma fu sostanzialmente liquidato – assieme alle opere del- la Goldman – da scrittori e giornalisti progressisti. Sulle pagine di «New Republic», Jeremy Davis scrisse che «si ha l’impressione che la filosofia anarchica degli autori produrrebbe un risultato di ostilità nei confronto di qualsiasi governo». 210 Tornando a Letters from Russian Prisons, il risultato delle tensioni in- terne al mondo progressista fu evidente nella composizione stessa del vo- lume. Nell’introduzione di Baldwin, fu evidente il tentativo di caratteriz- zare la critica delle prigioni sovietiche come una critica in definitiva amica del regime, svolta nell’auspicio di una liberalizzazione prossima delle po- litiche repressive di quest’ultimo; dall’altro, la messe di testimonianze e in- formazioni pubblicate nel testo suggerirono la realtà di un regime dispotico difficilmente assimilabile all’immaginario progressista della grande Rivo- luzione russa, erede di quella francese. Le lettere innanzi tutto mostrarono il quadro della più brutale negazione dello stato di diritto: arresti in mez- zo alla strada, senza mandato scritto (ma con la pistola puntata), irruzioni notturne in appartamenti o rapimenti per la via, soggiorno in prigioni so- vraffollate, dove regnavano sporcizia, malattie e fame. E ancora, assenza di comunicazione delle ragioni per cui si era arrestati in un crescendo di arbitrio puro che – al posto del processo con testimoni, garanzie e avvo- cati liberamente scelti – arrivava alla comunicazione amministrativa della condanna: un altro carcere, l’esilio in luoghi lontani, oppure l’espulsione sulla base del codice criminale che definiva l’attività controrivoluzionaria. Tra le tante testimonianze di questa brutalità, vale la pena di citare On vacation in Narym, già pubblicata da «Socialističeskij Vestnik» nel 1924. Pur rimasta anonima, questa testimonianza ben illustra la situazione dei prigionieri spediti in una lontana destinazione siberiana, situata sul fiume Ob’ nella provincia di Tomsk. Si legge: 209. Ivi, p. 303. 210. La recensione è conservata in International Institute of Social History (Amster- dam), Alexander Berkman Papers, The Bolshevik Myth, 171, Clippings of reviews of The Bolshevik Myth and pamphlet The Anti-Climax containing the final chapter omitted from the book.
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Gli esuli del Narym sono così fortemente isolati dal resto del mondo che solo le lettere che riguardano la salute dei parenti o la nostra salute possono spe- rare di arrivare a destinazione. Qualsiasi altro messaggio, anche le lamentele contro l’illegalità e la crudeltà dei nostri funzionari, indirizzate da noi alle autorità superiori, non arrivano. Un telegramma da noi inviato a Peškova della «Croce Rossa» è rimasto in archivio in uno degli uffici locali. Eppure la condizione degli esuli e il sistema dell’esilio sono tali che a volte si è terroriz- zati da questo terribile isolamento […]. A tutte le nostre proteste sul fatto che non siamo stati condannati da un tribunale, che siamo socialisti in esilio, c’è una sola risposta: «Sappiamo che siete criminali condannati, che avete perso tutti i vostri diritti». 211
La strada per giungere a destinazione non era stata da meno: Avevamo trascorso molto tempo in diverse prigioni «G.P.U.», in celle umide, senza mai respirare l’aria aperta, senza il permesso di vedere i nostri paren- ti, privati del diritto di corrispondenza, le finestre delle nostre celle sempre chiuse per ordine […] Avevamo vissuto la sudicia e affollata associazione con i criminali comuni lungo il percorso, soffrendo per le cimici, i pidocchi, l’assenza di cuccette, viaggiando in vagoni carcerari stracolmi, fermandoci spesso nelle carceri di provincia, e avendo incontri infiniti con squadroni di guardie della «G.P.U.» provenienti dalla direzione opposta che non mancava- no mai di indulgere nello sport di far scattare i grilletti dei moschetti solo per il gusto di terrorizzare. 212
Questa situazione era ritenuta dalle vittime espressione di una regres- sione spaventosa in termini di civiltà, che rendeva i campi sovietici non confrontabili con le galere dei paesi capitalisti e neppure con il vecchio sistema penale zarista. Risalivano alla fine del 1923 e all’estate del 1924 due testimonianze che illustrarono il trattamento dei criminali comuni alle isole Solovki. Nel- la prima, si raccontò l’arrivo e i primi contatti con la realtà: «Dalle conver- sazioni con i criminali comuni abbiamo appreso del regime scioccante che l’amministrazione sta applicando nei loro confronti. Non c’è limite alle ore di servizio. Ricevono una vera e propria razione di fame, essendo nutriti in gran parte con merluzzo maleodorante. Le percosse vengono praticate a
211. International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons, p. 25. 212. Ivi, p. 26.
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ogni passo con il minimo pretesto […]». 213 Nella seconda testimonianza in- vece è raccontato il sistema di lavoro inflitto agli stessi prigionieri comuni e ai «controrivoluzionari»: «È chiaro che gli uomini emaciati, esausti e se- mi-affamati non sono in grado di portare a termine questi compiti. Le loro razioni vengono ridotte e vengono puniti in altri modi, trasferiti nella squa- dra penale e lì non possono né lavorare né fare esercizi all’aria aperta, sono tenuti a mezza razione, condannati a una lenta morte per sfinimento». 214 In questa testimonianza fecero capolino due elementi contrastanti con l’otti- mismo riformatore di Baldwin. Il primo era la considerazione che questi ex detenuti facevano del mondo sovietico come espressione non già di una rivoluzione da correggere in corsa, grazie al patronage del progressismo europeo, bensì come la riproposizione dello «spirito della vecchia Mosco- via asiatica», cioè in sostanza di una regressione spaventosa sul terreno dei diritti civili non confrontabile con il passato zarista né con il presente del mondo capitalista. 215 Il secondo elemento da tenere presente fu costituito dal richiamo al carattere omicida dell’intero sistema, realizzato attraverso lo sfinimento da lavoro. Entrambi gli elementi ritornarono nel corso del volume. Osserviamo il primo attraverso la testimonianza di una grande rivoluzionaria russa, Marija Aleksandrovna Spiridonova. Condannata a lunghi anni di servitù penale in Siberia dalle autorità zariste, era stata liberata nel febbraio 1917 e, in quanto socialista rivoluzionaria di sinistra, aveva appoggiato in un primo momento il governo di Lenin. Ma le coraggiose critiche contro il «terrore rosso» la portarono nuovamente in prigione. Fu arrestata più volte nel 1918 e nel 1919, e infine spedita in un sanatorio come «isterica». Le sue testimonianze furono però tutt’altro che il frutto di una mente confu- sa, bensì proprie di una donna estremamente lucida, e capace di restituire un’immagine accurata di un inferno carcerario che sembrava riemergere da un lontano passato. Scrisse: Anche se ci sono abbastanza storie sulla Gorokhovaya, la prima impressio- ne prodotta dalla cella solitaria è stata fantastica. Vengono in mente istinti- vamente le prigioni medievali della «santa inquisizione» o, meglio ancora, gli straordinari racconti di Edgar Allan Poe su persone sepolte vive, ecc. L’impressione del fantastico è resa più raccapricciante dall’immagine delle 213. Ivi, p. 167. 214. Ivi, p. 189. 215. Ivi, p. 188.
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teste di uomini che spuntano dagli oblò ritagliati nelle celle […] Un «buon» guardiano era di turno e mentre venivo condotta alla «mia» cella, vidi una dozzina di queste facce trasandate e non rasate, consumate, che spuntavano dalle piccole aperture delle porte, ricordando quei criminali la cui testa è incastrata in una tavola. L’immagine non potrà mai essere dimenticata. L’a- ria in questi reparti di isolamento è molto soffocante, poiché la ventilazione è quasi inesistente, mentre la densità della popolazione carceraria è sempre eccessiva. 216
La dimensione omicida del sistema delle prigioni e dei campi costituì l’altro motivo ricorrente di queste testimonianze. Mollie Steimer era un’a- narchica russa di origine ebraica, la quale aveva vissuto a lungo negli Stati Uniti, da dove era stata espulsa assieme e Berkman e Goldman. Anche nel suo caso la luna di miele con il regime leninista era durata poco. Prima di abbandonare definitivamente l’URSS nel 1923, Steimer sperimentò diver- se prigioni, restando attiva, nei periodi di libertà, a favore dei suoi com- pagni. Ne trasse la conclusione che «il trattamento disumano che questa gente [i prigionieri politici] subisce nelle mani dei loro carcerieri può avere soltanto un proposito: logorarli fisicamente e mentalmente, in modo che la loro vita diventi un mero peso per loro». 217 Accanto alla morte lenta, che costituiva una sorta di istigazione al suicidio, esisteva l’esplosione irrazio- nale di violenza delle guardie dei campi, come avvenne nel caso dell’ecci- dio alle Solovki del 19 dicembre 1923, che abbiamo già rammentato, ma sul quale vale la pena di tornare. L’episodio fu oggetto infatti di una complessa vicenda che vide i prigionieri superstiti dubitare fortemente dell’«imparzialità di una com- missione composta soltanto di rappresentanti del governo bolscevico» e dunque richiedere, nel corso dell’estate del 1924, «l’ammissione nella commissione dei rappresentanti della federazione dei sindacati di Amster- dam, l’Internazionale socialista dei lavoratori e della Croce Rossa per i pri- gionieri politici (l’organizzazione di Madame Peškova)». 218 La petizione non fu accolta dalle autorità di Mosca. Esse infatti decisero di inviare alle Solovki una commissione ufficiale, la quale operò in modo puramente bu- rocratico. «International Press Correspondence», bollettino comunista che si pubblicava a Vienna, s’incaricò di rassicurare il pubblico progressista 216. Ivi, pp. 86-87. 217. Ivi, p. 99. 218. Ivi, p. 197.
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internazionale che in quel luogo remoto, come in tutto il sistema delle car- ceri e dei campi sovietici, vigeva «il principio per cui le persone non sono mandate in prigione per essere meramente punite, ma per renderle membri utili della società». 219 Questo tipo di menzogne si sposò perfettamente con il ruolo svolto da alcune delegazioni occidentali in URSS, la quali certi- ficarono proprio in questo periodo la bontà del sistema penale sovietico. Partita da Londra nell’ottobre 1924, la delegazione delle Trade Unions britanniche – guidata dal nuovo segretario, Albert Arthur Purcell il più filosovietico dei sindacalisti – visitò il paese del socialismo nei mesi di novembre e dicembre. L’immagine che i delegati ne riportarono fu mol- to positiva: la situazione dei prigionieri politici nelle carceri era ottima e non si poteva certamente parlare di «regno del terrore». Infine, il sistema costituzionale dei diritti civili e politici «lungi dall’essere antidemocrati- co» dava all’individuo molte più possibilità di partecipare attivamente di quanto facesse il «governo parlamentare» in Gran Bretagna. 220 Queste pub- blicazioni s’inserirono nel movimento di simpatia per l’URSS che proprio allora s’intensificava anche negli Stati Uniti. Sulle pagine di «The Nation», Louis Fischer ammise che probabilmente ritrovarsi nelle prigioni sovieti- che non era assimilabile a «un picnic», ma d’altro canto non lo era neppure il soggiorno nelle prigioni tedesche o americane. E aggiunse a proposito di quelle sovietiche: «il quadro non è così a tinte fosche come una serie di persone interessate e fuorviate cercano di dipingere». 221 Questa divergenza all’interno del mondo progressista e socialista eu- ropeo e americano avrebbe pesato a lungo, per tutti gli anni Trenta, mentre per adesso indubbiamente rese meno efficace la lotta a favore dei prigio- nieri del regime sovietico. Un risultato fu comunque ottenuto dai prigio- nieri delle Solovki. Le loro testimonianze, così vivide nella descrizione della brutalità del regime sovietico, difficilmente potevano conciliarsi con la retorica progressista di Baldwin. Se quest’ultimo continuò ad affaticarsi nella ricerca di una terza posizione tra anticomunismo e filocomunismo, mostrando peraltro molta più propensione per il secondo, qualcosa cambiò nell’opinione pubblica di sinistra grazie alla documentazione presentata 219. Ivi, p. 211. 220. Russia. The Official Report of the British Trades Union Delegation to Russia in November and December 1924, London, Cooperative Printing Society, 1925, p. 17. 221. Louis Fischer, Political Prisoners Under Bolshevism, in «The Nation», 4 marzo 1925, pp. 237-238.
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nelle Letters. Questo volume infatti lasciò intendere che era in corso qual- cosa di più profondamente tragico di un mero ritardo sul terreno dei diritti civili. La brutale distruzione dello stato di diritto, la regressione verso pra- tiche di violenza arcaica e la logica dello sterminio mostrarono il consoli- damento di una complessa traiettoria storica, cioè quella di un regime, il quale, affondando le proprie radici nella Grande guerra ed essendo stato protagonista di una stagione di immensa brutalità culminata nella guerra civile, aveva introiettato una determinata idea della lotta politica. La svolta della NEP era stata certamente rilevante dal punto di vista dei compro- messi che lo stato-partito aveva stipulato con la società sovietica nel suo complesso. Tuttavia, la logica concentrazionaria dei campi a destinazione speciale stava lì a dimostrare che la vera natura di quel regime era proba- bilmente destinata a dispiegarsi in un non lontano futuro. 6. Intuizioni di fine decennio. Il carattere regressivo del bolscevismo al potere Nella seconda metà del decennio, la sinistra continuò a battersi a fa- vore dei prigionieri politici, ma lentamente prese forma, a partire dalle testimonianze disponibili, un ragionamento più largo sulle istituzioni con- centrazionarie sovietiche. Le condizioni dei detenuti «controrivoluzionari» e dei prigionieri comuni si rivelarono ancora più drammatiche di quelle dei politici, i quali erano esenti dai lavori pesanti e spesso dal lavoro tout court. Subito dopo la metà del decennio, il lavoro, che gli altri prigionieri erano invece costretti a svolgere, venne progressivamente collegato agli obiettivi produttivi del regime. Il 10 novembre 1925, Georgij Pjatakov, vicepresidente del Consiglio supremo dell’economia nazionale, indirizzò a Dzeržinskij, presidente di quell’organismo oltre che capo della OGPU, una nota nella quale proponeva di creare una vasta rete di «colonie di lavoro forzato» nelle regioni «ricche di risorse naturali e vuote di abitanti». Se per adesso questi piani grandiosi restarono lettera morta, l’amministrazione delle Solovki firmò per la prima volta contratti con numerose imprese di stato, impegnate nello sfruttamento del legname in Carelia. 222 222. Nel 1927 il 40% dei detenuti lavorava di fatto sul continente, nei pressi di Kem, all’interno dei «cosiddetti campi volanti» che seguivano la progressione del disboscamento attuato dall’industria del legno. Les Solovki, Laboratoire du Goulag, in Le Goulag, p. 129.
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Nei ricordi di alcuni prigionieri delle Solovki, riusciti in qualche modo a fuggire, questa declinazione produttiva del sistema che li soggiogava ap- parve secondaria. Per loro, la produzione costituiva soltanto un espediente per portare al grado estremo la punizione inflitta ai prigionieri, cioè la di- struzione fisica e morale fino all’estinzione del soggetto. Dal 1926, me- moriali di prigionieri «controrivoluzionari» furono pubblicati in inglese e francese, offrendo al lettore occidentale un quadro diverso da quello offer- to dal volume delle Letters, che, come sappiamo, raccolse esclusivamente le testimonianze dei prigionieri politici di sinistra. Pubblicato a Londra nel 1926, An Island Hell raccontò la vicenda del suo autore, Sozerko A. Mal’sagov, un ex ufficiale dell’armata bianca di Pëtr Vrangel’ nel Cauca- so al momento della ritirata definitiva di Denikin. 223 Arrestato nel 1923, Mal’sagov si trovò a scontare una pena alle Solovki come «controrivolu- zionario». Fuggito con alcuni compagni nel maggio del 1925, giunse av- venturosamente in Finlandia dopo settimane di dura sopravvivenza. Questo libro, prima vera testimonianza individuale sui campi sovietici pubblicata in Occidente, apparve allorquando il clima della coesistenza pacifica tra regime sovietico e paesi dell’Occidente era tornato a deteriorarsi. 224 Nel maggio 1926 il fallimento dello sciopero dei minatori inglesi fu accompa- gnato dalle polemiche attorno al sostegno economico da parte dei sindacati sovietici, aprendo così la strada a rotture e polemiche, impensabili soltanto qualche tempo addietro. 225 Questo clima rafforzò la campagna che i vertici della Chiesa cattolica lanciarono dalle pagine de «L’Osservatore romano» contro la «Čeka, governo occulto della Russia». 226 Considerando infine che il raid a Londra nella sede dell’Arcos, realizzato dal governo britannico per contrastare lo spionaggio sovietico, risale all’inizio del 1927, allora 223. Sozerko A. Mal’sagov, An Island Hell: A Soviet Prison in the Far North, Lon- don, A.M. Philpot LTD, 1926. È stato ripubblicato in tempi recenti in S. Mal’sagov e N. Kisselev-Gromov, Aux origines du Goulag. Récits des îles Solovki, Paris, Bourin, 2011. 224. A. Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo. 225. La presa di distanza dei sindacati britannici (che Purcell aveva tenuto su posi- zioni rigidamente filosovietiche) concise con l’ascesa di Walter Citrine, il quale tra 1927 e 1928 denunciò dalle pagine di «Labour Magazine» i «mandarini di Mosca» per i loro tentativi di manipolare il movimento operaio britannico e occidentale e asservirlo così allo stato sovietico. Williams, Labour and Russia, p. 45. 226. La Ceca, il governo occulto della Russia, in «L’Osservatore Romano», 6 gennaio 1925, p. 4. Riferimento obbligato sulle posizioni della Santa sede è il lavoro di Laura Petti- naroli, La politique russe de la Sainte Siège (1905-1939), Roma, École Française de Rome, 2015.
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si può sostenere che il libro di Mal’sagov venne pubblicato in un contesto internazionale oramai lontanissimo da quello dei successi diplomatici del 1924. 227 È importante sottolineare la funzione di vera e propria rivoluzione co- pernicana prodotta da questo libro: al centro del discorso non furono col- locati i rivoluzionari in cattività, ma il resto della popolazione dei detenuti delle Solovki, ossia i prigionieri comuni, i delinquenti e soprattutto quel vario mondo di «controrivoluzionari», a cui l’autore stesso era appartenu- to. Questo mutamento di prospettiva fece sì che il lavoro forzato acquisisse una centralità sconosciuta alle pubblicazioni di cui si è discusso fino ad ora. Island Hell non si limitò a questo, contenendo riflessioni su degrado e distruzione di secoli di cultura, cresciuta attorno a quei luoghi di anti- ca civiltà religiosa: il monastero ridotto a prigione, le reliquie mandate in mille pezzi e i tesori d’arte saccheggiati senza scrupoli. 228 Le memorie di Mal’sagov condussero il lettore per mano dentro il concreto funzionamen- to dell’universo concentrazionario delle Solovki, dove vigeva una sorta di «tirannia di criminali», i quali condividevano con le autorità del cam- po l’odio sociale per i «controrivoluzionari», ossia ex ufficiali, professori, uomini di scienza e di chiesa, imprenditori, professionisti e artigiani. Il sarcasmo, la violenza e le ruberie contro questi avvenivano nella più tota- le assenza di controllo da parte dei funzionari del campo, tra i quali anzi spiccavano sadici, violenti, corrotti e alcolizzati spediti nel remoto nord sovietico per aver esagerato con i loro vizi, mostrandosi quindi inservibili per compiti più importanti. Mal’sagov sostenne che i prigionieri membri dei partiti di sinistra era- no nel complesso «una classe favorita»: essi non dovevano lavorare, non erano costretti a condividere la quotidianità con i criminali ed erano titolari di privilegi di non piccolo rilievo: la possibilità di riunirsi, di ricevere con maggiore regolarità posta e giornali. 229 Mal’sagov colse perfettamente il punto, affermando che questo regime di privilegio derivava da ragioni poli- tiche ben precise, ossia la pressione esercitata dalla sinistra internazionale. Scrisse: «Da questo punto di vista, il potere sovietico è influenzato in parte dall’ala destra del partito comunista e, in una misura considerevole, dai 227. Gilles Udy, Labour and the Gulag. Russia and the Seduction of the British Left, London, Biteback Publishin, pp. 117 sgg. 228. Mal’sagov, An Island Hell, pp. 55-56. 229. Ivi, p. 117.
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socialisti dell’Europa occidentale, alle cui prese di posizione i comunisti prestano attenzione, a dispetto di quanto affermano». 230 I «controrivoluzio- nari» versavano in condizioni ben peggiori, a partire dalle donne le quali si ritrovarono in un inferno senza fine, all’opposto dell’universo «borghese» dal quale provenivano. Esse si ritrovarono a vivere a fianco di prostitute, truffatrici, donne di malaffare con il vizio del gioco. Costrette a diventare serve e concubine dei comandanti, esse erano esposte al rischio continuo di malattie veneree. Le condizioni di vita e di lavoro per i «controrivoluzionari» erano ter- ribili. Nel capitolo XII, dedicato alla Vita quotidiana, il lavoro e il cibo furono descritti i dormitori, dove «non si respira quando la notte arriva. Il fetore è terribile». E ancora più terribile era naturalmente il freddo: «i pri- gionieri tremano come uomini con la febbre alta». 231 La descrizione della giornata fu tutta volta a sottolineare la durezza del lavoro: Il lavoro più estenuante è tagliare la legna in inverno. Questo lavoro è asso- lutamente insopportabile. Si sta in piedi con le ginocchia che affondano nella neve, così da rendere difficile ogni movimento. Enormi tronchi d’albero, ta- gliati con le asce, cadono sui prigionieri, qualche volta uccidendoli sul posto. Vestiti di stracci, senza guanti, con scarpe leggere ai piedi, a malapena in grado di stare dritti per la debolezza causata dallo scarso nutrimento, i prigio- nieri hanno le mani e tutto il corpo congelati a causa del freddo pungente. 232
Questa descrizione evocò il problema della fame, spiegato più appro- fonditamente in seguito, in tutte le sue implicazioni. La fame privava i prigionieri delle loro energie, impendendo loro di lavorare in modo pro- duttivo. Il lavoro diventava così consunzione delle energie rimaste fino alla distruzione progressiva dell’organismo umano, intrappolato in un circuito mortale fame-lavoro, a cui va aggiunta l’assenza di fatto delle cure medi- che, dovuta alla scarsità dei farmaci, l’incompetenza del personale prepo- sto e la sporcizia delle infermerie. Nella riflessione di Mal’sagov questa descrizione era funzionale a dar forza alla tesi centrale del suo libro: nel remoto nord sovietico era in corso un progetto di «uccisione deliberata» dei prigionieri, un «assassinio […] attraverso una morte lenta per fame». 233 La natura omicida dell’intero si- 230. Ivi, p. 119. 231. Ivi, p. 151. 232. Ivi, p. 156. 233. Ivi, p. 163.
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stema era confermata, secondo l’autore, dal ricorso massiccio a punizioni micidiali, in seguito alle quali i prigionieri più deboli non erano in grado di riprendersi. Alcune di queste torture erano destinate a una sinistra cele- brità, come l’esposizione prolungata ai morsi delle zanzare durante l’estate oppure la chiusura in un luogo di isolamento lontano, senza cibo e al freddo (la sekirka) durante l’inverno oppure, ancora, l’introduzione nei «sacchi di pietra», strette cavità nelle rocce dove i prigionieri venivano introdotti e la- sciati agonizzare per giorni. Una frase ambigua scritta in una lettera inviata a casa, uno sguardo nella direzione sbagliata durante l’adunata o semplice- mente l’antipatia di un cekista erano all’origine di queste pene barbariche. La conclusione fu che in definitiva la fame, il lavoro estenuante e le torture furono la continuazione con altri mezzi della stessa logica di sterminio, che nel corso della guerra civile era stata messa in essere con le fucilazioni di massa. Alle Solovki – commentò amaramente Mal’sagov – non c’era bisogno di arrivare a tanto: i prigionieri morivano prima. 234 La rivoluzione copernicana di Mal’sagov non mise certo fine all’in- teresse per i prigionieri politici di sinistra che restarono l’epicentro del discorso del socialismo internazionale di questi anni. Si doveva fare i conti con una recrudescenza della repressione sovietica a margine di una duplice situazione venutasi a creare tra 1926 e 1927: da un lato, la dura reazione di Stalin all’avvicinamento di Trockij a Kamenev e Zinov’ev prese la for- ma di un inasprimento delle misure contro gli oppositori interni ed esterni al partito (questi ultimi da tempo incarcerati). Non fu soltanto la questio- ne dell’opposizione unita però a creare tensione. Nel 1927 le accuse ai «trockijsti» furono messe in relazione al timore che la Polonia di Józef Piłsudski stesse preparando una guerra contro l’URSS, magari con il so- stegno britannico, per impossessarsi di territori bielorussi e ucraini. Stragi di «controrivoluzionari», fucilati senza processo, furono realizzate come ai tempi del comunismo di guerra in un’atmosfera di psicosi che lasciava pre- sagire un futuro fosco. 235 È all’incirca in questo quadro che si deve colloca- re il lavoro internazionale svolto da gruppi, giornali e riviste della sinistra internazionale contro le forme del terrore staliniano targato 1926-1927. Nel 1926 Kerenskij fondò a Parigi «La Russie opprimée», periodico redatto in francese che fece conoscere all’opinione pubblica progressista francese, e occidentale in generale, le notizie sui prigionieri politici che 234. Ivi, p. 174. 235. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 241-248.
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in prima battuta venivano pubblicate da giornali e riviste dell’esilio quali «Volija Rossii», «Socialističeskij Vestnik» e «Dni». L’11 settembre 1926 il nuovo giornale di Kerenskij diffuse le notizie che «Socialističeskij Ve- stnik» aveva pubblicato su prigionieri politici (menscevichi, anarchici, socialisti rivoluzionari, sionisti) recentemente deportati in luoghi diversi della Siberia, in Turkestan e alle Solovki. 236 Il 22 gennaio dell’anno suc- cessivo «La Russie opprimée» pubblicò un pezzo dal titolo Une prison soviétique, testimonianza in origine pubblicata da «Volija Rossii». Dal rac- conto emerse la complessa caratterizzazione psicologica degli addetti alla sicurezza, alcuni dei quali avevano ammesso che simili orrori non si erano visti neppure durante le fasi peggiori dello zarismo. 237 Il decennale della rivoluzione fu l’occasione per la stampa socialista e progressista interna- zionale per insistere sulla questione dei prigionieri. Il «Vorwärts» pubblicò il 12 gennaio Der Terror in der Sowietunion. A cascata la documentazione riprese a circolare nella stampa sociali- sta internazionale. Il «Daily Herald» pubblicò il 10 marzo Soviet Prison Conditions e il 4 giugno il «Manchester Guardian» raccontò delle Solovki a tinte fosche, caratterizzando la condizione dei socialisti nelle galere russe come «peggiori che sotto gli zar». E due giorni dopo il quotidiano britanni- co raccontò degli scioperi della fame. L’11 novembre infine il «Vorwärts» pubblicò storie di prigionia, dando notizia in seguito di una fuga di prigio- nieri dalla Siberia. 238 Il decennale della rivoluzione fu anche l’occasione per rinsaldare rapporti transatlantici. «La Russie opprimée» del 2 aprile raccontò che Kerenskij si era recato negli Stati Uniti per celebrare la Rivo- luzione di febbraio. Ricordò naturalmente che la presa del potere da parte dei bolscevichi aveva portato alla distruzione della libertà e del legame con l’Occidente. Kerenskij incontrò William Green, presidente della American Federation of Labor, il quale garantì il sostegno per «liberare questo paese dal bolscevismo». Incontrò anche Bainbridge Colby, ultimo segretario di stato di Woodrow Wilson. 239 236. Dans les prisons. Le Prison et l’Exil, in «La Russie opprimée», 11 settembre 1926, p. 2. 237. Une prison soviétique, in «La Russie opprimée», 22 gennaio 1927, p. 2. 238. Questi articoli sono conservati in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International, Russland – Dossiers und Dokumen- te – 2601, Zeitungsausschnitte betr. politische Gefangene in der Sowjetunion. 1927-1928. 14 Bl. 239. Kerenski en Amérique, in «La Russie opprimée», 2 aprile 1927, p. 2.
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Questo diffuso interesse non deve nascondere la diversità di prospet- tive che continuava a esistere all’interno del movimento operaio e socia- lista. In Italia «Critica sociale», oramai in procinto di essere chiusa dalle autorità fasciste, ospitò un dibattito internazionale di grande importanza sul problema della democrazia e della dittatura riferito all’URSS. Fu dato spazio a due posizioni in conflitto tra loro: quella di Otto Bauer e quella di Pëtr Garvi, esponente della destra menescevica. Bauer si compiacque dei progressi compiuti grazie alla NEP, appellandosi al governo bolscevico af- finché al progresso economico facesse seguire anche quello politico: «alla Russia non chiediamo dunque la democrazia formale, ma il riconoscimen- to dei partiti socialisti russi». 240 I socialisti riformisti italiani fecero mostra di imparzialità, ma è da credere che – vista la repressione che essi stessi stavano sperimentando in Italia – la posizione di Garvi apparisse loro più ragionevole. Rispondendo a Bauer, Garvi affermò che il bolscevismo era un esperimento tragico che si stava compiendo sulla pelle di milioni di persone, e che non era vero che l’URSS stava passando gradualmente dal capitalismo al socialismo. In definitiva, Garvi colse il punto, scrivendo che al suo interlocutore interessava soltanto che venisse eliminato «il terrore adoperato contro i socialisti e gli operai». Una democrazia integrale, basata sull’uguaglianza giuridica dei singoli, era stata definita dallo stesso Bauer «ancora pericolosa» per un popolo che evidentemente non aveva raggiunto la maturità politica sufficiente. 241 Tornando per un momento a Mal’sagov, l’importanza del suo memo- riale è difficilmente sovrastimabile. Basti considerare che esso costituì una delle fonti principali del libro forse più importante che fu dedicato al siste- ma concentrazionario sovietico nel corso degli anni Venti, vale a dire Un bagne en Russie Rouge di Raymond Duguet. 242 Già ufficiale dell’esercito francese durante la Grande guerra, Duguet aveva pubblicato nel 1924 Mo- scou et la Géorgie martyre, un libro nel quale fu denunciata la sovietizza- zione della Georgia menscevica. Le fonti utilizzate da Duguet per i suoi li- bri ci sono già note. Assieme ad Island Hell, egli poté infatti usufruire della traduzione degli articoli pubblicati sulla «Socialističeskij Vestnik»; inoltre 240. Otto Bauer, Il socialismo e la Russia sovietica (relazione di Otto Bauer), in «Cri- tica sociale», 8-9 (1926), p. 124. 241. Pietro Garvi, L’esperimento bolscevico può avere successo? (La risposta di Gar- vi a Otto Bauer), in «Critica sociale», 8-9 (1926), p. 127. 242. Raymond Duguet, Un bagne en Russie rouge, con prefazione di Nicolas Werth, Paris, Balland, 2004.
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poté consultare il volume che i socialisti rivoluzionari avevano pubblicato nel 1922. Naturalmente, Duguet non mancò di studiare accuratamente il la- voro di Mel’gunov: «questo libro – scrisse – dovrebbe essere nelle mani di chiunque voglia sapere come stanno le cose sul bolscevismo». 243 Ma la fonte primaria di Duguet fu il racconto di un altro ufficiale della Grande guerra, Étienne Patrizi, il quale era stato addetto militare della missione militare francese in Georgia, dove in seguito rimase per dirigere un’impre- sa commerciale. Patrizi fu arrestato nel gennaio 1924 per spionaggio dalle autorità sovietiche e condannato a tre anni da scontare alle Solovki. Fu fortunatamente liberato nove mesi più tardi grazie all’intervento dell’am- basciata francese. 244 Come quello di Mel’gunov, il libro di Duguet ebbe una notevole circolazione, anche se prevalentemente in Francia. La stampa popolare gli dedicò molto attenzione, apprezzando la forza del suo rac- conto: «È l’inferno di Dante che si realizza», sentenziò «Le Petit Journal». Commentarono favorevolmente anche riviste del calibro di «Les Études», «La Revue Parlamentaire» e «La Revue des Questions Historiques». 245 Su quest’ultima, diretta da Jean Guiraud e Roger Lambelin, fu sottolineato che «Duguet fornisce un’immagine quasi diretta. Ed essa è spaventosa». 246 Come Mal’sagov, Duguet insistette sul motivo dello sterminio dei pri- gionieri quale carattere decisivo di «questa isola della fame, del supplizio e della morte», gestita con metodi brutali, e nella totale impunità, da cekisti di scarto in collaborazione con i criminali comuni più violenti. 247 Duguet riprese il discorso presente nelle sue fonti: il lavoro estenuante, la nutri- zione insufficiente e di qualità pessima, l’affollamento dei dormitori con diffusioni delle malattie infettive, i vestiti troppo leggeri, le cure mediche inesistenti costituivano la continuazione della guerra civile contro i nemici del bolscevismo con altri mezzi, ma aventi lo stesso fine, ossia lo sterminio di massa. 248 I tassi di mortalità suggeriti da Duguet risultano troppo alti al confronto con le fonti archivistiche, ma l’idea che presso le Solovki continuasse una guerra civile con altri mezzi (e a senso unico) era corret- ta. La formazione giuridica sospinse l’autore più in profondità, facendogli 243. Ivi, p. 36. 244. Per queste informazioni Werth, Prefazione a Duguet, Un bagne, pp. 7-16. 245. Ivi, pp. 8-9. 246. J.M., Recensione a Raymond Duguet, Un bagne en Russie Rouge. Solovki. L’ile de la faim, des supplices, de la mort, in «Revue des questions historiques», 56 (1928), p. 249. 247. Duguet, Un bagne en Russie rouge, p. 65. 248. Ivi, p. 87.
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intravedere nelle Solovki qualcosa di radicalmente nuovo, ossia un micro- cosmo sociale potenzialmente estendibile a tutta la Russia, una volta che i compromessi della NEP fossero stati superati. Egli definì acutamente la NEP un regime in «deroga» rispetto agli obbiettivi originari del regime, ossia la totale sussunzione della società e dell’economia dentro lo Stato. Osservò, sia pure di sfuggita, che i contadini costituivano non già una clas- se di proprietari, bensì di «utilizzatori a titolo precario» della terra. 249 Questa riflessione fu quanto mai attuale nel 1927, perché si era allora sull’orlo di una grande cambiamento. Il deteriorarsi del clima internazio- nale e la psicosi di una guerra imminente dettero una forte spinta a Stalin verso un cambiamento di programma: la NEP, della quale era stato a lungo interprete e mediatore, sarebbe stata buttata alle ortiche non appena il dise- gno di una nuova rivoluzione dall’alto fosse stato pronto. Avendo celebrato il proprio personale trionfo sull’opposizione nel corso del XV congresso del partito, tenutosi nel dicembre 1927, Stalin si avviò dunque passo dopo passo verso la grande decisione di innescare un processo di collettivizza- zione delle campagne e industrializzazione accelerata, dispiegando tutta la forza politico-militare dello stato per costruire rapidamente quella base economica, che avrebbe permesso di consolidare il regime sovietico sul terreno della forza e del prestigio internazionale. Nelle forme «barbare» in cui le élite sovietiche stavano pensando e preparando questo rivolgimento, il costo era destinato ad essere elevatissimo e Stalin era pronto a farlo pa- gare a milioni di persone. 250 Tutti gli «utilizzatori a titolo precario» di beni, competenze e dirit- ti (contadini, specialisti borghesi e nazionalità allogene) erano avvertiti: il «tempo dello stato» stava per entrare in una nuova grandiosa fase, carat- terizzata dalla collettivizzazione delle campagne, dall’industrializzazione forzata e dall’espansione dell’universo concentrazionario. Ciò naturalmente non poteva essere chiaro a Duguet nel momento in cui scriveva, ma l’idea da lui suggerita che le Solovki rappresentavano la prefigurazione di un mondo prossimo venturo, molto più che una persistenza del passato, era sostanzial- mente corretta; così come era corretta la percezione del crescente fastidio che i vertici dello stato sovietico provavano verso la NEP. Altri libri di valore furono pubblicati nell’ultimo scorcio degli anni Venti, come quello di Jurij 249. Ivi, p. 149. 250. Sulla lunga gestazione della rivoluzione dall’alto di Stalin, Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, pp. 215 sgg.
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Bessonov, un altro fuggiasco dalle Solovki. 251 L’editore Jules Tallandier, cat- tolico e fervente anticomunista, pubblicò nel 1928 il libro dell’ex detenuto finlandese alle Solovki, Boris Cederholm, affidando la traduzione a Hélène Iswolsky, emigrata russa in Francia dove si era convertita al cattolicesimo. Il volume ebbe molte traduzioni, tra cui una italiana. E una copia di questa edizione fu offerta dall’autore al Papa nel corso di una visita in Vaticano. 252 Dal punto di vista sovietico, esisteva un’unica preoccupazione, os- sia che queste testimonianze potessero convincere l’opinione pubbli- ca occidentale della brutalità delle condizioni dei prigionieri, spingendo parlamenti e governi verso un embargo sul legname e altri prodotti. Per- tanto, a Mosca si decise di allestire una risposta articolata a protezione della reputazione del regime e dei suoi interessi, utilizzando da un lato i moderni mezzi di comunicazione, come il cinema, dall’altro coinvol- gendo prestigiosi intellettuali, come Maksim Gor’kij. Nel 1928, il regista Aleksandr Čerkasov realizzò Solovki, dopo aver girato le riprese sul luogo in stretta collaborazione con la polizia politica. Fu in teoria un evento di grande significato, visto che fino ad allora l’universo concentrazionario era stato escluso da sguardi indiscreti. Il modo in cui fu girato il film mostra in realtà con chiarezza l’esistenza di una «estetica della polizia» sovieti- ca, volta a rappresentare un luogo moderno di redenzione sociale al posto dell’inferno descritto dagli ex prigionieri. Sembra che sia stata in parti- colare la diffusione delle memorie di Mal’sagov a mettere in moto questa macchina propagandistica. 253 Nella primavera del 1929, Gor’kij, rientrato da poco in patria con l’in- tenzione di sostenere le politiche modernizzatrici del regime di Stalin, si recò alle Solovki, con l’intento di rassicurare l’opinione pubblica interna- zionale progressista, evitando così che si venissero a creare ostacoli insor- montabili per la normalizzazione delle relazioni commerciali dell’URSS con i paesi dell’Occidente. Lo scrittore certificò che in quella parte remota del paese la polizia politica era impegnata a sostenere gli sforzi di migliaia 251. Youri Bezsonov, My Twenty-six Prisons and My Escape from Solovetsk, London, J. Cape, 1928. 252. Boris Cederholm, Au pays de la Nep et de la Tchéka. Dans les prisons de l’U.R.S.S., Paris, Tallandier, 1928. Fu tradotto anche in italiano con il titolo Tre anni nel paese delle concessioni e della ceka, Torino, S.A.C.E.N., 1928. 253. Cristina Vatulescu, Police Aesthetics. Literature, Film, and the Secret Police in Soviet Times, Stanford, Stanford University Press, 2010, p. 125.
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di persone, intente a redimersi attraverso il lavoro. 254 In uno scritto, com- posto in seguito al suo rientro, spiegò più diffusamente la sua idea della «rieducazione attraverso il lavoro». Scrisse: Ecco com’è nata un’esperienza appassionante che ha già dato dei risultati incontestabilmente positivi. Il «campo a destinazione speciale delle Solovki» non è la «casa dei morti» di Dostoevskij, perché qui si apprende a vivere, a leggere e a scrivere, a lavorare […] sono degli operai che dirigono qui la vita dei lavoratori, gli stessi che erano dei reprobi in uno stato autoritario piccolo- borghese. 255
La malafede di Gor’kij era assoluta. Non ancora il grande studioso di letteratura e cultura russe che sarebbe diventato, Dmitrij Sergeevič Lichačëv era allora poco più che un ragazzo, condannato alle Solovki per aver par- tecipato a un gruppo studentesco illegale. Lichačëv rievocò molti anni più tardi l’entusiasmo dei prigionieri alla notizia dell’imminente arrivo di Gor’kij in visita alle Solovki. Tutti erano convinti che il celebre scrittore avrebbe compreso la realtà senza farsi imbrogliare. Così, grazie a lui, il mondo avrebbe saputo delle fucilazioni, delle torture, della fame, del la- voro massacrante e delle malattie. Le cose però andarono diversamente. Gor’kij ebbe la possibilità di conversare per quaranta minuti con un ragaz- zo di quattordici anni, suscitando negli altri prigionieri la speranza che quel colloquio sarebbe stato risolutivo. Lo scrittore uscì dalla baracca, dove era avvenuto il colloquio, e si mise a piangere davanti a tutti, senza nasconder- si. Ma niente accadde. La sua visita proseguì alla sekirka, ma questo luogo di punizione estrema era stato ripulito per l’occasione, dotato di un tavolo e di giornali che lo scrittore sfogliò distrattamente, prima di avviarsi al «giardino biologico» a prendere un tè caldo. Poco dopo, ripartì. 256 In realtà, al di là delle speranze mal riposte dei prigionieri, le stes- se autorità centrali della polizia politica erano preoccupate per cosa stava succedendo alle Solovki in quell’ultimo scorcio degli anni Venti. La preoc- cupazione giunse fino al punto di inviare nell’aprile del 1930 una commis- sione d’indagine. Il presidente di questa Commissione stilò il giorno 30 un 254. Sul viaggio di Gor’kij alle Solovki e in generale sul ruolo svolto dallo scrittore in questo periodo, Michael David-Fox, Showcasing the Great Experiment. Cultural Diploma- cy and Western Visitors to the Soviet Union, 1921-1941, Oxford, Oxford University Press, 2012, pp. 142-174. 255. Maxime Gorki, in Le Goulag, p. 173. 256. Dmitri Likhatchev, in Le Goulag, pp. 174-178.
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rapporto terrificante, che denunciava il «rapido degrado dei contingenti» dei lavoratori-detenuti. 257 Questo documento illuminò la situazione che si era venuta a creare nel corso degli anni e dei mesi precedenti. Secondo il rapporto, la scarsa produttività dei lavoratori-prigionieri dipendeva dalle seguenti ragioni: «condizioni di lavoro particolarmente difficili», «un’u- sura molto rapida dei contingenti provenienti dalle regioni meridionali dell’URSS», «un cattivo funzionamento delle infermerie e di altri centri di cura, una debole qualificazione del personale medico reclutato sovente tra i detenuti che non hanno alcuna formazione medica»; «condizioni di alloggio totalmente inadatte (per lo più baracche provvisorie), un’assenza di servizi e forniture essenziali (biancheria e vestiario) in conseguenza di cui i detenuti sono inviati al lavoro quasi nudi»; «norme troppo elevate rispetto allo stato della forza lavoro e delle sue fragili energie, orari troppo lunghi, che usurano i detenuti fino al punto che essi non hanno più la forza di alimentarsi»; «un trattamento insopportabile, in realtà criminale, dei de- tenuti, sottomessi a maltrattamenti, percosse e torture da parte di un perso- nale insufficientemente qualificato e incapace di rieducare i detenuti, con il risultato di uno spreco di energie considerevole, dilapidato inutilmente dal punto di vista della produttività del lavoro». 258 Beninteso, la relazione lascia trapelare non già la disposizione umani- taria delle autorità sovietiche, bensì preoccupazioni di altra natura, legate alla produttività del lavoro coatto, evidentemente bassissima nel caso di queste migliaia di disperati, il cui unico incentivo era spesso rimanere in vita fino al giorno successivo. Nel 1930, questa preoccupazione produtti- vistica era iscritta naturalmente nel quadro della «rivoluzione dall’alto» di Stalin, come vedremo nel prossimo capitolo. La realtà descritta nel rappor- to della OGPU era la stessa che Gor’kij aveva visitato l’anno precedente, ma lo scrittore non era giunto alle Solovki per indagare le reali condizioni dei prigionieri, ma per «calmare l’opinione pubblica» occidentale. Come si è già ricordato, le autorità sovietiche si sentivano pressate dopo anni di campagne internazionali a sostegno dei prigionieri delle Solovki, il cui inferno era stato oggetto del volume Letters from Russian Prisons, delle memorie di Mal’sagov e del saggio di Duguet. E se non si può essere certi che queste pubblicazioni arrecassero danni nell’immediato alla causa del 257. Rapport de la Commission de l’OGPU sur la situation des détenus des camps des Solovki, in Le Goulag, pp. 148-156. 258. Ivi, pp. 149-150.
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commercio sovietico, sicuramente esse costituirono un valido contrappeso alle operazioni di maquillage affidata a Gor’kij e ai cineasti sovietici. Nella seconda metà degli anni Venti questa memorialistica, saldata a quella della prima metà del decennio, alimentò un punto di vista peculia- re sul regime sovietico, visto come agente di regressione sul piano della convivenza civile. È vero che Baldwin tenne duro, mandando a stampa nel 1928 un volume nel quale giurò sulla bontà del regime sovietico: «la repressione in Unione sovietica – scrisse – è un’arma di battaglia in un periodo di transizione al socialismo. La società che i comunisti cercano di creare – se realizzata – sarà liberata dalla lotta di classe e perciò dalla repressione». 259 Erano idee prive del benché minimo aggancio con la verità, la stessa verità che era stata rivelata invece da innumerevoli testimonianze. E se le schiere degli entusiasti non sarebbero mancate neppure in seguito, adesso si consolidò un immaginario diverso, che, per quanto minoritario, riuscì ad illuminare la dimensione regressiva del regime sovietico. Boris Mirkine-Guetzévitch era un giurista ucraino di origine ebraiche, profes- sore di diritto internazionale alla facoltà di Pietroburgo e intellettuale che aveva salutato la Rivoluzione del febbraio 1917 come avvio della demo- cratizzazione della Russia. L’avvento dei bolscevichi portò al suo esilio in Francia, dove a Parigi divenne segretario generale della Lega russa dei diritti dell’uomo, e titolare alla metà degli anni Venti di un corso di diritto pubblico russo alla Sorbona. La sua ispirazione liberale lo spinse a colla- borare a «Les Dernières nouvelles», diretta da Miljukov. Per la sua impietosa disamina del potere sovietico, Mirkine-Guetzévitch scelse uno dei luoghi identitari della cultura repubblicana francese, i «Ca- hiers des droits de l’Homme». Il 25 ottobre 1926 uscì un articolo nel quale discusse la situazione dei diritti umani in Russia, sottolineando che questi non avevano colà alcun «valore indipendente» nella misura in cui il motore della costituzione sovietica era la protezione militare dello stato dai suoi nemici interni ed esterni. E aggiunse: Non sarebbe esatto dire che noi abbiamo esaminato i cosiddetti diritti indi- viduali dei cittadini sovietici, perché le definizioni corrispondenti del diritto sovietico sono molto lontane dalla nozione elementare dei diritti indivi- duali. L’inviolabilità della persona, l’eguaglianza davanti alla legge, la pri- vazione della libertà esclusivamente attraverso una decisione giudiziaria, 259. Roger Baldwin, Liberty under the Soviets, New York, Vanguard Press, 1928, pp. 3-4.
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la punizione inflitta unicamente secondo la legge e per un atto qualificato dalla legge come crimine, la libertà di riunione e di associazione e di stam- pa – tutti questi Diritti dell’Uomo e del Cittadino sono sconosciuti nella Russia sovietica. 260
Nel febbraio dell’anno successivo, Mirkine-Guetzévitch pubblicò un secondo articolo sui «Cahiers», riguardante questa volta le ristrette li- mitazioni accordate dalle autorità sovietiche alla partecipazione politica. Affermò che il sistema della rappresentanza era basato su una peculiare forma di censo: era previsto un «censo del lavoro» che escludeva sfrutta- tori, parassiti e altre figure; ed era previsto un «censo politico», che esclu- deva i nemici dello stato. 261 La società sovietica gli apparve dunque come una società di tipo paracastale, dove lo stesso principio dell’uguaglianza di fronte alla legge (non soltanto dunque i diritti politici) era abolito. Così ragionando, Mirkine-Guetzévitch smontò la rappresentazione della società sovietica come società più giusta, indirizzata verso l’uguaglianza reale del- le persone in carne e ossa. Non soltanto il raggiungimento di questa ugua- glianza sembrava piuttosto improbabile, ma la stessa uguaglianza forma- le – quella dei cittadini di fronte alla legge – era stata abolita, mostrando che lo stato sovietico aveva imboccato una strada radicalmente diversa da quella dell’Occidente. Il regime sovietico non stava realizzando (magari con lentezza) le promesse che questo aveva tradito; semplicemente stava andando da un’altra parte, dove il principio della massima sicurezza per lo stato, gestito da potenti apparati polizieschi, andava di pari passo con una distribuzione selettiva di privilegi. Conseguenza di questa azione era la costituzione di gerarchie sociali molto più rigide e oppressive che altrove, proprio perché radicate nel diritto. Si era di fronte dunque a una potenziale regressione storica, che non aveva alcun rapporto con la tradizione giuridica dei diritti universali inau- gurata con la Rivoluzione francese. Esclusione politica delle opposizioni, sottomissione delle masse operaie e contadini e privilegi di tipo feudale per la casta al potere si sarebbero rivelate nel corso degli anni Trenta le caratteristiche del regime sovietico. Nel 1928, Mirkine-Guetzévitch marcò il confine tra le costituzioni liberal-democratiche dell’Europa occidentale e 260. Boris Mirkine-Guetzévitch, Les droits de l’homme en Russie Soviétique, in «Ca- hiers des Droits de l’Homme», 20 (1926), p. 463. 261. Boris Mirkine-Guetzévitch, Les droits de l’homme en Russie Soviétique, in «Ca- hiers des Droits de l’Homme», 3 (1927), pp. 51-52.
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quella socialista dell’Unione sovietica. 262 Raffigurò le prime come espres- sione della subordinazione del potere politico a un quadro normativo con- diviso dagli attori politici e dalla società nel suo complesso. La seconda invece venne caratterizzata come sbocco di un processo inverso, ossia di subordinazione delle norme universali alle esigenze di sicurezza del potere politico a discapito evidentemente dei diritti degli individui e dei gruppi sociali e nazionali. La riflessione di Francesco Saverio Nitti, ex presidente del Consiglio in Italia nel 1919-1920 e tra i primi a prendere la via dell’esilio in Francia in quanto antifascista, seguì una linea analoga, quella cioè di marcare l’op- posizione tra i regimi tirannici usciti dalla guerra e la tradizione rivoluzio- naria occidentale, europea e americana. Nel 1927, scrisse per l’editore Il Solco di New York che: Fascismo e bolscevismo non sono due principi di libertà e di ordine: sono, come ha detto Mussolini, la negazione dei principi del 1789, cioè anche quelli della costituzione americana del 1787 e del diritto pubblico inglese. Sono quindi la negazione di tutti i principi della civiltà moderna. Sono il ritorno alla morale delle monarchie assolute e della guerra considerata come indu- stria nazionale. 263
Questa idea delle tirannie post-belliche come negazione della moder- nità giuridica ebbe una circolazione in questi anni, consolidando una sorta di paradigma regressivo applicato al bolscevismo. E non furono soltanto liberal-democratici come Mirkine-Guetzévitch e Nitti a denunciare il bol- scevismo come regressione storica. Nel 1929, con la rivoluzione dall’alto di Stalin alle porte, pronta ad investire brutalmente le campagne sovieti- che, Berkman dette alle stampe ABC of Anarchism nel quale discusse il complesso rapporto tra rivoluzione, terrore e violenza. Questo scritto non poteva certamente avere la chiarezza di visione e la robustezza concettuale dei lavori di Mirkine-Guetzévitch e di Nitti. E del resto, è appena il caso di dirlo, le posizioni politiche non potevano essere più distanti. Eppure, si avverte un condiviso desiderio di operare una rottura profonda tra la mul- 262. Boris Mirkine-Guetzévitch, La théorie générale de l’état soviétique, Paris, Giard, 1928; Id., Les Constitutions de l’Europe nouvelle, Paris, Delagrave, 1928. 263. Francesco Saverio Nitti, Bolscevismo, fascismo e democrazia (1927), in Id., Scritti politici, a cura di Gabriele De Rosa, Bari, Laterza, 1961, vol. II, pp. 292-293. L’edizione francese è Bolchevisme, Fascisme et Démocratie, Paris, Éditions du progrès civique, 1926.
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tiforme tradizione rivoluzionaria e la realtà del regime sovietico, con il suo terrorismo di stato, le deportazioni e i campi. Berkman non era un profes- sore universitario, bensì un rivoluzionario «apolide», con molta esperienza alle spalle, e speranzoso che questa potesse essere messa a frutto dalle generazioni successivi di libertari anarchici. Come si evince da una lettera inviata da Parigi a Emma Goldman risa- lente al 25 giugno 1928, egli era alle prese con lo scioglimento di nodi con- cettuali che impedivano il completamento della stesura del testo. Scrisse: A questo punto, mi sono imbattuto in problemi che non possono essere ri- solti in modo soddisfacente. Per esempio: […] La rivoluzione ha il diritto di difendersi? Allora cosa si deve fare ai nemici attivi e ai controrivoluzionari? Si arriva logicamente alla prigione o al campo di concentramento […]. Ma una volta che si comincia con le prigioni, non c’è fine. Ma come evitarlo? Se scrivo la seconda parte del mio libro in modo logico, come dovrebbe essere scritto, allora non sarà in linea con le opinioni anarchiche. Evitare queste do- mande è impossibile. Ciò significa allora un periodo transitorio con punizio- ni, prigioni, ecc. che sicuramente svilupperà i modi e i metodi bolscevichi. 264
La risposta di Goldman, la quale si trovava temporaneamente a Saint- Tropez, prese la forma dell’autocritica e di un’apertura notevole alle idee liberali. Affermò infatti che ogni rivoluzione deve difendersi dai nemici armati, ma non potrà mai negare il diritto di parola e altre garanzie senza negare sé stessa e le ragioni per cui era iniziata. Ella provava il desiderio che «la rivoluzione sia intesa come un processo di ricostruzione e non, come l’abbiamo vissuta finora, come un processo di distruzione». 265 Que- ste parole colpirono probabilmente nel segno, spingendo Berkman verso una soluzione radicale dei problemi che si era posto. In ABC of Anarchi- sm, rivolgendosi idealmente al rivoluzionario di domani, scrisse: durante lo scontro sociale, «hai il diritto di difendere te stesso» e «il diritto di pro- teggere la tua libertà», ma i metodi bolscevichi dovevano essere esclusi, perché «i rivoluzionari non sono selvaggi. I feriti non sono massacrati, e chi è fatto prigioniero non è fucilato. Né è praticato il sistema barbarico di sparare agli ostaggi, come hanno fatto i bolscevichi». 266 Non sappia- mo quanto Berkman credesse effettivamente nella possibilità di questa 264. Life of an Anarchist. The Alexander Berkman Reader, a cura di Gene Fellner, New York, Seven Stories Press, 1992, pp. 254-255. 265. Ivi, p. 256. 266. Ivi, p. 333.
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rivoluzione gentile, ma è un fatto che il confronto ravvicinato con quella bolscevica gli aveva fatto comprendere bene che quei metodi così brutali non portavano verso l’emancipazione degli uomini, ma a un nuovo stato di barbarie.
2. Una «conquista in stile assiro» (1929-1938)
1. Introduzione Questo capitolo è dedicato agli anni Trenta, che furono decisivi per la formazione del sistema sovietico, basato sulla statalizzazione dell’agricol- tura, la pianificazione della produzione industriale e un abnorme sistema repressivo, gestito dalla polizia politica e collegato per mille fili a quella «rivoluzione dall’alto» che Stalin volle imporre all’economia e alla socie- tà sovietiche. Notizie circa le brutali violenze soprattutto nelle campagne (arresti di massa, deportazioni e lavoro forzato) circolarono quasi subito in Europa e negli Stati Uniti. La sinistra internazionale – almeno quella parte che non restò affascinata dall’esperimento staliniano – si rese prota- gonista della denuncia assieme naturalmente a soggetti politici e culturali di altra estrazione. Le notizie che filtrarono circa il lavoro forzato dei pri- gionieri nel settore del legname (per lo più kulaki, espulsi dalle campagne e deportati) infuocarono battaglie «antischiaviste» negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Associazioni umanitarie, sindacati e vari gruppi mirarono a coinvolgere parlamenti e governi sul terreno della legislazione commer- ciale, cercando così di imporre il bando delle merci sovietiche prodotte con il lavoro forzato. I risultati furono tutto sommato scarsi, anche se, per la prima volta nel caso delle repressioni sovietiche, si realizzò una qualche forma di convergenza tra associazioni non governative, che incarnavano la moralità, governi e parlamenti, che incarnavano il potere, e organizzazioni internazionali, come l’ILO, che infine incarnavano, con le loro convenzio- ni internazionali, la dimensione del diritto. Già a partire dal 1932-1933, tuttavia, le campagne antisovietiche per- sero di intensità fino a scomparire, a causa dell’azione congiunta delle tec-
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niche di segretezza sovietiche, sempre più sofisticate, e la diffusa paura dell’avanzata delle destre in Europa che cambiò radicalmente il quadro di riferimento della sinistra internazionale: i critici di Stalin furono progres- sivamente spinti nell’angolo, accusati di fare il gioco del fascismo inter- nazionale. L’avvento di Hitler al potere fu indubbiamente uno spartiac- que della storia che stiamo raccontando. D’altra parte, i critici di Stalin riuscirono sempre meno ad entrare in possesso di una documentazione di qualche valore, come era stata quella degli inizi del decennio. Fatta eccezione per la grande carestia del 1932-1933, coperta dal lavoro di associazioni e di coraggiosi giornalisti, l’URSS entrò giorno dopo giorno in un profondo cono d’ombra, illuminato soltanto dalla falsa luce dei viaggi organizzati dalle autorità sovietiche. Decine e decine di politici, intellettuali, sindacalisti e finanche uomini di chiesa occidentali furono fuorviati sulla realtà del paese che stavano visitando. Eppure, l’eco del lavoro documentario dei primi anni Trenta arrivò fino alla metà del de- cennio, allorquando furono pubblicate le prime grandi opere su Stalin e sullo stalinismo in azione. Ciò detto, la disinformazione crescente ebbe comunque conseguenze di grande portata. Quando Stalin inaugurò la stagione del Grande terro- re, fu possibile cogliere in Occidente soltanto la faccia «pubblica», cioè i grandi processi moscoviti, mentre le brutali «operazioni speciali» del 1937-1938, scatenate contro intere categorie sociali e nazionali, rimasero nascoste per lungo tempo. Stalin dunque vinse non soltanto con i propri avversari interni, veri o presunti che fossero, ma anche consolidò il proprio potere a livello internazionale, riuscendo a proiettare verso Occidente una luce distorta, che lasciò in ombra i suoi crimini peggiori. Stalin non riuscì però ad evitare che l’immagine del suo regime venisse screditata proprio dai processi di Mosca e dal comportamento sovietico all’interno del fronte repubblicano in Spagna. Infatti, alcuni esponenti della sinistra internazio- nale, i quali dal 1933 al 1936 avevano tessuto le lodi dell’URSS come ba- stione antifascista, parlarono apertamente di totalitarismo, sottolineando a più riprese le analogie tra il regime di Hitler e quello di Stalin prima ancora che l’alleanza tra i due venisse stipulata nell’agosto 1939. La teoria del totalitarismo si diffuse in diversi ambienti intellettuali e politici, i quali, nel momento stesso in cui si emancipavano dall’antifascismo a uso sovietico, forgiarono un linguaggio, più tardi impiegato dall’apparato culturale della guerra fredda a guida statunitense.
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2. «Il grande balzo in avanti» di Stalin trova i suoi critici a sinistra In questo paragrafo, dopo aver descritto per sommi capi l’impatto del- la «rivoluzione dall’alto» di Stalin sulle campagne sovietiche, ci sofferme- remo sulla diffusione delle notizie in Occidente, rilevando l’esistenza di un vasto fronte critico che comprese non soltanto le forze della sinistra ostile a Stalin, ma anche conservatori, esponenti di destra e movimenti religiosi. Per la sinistra internazionale, il confronto sulla dekulakizzazione/colletti- vizzazione costituì un passaggio altamente divisivo. Secondo alcuni espo- nenti, le scelte modernizzatrici di Stalin stavano producendo una formida- bile regressione sul terreno dell’organizzazione della società, smentendo tutte le promesse fatte sull’URSS come luogo dell’emancipazione dei la- voratori. I contadini erano ridotti a servi di un regime variamente definito castale, feudale o arcaico. Per altri esponenti della sinistra internazionale, invece, l’entusiasmo per la modernizzazione staliniana confermò simpatie già esistenti verso l’esperimento sovietico. Gli amici del comunismo so- vietico furono senz’altro la maggioranza, ma i primi accenni di lettura del regime sovietico come regime «regressivo», discussi in questo paragrafo, non devono essere sottovalutati, perché comunque lasciarono una traccia profonda nella formazione dell’immaginario occidentale riguardo l’URSS. Iniziamo dalla descrizione della «rivoluzione dall’alto» di Stalin. Essa costituì il frutto della decisione del gruppo dirigente staliniano di impiega- re la «superstruttura» militar-burocratica per edificare in tempi brevi una «struttura» sociale ed economica di tipo moderno, rispondente ai criteri ideologici del regime. 1 L’espressione più caratteristica di questa decisione fu l’estrazione manu militari delle risorse dalle campagne, con metodi che rievocarono le pratiche del comunismo di guerra del tempo della guerra civile. Il monopolio delle risorse alimentari era ritenuto decisivo per otte- nere tecnologia moderna, grazie alla divisa estera ricavata dalle esportazio- ni. L’intensità di questa estrazione derivò non soltanto dall’ideologia, ma anche dal crollo dei prezzi delle materie prime sul mercato internazionale nel contesto della grande crisi del 1929, prendendo la strada di una brutale aggressione rivolta verso le campagne nelle forme della dekulakizzazione come passaggio necessario verso la collettivizzazione forzata dell’agricol- tura. 2 Attraverso l’impiego della tecnologia occidentale, il regime avviò un 1. Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, pp. 216-217. 2. Ivi, pp. 256-294.
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processo di trasformazione industriale su basi integralmente statali all’in- segna di idee contrarie alla moderna economia di mercato, cioè senza un reale riferimento ai costi di produzione. La guerra dello stato sovietico contro i contadini produsse una cifra enorme di deportati. La prima grande deportazione speciale fu attuata nel febbraio 1930 nell’ambito dell’operazione di liquidazione dei kulaki in quanto classe: 115.000 famiglie (vale a dire 560.000 donne, uomini e bam- bini) furono strappati dalle regioni agricole più ricche (Ucraina, Kuban’ e le regioni del Volga) per portarli nel Nord, sugli Urali o in Siberia. La logistica militare (con la mobilitazione delle truppe speciali della OGPU) trovò applicazione nuovamente tra maggio e settembre 1931, allorquando furono deportate 265.000 famiglie, vale a dire più di 1.240.000 persone. La cifra totale del biennio 1930-1931 raggiunse dunque oltre 1.800.000 perso- ne, anche se il primo censimento dei deportati speciali all’inizio del 1932 contò poco più di 1.300.000 persone. Gli studiosi convengono che almeno 260.000 deportati siano morti, in gran parte bambini e persone anziane. Nel 1932-1933 le deportazioni proseguirono, ma su scala minore, per un totale di 340.000 persone in due anni. 3 La statalizzazione dell’agricoltura, con il suo corollario di arresti, deportazioni dei contadini più ricchi e as- servimento degli altri all’interno delle fattorie collettive, finì per provocare il «disastro del biennio 1931-1932». La siccità agì su una situazione già precaria: gli agricoltori più intraprendenti erano stati deportati, gli altri si trovarono a condurre la produzione sotto il dominio di un apparato che non era soltanto oppressivo, ma anche inesperto. L’introduzione di macchine agricole fu spesso disastrosa. La distruzione del patrimonio zootecnico, frutto delle politiche d’assalto del regime, completò il quadro. 4 La fame fu il logico punto di approdo di questa situazione. A fronte di ciò, il fascino sprigionato dal dirigismo sovietico al tempo della Grande depressione non finisce di stupire. Molti evidentemente guar- 3. Le Goulag, pp. 186-187. Si veda Andrea Graziosi, La grande guerra contadina 1918-1933, Milano, Officina libraria, 2022 (I ed. 1996), pp. 74-95. Si vedano anche Shei- la Fitzpatrick, Stalin and Survival in the Russian Village After Collectivization, Oxford, Oxford University Press, 1994; Lynn Viola, Peasant Rebels Under Stalin. Collectivization and the Culture of Peasant Resistance, Oxford-New York, Oxford University Press, 1996; Nicolas Werth, The Soviet State and Peasants, in Communism, vol. I: World Revolution and Socialism in One Country 1917-1941, a cura di Silvio Pons e Stephen A. Smith, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, pp. 399-423. 4. Cinnella, La Russia di Stalin, p. 421.
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darono la violenza statale come un aspetto inevitabile del progresso socia- le che il regime di Stalin stava comunque realizzando, collettivizzando le campagne e dunque ponendo le basi per l’industrializzazione. Trattandosi di un atteggiamento molto diffuso, gli storici hanno discusso a lungo di questa perdita di capacità critica, che prese le forme della credulità, del va- gheggiamento di nuove forme di organizzazione sociale, di «pellegrinaggi politici» da parte di gente che acquisì meritatamente il titolo di «compa- gni di strada del comunismo». 5 Diversamente, la sinistra critica del potere sovietico, la quale negli anni Venti si era dedicati quasi esclusivamente alla situazione dei prigionieri politici di sinistra, fece un notevole passo in avanti, smettendo definitivamente di guardare al regime sovietico come un regime rivoluzionario che usava metodi sbagliati. Di rivoluzionario era rimasto soltanto la facciata ideologica, giacché nella sostanza operava uno stato militare deciso a imporre con la forza un ordine sociale completa- mente estraneo, se non opposto, agli ideali di giustizia e emancipazione umana per i quali diceva invece di lottare. Riemerse semmai la tradizione di Pietro il Grande della «modernizzazione senza libertà», con i suoi tratti caratteristici: il consolidamento di un corpo di polizia separato, dotato di enormi poteri, l’allargamento della lista dei reati politici e infine l’uso del lavoro forzato dei prigionieri e dei deportati. 6 La riflessione dei critici di Stalin si svolse in un quadro internaziona- le aperto e in movimento, assai diverso – lo vedremo – da quello della metà del decennio, allorquando la legittimazione dell’URSS come bastio- ne antinazista diminuì oggettivamente le possibilità della critica. Adesso, i risultati raggiunti sul piano documentario e interpretativo furono condivisi da gruppi di diversa ispirazione culturale lungo uno spettro che andava dal liberalismo al socialismo fino alla sinistra più radicale. Il primo risultato 5. Sulla fascinazione sovietica esiste una vasta letteratura che ha messo in evidenza la dimensione della ricerca da parte degli intellettuali di un mondo diverso dal proprio nei termini messianici di una terra promessa. Paul Hollander, Political Pilgrims. Western Intellectuals in Search of the Good Society, New Brunswick NJ, Transaction Publishers, 1998; David Caute, The Fellow-Travellers: Intellectual Friends of Communism, New Ha- ven, Yale University Press, 1988; Il mito dell’URSS. La cultura occidentale e l’Unione sovietica, a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Milano, Feltrinelli, 1990. Sophie Coeuré, La Grande lueur à l’Est; Engerman, Modernization from the Other Shore; Joy Carew, Blacks, Reds and Russians: Soujorners in Search of the Soviet Promise, New Brunswick NJ, Rutgers University Press, 2010. 6. Ferretti, Pensare il Gulag, pp. 560-568.
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riguardò la configurazione della società rurale russa. Fu evidenziato che la divisione del mondo delle campagne in contadini, ricchi, medi e poveri era in larga parte un’invenzione ideologica dei bolscevichi per distruggere le reti e le solidarietà esistenti nel mondo rurale. Questa opera di distru- zione – ecco il secondo risultato – aveva richiesto la formazione di un enorme apparato repressivo militare, utilizzato per deportare una parte del- le famiglie contadine e ridurre all’obbedienza le altre, costringendole nelle fattorie collettive. Terzo, e più importante approdo, fu la definizione della collettivizzazione come forma brutale di statalizzazione dell’agricoltura che, non avendo niente a che fare con il socialismo, finì per riportare indie- tro le lancette della storia o, se si preferisce, a deviarla verso forme di un dispotismo senza confronti in Europa. Un dispotismo peraltro che – ven- ne spesso ribadito – faceva fatica ad affermarsi compiutamente, perché l’operazione di strappare la terra ai contadini, e di distruggere le loro li- bertà, aveva provocato una «resistenza passiva» non facile da reprimere. 7 Conviene connettere questo sforzo interpretativo con idee e infor- mazioni che circolarono contemporaneamente in altri settori dell’opinio- ne pubblica internazionale. Con il suo portato di distruzione di tradizioni comunitarie, la collettivizzazione staliniana suscitò infatti innanzi tutto la reazione di forze tradizionaliste, religiose e conservatrici, le quali guar- davano le campagne come un luogo di stabilità politica e sociale e non avevano simpatizzato (se non marginalmente e in relazione alla guerra) con il processo rivoluzionario che aveva travolto il regime zarista nel feb- braio 1917. La deportazione dei contadini in luoghi estremi per realizzare gli obbiettivi produttivi del regime venne vista da più parti come l’incar- nazione della natura aggressiva di uno stato militare su basi ideologiche rivoluzionarie, intenzionato a distruggere ogni resistenza opposta sul cam- mino dell’industrializzazione come base della potenza di quello stato. Per il nostro racconto, ripercorrere sia pure per sommi capi, la mobilitazione di queste forze è importante perché, pur essendo distanti idealmente dalle forze progressiste, esse dettero un contributo in termini di notizie, testi- monianze e interpretazioni, al quale la sinistra si abbeverò costantemente. In Francia, «Je suis Partout», rivista maurrasiana i cui autori simpatiz- zavano per il fascismo italiano, dedicò all’inizio degli anni Trenta una par- te consistente delle proprie energie a ritrarre il caos della collettivizzazione sovietica, la resistenza contadina e dunque l’uso brutale del terrore stali- 7. Graziosi, La grande guerra contadina, pp. 85-86.
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niano. Una dinamica che apparve drammatica al direttore Pierre Gaxotte e ai suoi collaboratori, perché portava al dissesto del rapporto tradizionale tra l’uomo e la terra, visto come «mistico». Il confronto tra URSS e antiche forme di dispotismo orientale fu accompagnato nelle pagine di questo gior- nale da una disamina delle difficoltà della collettivizzazione: la distruzione del bestiame, l’insufficienza delle sementi, il problema dei trasporti, la crisi dei trattori finiti in riparazione ancora prima di entrare in funzione. Soprat- tutto si dette notizia delle ribellioni contadine e della capillare repressione sovietica. L’orientamento degli autori della rivista era fortemente segnato dalla critica ideologica nei confronti della rivoluzione come figura di una minacciosa modernità alla quale essi si opponevano con tutte le loro forze. Al di là dell’ideologia autoritaria a cui erano ispirati, una parte degli arti- coli che «Je suis partout» dedicò alla collettivizzazione sovietica furono il frutto di uno sforzo reale di comprensione. 8 La strategia discorsiva di respingere il comunismo indietro nel tempo, quasi fosse la forma nuova di un fenomeno arcaico, era ben studiata per consolidare le convinzioni del pubblico di destra circa la falsità della mitologia progressista. In un modo non molto diverso il mondo conservatore d’ispirazione li- berale trovò nei metodi staliniani la conferma di ciò che aveva sempre pen- sato delle ideologie rivoluzionarie. In Gran Bretagna, «The Times», diretto da George Dawson, raccontò con una certa continuità la lotta all’ultimo sangue che si svolgeva nelle campagne sovietiche. Il 6 marzo 1930 fu de- nunciata la «nuova servitù in Russia», descritta in termini crudi e realistici: In questo lavoro di distruzione, i sovietici possono credere nel loro successo. Con un fanatico senza pietà alla guida di un esercito di agenti brutali, non è difficile sradicare un milione o giù di lì di famiglie sparse nelle pianure russe. Alcuni possono scappare nei paesi vicini; altri possono aver successo nell’or- ganizzare bande di briganti senza tetto e ingaggiarsi in saccheggi sporadici e assalti ai treni. Ma il risultato maggiore non può essere seriamente messo in 8. Il 26 dicembre 1931, nell’ambito di un numero speciale dedicato a La Russie des Soviets, Pierre Gaxotte, criticando le falsità raccontate dai visitatori progressisti occidentali e francesi in particolare, riprese l’immagine delle piramidi: «Una civiltà non si esprime solo con le sue creazioni o distruzioni materiali. Non si misura solo con le tonnellate di cemento, ma anche con i valori morali, con il rispetto della dignità umana. I faraoni costruirono pira- midi che sono durate e dureranno più a lungo degli orgogliosi edifici industriali dei sovie- tici. Non possiamo dimenticare che sono state costruite da schiavi che lavoravano sotto la frusta». Nello stesso numero uscirono saggi su La collectivisation des terres et la résistance paysanne e Pour mater le paysan du Caucase, in «Je Suis Partout», 26 dicembre 1931, p. 5.
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dubbio. Un’intera classe della popolazione sovietica sarà spazzata via, quella classe che fino ad oggi ha provveduto a sfamare il paese e a produrre risorse per l’esportazione. Il resto della popolazione agricola sarà ridotto a uno stato più abbietto della servitù dalla quale è stato liberato nel 1861. 9
Ancora una volta, insomma, la bandiera rossa del progresso rivoluzio- nario nascondeva un processo di restaurazione di vecchie forme di domi- nio come quelle d’epoca zarista precedenti la riforma del 1861. Peraltro, il riferimento a possibili manifestazioni di brigantaggio era azzeccato, giac- ché esse non tardarono a verificarsi. E, pur dando per spacciata ogni forma di resistenza contadina, l’autore dell’articolo sottolineò che le campagne sovietiche erano attraversate da un dissenso di massa con buona pace di coloro i quali in Occidente ritenevano che la collettivizzazione di Stalin servisse in definitiva a migliorare le condizioni di vita degli stessi conta- dini. 10 Del pari, il riferimento al ritorno della servitù era inteso a colpire senza pietà le illusioni progressiste della sinistra britannica circa la natura del regime sovietico. L’attacco alle campagne fece un tutt’uno con l’attacco alla religione. Fu dunque naturale che le chiese cristiane, a partire da quella anglicana e da quella cattolica, si mobilitassero contro la repressione religiosa. Questa ebbe una ripresa in grande stile con il decreto dell’aprile 1929 che di fatto avviò la chiusura delle chiese, la proibizione delle attività sociali delle co- munità religiose e infine la perdita dei diritti civili e politici di coloro i quali professavano la loro fede. Il 19 dicembre dello stesso anno si tenne un ra- duno di massa al Royal Albert Hall di Londra, organizzato dall’arcivesco- vo di Canterbury, Cosmo Gordon Lang, e dal prebendario Alfred Cough, animatore del Christian Protest Movement e autore di un libro nel quale aveva criticato la tendenza sovietizzante interna al Labour. 11 Il tema della repressione religiosa era intrecciato con il tema della collettivizzazione nel senso che lo sradicamento delle tradizioni, dei simboli e dei riti religiosi era sentito dal regime come necessario per realizzare il socialismo. Questo di fatto si presentò – è stato scritto da Lynn Viola – come una violenta 9. The Times, The New Serfdom in Russia, in «The Times», 6 marzo 1930, p. 15. 10. Sull’opposizione contadina vedi Graziosi, La grande guerra contadina, pp. 79- 83. 11. Alfred Cough, The Lure of Simplicity, London, E. Nash & Grayson, 1929. Le informazioni su questa mobilitazione religiosa contro l’inclinazione prosovietica del labu- rismo al potere si trovano in Udy, Labour and the Gulag, pp. 210-212.
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rivoluzione antropologica, tesa a scardinare l’intero mondo interiore dei contadini per ridurli a operai-servi nelle aziende statali. 12 La brutalità impiegata dal regime di Stalin fu all’origine di un vasto movimento religioso di solidarietà con i fratelli russi perseguitati. A Roma, Pio XI convocò il 19 marzo 1930 una giornata di preghiera a San Pietro, radunando 50.000 persone. Questa chiamata alle armi del mondo cattolico fu espressione della precisa volontà del papa di metter fine ai tentativi di- plomatici fatti con il governo sovietico, una strategia che aveva caratteriz- zato gli anni Venti. Era adesso giunto il momento di attivare i canali della protesta internazionale. 13 Nel 1930 Michel d’Herbigny, presidente gesuita della Commissione pro Russia e consigliere della Santa sede per gli affari russi, pubblicò un libro, frutto delle conoscenze che egli aveva maturato negli anni precedenti, allorquando si era recato in URSS con il compito di consolidare il sistema di nomine clandestine di vescovi cattolici, che peraltro venne presto spazzato via dalla repressione staliniana. 14 Dal canto suo, la Lutheran World Convention chiamò a raccolta i protestanti di tutto il mondo. Il primate della Chiesa ortodossa in Canada e negli Stati Uniti e quello della Chiesa greca si mobilitarono. Fecero lo stesso molte comunità ebraiche, la chiesa metodista e quella presbiteriana. 15 I mennoniti precedentemente emigrati negli Stati Uniti e in Canada vennero a sapere dalle pagine del «Mennonitische Rundschau» cosa stava succedendo ai loro amici e parenti rimasti in URSS. Alcune lettere pubbli- cate provennero dai campi di concentramento, altre testimoniarono della situazione dei villaggi in Ucraina e nel Caucaso durante la collettivizza- zione, dove le comunità erano state attaccate attraverso tasse esorbitanti, confische, arresti ed esilio in regioni remote della Siberia. Un certo numero di mennoniti era riuscito a emigrare in Canada ancora nel corso del 1929, ma in seguito la situazione si era fatta più difficile. 16 Quello dei mennoniti 12. Viola, Peasant Rebels, in particolare pp. 13-44. 13. Su questi argomenti, il lavoro già richiamato di Pettinaroli, La politique russe de la Sainte Siège. 14. Michel d’Herbigny, La guerre antireligiouse en Russie soviétique, Paris, Spes, 1930. 15. Queste informazioni si trovano in Udy, Labour and the Gulag, pp. 259-264. 16. Punti di riferimento essenziale per conoscere questa storia è il volume di Harold Jantz, Flight che raccoglie gli articoli pubblicati nel 1929-1930 su «Mennonitische Rund- schau». Si veda a proposito https://mennonitemuseum.org/flight-harold-jantz/. Di grande importanza per la vicenda dei mennoniti in URSS gli articoli di Terry Martin, The Russian
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fu soltanto una parte del problema dei tedeschi sovietici, la cui tragedia, nel contesto drammatico della collettivizzazione staliniana, spinse le auto- rità di Weimar ad intervenire. Il presidente Hindenburg donò duecentomila marchi a un’organizzazione che raccoglieva denari per sostenere i coloni tedeschi sovietici. Furono esercitate pressioni sul governo sovietico da più parti, ma soltanto piccoli gruppi assieme a membri di altre minoranze (po- lacchi, finlandesi, greci, baltici, svedesi e bulgari) riuscirono a emigrare, portando così con sé testimonianze reali di cosa stava succedendo. Le pro- teste sul terreno della diplomazia non si fecero attendere, anche se sortiro- no scarsi risultati. Nel marzo 1930, l’ambasciatore tedesco a Mosca scrisse a Berlino della necessità di far comprendere ai dirigenti dell’URSS che i maltrattamenti dei tedeschi sovietici avrebbero avuto «un impatto inevita- bile sulle relazioni tedesco-sovietiche». Caratterizzate da un’intensa colla- borazione sul piano militare e su quello economico-finanziario, le relazioni tra due governi non risentirono però particolarmente di queste proteste. In altri termini, se nella battaglia degli anni Venti a favore dei pri- gionieri politici la sinistra internazionale era stata protagonista assoluta, potendosi collegare a una tradizione importante a favore dei diritti dei pri- gionieri nell’impero zarista, adesso le cose erano cambiate. L’aggressione manu militari contro le campagne sovietiche portò alla ribalta altre forze politiche e culturali e allo stesso tempo una crisi profonda tra le fila di coloro i quali avevano cercato di convivere intellettualmente con il regime ai tempi della NEP. Essi dovettero scegliere il loro posto di osservatori del «balzo in avanti» di Stalin: alcuni, fedeli alla mitologia progressista, non batterono ciglio di fronte alle violenze brutali, convinti che la violenza fosse necessaria per sconfiggere l’arretratezza e trascinare così una società ancora prevalentemente rurale verso la modernità industriale. Altri, invece, più fedeli al carattere umanitario del socialismo, non fecero sconti a Stalin, negando il diritto a sacrificare intere generazioni per realizzare l’obiettivo, pur grandioso, della rapida trasformazione della società e dell’economia. Attorno alla rivoluzione dall’alto di Stalin si era prodotto un largo consenso liberale, innanzi tutto negli Stati Uniti. Già alla vigilia del primo Mennonite Encounter with the Soviet State, 1917-1955: 1) Revolution and the Search for Accommodation, 1917-1926; 2) Collectivization, Famine, and Terror, 1926-1934; 3) Ter- ror, Forced Labor, and Internal Exile, 1935-1955, in «Conrad Grebel Review», 1 (2002), pp. 5-55. Di Terry Martin, The Affermative Action Empire, Nations and Nationalism in the Soviet Union 1923-1939, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2017 (I ed. 2001).
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piano quinquennale, Rexford Tugwell, economista della Columbia Uni- versity e destinato a diventare un membro del brain trust di Roosevelt, si avventurò in una riflessione sull’economia sovietica, convinto che la pia- nificazione statale dovesse comunque fare i conti con i contadini, definiti come una «pesante massa amorfa». 17 Era tornato da un viaggio a Mosca nel 1927 convinto che l’idea tecnocratica di una società pianificata potesse in- contrare meno ostacoli che negli Stati Uniti. Anche Charles Beard, storico e scienziato sociale, sognava di rifare il mondo sul modello sovietico, isti- tuendo un’autorità centrale che prendesse in carica il problema della pia- nificazione unitaria dell’economia. Beard fu un altro cervello che avrebbe funzionato per il New Deal come esponente della cultura progressive sta- tunitense. 18 Il punto fu che la pianificazione sovietica, interamente a guida statale, partecipava – come ebbe a dire nel 1931 Lewis Lorwin – di una spinta più generale verso l’organizzazione razionale dell’economia mo- derna. Economisti come Stuart Chase e George Soule condivisero con il loro mentore Thorstein Veblen – il celebre autore di Teoria della classe agiata – l’entusiasmo per l’organizzazione dell’economia da parte degli apparati pubblici. 19 Una prima interessante spia della difficoltà di orientarsi attorno al tema della violenza staliniana è costituita dal mondo della grande stam- pa liberal-democratica, e in particolare dal ruolo svolto dai corrispondenti da Mosca. Il più celebre tra essi fu Walter Duranty, corrispondente per il «New York Times» dal 1926. Egli scrisse della collettivizzazione secon- do il classico metodo «luci e ombre», che più tardi, nel 1932, gli sarebbe valso il premio Pulitzer. 20 Il 20 dicembre 1929 criticò le disfunzioni del sistema che rischiavano di far fallire gli obbiettivi, attribuiti all’industria del legname dal primo piano quinquennale. La «grande scarsità di lavoro» metteva di fronte il regime alla necessità di dar vita a una «più o meno spontanea crescita di qualcosa che si approssima all’armata del lavoro, di- fesa da Trockij dieci anni fa». 21 Ammise che la scelta di costruire questa armata con le «classi dispossessate», cioè i kulaki, era piuttosto brutale, 17. Cit. in Engerman, Modernization from the Other Shore, p. 170. 18. Ivi, p. 166. 19. Ivi, p. 156. 20. Vedi su questa figura la ricerca di S.J. Taylor, Stalin’s Apologist. Walter Duranty: The New York Times’ Man in Moscow, New York, Oxford University Press, 1990. 21. Walter Duranty, Soviet Timber Threatens t0 Fail, in «New York Times», 20 di- cembre 1929.
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come si legge in un altro articolo risalente al 26 gennaio 1930. Tuttavia, lasciò intendere che questa brutalità era necessaria se davvero si voleva portare a compimento la costruzione di un paese moderno. Duranty si disse convinto che le classi dispossessate avrebbero riguadagnato lentamente un posto nella società «lavorando nei campi del legname oppure nei progetti di costruzioni dove la domanda di lavoro eccede l’offerta». 22 Uno sforzo più profondo intellettualmente, e moralmente più netto, fu fatto da Paul Scheffer, inviato a Mosca per il «Berliner Tagenblatt». Su «Foreign Af- fairs», di cui era collaboratore, sostenne che la collettivizzazione era stata avviata sostanzialmente per ragioni politiche nel senso che il commercio privato e le fattorie indipendenti rappresentavano alla lunga una minaccia per la stabilità del regime nel suo complesso: «senza industrializzazione, senza proletarizzazione, lo stato sovietico un giorno o l’altro collasserà nel mare di 139.000.000 di contadini. Esso necessita di un’isola sulla quale possa sentirsi sicuro». 23 In altri termini, l’insicurezza dei bolscevichi, unita alle potenzialità aggressive dello stato militare di polizia che essi aveva- no costruito, rappresentava agli occhi del giornalista tedesco una miscela esplosiva per la tenuta di quella parvenza di diritti civili che ancora esiste- va in URSS. Se Duranty venne premiato con un prestigioso riconoscimen- to internazionale, Scheffer ottenne soltanto di essere espulso dall’URSS. William Henry Chamberlin stava rapidamente transitando verso le posizioni di Scheffer. Inviato a Mosca dal 1922 per il «Christian Science Monitor», egli aveva a lungo simpatizzato con il regime sovietico, come si apprende dalla lettura del volume che egli pubblicò nel 1930 con il titolo Soviet Russia. 24 Tuttavia, la nuova edizione dello stesso volume, uscita nel 1931, segnò una qualche discontinuità nel senso che l’autore avanzò in essa critiche molto severe verso le scelte più recenti del regime. 25 I lavori 22. Id., Soviets Ruthless in War on Kulaks, in «New York Times», 26 gennaio 1930, p. 1. 23. Paul Scheffer, The Crisis of the NEP in Soviet Russia, in «Foreign Affairs», 2 (1929), p. 239. Leriflessioni sulla sua esperienza in URSS in Paul Scheffer, Seven Years in Soviet Russia, New York, Putnam, 1932. 24. William Henry Chamberlin, Soviet Russia. A Living Record and a History, Bo- ston, Little, Brown & Company, 1930. 25. Nella nuova edizione, Chamberlin scrisse con maggior enfasi a proposito della «spietata spinta verso la collettivizzazione da parte di Stalin». William Henry Chamber- lin, Soviet Russia. A Living Record and a History, Boston, Little, Brown & Company, 1931, p. 193.
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di Chamberlin e Scheffer, ispirati agli ideali del progressismo liberale, non furono gli unici a tracciare un punto di vista critico nei confronti della «ri- voluzione dall’alto» di Stalin. Residente per qualche tempo a Mosca grazie a una fellowship ricevuta dal Social Science Research Council, l’economi- sta Calvin B. Hoover descrisse la dekulakizzazione con grande chiarezza, sottolineando le brutalità della confisca delle terre, delle case, degli anima- li, dei macchinari, del grano e delle scorte di cibo fino all’espulsione dai villaggi e alla deportazione. Per questa ragione, aggiunse: I kulaki resistettero alla collettivizzazione al massimo, e alla loro opposizione partecipò la gran parte dei ceredniki e persino una parte dei bedniki. I kulaki sentivano che avevano poco da perdere opponendosi. Erano comunque consi- derati dei paria. Era negato loro entrare nei Kolchoz, e qualora il movimento della collettivizzazione avesse avuto successo sapevano di essere perduti. Ricorsero a ogni possibile mezzo per combattere la diffusione della collet- tivizzazione dal diffondere false notizie a dar fuoco ai fienili delle fattorie collettive fino all’assassinio dei comunisti locali. 26
A suggello di questa rassegna, si può far riferimento al giudizio espres- so da Miljukov, il grande storico e politico russo in esilio che abbiamo già incontrato nel precedente capitolo. Nel marzo 1930 egli pubblicò sui «Ca- hiers des droits de l’homme» un articolo nel quale la guerra scatenata da Stalin contro le campagne sovietiche era definita una sorta di «invasione di nomadi» e anche una «conquista in stile assiro». 27 Queste espressioni mostrano un’intuizione precoce circa i caratteri regressivi prodotti dalle politiche staliniane. Per procedere sulla strada del progresso – lasciò in- tendere Miljukov – il gruppo dirigente sovietico stava impiegando me- todi che rievocavano un passato lontano, violento e dispotico. L’efficacia politica di queste definizioni è fuori discussione: se da un lato i bolscevichi e i loro amici occidentali pretendevano di monopolizzare l’immagine del progresso storico, dall’altra, i critici di Stalin avevano gioco facile nell’e- vocare scenari arcaici (le deportazioni assire) per ricacciare il bolscevismo in un mondo più primitivo, estraneo alla civiltà moderna. A partire da que- ste prime battute, un punto di vista critico sulla «rivoluzione dall’alto» di Stalin stava dunque prendendo forma, certamente molto più sofisticato di 26. Calvin B. Hoover, The Economic Life of Soviet Russia, New York, Mac Millan, 1931, p. 98. 27. Pavel Miljukov, La Terreur sous les Soviets, in «Les Cahiers des Droits de l’Hom- me», 7 (1930), p. 146.
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quello espresso dai simpatizzanti occidentali di quel regime. Come vedre- mo, a metà del decennio, autori come Chamberlin e Souvarine seppero sviluppare le idee di Miljukov, senza però troppo indulgere negli arcaismi evocati dallo storico e politico russo. Questi autori piuttosto cercarono di conciliare il carattere radicalmente nuovo delle politiche d’assalto di Sta- lin, derivato dalla Grande guerra, e la rappresentazione di queste stesse politiche in termini arcaico-regressivi. Nel mondo socialista internazionale, molti dirigenti e militanti non furono inizialmente disposti a concedere che il regime sovietico, pur uti- lizzando metodi così primitivi e violenti, venisse escluso dalla linea del progresso storico. Questa convinzione era così salda da non essere scalfita neppure dal fatto che i vertici dello stato sovietico e dell’internazionale comunista proclamarono proprio allora la teoria del «social-fascismo». Ad esempio, il secondo governo laburista, presieduto di nuovo da MacDonald, riconobbe l’URSS sul piano diplomatico, mostrando di non aver alcuna intenzione di entrare in collisione con il regime di Stalin a causa delle notizie che circolavano sopra le violenze nelle campagne sovietiche. Con le trattative commerciali in corso tra i due governi, i laburisti mostrarono una disponibilità soltanto formale a verificare le notizie giunte fino ad al- lora. MacDonald in persona avanzò l’ipotesi che si trattasse di falsità belle e buone, come scrisse sulla stampa britannica. 28 Il giudizio era affrettato, giacché i dispacci provenienti dalla stessa ambasciata britannica a Mo- sca, guidata da Esmond Ovey, affermavano tutt’altro. In particolare, uno di essi, risalente al 21 aprile, raccontò l’esperienza di un funzionario che aveva visto con i propri occhi convogli di contadini caricati su vagoni in attesa di essere inviati in Siberia. 29 Il lavoro di controinformazione svolto da alcune riviste non fu preso in considerazione. La «Socialističeskij Vestnik» pubblicò notizie sulla vita sovietica raccontata dall’interno, grazie al lavoro di informatori che riusci- 28. Su «Labour Magazine» e «Daily Herald», Macdonald scrisse di aver ricevuto molte lettere circa le persecuzioni, in particolar modo quelle a sfondo religioso, aggiun- gendo però che «una buona parte di esse […] si sono rivelate false». Andrew J. Williams, Labour and Russia. The Attitude of the Labour Party to the USSR, 1924-1934, Manchester- New York, Manchester University Press, 1989, p. 107. 29. Williams ha concluso correttamente che «la deportazione dei kulaki era ben nota a Ovey e perciò al Foreign Office». D’altra parte, lo stesso Ovey scrisse a Arthur Henderson, segretario del Foreign Office in carica, che «non si può distruggere la torta del bolscevismo, e continuare ad avere la torta del commercio con la Russia […]». Ivi, pp. 129-130.
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vano a far passare qualche documento, lettera o testimonianza attraverso il confine con la Finlandia. La rivista veniva pubblicata in russo, ma le noti- zie da essa riportate furono costantemente riprese da altri periodici in lin- gua tedesca, inglese e francese. Nei primi mesi del 1930, «Socialističeskij Vestnik» fece conoscere al pubblico una direttiva segreta del Cremlino in- dirizzata alle organizzazioni locali del partito che riguardava il trattamen- to dei kulaki. Quelli che erano stati identificati come controrivoluzionari, dovevano essere fucilati, mentre quelli che comunque impiegavano lavo- ratori salariati dovevano essere privati dei loro beni. Alla confisca doveva seguire l’esilio e il lavoro forzato. I rimanenti dovevano invece essere de- portati fuori dal loro distretto, dopo, s’intende, la confisca delle proprietà. Un corrispondente della rivista menscevica fece sapere che un comunista di primo piano – così si vociferava – aveva dichiarato: «Noi dobbiamo distruggere cinque milioni di persone». 30 L’orrore della statalizzazione del- le campagne era destinato a riversarsi presto nelle città, coinvolgendo, in una crescente spirale repressiva, intellettuali, tecnici e classe operaia. 31 Tradotte in francese, molte di queste informazioni uscirono sulle pa- gine di «La Russie opprimée». La rivista di Kerenskij proseguì il lavoro iniziato alla metà degli anni Venti, risultando sempre molto informata sulla situazione delle campagne sovietiche. In un articolo del 13 luglio 1929, fu passata al vaglio l’ossessione dei bolscevichi per i kulaki, concludendo che questi ultimi rappresentavano agli occhi del regime uno spauracchio ideologico funzionale a nascondere il vero obiettivo, ossia togliere alle «masse contadine» quell’autonomia sociale che impediva al regime di im- padronirsi delle risorse della terra. 32 Il 21 settembre il lettore della rivista poté cogliere con maggior chiarezza quanto anticipato nel precedente arti- colo: l’attacco ai kulaki era funzionale a distruggere la libertà di commer- 30. Il corrispondente giudicò il celebre articolo di Stalin del marzo 1930 sulle vertigi- ni del successo poco significativo: il cambiamento, a suo giudizio, era avvenuto soltanto per paura delle possibili reazioni dell’esercito, attraversato dal malumore dei soldati. La ritira- ta – ed era corretto – era soltanto tattica e oramai gli effetti di collettivizzazione e dekula- kizzazione erano realizzati: distruzione del patrimonio zootecnico, disorganizzazione della produzione agricola trasformazione dello status sociale dei contadini adesso soggetti a una nuova servitù. I segnali che la guerra tra stato e contadini sarebbe ripresa a breve c’erano tutti. Liebich, From the Other Shore, pp. 189-190. 31. Ivi, p. 190. 32. Si leggeva: «I bolscevichi chiamano tutti i loro nemici kulaki, e sono le stesse masse contadine a diventare sempre più loro nemiche». Partout des koulaks, in «La Russie opprimée», 13 luglio 1929, p. 1.
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cio e il possesso contadino della terra, instaurando così un «regime feudale comunista». 33 Anche i socialisti rivoluzionari dunque certificarono il ritor- no alla servitù della gleba per mano di uno stato-partito che aveva azzerato la riforma realizzata da Alessandro II nel 1861. 34 Questa caratterizzazione del regime bolscevico come agente di regressione storica rispetto all’epoca zarista fu un cavallo di battaglia del tour che Kerenskij svolse nella prima metà del 1930 in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, parlando in aule par- lamentari, club universitari, sedi di sindacati e di associazioni umanitarie. 35 Da questi interventi risulta piuttosto evidente il bisogno di consolidare una retorica discorsiva opposta a quella del comunismo sovietico, caratteriz- zando quest’ultimo appunto come «regime feudale». Di nuovo, l’indubbia brutalità delle politiche di Stalin venne rappresentata usando gli strumenti retorici reputati più adatti a rovesciare il tronfio progressismo comunista: da partito più rivoluzionario degli altri, il bolscevismo era diventato insom- ma lo strumento della più bieca restaurazione. In Francia il lavoro de «La Russie opprimée» fu coadiuvato da «Le Po- pulaire», il giornale socialista diretto da Léon Blum. 36 Quest’ultimo affidò a Oreste Rosenfeld, un menscevico russo che risiedeva da tempo a Parigi, il compito di raccontare il dramma della dekulakizzazione e della colletti- vizzazione al pubblico francese di sinistra. Il 21 gennaio 1930 Rosenfeld denunciò la «vera orgia di collettivizzazione attraverso la violenza» che si snodava attraverso una serie di atti brutali: confisca di beni, arresti di massa, deportazione di contadini recalcitranti, esecuzioni senza sentenza di kulaki o presunti tali. 37 Il 20 agosto successivo scrisse a proposito della diffusione dell’inflazione e della perdita di valore del rublo come risultato della politica di esportazioni forzate delle risorse alimentari. Esportare era 33. L’esclavage en URSS, in «La Russie opprimée», 21 settembre 1929, p. 3. 34. «Soppressa dallo Zar Alessandro II nel 1861, [la] servitù è stata ristabilita dai comunisti nel 1929»: ibidem 35. Richard Abraham, Alexander Kerensky: The First Love of the Revolution, New York, Columbia University Press, 1987, pp. 351-368. Sul partito socialista rivoluzionario in esilio il già citato White, The Socialist Alternative. 36. È ancora valido il saggio di Olivier Duhamel e Nicole Racine, Léon Blum, les socialiste français et l’Union sovietique, in L’URSS vue de gauch, pp. 121-153. Non si può prescindere però dall’opera di Serge Bernstein, il quale coglie tutta la complessità della visione di Blum nella fase storica tra la caduta del cartello delle sinistre e il delinearsi della stagione del fronte popolare. Serge Bernstein, Léon Blum, Paris, Fayard, 2006. 37. Oreste Rosenfeld, Le désastre de l’agriculture, in «Le Populaire», 12 aprile 1930, p. 3. Sulla figura di Rosenfeld, si veda Liebich, From the other Shore, pp. 223-225.
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dunque l’imperativo di un regime votato a una rapida industrializzazione, per la quale si era reso necessario «acquistare all’estero macchinari». 38 La compressione del livello di vita e dei diritti civili era in definitiva il prezzo che il regime aveva deciso di far pagare alla popolazione rurale e urbana per realizzare i propri obiettivi. A Rosenfeld sembrò che stesse trionfando a Mosca una forma accentuata di irrazionalità politica. Scrisse senza indu- gi: «la follia del piano quinquennale e il crimine della collettivizzazione dell’agricoltura attraverso il terrore trovano necessariamente il loro com- pletamento nella demenza dell’esportazione». Gli scritti di Rosenfeld su- scitarono le proteste di alcune organizzazioni aderenti alla SFIO. Soltanto la vicinanza a Blum gli permise di andare avanti. 39 Nel loro complesso, «Socialističeskij Vestnik», «La Russie op- primée» e «Le Populaire» dettero battaglia per disgregare il mito sovie- tico dell’emancipazione delle masse attraverso la statizzazione dell’eco- nomia. E lo fecero grazie all’impiego di informazioni di prima mano che, peraltro, spesso erano giunte direttamente negli uffici londinesi dell’LSI. Tra queste acquisizioni ci fu nel marzo 1931 un corpo di documenti rela- tivi alla situazione della minoranza etnica dei finlandesi ingriani, residen- te nell’oblast’ di Leningrado. Tale documentazione conteneva una lettera, scritta da Helsinki in data 5 marzo, inviata da un comitato di esuli alla Società delle Nazioni. Gli autori si erano rivolti dunque al «mondo civi- lizzato» affinché questo impedisse la ripetizione di eventi simili alla «per- secuzioni dei cristiani armeni nella vecchia Turchia». Questo riferimento è particolarmente interessante nella misura in cui, riferendosi al genocidio degli armeni e non al lontano passato delle deportazioni assire, gli autori segnalarono il carattere, per così dire, moderno delle politiche di sterminio su base nazionale e religiosa. Ciò detto, le polemiche sul carattere progres- sivo o regressivo del comunismo sovietico erano adatte al dibattito parigi- no, molto meno forse tra la gente che subiva in prima persona la brutalità delle politiche di Stalin. Nella lettera summenzionata fu descritta una scena che potremmo fa- cilmente estendere ad altri gruppi nazionali e sociali sovietici, perseguitati nell’ambito del «grande balzo in avanti» voluto da Stalin: 38. Oreste Rosenfeld, Le gouffre de l’inflation. La réalisation du «plan quinquennal», in «Le Populaire», 20 agosto 1930, p. 3. 39. Blum stesso scrisse la prefazione del volume di Rosenfeld, Le Plan quinquennal. Examen critique, Paris, Libraire populaire du Parti socialiste, 1931.
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Le circostanze nelle quali le espulsioni hanno luogo testimoniano di una cru- deltà incredibile e di una mancanza totale di umanità. Gli uomini armati della GPU, guidati dalle autorità locali o da agenti comunisti, arrivano in piena notte, svegliando gli abitanti, e tutti sono costretti a seguirli immediatamente. Come animali, questi infelici sono trasferiti alla stazione, pigiati dentro carri bestiame e infine condotti, anche quelli il cui padre, madre o fratello sono già stati espulsi, in qualche miniera della penisola di Kola o in una foresta, ai lavori forzati per un periodo di tempo indeterminato, cioè per sempre. E non avrebbero neppure un posto dove tornare, perché la loro casa e gli altri beni sono stati sistematicamente confiscati […]. 40
Questa documentazione presto si moltiplicò, con la circolazione di let- tere di studenti, professori, contadini e rifugiati che furono meticolosamen- te studiate da Kautsky, il quale le conservò tra le sue carte. 41 Nessuno poteva saperlo allora, ma le autorità sovietiche dicevano nei loro documenti strettamente riservati le stesse cose. Recependo lo spirito del celebre articolo sulle «vertigini del successo» che Stalin pubblicò sulla «Pravda» il 2 marzo 1930, il dipartimento d’informazione della OGPU in Siberia stese un rapporto il 25 aprile successivo che riguardava appunto «lo svolgimento del trasporto dei kulaki espropriati e deportati all’interno della regione». Le durissime condizioni di trasporto, la privazione all’arrivo di tutto ciò che era ritenuto superfluo, realizzata da individui non identificati, e ancora la consegna ai deportati di strumenti da lavoro «in stato pietoso» erano fatti che avevano «gravemente compromesso il successo dell’opera- zione di deportazione, che ha per scopo, non si deve dimenticarlo, la messa a valore, grazie al lavoro dei kulaki deportati, delle terre inabitate della regione di Narym». 42 I responsabili nei luoghi in cui i kulaki giunsero non tardarono a descrivere la situazione a tinte fosche. In data 20 aprile 1930, un ufficiale sanitario inviò le sue note al direttore del Dipartimento della salute della regione di Omsk sulla situazione dei bambini deportati: 40. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist Archives, 2611, Dossier betr. die Verfolgung und die Deportation der finnischen Bevölkerung in Ingermanland durch die Bolschewisten. 1931. 38 Bl., 3-9. 41. Si veda International Institute of Social History (Amsterdam), Kautsky Papers, Material über Sowjetrussland, 1917-1934 (H 40_I-XIII), H_40_XI. Terror. Artikel aus den Jahren 1924-1930. 8 St. 42. Extraits du rapport du département Information de l’OGPU de la région Sibérie sur le déroulement du transport des koulaks expropriés et déportés à l’intérieur de la région au 25 avril 1930, in Goulag, p. 198.
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Ti segnalo che i bambini dei kulaki deportati si trovano in una situazione dispe- rata. Per quel che concerne l’alimentazione per esempio, se si prende la fascia di età da due mesi a sette, non c’è né latte, né carne, né zucchero, né grassi di alcun tipo, né semola di alcuno tipo. Persino il pane di segale manca. 43
In una nota successiva, del 30 dello stesso mese, l’ufficiale sanitario evocò lo spettro della «morte per fame». 44 Questa documentazione ufficiale restò segreta, ma dossier come quel- lo ingriano circolarono nel dibattito internazionale di sinistra sul regime sovietico: da un lato, c’era chi giudicò quelle brutalità come la conferma dell’antitesi inconciliabile tra bolscevismo al potere e Rivoluzione russa e chi invece continuò a ritenere che fosse ancora possibile lavorare a una correzione, anche marcata, delle politiche staliniane nel senso di una loro «civilizzazione». Se da un lato l’anarchismo rappresentò la forza forse più intransigente, non disposta a fare alcuno sconto al regime, dall’altro il trockijsmo internazionale continuò a porre il problema del socialismo in URSS come problema di una cattiva direzione politica, che poteva dunque essere risolto attraverso un passaggio di consegne al vertice del regime. Nel mezzo, caratterizzato da una forte tensione ideologica, c’era il socia- lismo internazionale e soprattutto il menscevismo in esilio. Quest’ultimo svolgeva da tempo presso i socialisti europei un ruolo, per così dire, giu- risdizionale sui problemi sovietici, fornendo interpretazioni e documenta- zione; adesso però la situazione era così radicalmente cambiata che la «li- nea Martov» – faro dell’ideologia menscevica – finì per mostrarsi molto invecchiata. Iniziamo da qui, allora, con il custode di quest’ultima, Dan, incalzato dai critici più coerenti del potere sovietico. Kautsky inviò a Dan una lettera il 21 aprile del 1929, nella quale au- spicò che l’URSS diventasse un «stato contadino» in seguito al «rovescia- mento del bolscevismo», operato dalle stesse masse rurali esasperate. 45 Il grande teorico del marxismo sostenne ripetutamente che il socialismo in- ternazionale non doveva attardarsi nella denuncia di presunti rischi di ag- gressioni imperialiste o controrivoluzioni interne, ma anzi ribadì che la LSI doveva tendere la mano a una possibile nuova Rivoluzione russa. D’altra 43. Ivi, p. 509. 44. Ivi, p. 510. 45. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky Papers, G 15. Sowjetrussland (Nr. 1-322), Korrespondenz, G_15_1-61j. Dan, Theodor. 1929. 3 Briefe + 4 Abschr. (Konz. und Kop.)
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parte, come avrebbe sostenuto nelle pagine di Der Bolschewismus in der Sackgasse, pubblicato nel 1930 a Berlino, la controrivoluzione si trovava già al potere a Mosca nelle forme di un «sistema di assolutismo burocrati- co», impegnato in un’opera di statizzazione integrale della società. Questo sistema apparve a Kautsky come la restaurazione di forme servili a favore di una «cricca di comunisti aristocratici», pronta a scatenare una guerra interna contro la società, pur di realizzare le proprie idee e mantenersi al potere. 46 Custode della «linea Martov», Dan riteneva che una correzione delle politiche di Stalin, non il rovesciamento del regime, costituisse la strada più giusta. E così cercò di negare con esempi storici il carattere de- mocratico della rivoluzione contadina, vagheggiata da Kautsky. Scrivendo a quest’ultimo il 5 maggio da Berlino, il dirigente menscevico impiegò esempi tratti dalla Rivoluzione francese del 1848 per indicare che le spe- ranze di Kautsky non erano confermate dalla storia delle rivoluzioni che avevano preceduto quella russa. Nel 1848 in Francia le masse rurali non avevano sostenuto infatti la repubblica democratica, contribuendo piutto- sto alla formazione del «bonapartismo, basato sul plebiscito contadino». 47 I contadini insomma costituivano nel mondo moderno una forza irrime- diabilmente conservatrice. Il punto politico che emerse da questo scambio fu la fragilità della «linea Martov» nel nuovo contesto della rivoluzione dall’alto di Stalin: di colpo, il disegno di contribuire a una correzione di quest’ultima apparve del tutto improbabile. Nascondersi dietro il carattere storicamente conservatore dei contadini, come cercava di fare Dan, non faceva altro che legittimare le scelte del dittatore georgiano. Altri dirigenti menscevichi presero a guardare la situazione con occhi nuovi, aspramente critici delle posizioni di Dan e soprattutto di Bauer, il quale giustificò la dittatura terroristica staliniana alla luce del problema dell’industrializzazione sovietica e della crisi del capitalismo globale. 48 Abramovič, invitato dalla Jewish Socialist Verband of America, si recò 46. Karl Kautsky, Le Bolschevisme dans l’impasse, Paris, La Russie Opprimée, 1931, p. 42 [ed. or. Der Bolschewismus in der Sackgasse, Berlin, J.H.W. Dietz Nachfolger, 1930]. 47. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky Papers, G 15. Sowjetrussland (Nr. 1-322), Korrespondenz, G_15_90-143. Briefe an Karl Kautsky von: G_15_111-129. Dan, Theodor. 1924-1929. 6 Briefe. 48. Otto Bauer, Kapitalismus und Sozialismus nach dem Weltkrieg. Erster Band: Ra- tionalisierung – Fehlrationalisierung, Wien, Wiener Volksbuchhandlung, 1931. Per tutti gli anni Trenta, Bauer considerò lo stalinismo un «passo necessario» nel processo di demo- cratizzazione, Ewa Czerwińska-Schupp, Otto Bauer (1881-1938), p. 228.
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a New York all’inizio del 1930, dove prese contatto anche con il gruppo di «New Leader». Importante dirigente menscevico, a lungo membro del Bund, tra i fondatori nel 1921 della «Socialističeskij Vestnik», Abramovič era un membro di primo piano dell’LSI. Presa visione del clima esistente nella sinistra statunitense attorno alle vicende sovietiche, scrisse una let- tera al direttore del «New York Times», il quale aveva di recente pubbli- cato un articolo comprensivo delle politiche di Stalin. Abramovič denun- ciò la «guerra contro i contadini», definendola una «spietata e sanguinosa guerra civile portata avanti con tutti i metodi in possesso dell’autocrazia staliniana». 49 Queste posizioni peraltro trovarono corrispondenza in una parte del socialismo statunitense. Il 23 novembre 1930, Morris Hillquit, figura di spicco di un socialismo dai tratti fortemente democratici e anti- comunisti, pronunciò a New York un discorso di critica frontale del bol- scevismo. A Parigi, «La Russie opprimée» riportò alcune delle espressioni più significative usate in questa occasione. Il regime bolscevico – affermò Hillquit – rappresentava un «travestimento del socialismo», che aveva preso le fattezze di un «regno del sangue» che soltanto il terrore, la violen- za e la riduzione dei prigionieri ai lavori forzati poteva sorreggere. 50 Idee simili furono avanzate nel maggio precedente dai rappresentanti menscevi- chi durante una riunione dell’esecutivo dell’LSI. Essi invitarono i dirigenti del socialismo internazionale a sensibilizzare militanti e opinione pubblica a proposito della «guerra civile contro i contadini», «la miseria e la fame di milioni di persone» e «il terrore inaudito nelle città e nelle campagne». 51 49. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Abramovič Papers, 1. Correspondence of R.A. Abramovic 1929-1930. 50. Les socialistes américains contre les exécutions, in «La Russie opprimée», 13 dicembre 1930, p. 1. In margine alla conclusione del processo contro il «partito industriale» a Mosca, così si era espresso Hillquit nel corso di una riunione di delegati del Partito socia- lista statunitense. Per l’evoluzione dei suoi giudizi in senso negativo del regime bolscevico, vedi innanzi tutto Morris Hillquit, From Marx to Lenin, New York, Hanford Press, 1921; l’autobiografia, pubblicata poco dopo la morte occorsa nel 1933, Morris Hillquit, Loose Leaves from a Busy Life, New York, Macmillan, 1934. E lo studio di Robert W. Iversen, Morris Hillquit: American Social Democrat. A Study of the American Left from Haymarket to the New Deal, Ann Arbor, MI, Proquest, 2018 (I ed. 1951), soprattutto pp. 269-304. Il lavoro biografico più importante è quello di Norma Fain Pratt, Morris Hillquit: A Political History of an American Jewish Socialist, Westport, CT, Greenwood Press, 1979. 51. Il documento si trova in Karl Kautsky Papers, G 16. «Russisches Archiv» (Sozial- demokratie), 1929-1930 (Nr. 1-188), 103-111. Entwurf der Thesen über die russische Fra- ge. Zum Bericht des Vertreters der SDAPR an die Exekutive der SAI, Mai 1930. 9 Bl. Mschr.
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Dalle pagine di «Socialističeskij Vestnik», Abramovič denunciò infine l’o- pera di Bauer come «una capitolazione ideologica totale del socialismo democratico di fronte al comunismo». 52 E in una lettera a Kautsky, risalen- te al 19 febbraio 1932, affermò che «il bauerismo» costituiva «un pericolo […] straordinario e non affatto limitato all’Austria». 53 In sostanza l’acuirsi dello scontro delle idee, attorno alle tesi di Kaut- sky e Bauer, non fece che indebolire per qualche tempo la presa di Dan sulla Delegazione estera menscevica. Il menscevismo e il mondo socialista internazionale, scossi da questa polarizzazione interpretativa, ritrovarono, come già avevano fatto negli anni Venti, un minimo di ispirazione uni- taria nella difesa dei prigionieri politici di sinistra che languivano nelle prigioni e nei campi sovietici. Nel marzo 1931, a Mosca, un gruppo di imputati, definiti menscevichi, fu accusato di sabotaggio finalizzato all’in- tervento armato di potenze straniere. Il carattere abnorme delle accuse (formulate da Nikolaj Krylenko, il grande inquisitore del processo contro i socialisti rivoluzionari del 1922) riprodusse linguaggio e pratiche già im- piegati in processi più recenti, come quello contro il cosiddetto «partito industriale». 54 Il gruppo degli imputati menscevichi fu dunque costruito a tavolino dalla polizia sovietica, mettendo insieme agenti provocatori, pro- fessori e funzionari sovietici, che erano stati menscevichi tempo addietro, e qualche menscevico vero e proprio sopravvissuto alle persecuzioni. No- nostante il carattere farsesco del processo, una forte solidarietà si sviluppò a livello internazionale, rivolta appunto verso i «compagni menscevichi». In Germania si susseguì una manifestazione dopo l’altra e una di queste, svoltasi a Berlino, radunò tra le 15 e le 20.000 persone. Un capillare lavo- ro di documentazione smontò le accuse, rivolte dalla propaganda sovieti- ca ad Abramovič, il quale, a sentire la stampa sovietica, sarebbe rientrato segretamente in URSS per dare istruzioni ai cospiratori che intendevano rovesciare il potere sovietico. 55 Dalle pagine di «Le Populaire», Rosenfeld 52. Ne dà conto «La Russie opprimée» in Otto Bauer et la dictature terroriste, in «La Russie opprimée», 23 maggio 1931. 53. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky Papers, D. Briefe an Karl Kautsky (D I – D XXIII), D_I_7-40. Abra- mowitsch, Raphael R. 1922-1937. 34 Briefe. 54. Sul processo dei menscevichi, rimando alle pagine di Liebich, From the Other Shore, pp. 199-214. 55. Liebich ha osservato che Abramovič fu eletto all’unanimità presidente dell’Inter- nazionale socialista e operaia e che il processo a Mosca «non ebbe successo nel guadagnare
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e Blum denunciarono l’avvio di una stagione di processi, intuendo che l’al- lestimento di un grande palcoscenico accusatorio costituisse in definitiva l’unica risposta che il regime era in grado di offrire alla società sovietica, attanagliata da una crisi sociale ed economica profondissima quale quella provocata dalle politiche catastrofiche di Stalin. I «menscevichi» – come prima di essi i membri del cosiddetto «partito industriale» – non rappre- sentavano altro che i capri espiatori del fallimento del «grande balzo in avanti» staliniano. 56 A sinistra del socialismo democratico, la battaglia contro la repressio- ne sovietica in URSS non venne mai meno. Ed ebbe, almeno nel caso degli anarchici, una coerenza che attingeva linfa vitale da una lunga tradizione antiautoritaria. Lo stato militare sovietico, che brutalizzava le masse senza freno, costituì la riprova di ciò che gli anarchici avevano sempre pensato del marxismo sin dai tempi di Bakunin. Il 21 ottobre 1930 la segreteria del fondo che si era costituito per sostenere gli anarchici imprigionati in URSS comunicò a Berkman che «Der Syndicalist» era in procinto di pubblicare un «numero speciale sulla persecuzione in Russia dei nostri compagni». 57 Successivamente, l’8 febbraio 1931, la Libertarian Association e il Wor- kers’ Friend Group tennero nella Circle House di Londra un incontro nel corso del quale, protestando contro la persecuzione dei rivoluzionari da parte del governo sovietico, fu ricordata la storia di un anarchico italiano, Francesco Ghezzi. Questo antifascista, giunto in URSS per scappare dai suoi aguzzini in camicia nera, era stato rinchiuso in prigione dal regime di Stalin e mandato in esilio in Kazachstan senza processo nonostante che una nuova audience per il progetto sovietico di screditare il socialismo occidentale, né riuscì a provocare divisioni all’interno dello stesso». Ivi, p. 213. 56. Con la sua intelligenza critica, Blum svolse una riflessione sulle confessioni du- rante il processo dei menscevichi che può essere allargata alla stagione del Grande terrore, iniziata nel 1936. Scrisse il 17 marzo 1931 che: «Il terrore staliniano si basa sullo spionag- gio e sulla denuncia universale. Il processo di Mosca ci mostra come è trattata la giustizia. A volte viene sostituita da esecuzioni sommarie, a volte - e questo è peggio – funziona sotto le sembianze delle regole, ma le sue sentenze falsificate sono preparate da false te- stimonianze e false confessioni». Léon Blum, Le procès de Moscou. Ce que prouvent les «aveux», in «Le Populaire», 17 marzo 1931, p. 1. 57. Il documento è conservato in International Institute of Social History (Amster- dam), Alexander Berkman Papers, 129. Documents relating to the Relief Fund of the Inter- national Working Men’s Association for Anarchists and Anarcho-Syndicalists Imprisoned and Exiled in Russia, later called Russian Aid Fund. 1927-[1928], 1930, 1932-1933 and n.d.
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Romain Rolland in persona avesse firmato una petizione internazionale per la sua liberazione. Della vicenda di Ghezzi si occupò in Francia anche «La Révolution prolétarienne», fondata nel 1925 da Pierre Monatte. In margine al primo arresto subito da Ghezzi, «Révolution prolétarienne» svolse nel giugno 1929 questa riflessione amara: «L’arresto di Ghezzi non solo solle- va ancora una volta il problema della giustizia amministrativa, ma costrin- ge a chiedersi se la Russia di Stalin non abbia altro asilo che il carcere da offrire ai rivoluzionari «stranieri» braccati nel loro paese d’origine». 58 Gra- zie all’insistenza della campagna di solidarietà, Ghezzi fu alla fine liberato proprio nel 1931, anche se gli fu impedito di lasciare l’URSS. Nel 1937 venne arrestato nuovamente. Deportato nell’universo concentrazionario di Vorkuta, vi trovò la morte nel 1942. 59 La mobilitazione anarchica non conobbe tregua. Il 18 marzo 1931 Berkman scrisse una lettera al Libertarian Group di Los Angeles da Nizza, dove aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi anni. L’argomento era la nuova edizione dell’Arestanten Ball, prevista per l’11 aprile successivo. Lodando questa iniziativa volta alla raccolta dei fondi a favore dei prigio- nieri, Berkman non perse l’occasione per esprimere le proprie idee circa la situazione sovietica: «il fallimento del vantato piano economico – scris- se – è stato mascherato con grida rivolte a cospirazioni, controrivoluzioni economiche». Dietro queste accuse, che riflettevano il «vecchio gesuiti- smo comunista», non era difficile scorgere «la mano rossa della vecchia Čeka sotto un nuovo nome». Dopo quattordici anni di rivoluzione, «le ese- cuzioni capitali» costituivano ancora lo strumento più usato dai «supposti rivoluzionari al Cremlino». Era evidente nelle argomentazioni di Berkman lo stesso modo di ragionare di una parte dei socialisti: la ripresa della re- pressione politica doveva essere messa in relazione al fallimento dell’eco- nomia pianificata. In definitiva, il paradigma interpretativo che aveva do- minato negli anni Venti risultò così rovesciato: se allora era stato possibile credere che la liberalizzazione della NEP avrebbe prima o poi favorito una liberalizzazione politica, adesso la statizzazione integrale dell’economia, 58. Un réfugié politique emprisonné en Russie, in «La Révolution prolétarienne», 1 o giugno 1929, p. 4 59. Sulla vicenda biografica di Ghezzi, http://www.memorialitalia.it/ita/wp-content/ plugins/memorial-italia-vittime-italiane-gulag/scheda_anagrafica.php?id=124 e il volume di Carlo Ghezzi, Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia, Milano, Zero in condotta, 2013.
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con tutto il suo portato di irrazionalità e violenza, non poteva che rafforzare il carattere repressivo del regime di Stalin. Muovendo da questo nuovo scenario, Berkman volle rilanciare la pub- blicazione delle testimonianze dei prigionieri, riprendendo il lavoro che aveva svolto alla metà degli anni Venti con la pubblicazione delle Letters from Russian Prisons. Il suo interlocutore questa volta fu Isaac Don Levi- ne, giornalista di lungo corso che aveva raccontato la rivoluzione del 1917 per il «New York Tribune» e la guerra civile per il «Chicago Daily News». Nel 1931 Levine pubblicò un importante volume dedicato a Stalin, che Berkman definì, in una lettera da Nizza del 6 ottobre dello stesso anno, la «cosa migliore scritta sul bolscevismo e sulla sua dittatura». 60 Dal canto suo, Levine, assieme a Baldwin, cercò di dare un contributo per risolvere la situazione di Berkman, al quale era stata notificata l’espulsione dalla Francia. Non sembra tuttavia che la collaborazione sul tema dei prigionieri politici progredisse granché. Fu lo stesso Berkman a lamentarsene in una lettera indirizzata a Levine del 13 aprile 1932, nella quale si disse sconso- lato per aver raccolto inutilmente giornali, riviste e altro materiale senza che l’amico si fosse più fatto vivo. 61 Difficile comprendere esattamente le ragioni di questa rinuncia da parte di Levine. Tutt’altro discorso va fatto per il trockijsmo, che non mise certamente in dubbio che le basi dello stato sovietico erano frutto di politiche al fondo giuste. Esse erano semmai state applicate male da dirigenti incapaci e bru- tali. Nella critica frontale dello stalinismo dominò dunque l’idea che fosse necessario resistere fuori e dentro l’URSS, con l’obiettivo di realizzare prima o poi un vero e proprio cambiamento al vertice dello stato, restau- rando così lo spirito originario dell’ottobre 1917, premessa fondamentale per una corretta applicazione della «linea industrialista». Vediamo più da vicino allora la situazione di questa ipotetica classe dirigente, alternativa alla «cricca» staliniana al potere. Dalla fine del 1927, i militanti trockijsti erano entrati nell’illegalità, cercando di sopravvivere nonostante i con- tinui arresti e le deportazioni. Nel luglio del 1929 Karl Radek, Evgenij Preobraženskij e Ivar Smilga capitolarono, trascinandosi dietro centinaia 60. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Alexander Berkman Papers, 46. Correspondents Latin Quarterly, The – Lewin, S.1924- 1936 and n.d. Il volume di Isaac Don Levine è Stalin, New York, Cosmopolitan Book Corporation, 1931. 61. Cfr. la missiva di Berkman a Levine da Nizza in data 13 aprile 1932, ibidem.
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di militanti antistalinisti, i quali chiesero di poter rientrare nel partito e ser- vire così lo stato sovietico, impegnato in un grandioso sforzo di costruzio- ne del socialismo. 62 Tuttavia, negli «isolatori» in cui erano stati deportati, altri gruppi di opposizione rimasero in vita, trasformando quei luoghi di pena in laboratori politici di critica delle scelte staliniane. 63 L’opposizione di sinistra si stava organizzando anche all’estero, de- nunciando l’aggressione staliniana alla società sovietica in termini di un’er- ronea applicazione della «linea industrialista». Le informazioni provenien- ti da Mosca vennero pubblicate puntualmente sul «Bjulleten’ oppozicii», il periodico fondato da Trockij nel luglio 1929 e inizialmente stampato a Parigi. Sappiamo che copie circolarono a Mosca, portate soprattutto da uomini che lavoravano nelle ambasciate o che si erano recati all’estero per compiti di altro tipo. Dall’aprile 1931 al dicembre 1932, il periodico, gesti- to in prima persona da Lev Sedov, figlio di Trockij, fu trasferito a Berlino. Sedov ebbe in questo periodo un ruolo decisivo, giacché fece circolare il «Biulleten» nelle grandi capitali europee e, nel contempo, assicurò che la pubblicazione fosse costantemente rifornita di informazioni di prima mano sulla realtà sovietica. Come ha scritto Pierre Broué, si trattava di «rapporti autentici di militanti russi» oppure di «testi redatti da Sedov sulla base di rapporti orali» oppure ancora di «lettere personali recuperate attraverso i suoi contatti». 64 Tra queste lettere, una proveniente da Mosca del 12 no- vembre 1931 raccontò del terribile inverno che era appena iniziato e in cui le «privazioni [erano] terribili». 65 Sulla base delle informazioni disponibili, divenne sempre più chiara la situazione generale dell’economia e in particolare quella delle campagne sovietiche. In un rapporto sulla situazione russa, allegato ai verbali di una riunione dell’Opposizione di sinistra internazionale, tenutasi l’8 ottobre 1932, si denunciò il caos dell’economia e la situazione materiale insop- 62. Pierre Broué, Les trotskystes en Union soviétique (1929-1938), in «Cahiers Léon Trotsky», numéro spécial Les trotskystes en Union soviétique, I, 6 (1980), p. 20. 63. Ivi, p. 36. 64. Ivi, pp. 45-46. Interessante il punto di vista dello stesso Trockij: L.D. Trotsky, Mes relations avec l’Opposition en U.R.S.S. (Déposition devant la commission Dewey, 12/13 avril 1937), in «Cahiers Léon Trotsky», numéro spécial Les trotskystes en Union soviéti- que, II, 7/8 (1981), p. 19. 65. La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Lev Davidovič Trockij/International Left Opposition Archives, Sovjet Union, 1104. «Let- ters from Moscow», articles. 3 pieces 1931, 1934 and n.d.
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portabile degli operai. Ma la chiave erano le campagne da dove i contadini fuggono in massa: mezzo milione di famiglie contadine hanno abbando- nato i kolchoz, mentre l’invasione delle erbacce è divenuta oramai una calamità, impedendo l’uso delle macchine agricole […] La situazione ca- tastrofica del bestiame è nota. Dal momento che un rivolgimento profondo era inevitabile, la repressione si era fatta generalizzata e sempre più feroce. Christian Rakovskij e altri militanti antistalinisti – tutti già con condanne alle spalle – sono condannati di nuovo a tre o più anni. I deportati sono perquisiti senza sosta. I deportati sono sempre in viaggio; non li si lascia per più di 4-6 settimane nello stesso luogo, trasferendoli in altri luoghi 66 Detenuti nelle prigioni a regime speciale, i trockijsti mostrarono grande coraggio e determinazione, dando vita a due grandi scioperi della fame a Verchneural’sk, il primo nel 1931 e il secondo nel 1933. 67 Nel primo caso, lo sciopero derivò dal ferimento ingiustificato di un prigioniero da parte di una guardia. Le richieste del «collettivo comunista» dei prigionieri andaro- no da quelle politiche (la destituzione del direttore della prigione) a quelle che riguardavano le condizioni di vita dei prigionieri (dall’alimentazione all’igiene fino all’accesso alla stampa internazionale). 68 Resta il fatto che Trockij fu un critico del tutto particolare della realtà del grande balzo in avanti di Stalin. L’asprezza del suo comunismo fu di- mostrata dal modo in cui reagì alle operazioni repressive successive alla sua deportazione e poi espulsione dall’URSS. Non sollevò mai alcuna obiezione di fronte ai processi inflitti a ex menscevichi, ex socialisti-rivo- luzionari ed ex cadetti. La persecuzione dei kulaki, degli uomini di chiesa e delle forze nazionali non lo colpirono più tanto. Essi in fondo erano tutti nemici del bolscevismo che dovevano essere in qualche modo spazzati via. D’altra parte, non si può dimenticare che egli stesso aveva contribuito ad allestire il palcoscenico del primo processo farsa, quello contro i so- cialisti rivoluzionari nel 1922. Aveva incoraggiato i trucchi della polizia e 66. Il documento è conservato in International Institute of Social History (Amster- dam), Lev Davidovič Trockij/International Left Opposition Archives, international secre- tariat (is) of the ilo/icl, Minutes of meetings of the IS. Protocolle du SI du 8/10/32 (presenti Vit, Bauer e Kin), pp. 3-4: «IX Rapport sur la situation de l’URSS». 67. Pierre Broué, Comunistas contra Stalin. Massacre de una generacin, Màlaga, SEPHA Edicin, 2007, pp. 217-218. 68. Liste de revendications présentées par le «collectif communiste» des détenus de la prison politique de Verkhne-Ouralsk lors de la gréve de la faim de juin 1931, in Goulag, pp. 840-846.
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dei procuratori, maturando evidentemente una conoscenza approfondita di quei metodi. 69 Soltanto in parte dunque possiamo associare il movimento fondato dall’ex capo dell’Armata Rossa agli altri segmenti della sinistra internazionale critica di Stalin: una parte importante di questa criticò infatti il regime di Stalin fino nelle sue fondamenta leniniste, mentre il trockijsmo costruì un nuovo mito politico, quello del «tradimento» della rivoluzione bolscevica ad opera della burocrazia guidata da Stalin. Riepilogando, nel momento più intenso della fascinazione per l’espe- rimento sovietico, che come sappiamo coincise con l’avvio della Grande depressione dell’economia di mercato su scala globale, un punto di vista diverso prese forma, circolando all’interno di vari gruppi socialisti, liberali e anarchici. Secondo questi gruppi, tra la retorica ufficiale del regime di Stalin e le sue politiche reali si era aperto una forbice molto ampia che doveva essere documentata il più esattamente possibile. Le notizie sulle fucilazioni e sulle deportazioni dei contadini recalcitranti, il processo di statalizzazione dell’economia contadina dettero la misura che il sedicente stato dei lavoratori era in realtà uno stato militare, impegnato a requisire le risorse ritenute necessarie per il proprio consolidamento, senza alcun ri- guardo per i diritti più elementari della popolazione. Non si trattò per molti di questi critici di battersi affinché il regime correggesse i propri errori, ma di prendere consapevolezza che si aveva di fronte un nuovo nemico, un nemico a sinistra. I più speranzosi (si ricordi Kautsky) fecero appello a una rivoluzione contadina democratica che spazzasse via quella caricatura del socialismo che era diventato il regime sovietico. 3. Moralità, potere e diritto. La prima grande mobilitazione internazionale contro il lavoro forzato sovietico In questo paragrafo, la dimensione interpretativa della «rivoluzione dall’alto» di Stalin viene calata dentro nuove forme di azione pubblica, in- nescate dalla scoperta del lavoro forzato sovietico come terminale dell’ag- gressione dello stato comunista verso le campagne e in generale verso la società sovietica. Gli intellettuali liberali, i socialisti e i gruppi anarchi- ci furono attivi anche su questo terreno, ma non come protagonisti. La scoperta del lavoro forzato mise in moto soprattutto due forze interne al 69. Service, Trotsky, p. 411.
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mondo anglo-americano: da un lato, il sindacalismo statunitense, intento a collegare la battaglia ideale contro la «schiavitù rossa» alla difesa degli in- teressi dei lavoratori e delle industrie locali: una battaglia dunque in buona parte giocata sul terreno della legislazione commerciale per impedire che merci prodotte con il lavoro forzato inondassero il mercato statunitense, già duramente provato dalla Grande crisi. Dall’altro lato, la tradizione an- tischiavistica dell’associazionismo, soprattutto britannico, saltò la «linea del colore» nella convinzione che il lavoro forzato sovietico doveva essere guardato come espressione di una nuova forma di colonialismo schiavista. Al di là dei risultati, si vedrà come queste espressioni di «moralità» tesero in vario modo a collegarsi alla dimensione del «potere» sia pure con scarsi risultati. Esse comunque operarono facendo costante riferimento al quadro normativo offerto dalla convenzione contro il lavoro forzato, promulgata dall’ILO nel 1930. In questo paragrafo si racconta insomma della prima prova di una convergenza tra moralità, potere e diritto. Iniziamo da una descrizione sommaria del nascente sistema dei campi di Stalin. I lavoratori forzati nelle miniere, nelle foreste, lungo le ferrovie, i canali e le strade sovietiche in costruzione erano quegli stessi contadini che, sradicati dal contesto nel quale vivevano, vennero deportati in luoghi lontanissimi per contribuire alla gloria della patria socialista sul terreno dell’aumento della produzione economica. Il sistema concentrazionario sovietico fu uno dei più importanti settori nel quale si realizzò l’accumula- zione primitiva socialista, funzionale alla realizzazione dell’industrializza- zione a tappe forzate. Se l’idea di sfruttare sistematicamente il lavoro dei prigionieri risaliva alla metà degli anni Venti, soltanto la riforma penale del 27 giugno del 1929 compose un quadro giuridico adeguato. 70 Nel giro di poco tempo, nuove aree concentrazionarie furono create, affiancando così le Solovki. Alcune possono essere ricordate qui. I campi del Nord furono incaricati di costruire una ferrovia per valorizzare la regione ricca di petrolio (il giacimento di Uchta), di petrolio e gas (Ižma e Pečora) e di carbone (Vorkuta). In queste zone sorsero campi che costituirono l’em- brione del grande complesso concentrazionario dell’Uchtpeclag, destina- to a diventare un trust con il compito della prospezione geologica, dello sfruttamento minerario, della costruzione di ferrovie e di strade in terra 70. Sulle Solovki come laboratorio del gulag vedi Applebaum, Gulag, pp. 60-69. Sul- la composizione del nuovo quadro giuridico Oleg V. Chlevnjuk, Storia del gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Torino, Einaudi, 2006, pp. pp. 14-15.
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battuta e infine dello sviluppo dell’agricoltura locale. Un altro insieme di campi fu costruito a Krasnovišersk sugli Urali e destinato a produrre cel- lulosa. Il gruppo dei campi siberiani fu diretto da Novosibirsk con il com- pito di fornire manodopera per le miniere di carbone del Kuzbass e per le industrie metallurgiche vicino Novosibirsk. In Siberia orientale, la città di Chabarovsk ospitò la direzione dei campi che fornì la manodopera per la costruzione della linea ferroviaria Bajkal-Amur. Nell’estremo oriente sovietico, nei pressi del fiume Kolyma, vennero scoperti vasti giacimen- ti d’oro che furono sfruttati da un trust apposito, il Dal’stroj. Un sistema concentrazionario nacque anche in Asia centrale, in Kazachstan nell’area di Karaganda con il compito di mettere a valore quelle terre vergini con il lavoro dei prigionieri. Tra 1931 e 1933 un progetto era destinato a oscurare tutti gli altri, ossia la costruzione di un canale che unisse il Mar Bianco con il Mar Baltico. 71 Il sistema dei campi fu articolato in due grandi settori: il primo, costi- tuito dagli ITK, racchiudeva le colonie di lavoro correzionale a cui erano destinati i prigionieri condannati, almeno in origine, a pene detentive più leggere. Il secondo, basato sugli ITL, racchiudeva campi di lavoro corret- tivo, situati nelle zone più remote del paese, e popolati da condannati a più di tre anni di pena. La funzione di questi ultimi (e dei villaggi speciali dove i contadini furono inviati con sentenze amministrative) doveva essere «la colonizzazione di regioni inospitali del paese e la messa a valore delle ric- chezze naturali di queste regioni grazie al lavoro dei detenuti fino ad ades- so imprigionati dallo Stato negli stabilimenti penitenziari». 72 Una grande divisione fu realizzata da subito in base alle motivazioni della condanna inflitta ai prigionieri. Chi era stato giudicato come controrivoluzionario e nemico dello stato, finì invariabilmente nel settore degli ITL sulla base di uno dei commi del famigerato articolo 58 del codice penale, modificato nel 1927. Un decreto del 7 aprile 1930 sulla «messa in funzione dei campi di lavori correttivo» distinse tre categorie di prigionieri: membri delle classi lavoratrici al primo reato, membri delle classi lavoratrici recidivi e, infine, non appartenenti alle classi lavoratrici e/o colpevoli di reati controrivolu- 71. Luba Jurgerson e Nicolas Werth, Introduction, in Goulag, pp. 43-44. 72. Sul processo di formazione del gulag staliniano, ancora Chlevnjuk, Storia del gu- lag, pp. 13-64. Si veda anche in una chiave di più lungo periodo Id., The Economy of the OGPU, NKVD and MVD of the USSR 1930-1953. The Scale, Structure and Trends of deve- lopment, in The Economics of Forced Labor. The Soviet Gulag, a cura di Paul R. Gregory e Valery Lazarev, Stanford, Hoover University Press/Stanford University, 2003, pp. 43-66.
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zionari. Questi ultimi non potevano «beneficiare del regime di privilegi né esercitare funzioni nei quadri dell’amministrazione» del campo. 73 Le loro condizioni furono drammatiche sin dagli esordi, non potendo sfuggire mai al regime di duro lavoro nei campi, alle angherie da parte dei criminali, incaricati dalle autorità di gestire il campo, alla fame e alla scarsità delle cure mediche. Una nota di un dipartimento della OGPU risalente al 9 agosto 1931 ri- costruisce la situazione dei kulaki al momento del loro arrivo nella regione degli Urali. La costruzione degli alloggi era in ritardo e questi infelici furo- no costretti a dormire in baracche, magazzini o persino tende: «i tre quarti dei deportati, assegnati alla miniera di Logovo, sono stati accomodati in baracche senza tetto». Quanto alla situazione alimentare, le cose andavano ancora peggio: «in tutta una serie di distretti i deportati speciali si nutrono di erbe, radici ecc. e finiscono per morire di fame». In queste condizioni, gli ex kulaki vennero impegnati nell’industria del legname, nelle miniere di carbone, nella produzione di materiale da costruzione, nella costruzione di strade e ferrovie. La nota proseguiva, affermando che «un gran numero di responsabili considerano i deportati speciali come una forza lavoro che si può sfruttare senza pietà […] certi responsabili son giunti persino a di- chiarare apertamente che la loro politica mira a sterminare fisicamente tutti i deportati speciali. Da cui discende uno sfruttamento forsennato di questi, incoraggiato dai responsabili locali» 74 . Gran parte delle fonti istituzionali esprimono questa lamentazione per la scarsità del cibo, il carattere improv- visato degli alloggi, la diffusione delle malattie e, per quanto riguarda il lavoro, la scarsità degli strumenti e il loro carattere rudimentale. In Occidente, si venne a sapere ben poco di tutto questo, se si eccettua il settore del legname, all’interno del quale la polizia politica fece un uso criminale del lavoro forzato di decine di migliaia di esseri umani ridotti in condizioni prossime alla schiavitù. Alcuni prigionieri riuscirono a fuggire, e, una volta raggiunto l’Occidente, raccontarono la propria esperienza. Le testimonianze fecero emergere con chiarezza che esisteva un sistema del lavoro forzato, gestito da un vasto apparato di polizia politica, a cui erano 73. Extraits du décret du Conseil des Commissaires du people de l’URSS «Sur la mise en place des camps de travail correctif», in Goulag, p. 241. 74. Note du département secret-politique de l’OGPU sur l’état de la déportation et de l’arrivée des contingents de koulaks dans la région de l’Oural au 9 août 1931 (extraits), in Goulag, pp. 246-248.
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stati affidati compiti non soltanto repressivi, ma anche produttivi. E non fu difficile connettere questo sistema del lavoro forzato al retroterra della col- lettivizzazione e della dekulakizzazione, intravedendo pertanto il vero si- gnificato della «rivoluzione dall’alto» di Stalin. Essa iniziò ad apparire per quello che effettivamente era: un progetto di industrializzazione accelerata, basata sull’appropriazione manu militari delle risorse sociali da parte dello stato, con il corollario della fine della libertà contadina e dello sfruttamento bestiale nei campi di gente ritenuta nemica del regime. 75 Arresti di massa, deportazioni e lavoro forzato costituirono una sequenza di fronte alla quale fu dunque difficile chiudere gli occhi. Il colpo inferto alle credenziali progressiste del regime di Stalin fu reale e, potremmo dire, ben assestato nella misura in cui le denunce coinvolsero per qualche tempo larghi strati di opinione pubblica internazionale. 76 Già all’inizio dell’estate del 1930 si venne a conoscenza delle condizioni dei pri- gionieri impiegati nell’industria esportatrice del legname. Le prime notizie provennero da marinai britannici, i quali avevano avuto in sorte di visitare i porti dell’URSS. Uno di questi marinai, a bordo di un mercantile gallese che aveva caricato ingenti quantità di legname nel porto di Arcangelo, rilasciò una dichiarazione al giornale «The South Wales Echo». Essa fu pubblicata il 17 luglio 1930 con il titolo The Horrors of Archangel. Il marinaio aveva appreso che nelle prigioni locali si trovavano ammassati non meno di 16.000 persone. Nel corso delle operazioni di carico, egli ebbe modo di notare «lo sguardo affamato di questi prigionieri», che lo spinse a indagare più a fondo per scoprire una realtà, destinata a diventare classica nella rappresentazione dell’universo concentrazionario sovietico: donne e uomini spesso incatenati, ridotti alla disperazione, affamati e in condizioni igieniche precarie dettate innanzi tutto dal sovraffollamento delle baracche. 77 Un altro marinaio britannico vergò di proprio pugno un memoriale, in cui raccontò le visite nei porti sovietici tra i quali Novorossijsk, Odessa, 75. Il nesso è noto agli storici: Moshe Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Torino, Einaudi, 1988, pp. 136-148; Graziosi, La grande guerra, pp. 74-95; Chlevnjuk, Storia del gulag, pp. 14-27; Nicolas Werth, La terreur et le desarroi. Staline et son système, Paris, Perrin, 2007, pp. 199-221; Werth, The Soviet State and Peasants, pp. 414-418. 76. Raramente gli storici dell’URSS si sono soffermati su questi aspetti cfr. Chlevnjuk, Storia del gulag, pp. 34-35. 77. L’articolo è conservato in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Sla- very Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps), 1930-1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G405.
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Vladivostok, Arcangelo e Perm’. Si tratta di un racconto scritto in un ingle- se molto povero grammaticalmente, ma che nondimeno riesce a restituire lo stato d’animo del suo autore, sconvolto dalla visione di tanta miseria umana. Si soffermò in particolare sulla condizione delle donne: Le prigioniere sono trattate nello stesso modo degli uomini. Sono affamate e dormono su giacigli a livelli uno sopra l’altro. Dormono con addosso gli stracci con i quali lavorano e questa è l’unica coperta che possiedono. Sono sorvegliate dalle guardie rosse giorno e notte. Portano in grembo i figli dei soldati e sono costrette a lavorare in queste condizioni. Lavorano fino a quan- do riescono a farlo e poi vengono fucilate. È una situazione comune vedere donne e uomini portati fuori a forza e fucilati in gruppi. 78
Queste notizie furono confermate nei mesi successivi dal racconto di quei pochi prigionieri che riuscirono a fuggire, imbarcandosi clandestina- mente su mercantili stranieri. Aleksandr Ščelučin, di trentun anni, fuggì dalle prigioni di Arcangelo, nascondendosi nella stiva della Hopedene di Newca- stle. Si trovava ad Aberdeen al momento della dichiarazione giurata, rilascia- ta il 18 febbraio 1931. Figlio di contadini benestanti aveva combattuto con le armate bianche sotto Vrangel’. Arrestato durante la guerra civile, era rimasto un «uomo segnato» in seguito. Nel 1928, era stato di nuovo arrestato, per- ché aveva assunto la guida dei contadini rifiutatisi di consegnare le quote richieste all’ammasso. Imprigionato più volte, senza mai andare attraverso un processo, fu infine deportato nei campi della regione di Arcangelo. Lo scenario che egli descrisse è conosciuto bene dagli storici: «Quan- do arrivammo, non c’era nessun alloggio pronto per noi e dovemmo così cominciare a costruire baracche mentre vivevamo nelle tende. Comincia- rono le epidemie e il freddo era così intenso che molti morirono a causa di esso». Le guardie erano mescolate tra i prigionieri ed esistevano «due 78. Il memoriale s’intitola Red Slavery. My visits to different Russian ports ed è stato rivenuto nello stesso faldone indicato nella nota procedente. Naturalmente queste testimo- nianze contrastavano con la linea ufficiale che nel frattempo era stata assunta dai vertici del partito laburista. Cfr. il già citato Williams, Labour and Russia. Se confrontiamo questa docu- mentazione con gli stessi documenti sovietici, si può osservare che la realtà era anche peggio- re. In riferimento ai confinati speciali negli Urali, una nota dipartimentale della OGPU del 14 agosto 1931 denunciò «un numero incalcolabile di abusi. Le vessazioni e le violenze di ogni tipo, un feroce sfruttamento sono divenute moneta corrente». Alcuni dirigenti affermavano chiaramente che l’obiettivo di tutto il sistema non fosse altro che l’«eliminazione fisica» degli ex kulaki. Note du département Secret politique de l’OGPU sur l’exploitation économique des déplaces spéciaux dans la région de l’Oural (extraits), in Goulag, p. 347.
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classi di prigionieri, criminali e politici»: i primi svolgevano la funzione di intimidire i secondi e di denunciare chi aveva intenzione di fuggire. Il ve- stiario fu descritto come insufficiente e il cibo disgustoso, somministrato in base al criterio spietato della norma: «ci davano una zuppa di pesce putrida e pane secondo il lavoro che avevamo svolto», dichiarò. E aggiunse che le cure mediche erano inesistenti: «Chi era malato e incapace di lavorare, non riceveva cibo, ma veniva lasciato sul pavimento fino a quando spirava». Presto, Ščelučin fu mandato a caricare e scaricare legname al porto di Ar- cangelo: «il carico – dichiarò – era fatto ad Arcangelo interamente con il lavoro forzato, nessuno veniva pagato» e si svolgeva sotto la supervisione di guardie armate. 79 Altre testimonianze confermarono il quadro di uno stato di poli- zia, che stava punendo enormi masse di persone, deportandole in luoghi remoti dove era possibile utilizzarle in modo coatto a fini produttivi all’interno di campi posti sotto la sorveglianza della polizia. Ivan Ko- stalin, di 43 anni, nato in Crimea da una famiglia contadina, rilasciò la sua dichiarazione ad Aberdeen lo stesso giorno di Ščelučin. Molti aspetti della sua vicenda risultarono simili. Kostalin aveva combattu- to la guerra civile nelle armate bianche di Denikin e poi di Vrangel’. Dopo gli anni della NEP, che ricordò come anni di crescenti tasse, che piegavano le aziende contadine, fu arrestato nel 1929 e imprigionato a Sinferopoli. La descrizione della galera sovietica era destinata ad ag- giungersi a un’enorme quantità di testimonianze analoghe: affollamen- to, fame, sporcizia e mescolanza tra criminali veri, prigionieri comuni e prigionieri politici. Condannato a dieci anni di privazione della libertà, fu mandato nel febbraio 1930 a Kotlas dentro uno dei «quaranta carri bestiame […] stracolmi di prigionieri, con quaranta persone circa per ogni vagone». Dal centro di smistamento di Kotlas venne spedito a la- vorare lungo la costruzione della ferrovia come tagliatore di alberi. Il quadro era desolante: «I prigionieri vivevano nelle tende», mentre fuori nevicava pesantemente. Le condizioni di vita erano impossibili, caratte- rizzate da un lavoro sfiancante, una razione alimentare legata alla pro- duttività e la brutalità delle guardie. Successivamente fu inviato assieme
79. Questa testimonianza è conservata in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps: affidavits), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G407.
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ad altri ad Arcangelo per lavorare nelle operazioni di carico e scarico del legname. 80 Discuteremo di questo intreccio tra repressione e produzione, costan- temente al centro della memoria dei deportati, e degli altri temi emersi in queste testimonianze. L’aspetto da evidenziare adesso è il seguente: queste notizie e questi racconti si diffusero rapidamente a Londra, Parigi e New York grazie all’accelerazione che soltanto la grande stampa poteva garanti- re. Il 7 ottobre 1930 «The Times» dipinse a tinte fosche la situazione sovie- tica. Si lesse delle «molte migliaia di kulaki» deportati dalle loro case sulla base di sentenze che erano il «risultato dell’azione arbitraria della OGPU» e mandati a tagliare legname da esportazione. Il quotidiano britannico fece notare che, accanto a queste squadre di condannati, lavoravano contadini, ridotti a un «sistema di coscrizione» che ricordava i metodi del comunismo di guerra, vale a dire «la prima fase di rigida socializzazione». 81 Nono- stante gli articoli di Duranty, nei quali la realtà del lavoro forzato veniva minimizzata, il «New York Times» raccontò, per tutto il 1930 e il 1931, cosa stava succedendo nel grande Nord sovietico. Il 21 maggio 1931, dopo che le testimonianze dei fuggitivi di Arcangelo erano da tempo entrate in circolazione, il giornale descrisse la situazione tipo del contadino sovietico bollato come kulak. Ad esso non era concesso neppure di entrare nelle fattorie collettive, perché «i suoi beni sono confiscati e lui è deportato in Siberia, dove resta un reietto». A sua volta il sistema dei campi, a causa di una forsennata applicazione dell’articolo 58 del codice penale, continuava ad espandersi. 82 80. La testimonianza sul lavoro nel porto di Arcangelo è questa: «Alcuni uomini non riuscivano a portare a termine il loro compito e a volte cadevano sotto il peso dei tronchi e allora le guardie picchiavano questi prigionieri, come ho visto io stesso diverse volte. Di solito li picchiavano con i pugni, ma li ho visti colpire i prigionieri con il calcio dei loro fucili. Se non erano in grado di lavorare, a volte venivano messi in isolamento e molti di loro morivano [...] L’opinione generale di tutti i prigionieri era che fossero lì solo per un certo periodo di tempo e che non era previsto che vivessero abbastanza a lungo per scontare l’intero periodo di detenzione». Ibidem. 81. Come vedremo poco più avanti, al di là dell’afflato umanitario, era all’ordine del giorno la questione della competizione internazionale: «Contro le importazioni prodotte in condizioni di lavoro di questo tipo i produttori di altri paesi non sono naturalmente in grado di competere». Labour in Russia. The Other Side of Dumping, in «The Times», 7 ottobre, 1930, p. 15. 82. Rigor of Prison Life in Soviet Admitted, in «The New York Times», 21 maggio 1931, p. 5.
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Le vecchie certezze del mondo progressista internazionale entrarono dunque in crisi. Abituato a battersi in difesa dei prigionieri politici per ra- gioni umanitarie, quel mondo dovette fare i conti con una realtà completa- mente nuova: enormi masse di persone venivano sacrificate sull’altare del progresso e della modernità, sradicate dal contesto sociale di appartenenza e deportate in zone remote del paese per contribuire forzosamente ai dise- gni del regime. La tesi, enunciata da Baldwin, secondo la quale compito dei progressisti era di occuparsi esclusivamente dei rivoluzionari in gale- ra, non degli appartenenti alle vecchie classi, comunque destinate a scom- parire, acquistò adesso un significato sinistro. Un cambio di paradigma era necessario per più di una ragione. Innanzi tutto, si doveva fare i conti con l’incremento massiccio del numero dei prigionieri e dei deportati, che passarono rapidamente dalle migliaia alle centinaia di migliaia fino a rag- giungere nel corso del decennio cifre abnormi, con un continuo afflusso che vide milioni di persone inghiottite dentro l’universo concentrazionario sovietico. 83 Quindi, si doveva tenere in conto che, con l’apparizione della gente comune prevalentemente deportata dalle campagne, stava cambian- do anche il profilo sociale del detenuto tipo. Mobilitarsi soltanto per la percentuale, sempre meno significativa dal punto di vista numerico, dei prigionieri appartenuti ai partiti politici di sinistra, rischiava di diventare una battaglia residuale. Infine, al centro delle politiche repressive sovieti- che si era definitivamente collocato il lavoro forzato, impiegato su larga scala nei settori dell’esportazione. Le retoriche progressiste e umanitarie dovevano infine fare i conti con più complessi equilibri di carattere economico e politico a livello globale. Il lavoro forzato sovietico infatti pose problemi che andavano ben oltre l’afflato solidaristico degli anni Venti. Pur suscitando un sentimento di pie- 83. Si veda a questo proposito e considerazioni di Nicolas Werth sul numero com- plessivo dei detenuti nei campi e dei deportati nelle colonie di lavoro. Alla fine degli anni Trenta si trattò di circa due milioni di prigionieri e un milione e duecento mila persone tra i deportati nelle zone a popolamento speciale. Molto al di sotto, lo vedremo, delle cifre a lungo diffuse nel dibattito internazionale. Ma, per comprendere il significato complessivo dell’esperienza concentrazionaria sovietica, si deve tener conto che è esistita costantemente una «forte rotazione dei detenuti», creando già allora una certa confusione sugli effettivi: «Stimato spesso a venti milioni, questa cifra rappresenta di fatto il numero cumulato di entrate su un periodo un po’ più lungo di venti anni (dall’inizio degli anni Trenta fino al 1953) e non le cifre dei detenuti in un dato momento». Nicolas Werth, Le phénomène concentrationnaire soviétique au XXe siècle, in Les Tumultes d’un siècle, a cura di Jean Vanwelkenhuyzen, Bruxelles, Complexe, 2000, adesso in Werth, La Terreur, pp. 203-204.
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tà molto diffuso, rivolto adesso alle masse sofferenti di contadini e di altri deportati, il campaigning contro questo terribile terminale delle politiche repressive sovietiche chiamò in causa una dimensione prettamente econo- mica, a partire dal fatto che le materie prime, i semilavorati e altre merci sovietiche prodotte sottocosto grazie all’impiego del lavoro forzato inon- darono il mercato mondiale, suscitando la reazione preoccupata di organiz- zazioni di categoria, sindacati e governi. I metodi con i quali Stalin intese finanziare l’industrializzazione sovietica sollecitarono l’attenzione di molti governi, alle prese con il difficile passaggio storico della Grande depressio- ne, innescata dalla crisi del 1929. Molti di essi, di fronte alla prospettiva di un innalzamento dei livelli di disoccupazione, reagirono con la proibizione totale di importazione delle merci sovietiche. Si diffuse l’immagine della «minaccia commerciale rossa». 84 Il setti- manale britannico «The Tablet» provò a elencare nel novembre del 1930 l’impatto delle politiche commerciali sovietiche sull’Europa. Si ricordò che i produttori di frutta dell’East Anglia erano stati danneggiati così come lo erano stati i produttori di sapone di Cardiff. In un contesto più ampio, si sottolineò che le industrie di fiammiferi belghe erano costrette a chiudere e che il settore delle uova in Francia era entrato in una profonda crisi. Il carbone russo minacciava inoltre la tenuta dei livelli produttivi delle mi- niere della Ruhr. E naturalmente fu ricordato che il grano sovietico aveva inondato l’Europa intera, provocando l’arresto della raccolta in migliaia di acri dello Yorkshire, il crollo del prezzo in Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Ungheria. 85 La polemica s’intrecciò costantemente a quella sul lavoro forzato nella forma di appelli accorati a difesa sia dei lavoratori sovietici, vittime di un regime oppressivo, sia dei lavoratori europei, vittime della concorrenza sleale sovietica. 84. Questa minaccia, evocata in molti paesi, fu oggetto del lavoro pionieristico del giornalista texano Huberto Renfro Knickerbocker, Fighting the Red Trade Menace, New York, Dodd, Mead and Co., 1931. Sul terreno storiografico sono ancora validi Robert Paul Browder, The Origins of Soviet American Diplomacy, Princeton, Princeton University Press, 1953; Peter G. Filene, Americans and the Soviet Experiment, 1917-1933, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1967. Per il contesto britannico si rimanda a Udy, Labour and the Gulag e a Jonathan Davis, Labour and the Kremlin, in Britain’s Second Labour Government, 1929-1931. A Reappraisal, a cura di John Shepherd, Jonathan Davis e Chris Wrigley, Manchester-New York, Manchester University Press, 2011, pp. 150-169. 85. Copia del giornale è conservata in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps: report), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G 408.
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Negli Stati Uniti, la proibizione fu limitata a quelle merci che, dopo un accurato esame, si fossero dimostrate prodotte con l’impiego di lavoratori forzati. Il paragrafo 307 dello Smoot-Hawley Tariff Act, firmato da Herbert Hoover il 17 giugno 1930, proibì «l’importazione di qualsiasi bene estrat- to, prodotto o fabbricato in tutto o in parte con il lavoro forzato, compreso il lavoro minorile forzato o coatto». 86 La norma era severa, anche se non è molto chiaro quanto fosse efficace. Scorrendo le pagine del «New York Times», è possibile ripercorrere le polemiche furibonde che scoppiarono ogni qualvolta giungeva nei porti della costa orientale una nave europea che trasportava merci sovietiche. Le polemiche coinvolsero a vario titolo la stampa locale, funzionari della dogana e del Tesoro, vertici dell’Amtorg (l’azienda che svolgeva funzioni di rappresentanza commerciale negli Sta- ti Uniti per conto dello stato sovietico) e rappresentanti dei settori econo- mici più colpiti dalle importazioni sovietiche. 87 Tra questi, c’erano il setto- re del legname, del manganese e di altri minerali. Una larga coalizione di sindacati, gruppi industriali e esponenti dell’anticomunismo statunitense si batté per il boicottaggio totale dell’export sovietico, incontrando peraltro la resistenza dell’amministrazione Hoover, che si dimostrò poco propensa a interrompere, in un momento di crisi come quello iniziato nel 1929, gli scambi commerciali con Mosca. 88 Prima di analizzare più da vicino il ruolo che i sindacati statunitensi ebbero nella coalizione suddetta, è necessario ricostruire il dibattito svol- tosi nel corso della seconda metà degli anni Venti a Ginevra nella sede dell’ILO, culminato nell’adozione di una convenzione contro il lavoro for- zato, la n. 29 del 1930. 89 È importante dedicare attenzione a questo dibattito 86. La tariffa è stata considerata da alcuni studiosi incapace di supportare gli interessi dei farmers americani per la quale era stata pensata e allo stesso tempo responsabile di aver aumentato tensioni commerciali con altri paesi. Vedi Douglas A. Irwin, Peddling Protectio- nism: Smoot-Hawley and the Great Depression, Princeton, Princeton University Press, 2011. 87. Filene, Americans and the Soviet, pp. 231 sgg. 88. Nelle sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni Sessanta, Hoover difese la Smoot-Hawley come una «tariffa flessibile» basata su «molti compromessi tra interessi di settore e tra diverse industrie», The Memoirs of Herbert Hoover. The Cabinet and the Pre- sidency 1920-1933, New York, Macmillan, 1963, p. 298. 89. Si è fatto riferimento, nell’ambito di una letteratura in costante crescita, soprat- tutto a questi volumi: Antony Alcock, History of the International Labour Organization, London, Macmillan Press, 1971; Franco De Felice, Sapere e politica. L’organizzazione in- ternazionale del lavoro tra le due guerre 1919-1939, Milano, Franco Angeli, 1988; Daniel Maul, The International Labour Organization. 100 Years of Global Social Policy, Berlin,
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ginevrino, perché le coalizioni di interessi economici e ideali umanitari, come quella or ora illustrata per gli Stati Uniti, fecero costantemente rife- rimento ad esso e alla Convenzione che fu senza dubbio il suo frutto più maturo. Nel paragrafo primo dell’art. 2 della Convenzione si fecero rien- trare nella categoria di lavoro forzato «tutti i lavori o i servizi che vengono richiesti a una persona sotto la minaccia di una pena e per i quali la persona stessa non si è offerta volontariamente». 90 La definizione fu ripresa sulla grande stampa, nei dibattiti parlamentari e nei testi normativi che, come la tariffa statunitense summenzionata, regolavano il commercio internazio- nale. Questa convergenza aveva un retroterra importante in un’altra Con- venzione, quella contro la schiavitù che la stessa ILO aveva adottato nel 1926. All’art. 5 era non a caso indicato il rischio che il lavoro obbligatorio o forzato potesse produrre «condizioni analoghe alla schiavitù». 91 È vero che né la convenzione del 1926 né quella del 1930 furono realizzate in chiave antisovietica, essendo indirizzate piuttosto ai grandi stati imperiali occidentali affinché proseguissero sulla strada dell’abolizione del lavoro forzato nelle colonie. 92 È interessante che l’IFTU, la grande centrale sinda- cale internazionale, cercasse di imporre la presenza di esperti «nativi» in grado di collaborare a questo grande progetto di messa al bando di vecchie e odiose pratiche coloniali. In realtà, tuttavia, i sindacati affiliati all’IFTU mostrarono che la questione del lavoro forzato non costituiva una reale pri- orità per loro al tempo della Grande crisi e della disoccupazione di massa in Europa. 93 Staccatasi da più di un decennio dall’IFTU, la AFL impugnò la con- venzione ginevrina, ma in un senso del tutto diverso da quello che i sin- dacati europei avevano timidamente inteso. La AFL cercò innanzi tutto di gettar luce sulla realtà del lavoro forzato sovietico, nascosto dietro la De Gruyter, 2019. Si è visto anche Suzanne Miers, Slavery in the Twentieth Century. The Evolution of a Global Problem, Walnut Creek, Altamira Press, 2003, pp. 134-151. 90. Per il testo della Convenzione https://www.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=1000: 12100:0::NO::P12100_ILO_CODE:C029. Vedi anche il Protocollo del 2014, aggiunto alla convenzione https://www.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=NORMLEXPUB:12100:0::NO ::P12100_ILO_CODE:P09. 91. https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocitycrimes/Doc.13_ slavery%20conv.pdf. 92. Maul, The International Labour Organization. 93. Si è tenuto presente il lavoro già richiamato di Van Goethem, The Amsterdam International.
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maschera del lavoro correttivo, quindi di assimilare il lavoro forzato a una condizione analoga alla schiavitù. In effetti, il motivo del lavoro forzato- schiavitù, indicato come pratica in via di estinzione rispolverata dai so- vietici, possedeva una sua forza persuasiva nel momento in cui schiere di progressisti d’ispirazione liberale e socialista stavano cedendo al fascino dell’economia di comando di Stalin, vedendo in essa una risposta alla crisi delle economie di mercato. Come era possibile – si replicò a queste schie- re di amici del comunismo sovietico – caratterizzare come progressista un regime, quello di Stalin, che riduceva così tante persone ai lavori forzati in condizioni prossime alla schiavitù? Su un gradino poco più alto, non as- somigliava forse il sistema delle fattorie collettive a un ritorno della servitù della gleba, abolita nel 1861? Come poteva una società di tipo quasi castale come quella sovietica essere considerata il modello di giustizia sociale che i lavoratori di tutto il mondo avrebbero dovuto far proprio? In altri termini, pur concedendo che l’economia statale di comando era in grado di produr- re risultati sul terreno economico, non si poteva chiudere gli occhi di fronte ai costi umani derivati dai metodi impiegati per farla funzionare. Prima di guardare più da vicino l’uso (a tratti davvero disinvolto) che fu fatto di espressioni quali «servitù della gleba» e «schiavitù» in relazione ai campi sovietici, conviene ancora indugiare sul dibattito gi- nevrino e sui suoi risultati. La Convenzione del 1930 definì un percorso di abrogazione che, iniziando dagli impieghi nel settore privato, doveva estendersi gradualmente a quelli del settore pubblico. La Convenzione costituì dunque un punto di approdo del riformismo sociale d’ispirazione liberale e socialista che caratterizzò l’ILO sin dalla sua nascita dopo la guerra in qualità di agenzia della Società delle Nazioni. 94 Il direttore Al- bert Thomas, importante figura del socialismo riformista francese ed ex ministro degli armamenti durante la Grande guerra, incarnò questo spiri- to riformatore nella convinzione che le democrazie occidentali avrebbero potuto stabilizzare il quadro internazionale soltanto se avessero promos- so una modifica profonda delle norme e delle pratiche riguardanti le for- 94. Questa ispirazione liberale e socialista degli esordi è stata vista da alcuni studiosi come la risposta competitiva delle democrazie occidentali alla sfida del bolscevismo sul terreno del lavoro. È stato scritto che: «L’OIL fu la risposta di Versailles al bolscevismo». Robert W. Cox, ILO: Limited Monarchy, in The Anatomy of Influence. Decision Making in International Organization, a cura di Robert W. Cox e Harold Karan Jacobson, New Haven-London, Yale University Press, 1973, p. 102.
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me di utilizzo del lavoro all’interno delle grandi compagini imperiali. 95 In altri termini, la questione del lavoro forzato non era riferita al regime sovietico se non nel senso, indiretto, che l’abolizione del lavoro forzato negli imperi europei avrebbe aiutato le democrazie liberali a reggere la sfida rivoluzionaria che proveniva da oriente. Nel 1930 la questione del lavoro forzato sovietico entrò però diretta- mente nel dibattito ginevrino. Nel corso della decima seduta dell’Interna- tional Labour Conference, in data 20 giugno, il rappresentante del governo portoghese criticò l’impianto della convenzione che «vuol essere univer- sale, ma in realtà è quasi esclusivamente coloniale». Vasco de Quevedo criticò aspramente il rapporto inviato alla conferenza da Thomas, perché in esso era sminuita la drammaticità della situazione sovietica. Il rappresen- tante portoghese affermò quanto segue: A proposito del famoso e famigerato termine «lavoro forzato», vorrei far notare che, a pagina 18 del suo Rapporto e in un passaggio relativo al lavoro a cui sono sottoposti i poveri lavoratori impegnati a caricare treni e navi, schiacciati dalla sanguinaria dittatura di Stalin, il direttore dell’Ufficio In- ternazionale del Lavoro chiama questo tipo di lavoro semplicemente «lavo- ro obbligatorio»! Ebbene, questo lavoro è assolutamente gratuito, e quindi più «forzato» di quello a cui sono costretti gli indigeni in certe colonie; perché questo lavoro è retribuito e circondato da garanzie di protezione e assistenza, e chi lo svolge non è mai minacciato di morte, di carcere o di de- portazione – o di qualsiasi altra violenza corporale – come avviene nella Russia comunista. Chiamare «lavoro obbligatorio» la vera e propria schia- vitù imposta – con, quante volte, minacce di morte – dai sindacati sovie- tici, e ostinarsi a difendere la denominazione di «lavoro forzato» applicata alla semplice costrizione morale che rappresenta la salvezza, il benessere e il futuro civile dei popoli di cultura inferiore, è, a mio avviso, esagerare di molto il rispetto per una parola che, creando deplorevoli confusioni, do- vrebbe essere soppressa da tutti coloro che amano la verità e la chiarezza. 96
95. Sulla figura di Thomas, Edward J. Phelan, Albert Thomas et la création du B.I.T., Paris, Grasset, 1936; Bertus Willem Schaper, Albert Thomas, Trente ans de réformisme sociale, Assen, Van Gorcum & Comp., 1959; Denis Guerin, Albert Thomas au BIT (1920- 1932) de l’internationalisme a l’Europe, Genève, Institut Européen de l’Université de Genève, 1996. 96. L’intervento del delegato governativo portoghese si trova in Société des Nations, Conférence Internationale du Travail, Quatorzième Session, Genève, 1930, Genève, Bure- au International du Travail, 1930, vol. I, p. 153.
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La battaglia delle parole era dunque iniziata. Le osservazioni del rap- presentante portoghese appaiono ai nostri occhi certamente sconcertanti, mostrando un’indulgenza totale nei confronti del colonialismo del proprio paese che egli anzi collegò orgogliosamente a un primato lusitano nella «crociata civilizzatrice africana». Tuttavia, la risposta di Thomas ci appare se possibile ancora più sconcertante, perché, eludendo la critica avanzata dal suo interlocutore sulla mancata distinzione tra «lavoro forzato» e «la- voro obbligatorio», si concentrò sui passi da gigante fatti dal regime sovie- tico sul terreno della trasformazione dell’economia e della società. Questo fu il passaggio più significativo dell’intervento di Thomas: E poi, signor de Quevedo, c’è la Russia. Non voglio cavillare con lei in que- sto momento su alcune parole che potrei aver usato nel Rapporto e che lei ha trovato pericolosamente sentimentali. Ne riparleremo. Ma quello che voglio dire è che il mio Rapporto sarebbe molto incompleto, che la nostra visione sarebbe molto ristretta se, a causa dei nostri sentimentalismi, non tenessimo conto dei formidabili fatti economici che si stanno verificando in Russia. È importante ricordare che la Russia sta cercando di riconquistare il suo posto nel mondo. È importante ricordare oggi che, dopo la catastrofica caduta del 1922, ha già raggiunto il 56% delle sue esportazioni del 1913, che ha rag- giunto il 67% delle sue importazioni, che il piano quinquennale, nonostante tutte le difficoltà, sta procedendo in modo tale che diplomatici ben informati ci dicono che forse la concorrenza russa può diventare formidabile per i Paesi europei. 97
l problema sollevato da de Quevedo tuttavia non riguardava i tassi di crescita dell’economia sovietica, ma appunto lo sfruttamento bestiale dei prigionieri, costretti ai lavori forzati in forme non confrontabili con altre realtà, neppure quella del vecchio colonialismo. La facile ironia di Tho- mas sui «sentimentalismi» provati dal rappresentante portoghese mostrò ancora una volta che egli era un simpatizzante del regime di Stalin. Nel 1928, si era recato a Mosca con l’intenzione di aprire un ufficio dell’OIL, riportando impressioni molto positive sulla situazione dei lavoratori sovie- tici. L’avvio del piano quinquennale non fece altro che confermare le sue impressioni. 98 97. Ivi, p. 207. 98. Sull’apertura di Thomas verso il mondo sovietico a partire dal terreno sindacale vedi Reiner Tosstorff, Albert Thomas and the IFTU: A Case of Mutual Benefit, in ILO Histories. Essays on the international Labour Organization and Its Impact on the World
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Comunque, se de Quevedo perse la propria partita antisovietica, chia- ramente funzionale a deviare l’attenzione dai misfatti del colonialismo portoghese, neppure Thomas vinse completamente la propria. Riuscì cioè soltanto in parte a tenere fuori l’URSS dal discorso sul lavoro forzato, per- ché dai suoi uffici ginevrini non poteva avere il controllo dell’uso politico che la sinistra antisovietica avrebbe fatto di lì a breve della convenzione, ancor prima che i governi aderenti all’ILO la ratificassero. I riferimenti alla «schiavitù», al «lavoro forzato» e ad altre forme di lavoro compulsivo furono utilizzati dunque dai sindacati aderenti all’American Federation of Labor, mostrando che lo spirito di Ginevra, sbarcando sull’altra sponda dell’Atlantico, subì una torsione in senso antisovietico. 99 La AFL, la quale peraltro era uscita dall’ILO nel 1925, ne fece una bandiera come mostrano i discorsi dei suoi dirigenti. Matthew Woll leader dell’Unione dei tipogra- fi, rivendicò ripetutamente il ruolo che la AFL, della quale era divenuto vicepresidente, aveva svolto nella scrittura del paragrafo 307 della tariffa protezionistica statunitense. E in un suo discorso del 27 luglio 1930, rivol- gendosi ai delegati della sua associazione, si fece forte delle norme scritte a Ginevra, per affermare l’impegno della propria organizzazione contro il lavoro forzato sovietico. Affermò quanto segue: Dimostreremo che non esiste il lavoro libero nella Russia sovietica nel senso americano della parola, che i lavoratori russi sono virtualmente incatenati ai loro lavori con bassi salari da un brutale sistema di sfruttamento e che milioni e milioni di contadini russi, indirizzati con la forza ad aderire ad aziende agri- cole collettive, sono le vittime di quello che è in effetti uno ritorno al feudale- simo di Stato. Permettere a prodotti agricoli e industriali di un sistema di tal fatta di entrare in un paese dove il lavoro è libero, dove lo standard della vita è alto e dove il principio degli alti salari è stato generalmente accettato significa minare le fondamenta del sistema sociale ed economico statunitense. I lavo- ratori americani devono soltanto rendersi pienamente conto del significato di questa situazione e erigersi come un sol uomo contro ogni commercio con la During the Twentieth Century, a cura di Jasmien Van Daele, Magaly Rodrìguez Garcìa, Geert Van Goethem, Marcel van der Linden, Bern, Peter Lang, 2010, pp. 91-114. Vedi il resoconto del suo viaggio in Albert Thomas, A la récontre de l’Orient: notes de voyages 1928-1929, Genève, Société des Amis d’Albert Thomas, 1959. 99. Sull’anticomunismo originario della AFL, Richard Gid Powers, Not Without Ho- nor. The History of American Anticommunism, New Haven-London, Yale University Press, 1995, p. 11. E soprattutto Jennifer Luff, Commonsense Anticommunism. Labor and Civil Liberties between the World Wars, Chapel Hill, University of North Carolina, 2012.
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Russia sovietica. Il nostro obiettivo è che questi propositi diventino generali e che il governo americano agisca in coerenza con i fatti. 100
L’assenza tout court di libertà del lavoro in URSS imponeva dunque una linea durissima, di rottura totale delle relazioni commerciali. E per rafforzare questo obiettivo fu evocato il «feudalesimo di stato», alternato in altri brani, al motivo della «schiavitù». Erano termini usati senza alcu- na preoccupazione filologica, naturalmente. Servivano semmai sul terreno politico come termini oppositivi al nucleo forte dell’ideologia dell’AFL, il free labor, quella dimensione di libera contrattazione tra le parti socia- li affermata nel tempo contro versioni più radicali del sindacalismo negli Stati Uniti. Evidentemente, questa libera contrattazione aveva tra i suoi presupposti che sui mercati, interni e internazionali, non si verificassero di- storsioni accentuate come quella di un partner commerciale che esportava merci ottenute con l’impiego del lavoro forzato. Il ragionamento di Woll andò oltre: tutto il lavoro in URSS, anche quello formalmente libero, era in realtà lavoro forzato. Di conseguenza, le relazioni commerciali con il regime di Stalin dovevano essere interrotte. Questa linea di ostilità assoluta verso l’URSS non venne condivisa dall’amministrazione presieduta da Hoover, il quale (assieme al segretario di stato Henri Stimson) non era intenzionato a estendere il bando delle merci sovietiche a quelle prodotte fuori dal sistema concentrazionario. Per Hoo- ver e Stimson, l’idea che tutti i lavoratori sovietici fossero lavoratori forzati poteva anche essere suggestiva, ma non erano disposti a trarne conseguenze radicali sul terreno delle relazioni commerciali. 101 La comunicazione tra go- verno e sindacati fu un dialogo tra sordi, perché Woll non perse occasione per ricordare all’opinione pubblica che tutto il territorio sovietico costituiva in sostanza un enorme campo di concentramento. Inoltre, egli sostenne che i vantaggi economici di breve respiro ottenuti nel settore della carta (impor- tando legname sovietico) e nel settore dell’acciaio (importando manganese sovietico) avrebbero spinto nell’abisso della crisi e della disoccupazione in- 100. Labor Moves to Bar all Soviet Products from Nation by 1932, in «The New York Times», 28 luglio 1930, p. 1. 101. Ciò non toglie che i rapporti tra Hoover e i vertici dell’AFL fossero generalmen- te buoni. Hoover considerava la AFL come un bastione della libertà americana. Era stato amico di Samuel Gompers e in seguito del suo successore, William Green. Glen Jeansonne, The Life of Herbert Hoover. Fighting Quaker 1928-1933, New York, Palgrave Macmillan, 2012, p. 324.
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teri settori dell’economia statunitense già in sofferenza a causa della crisi del 1929. Si sarebbe indebolita infine la capacità del governo di garantire un autonomo approvvigionamento di materie prime fondamentali per la produ- zione di acciaio, come era appunto il manganese. In altri termini, Woll era convinto che gli scambi commerciali con l’URSS stessero indebolendo non soltanto l’economia degli Stati Uniti, ma anche il suo sistema di difesa. 102 Il protezionismo radicale promosso dall’AFL fu oggetto di critiche durissime nel mondo della sinistra americana. Nell’estate del 1930, «New Republic» attaccò Woll, giudicandolo un lacchè dei settori dell’industria interessati al bando delle merci sovietiche, come appunto l’industria del manganese. Assieme a «The Nation», «New Republic» dette spazio a po- sizioni che mostrarono in realtà quanto era diffusa l’ignoranza della realtà sovietica negli ambienti progressisti. Martin Wolfson ebbe l’ardire di scri- vere che «le atroci condizioni delle carceri negli Stati Uniti non sono ri- scontrabili in Unione sovietica. Carceri e lavoro carcerario nella Russia sovietica dovrebbe essere presi ad esempio negli Stati Uniti». 103 Questa chiave di difesa del regime sovietico fu usata anche da Walter Wilson, il quale qualche tempo dopo dette alle stampe Forced labor in the Usa. Wilson era convinto che la campagna antisovietica del 1930 avesse avuto l’effetto, evidentemente indesiderato dai suoi promotori, di stimolare una riflessione sull’esistenza del lavoro forzato nei paesi capitalisti. Per il resto, le sue posizioni non si allontanarono di molto dalla propaganda sovietica, la quale ripeteva da tempo che il lavoro salariato nei paesi capitalisti era una forma di lavoro forzato. 104 102. Per collocare la posizione di Woll nel clima delle reazioni pubbliche alla compe- tizione sovietica, si può far riferimento ancora a Filene, Americans and the Soviet. Interes- sante ad esempio il ruolo giocato da J. Carson Adkerson, presidente dell’associazione dei produttori americani di manganese, il quale si fece promotore di una conferenza sull’«sleale competizione russa» che doveva includere i settori industriali del manganese, del legname, dei fiammiferi, della colla, del carbone e delle salsicce. Vedi su queste reazioni il già citato Browder, Origins of Soviet American Diplomacy. 103. Martin Wolfson, Convict Labor in Russia, in «The New Republic», 27 agosto 1930, p. 50. Tra gli articoli che negarono il lavoro forzato sovietico, muovendo dall’imma- gine oleografica del popolo sovietico, impegnato nello sforzo di costruire il socialismo, si può segnalare quello di Henry Raymond Mussey, Forced Labor in Russia, in «The Nation», 4 novembre 1931, pp. 480-482. 104. Walter Wilson, Forced Labor in the Usa, New York, International Publishers, 1933. Il libro fu introdotto dallo scrittore e giornalista Theodore Dreiser, il quale fu tra i pro- motori del National Committee for the Defense of Political Prisoners ed era un entusiasta
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Le divisioni all’interno del mondo del lavoro e dei gruppi progressisti di fronte alle politiche del regime sovietico non erano iniziate certamen- te con il tragico spettacolo della dekulakizzazione e del lavoro forzato. Esse risalivano alla formazione stessa del regime bolscevico, vero e pro- prio spartiacque nella storia della sinistra internazionale e dunque anche di quella americana. Tuttavia, la svolta staliniana del 1929 approfondì le fratture già esistenti, spingendo una parte dei critici dell’URSS verso for- me di collaborazione con forze di diversa provenienza politica e culturale. L’attività dell’AFL s’intrecciò dunque con quella di forze prevalentemen- te conservatrici, patriottiche e a sfondo religioso, con le quali condivise molto, almeno sul piano degli argomenti utilizzati. Lo dimostrò la vicen- da della commissione parlamentare presieduta da Hamilton Fish, membro repubblicano della Camera dei deputati e fervente anticomunista. Questa commissione svolse i lavori dal giugno al dicembre 1930, avendo come compito di indagare le infiltrazioni sovietiche negli Stati Uniti. Il lavoro forzato in Unione sovietica non era in teoria parte del discorso, ma il tema agitato dai sindacati, secondo cui l’URSS stava conducendo una guerra globale sul terreno dell’economia, spinse i membri della commissione ad allargare i propri interessi anche in questa direzione. 105 E in questo ambi- to ebbe un ruolo di primo piano un altro campione dell’anticomunismo, Edmund Walsh. 106 Forte di questi collegamenti trasversali, l’azione dell’AFL continuò a battere su questi temi. In un discorso tenuto il 27 gennaio 1931 presso l’E- conomic Club di New York, Woll denunciò l’apparato repressivo esistente dietro il lavoro forzato sovietico, mettendo al centro del proprio discorso le definizioni di crimine contro lo stato previste dal codice penale sovietico. Affermò che: del regime di Stalin. Jerome Loving, The Last Titan. A Life of Theodore Dreiser, Berkley, Berkley University of California Press, 2005. 105. Alex Goodall, Red Herrings? The Fish Committee and Anti-Communism in the Early Depression Years, in Little «Red Scares». Anticommunism and Political Repression in the United States 1921-1946, a cura di Robert Justin Goldstein, Farnham, Routledge, 2014, pp. 71-103. 106. Patrick J. McNamara, A Catholic Cold War. Edmund A. Walsh, S. J., and the Po- litics of American Anticommunism, New York, Fordham University Press, 2005. Fu Walsh a proporre alla Commissione Fish di chiamare a testimoniare un funzionario sovietico di- sertore. Mi riferisco a Grégoire Bessedovsky, Oui, J’accuse! Au Service des Soviets, Paris, Alexis Redier, 1930.
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Con una definizione così flessibile dei crimini politici ed economici e con la completa assenza della libertà di parola e di forme regolari di norme e di processo, e in presenza di un vasto motore di spie e funzionari che dedicano tutto il loro tempo a rintracciare reali o supposti oppositori dello stato o di qualunque delle sue innumerevoli e mutevoli politiche, è evidente che chiun- que in ogni momento può essere trasferito nei campi di lavoro forzato o nei distretti di esilio o in allocazioni di lavoro di massa dove la vittima finisce con certezza per morire di fame […]. 107
Woll inviò poco dopo una lettera a Hoover nella quale si disse preoccu- pato che il regime sovietico combatteva una guerra economica con metodi sleali quale l’impiego massiccio di lavoro «penale», «coscritto» e «forza- to». Di per sé, la riduzione dei costi di importazione avrebbe potuto porta- re un «profitto temporaneo» a qualche settore dell’economia statunitense, ma in definitiva quella massiccia operazione sovietica di manipolazione dei costi del lavoro, realizzata attraverso un abnorme apparato repressivo interno, avrebbe finito per disarticolare l’economia internazionale di mer- cato, già pesantemente in crisi. La lettera fu acquisita dal Committee of Ways and Means, presieduto dal deputato dell’Oregon Willis O. Hawley. 108 A suo modo, Woll aveva costruito un discorso coerente, anche se mol- to astratto: il lavoro forzato sovietico era disumano non soltanto per i la- voratori sovietici, ma, alterando le ragioni di scambio, finiva per produrre crisi e disoccupazione anche tra i lavoratori statunitensi. E crisi e disoccu- pazione di massa erano le armi che Mosca intendeva usare per disartico- lare il sistema economico capitalistico e provocare disordini e rivolte con l’obiettivo di indebolire e infine distruggere le democrazie occidentali. 109 107. Matthew Woll, The Economic Outlook for Russia, The Economic Club of New York, 95th Meeting, New York, 27 gennaio 1931, pp 39-40. Il discorso è riprodotto in: https://www.econclubny.org/documents/10184/109144/1931Jan27Transcript.pdf. 108. Embargo on Soviet Products, Hearings before the Committee on Ways and Me- ans, House of representatives, Seventy-First Congress, Third Session on H. R. 16035, A Bill to prohibit the importation of any Article or Merchandise from the Union of the Soviet So- cialist Republics, Washington, United States Government Printing Office, 1931, pp. 74-76. 109. Questa dura presa di posizione culminò nella sua opposizione al riconoscimen- to diplomatico dell’URSS nel 1933 cfr. America opposes Soviet Recognition: Correspon- dence between Matthew Woll and Bainbridge Colby, New Jersey, International Musician Press, 1933. L’anticomunismo costituì peraltro uno dei fili più resistenti della sua attività sindacale, intesa nei termini dell’arbitrato (e non del conflitto sociale) e dell’avanzamento delle posizioni pubbliche del sindacato, non certo in termini di scontro ideologico. Si veda- no a questo proposito Matthew Woll, The American Federation of Labor, its Laws, Char-
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Questo ragionamento estremizzò oltre ogni limite alcuni aspetti della po- litica estera sovietica, la derivazione della quale dal progetto di rivoluzio- ne globale non era certamente un mistero. Ciò però non significava che il gruppo dirigente attorno a Stalin coltivasse il proposito di rovesciare i governi occidentali, dai quali peraltro dipendeva per ottenere la divisa internazionale necessaria per l’acquisto di tecnologia moderna. Del resto, la crescita delle relazioni tra Stati Uniti e stato sovietico lasciava pensare che la direzione fosse proprio quella della collaborazione tra i due paesi sul terreno commerciale e non quello di una guerra economica che in defini- tiva non conveniva a nessuno. 110 In altri termini, la dura presa di posizione dei sindacati statunitensi mal celò un altro obiettivo, quello di chiudere gli spazi di crescita del radicalismo negli Stati Uniti, partendo dall’assunto che un’intensificazione delle relazioni con l’URSS (oggi soltanto commerciali, domani diplomatiche) avrebbe invece aumentato quegli spazi sul terreno politico e culturale. 111 In Gran Bretagna, la questione del lavoro forzato sovietico prese una piega ancor più marcatamente politica. Come sappiamo, i laburisti si trovavano al governo e non avevano intenzione di sacrificare sull’altare dei diritti umani le relazioni diplomatiche e commerciali con il regime di Stalin. Le prime notizie sulla collettivizzazione – lo si è visto – furono giudicate false o non degne di particolare attenzione. Nel dicembre 1930, MacDonald ricevette una lettera dal rappresentante conservatore in Parla- mento Hilton Young, nella quale era fatta menzione di alcune testimonianze sul lavoro forzato in URSS. Da esse risultò con chiarezza che «l’industria del legname [era] condotta con l’uso di prigionieri del governo sovietico ad Arcangelo e in altri campi di prigionia». Questi campi recavano «il mar- chio delle peggiori caratteristiche del lavoro servile». Young si richiamò acter, Strength and Manner of Working, New York, Workers Education Bureau of America, 1925 e, a metà del decennio successivo Labor, Industry and Government, New York, D. Appleton-Century, 1934. 110. Pur muovendo dall’assunto di un conflitto inevitabile tra capitalismo e sociali- smo, Stalin doveva collaborare con l’Occidente per realizzare i propri progetti. È stato scrit- to da uno storico che: «L’obiettivo centrale di Stalin fu la costruzione di uno stato basato su una reale forza economica e militare, capace di sostenere le sfide della politica mondiale, lasciando alle spalle con uno solo balzo in avanti la vulnerabilità e la marginalità che ave- vano condizionato la Russia pre e post-rivoluzionaria» […]». Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi, 2012, p. 87. 111. Si veda il lavoro già richiamato di Luff, Commonsense Anticommunism.
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dunque a una legge britannica del 1897 (il Foreign Prison-Made Goods Act) che proibiva espressamente il commercio con i paesi che utilizzavano il lavoro forzato dei prigionieri. E aggiunse che i rapporti commerciali con i sovietici costituivano «una disgrazia per la civiltà» britannica e per la sua «tradizionale reputazione umanitaria». MacDonald rispose che le prove esibite non erano sufficienti per interrompere gli scambi tra i due paesi. A sostegno del governo accorse l’Anglo-Russian Parliamentary Committee, il quale dal suo bollettino settimanale fece sapere che si trattava di «prove inattendibili». Al coro si unì il «Manchester Guardian» che in un trafiletto del 26 dicembre segnalò che l’«orrore russo» denunciato da Young era soltanto «presunto». La tesi espressa sul quotidiano progressista era desti- nata ad essere ripresa molte volte nei mesi successivi: sulla base di poche notizie incerte, il governo britannico non poteva farsi carico di questioni che in definitiva non erano di sua competenza. L’unico problema di stretta competenza del governo era il trattamento dei lavoratori britannici. 112 La questione andò presto oltre il conflitto politico tra conservatori e laburisti. Infatti, essa fu fatta propria da forze d’ispirazione liberale e pro- gressista, che agivano da tempo nella società civile britannica. L’Antisla- very and Aborigines’ Protection Society era nata nel 1909 dalla fusione di organizzazioni che da tempo collaboravano sui temi dello sfruttamento del lavoro coloniale. La British and Foreign Anti-Slavery Society in particolare possedeva una storia lunghissima, largamente ispirata dal movimento dei Quaccheri, e che dunque affondava le radici nelle campagne settecentesche per l’abolizione della tratta degli schiavi. 113 Essa era adesso animata da John H. Harris, ex missionario protestante, che aveva conosciuto le atrocità del colonialismo europeo nel Congo belga. Egli era stato anche parlamen- tare nelle file del Partito liberale ed era autore di alcuni importanti lavori sulla schiavitù. Uno di essi uscì nel 1919, in occasione della Conferenza di pace di Parigi, alla quale egli partecipò come sostenitore dell’abolizioni- smo. E in effetti il suo lavoro contribuì al processo che condusse nel 1926 112. La lettera di Hilton Young e gli altri documenti citati sono conservati in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps, 1930-1931), MSS. Brit. Emp. s. 22/G405. 113. Sulla Aborigines protection society, Charles Swaisland, The Aborigines Protec- tion Society 1837-1909, in «Slavery and Abolition», 21 (2000), pp. 265-280. Per il processo di fusione vedi la nota archivistica del fondo conservato presso le Bodleian libraries, https:// archives.bodleian.ox.ac.uk/repositories/2/resources/2522.
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all’approvazione della Convenzione sulla schiavitù da parte dell’ILO. 114 Non si può dare per scontato il fatto che Harris e gli attivisti antischiavisti britannici, i cui interessi erano specificatamente legati al mondo africano e coloniale in generale, si dedicassero all’inizio degli anni Trenta ai campi sovietici. 115 La chiave per comprendere questo passaggio si trova probabilmente nella stessa appartenenza al mondo religioso del non conformismo e al legame con la tradizione liberale, che faceva di loro dei militanti dei diritti umani, privi di particolari preoccupazioni ideologiche. Essi parteciparono al progetto di riforma dei grandi imperi europei (a partire da quello bri- tannico) lungo le linee di una progressiva normazione delle condizioni di lavoro nelle colonie e nei mandati. 116 E seguendo l’ispirazione riformatrice della Società delle Nazioni, essi si dimostrarono pronti a battersi contro vecchie e nuove forme di oppressione quale che fosse appunto la loro ori- gine ideologica. Per questo motivo, le notizie provenienti dal mondo so- vietico furono valutate per ciò che erano, senza la preoccupazione politica di ledere l’immagine progressista dell’URSS o di entrare in conflitto con il governo laburista. D’altra parte, la Anti-Slavery Society si mostrò scar- samente interessata a usare in modo strumentale il lavoro forzato sovietico per fini di politica interna, come invece fecero alcuni gruppi conservatori. La battaglia di Harris e compagni insomma si collocò in uno spazio in- termedio, lo spazio, si potrebbe dire, della moralità: un’azione pubblica coerente con determinati principi umanitari e, allo stesso tempo, fondata sul metodo della documentazione sistematica delle notizie disponibili. 114. Sulla partecipazione di Harris alla Conferenza di pace, Susan Pedersen, The Guardians. The League of Nations and the Crisis of Empire, Oxford, Oxford University Press, 2015, p. 54. Vedi John H. Harris, Africa. Slave or Free?, New York, E.P. Dutton & Co., 1920 (I ed. 1919). 115. Vedi, a titolo di esempio, Brian Willan, The Anti-Slavery and Aborigines’ Protec- tion Society and the South African Natives’ Land Act of 1913, in «The Journal of African History», 1 (1979), pp. 83-102. L’interesse restò prevalente come mostrano alcuni pamphlet pubblicati negli anni Trenta e Quaranta. Tra essi, The Antislavery and Aborigines Protec- tion Society, Slavery: World Abolition. Speeches by Viscount Cecil of Chelwood and The Rt. Hon. Sir John Simon, November 28 th 1932. E An International Colonial Convention, prepared by The Antislavery and Aborigines Protection Society,1943. 116. Almeno inizialmente Harris era un fautore entusiasta del sistema dei mandati. Così almeno afferma Pedersen, The Guardians, p. 54. Certamente l’ispirazione di riforma- tori come Harris non fu certamente anti-imperialista, condividendo anzi l’idea che fosse necessario esercitare una funzione «civilizzatrice» dei popoli coloniali. Ivi, pp. 186-187.
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Il 9 gennaio 1931 il comitato generale della Antislavery and Abori- gines’ Protection Society, in associazione con la Howard League for the Penal Reform, decise di avviare «un’inchiesta imparziale» per valutare le accuse di lavoro forzato, crudeltà e schiavitù nei campi sovietici. Il colle- gamento con le precedenti battaglie in favore delle popolazioni indigene fu posto in questi termini: La società – scrisse Harris – ha intrapreso l’azione con l’obiettivo di veri- ficare e pubblicare i fatti e in considerazione dell’importante dispaccio che Lord Grey inviò nel dicembre 1913 al Servizio consolare britannico circa il trattamento del lavoro in paesi nei quali interessi britannici fossero coinvolti. Il Comitato ritiene che se è vero che questo dispaccio venne prodotto inizial- mente in relazione ai lavoratori di colore, il principio inerente ad esso si ap- plica egualmente alle condizioni schiavistiche create per lavoratori bianchi. 117
Il riferimento alla «condizioni schiavistiche create per lavoratori bianchi» era evidentemente fondamentale per stabilire una continuità di intervento oltre la linea del colore, con l’implicita conseguenza di spo- stare – qualora le accuse si fossero rivelate fondate – l’URSS dalla ca- tegoria dei regimi politici ispirati alle idee umanitarie d’ispirazione illu- ministica, alla categoria degli stati schiavisti. Il riferimento al dispaccio di Sir Edward Grey, ministro degli Esteri britannico dal 1905 al 1916, era importante. Esso fu collegato alle atrocità commesse da compagnie private contro le popolazioni indigene Putumayo dell’Amazzonia peruviana, im- pegnate nell’estrazione e nella raccolta della gomma. Il dispaccio si basa- va sulle conclusioni a cui era giunto Roger Casement, nominato console britannico in Perù anche grazie all’insistenza della Antislavery and Abori- gines’ Protection Society. Casement, il quale in precedenza aveva rivelato gli orrori del lavoro forzato nel Congo belga, fu citato spesso nel lavoro pubblicato da W.H. Handerburg alla fine del 1912. Nella prefazione di que- sto volume veniva peraltro ringraziato anche Harris, già allora segretario organizzativo della Anti-Slavery. 118 117. Il documento è conservato in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti- Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps), 1930-1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G405. 118. Walter Handerburg, The Putumayo. The Devil’s Paradise: Travels in the Peru- vian Amazon and an Account of the Atrocities Committed upon the Indians therein, London, T. Fisher Unwin, 1913. Vedi anche Robert M. Burroughs, Travel Writing and Atrocities. Eyewitness Accounts of Colonialism in the Congo, Angola, and the Putumayo, London,
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Collegata a questo retroterra, l’indagine della Anti-Slavery Society si caratterizzò come un lavoro investigativo a largo spettro sul lavoro forza- to sovietico, terminale di un insieme di pratiche produttive e repressive, messo in essere da uno regime come quello di Stalin, il quale considera- va i territori governati, soprattutto le campagne, come vasti possedimenti coloniali dai quali estrarre a piacimento le risorse ritenute necessarie per consolidare lo stato. L’interesse per il Report, pubblicato nel 1931, non si limita a queste considerazioni generali, riguardando altri aspetti su cui con- viene soffermarsi: l’ampiezza della rete di relazioni intessute a sostegno del lavoro di indagine, il metodo di raccolta delle fonti e infine l’impatto avuto sull’opinione pubblica. L’indagine svolta dall’Anti-Slavery Society dette vita insomma a un modello di intervento pubblico, che una miriade di soggetti non governativi avrebbero ripreso in seguito in Europa e negli Sta- ti Uniti soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. E se è pur vero che l’esile corpo documentario raccolto dall’Anti-Slavery all’inizio degli anni Trenta sarebbe stato surclassato da raccolte di fonti ben più consistenti, frutto delle acquisizioni postbelliche, nondimeno criteri, metodi e risultati di questa prima indagine sul lavoro forzato sovietico lasciarono una traccia importante, peraltro universalmente riconosciuta. 119 Iniziamo dal metodo di raccolta delle fonti e dalla costruzione di reti. L’indagine fu affidata ad Alan Pim e Edward Bateson. Il primo era un ex funzionario dell’amministrazione coloniale in India e rivestiva un ruolo preminente nella comunità dei quaccheri. Il secondo aveva a lun- go operato come giudice nei tribunali misti egiziani. Assieme alla figlia di Harris, questi due funzionari di Sua Maestà visitarono diverse città della Gran Bretagna per ottenere le testimonianze giurate dei rifugiati, che erano riusciti nei mesi precedenti a fuggire dai campi sovietici, na- scondendosi su navi mercantili britanniche. Nel corso di queste visite, il gruppo degli investigatori cercò inoltre di raccogliere testimonianze di persone a conoscenza dei fatti: imprenditori, marinai e ufficiali delle navi che avevano visitato i porti sovietici. La signorina Harris scrisse a Pim il 2 febbraio 1931 da Edimburgo, per aggiornarlo sulle ricerche in corso. A Routledge, 2011. Sulla figura di Casement, si rimanda a Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, Milano, Rizzoli, 2001 e alla splendida trasfigurazione letteraria di Mario Vargas Llosa, Il sogno del Celta, Torino, Einaudi, 2011. 119. Sir Alan Pim e Edward Bateson, con una prefazione di Rt. Hon. Lord Buckma- ster, Report on Russian Timber Camps, London, E. Benn Limited, 1931.
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Newcastle, la giovane donna aveva dovuto fare i conti con la scarsa pro- pensione degli importatori di legname dall’URSS a collaborare. L’impre- sa della famiglia Dalgleish, principale importatrice di legname sovietico in quel distretto, si rifiutò di collaborare. A capo dell’azienda, c’era Peter Dalgleish, il quale affermò di simpatizzare con l’inchiesta e di possedere delle fotografie e altro materiale piuttosto interessante. Tuttavia, la Harris concluse amaramente che l’imprenditore non era disposto a testimoniare fino a quando la sua azienda fosse stata impegnata nell’importazione di legname russo. 120 Qualche marinaio o capitano di vascello testimoniò, ma questa fu senza dubbio la parte più debole dell’intero processo investigativo. Mi- gliori risultati, ad esempio, furono raggiunti grazie alla polizia di Newca- stle, che segnalò la presenza di Grigorij Terešin presso i locali dell’am- ministrazione della Poor law. Si trattava di un ex contadino proveniente dalla provincia di Leningrado che aveva lavorato «all’interno di un cam- po di legname» e in seguito era stato trasferito ad Arcangelo dove era stato impiegato nella movimentazione del legname al porto. La Harris, la quale nel frattempo si era impegnata nella ricerca di un traduttore, apprese che egli «era stato trattato duramente e con crudeltà» e che dun- que era «desideroso di raccontarci tutto ciò che vogliamo sapere». 121 E il racconto non fu molto diverso da quelli che abbiamo citato all’ini- zio, raccolti ad Aberdeen nel dicembre 1930. Come Ščelučin e Kostalin, Terešin infatti si era sempre sentito un «uomo segnato», cioè destinato a essere preso nel tritacarne delle politiche repressive sovietiche. Arrestato nel marzo 1930, Terešin fu deportato ad Arcangelo, dove visse in una baracca affollata, senza adeguate misure igieniche, e circondata dal filo spinato. Il lavoro di carico delle navi durava dodici ore, alternando turni diurni e notturni, a cui si dovevano aggiungere altre tre ore, destinate all’operazione di calare le traversine di legno dalla banchina all’acqua. I prigionieri erano «trattati come cani» e due o tre persone al giorno mori- vano di stenti e malattie. 122 120. La lettera è conservata in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Sla- very Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G406. 121. Ibidem. 122. La testimonianza è conservata Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti- Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps: affidavits), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G407.
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Il ruolo di Pim e Bateson si dimostrò assai importante. Essi formula- rono domande specificatamente volte ad aumentare la conoscenza dell’u- bicazione dei campi, dell’organizzazione del lavoro e delle condizioni di vita dei prigionieri. Essi erano interessati anche al sistema di lavoro forzato applicato ai contadini delle zone adiacenti alle foreste che si svolgeva nel- le forme di pesantissime corvées. Le dichiarazioni dei prigionieri erano insomma il punto di approdo di un lavoro preliminare di costruzione di griglie che permise di cogliere analogie e differenze nell’esperienza vissuta dagli ex prigionieri. Una caratteristica fondamentale, destinata a ripetersi in indagini successive, era costituita dal fatto che queste dichiarazioni furo- no certificate alla presenza di notai, giudici di pace o altre figure chiamate a garantire la conformità dell’intero percorso da un punto di vista legale. Questo complesso intreccio con il mondo degli interessi organizzati, dei funzionari delle istituzioni locali, e dei rappresentanti delle professioni giuridiche si estese al mondo di quelle associazioni che mostrarono un for- te interesse per l’iniziativa. Si è già fatto cenno alla Howard League for Pe- nal Reform, associatasi sin dall’inizio all’Anti-Slavery per l’indagine sui campi sovietici. È interessante notare inoltre la connessione con la League of Nations Union, la quale aveva come presidenti onorari Stanley Baldwin e Lloyd George, e si occupava dal 1918 dei problemi della giustizia inter- nazionale. I suoi membri si misero a disposizione per raccogliere ad Aber- deen – si legge in una lettera del 3 febbraio 1931 inviata a Harris da J. Hall Todd – «qualunque informazione buona e affidabile» potesse emergere sui campi sovietici. Per far questo, lo scrivente si sarebbe volentieri recato in visita al porto, dove arrivavano i grandi carichi di legname dalla Russia. 123 Per un accesso più agevole ai porti britannici, lo stesso Harris comu- nicò a Pim il 6 febbraio che lui e Bateson sarebbero stati affiancati dal co- mandante Fletcher, il quale grazie ai rapporti personali con l’Ammiraglia- to, era in grado far leva su «alcune facilitazione per fornirvi un’assistenza speciale». La rete di relazioni nella quale la Anti-Slavery era inserita si estese anche al mondo conservatore. La campagna svolta da quest’ultimo raggiunse il picco nel febbraio 1931 durante un dibattito alla House of Lords, dove i conservatori avevano dipinto il governo laburista come ami- co intimo del regime sovietico. Quest’ultimo venne definito come «stato 123. La lettera è conservata in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Sla- very Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G406.
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militarizzato» da Lord Newton e «stato basato sul lavoro forzato» da Lord Brentford. 124 La Trade Defense League organizzò un incontro il 6 marzo al Royal Albert Hall di Londra. «The Times» ne fece un resoconto dettaglia- to, dando spazio tra gli altri all’intervento di Winston Churchill, il quale denunciò il lavoro forzato sovietico come «analogo alla schiavitù»; una schiavitù organizzata da un «governo dispotico» che agiva fuori da ogni regola del diritto. In vista dell’incontro, Arthur Thorton, segretario della Trade Defense League, invitò Harris con una lettera del 26 febbraio a par- tecipare all’iniziativa londinese. Aggiunse di essere consapevole che l’An- ti-Slavery stava conducendo «un’indagine imparziale sulle prove dell’esi- stenza del lavoro forzato nella Russia sovietica» e che dunque, aderendo all’iniziativa, avrebbe corso il rischio di esporsi ad accuse strumentali. 125 Dal punto di vista concettuale, il Report fu costruito attorno a un ter- mine chiave: coscrizione. L’intero rapporto era basato sull’idea che il re- gime sovietico funzionasse come uno stato militare, orientato a risolvere i rapporti con i suoi cittadini nei termini della «coscrizione per la guerra»: il gruppo dirigente staliniano – secondo gli autori – stava trattando i problemi del lavoro, della produzione e della produttività «come proble- mi di guerra», gestiti dunque monopolisticamente dallo stato che aveva sostituito i propri obiettivi politico-militari al funzionamento del merca- to. 126 A partire dalla riflessione antesignana di von Mises sull’economia collettivistica, si era fatta in effetti strada, sia pur faticosamente, l’idea che quel regime considerasse il problema dei costi (economici, ma evidente- mente anche sociali) del tutto secondario rispetto alle decisioni politiche relative alla costruzione del socialismo. 127 In definitiva, gli autori del Re- port ricondussero la realtà del lavoro forzato alle scelte strategiche che lo 124. Questi interventi sono citati in Labour Laws in Russia, in «The Times», 6 feb- braio 1931, p. 7. 125. Articoli, lettere e interventi citati sopra sono conservati in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps), 1930-1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G405. 126. Pim e Bateson scrissero che il modo in cui i dirigenti trattavano i problemi con- cernenti il lavoro, la produzione e la produttività aveva una qualche «analogia nella pratica di altri paesi in connessione con la coscrizione per la guerra». Aggiunsero che il governo di Stalin non ha esitato a «impiegare qualunque metodo per ottenere e trasferire il lavoro nelle forme permesse dalle leggi» e che «tutto il lavoro diventa praticamente obbligatorio e la libertà individuale non ha posto», Pim e Bateson, Report on Russian Timber Camps, pp. 18-22. 127. Si fa riferimento qui al già richiamato von Mises, Stato, nazione ed economia.
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stato sovietico aveva maturato, investendo massicciamente nell’apparato industriale-militare a scapito degli altri settori dell’economia e richiedendo un’accentuata militarizzazione del lavoro. Il motivo della coscrizione per la guerra fu ripreso nel volume che Katharine Stewart Murray, duchessa di Atholl, pubblicò nel 1931. La duchessa di Atholl prese le mosse dalla nozione di coscrizione universale, collegandola all’immagine dello stato sovietico come stato militare. L’autrice affermò che i prigionieri di Stalin rappresentavano il livello più basso di una società di coscritti. Milioni di contadini, ridotti alla servitù della gleba come conseguenza della colletti- vizzazione, dovevano essere visti come lo strato successivo di una società organizzata come un sistema di caste. Nel complesso, gli arresti di massa, le deportazioni e il lavoro forzato rappresentavano, secondo la Murray, una «dichiarazione di guerra aperta» contro la società sovietica. 128 L’ultimo aspetto da mettere in rilievo è quello della circolazione del Report. Frutto di un lavoro condotto da donne e uomini, che misero la più scrupolosa attenzione nell’evitare strumentalizzazioni politiche, esso ebbe una diffusione notevole, dovuto all’intervento della stampa locale e nazionale britannica. Il «Daily Express» trasse dalla lettura del Report la conclusione che «cinque milioni di persone [erano] sotto minaccia di estin- zione». Molte altre testate, dal «Newcastle Journal» al «Brighton and Hove Weekly News», passando per il «Birmingham Post», il «Morning post» e il «Daily Telegraph», dettero notizia della pubblicazione. La stampa vicina al governo laburista oscillò tra la negazione dell’esistenza dei campi e la re- lativizzazione del sistema repressivo sovietico. Il «Manchester Guardian» espresse perfettamente entrambe le posizioni: «le prove sono scarse e sono state raccolte interamente in questo paese». Nei giorni successivi, si rico- nobbe che il governo russo era «un governo brutale», ma fu chiesto retori- camente al lettore: «È l’unico governo brutale d’Europa?». 129 La questione 128. Katharine Stewart Murray (Duchess of Atholl), The Conscription of a People, London, Allan, 1932. Va riferito che anche in questa occasione «The Times» intervenne sul tema, usando termini di derivazione militare: The Times, The Russian Conscripts, I, Labour in the Timber Camps, in «The Times», 18 maggio 1931, p. 13; The Times, The Russian Conscripts, II, Life at the Front, in «The Times», 19 maggio 1931), pp. 17-18; The Times, The Russian Conscripts, III, Colonies of Convicts, in «The Times», 20 maggio 1931, pp. 15-16. 129. Questo articolo, insieme a una vasta serie di ritagli di giornali, si trova in Bodle- ian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps: report), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G408.
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in realtà, si chiuse rapidamente, perché il governo di MacDonald nell’a- gosto dovette rassegnare le dimissioni per la impossibilità di realizzare i necessari tagli alle spese sociali senza suscitare un’opposizione radicale tra le file del suo stesso partito. Iniziò l’epoca del governo nazionale, presie- duto ancora da Macdonald, ma molto meno favorevole allo sviluppo delle relazioni anglo-sovietiche rispetto ai due governi laburisti che lo avevano preceduto. 130 Nel vecchio Continente, una parte del socialismo internazionale gestì la questione del lavoro forzato sovietico con lo stesso piglio critico mostra- to per la collettivizzazione e la dekulakizzazione. Gruppi di socialisti fran- cesi e tedeschi, assieme agli esuli russi, si impegnarono nel diffondere le notizie sui campi, unendosi idealmente allo sforzo di mobilitazione realiz- zato dai sindacati statunitensi e dalle associazioni umanitarie britanniche. A partire dal 10 settembre 1931, «La Russie opprimée» pubblicò a puntate un lungo racconto dal titolo Solovki, les «îles de la mort». Il suo autore era Nikolaj Kyselev, un uomo della OGPU che per sette anni era stato a capo di strutture segrete nel Nord del Caucaso e che per altri tre aveva svolto un ruolo di ispezione e investigazione nei campi a destinazione speciale. Fug- gito dall’URSS, rilasciò il 28 gennaio 1931 a Helsinki una testimonianza che è stata rinvenuta da chi scrive nelle carte della Anti-Slavery Society. 131 Essa però fu scartata dagli autori del Report perché estranea alla tipologia di testimonianze pubblicate. Tuttavia, la sua importanza non poté sfuggire, perché essa confermava in sostanza il racconto delle vittime, riproposto tuttavia da un punto di vista interno all’organizzazione di sicurezza so- vietica. Kyselev raccontò dei campi situati nella Repubblica di Carelia, nel distretto di Murmansk, nel governatorato di Arcangelo e anche in Asia centrale (nei dintorni della città di Almaty). Al 1 o maggio 1930, risultavano secondo i suoi calcoli 662.000 prigionieri, impiegati in una miriade di la- vori, dalle miniere fino alla costruzione di strade e ferrovie. Tuttavia, tenne a precisare che «il legname [era] la cosa principale». Affermò che «né gli esseri umani, né i cavalli [potevano] essere risparmiati fino a quando il pia- no non [fosse] completato». Per realizzare questo piano, si era pensato di utilizzare il sistema della «competizione socialista del lavoro». Le squadre 130. Udy, Labour and the Gulag. 131. La testimonianza è conservata in Bodleian Libraries (Oxford), Archive of the Anti-Slavery Society (1757-1982), Russia (forced labour in timber camps: affidavits), 1931, MSS. Brit. Emp. s. 22/G 407.
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erano composte da prigionieri mal vestiti e mal curati, spesso percossi dal personale di guardia, di cui facevano parte soprattutto criminali. 132 Ancora una volta, l’attivismo profuso dai gruppi di esuli stretti attor- no a «La Russie opprimée» e «Socialističeskij Vestnik» rese possibile la circolazione di testimonianze di questo tipo. Il loro impegno si allineò a quello di altri periodici, francesi, statunitensi e tedeschi, non disposti a fare sconti ai metodi staliniani. In Francia, questa volta il primato non spettò a «Le Populaire» sul quale comparve un articolo piuttosto contorto di Paul Faure, il quale scrisse il 13 febbraio che, se a causa del lavoro dei prigio- nieri in URSS, si produce disordine e panico in Occidente, allora vuol dire che gli «stati capitalisti […] sono davvero malati». 133 Diversamente, sulle pagine di «La vie socialiste», diretta da Pierre Renaudel, la questione fu presa sul serio. Nell’ambito di un numero speciale dedicato al confronto tra bolscevismo e socialismo, venne citato il lavoro di documentazione sul lavoro forzato sovietico svolto dai socialisti rivoluzionari in esilio a Pari- gi. Vennero altresì rintuzzati gli attacchi provenienti da «L’Humanité». 134 Dall’altra parte dell’Atlantico, Abraham Cahan s’interrogò dalle pagine di «New Leader» intorno alle conseguenze brutali della collettivizzazione staliniana e del lavoro forzato nei campi, chiedendosi se la sinistra proso- vietica pensasse davvero di esser stata informata correttamente. 135 Nella Repubblica di Weimar, il giornale della SPD «Vorwärts» pubblicò costan- 132. Leggendo i suoi articoli, si poté avere un saggio della mentalità della OGPU. Egli scrisse: «Perché sopprimere senza profitto i controrivoluzionari, i pope, i kulaki, i nepman, i monaci e tutti gli altri individui dello stesso tipo? Che lavorino prima per i so- viet! Quindi sterminiamo tutti questi «sabotatori», ma non prima che ognuno di loro abbia dato ai Soviet la massima quantità di lavoro possibile. Si sterminano da soli, si distruggono progressivamente, come dicono i cekisti, ma al loro posto otteniamo in massa legname da esportare […]. Mentre i prigionieri muoiono, in un lavoro che supera le forze umane, la Ghepeù arresta quelli ancora liberi con qualche pretesto e li manda a Solovki per riempire i vuoti di questo mercato del lavoro». N. Kyselev, Solovki, les îles de la morte, in «La Russie opprimée», 10 ottobre 1931, p. 1. 133. Paul Faure, Travail forcé, in «Le Populaire», 13 febbraio 1931, p. 1. 134. Per il lavoro dei socialisti rivoluzionari si veda Le travail force existe-t-il en U.R.S.S.?: Recueil de documents officiels du gouvernement soviétique, a cura del Comité de l’organisation parisienne du Parti socialiste-révolutionnaire russe, Paris, 1931. Questo lavoro venne richiamato più volte nel numero speciale Socialisme et bolchevisme, in «La Vie Socialiste», 23 aprile 1932. 135. Abraham Cahan, The Current Trend of Russian Communism, in «New Leader», 14 maggio 1932.
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temente informazioni sulle violenze in URSS, alle quali si interessò anche la rivista teorica «Die Gesellschaft». Una parte considerevole di questa documentazione è stata rinvenuta da chi scrive nelle carte di Kautsky, attento osservatore di ciò che di realmente antagonista al regime di Stalin si muovesse nel socialismo europeo e statuni- tense tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. 136 Nel frattempo, «La Russie opprimée» dette notizia del Memorandum preparato dal Birming- ham Bureau of Research on Russian Economic Development, che descrisse con puntualità le diverse categorie di condanne al lavoro forzato impiegate in URSS: punizione amministrativa e giudiziaria, servizio o corvée e infine co- strizione indiretta. Il Memorandum concluse che il lavoro forzato – diretto, nascosto o indiretto che fosse – non costituiva soltanto una misura repres- siva, rappresentando invece un tassello della politica industriale staliniana. 137 «La Russie opprimée» dette notizia del bollettino di informazione che i men- scevichi pubblicavano a Berlino, nel quale era sostenuta la necessità di una condanna decisa del lavoro forzato sovietico: «il lavoro forzato in Unione sovietica non può e non deve essere passato sotto silenzio». 138 Ripercorrendo il dibattito e le iniziative internazionali per gli anni 1929-1932, risulta evidente che le aspirazioni politiche più radicali non vennero raggiunte. È vero che la fine del governo laburista mise un freno alle simpatie sovietiche della sinistra britannica, e che una legislazione da- ziaria per contrastare il dumping sovietico entrò in vigore in molti paesi. Tuttavia, il programma massimo della AFL di inasprire i controlli fino a chiudere di fatto le relazioni con l’URSS non si realizzò. Interessi con- solidati riuscirono in definitiva a svuotare la stessa clausola 307 e, quan- do Roosevelt giunse al potere, non soltanto le relazioni economiche tra i due paesi si intensificarono, ma si giunse rapidamente al riconoscimento 136. Kautsky conservò cosa si andava pubblicando dalla fine degli anni Venti in Ger- mania. Soprattutto copie del «Vorwärts!» e di «Arbeiter Zeitung». «Der Sozialdemokrat» attaccò il 13 ottobre 1929 il «comunismo fascista». Accanto alla stampa tedesca, trovò posto nell’archivio di Kautsky quella internazionale. Si trovano numeri di «The Nation», di «Le Populaire», di «Bataille socialiste» e di «La vie socialiste». Kautsky lesse inoltre la do- cumentazione ufficiale sovietica, e ciò che proveniva da Ginevra. Ad esempio, il bollettino dell’ILO «Informations sociales». Tutta questa documentazione è conservata in Interna- tional Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky Papers, H_40_II Ökonomie. Artikel aus den Jahren 1925-1932. 27 St e H.40_V Allgemeines (u.a. Reisebeschreibungen). Artikel aus den Jahren 1925-1933. 24 St. 137. Le travail-forcé existe-il en URSS?, I, in «La Russie opprimée», 6 maggio 1931, p. 3. 138. Le travail-forcé existe-il en URSS?, II, ivi, 2 giugno 1931, p. 3.
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diplomatico dello stato sovietico. In definitiva, il proposito di collegare stabilmente moralità, potere e diritto sul terreno della mobilitazione antiso- vietica fallì. I protagonisti della prima si collegarono ai rappresentanti dei governi (quello americano in primis) in modo non continuativo, mentre i rappresentanti del diritto internazionale, in particolare i vertici dell’ILO di- retto da Albert Thomas, sostanzialmente si disinteressarono del problema, non nascondendo anzi una certa simpatia verso il regime sovietico. Tuttavia, a fronte di questo fallimento politico corrispose un successo sul terreno culturale, certamente meno visibile, ma destinato ad avere in futuro un ruolo di primo piano. Grazie all’impegno di gruppi, giornali e or- ganizzazioni varie l’immagine dello stato sovietico come incarnazione del progresso sociale non venne universalmente accettata dall’opinione pub- blica di sinistra. Rendendo note testimonianze di prima mano, venne infatti contestato l’assunto di fondo della fascinazione sovietica, ossia che la ri- voluzione dall’alto di Stalin fosse sostanzialmente estranea all’ideologia e rispondesse invece a un progetto condiviso con paesi che avevano adottato il modello del mercato, ma che adesso dovevano decidersi a dare maggior spazio alla mano pubblica. Come sapevano bene i gruppi critici del regi- me sovietico, l’ideologia invece contava, stella polare di un governo che aveva deciso di forzare i processi sociali attraverso l’uso della violenza, non rivolgendola più contro i propri nemici politici, oramai schiacciati, ma contro larghe masse soprattutto rurali. Questi critici abbozzarono una sorta di contro-ideologia, affermando che le decisioni prese dal gruppo dirigente staliniano non erano un diverso modo di avvicinare all’Occidente i territori appartenuti allo zar, ma l’innesco di una regressione sociale spaventosa che stava allontanando quei territori dalla destinazione presunta, fino a ri- cacciarli verso una forma sociale nel suo complesso molto più arretrata. Era un rovesciamento suggerito dai fatti, e certamente molto più aderen- te alla realtà di quanto non fosse il canto corale dei simpatizzanti dell’URSS. Eppure, lo si è visto soprattutto nel caso della AFL, i riferimenti al «feuda- lesimo», alla «servitù» e alla «schiavitù» rispondevano a complesse ragioni politiche, spesso di carattere interno. Il disegno di un mondo dicotomico (progresso/regresso, lavoro libero/lavoro schiavo) coglieva in definitiva un aspetto della realtà, rischiando tuttavia di perderne di vista un altro, ossia l’effettiva spinta del regime sovietico verso la modernità: quei contadini-ser - vi e quei prigionieri-schiavi erano diventati tali come prodotto della logica di uno stato totale, deciso a consolidarsi a tutti i costi. Che esso avesse recupe- rato forme di organizzazione sociale che ricordavano il passato, era un fatto
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indiscutibile, Ma era altrettanto indiscutibile che quelle forme arcaiche erano state plasmate da un soggetto politico-istituzionale radicalmente nuovo. 4. Gli imbarazzi antifascisti e la carestia come ultimo grande racconto prima del silenzio internazionale I risultati raggiunti all’inizio degli anni Trenta sul piano informativo non poterono consolidarsi nel periodo immediatamente successivo, cioè nel 1932-1933. Questo periodo vide l’acutizzarsi in URSS dello scontro sociale e politico attorno alle politiche di Stalin, la statizzazione dell’agri- coltura e l’industrializzazione a tappe forzate. Il dittatore riuscì a prevalere, arrestando nel settembre 1932 il gruppo stretto attorno a Rjutin, critico aperto della collettivizzazione e dei suoi metodi. 139 La repressione interna ebbe come corrispettivo il rafforzamento del controllo sulle informazioni circa arresti, deportazioni e lavoro forzato nei campi. Soprattutto, Stalin trasformò la «rivoluzione dall’alto» intrapresa nel 1929 in una lotta all’ul- timo sangue, di cui la distruzione di milioni di vite attraverso la fame in Ucraina, nel Caucaso settentrionale, nella regione del Volga e in Asia cen- trale, costituì l’eredità più terribile. Per distruggere la resistenza alle sue politiche, egli dette infatti vita a un «comunismo genocidario» che intese distruggere alla radice ogni forma di dissenso. 140 Della carestia circolarono subito notizie in Europa e negli Stati Uniti. A giudicare dalla reazione dei governi occidentali, però quelle notizie furono piuttosto inutili, dando la misura della forza politico-diplomatica e ideologica raggiunta dallo stato sovietico nel contesto caratterizzato dall’aggressività giapponese e, a par- tire dal 1933, da quella tedesca. Iniziamo dal silenzio sceso sui campi. Preoccupato che i racconti dei prigionieri potessero mettere a repentaglio le relazioni commerciali con l’Occidente, il potere sovietico mise a punto in tempi rapidissimi un mi- glioramento degli apparati di controllo delle informazioni con l’obiettivo di negare le accuse internazionali circa l’impiego del lavoro forzato nel settore del legname. Questa strategia prese corpo in realtà già nei primi mesi del 1931. Il 5 marzo uscì sulla «Pravda» un articolo nel quale Gor’kij denunciò la «disgustosa calunnia» orchestrata dai sindacati dei paesi capi- 139. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 440-444. 140. Ivi, pp. 470 sgg.
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talisti. L’11 tutta la stampa sovietica pubblicò il discorso che Molotov, pre- sidente del Consiglio dei commissari del popolo, aveva tenuto poco prima al Congresso pan-sovietico. Vi si leggeva che «all’ammasso di legname di cui tanto scrivono all’estero da noi in questa stagione sono impiegati 1134000 uomini, i quali lavorano tutti in normali condizioni di libertà, e il lavoro dei detenuti non ha alcun rapporto con l’industria forestale». 141 Sappiamo dalla memorialistica che la disponibilità mostrata da Molotov in quest’occasione ad accogliere la visita di delegazioni occidentali nei territori incriminati fu in realtà una carta truccata. George Kitchin, uomo d’affari finlandese finito dal 1929 nei campi della OGPU e liberato nel 1932, raccontò qualche anno dopo che, subito dopo il discorso del capo del governo sovietico, i responsabili dei campi ricevettero l’ordine di arrestare i lavori entro ventiquattr’ore, radunare i prigionieri nei centri di evacuazio- ne e far sparire i segni esterni dei campi come il filo spinato e le torrette di guardia. Agli ufficiali dovevano essere forniti abiti civili e alle guardie tolte le armi. L’evacuazione, pur costando sofferenze e vite umane, fu un successo, nella misura in cui gli amici occidentali del comunismo, recatisi in loco, poterono convincersi che il lavoro forzato costituiva un’invenzio- ne anticomunista. 142 Al di là di queste misure, la questione dovette davvero preoccupare i vertici dello stato sovietico. Sembra infatti che l’impiego di una parte dei detenuti nelle operazioni più visibili cessasse veramente. Il 27 gennaio 1932 il Consiglio dei commissari del popolo deliberò l’inte- grazione dei codici del lavoro correzionale delle singole repubbliche, sta- bilendo che i detenuti e le persone condannate «ai lavori obbligatori senza reclusione sotto sorveglianza» non dovevano essere più impiegate in «at- tività legate all’estrazione, preparazione, conservazione, carico, scarico e 141. Chlevnjuk, Storia del gulag, p. 35. 142. Questo testimone oculare dei fatti scrisse: «Molotov non mentì. In quel momento l’evacuazione continuava e lo sfruttamento del lavoro penale nelle falegnamerie più vicine alla linea ferroviaria era cessato. Fu molto attento nella sua fraseologia. Non menzionò mai una volta che il lavoro nelle basi di legname dei campi penali era cessato solo una settimana prima». E l’operazione, concluse Kitchin, funzionò: «Diversi corrispondenti stranieri si sono recati nella regione di Arcangelo, dove sono stati mostrati loro gli edifici del campo adornati con le nuove insegne che li designavano come «scuole», «club» ecc. I corrispondenti hanno constatato che tutte le notizie sul lavoro dei detenuti in Unione sovietica erano false. Nei loro articoli di giornale affermarono che i campi penali non esistevano nemmeno e che nessun prigioniero lavorava nelle foreste. L’inganno era completo». George Kitchin, Prisoner of the OGPU, London-New York-Toronto, Longman, Green and Co., 1935, p. 271.
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trasporto di merci (materie prime, semilavorati e prodotti finiti) totalmente o in parte destinati all’esportazione». 143 A queste misure, realizzate per far fronte alle accuse internazionali, ne seguirono altre di tipo più strutturale, volte a rendere invalicabili le barriere che separavano l’URSS dall’Occidente. La fuga dei lavoratori forzati dal porto di Arcangelo, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, non si ripeté e le comunicazioni attraverso la frontiera con la Finlandia, mante- nute in vita grazie ad alcune famiglie contadine, furono di fatto interrotte. Fu sempre più difficile per i menscevichi della «Socialističeskij Vestnik» entrare in possesso delle informazioni che qualcuno a Mosca raccoglieva per loro. Per le stesse ragioni, il periodico entrò con maggiori difficoltà in Unione sovietica. Le conseguenze di questa situazione si percepirono fino a Parigi, dove nel 1933 «La Russie opprimée» chiuse i battenti. La decisione fu il risultato di una diffusa difficoltà ad entrare in possesso di notizie di prima mano. Senza dubbio nel 1932-1933 era giunta a matu- razione quell’ossessione per la sicurezza, caratteristica della personalità di Stalin e fatta propria dal gruppo dirigente stretto attorno a lui, che gli storici hanno registrato già nel passaggio dagli anni Venti agli anni Trenta. I contatti con gli stranieri, gestiti da apparati preposti (Voks e Intourist), divennero nel corso del decennio sempre più regolati, facendo in modo da impedire relazioni personali tra sovietici e stranieri. 144 Correttamente è stato scritto che gli anni Trenta furono gli anni del trionfo degli «architetti sovietici dello show culturale», con i loro straordinari «villaggi Potemkin» che ingannarono così tanti visitatori occidentali sulla reale condizione del- la società e dell’economia sovietica. David-Fox ha concluso a ragion vedu- ta che «nessuna racconto di stranieri dentro l’Unione sovietica può essere completo senza considerare i diversi ruoli giocati dagli organi di sicurezza dello stato». 145 Paradossalmente, Antonio Gramsci, rinchiuso nelle prigioni fasciste, comprese del regime di Stalin molto di più dei molti pellegrini politici progressisti, diretti verso la Mecca sovietica. In alcune note dei Quaderni dal carcere risalenti al 1933, Gramsci tornò a scrivere dei metodi staliniani, esprimendosi contro la militarizzazione delle relazioni sociali e 143. Chlevnjuk, Storia del gulag, pp. 35-36. 144. David-Fox, Showcasing the Great Experiment, p. 121. Si veda anche Jean François Fayet, VOKS. Le laboratoire helvétique. Histoire de la diplomatie Culturelle so- viétique dans l’entre deux-guerres, Chêne-Bourg, Georg Editeur, 2014. 145. David-Fox, Showcasing the Great Experiment, p. 57.
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l’onnipotenza dello stato. In oggetto era la brutale rottura dei compromessi sociali della NEP che impediva allo stato sovietico, incarnazione di una violenza cieca, di costruire una consolidata egemonia sui ceti popolari, in particolare quelli rurali. 146 Tra chiusura degli spazi comunicativi e allestimento di finte facciate, la grande crescita del gulag tra 1932 e 1933 rimase in ombra. Si passò dai 212.000 detenuti all’inizio del 1931 ai 334.000 del primo gennaio 1933 fino ai 456.000 quattro mesi più tardi, all’inizio di aprile. 147 Essa fu in larga parte dovuta a un inasprimento sul terreno normativo, incarnato soprattut- to dalla legge «draconiana» del 7 agosto 1932 sulla tutela della proprie- tà socialista. Arrivati a questa data la situazione nei campi era diventata drammatica. Con la circolare n. 661437 del 14 aprile, Matvej Davydovič Berman, giunto al vertice del sistema del gulag, si rivolse a tutti i «capi dei campi» affinché si sforzassero di «stabilire e categorizzare la capacità di lavoro» dei nuovi deportati, in considerazione delle condizioni di «estrema debolezza e dimagrimento» nelle quali essi versavano dopo mesi di prigio- ne e settimane di deportazione. La necessità di individuare diverse catego- rie faceva parte di quelle «disposizioni eccezionali che riflettono la nostra volontà di sfruttare il più completamente e il più razionalmente possibile la mano d’opera penale a nostra disposizione». 148 Fece eco a queste conside- razioni il rapporto inviato il 26 aprile 1933 da Genrich Grigor’evič Jagoda, capo aggiunto dell’OGPU, a Stalin in persona. In questo rapporto era de- nunciato il fatto che l’aumento della popolazione dei campi (spesso gente in scarsa salute e non in grado di lavorare) abbassava grandemente il livello di produttività. Jagoda accusò i responsabili delle sezioni economiche dei campi, dimostratisi incapaci di organizzare la produzione: «In generale, gli obiettivi della produzione non si realizzano a livello delle brigate, che non sono state istruite sul da farsi e non hanno obiettivi precisi. Si deve notare 146. Silvio Pons, Gramsci e la rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935), in «Studi storici», 58 (ottobre-dicembre 2017), pp. 883-928. È noto che le critiche di Gramsci erano iniziate molto prima, nel contesto della lotta per il potere ai vertici del re- gime sovietico: una celebre lettera, scritta di suo pugno nel 1926 e indirizzata al Comitato centrale del Pcus, fu ritenuta da Palmiro Togliatti inopportuna e pertanto non fu consegnata ai destinatari. Si veda il volume Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, con un saggio di Giuseppe Vacca, Torino, Einaudi, 1999, pp. 402-412. 147. Luba Jurgerson e Nicolas Werth, Introduction, in Goulag, p. 47. 148. Circulaire n. 661437 de M. Berman, chef du GOULAG, in Goulag, pp. 252-253.
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anche la mancanza di attenzione per le condizioni di vita, di alimentazione, abbigliamento dei detenuti». A dispetto delle regole, «da due mesi e mezzo nessun detenuto ha mangiato carne». L’equipaggiamento da lavoro venne descritto come insufficiente e così anche l’equipaggiamento sanitario. 149 Di tutto questo si seppe ogni giorno sempre meno. Basti pensare a Trockij, da tempo espulso dall’URSS. Per quasi tutto il periodo trascorso sull’isola di Prinkipo vicino a Instanbul, cioè tra il marzo 1929 e il lu- glio del 1933, egli ricevette un numero considerevole di lettere, articoli e dichiarazioni provenienti dall’interno dell’URSS che egli pubblicò sul «Bjulleten’ oppozicii». Tuttavia, il flusso della corrispondenza prese lenta- mente a diradarsi fino a interrompersi attorno al 1933 come conseguenza della disarticolazione dei gruppi fino ad allora sopravvissuti in qualche modo alla repressione staliniana. 150 Trockij non perse occasione di con- dannare «arresti, deportazioni, esecuzioni» come espressione della «guerra civile» scatenata dalla burocrazia staliniana contro i suoi nemici di sini- stra. 151 Ma il problema di mantenere un contatto con la realtà sovietica si fece piuttosto serio man mano che i rapporti epistolari si ridussero a un esiguo rivolo. Non va dimenticato che la rete informativa che Lev Sedov aveva costruito pazientemente a Berlino andò in pezzi nel momento in cui, con l’ascesa di Hitler al potere, egli dovette lasciare la città tedesca. 152 Un biografo di Trockij ha scritto che egli stava diventando «disperato» nella ricerca di rapporti e saggi da pubblicare. D’altra parte il movimento internazionale che egli stava costruendo era composto prevalentemente da militanti europei e americani, completamente estranei alla realtà sovietica. 149. Rapport du chef-adjoint de l’OGPU, Guenrikh Iagoda, a J. V. Staline sur le bilan de l’activité économique des camps di goulag pour l’année 1932 et le premier trimestre 1933 (extraits), in Goulag, pp. 749-753. 150. Isaac Deutscher commentò a suo tempo come segue: «Questa corrispondenza, conservata nei suoi archivi, portò a Prinkipo il soffio dei venti siberiani e subpolari, l’odore delle galere, l’eco di battaglie selvagge, le grida di uomini condannati e disperati, ma anche alcuni pensieri lucidi e speranze intatte. Finché gli giungeva, sentiva il pulsare della realtà sovietica. A poco a poco, però, la corrispondenza si ridusse a un filo di voce e, prima ancora di lasciare Prinkipo, cessò del tutto». Isaac Deutscher, The Prophet Outcast. Trotsky: 1929- 1940, London-New York, Oxford University Press, 1963, p. 225. 151. Lev Trockij, It is Impossibile to Remain in the Same International with Stalin, Manuilsky, Lozovosky and Company, in «Internal Bulletin», Communist League of Ameri- ca, 13 (1933), adesso in Writings of Leon Trotsky [1933-1934], a cura di George Breitman e Sarah Lovell, New York, Pathfinder Press, 1975, p. 20. 152. Broué, Les trotskystes en Union sovietique, p. 50.
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Trockij era capace di leggere tra le righe della «Pravda», e di sfruttare al massimo le informazioni che bene o male la «Socialističeskij Vestnik» continuava a fornire, ma, al di là dell’acume del vecchio rivoluzionario, resta l’impressione che egli fosse sempre più scollegato dalla realtà sociale del regime. 153 Questa assenza di comunicazione riguardò peraltro tutta la sinistra occidentale; un’assenza interrotta soltanto da sporadiche notizie che in qualche modo riuscirono a passare il confine sovietico. Fu il caso della lettera che Victor Serge indirizzò nel febbraio 1933 ai suoi amici parigini. Rivoluzionario di origine russa, era nato a Bruxelles da una famiglia di emigrati per ragioni politiche. Dopo una precoce militan- za nel movimento anarchico, subì fortemente il fascino della Rivoluzione d’ottobre, trasferendosi in Russia per collaborare alla costruzione del so- cialismo. Quando venne il momento, però aderì alla resistenza contro lo strapotere di Stalin, partecipando alle attività dell’opposizione di sinistra, la quale tuttavia, dopo l’esilio di Trockij, fu fatta a pezzi dall’apparato poliziesco del regime. 154 Iniziò così per lui, come per tanti altri, la vicenda della solitudine contro «la schiacciante e incessante pressione di un regime totalitario» 155 , come ebbe a scrivere nella lettera summenzionata. Il regime vi era definito come «stato totalitario […] assoluto, ebbro della sua po- tenza», impegnato a schiacciare i singoli, ricattandoli «attraverso il pane, l’affitto, il lavoro», e dunque costringendoli a mettersi «a disposizione as- soluta della macchina». 156 «La Révolution prolétarienne» dette notizia nel maggio successivo del suo arresto da parte della polizia politica sovietica, la quale dopo breve tempo lo deportò a Orenburg sul fiume Ural. 157 Prese forma immediatamente a Parigi un comitato Victor Serge, fondato da Mag- deleine Paz e Jacques Mesnil. 153. Service, Trotsky, p. 416. 154. Sugli anni disperati della piena stalinizzazione (1928-1933), si veda Susan Weissman, Victor Serge. A Political Biography, London-New York, Verso, 2013, pp. 156- 196. 155. Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario 1901-1941, Roma, Edizioni e/o, 1999 (I ed. 1951), p. 272. 156. Ivi, p. 315 157. Pourquoi Victor Serge a été arreté, in «La Révolution proletarienne», 152, 25 maggio 1933. In questo numero fu pubblicata anche La profession de foi de Victor Serge, un testo inviato agli amici francesi da Leningrado qualche settimana prima dell’arresto, nel quale Serge stabilì i principi cardini di un socialismo dal volto umano: «difesa dell’uomo», «difesa della verità» e «difesa del pensiero», ivi, p. 193. Sul periodo di Orenburg, si veda Weissman, Victor Serge, pp. 197-210.
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Certamente, al di là di Trockij e delle iniziative ad personam della sinistra antistalinista a Parigi, non mancarono in questo periodo voci che cercarono di trarre profitto dal lavoro d’inchiesta svolto negli anni prece- denti sul ciclo delle repressioni sovietiche (arresti, deportazioni e lavoro forzato). Nel 1933, l’editore britannico David Geoffrey Bles pubblicò al- cune lettere provenienti dai campi sovietici del legname, con il titolo Out of the Deep. 158 La «Slavonic and East European Review», nata dall’impe- gno di Bernard Pares e Robert William Seton-Watson nel 1922, fu una di queste voci. Pares, il quale aveva risieduto a Pietrogrado durante la guerra, divenne in seguito un importante studioso, dando alle stampe nel 1926 una storia della Russia. 159 Nell’aprile 1933, denunciò la «nuova crisi» sovieti- ca, verificatasi negli anni appena trascorsi, impiegando queste parole: «una popolazione di circa cinque milioni di contadini prosperi fu destinata allo sterminio, e questa parte del programma in un modo o nell’altro è stata realizzata». 160 Con grande puntualità, Pares denunciò il rischio di «una mi- naccia urgente di una nuova grande carestia» che giungeva come punto di approdo delle politiche del regime. Queste furono ricostruite attraverso la menzione dei principali decreti, a partire da quello, sopra ricordato, sulla difesa dell’integrità della proprietà socialista. Convinto che questi meto- di avessero in una qualche misura ricostituito le condizioni della servitù della gleba, Pares concluse che «le ragioni più importanti per cui la servi- tù era stata abolita non erano umanitarie, ma economiche; la servitù non pagava». 161 In questo giudizio, era implicita l’idea che il regime stalinista costituisse un arretramento civile rispetto ad alcune, sia pur limitate, rifor- me di epoca zarista. Pares intuì un nesso tra statalizzazione dell’agricoltura e carestia. Ben presto, in effetti si dovette fare i conti con il fatto che, provocata da politiche sbagliate, la fame divenne uno strumento barbarico per ridurre all’obbedien- za i contadini recalcitranti. La morte per fame di milioni di persone fu in definitiva il punto di approdo della lotta all’ultimo sangue di Stalin, il quale 158. Out of the Deep. Letters from Soviet Timber Camps, London, Geoffrey Bles, 1933. 159. Su Bernard Pares, vedi i ritratti dello stesso Robert William Seton-Watson, «Ber- nard Pares» in «The Slavonic and East European Review», 70 (1949), pp. 28-31 e Michael Karpovich, Sir Bernard Pares, in «The Russian Review», 3 (1949), pp. 183-185. 160. Bernard Pares, The New Crisis in Russia, in «The Slavonic and East European Review», 33 (1933), pp. 493-494. 161. Ivi, p. 501.
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riuscì ad annientare ogni forma di opposizione, rendendo definitiva la co- struzione dello stato sovietico attorno ai pilastri dell’agricoltura statizzata e della grande industria moderna. Il collegamento della carestia, i cui segnali furono già evidenti nel 1932, con il ciclo di esazioni predatorie da parte del regime, di rivolte sociali e di repressioni brutali, è fuori discussione da un punto di vista storiografico. Resta il fatto che Stalin a un certo punto decise di utilizzare la carestia per dare una lezione definitiva ai contadini, i quali non si rassegnavano alla reintroduzione della servitù sotto forma dell’economia collettiva. 162 Essa riguardò decine di milioni di persone e sei ne morirono. I luoghi dell’ecatombe furono il Kazachstan, il Caucaso settentrionale, la regione del Volga, il Kuban’ e soprattutto l’Ucraina. Qui Stalin aggravò intenzionalmente la situazione per distruggere il movimento nazionalista e spezzare pertanto ogni opposizione alla formazione del suo stato impe- riale, autoritario e centralizzato. 163 La carestia investì naturalmente anche i campi, come ci mostrano i documenti ufficiali sovietici. Un rapporto del 4 aprile 1933 relativo ai campi della Asia centrale, inviato da una commis- sione a Berman, stabilì che «oltre gli effetti clinici devastanti della pellagra e della malaria su organismi già indeboliti, appare che la forte mortalità dei 162. Cinnella, La Russia di Stalin, p. 466. Dello stesso autore, Ucraina. Il genocidio dimenticato (1932-1933), Pisa, Della Porta, 2015. 163. Werth, The Soviet State and the Peasants, pp. 419-42. Sulla necessità di distin- guere tra carestie «spontanee» e la carestia intenzionalmente provocata dal potere sovie- tico, Andrea Graziosi, Les famines soviétiques de 1931-1933 et le Holomodor ukrainien, in «Cahiers du monde russe», 3 (2005), pp. 453-473. Esiste oramai una vasta letteratura sulla carestia sovietica: Robert Conquest, Harvest of Sorrow. Soviet Collectivization and the Terror-Famine, New York, Oxford University Press, 1986 [trad. it. Raccolto di dolore: collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, Milano, Rizzoli, 2023]; G. Wheatcroft, The Years of Hunger: Soviet Agricolture 1931-1933, New York, Palgrave Macmillan, 2004, e Anne Applebaum, Red Famine. Stalin’s War on Ukraine, New York, Doubleday, 2017, [trad. it. La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina, Milano, Mondadori, 2019]. Graziosi ha di recente scritto che quando Stalin si convinse che l’Ucraina poteva esser persa, «la decisione fu presa di usare la fame per forzare i contadini ad inghiottire la col- lettivizzazione e simultaneamente rovesciare le politiche di indigenizzazione, arrestando migliaia dei suoi quadri e intellettuali e realizzando un alfabeto e un lessico più vicino a quello russo». Andrea Graziosi, Communism, Nations and Nationalism, in Communism, pp. 462-463. Sulla collocazione dell’Holomodor nelle uccisioni di massa degli anni Trenta, Norman Naimark, The Holomodor in the Context of Soviet Mass Killing in the 1930s, in Genocide. The Power and Problems of a Concept, a cura di Andrea Graziosi e Frank E. Sysyn, Montreal-Kingston-London-Chicago, McGill-Queen’s University Press, 2022, pp. 107-125.
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contingenti dei detenuti è stata aggravata dall’incuria dell’amministrazio- ne e dei dipartimenti sanitari dei campi […]». D’altra parte le cifre stilate dagli uffici del Dipartimento sanitario del Gulag per gli anni 1933 e 1934 parlano chiaro a proposito dell’incidenza della carestia sulla mortalità nei campi. 164 Il dato complessivo del 1933 raggiunse il 15,2%, mentre l’an- no successivo – oramai fuori dalle conseguenze più terribili della care- stia – la morte tornò a incidere per un più «modesto» 4,28%. 165 Di fronte a metodi così brutali, il mondo decise di chiudere gli occhi. Nel clima instauratosi a livello internazionale nel 1933, con l’avvento di Hitler al potere, la carestia sovietica finì in secondo piano. A Ginevra se ne discusse una volta, senza che ciò precludesse l’ammissione dell’URSS alla Società delle Nazioni, che infatti avvenne nel settembre 1934, quasi un anno dopo che Hitler l’aveva abbandonata. La decisione di ammettere l’URSS fu presa su iniziativa del governo francese, preoccupato del mili- tarismo tedesco, e dunque incline a coinvolgere il regime di Stalin nella gestione del problema internazionale della pace. Il governo francese si in- camminò lungo la strada che avrebbe portato nel 1935 a un trattato di reci- proca assistenza con l’URSS. Quanto al governo britannico, esso seguì il flusso delle decisioni nonostante i trascorsi recenti non proprio pacifici nei rapporti con l’URSS quali la crisi delle relazioni commerciali nel 1932 e l’affaire Metro-Vickers nel marzo 1933. 166 Il coinvolgimento sovietico nel- la Società delle Nazioni si estese all’ILO, con la conseguenza di non poco conto che il regime di Stalin, dotato di un sistema di campi di concentra- mento in drammatica espansione, venne chiamato a partecipare ai lavori di un’agenzia internazionale che aveva da poco promulgato una convenzione contro il lavoro forzato. Dal canto suo, l’amministrazione Roosevelt non prese in considera- zione né il sistema del lavoro forzato né tantomeno la carestia, allorquando nel novembre 1933 procedette al riconoscimento diplomatico dello stato sovietico. La decisione era connessa naturalmente all’esigenza di incre- 164. Extraits du rapport de la commission du GOULAG au chef du GOULAG, M. D. Berman, sur les résultats de l’inspection menée dans le complexe de camps du Sazlag (Asie centrale), 4 aprile 1933, in Goulag, pp. 584-585. 165. Extraits du rapport du département sanitaire du GOULAG sur la mortalité des détenus dans les camps de travail correctif au cours de l’année 1933, in Goulag, pp. 587-588. 166. Per il caso britannico, The Foreign Office and the Famine. British Documents on Ukraine and the Great Famine of 1932-1933, a cura di Marco Carynnyk, Lubomyr Y. Luciuk e Bohdan S. Kordan, Kingston Ontario-Vestal-New York, Limestone Press 1988.
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mentare il commercio estero in una fase di profonda crisi e disoccupa- zione di massa, ma anche a una determinata lettura della situazione inter- nazionale, caratterizzata prima dall’aggressione giapponese della Cina in Manciuria nel 1931 e adesso dall’avvento al potere di Hitler. È noto che i primi cento giorni di Roosevelt, iniziati il 4 marzo del 1933, coincisero con l’imperversare della fame in Ucraina e in altre regioni sovietiche. E che, per quanto ci si sforzasse di far finta di niente, la carestia non poteva essere negata. Sulla base di recenti ricerche è emerso infatti che nel corso della prima metà del 1933, il presidente e i vertici del Dipartimento di Stato ri- cevettero numerose richieste di aiuto da parte di individui e organizzazioni, ma i funzionari statunitensi le respinsero cortesemente e molto probabil- mente Roosevelt non vide mai questa corrispondenza. 167 Gli altri governi non furono da meno. Sergio Gradenigo, console italiano a Char’kov, inviò a Roma lettere che documentarono la carestia, illustrandone il significato politico, ma Mussolini non parlò mai pubblicamente di questi argomenti. Il 2 settembre 1933 l’Italia fascista stipulò un patto di amicizia e non ag- gressione con l’URSS. 168 Anche diplomatici polacchi e tedeschi avevano compreso bene cosa stava succedendo, ma i loro governi comunque non agirono. Il governo polacco aveva stipulato nel luglio 1932 un patto di non aggressione con l’URSS. La sostituzione della realtà osservata con il silen- zio o la menzogna deliberata, funzionale alla promozione degli interessi strategici e commerciali del proprio stato, fu la cifra della celebre visita in URSS di Édouard Herriot, il quale vide nell’Ucraina devastata dalla care- stia «un giardino in piena fioritura». 169 Diversamente dall’ombra lunga calata sui campi e sui villaggi specia- li, dei quali effettivamente si ebbero ogni giorno sempre meno informa- zioni, la carestia fu sotto gli occhi di tutti dal suo primo manifestarsi. Già dal 1932 si sapeva che le condizioni delle campagne sovietiche stavano rapidamente deteriorando. Il lavoro informativo di esperti agrari (Andrew Cairns dell’Empire Marketing Board e Otto Schiller, attaché all’ambascia- ta tedesca a Mosca), professori universitari (Bruce Hopper di Harvard e Samuel N. Harper dell’Università di Chicago) e giornalisti (Jules Menken, 167. Ray Gamache, Contextualizing FDR’s Campaign to Recognize the Soviet Union, 1932-1933, in «Harvard Ukrainian Studies», 3-4 (2020), pp. 287-322. 168. Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso del nord nei rapporti diplomatici 1923-1933, a cura di Andrea Graziosi, Torino, Einaudi, 1991. 169. Del viaggio di Édouard Herriot è stato scritto molto. Vedi Furet, Le passé d’une illusion, pp. 178-179 e soprattutto Coeuré, La Grand Lueur à l’Est, pp. 171-183.
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reporter per l’«Economist») ebbe una vasta circolazione nelle sfere go- vernative britanniche e statunitensi. 170 Un importante lavoro informativo fu svolto naturalmente dalle associazioni ucraine in Europa, negli Stati Uniti e in Canada. Manifestazioni di massa furono organizzate soprattut- to in Polonia, dove giungevano continuamente notizie, portate da quanti riuscivano a passare la frontiera e mettersi in salvo dalla fame. In Cana- da, l’Ukrainian National Council organizzò proteste già nel maggio 1933 a Winnipeg, inviando a Roosevelt un dossier corredato di testimonianze oculari circa la carestia. Il 28 ottobre, il «New York Times» dette notizia del tentativo realizzato da una delegazione di organizzazioni ucraine (af- filiate alla Ukrainian National Association) di presentare a Roosevelt in persona una richiesta per un’«investigazione imparziale» sulla situazione in Ucraina prima che il governo procedesse al riconoscimento dello stato sovietico. La delegazione ribadì che la carestia non era stata provocata da siccità, cattivi raccolti o altri fattori climatici, ma doveva essere compresa a partire dal «conflitto politico e culturale tra le aspirazioni nazionalistiche ucraine e il disegno centralizzatore e imperialistico di Mosca», perseguito da quest’ultima con una feroce e incessante repressione. 171 Il nesso tra repressione e carestia fu sostanzialmente negato da una serie di intellettuali e giornalisti statunitensi amici del regime di Stalin, da Louis Fischer ad Anne Louise Strong fino a Walter Duranty. Quest’ultimo certificò sulle pagine del «New York Times» che «i russi sono affamati, ma non muoiono di fame». 172 Un sofisma di questo tipo va letto nel conte- sto della decisione presa dalle autorità sovietiche di impedire agli stranieri presenti in URSS di ficcare il naso dentro gli affari interni del paese, a partire dalla situazione in Ucraina, dove i segnali della carestia si stavano intensificando giorno dopo giorno. Dall’inizio del 1933, i corrispondenti stranieri dovettero chiedere un permesso formale per uscire da Mosca e stilare un itinerario dettagliato prima di intraprendere un viaggio attraver- so l’Unione sovietica. Tutte le richieste di visitare l’Ucraina e il Nord del Caucaso furono rifiutate. La censura intervenne pesantemente sugli stessi dispacci che venivano inviati all’estero: l’espressione «carestia» non era 170. Gamache, Contextualizing FDR’s Campaign, pp. 297-298. 171. Ivi, p. 315. 172. Walter Duranty, Russian Hungry, but not Starving, in «New York Times», 31 marzo 1931, p. 13. In generale, sul negazionismo da parte di politici, intellettuali e giorna- listi occidentali, nel clima dell’ascesa e del consolidamento di Hitler al potere in Germania, vedi ancora Applebaum, Red Famine.
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infatti ammessa. 173 Duranty a un certo punto ricevette una visita di agenti della sicurezza, che lo impaurì molto e che probabilmente ammorbidì ul- teriormente la sua penna. Non tutti reagirono alle avversità come Duranty e anzi alcuni si adoperarono per scoprire la verità. Mi riferisco innanzi tutto a quei giornalisti indipendenti, i quali, eludendo i controlli di polizia, riuscirono a recarsi in prossimità dei luoghi dell’universo concentraziona- rio sovietico e della carestia. Ancora prima che si verificasse la stretta summenzionata, le diffi- coltà di muoversi fuori dai percorsi stabiliti dalle autorità erano ecce- zionali. Rhea Clyman, giornalista canadese di origini polacche, viaggiò nel 1932 verso i luoghi dell’universo concentrazionario sovietico, da Kem’ in Carelia fino ad Arcangelo, raggiungendo questi posti in modo fortunoso e superando notevoli difficoltà a ogni posto di blocco. 174 I suoi racconti sui contadini locali collettivizzati, sui kulaki deportati da altre parti dell’URSS in queste zone remote e sui prigionieri ridotti ai lavora- tori forzati, apparvero sul «Toronto Evening Telegram» nel settembre- ottobre 1932 e su altre testate. 175 Tornata a Mosca, decise di avventurarsi 173. Sul controllo strettissimo esercitato dalle autorità sui corrispondenti stranieri, vedi William Henry Chamberlin, Soviet Taboos, in «Foreign Affairs», 3 (1935), p. 433. Sul- la negazione della carestia da parte delle autorità lo stesso Chamberlin scrisse: «Sul posto la realtà della carestia non poteva essere messa in discussione. Ma a Mosca si continuava a fingere che non ci fosse mai stata, a beneficio dei turisti stranieri creduloni. Un funzionario del Commissariato per la Sanità, al quale rivolsi una domanda sul numero di morti per ca- restia, probabilmente prendendomi per un visitatore appena arrivato, rispose blandamente: «Una domanda del genere non può che suscitare un sorriso. Non ci sono stati affatto morti per fame»». Ivi, p. 435. 174. Jars Balan, Rhea Clyman: A Forgotten Canadian Eyewitness to the Hunger of 1932, in Women and the Holomodor-Genocide: Victims, Survivors, Perpetrators, a cura di Victoria Malko, Fresno, The Press at California State University, 2019. 175. La giornalista pubblicò una lettera di accusa, rivolta al «compagno» Jagoda sul «Daily Express» il 15 novembre 1932, e riprodotta in francese su «La Survivance» del 28 dicembre seguente nella quale disse verità che molti altri stranieri a Mosca facevano finta di non conoscere: «Lei è la persona più informata su quanto sta accadendo in URSS, ed è stato lei a firmare l’ordine di espulsione. Ho vissuto in Russia per quattro anni e parlo correntemente il russo. Sapevo troppo della Russia di oggi. Non può negare che più di 200.000 prigionieri sono sotto i suoi ordini, per lo più sacerdoti, ingegneri, avvocati e altri rappresentanti della vecchia classe intellettuale, che sono sottoposti ai lavori più duri: la costruzione del canale di Belomorsk e l’abbattimento di alberi nelle fortificazioni carelia- ne. Questi prigionieri non ricevono alcuna paga e, per di più, l’amministrazione li deruba delle tessere alimentari e del tabacco che viene loro consegnato». Rhea Clyman, I accuse the OGPU! An Open Letter to Comrade Yogoda, in «Daily Express», 15 novembre 1932.
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in un nuovo viaggio assieme a due donne statunitensi, in un contesto diverso, quello dell’Ucraina orientale, delle montagne del Caucaso e del- la Georgia. Era il contesto dove infuriava la carestia, che ella descrisse in alcuni appassionati articoli, pubblicandoli ancora sul «Toronto Eve- ning Telegram». Guidando verso sud, le tre donne attraversarono vil- laggi semi abbandonati e in preda alla disperazione a causa della fame. Clyman comprese che quei villaggi, oramai condannati, erano gli stessi da cui provenivano i contadini che aveva incontrato come deportati al nord, dove erano stati trasformati in minatori e tagliatori di alberi. Giunta a Tbilisi, Clyman fu bloccata dalla polizia politica sovietica e espulsa dall’URSS in modo definitivo. 176 La vicenda di Malcom Muggeridge, chiamato alla fine del 1932 a so- stituire Chamberlin in qualità di corrispondente del «Manchester Guar- dian», è forse più nota. 177 Le sue iniziali simpatie verso il regime di Stalin si dissolsero presto, allorquando alla fine di gennaio 1933, intraprese un viaggio in Ucraina e nel Caucaso del Nord, dove poté osservare con i pro- pri occhi le condizioni in cui versavano le campagne sovietiche, divenute oggetto di una sistema di estorsione manu militari talmente radicale da produrre una situazione di fame generalizzata. Così descrisse la situazione di una piccola città del Caucaso settentrionale: È impossibile descrivere adeguatamente l’atmosfera malinconica di questa piccola città-mercato; quanto fosse abbandonata; lo stesso senso di dispe- razione che pervadeva il luogo e questo non solo a causa della carestia, ma perché la popolazione era, per così dire, strappata dalle sue radici. La guerra di classe è stata condotta con vigore nel Caucaso settentrionale e il proletaria- to, rappresentato […] dalla G.P.U. (Polizia Politica di Stato) e dall’esercito, ha sconfitto e sbaragliato completamente i suoi nemici, rinvenendoli tra i contadini che hanno cercato di nascondere un po’ di cibo per sfamarsi durante l’inverno. Nonostante gli elementi ostili, tuttavia, il Caucaso settentrionale si è distinto per essere collettivizzato al 90% e poi, quest’anno, per aver rispet- tato il piano di consegna del grano. 178
176. Jars Balan, Rhea Clyman. 177. Esiste su di lui una biografia molto documentata, Richard Ingrams, Mugger- idge – The Biography, New York, Harper Collins, 1995. 178. Malcom Muggeridge, The Soviet and the Peasantry An Observer’s Notes, I. Fa- mine in North Caucasus. Whole Villages Exiled, in «The Manchester Guardian», 25 marzo 1933, pp. 13-14.
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Questo triste ritratto fu esteso all’Ucraina, della cui situazione si occupò negli articoli pubblicati nei giorni seguenti per il «Manchester Guardian». Lo spettro della fame generalizzata si poteva toccare con mano. Scrisse il 27 marzo che «la storia è sempre la stessa: bestiame e cavalli morti, campi trascurati, raccolto scarso nonostante le condizio- ni climatiche moderatamente buone, tutto il grano prodotto preso dal governo». 179 Nello stesso periodo, il giornalista gallese Gareth Jones tenne una conferenza stampa a Berlino sotto gli auspici di Paul Scheffer, il qua- le – si ricorderà – era stato espulso dall’URSS nel 1929. Jones era un giovane brillante che aveva compiuto i suoi studi a Cambridge e in se- guito aveva lavorato per David Lloyd George. Viaggiò in URSS ripetuta- mente a partire dal 1930. 180 Nell’ottobre 1931 pubblicò su «The Times» una serie di articoli nei quali raffigurava le città sovietiche come «oasi isolate» nel vasto mare delle campagne contro le quali il regime aveva iniziato una guerra per il monopolio delle risorse alimentari. 181 Le duris- sime denunce che egli fece nel corso della conferenza stampa berlinese del 1933 erano dunque radicate in un discorso già strutturato. Questo fu il racconto della sua recente esplorazione nelle campagne attorno a Kiev, realizzata sfuggendo abilmente ai controlli degli organi di sicurezza mo- scoviti. Affermò quanto segue:
179. Malcom Muggeridge, The Soviet and the Peasantry. An Observer’s Notes, II. Hunger in the Ukraine. Wretched Cultivators, in «Manchester Guardian», 27 marzo 1933, pp. 9-10. 180. Esistono più lavori su di lui a partire dalla biografia di Ray Gamache, Gareth Jones. Eyewitness to the Holomodor, Cardiff, Welsh Academic Press, 2013; Margaret Siriol Colley, More than a Grain of Truth. The Biography of Gareth Jones, Newark, Nigel Linsan Colley, 2005. Fondamentali sono i suoi diari ucraini, «Tell them we are starving». The 1933 Diaries of Gareth Jones, a cura di Ray Gamache, Kingston, Ontario (Canada), Kashtan Press, 2015. 181. Jones aveva dunque colto bene questi punti: a) bisogna guardare alle campagne per comprendere il potere sovietico; b) nelle campagne è collocata la chiave dello sviluppo che passa attraverso il controllo del cibo (e della forza lavoro); c) dalle campagne sono stati sradicati coloro che resistevano, chiamati kulak. Gareth Jones, The Real Russia, in «The Ti- mes», 14-15-16 ottobre 1931. Questi tre articoli sono riprodotti in https://www.garethjones. org/soviet_articles/peasant_on_the_farm.htm; https://www.garethjones.org/soviet_articles/ farm_to_the_factory.htm;https://www.garethjones.org/soviet_articles/youth_in_the_futu- re.htm
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Ho attraversato villaggi e dodici fattorie collettive. Ovunque si sentiva il grido: «Non c’è pane. Stiamo morendo». Questo grido proveniva da ogni parte della Russia, dal Volga, dalla Siberia, dalla Russia Bianca, dal Cauca- so settentrionale e dall’Asia centrale. Ho attraversato la regione della Terra Nera perché un tempo era il terreno agricolo più ricco della Russia e perché ai corrispondenti è stato proibito di andare lì per vedere di persona cosa sta succedendo. In treno un comunista mi ha negato che ci fosse una carestia. Ho gettato in una sputacchiera una crosta di pane che avevo preso dalla mia scorta. Un compagno di viaggio contadino la afferrò e la mangiò voracemen- te. Gettai una buccia d’arancia nella sputacchiera e il contadino la prese e la divorò. […] Ho pernottato in un villaggio dove c’erano 200 buoi e dove ora ce ne sono sei. I contadini stavano mangiando il foraggio per il bestiame e avevano solo una scorta per un mese. Mi hanno detto che molti erano già morti di fame. Due soldati sono venuti ad arrestare un ladro. Mi hanno scon- sigliato di viaggiare di notte, perché c’erano troppi disperati «affamati». 182
Il testo della conferenza berlinese di Jones ebbe dunque una notevo- le diffusione sulla stampa britannica e statunitense, suscitando la reazio- ne di Duranty, il quale intervenne sul «New York Times» per screditare le affermazioni «frettolose» del giornalista gallese. 183 Jones rispose sullo stesso quotidiano che egli era stato in grado di conferire con consoli e rappresentanti diplomatici di diversi paesi, i quali avevano confermato la sua versione dei fatti, ma non avevano potuto parlare apertamente con la stampa. Nella stessa direzione andavano le testimonianze dei contadini fuggiti in cerca di pane e naturalmente il contributo di altri giornalisti. Fece riferimento alla «eccellente serie di articoli» usciti sul «Manchester Guardian». 184 In una lettera del 17 aprile, Muggeridge ringraziò Jones per 182. Il testo della conferenza berlinese del 29 marzo fu diffusa da «New York Evening Post», «Manchester Guardian» e «Chicago Daily News». Si veda https://www.garethjones. org/soviet_articles/millions_dying.htm. 183. Duranty scrisse che: «Il signor Jones è un uomo dalla mente acuta e attiva e si è preso la briga di imparare il russo, che parla con notevole scioltezza, ma chi scrive ha creduto che il giudizio del signor Jones fosse un po’ affrettato e gli ha chiesto su cosa si basasse. Sembra che avesse fatto una passeggiata di quaranta miglia attraverso i villaggi nei dintorni di Char’kov e che avesse trovato condizioni tristi. Ho suggerito che si trattava di uno spaccato piuttosto inadeguato di un grande Paese, ma nulla poteva scuotere la sua convinzione di un destino imminente». L’articolo di Duranty è riprodotto in https://www. garethjones.org/soviet_articles/russians_hungry_not_starving.htm. 184. Questo articolo di Gareth Jones è riprodotto in https://www.garethjones.org/so- viet_articles/jones_replies.htm.
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l’apprezzamento, non lasciandosi scappare l’occasione di definire Duranty «semplicemente un imbroglione». 185 Jones raccontò nel dettaglio ciò che aveva visto in una serie di artico- li pubblicati sul «London Evening Standard», sul «Daily Express» e sul «Western Mail» di Cardiff. Questi interventi furono mirati ad individuare le cause fondamentali della carestia, che l’autore individuò nella deter- minazione del regime di non rallentare l’esportazione di «grano, burro e uova», i cui proventi servivano per «comprare macchinari» anche a costo di affamare la popolazione. Jones denunciò la brutalità di una situazione in cui masse enormi dei «migliori contadini (cioè i Kulak)» erano stati «sradicati ed esiliati con metodi barbari inimmaginabili in Gran Bretagna». Finita la dekulakizzazione, la «spinta selvaggia» era continuata fino all’as- servimento totale di tutti i contadini al punto che questi, riuniti nelle azien- de collettive, erano «stati condannati alla condizione di servi della gleba affamati e senza terra». Non diversamente da Muggeridge, Jones colse un aspetto decisivo della carestia, ossia il suo essere connessa direttamente alla logica estrattiva implicita nelle strategie politico-economiche di Sta- lin. 186 Qui forse si misurano i limiti dei confronti con il passato: la servitù della gleba era stata nonostante tutto un’istituzione propria di una società organicistica, votata alla costruzione della stabilità politica attorno alla fi- gura dell’imperatore. La reale condizione dei contadini sovietici in quel momento non era più quella dei servi, ma di una gran massa di persone indirizzata alla morte da un potere politico senza scrupoli e privo di una vera legittimazione politica interna. L’isolamento culturale di questi giornalisti fu marcato. Uomini di sini- stra, liberali e socialisti, essi dovettero constatare amaramente tutta l’ambi- guità dei governi occidentali, a partire da quello di Roosevelt. Nello stes- so movimento socialista internazionale iniziarono a diffondersi posizioni 185. Muggeridge scrisse a Jones il 17 aprile: «Duranty è, certamente, un vero truffato- re, anche se è un piccolo uomo divertente nel suo genere». La lettera è conservata in https:// www.garethjones.org/soviet_articles/malcolm_muggeridge_correspondence__april_1933. htm. Quale tempo dopo, in una lettera da Ginevra del 29 settembre 1933, Muggeridge scrisse una frase in un certo senso definitiva a proposito di Duranty: «Egli scrive soltanto cosa gli dicono di scrivere». Questa lettera è conservata in https://www.garethjones.org/ soviet_articles/malcolm_muggeridge_correspondence__sept_1933.htm. 186. Le citazioni sono tratte da Seizure of Land and Slaughter of Stock, pubblicato l’8 aprile 1933 sul «Western Mail», riprodotto in https://www.garethjones.org/soviet_articles/ siezure_of_land.htm.
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orientate a favorire la convergenza di tutte le forze della sinistra sul terreno dell’antifascismo, comunisti compresi. 187 Il rifiuto dell’anticomunismo fu a partire dal 1933 una vera deriva morale per il socialismo europeo, che iniziò infatti a disinteressarsi delle vittime di Stalin. Conviene ricostruire prima la dimensione del dibattito teorico e poi vederne le implicazioni sul terreno politico. La redazione di «Der Kampf» sottolineò il proprio «con- trasto» con le posizioni espresse sull’URSS dal «venerato maestro» Karl Kautsky nel saggio dal titolo Demokratie und Diktatur. Kautsky scrisse che la democrazia politica doveva essere considerata una «componente dello scopo stesso», e dunque non una delle tante vie possibili verso il socialismo. Kautsky, marcando ancora una volta la distanza abissale tra socia- lismo democratico e comunismo sovietico, si trovava agli antipodi non soltanto di Bauer, ma dello stesso Adler, il quale, proprio in questo perio- do, si sforzò faticosamente di cogliere germi di socialismo nell’esperien- za sovietica. Come tanti altri, Adler si era convinto che il regime di Stalin costituisse, nonostante tutto, un bastione fondamentale per arrestare la diffusione dei regimi autoritari di destra in Europa. Nello scambio epi- stolare tra i due dirigenti socialisti, pubblicato sulle pagine della stessa «Der Kampf», emerse un conflitto radicale. Kautsky ribadì il carattere primigenio del conflitto tra democrazia e dittatura, sostenendo dunque che un fronte unito con i comunisti non era possibile. 188 Per Adler, inve- ce, si doveva riconoscere il primato alla lotta contro il fascismo, metten- do dunque da parte i contrasti tra le diverse anime del movimento operaio internazionale. Socialisti e comunisti dovevano semmai fare leva sulla comunanza sociale della loro base, il proletariato di fabbrica. Adler giun- se a criticare il «feticismo democratico» di Kautsky, invitando i socialisti
187. Secondo chi scrive, sono ancora molto convincenti le pagine che Furet ha dedi- cato all’antifascismo dopo il 1933, Furet, Le passé d’une illusion, pp. 311-363. Un punto di vista diverso, per cui Furet ridurrebbe l’antifascismo a un’astuzia del totalitarismo so- vietico, è quello di Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 213-219. 188. Questo dibattito è ricostruito in Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista, pp. 286-290. La corrispondenza tra i due in questo periodo è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky papers, G 18. Diskussion mit Frie- drich Adler (Nr. 1-74), Korrespondenz.
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a «riconoscere» che l’URSS sarebbe arrivato al socialismo per una strada diversa da quella socialdemocratica. 189 L’allontanamento del socialismo internazionale dalla causa delle vit- time di Stalin conobbe delle eccezioni. Ai vertici del sindacalismo inter- nazionale (IFTU), Walter Citrine, sindacalista laburista e anticomunista, mantenne salde le sue convinzioni antisovietiche. Lo dimostra il fatto che uno dei suoi obiettivi principali fu di mantenere aperti i rapporti con la AFL in vista di una eventuale adesione di quest’ultima alla IFTU: ciò, evidentemente, avrebbe spostato l’equilibrio del sindacalismo internazio- nale in senso antisovietico. L’ideologia dei vertici della AFL tuttavia non era caratterizzata soltanto dall’anticomunismo, ma anche dall’antifasci- smo. David Dubinsky, a capo della International Ladies Garment Workers Union (ILGWU), era deciso a spingere l’intera federazione sindacale sta- tunitense oltre le vecchie chiusure corporative, aiutando dunque l’IFTU nell’impegno contro l’ascesa del nazismo in Europa. 190 Leader sindacali come Dubinsky e Woll erano insomma decisamente ispirati all’antitotalita- rismo, muovendo dalla convinzione che i regimi di Mussolini, Hitler e Sta- lin fossero portatori di un disegno repressivo nei confronti del movimento dei lavoratori. Se ci spostiamo poco più avanti, alla metà del 1934, possiamo misu- rare quanta acqua fosse passata sotto i ponti del socialismo dal tempo della denuncia del lavoro forzato e della difesa dei prigionieri sovietici. Due episodi ben rappresentano il mutamento di atmosfera, avvenuto nel giro di pochissimi anni. Il 12 agosto 1934 «Le Populaire» pubblicò il cosiddetto «telegramma di Kazan’», ossia il messaggio di un gruppo di menscevichi deportati che salutava «con gioia» il patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti in Francia, risalente al febbraio precedente. Il patto fu definito 189. Forte di queste idee, che alimentavano la strategia del fronte unico con i co- munisti, Adler firmò nel 1935 la prefazione di uno scritto a più mani (Otto Bauer, Fëdor Dan, Amédée Dunois, Jean Zyromski), uscito nel 1935 e dedicato all’Internazionale e la guerra. Questo scritto collegò gli interessi delle classi lavoratrici alla sconfitta del nazismo e alla vittoria dell’Unione sovietica. Inoltre, individuò nella guerra la leva per la conquista del potere politico da parte dei socialisti nei loro paesi con l’obiettivo di abolire il capitalismo. Documenti di poco successivi – ha scritto Enzo Collotti – confermano «l’acquisizione di Adler, al di là di ogni diplomatismo interno alla IOS, alle posizioni degli estensori delle Tesi su L’internazionale e la guerra». Collotti, Appunti su Friedrich Adler, p. 101. 190. Si veda di nuovo Geert Van Goethem, The Amsterdam International.
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«una forza invincibile che sbarrerà la strada al fascismo». I deportati au- spicarono che l’unità d’azione venisse estesa anche ad altri paesi. Il mes- saggio passò senza problemi la censura sovietica, evidentemente istruita in materia. 191 Nel suo editoriale, Blum fece riferimento alla «causa indivisa del socialismo» e al «gesto eroico di intelligenza e abnegazione» degli esiliati di Kazan’. 192 Ora, si ricorderà che fino a poco tempo prima «Le Populaire» era stato uno dei giornali di punta nella critica delle politiche repressive del regime sovietico. Il riferimento alla «causa indivisa» per la quale i socialisti e i comunisti erano chiamati a combattere uniti non do- vette però suonare bizzarro al lettore del periodico socialista, dal momento che Blum era stato protagonista del patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti, siglato il 27 luglio precedente. Venendo al secondo episodio, nel dicembre dello stesso anno, lo stato maggiore del socialismo europeo firmò un progetto per ridare forza all’a- zione del Fondo Matteotti, ormai entrato in crisi da un punto di vista fi- nanziario. 193 Il nuovo progetto fu firmato dai vertici dell’IFTU e della LSI nonché dalle alte cariche del laburismo britannico e della SFIO e infine dal presidente della Commissione di inchiesta sulla situazione dei prigionieri politici, Louis de Brouckère. In questo progetto, la questione della soli- darietà con i prigionieri politici era connessa alla «lotta tra la democrazia e il fascismo» e alla sua «importanza dominante per gli anni a venire». Nell’anno appena trascorso il fascismo aveva realizzato «nuovi progressi in un certo numero di paesi», partendo dall’«austro-fascismo clericale al potere» a Vienna. 194 Colpisce in questo documento l’assenza di un qualche riferimento alle vittime della dittatura di Stalin, le quali, non trovando un posto nello scontro internazionale tra democrazia e fascismo, erano insom- 191. Le télégramme des Mencheviks de Russie, in «Le Populaire», 12 agosto 1934, p. 1. Sul telegramma di Kazan’ vedi anche Andrea Panaccione, Socialisti europei. Tra guerre, fascismi e altre catastrofi (1921-1946), Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 130-132. 192. Léon Blum, Un précieux encouragement, in «Le Populaire», 12 agosto 1934, p. 1. 193. Sul fondo Matteotti si vedano le carte depositate presso l’International In- stitute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist Archives, 3439, Politi- sche Fragen, Matteotti-Fonds, Schriftstücke betr. den Matteotti-Fonds (Internationaler Solidaritätsfonds). 194. Questo scritto reca il titolo Projet. Aux travailleurs de tous les pays; a Tous les démocrates, à tous les amis de la liberté, ed è conservato in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist Archives, 3439, Politische Fragen, Matteotti- Fonds, Schriftstücke betr. den Matteotti-Fonds (Internationaler Solidaritätsfonds).
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ma uscite dal campo di indagine sulla negazione dei diritti umani. 195 Questi due episodi appartengono al periodo in cui stava prendendo forma la piena legittimazione internazionale dello stato sovietico: dopo la vittoria di Hit- ler in Germania nel 1933, la repressione della socialdemocrazia austriaca a Vienna a opera di Dollfuss e la prova di forza delle destre a Parigi all’inizio del 1934 crearono nella sinistra europea il bisogno di accordi su larga scala contro l’avanzata del fascismo internazionale. Completamente fuori dal coro restarono soltanto gli anarchici. Im- pegnati nella difesa dei loro compagni inghiottiti nei campi sovietici, gli anarchici impiegarono costantemente l’analogia tra fascismo e comunismo sovietico. In occasione del trattato di amicizia e non aggressione italo-so- vietico, «L’Adunata dei refrattari», pubblicato a Newark, definì i regimi di Stalin e Mussolini come «fratelli», perché attingevano «la loro linfa vitale dalla comune matrice della dittatura» e perché avevano «dello stato e della sua funzione totalitaria la medesima concezione». Il 2-3 settembre 1934 si svolse a Chicago una della Federation of Russian Anarchist-Communist Groups of USA and Canada, dove si condannò il «fascismo rosso» e al ter- mine della quale fu letta una risoluzione che impegnava i militanti anarchi- ci a lottare a favore dei «compagni imprigionati ed esiliati», sottolineando la necessità di diffondere l’appello, organizzare concerti, formare gruppi di aiuto e assistenza e soprattutto raccogliere fondi. 196 Purtroppo, tuttavia, gli anarchici non avevano mezzi e contatti per su- scitare un interesse più diffuso contro le politiche repressive staliniane. Non si riuscì ad andare oltre la ricerca disperata di informazioni sulla sorte di compagni che erano stati inghiottiti nella realtà sempre più irraggiungi- bile dei campi di Stalin. Gli stessi accadimenti al vertice dello stato sovie- 195. Poco dunque era rimasto dell’ispirazione degli anni precedenti al 1933. Basti un esempio risalente al 1931. In vista della seduta del Comitato esecutivo dell’LSI del febbraio a Zurigo, i responsabili del fondo Matteotti avevano affermato che: «al di fuori delle vit- time della dittatura fascista, noi abbiamo ancora i socialisti della Russia sovietica, i quale, siccome hanno una diversa concezione dello sviluppo del socialismo rispetto a quella dei dirigenti attuali, devono subire nelle prigioni e nella deportazione, le sofferenze più terribili da parte della dittatura bolscevica». Aux organisations ouvrières de tous les pays, conserva- to in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist Archives, 3439, Politische Fragen, Matteotti-Fonds, Schriftstücke betr. den Matteotti-Fonds (Inter- nationaler Solidaritätsfonds). 196. Federation of the Russian Anarchist-Communist Groups of USA and Canada, Our position. War, Fascism, Bolshevism, United Front and Political Prisoners. Resolutions adopted at the Chicago Convention (2-3 sept.), Chicago, 1934.
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tico restarono avvolti nel buio. Alla notizia dell’assassinio di Kirov, Emma Goldman scrisse a Berkman da Toronto il 4 dicembre 1934, ipotizzando che «l’atto era stato realizzato, se non direttamente, certamente in modo indiretto per rinforzare la GPU». In questo modo, era possibile giustificare agli occhi del mondo «il bisogno della polizia politica brutale». Berkman rispose da Nizza, concordando che l’assassinio di Kirov era «sospetto» e che forse si trattava dell’«occasione per iniziare un nuovo terrore». Allo stesso tempo, dovette ammettere che oramai le notizie affidabili erano scar- sissime: «chi può dire cosa sta accadendo laggiù», scrisse laconicamente. Di sicuro c’era soltanto il fatto che la dittatura stava agendo in modo «ter- ribile», «davvero peggio che in Germania o qualsiasi altro posto»». 197 5. Regressione civile e sterminio. Formazione di un paradigma interpretativo alla metà degli anni Trenta In questo paragrafo si ripercorre il consolidamento alla metà del de- cennio del discorso «regressivo» sul regime di Stalin, i cui primi accenni abbiamo scorto nella denuncia della dekulakizzazione/collettivizzazio- ne nel 1929-1932. Adesso uscirono alcune opere che in un certo senso rappresentarono l’eredità di quelle prime denunce e battaglie, la cui eco evidentemente continuò a farsi sentire nonostante il mutamento di clima politico-ideologico, descritto nel paragrafo precedente. Alcune di queste opere ebbero difficoltà a trovare un editore, perché il clima antifascista impose che le critiche rivolte a Stalin venissero messe a tacere. Nonostante ciò, gli sforzi di questi autori furono premiati, perché le loro riflessioni e ricerche, per quanta ostilità possono aver incontrato allora, registrarono in modo definitivo un fatto nuovo: il grande lavoro documentario e interpre- tativo, iniziato alla fine del decennio precedente, aveva trovato finalmente una sistemazione concettuale. Ed essa era destinata a lasciare una traccia profonda al di là delle contingenze politiche del momento. Le difficoltà furono peraltro notevoli, perché il desiderio dell’Occidente di avvicinarsi all’URSS in chiave antinazista si sposò con i cambiamenti di immagine operati dalla stessa politica sovietica sia sul versante interno sia sul versan- te internazionale. 197. Le due lettere si trovano in International Institute of Social History (Amsterdam), Alexander Berkman Papers, General Correspondence, 34, December 1934-February 1935.
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Partiamo da qui, allora. Gli storici hanno parlato di un «timido disgelo» che si manifestò in vari settori della vita sovietica, allentando la pressione sulle campagne, ritoccando il secondo piano quinquennale e restituendo inaspettatamente un ruolo a vecchi avversari di Stalin, come Bucharin, il quale nel marzo divenne direttore della «Izvestija». La più significativa delle misure del 1934 fu forse la riforma della OGPU, inserita nel nuovo Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), a dimostrazione, puramente simbolica, che il tempo della «legalità rivoluzionaria» era final- mente arrivato, mettendo fine agli eccessi degli anni precedenti. 198 Quanto alla dimensione internazionale, le nuove esigenze di sicurezza dello stato sovietico portarono a una ridefinizione delle posizioni del Comintern, che si lasciò alle spalle le parole d’ordine del «socialfascismo» e del «classe contro classe». Con Dimitrov come protagonista, la nuova linea sfociò nel progetto dei Fronti popolari, elaborato durante il VII congresso del 1935, che si svolse poco dopo la firma del trattato franco-russo di reciproca as- sistenza. 199 Questa evoluzione complessiva della politica sovietica fu coerente soltanto in parte e per un breve periodo. Infatti, se da un lato il «timido disgelo» ebbe alcune propaggini fino alla metà del 1936, allorquando entrò in vigore la nuova Costituzione, dall’altro, la macchina della repressione era già stata rimessa in moto da tempo, come conseguenza dell’assassi- nio di Kirov. In definitiva, mentre il processo di legittimazione antifascista dell’URSS giunse al culmine in Occidente, il terrore interno era già riparti- to. Ora, questo periodo fu indubbiamente sfavorevole dal punto di vista di chi si batteva a favore delle vittime di Stalin. Lo si è detto: i grandi organi- smi internazionali accolsero l’URSS nel novero della comunità degli stati che volevano la pace, i governi occidentali furono disposti a chiudere un occhio sulle nefandezze del dittatore comunista, mentre persino una parte importante del movimento socialista internazionale sembrò aver disertato la causa delle vittime del potere sovietico. Il sistema concentrazionario intanto continuava ad espandersi, senza che fosse possibile entrare in pos- 198. Su 1934 come «anno di tregua», Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 487-501. 199. Pons, La rivoluzione globale, pp. 99-112. Sulle vicende del socialismo inter- nazionale all’avvento di Hitler, Leonardo Rapone, La socialdemocrazia tra le due guer- re: dall’organizzazione della pace alla resistenza armata (1923-1936), Roma, Carocci, 1999. Infine sul clima frontista tra gli intellettuali in Francia Pascal Ory e Jean-François Sirinelli, Les intellectuels en France. De l’affaire Dreyfus à nous jours, Paris, Perrin, 2004, pp. 145-176.
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sesso di informazioni e testimonianze di pari numero e valore rispetto a quelle di inizio decennio. Eppure questa metà degli anni Trenta, sospesa tra il ciclo della sta- talizzazione integrale dell’economia e dell’avvio dell’industrializzazio- ne forzata (1929-1933) da un lato, e lo scatenamento del Grande terrore (1936-38) dall’altro, fu estremamente significativa dal punto di vista del- la produzione culturale della sinistra non conformista. A fronte di volumi stucchevolmente prosovietici, come quello pubblicato dai coniugi Webb nel 1935, 200 prese allora corpo una letteratura di grande rilievo che possia- mo per comodità distinguere in due gruppi: da un lato, la pubblicazione di testimonianze su prigioni e campi, riferite ai primi anni Trenta, ma in grado di illuminare gli ultimi sviluppi se utilizzata per comprendere i meccanismi del sistema repressivo nel suo complesso; dall’altro, volumi a carattere interpretativo, che seguirono, ciascuno da un proprio punto di vista, una medesima traccia discorsiva che può essere così riassunta: nel 1929 ave- va preso corpo una «rivoluzione dall’alto», portata avanti con spietatezza soprattutto nei confronti delle grandi masse contadine. Tale rivoluzione suscitò un’opposizione sociale così formidabile che Stalin, e gli uomini attorno a lui, decisero di stroncarla attraverso l’uso politico della fame. Quelle testimonianze e queste interpretazioni, uscite nel 1934-1935, ci appaiono oggi come espressione di un vero e proprio canone interpretativo con al centro l’idea dello stalinismo come un dispotismo moderno, basato su metodi brutali e primitivi. Iniziamo dal primo gruppo, quello delle testimonianze. Prima di ana- lizzare le testimonianze destinate ad avere una risonanza internazionale, conviene qui sottolineare l’esistenza di un circuito privato di corrispon- denze che contribuì a mantenere in vita contatti e relazioni familiari fino a quando fu possibile. Basti qui ricordare le testimonianze di comunisti e anarchici italiani, i quali, finiti nel tritacarne staliniano, fecero ogni sforzo possibile per far conoscere fuori dai confini dell’Urss la loro triste condi- zione. Da questo punto di vista è emblematica la storia di Otello Gaggi. Operaio anarchico nato a san Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, emigrò nel 1922 in Urss per sfuggire alla cattura da parte dei fascisti. Fu arrestato alla fine del dicembre 1934 con l’accusa di appartenere ad una 200. Beatrice e Sidney Webb, Soviet Communism. A New Civilisation, 2 voll., London, Longmans, Green and Co, 1935 [trad. it. Il comunismo sovietico. Una nuova civiltà, Torino, Einaudi, 1950].
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organizzazione trockijsta. Iniziò allora per lui una lunga e triste storia di confino, terminata con la morte in in Kazachstan nel 1945. In una lettera del 2 maggio 1935, inviata ai famigliari, scrisse di esser stato «arrestato e condannato all’esilio nella Russia del Nord, dove il freddo e il denutrimen- to consuma piano piano la mia poca salute. Sono impossibilitato di poter- mi guadagnare il pezzo di pane necessario alla vita quotidiana» per esser ritenuto un «controrivoluzionario». La vicenda di Luigi Calligaris, nato in provincia di Gorizia, fu diversa. Questo militante comunista giunse in Urss dopo cinque anni di confino inflittogli dal regime di Mussolini tra 1927 e 1932. Lavorò in fabbrica a Char’kov e a Mosca. Arrestato nell’ambito della stessa retata che coinvolse Gaggi, egli fu dunque spedito nei lager di Stalin, trovando la morte nel 1937 nel campo di Severo-Vostocnyi. La lettera inviata alla fidanzata, scritta poco prima di essere arrestato, contiene la supplica di rivolgersi alla Croce rossa internazionale, di andare a Parigi, di bussare alla porta dell’ambasciata sovietica a Roma e comunque di non smettere mai di cercare notizie, rifiutando di credere ad un’eventuale co- municazione circa il suo suicidio. 201 Nel 1935 la «Slavonic and East European Review» pubblicò il me- moriale di Ivan Solonevič, fuoriuscito dall’URSS nel 1934 dopo una lunga storia di galera e marginalità seguite alla partecipazione alla guer- ra civile, che egli aveva combattuto dalla parte dei bianchi. Solonevič stabilì un confronto tra collettivizzazione/dekulakizzazione staliniana e insediamenti militari di Alessandro I e Nicola I, dove venivano deportati i servi dello stato. Il confronto fu avanzato però non già nel senso della continuità storica, ma anzi della regressione attuata da un regime, quello sovietico, che annullava i faticosi progressi realizzati nella seconda metà dell’Ottocento. L’immagine dei contadini ridotti al servaggio fece il paio
201. Aldo G. Ricci, Come Mussolini sorvegliava l’emigrazione politica. Il caso de- gli emigrati italiani nell’Urss, in Il libro nero degli italiani nei gulag, a cura di Francesco Bigazzi, Rimini, Leg, 2023, in particolare pp. 61-62. Si veda in generale Elena Dundo- vich e Francesca Gori, Italiani nei lager di Stalin, Bari, Laterza, 2006. Tra gli italiani vittime dei gulag di Stalin, la vicenda meglio documentata fu quella di Emilio Guarna- schelli, operaio comunista piemontese, morto a Magadan nell’aprile 1938. Si veda a tal proposito, Emilio Guarnaschelli, Une petite pierre. L’exil, la déportation et la mort d’un ouvrier en Urss 1933-1939, Paris, Maspero, 1979 [trad. it. Una piccola pietra. Le lettere di un operaio comunista morto nei gulag di Stalin, a cura di Nella Masutti, Venezia, Marsilio, 1998].
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con quella dei prigionieri ridotti in schiavitù nei campi di Stalin. 202 Un grande capolavoro di questa letteratura, protesa a denunciare il carattere regressivo della «rivoluzione dall’alto» staliniana, fu pubblicato proprio grazie al sostegno di Pares. Mi riferisco alle memorie di Vladimir Černavin, un ittiologo sovie- tico arrestato alla fine degli anni Venti dalla OGPU, impegnata a sbaraz- zarsi dei «sabotatori» del piano quinquennale anche nell’industria del pesce. Dopo un periodo trascorso nelle patrie galere e nell’isolamento delle Solovki, Černavin riuscì a scappare assieme alla moglie. 203 Rifu- giatosi in Finlandia, scrisse una lettera dedicata ai metodi brutali della polizia sovietica, che «The Times» pubblicò il 18 aprile 1933. Un rac- conto più esteso fu presentato sulla rivista di Pares e Seton-Watson. A un primo articolo dedicato all’esperienza della galera, pubblicato nel luglio 1933, seguì un altro dal titolo Life in Concentration Camps, pubblicato nel gennaio 1934. 204 Riferendosi al soggiorno alle Solovki tra maggio del 1931 e agosto del 1932, Černavin delineò uno schizzo dell’intero univer- so concentrazionario sovietico, forte del fatto di aver conosciuto gente proveniente da campi diversi, sparsi per tutto il territorio sovietico. Gra- zie a un rapido calcolo, egli concluse che si trattava di circa un milione e mezzo di prigionieri. Egli stava parlando soltanto di prigionieri nei cam- pi, senza contare dunque gli «esiliati amministrativi». L’autore descrisse con chiarezza l’enormità giuridica di un codice penale che, attraverso il famigerato articolo 58, deportava centinaia di migliaia di persone, le qua- li spesso non venivano a conoscenza dei capi di accusa e neppure della durata della pena inflitta loro. La maggior parte di essi erano contadini, ma non mancava gente colta, studiosi e specialisti, accusati – come nel suo caso – dei fallimenti del piano quinquennale. Sotto la giurisdizione della OGPU, i campi erano popolati anche da una certa quantità (che egli stimava attorno al 10%) di criminali veri, ai quali il regime affidava compiti interni al campo e assicurava privilegi in quanto «socialmente vicini». 202. Ivan Solonevich, Collectivization in Practice, in «The Slavonic and East Euro- pean Review», 40 (1935), pp. 81-97. 203. Vladimir V. Tchernavin, I Speak for the Silent Prisoners of the Soviets, Boston- New York Hale, Cushman and Flint, 1935. 204. Vladimir Tchernavin, Prison Life in USSR (1930-31), in «The Slavonic and East European Review», 34 (1933), pp. 63-78; Id., Life in Concentration Camps, in «The Slavo- nic and East European Review», 35 (1934), pp. 387-408.
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Come si avverte con maggior chiarezza nel volume pubblicato nel 1935, Černavin era un assertore convinto del carattere essenzialmente eco- nomico dei campi, vere e proprie fabbriche gestite da un corpo dello stato, la polizia politica, che si stava organizzando come istituzione a sé stante, chiamata a contribuire in diversi settori allo sforzo della pianificazione. Scrisse che la OGPU non era «semplicemente una istituzione dello stato, essendo in realtà uno stato nello stato. La GPU ha le sue truppe, la sua marina, milioni di sottoposti (i prigionieri dei campi), il suo territorio dove l’autorità e le leggi sovietiche non funzionano». Sviluppando l’idea che la OGPU costituisse una sorta di «stato nello stato», l’autore colse la pe- culiarità di imprese economiche gestite dalla polizia, nelle quali un basso contenuto tecnologico poteva essere facilmente rimpiazzato con il lavoro dei prigionieri ridotti di fatto in schiavitù. Affermò che: I campi sono dotati del lavoro schiavo. Questi lavoratori sono il capitale inve- stito nelle aziende della GPU; esso prende il posto dell’attrezzatura costosa e dei macchinari. Le macchine richiedono edifici, manutenzione, e carburante di una certa qualità e in quantità fisse. Non è così con i prigionieri-schiavi. Essi non hanno bisogno di cure, possono sopravvivere in baracche prive di riscaldamento, che si costruiscono da sé. La loro razione completa di cibo può essere regolata secondo le circostanze: un chilo di pane può essere ri- dotto a 400 grammi, lo zucchero può essere eliminato del tutto; lavorano ugualmente bene se mangiano carne marcia di cavallo o di cammello. In de- finitiva, lo schiavo è una macchina universale; oggi scava un canale, domani abbatte alberi, e il giorno dopo pesca. Il solo requisito è una organizzazione efficiente per obbligarlo a lavorare – questa è la «specialità» della GPU. Ma questo non è tutto. Questo capitale investito non costa niente, diversamente dagli schiavi nei paesi capitalistici quando esisteva la schiavitù; l’offerta è illimitata […]. 205
Pur nei limiti di una riduzione economicista della funzione dei campi, il lavoro di Černavin costituì una possente dimostrazione del funziona- mento dei campi stessi alla metà degli anni Trenta. È vero che il testo fotografava la realtà del 1931-1932 (e che nel frattempo la OGPU era stata assorbita nella NKVD), ma le considerazioni generali svolte dall’autore si adattavano perfettamente agli sviluppi successivi. Soprattutto il lavoro di Černavin fu importante perché consolidò l’immagine dello stato sovieti- 205. Tchernavin, I Speak for the Silent Prisoners, p. 282.
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co come stato schiavista e dunque implicitamente della società sovietica nel suo complesso come società di tipo castale, i cui ultimi gradini erano appunto occupati dai prigionieri di Stalin, privati dei più elementari dei diritti. Questo memoriale ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica bri- tannica e statunitense: da una parte, la rivista di sinistra statunitense «The New Masses» gettò discredito sull’autore, bollandolo come un «disadatta- to dentro una nuova società». 206 Dal canto loro, i coniugi Webb erano trop- po fiduciosi verso le fonti ufficiali sovietiche per poter credere alle verità di un memoriale di questo tipo. 207 Diversamente William Henry Chamberlin prese le difese dell’autore, scrivendo su «Pacific Affairs» una recensione nella quale criticò gli intellettuali occidentali, i quali, ossessionati dai mali del capitalismo, non riuscivano a comprendere che l’alternativa ad esso, cioè un regime di tipo sovietico, fosse ben peggiore. Sotto Stalin, scrisse che «l’abolizione della proprietà privata era accompagnata dall’abolizione di tutte le libertà […]». 208 L’intervento di Chamberlin ci conduce al secondo gruppo, quello dei volumi a carattere interpretativo, usciti attorno alla metà del decennio. L’immagine della società sovietica come società divisa in caste, rovescia- mento cioè della società egualitaria che il potere sovietico sosteneva di aver costruito, emerse con forza nel volume che questo autore pubblicò nel 1934. Al centro di esso campeggia l’immagine di uno stato militare, impegnato nella costruzione di un possente apparato industriale e bellico nel più totale disprezzo per i costi sociali e umani che questa costruzio- ne comportava. 209 Agli occhi di Chamberlin non agiva una qualche persi- stenza storica, rispetto al mondo dell’autocrazia zarista, ma un fenomeno 206. Albert Lewis, I Speak for the Silent by Vladimir V. Tchernavin, in «The New Masses», 23 (1935), p. 26. 207. Furet, Le passé d’une illusion, pp. 187-188. 208. William Henry Chamberlin, Recensione a James Bunyan, The Bolshevik Revo- lution, 1917-1918; Joseph Stalin, The October Revolution; Joseph Stalin, The State of the Soviet Union; Victor Tchernavin, I Speak for the Silent: Prisoners of the Soviets, in «Pacific Affairs», 2 (1935), p. 241. 209. William Henry Chamberlin, Russia’s Iron age, Boston, Little, Brown and Com- pany, 1934. La continuità dell’interesse di Chamberlin per il mondo sovietico anche dopo che egli ebbe lasciato l’URSS, è testimoniata dalla pubblicazione di numerosi saggi e vo- lumi. Limitandosi per adesso alla prima metà degli anni Trenta, si possono menzionare le già ricordate edizioni di The Real Russia e di seguito The Soviet Planned Economic Order, Boston, World Peace Foundation, 1931. Uscita nel 1934, Russia’s Iron Age, fu seguita da The Russian Revolution, 1917-1921, New York, Macmillan, 1935.
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di tipo nuovo, ancorato all’esperienza della Grande guerra. Questa era il vero e proprio retroterra storico della tirannia di Stalin. L’autore utilizzò insistentemente la metafora della guerra, mostrando di aver compreso la derivazione profonda del regime bolscevico. Descrisse i grandi complessi industriali come «fortezze» che contrastavano con il mare dell’arretratezza rurale, mentre «l’annuale processo di estrazione del grano e di altre derrate alimentari da contadini riluttanti» assumeva sempre di più il carattere di un’ «incursione» con mezzi militari, volta a realizzare una requisizione spietata. 210 Il conflitto con le campagne fu descritto alla stregua di «una guerra civile […] unilaterale», scatenata da un apparato politico-militare che stava portando a termine un «processo di devastazione che normal- mente sarebbe indicato come invasione di un esercito straniero». 211 L’im- magine della collettivizzazione/dekulakizzazione come «invasione» era stata proposta, come si ricorderà, da Miljukov. Adesso, riprendendo questi concetti, Chamberlin pubblicò un lavoro di grande importanza. La messa a fuoco dello stato militare, dei suoi obiettivi e dei suoi ri- sultati, permise a Chamberlin di spiegare con facilità l’origine del «gover- no attraverso il terrore», dove vigeva il diritto «assoluto e indiscutibile» dei governanti di stabilire «fino a che punto» era «necessario uccidere la gente». 212 Questo riferimento alle uccisioni di massa rimandava natural- mente alla carestia, che Chamberlin definì come «strumento di politica nazionale», impiegato cioè per «rompere definitivamente la resistenza dei contadini» al nuovo sistema delle grandi aziende collettive e la resisten- za delle nazionalità al nuovo sistema imperiale grande russo. Il carattere completamente arbitrario del regime affidato alla OGPU non si limitava però allo «straordinario potere di fucilare» e di affamare, attribuito ai fun- zionari. Quel carattere infatti si esprimeva soprattutto nella prerogativa che questi funzionari avevano di arrestare, di condannare milioni di persone ai lavori forzati attraverso sentenze di tipo amministrativo e di deportarle in luoghi lontanissimi. La OGPU fu descritta come una aristocrazia sociale, la quale, dotata di un suo esercito, aveva «sotto la sua giurisdizione più servi del più ricco boiaro russo medievale nelle persone di gente costret- ta a lavorare e custodita nei campi di concentramento». 213 Aggiunse che 210. Chamberlin, Russia’s Iron Age, p. 4. 211. Ivi, p. 73. 212. Ivi, p. 152. 213. Ivi, p. 159.
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«c’era qualcosa di maestosamente asiatico nel sistema sovietico con le sue milioni di vittime». 214 Chamberlin scrisse un libro di grande importanza proprio perché seppe mantenere un equilibrio tra due elementi discorsivi che, qualora fossero stati disgiunti, avrebbero inficiato il risultato finale. Mi riferisco al fatto che l’elemento regressivo della vicenda sovietica (vale a dire lo sprofondo storico nel quale l’URSS era piombata, instaurando una società di tipo castale dominata da un despota orientale) conviveva in que- ste pagine con la modernità del regime staliniano. Questo agiva come uno stato militare, secondo un modello forgiatosi nella Grande guerra ed esa- speratosi all’ombra della bandiera rossa del comunismo. Chamberlin par- tecipò insomma alla guerra interna della sinistra internazionale con mag- gior intelligenza di altri: non si limitò a battere sul chiodo del comunismo come restaurazione o addirittura ritorno a un passato remoto; seppe invece cogliere con lucidità che le forme sociali arcaiche erano state plasmate da un soggetto del tutto moderno. La riflessione di Chamberlin ebbe più di un elemento di contatto con il lavoro che contemporaneamente fu portato a termine da Boris Souvari- ne nel 1935. Staline costituisce l’opera che, assieme a Russia’s Iron Age, seppe meglio consolidare il giudizio sul carattere socialmente regressivo della vicenda sovietica, sulla divergenza attuata da un regime di natura «asiatica», mantenendo fermo un giudizio sulla modernità dello stalini- smo. 215 Riuscendo precocemente a proiettare la propria riflessione oltre il conflitto personale tra Trockij e Stalin, Souvarine individuò il nesso esi- stente tra pianificazione su basi integralmente statali e impiego massiccio della repressione politica, raffigurando lo stato sovietico come uno stato militare pronto a sacrificare la popolazione e i suoi bisogni di fronte al compito di acquisire tecnologia moderna e industrializzare il paese a tappe 214. Ivi, p. 157. Questo riferimento «asiatico» ha suscitato la reazione piuttosto astio- sa di David Engerman che vi ha colto il persistente e trito luogo comune del dispotismo asiatico. David Engerman, William Henry Chamberlin and Russia’s Revolt against Western Civilization, in «Russian History», 1 (1999), pp. 45-64. Al momento dell’uscita prevalsero invece recensioni positive, come quella di Frieda Wunderlich, sociologa esule negli Stati Uniti, la quale scrisse che il libro aveva fatto emergere «i terribili inconvenienti di un siste- ma di dittatura di classe: terrorismo, spionaggio, decimazione dell’intellighenzia attraverso arresti segreti e processi per sabotaggio, deportazione dei contadini». Frieda Wunderlich, Russia’s Iron age by William Henry Chamberlin, in «Social Research», 3 (1935), p. 400. 215. Boris Souvarine, Staline. Aperçu historique du bolchévisme, Paris, Plon, 1935. Le citazioni a seguire sono tratte dalla versione italiana Stalin, Milano, Adelphi, 2003.
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forzate. L’espropriazione dei contadini, il saccheggio delle campagne, le deportazioni e la riduzione ai lavori forzati di milioni di individui furono l’espressione di questa scelta. 216 La strada intellettuale e politica percorsa da Souvarine era stata lunga, passando dalla fondazione del comunismo in Francia, un ruolo importante nel comunismo internazionale, fino alla rottura con lo stalinismo che lo avvicinò per qualche tempo a Trockij. 217 Questa vicinanza durò però poco, perché egli era convinto che il problema non fosse tanto Stalin in quanto tale, con la sua brutalità, quanto la logi- ca stessa dell’industrializzazione in tempi rapidi. Souvarine comprese che questa logica si era potuta affermare pienamente, soltanto perché il sistema sovietico era stato dotato fin dall’inizio di una concentrazione enorme di potere, che funzionava appoggiandosi su apparati di polizia sconosciuti nel mondo occidentale. 218 In un saggio del 1929, dal titolo La Russie nue, affermò che «non esi- steva nella società borghese una potenza poliziesca così ampia e comple- ta». Il segreto dell’economia di comando statale era dunque presto svelato: «[…] lo Stato non può perseguire l’edificazione delle sue gigantesche im- prese, industriali e agricole, se non prelevando una parte sempre più grande di reddito nazionale attraverso mezzi molteplici», ma tutti riconducibili alla forza esercitata attraverso quegli apparati. In altri termini, l’industria- lizzazione – realizzata in quei tempi così rapidi – non poteva far altro che prendere le forme di una vasta spoliazione sociale, un’accumulazione originaria, basata sull’esproprio di larghe masse rurali. 219 Su «Critique so- ciale», la rivista fondata dal Cercle communiste démocratique all’inizio 216. Souvarine, Stalin, p. 638. 217. Si rimanda alla documentata biografia di Jean-Louis Panne, Boris Souvarine: Le premier désenchanté du communisme, Paris, Robert Laffont, 1993. 218. Souvarine non ebbe timore di rivolgersi a Trockij in questi termini: «L’opposi- zione sosteneva l’investimento annuale di un miliardo di rubli nell’industria; Stalin, dopo aver dimostrato loro attraverso il Guepeu l’utopia del loro progetto, trovò il modo di inve- stirne due. L’opposizione denunciava l’insufficienza del piano economico quinquennale del 1926-1931; Stalin, dopo averli mandati in Siberia e in prigione per rivedere le loro cifre, fece redigere un nuovo piano per il 1928-1933, in cui le vecchie richieste degli «industria- li» appaiono timide». Boris Souvarine, À contrecourant. Écrits 1925-1939, Paris, Denoël, 1985, pp. 241-242. Trockij reagì duramente a questa impertinenza, chiudendo i rapporti con Souvarine con una lettera del 3 luglio 1929: «Voi passerete dall’altra parte della barricata. Dal punto di vista teorico siete già di là». La lettera si trova ivi, p. 276. 219. Boris Souvarine, L’U.R.S.S. en 1930, Paris, Éditions Ivrea, 1997, p. 265. Questo libro apparve con il titolo La Russie nue, Paris, Éditions Redier, 1929 nell’ambito della
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degli anni Trenta, Souvarine mise a fuoco il meccanismo di spoliazione proprio di uno stato che non era «né borghese, né proletario, ma burocra- tico nella sua fase transitoria». 220 E la descrizione di questo meccanismo rappresentò una delle idee forti presenti nel volume del 1935. Al centro di esso infatti campeggiò l’idea di un ceto burocratico, che, pur non avendo acquisito la proprietà dei mezzi di produzione, era entrato in possesso della macchina militare e repressiva dello stato, grazie alla quale stava realizzan- do un drenaggio sistematico della ricchezza sociale. Le fonti utilizzate da Souvarine furono quelle prodotte sull’onda della grande campagna internazionale del 1930-1931. In particolare, egli fece riferimento alle «lettere strazianti», pubblicate nella raccolta summenzio- nata Out of the Deep. 221 Souvarine dette inoltre molto rilievo al racconto di Ivan Solonevič, «testimone oculare qualificato e informato […] uno dei rari evasi dall’ergastolo sovietico». Se la conoscenza di queste fonti dette a Souvarine la misura delle sofferenze umane prodotte dalla rivoluzione dall’alto di Stalin, la lettura di alcuni autori interessati alla storia zarista e sovietica consolidò le sue idee sul carattere peculiare di questa rivoluzione. La questione fu posta in parte nei termini della continuità con il regime zarista. Pur su una scala più vasta, il potere sovietico aveva identificato, come già il regime zarista, «l’economia con la tecnica», convinto che fosse possibile «comprare i risultati [tecnologici] senza assimilare il processo che li [aveva] prodotti», ossia l’economia di mercato legata a un sistema pluralistico basato sulle garanzie dei diritti civili. L’interazione esclusiva tra tecnologia e poteri pubblici di stampo autoritario, volta a realizzare un rapido processo di industrializzazione, suggerì a Souvarine dunque il confronto con gli scritti di Masaryk, il quale aveva definito i bolscevichi «figli dello zarismo», che indossavano «sempre l’uniforme zarista, sia pure a rovescio». 222 trilogia Vers l’autre flamme, diretta da Panait Istrati, militante rivoluzionario rumeno e scrit- tore molto vicino a Romain Rolland. 220. Boris Souvarine, Perspectives de travail, in «Critique sociale», 1 (1931), pp. 1-4. 221. Souvarine, Stalin, p. 639. 222. Ivi, pp. 660-661; p. 679. Autore nel 1913 del celebre Russland und Europe, Ma- saryk era considerato da Souvarine un’autorità sul tema della continuità del potere in Russia e sulla divergenza di quest’ultima rispetto ai valori spirituali dell’Occidente. L’esperienza di Masaryk durante la guerra, e in particolare quella di organizzatore della legione ceco- slovacca, dovette rafforzare le convinzioni di Souvarine circa l’importanza questo intellet- tuale, storico e politico. Su Masaryk e la Rivoluzione russa J.F.N. Bradley, T. G. Masaryk
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Rispetto a Chamberlin, Souvarine era maggiormente impegnato nella ricerca di chiavi interpretative che valorizzassero la dimensione regressi- va del regime sovietico, rischiando così a tratti di rompere l’equilibrio tra questo elemento e la dimensione innovativa del bolscevismo, fenomeno prodotto dalla guerra mondiale. Egli fece riferimento alle celebri lettere di Astolphe de Custine, «una delle migliori opere sulla Russia eterna», dove il governo dominava la società, inibendo le energie individuali e opprimendo i gruppi sociali. 223 Considerando la società sovietica una società fondata sul lavoro dei prigionieri-schiavi e dei contadini-servi (dunque, una società di tipo castale, basata su discriminazioni di tipo normativo) Souvarine men- zionò Herbert Spencer, il quale aveva definito già alla fine dell’Ottocento il socialismo come «schiavitù» del futuro, nuova incarnazione del vecchio tipo dello stato militare. 224 Sul filo di questa ipotesi, Souvarine affermò che la versione sovietica di questo stato, incarnando un principio di lotta all’ultimo sangue contro l’arretratezza, aveva avviato una sorta di «retrori- voluzione», ossia un misto di ideologia progressista e regressione sociale. Con questo termine, Herzen – un altro autore caro a Souvarine – ave- va inteso descrivere proprio una trasformazione diretta dall’alto, priva di connessione con le forze sociali più vive, e come tale destinata a produrre un’organizzazione della società più primitiva, poggiante sulla reintrodu- zione di gerarchie fisse di tipo premoderno. 225 et la révolution russe, in « Études Slaves et Est-Européennes / Slavic and East-European Studies», 1/2 (1964), pp. 3-20; e 3/4 (1964-1965), pp. 78-99. Souvarine citò anche le me- morie che Masaryk pubblicò nel 1925 con il titolo Světová revoluce. Za války i ve valce, 1914-1918 («La rivoluzione mondiale. Durante la guerra e nella guerra 1914-1918»). 223. Souvarine, Stalin, p. 682. 224. Ivi, p. 677. Il riferimento a Spencer va naturalmente al classico The Man Versus the State, Londra, William & Norgate, 1884 [trad. it. L’uomo contro lo stato, a cura di Al- berto Mingardi, Macerata, Liberilibri, 2016]. 225. Ivi, pp. 685-686. Il comunismo per Herzen rappresentava una regressione stori- ca. Esso negava la proprietà, che invece deve far da base per l’espansione della personalità umana in un sistema sociale rinnovato, basato sul pluralismo. Sono idee simili a quelle di Joseph Proudhon, come a mano a mano divenne chiaro a entrambi. Herzen giunse a Parigi nel marzo 1847, ma conosceva già le opere di Proudhon, che reputava superiori a quelle dei socialisti utopisti. Vedi a proposito Aileen M. Kelly, The Discovery of Chance. The Life and Thought of Alexander Herzen, Cambridge, MA-London, Harvard University Press, 2016, in particolare le pp. 302-303 riguardanti i punti di accordo con Proudhon. E naturalmente si tenga presente il grande classico Aleksandr Herzen, Dall’altra sponda, con introduzione di Isaiah Berlin, Milano, Adelphi, 1993.
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Sono note le difficoltà che Souvarine incontrò nella pubblicazione di Staline. Il contesto «antifascista» del 1934-1935 non favorì certo la bene- volenza del mondo intellettuale della gauche francese verso una critica così feroce del comunismo e del suo capo, Stalin. 226 Ma Souvarine ebbe anche estimatori autorevoli. Tra i lettori più attenti, Kautsky colse perfet- tamente il punto. Scrisse il 13 ottobre 1935 a Lucien Laurat, economista e intellettuale marxista vicino a Souvarine, di aver letto «con entusiasmo» il volume che questo gli aveva inviato. Su un periodico tedesco pubblicato a Praga, Kautsky difese lo Staline dalle critiche di Bauer e di altri socialisti indulgenti verso le politiche di Stalin. Secondo Kautsky, l’autore aveva compreso l’essenziale: il socialismo non poteva avere niente a che fare con uno stato assolutista che costruiva grandi opere, dotandosi di una massa di schiavi, come avevano fatto anticamente i faraoni e i despoti di Babi- lonia. 227 La varietà e complessità dei riferimenti impiegati da Souvarine e dai suoi estimatori mostra con chiarezza che un nuovo paradigma interpre- tativo stava allora prendendo forma. Ed era questo: lo stato sovietico rap- presentava lo stato militare per eccellenza, basato su un’economia statale di comando al posto del mercato e su di un apparato poliziesco, slegato da ogni controllo e dalle garanzie proprie dello stato di diritto. Critici sociali- sti di vecchia data del comunismo sovietico come Kautsky, e disincantati del comunismo sovietico come Souvarine finirono per condividere le idee che abbiamo già visto prendere forma nel mondo del liberalismo e del gior- nalismo indipendente. In definitiva, nel momento di massima fiducia ac- cordata alle credenziali antifasciste di Stalin, un nuovo consenso socialista e liberale prese forma, demolendo i facili entusiasmi di chi invece lodava le sorti progressive del regime sovietico. La scoperta della configurazione militare del regime sovietico, e dell’organizzazione castale della società che esso era chiamato a dirigere, rimandò a un discorso più ampio sull’assenza di razionalità economica propria di quel regime. In un saggio del 1935, l’economista russo Boris Bruckus mostrò appunto che il sistema economico sovietico era costretto a servire scopi non economici, ma appunto militari su basi ideologiche. 228 226. David Engerman, La controversa accoglienza dell’opera di Souvarine, in AA.VV., Stalin di Boris Souvarine, in «Contemporanea», 3 (2006), pp. 527-531. 227. Panné, Boris Souvarine, p. 225. 228. Boris Brutzkus, Economic Planning in Soviet Russia, con prefazione di Friedrich A. Hayek, London, Routledge and Sons, 1935.
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La prefazione del libro fu firmata da Friedrich Von Hayek, il quale curò lo stesso anno un altro volume dal titolo Collectivist Economic Planning, nel quale fu riprodotto il celebre saggio di Mises del 1920 sul calcolo economico nella società socialista. 229 L’idea che il calcolo razionale fosse impossibile in assenza di un meccanismo dei prezzi, proprio soltanto del libero mercato, fu un argomento a favore di chi sosteneva che il socialismo sovietico fosse del tutto irrazionale, orientato a piegare l’economia alla soddisfazione di esigenze di altra natura. A ben guardare, l’irrazionalità economica (con i suoi sprechi, malfunzionamenti, caos produttivo e corru- zione diffusa) non era che un altro modo di intendere la regressione storica descritta da Chamberlin e Souvarine. Ora, un sistema siffatto aveva dovuto impiegare una violenza straordi- naria, culminata nell’uso politico della fame, per piegare la resistenza alle proprie politiche irrazionali e oppressive. Questo riferimento alla carestia organizzata come esito della guerra scatenata dallo stato contro la società ci rimanda a un ultimo volume, quello di Ewald Ammende dedicato spe- cificatamente alle carestie sovietiche. Esso si appoggiò espressamente su alcuni dei lavori che abbiamo citato. Ad esempio, Chamberlin fu citato come «autorità indiscutibile sugli affari russi». 230 Estone di origine tedesca, Ammende era un «nazionalista liberale» che aveva intravisto nel crollo dell’impero zarista la possibilità per le minoranze nazionali di porre all’or- dine del giorno il tema della loro autonomia nell’Europa post-bellica. 231 Proveniente da una ricca famiglia di mercanti, visitò dopo la guerra l’U- craina indipendente e partecipò ai programmi internazionali di aiuto per la carestia del 1921-1922 in varie zone dell’Unione sovietica. La grande que- stione alla quale Ammende si dedicò con successo nella prima metà degli anni Venti fu l’autonomia dei tedeschi nel nuovo stato repubblicano letto- 229. Nikolaas Gerard Pierson, Ludwig von Mises, George Nikolaus Halm, Enrico Barone, Collectivist Economic Planning. Critical Studies on the Possibilities of Socialism, a cura di Friedrich A. Hayek, London, Routledge & Kegan Paul LTD, 1935. Il saggio di Mises, Economic Calculation in the Socialist Commowealth, ivi, pp. 87-130. 230. Ewald Ammende, Muss Russland hungern? Menschen und Völkerschicksale in der Sowjetunion, Wien, Wilhelm Braumüller Universitäts-Verlagsbuchhandlung, 1935. Si cita dalla traduzione inglese, uscita l’anno successivo. Ewald Ammende, Human Life in Russia, London, G. Allen & Unwin, 1936, p. 103. 231. Martyn Housden, On Their Own Behalf. Ewald Ammende, Europe’s National Minorities and the Campaign for Cultural Autonomy 1920-1936, Amsterdam-New York, Rodopi, 2014.
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ne, contribuendo nel 1925 a una legge in tal senso. Nello stesso anno, for- te di questo risultato, divenne segretario generale del Congresso europeo delle nazionalità. 232 Le sue idee erano ispirate a un nazionalismo volontari- stico (estraneo alla retorica del sangue che si faceva strada in altri tedeschi del Baltico, come Arthur Rosenberg), volto da un lato a plasmare i nuovi stati post-imperiali in senso federale, dall’altro a coinvolgere stabilmente la Lega delle nazioni. Le sue riflessioni nazionalitarie erano destinate però a scontrarsi con la realtà delle due grandi tirannie degli anni Trenta, quella staliniana e quella hitleriana. L’intreccio tra collettivizzazione e distruzio- ne delle identità delle nazioni sovietiche fu un tema che naturalmente at- trasse Ammende sin dagli esordi della «rivoluzione dall’alto» di Stalin. Le notizie sempre più insistenti sulla carestia in Ucraina lo spinsero ad agire, richiedendo alle autorità e all’opinione pubblica statunitensi di intervenire. Il suo attivismo è stato peraltro definito «ambiguo» da alcuni studiosi, i quali hanno riscontrato che una sua visita negli Stati Uniti fu sostenuta dal ministero degli Esteri nazista. È vero in effetti che Ammende mantenne a Berlino contatti piuttosto imbarazzanti, maturati sul terreno della difesa dei tedeschi etnici. 233 Il suo libro sulla carestia ucraina uscì comunque in Austria nel 1935, grazie all’aiuto del cardinale Innitzer, il quale aveva guidato la mobilita- zione delle gerarchie cattoliche su questo tema. L’originalità del racconto di Ammende fu di individuare la dimensione più radicale della carestia, intesa come uso politico della fame. Secondo Ammende, la necessità di realizzare il piano quinquennale aveva dunque portato le autorità sovieti- che alla requisizione del grano e delle materie prime nei distretti non rus- si: Ucraina, la regione dei Volga popolata da tedeschi etnici, il Caucaso e il Kazachstan. L’attacco spietato dal potere sovietico contro questi gruppi e queste nazioni fu descritto come un attacco «ai loro diritti e alla loro individualità culturale»; un attacco che poteva dirsi «parallelo alla lotta per il pane». L’intreccio di due livelli (la sicurezza dell’impero sovietico e il possesso delle risorse alimentari da parte dello stato) era all’origine 232. Ferenc Eiler, The Congress of European Nationalities and the International Pro- tection of Minority Rights, 1925-1938, in Populism Memory and Minority Rights. Central and Eastern European Issues in Global Perspective, a cura di Anna-Mária Bír, Leiden- Boston, Brill Nijhoff, 2018. 233. Martyn Housden, Ambiguous Activists. Estonia’s Model of Cultural Autonomy as Interpreted by Two of its Founders: Werner Hasselblatt and Ewald Ammende, in «Journal of Baltic Studies», 3 (2004), pp. 246-47.
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dell’«intenzione di eliminare completamente le nazionalità sistemate a ovest». 234 L’osservazione era decisiva, perché innanzi tutto suggerì che in Ucraina era stato realizzato uno sterminio a opera di un apparato buro- cratico-militare, determinato a spezzare ogni possibile resistenza da parte di un movimento nazionale a base contadina. Quindi, quell’osservazione registrò i primi passi di una strategia securitaria, destinata a diventare negli anni successivi una delle caratteristiche più brutali del regime di Stalin. 235 Queste ultime osservazioni ci sono utili per trarre qualche conclusio- ne. Le testimonianze e le interpretazioni generali di metà decennio rac- colsero e, in un certo senso, riordinarono tutto il materiale che era stato prodotto nel periodo 1929-1933 sugli arresti di massa, le deportazioni, il lavoro forzato e la carestia. Non ci si limitò però, durante il timido disgelo sovietico del 1934-1935, a fare questo, cogliendo piuttosto il significato profondo dell’intera sequenza storica che si aveva alle spalle: una rivolu- zione modernizzatrice, guidata dallo stato, aveva investito territori e gruppi sociali, cercando di imporre un adeguamento della realtà sociale, soprattut- to rurale, all’ideologia del regime. L’uso sistematico della violenza aveva suscitato una formidabile resistenza popolare, che Stalin stroncò utilizzan- do la fame come strumento di sterminio di massa. Che questa lettura abbia lasciato una traccia importante è dimostrato dal fatto che sovente gli storici di oggi sono impegnati ad approfondire l’intreccio tra modernizzazione economica e regressione sociale che caratterizzò il regime di Stalin soprat- tutto negli anni Trenta. È stato scritto di recente da uno di questi storici che lo stalinismo ha dato vita a una sorta di «comunismo tataro», basato su un’«inestricabile intreccio di modernità e arcaismo», dove quest’ultimo era ben rappresentato dal «ritorno alla servitù della gleba (introdotta con la collettivizzazione integrale dell’agricoltura)» e dal «ricorso al lavoro schiavistico (promosso con l’organizzazione e l’estensione dei lager»). 236 In definitiva, la bontà di quelle prime intuizioni è stata dunque confermata da storici che hanno potuto studiare le carte sepolte negli archivi per lunghi decenni. 234. Ammende, Human Life in Russia, p. 148. 235. Werth, La Terreur et le désarroi, pp. 246-264. Per l’analisi dello slittamento della repressione e delle deportazioni da criteri sociali a criteri nazionali, Antonio Ferrara e Nic- colò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 174-181. 236. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 607-608.
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6. A fari spenti nella nebbia. L’URSS di Stalin dietro una cortina di ferro Questo paragrafo è dedicato alla diffusione del discorso antitotalitario nella fila della sinistra internazionale al tempo del Grande terrore. Inizia- mo con il dire che fu possibile conoscere soltanto la «faccia pubblica» di quest’ultimo, cioè i grandi processi che l’apparato staliniano allestì contro i nemici interni del regime. Le nuove forme di terrore, categoriali e preven- tive, scatenate contro grandi masse di persone selezionate su basi sociali e nazionali erano destinate a restare nell’oblio per molto tempo. 237 La quali- fica di totalitario attribuita al regime sovietico ci appare oggi problematica nella misura in cui evoca un tipo di modernità, la quale dovrebbe possedere tra i propri attributi, accanto alla ferocia organizzata degli apparati repres- sivi, un diffuso consenso e un’identificazione di larghe masse con il capo, esattamente ciò che mancava nelle relazioni tra stato e società in URSS negli anni Trenta. Può darsi che la stessa disinformazione sulla dimensione di massa del terrore, destinata a colpire gente che non c’entrava nulla con il regime e il partito, abbia contribuito alla diffusione del discorso antitotali- tario in Occidente. Fissando lo sguardo unicamente sui processi moscoviti, si ebbe in effetti di fronte tutto il campionario del totalitarismo: la manipo- lazione della verità, la giustizia ridotta a propaganda e masse fanatizzate contro imputati, accusati di crimini inventati di sana pianta. Probabilmen- te, se lo sguardo avesse potuto estendersi all’altra dimensione del grande terrore, sarebbe emersa non tanto l’analogia con i regimi di tipo fascisti, ma la peculiarità di un regime che in tempo di pace aggrediva militarmente gruppi estesi dei suoi stessi cittadini per il timore di congiure e sedizioni. Alla luce delle conoscenze che possediamo oggidì, il totalitarismo può essere dunque guardato come uno strumento tutto sommato secondario ai 237. In mancanza di fonti, per lungo tempo, gli storici si sono limitati a guardare il Grande terrore nei termini della distruzione pianificata della vecchia guardia bolscevica cfr. Robert Conquest, The Great Terror: Stalin’s Purge of the Thirties, New York, Macmillan, 1968 [trad. it. Il grande terrore. Gli anni in cui lo stalinismo sterminò milioni di persone, Milano, Rizzoli, 1999]. Werth ha commentato che in questo volume: «in mancanza di fonti, si diceva in definitiva poche cose sulle vittime ordinarie […]». Werth, Repenser la «Grande Terreur», in Id., La Terreur et le desarroi, p. 265. Altrove lo stesso Werth ha scritto: «I pro- cessi di Mosca furono un evento spettacolare d‘eccezione, un richiamo per distrarre l’atten- zione degli osservatori stranieri invitati alla rappresentazione da tutto quello che accadeva intorno; la repressione di massa di tutte le categorie sociali». Werth, Uno stato contro il suo popolo, p. 172. Pr un riferimento generale all’altra faccia del terrore, Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. URSS, 1937-38, Bologna, Il Mulino, 2011.
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fini della comprensione della realtà sovietica degli anni Trenta. 238 Non è però questo il punto che dobbiamo discutere. Essendo questo libro dedicato non al regime sovietico, ma a quella parte della sinistra internazionale che lo osteggiò, il totalitarismo come teoria acquistò proprio in quest’ultimo scorcio degli anni Trenta un rilievo assoluto. Collocando il nazionalsocia- lismo e il comunismo sovietico dentro la stessa sfera semantica, il discorso antitotalitario si mostrò in grado innanzi tutto di smontare la genealogia del regime di Stalin come erede della tradizione rivoluzionaria europea in costante lotta contro le varie forme della reazione controrivoluzionaria; quindi, di ricondurre questo stesso regime a un altro retroterra, quello della Grande guerra, dalla quale aveva ereditato, in modo non dissimile dai regi- mi di tipo fascista, la militarizzazione della politica e la mistica dello stato. Seguiremo in questo paragrafo la diffusione del paradigma totalitario nei gruppi della sinistra internazionale posti di fronte alle notizie sui processi moscoviti. È importante farlo perché il discorso che prese forma allora (e che si consolidò nel 1939 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop) era destinato ad avere un peso enorme più tardi agli albori della guerra fredda. Come vedremo nei prossimi capitoli, la sinistra internazionale ostile a Sta- lin non fu più così tanto minoritaria dopo la Seconda guerra mondiale, ma, grazie allo strumentario antitotalitario che aveva acquisito alla fine degli anni Trenta, si trovò saldamente collocata nel contesto della guerra fredda culturale a guida americana, giocandovi un ruolo di primo piano. Prima di studiare il discorso antitotalitario, iniziamo come sempre a guardare la cosa in sé, ossia la realtà del Grande terrore così come lo co- nosciamo oggi. Grandi trasformazioni erano in corso alla metà degli anni Trenta, come l’espansione del sistema concentrazionario su una scala sem- pre più vasta. Si passò dai quasi 750.000 detenuti del 1935 (cifra registrata in una nota indirizzata da Berman al Consiglio dei commissari del popolo, il 23 gennaio 1935), a 1.800.000 nel 1938. Dietro a questi numeri – che riguardano soltanto i campi e non le colonie e i villaggi che conobbero anch’essi un processo di espansione – stava il fatto che la NKVD era divenuta il più grande produttore d’oro, argento, diamanti, nickel, radio, amianto in URSS e uno dei primi nel settore del rame, del carbone, del 238. Cfr. il capitolo di Andrea Graziosi, Totalitarismo e storia sovietica, in Id., Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 65-91, le cui riflessioni trovano conferma nella riflessione critica di Henri Rousso, Stalinisme et nazisme. Histoire et mémoire comparée, a cura di Henri Rousso, Bruxelles, Complexe, 1999, p. 25.
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legname, nella costruzione di strade, canali, ferrovie e centrali idroelettri- che. Circa l’80% dei lavoratori schiavi veniva sfruttato direttamente dalle imprese della polizia politica, mentre un restante 20% veniva appaltato ad altri ministeri. 239 Nel giro di pochi anni divenne evidente alle autorità sovietiche che il problema del lavoro schiavo era diventato la sua scarsa produttività. Si cercò allora d’istituire un sistema complesso di conteg- gio delle giornate-lavoro che concedesse sconti di pena a quei detenuti i quali, assolvendo i compiti loro attribuiti, si fossero distinti per la qualità del lavoro svolto e per il comportamento mantenuto nella vita sociale del campo. Da questo sistema erano di fatto esclusi coloro i quali erano stati condannati per crimini controrivoluzionari, come si legge in un documento del NKVD del 31 gennaio 1935. 240 Quanto al Grande terrore, oggi sappiamo che la repressione prese la forma di un «terrore preventivo e organizzato per categorie», che per es- sere compreso deve essere collegato alle ondate precedenti: se, nel 1928- 1931, il terrore era stato la risposta al timore che i contadini si opponessero alla sovietizzazione e nel 1932 fu invece connesso alla crisi seguita alla requisizione del grano (prendendo le forme della carestia organizzata), di- versamente nel 1937, il terrore fu espressione della paura del regime che un’aggressione esterna potesse collegarsi con nemici interni. Insomma, quello del 1937 fu un «terrore di sicurezza» scatenato contro le nazionalità diventate una minaccia agli occhi di Stalin pari alla persistente minaccia rappresentata dei kulaki. 241 Proprio perché questi ultimi, giunti alla fine del- le loro condanne, stavano tornando a casa dai territori asiatici dell’URSS, divenne possibile fabbricare l’immagine di un nemico organizzato, pronto ad attentare alla sicurezza dello stato sovietico. 242 Questo fu in definitiva il 239. Goulag, p. 337. La cifra dei quasi 750.000 al gennaio 1935 in Note de Berman, chef du Goulag, au Conseil des commissaires du peuple sur l’exploitation des contingents de détenus des camps de travail correctif du Goulag à la date du 11 janvier 1935, in Gou- lag, pp. 359-360. Le altre cifre in Goulag, p. 337. Più in generale, dal punto di vista delle istituzioni concentrazionarie, la metà del decennio è stata autorevolmente definita come «un periodo di relativa stabilizzazione». Chlevnjuk, Storia del gulag, p. 97. 240. Instruction provisoire sur le décompte des journées-travail concernant les déte- nus des camps et colonies de travail correctif du NKVD de l’URSS (extraits), in Goulag, pp. 354-356. 241. Terry Martin, Una interpretazione contestuale alla luce delle nuove ricerche, in «Storica», 18 (2000), p. 25; p. 31. 242. Il Grande terrore del 1937-1938 fu condotto su basi tanto sociali quanto nazio- nali, fucilando e deportando masse di persone con il retroterra etnico o sociale «sbagliato»
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retroterra dell’ordine 00447, risalente al 30 luglio 1937, che recava il titolo Sulle operazioni per reprimere ex kulaki, criminali e altri elementi antiso- vietici. Alla fine del 1938, la NKVD ebbe giustiziato 386.798 persone in applicazione a questa norma. 243 L’ 11 agosto 1937 fu emanato un altro ordine, lo 00485, che invitava la NKVD a realizzare la «liquidazione totale delle reti di spie dell’Organizza- zione militare polacca». Il carattere nazionale della persecuzione prevalse da subito perché, non esistendo nessuna organizzazione politica polacca, gli apparati di polizia dovettero perseguitare cittadini di origine polacca in quanto tali e associati al cattolicesimo romano. 244 La persecuzione anti- polacca, inizio di una vera e propria torsione nazionale della repressione sovietica, fece da modello per altre operazioni di carattere securitario, che riguardarono lettoni, estoni, finlandesi a decine di migliaia, ritenuti in com- butta con gli stati ai quali facevano riferimento. Nel complesso, tra 1937 e 1938 250.000 cittadini sovietici furono uccisi su base sostanzialmente nazionale. 245 Più in generale, è possibile stabilire un bilancio preciso della repressione del 1937-1938 in URSS: circa un milione e mezzo di persone furono arrestate dalla NKVD, di cui 1.350.000 furono condannate attraver- so una giurisdizione d’eccezione. Di questi, 680.000, condannati a morte, furono fucilati, gli altri condannati a pene tra 8 e 10 anni. 246 Contestualmente, gli stessi campi e i villaggi speciali divennero luo- ghi di sterminio. Furono colpiti trockijsti, socialisti rivoluzionari e membri (kulaki, polacchi, coreani e più avanti durante la guerra ceceni ecc.). Sulla varia tipologia delle deportazioni – con al centro quelle di sicurezza, si veda Terry Martin, An Afferma- tive action Empire: Nations and Nationalism in the Soviet Union 1923-1939, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2001. 243. Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, p. 418. 244. Ivi, pp. 418-419. 245. Per le cifre, Oleg Chlevnjuk, I nuovi dati, in «Storica», pp. 13-21. Vedi anche Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano, Monda- dori, 2011, pp. 136-139. 246. Werth, Repenser la «Grande Terreur», p. 267. Vedi anche Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, pp. 416-426 e Bettanin, Il lungo terrore, pp. 173-190. È del tutto condivi- sibile il giudizio riassuntivo formulato di Hiroaki Kuromiya: «Il terrore contro i cosiddetti politici era infatti una porzione relativamente piccola del terrore inflitto alla popolazione nelle prime decadi del comunismo sovietico». Hiroaki Kuromiya, Communism, Violence and Terror, in Communism, p. 283. Naimark ha sostenuto che dekulakizzazione, carestia, grande terrore e punizioni categoriali di classi sociali ed etnie debbano esse considerati «attacchi genocidari». Norman M. Naimark, Stalin’s Genocides, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2010.
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dei vecchi partiti «borghesi», espandendo la logica delle quote in auge in questo periodo. Delle fucilazioni dei trockijsti nel 1937, a Magadan e nei campi di Vorkuta, se ne parlò in Occidente soltanto molto tempo dopo. 247 La morte fu inflitta anche in altri modi, come mostra la vicenda dei coreani sovietici. Essi furono deportati dall’Estremo Oriente in Kazachstan con l’accusa di essere spie giapponesi. Pak Eji, rappresentante di questi infelici in un villaggio non lontano da Guriev in Kazachstan, scrisse a Molotov il 29 gennaio 1938. Mise a parte il presidente del Consiglio dei commissari del popolo che questo gruppo di persone aveva trascorso un mese intero in treno in condizioni difficilissime. Arrivati in Kazachstan, trovarono «una steppa sabbiosa», dove non era possibile «coltivare quel che sia» e dove la «poca acqua» era «acqua salata». Precisando che la sua comunità era una comunità sedentaria, non nomade come le popolazioni locali, affermò: «ciò che ci attende è morire di fame». 248 Espressione di una brutale politica di messa in sicurezza dei confini, la recisione etnica si affiancò dunque al riproporsi dell’ingegneria sociale dei primi anni Trenta, provocando una mutazione in senso nazional-socialista del regime di Stalin che purtroppo, per le ragioni che abbiamo indicato, non poté essere colta fuori dai confini sovietici. Alcuni dei protagonisti di questo volume presero a definire totalitario il comunismo sovietico con l’obiettivo, più che comprensibile, di squali- ficarlo agli occhi dell’opinione pubblica progressista internazionale, indi- candolo come gemello diverso del nazismo. 249 In assenza di altre evidenze, l’indicazione di questa parentela divenne martellante, proprio perché le 247. Sullo sciopero della fame a Magadan nell’estate del 1936, a cui seguirono le fucilazioni del 1937, Memorial ha pubblicato un testo nel 1993. Del massacro nei campi di Vorkuta trattò un articolo pubblicato sulla «Socialističeskij Vestnik nell’autunno 1961, tradotto in francese l’anno successivo da «Quatrième Internationale» nel dicembre 1962. Per queste informazioni, Grève de faim à Magadan en 1937 (nous haïssons le palais de Staline) e Les trotskystes à Vorkuta, in L’opposition de gauche en URSS, in «Cahiers Léon Trotsky», 53 (1994), pp. 5-20 e pp. 21-31. 248. Lettre de Pak Eji, représentant des déplacés spéciaux coréens du village de Khrokhol (région de Gouriev, RSS du Kazachistan), à Viatcheslav Molotov, président du Conseil des Commissaires du peuple de l’URSS, sur la situation des déplacés spéciaux coréens), in Goulag, p. 259. 249. Per il dibattito sul totalitarismo degli anni Trenta, Abbott Gleason, Totalitariani- sm. The Inner History of the Cold War, New York-Oxford, Oxford University Press, 1995, pp. 31-50; Enzo Traverso, Il Totalitarismo: storia di un dibattito, Milano, B. Mondadori, 2002 e Forti, Il totalitarismo.
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sparute minoranze che l’adottarono erano impegnate a mandare in pezzi la retorica dell’antifascismo ad usum staliniano. Non fu però, se non per qualche testimonianza sporadica, un giudizio che trovasse il conforto di una ricca documentazione. Anzi, come si è già sottolineato, la diffusione del totalitarismo avvenne in contemporanea con la rarefazione sempre più marcata delle informazioni provenienti dall’URSS. Conviene dunque fare un passo indietro per comprendere la formazione del discorso totalitario applicato all’URSS. Nel giugno del 1935, a Parigi, Gaetano Salvemini af- fermò, in un consesso ispirato all’antifascismo prosovietico, che esisteva una contrapposizione radicale tra le democrazie liberali e i regimi di tipo totalitario. La vicenda è nota, ma vale la pena di essere ripercorsa per il suo carattere paradigmatico. Invitato dagli amici di Serge a parlare al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, 250 l’antifascista italiano espresse un giudizio fuori dal coro in un consesso al quale partecipavano scrittori sovietici, e che dunque non contemplava che il regime di Stalin potesse es- sere criticato. Salvemini intervenne pacatamente, basando il proprio ragio- namento sulla distinzione tra democrazie liberali e regimi totalitari. Invitò innanzi tutto a distinguere all’interno della «società borghese» una versione liberal-democratica e una fascista: «C’era una volta – disse – una socie- tà borghese tedesca che consentiva a Heinrich Mann di vivere nel proprio paese. E vi è ora una società borghese tedesca che obbliga Heinrich Mann a vivere in un’altra società borghese, la società borghese francese». La distinzione era importante, costituendo di fatto un invito agli intellettuali ad apprezzare il valore non negoziabile delle libertà civili proprie delle de- mocrazie liberali. Questo fu il punto di attacco contro il regime sovietico: «Non mi sentirei in diritto – proseguì Salvemini – di protestare contro la Gestapo e con l’OVRA fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentra- mento, in Italia ci sono le isole penitenziario e in Russia c’è la Siberia». Così, se la libertà intellettuale era stata soppressa nelle società borghese di tipo fascista, essa era stata «ugualmente soppressa nella Russia sovietica […] È in Russia – affermò Salvemini – che Victor Serge è prigioniero». Per queste ragioni, il fascismo doveva essere considerato un nemico, non 250. Jean-Louis Panne, L’affaire Victor Serge et la gauche française, in «Commu- nisme», 5 (1984), pp. 89-104. Weissman, Victor Serge, pp. 201-212. Vedi anche Michel Winock, Le siècle des intellectuels, Paris, Seuil, pp. 312-322.
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tanto perché espressione della società borghese, «ma in quanto totalitario», dotato cioè di tratti simili a quello sovietico: «l’attuale stato totalitario rus- so» – concluse l’antifascista italiano – non poteva certo essere celebrato come «l’ideale della libertà umana». 251 Il totalitarismo come chiave interpretativa della repressione sovietica fu impiegato da altri antifascisti italiani in esilio, che rifiutavano l’accordo con il comunismo sovietico e le sue propaggini. Nicola Chiaromonte scris- se il 28 giugno sulle pagine di «Giustizia e libertà» che la «giustificazione dell’obbedienza militare», fatta propria dalla delegazione degli scrittori sovietici al congresso, costituiva una prova ulteriore della somiglianza tra comunismo sovietico e fascismo. A questa data, alcune distanze all’interno del mondo antifascista italiano erano state prese. 252 Vicino a Chiaromonte, Andrea Caffi collaborò a «Politica socialista», la rivista che Angelo Tasca diresse a Parigi nel 1934-1935. Nell’aprile 1935, dunque prima del con- gresso degli scrittori, Caffi definì l’URSS uno «stato totalitario della spe- cie più mostruosa», impostando una riflessione politica che si allontanava a gran passi da quella di Carlo Rosselli. 253 Come mostra d’altra parte il carteggio di quest’ultimo con Salvemini, l’ideale politico dell’antifascista fiorentino era diventato quello della «rivoluzione russa portata in Occiden- te, con tutta l’eredità dell’Occidente». 254 La distanza maturata all’interno di Giustizia e Libertà sul problema sovietico era significativa del peso che la lotta contro il nazionalsocialismo tedesco aveva assunto tra le fila non soltanto del movimento di opposizione degli esuli italiani, ma più in gene- rale della sinistra internazionale. 255 Al di là di queste diatribe, comunque, 251. Intervento al I Congresso degli scrittori per la difesa della cultura (Parigi, 21- 25 giugno 1935), in Antifascismo e antitotalitarismo. Critici italiani del totalitarismo negli anni Trenta, a cura di Santi Fedele, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 37-40. Ancora significativo è il saggio di Roberto Vivarelli, Parigi 1935. L’intervento di Gaetano Salvemi- ni al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, in «Rivista storica italiana», 3 (1977), pp. 640-649. 252. Luciano (Nicola Chiaromonte), Il Congresso internazionale degli scrittori, II, L’umanismo, in «Giustizia e libertà», 28 giugno 1935. Sulla figura di Chiaromonte, Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia, Roma, Donzelli, 2017. 253. Citato in Bresciani, La rivoluzione perduta, p. 187. 254. Fra le righe. Carteggio tra Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini, a cura di Elisa Signori, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 257. 255. Marco Bresciani ha scritto per gli anni immediatamente successivi che, nono- stante «riserve anche radicali verso la dittatura di Stalin, i giellisti non potevano non saldare il loro progetto di azione antifascista rivoluzionaria (che prevedesse o meno un rapporto
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Serge venne liberato nella primavera del 1936 come prova della volontà di collaborazione di Stalin con il governo francese. L’espressione totalitarismo possedeva dunque una forte carica polemi- ca: collocare Stalin e Hitler nello stesso quadro significava compiere un’a- zione di disturbo nei confronti di coloro i quali lavoravano alla costruzione di un paradigma antifascista unitario. Non a caso si fece sotto anche Trockij, convinto di poter rivolgere strumentalmente l’accusa di totalitarismo contro Stalin. Era – lo vedremo – un uso tutto calato nella lotta politica: totalita- rio infatti gli appariva il regime di Stalin, non le strutture portanti dello stato sorto con la Rivoluzione d’ottobre. Era questo un ragionamento fragile, e in fondo contradditorio, che il vecchio rivoluzionario utilizzò come sirena per attrarre a sé il vario mondo della sinistra antistalinista, sperando di portarlo così sulle sue posizioni. Le nuove testimonianze che egli poté raccogliere alla metà del decennio sembrarono inizialmente dargli ragione. Le informa- zioni ricevute da Serge, con il quale strinse rapporti di stima e collaborazio- ne, furono importantissime, non fosse altro perché era stato quest’ultimo a definire tra i primi il regime sovietico come regime totalitario. Trockij entrò inoltre in contatto con altri prigionieri di Stalin, i quali, per varie strade, era- no riusciti a lasciarsi alle spalle l’universo concentrazionario sovietico. Nell’ottobre 1935, «The New Militant», settimanale del Socialist Wor- kers’ Party, pubblicò la testimonianza di Tarov, membro dell’opposizione di sinistra riuscito a fuggire dall’URSS dopo una vicenda complicata. Ar- restato e deportato in Siberia nel 1927, nel 1933 egli aveva deciso di ca- pitolare, mettendosi a disposizione di Stalin per la lotta contro il fascismo internazionale. In strada verso Mosca dal suo luogo di esilio, Tarov però abbandonò questo proposito, raggiungendo clandestinamente l’Iran, dove ebbe i primi contatti con il movimento trockijsta. Successivamente arrivò in Francia. Descrisse nel suo articolo «gli abomini perpetrati nelle prigioni sovietiche sotto il regime degli usurpatori», non limitandosi peraltro alla condizione dei prigionieri politici. Denunciò infatti i maltrattamenti inflitti a donne contadine e ai loro figli, che erano stati deportati in Siberia. 256 In un commento a questa testimonianza, Trockij giudicò una «pura follia» continuare a ragionare – come lui stesso aveva fatto negli anni preceden- formale con i comunisti) con l’apertura di credito verso l’intervento sovietico». Marco Bre- sciani, Quale antifascismo? Storia dei Giustizia e Libertà, Roma, Carocci, 2017, p. 29. 256. Tarov Reveals Torture of Real Bolsheviksin Stalin’s Prisons (4 August 1935), in «The New Militant», 19 ottobre 1935, pp. 1-3.
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ti – in termini di «riforma» e di «rigenerazione» del partito comunista sovietico: era giunta l’ora di una rivoluzione politica che spazzasse via la casta burocratica, formatasi attorno a Stalin, ridando così vitalità al proget- to sovietico di emancipazione di grandi masse umane. 257 Un grande affidamento fu fatto da Trockij sulla testimonianza di Ante Ciliga. Comunista di origine croata inghiottito dal sistema concentraziona- rio sovietico nel 1930, riuscì a uscirne alla fine del 1935 grazie alla citta- dinanza italiana. 258 Ciliga conobbe le prigioni di Leningrado, Čeljabinsk, Verchneural’sk e luoghi di confino in Siberia quali Krasnojarsk e Enisejsk. Sin dal suo arrivo in Occidente, si batté per la verità sui campi sovietici. Dopo esser entrato in contatto con Trockij, scrisse della sua esperienza sul «Bjulleten’ oppozicii» in articoli che sarebbero successivamente confluiti nella sua grande opera uscita nel 1938, Au pays du Grande Mensonge. 259 Essi comparvero in inglese anche su «The New Militant». In uno di essi, uscito il 25 gennaio 1936, Ciliga presentò questo quadro: Il nuovo e più spaventoso flagello per i perseguitati politici in Russia è il campo di concentramento. Ci sono molti campi di concentramento in Russia, in ogni regione e di varia importanza. I nuovi Faraoni [carcerieri, NdR] in questi luoghi «educano» centinaia di migliaia di operai e contadini e decine di migliaia di criminali, ricevendo in cambio lavoro gratuito. Le contadine e le criminali che sono tra loro sono condannate a «servire» gli uomini e sono messe in condizione di prostituzione praticamente forzata. 260
Affreschi di questo tipo ebbero una forte influenza su Trockij, il quale nel maggio 1936 scrisse per la Associated Press un comunicato nel quale era 257. Lev Trockij, The Terror of bureaucratic self-preservation, in «The New Mili- tant», 2 novembre 1935, adesso in Writings of Leon Trotsky [1935-1936], a cura di Naomi Allen e George Breitman, New York, Pathfinder Press, 1977, p. 119. 258. Stephen Schwartz, Ante Ciliga (1898-1992). A Life at History’s Crossroads, in «Journal of Croatian Studies», 34/35 (1993/1994), pp. 181-206. 259. Su Ciliga, si veda la documentata introduzione di Paolo Sensini, Un secolo di contestazione: il Novecento di Ante Ciliga, in Ante Ciliga, Nel paese della grande menzo- gna. URSS 1926-1935, a cura di Paolo Sensini, Milano, Jaca Book, 2007, pp. XI-LXVIII; e Philippe Bourrinet, Ante Ciliga 1899-1992. Nationalisme et communisme dans les Balkans, Paris, éditions motu proprio, 2015. 260. Ante Ciliga, Jugoslav Communist Escapes From Siberia; Bares Anti-Bolshevik Terror of Stalin, in «The New Militant», 25 gennaio 1936, pp. 1-3. E in seguito Ante Ciliga, In Stalin’s Prisons. Dr. Ciliga Continues Series on Persecution of Revolutionists Under the Stalin Regime (1936), in «The New Militant», 18 aprile 1936, pp. 1-3.
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detto che in URSS «i campi si trovano adesso su tutta la periferia del paese e rappresentano una copia delle istituzioni della Germania hitleriana». 261 Al di là del fatto che erano i campi nazisti a costituire una copia di quelli so- vietici, e non il contrario, il confronto con la Germania nazista era oramai ben presente nella mente del vecchio rivoluzionario. Questo confronto tornò qualche mese dopo ne La rivoluzione tradita, nella quale si legge che lo stato sovietico, uscito dalla traiettoria disegnata dalla Rivoluzione d’ottobre, aveva assunto oramai «un aspetto burocratico e totalitario». Soltanto una rivoluzione di carattere politico avrebbe potuto eliminarlo. 262 La luna di miele con Ciliga durò assai poco, dal momento che questo riteneva che il suo compito non fosse tanto di dare un contributo docu- mentario alle idee di Trockij, quanto di serrare le fila di tutta la sinistra antistalinista sul terreno della lotta contro i campi nel nome di un sociali- smo dal volto umano. Con queste premesse, Ciliga accettò di collaborare con la «Socialističeskij Vestnik» menscevica, facendo indispettire Tro- ckij, il quale mostrò subito una forte contrarietà verso questo tipo di col- laborazioni. 263 Il vecchio rivoluzionario inviò nel giugno 1936 due lettere a Victor Serge, di recente giunto a Bruxelles dopo la liberazione. Esse mostrano un rigido settarismo. Nella prima lettera, Ciliga venne definito un ex rivoluzionario avviato verso una deriva liberaleggiante. La decisio- ne di collaborare con i menscevichi fu bollata come un «atto stupido». 264 Nella seconda, Trockij affermò che qualora egli avesse dovuto scegliere tra menscevichi e stalinisti, avrebbe senza esitazioni scelto i secondi, dal momento che i primi «non sono buoni che a servire da marciapiede la borghesia». 265 261. Adesso in Victor Serge et Léon Trotsky, La lutte contre le stalinisme, Textes 1936-1939 présentés par Michel Dreyfus, Paris, Francois Maspero, 1977, p. 70. 262. Scrisse che: «Della democrazia di partito non restano che dei ricordi nella me- moria della vecchia generazione. Con essa, è svanita anche la democrazia nei soviet, nei sindacati, nelle cooperative e nelle organizzazioni sportive e culturali. Su tutto e su tutti domina una gerarchia di segretari. Il regime aveva acquistato un carattere totalitario molti anni prima che la parola venisse dalla Germania». Lev Trotskij, La rivoluzione tradita, Milano, AC editoriale Coop, 2007, p. 167. 263. Liebich, From the Other Shore, p. 227. Si veda anche Michael S. Fox, Ante Ci- liga, Trotskii, and State Capitalism: Theory, Tactics, and Re-Evaluation during the Purge Era, 1935-1939, in «Slavic Review», 1 (1991), pp. 127-143. 264. Writings of Leon Trotsky. Suppplement [1934-1940], a cura di George Breitman, New York, Pathfinder Press, 1979, p. 670. 265. Serge e Trotsky, La lutte contre le stalinisme, p. 86.
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Queste rigidità erano destinate a provocare la rottura con lo stesso Ser- ge, che avvenne più tardi nel 1938 in margine al dibattito sulla repressione dell’insurrezione di Kronstadt del 1921. 266 Per adesso, la collaborazione tra i due continuò sul terreno della denuncia del totalitarismo e del sistema concentrazionario sovietico. Serge era molto impegnato su questi temi. Nel giugno 1936, scrisse ad André Gide, il quale era in procinto di partire alla volta di Mosca, per ringraziarlo dell’imparzialità mostrata in veste di pre- sidente del congresso degli scrittori del 1935. Gide aveva infatti permesso a Magdaleine Paz e agli altri suoi amici di intervenire a suo favore. 267 Serge colse l’occasione per avvertire Gide che il terrore a Mosca era oramai ri- preso con arresti e deportazioni, mentre si assisteva al «sovrappopolamen- to dei campi di concentramento che sono senza dubbio i più vasti di tutto il mondo». E l’esistenza dei campi di concentramento era la chiave che Serge scelse per contestare gli assunti dell’antifascismo pro-sovietico. Come era possibile – domandò al suo interlocutore – sbarrare la strada al fascismo «con così tanti campi di concentramento alle nostre spalle?». 268 Il fatto che fascismo e comunismo sovietico si assomigliassero sempre di più, producendo sul terreno dell’azione pubblica antifascista dei silenzi sempre più imbarazzati, era sotto gli occhi di tutti. Occorre ribadire però che l’uso del termine totalitarismo, fattone dal movimento trockijsta e da figure come Serge fino al 1938, era molto limitato dal punto di vista concet- tuale. Questi militanti della sinistra antistalinista non volevano rinunciare 266. Sull’evoluzione di questi rapporti vedi anche Weissman, Victor Serge, pp. 244-249. 267. Stephen Steele e Anne-Françoise Steele, La correspondance André Gide – Vic- tor Serge: Voix d’opposition et d’exil, in «Bulletin des Amis d’ André Gide», 161 (2009), pp. 51-94. 268. Deux Lettres de Victor Serge, in «Esprit», 45 (1936), pp. 439-440. A giudicare dalla prima versione di Retour de l’U.R.S.S., idee come quelle esposte da Serge dovettero in qualche modo ispirare Gide, come si comprende dal passaggio del suo libro in cui venne avanzato il dubbio che al mondo esistesse «un paese, al di fuori della Germania di Hitler, in cui lo spirito sia meno libero, più piegato e impaurito (terrorizzato) che in Unione so- vietica». Nei Retouches à mon retour de l’U.R.S.S., nel quale Gide approfondì la critica del regime di Stalin parlando dei campi di lavoro, il nome di Serge fu fatto esplicitamente, collocato accanto ad altri. André Gide, Retour de l’U.R.S.S., Paris, Gallimard, 1936 [trad. it. Ritorno dall’URSS. Novembre 1936, Roma, Samona e Savelli, 1969], e Id., Retouches à mon retour de l’U.R.S.S., Paris, Gallimard, 1937. Bellissimo il ritratto che Serge fece di Gide nei suoi diari: «Ne traggo l’impressione di un uomo estremamente scrupoloso, tormentato nel profondo, che voleva servire una grande causa – e non sa più come fare». Victor Serge, Carnets, Paris, Julliard, 1952, p. 12.
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all’idea che la Rivoluzione d’ottobre era stata l’inizio di una grande storia di emancipazione umana e che dunque la relazione storica tra il regime di Lenin e quello di Stalin non poteva essere improntata altro che a una radi- cale discontinuità. Con queste premesse, la categoria di totalitarismo venne usata in modo del tutto esteriore, quasi che il regime di Stalin costituisse un’escrescenza politica, una degenerazione prodotta da un «tradimento», attribuito allo stesso tiranno e alla burocrazia al potere. Così inteso, era evi- dente che il totalitarismo rischiava di ridursi a poca cosa dal punto di vista interpretativo. Persino giudizi espressi molto tempo prima, come quello di Martov nel 1919, sembrarono cogliere più profondamente la natura del re- gime sovietico, il quale affondava le sue radici non già nel «tradimento» di qualcuno, ma nelle pratiche e nella psicologia della Grande guerra, avendo in aggiunta riportato in auge una tradizione autoritaria specificatamente russa. La pubblicistica degli anni Trenta (si pensi soltanto a Chamberlin e a Souvarine) non aveva dimenticato questa lezione. Spettò ad altri, liberi dall’urgenza di difendere l’eredità dell’ottobre rosso, di gettare lo sguardo più in profondità. Luigi Sturzo, democratico d’ispirazione cristiana, ex leader del Partito popolare italiano costretto all’esilio dalla dittatura fascista, offrì una definizione di grande chiarezza dello stato totalitario. Conscio della natura regressiva del fenomeno che stava osservando, scrisse che il nome è «di recente coniazione, ma il […] significato rimanda agli imperi assiri e babilonesi». In questo saggio, pub- blicato su «Social Research» nel maggio del 1936, affermò che: Il funzionamento di questo potere centrale, assoluto, illimitato e personale, è necessariamente legato alla soppressione non solo di tutte le autonomie, ma anche delle libertà civili e politiche, del diritto di habeas corpus e della libertà di organizzazione, individuale e collettiva; a una polizia politica e a un immenso sistema di spionaggio, che nemmeno Napoleone possedeva; a repressioni violente e sanguinose; alla distruzione degli oppositori e dei dis- sidenti; al rifiuto di tollerare qualsiasi mancanza di conformità politica, sia in patria che all’estero. 269 269. Luigi Sturzo, The Totalitarian State, in «Social Research», 2 (1936), p. 231. Sturzo illustrò altre caratteristiche del totalitarismo, che in un certo senso costituivano ai suoi occhi l’infrastruttura di una idolatria moderna: la militarizzazione della società, il mo- nopolio dell’istruzione, la distruzione delle autonomie a partire da quelle sindacali. Si veda il saggio Luc Pouthier, Luigi Sturzo et la critique de l’État totalitaire, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», 21 (1989), pp. 83-89. Di Sturzo critico del totalitarismo parla Traverso, Il totalitarismo, pp. 42-43.
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Sturzo pubblicò questo articolo poco prima dell’avvio della stagione dei grandi processi moscoviti, il primo dei quali si celebrò nell’agosto, avendo come imputati Kamenev, Zinov’ev e altri quattordici esponenti del bolscevismo, accusati di attività controrivoluzionaria e terrorismo. Del to- talitarismo questo processo, come i successivi, possedeva caratteristiche destinate ad alimentare un’intensa produzione libraria: le torture psicolo- giche e fisiche degli imputati, l’assenza di garanzie durante il processo, il coinvolgimento di un pubblico fanatizzato durante le udienze, la manipola- zione delle prove da parte dell’accusa e infine le incredibili confessioni da parte degli imputati. Limitandosi a un esempio, Zinov’ev confessò di aver organizzato l’assassinio di Kirov, di aver progettato l’eliminazione di Sta- lin e di aver stretto alleanza con Trockij per scopi terroristici. 270 Ora, prima di indagare nel concreto come la stagione dei processi impattò sulla sini- stra internazionale all’epoca dei Fronti popolari, dobbiamo svolgere alcune considerazioni. La prima è che l’illegalità patente dei processi del 1936-38 non fece che aumentare il numero di coloro i quali parlarono di totalita- rismo a proposito del regime sovietico. La seconda è che, così facendo, essi sovrapposero completamente l’immagine di questo regime a quello nazionalsocialista. Si dimenticò di conseguenza che si era di fronte a realtà assai diverse. Noi sappiamo infatti che la violenza politica del nazionalso- cialismo, con i suoi campi di concentramento per gli oppositori e l’avvio di politiche discriminatorie verso gli ebrei, non era paragonabile alla brutale aggressione dello stato sovietico nei confronti della società e che soltanto l’avvio della costruzione imperiale hitleriana, a partire dal 1938, avrebbe guadagnato giustamente al nazismo la qualifica di male assoluto. 271 Nel mondo socialista internazionale il primato dell’opposizione fa- scismo-antifascismo sul discorso antitotalitario costituì fino all’estate del 1936 la griglia per comprendere eventi di portata internazionale quali la militarizzazione nazista della Renania nel marzo, la pubblicazione della costituzione sovietica sulla «Pravda» nel giugno, la formazione del gover- no presieduto da Léon Blum in Francia, ancora nel giugno, fino all’insor- genza franchista in Spagna nel luglio. L’avvio a Mosca del «processo dei sedici» in agosto però cambiò le carte in tavola, spingendo i vertici stessi del socialismo internazionale a riconsiderare il discorso su Stalin e il suo 270. Cinnella, La Russia di Stalin, p. 570. 271. Sulla costruzione imperiale hitleriana, Mark Mazower, L’impero di Hitler. Come i nazisti governavano l’Europa occupata, Milano, Mondadori, 2010.
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regime. Adesso, una parte di quei vertici ruppe gli indugi, non lesinando confronti con i regimi fascisti e parlando pertanto apertamente di totali- tarismo. Ricevute notizie sull’apertura del processo, si cercò in qualche modo di intervenire. De Brouckére e Adler, rispettivamente presidente e segretario della LSI, Walter Citrine e Walter Schenevels, rispettivamente presidente e segretario della IFTU, chiesero ufficialmente il rispetto delle garanzie processuali quali l’indipendenza degli avvocati e il diritto di ap- pello per gli imputati. Si richiese inoltre di escludere la pena di morte. Sul «Daily Herald» del 27 agosto 1936, Citrine, le cui posizioni anti- sovietiche risalivano agli anni Venti, scrisse che la «Russia, come altre dit- tature», era governata da un «pugno di uomini», senza che le masse aves- sero una qualche voce in capitolo. Sullo stesso giornale, si poteva leggere a proposito del processo moscovita che «il governo sovietico ha commesso un atto di terrorismo degno dei massimi risultati ottenuti dal fascismo». 272 L’analogia tra regimi tirannici fu una costante della riflessione di Citrine, il quale, nel volume pubblicato di ritorno da un viaggio in URSS, ricalcan- do il ragionamento di Salvemini, si domandò: «Qual è la differenza tra la OGPU russa, la Gestapo tedesca e l’OVRA italiana?». 273 Si tenga presente che le idee di Citrine erano collegate a una strategia sindacale internazio- nale, mirata ad impedire che la IFTU scivolasse, come già il sindacalismo francese, verso formule frontiste di collaborazione con i sindacati sovietici, ben sapendo che ciò avrebbe impedito quell’avvicinamento progressivo della AFL, da tempo il suo obiettivo più importante. Il ritorno della AFL nelle file dell’IFTU nel 1937 di fatto determinò il fallimento della delega- zione che a Mosca cercò di realizzare la strategia opposta, ossia favorire l’entrata dei sindacati sovietici. Non più tardi del maggio 1938, questa pro- spettiva era tramontata. 274 272. Paul Corthorn, In the Shadow of Dictators. The British Left in the 1930s, Lon- don, I.B. Tauris, 2012, pp. 99-100. 273. Scrisse: «Mi sono chiare le differenze di scopo tra la dittatura della Russia so- vietica e quella dei Paesi fascisti. Ma i metodi impiegati sono in gran parte gli stessi. Tutti hanno la loro polizia segreta e ricorrono all’arresto e all’incarcerazione arbitrari. Qual è la differenza in questo senso tra l’OGPU russo, la Gestapo tedesca e l’OVRA italiana? Sono tutti dotati di ampi poteri di arresto e detenzione. Anche la Russia ha soppresso ogni opposi- zione politica. La libertà di parola, la libertà di stampa e di riunione pubblica sono negate a tutti tranne che al partito comunista». Walter Citrine, I Search for Truth in Russia, London, G. Routledge & sons, 1936, p. 286. 274. Van Goethem, The Amsterdam International.
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I vertici del socialismo internazionale non ricevettero risposte da Mo- sca, bensì dagli amici occidentali di Mosca. Uomini di diritto britannici e statunitensi quali Joseph Edelman, Dudley Collard e Robert Lazarus ga- rantirono che il processo era «perfettamente equo» e che le «connessioni tra gli accusati e la polizia segreta tedesca» erano ben dimostrate. 275 Una spaccatura profonda si determinò dunque nel mondo socialista e progressi- sta proprio nel momento in cui l’unità antifascista appariva più necessaria. Il celebre pamphlet che Adler dedicò ai processi staliniani come caccia alle streghe fu occasionato da questo scontro tutto interno al mondo progressi- sta internazionale. 276 Nel frattempo, tra dicembre 1936 e gennaio 1937, la «Socialističeskij Vestnik» pubblicò a Parigi una Lettera di un vecchio bol- scevico, nella quale era raccontato lo scontro di potere dai tempi della piat- taforma Rjutin nel 1932 fino al processo di Zinov’ev e Kamenev dell’esta- te del 1936, passando per l’assassinio di Kirov. Emerse l’immagine di un mondo chiuso, brutalmente avviato a una resa dei conti voluta da Stalin. 277 Un contributo critico importante provenne anche dalle file del tro- ckijsmo internazionale, come è comprensibile visto che Trockij era accusa- to di tenere le file della cospirazione antisovietica. Dal suo esilio norvegese Trockij dette battaglia con i mezzi che aveva a disposizione. Nell’ottobre 1936, i suoi avvocati scrissero una lettera indirizzata alla Società delle Na- zioni, la quale aveva nominato una commissione di giuristi per istituire un tribunale contro il terrorismo: se i governi – si legge in questa lettera – do- vevano essere protetti giuridicamente dal terrorismo internazionale, anche gli individui, oggetto di «false accuse» di terrorismo per «ragioni puramen- 275. Citrine scrisse a Adler il 26 agosto 1936 di non sapere chi fossero «questi uomi- ni», ma soprattutto che il loro «telegramma non ha alterato la mia opinione». La lettera è conservata in International Institute of Social History (Amsterdam), Labour and Socialist International Archives, Rußland – Dossiers und Dokumente –, 2620, Dokumente zur Stel- lungnahme zu den Prozessen in Großbritannien. 123 Bl. NB. Enthält Korrespondenz von D. Collard, W. Citrine, D.N. Pritt, Artikel im Forward (Glasgow), The New Statesman and Nation und News Bulletin No. 2, Ausgabe des Anglo-Russian Parliamentary Committee. 276. Friedrich Adler, The Witchcraft Trial in Moscow, London, Labour Publications Department, 1936. 277. Molti anni dopo, il periodico menscevico rivelò che la «lettera» era stata com- posta da Boris Nikolaevskij in seguito a una conversazione avuta con Bucharin, giunto a Parigi come membro di una delegazione archivistica sovietica. Si è a lungo discusso della veridicità di questa rivelazione cfr. Robert C. Tucker, On the «Letter of an Old Bolshevik» as an Historical Document, in «Slavic Review», 4 (1992), pp. 782-785; Liebich, From the Other Shore, pp. 232-235.
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te politiche», dovevano essere difesi. 278 Trockij si occupò di persona delle falsità sovietiche, a cui una parte considerevole dell’opinione pubblica oc- cidentale credeva ciecamente. A Parigi, una commissione, nominata dalla Ligue des droits de l’Homme, certificò la correttezza del primo proces- so moscovita. L’autore del Report, Raymond Rosenmark, fu accusato da Trockij di «tartuffismo». Degli altri membri della commissione il vecchio rivoluzionario ebbe a dire: «si affidano soltanto ai testi documentari del- la GPU, vale a dire agli organizzatori dell’assassinio giuridico». 279 Nello stesso periodo, un dirigente statunitense del movimento trockijsta, Max Schachtman, scrisse un pamphlet che smontò pezzo per pezzo le assurde accuse rivolte a Trockij. La realtà era invece che Stalin e i suoi avevano operato sulla falsariga della «purga sanguinosa condotta da Hitler e Göring in quella notte fatale del 30 giugno 1934 […]». 280 E la focalizzazione sullo sterminio degli oppositori fu caratteristica del Livre Rouge di Lev Sedov, il quale colse che, al di là dei processi, si stava preparando il definitivo ster- minio degli oppositori di sinistra: per loro, «non c’è il campo di concentra- mento né la prigione che li minacciano, ma la fucilazione immediata». 281 Un’osservazione importantissima, destinata a rivelarsi profetica. Il «momento anti-totalitario» della sinistra internazionale, favorito dall’avvio della stagione dei processi a Mosca, si consolidò rapidamente, come possiamo osservare in una moltitudine di scritti di autori antistalinisti in Europa e negli Stati Uniti. Giornalista statunitense di simpatie radicali, Eugene Lyons era stato autore di un volume su Sacco e Vanzetti. Lavorò per la Tass negli Stati Uniti e più tardi tra 1928 e 1934 per la United Press a Mosca. 282 La sua disillusione, frutto di ciò che aveva potuto osserva- re, lo portò a pubblicare nel 1937 Assignment in Utopia contribuendo a diffondere, nel contesto delle grandi purghe staliniane, una determinata immagine dell’URSS. Ricordò di essere partito per Mosca convinto che vi fossero al mondo «dittature buone e dittature cattive», ma di essere tor- nato negli Stati uniti con un’altra convinzione, cioè che «la difesa di una 278. Writings of Leon Trotsky [1934-1935], a cura di George Breitman e Bev Scott, New York, Pathfinder Press, 1974, p. 443. 279. Ivi, p. 489. 280. Max Schachtman, Behind the Moscow Trial, New York, Pioneer Publishers, 1936. 281. Léon Sedov, Le Livre rouge du procès de Moscou, Paris, éditions Populaires, 1936. 282. Su Lyons, Engerman, Modernization from the Other Shore, pp. 203-204.
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dittatura rappresenta in realtà la difesa di una tirannia». Lyons fu spinto dalle proprie esperienze a guardare indietro nel tempo, al «collasso mora- le» provocato dalla Grande guerra, retroterra dello «socialismo di stato» al quale si ispiravano anche le tirannie di destra, come quelle di Mussolini e Hitler. 283 Erano osservazioni preziose che trovarono un riscontro molto importante nel celebre scritto che nel 1938 Élie Halévy dedicò all’era delle tirannie, il cui retroterra in termini di «statizzazione» e di «organizzazione dell’entusiasmo» era appunto rinvenuto nella Grande guerra. 284 Durante lo stesso 1938 uscì un volume di Nitti, che possiamo considerare un altro classico, per la verità spesso dimenticato, della critica dei «sistemi tota- litari». Essi erano intesi dall’autore italiano come una miscela di partito unico al potere, divinizzazione del capo, controllo sistematico dei mezzi di informazione e comunicazione culturale, subordinazione di tutte le attività economiche e culturali, irreggimentazione dell’educazione e costruzione di miti palingenetici. 285 La stagione dei processi di Mosca aprì una nuova frattura anche nella cultura di sinistra statunitense. John Dewey, il grande filosofo del pragma- tismo, era stato un ammiratore degli sforzi sovietici di riorganizzare la so- cietà attraverso l’educazione e la scuola. 286 Quando tuttavia si ebbe notizia dell’avvio del «processo dei sedici», egli inviò una lettera aperta al Natio- nal Committee for the Defense of Political Prisoners affinché quest’ultima prendesse posizione contro questa patente negazione dei diritti civili. Il se- gretario del Comitato, Alfred Hirsch, rispose lapidariamente che gli impu- tati non avevano diritto a una difesa legale, mentre John Howard Lawson, uno scrittore comunista, dichiarò che il processo costituiva una «procedura ammirevole e necessaria». 287 L’impegno antistalinista di Dewey culminò nella decisione di accettare l’invito a presiedere la commissione che nell’a-
283. Eugene Lyons, Assignment in Utopia, New York, Harcourt Brace & Co, p. 621. 284. Élie Halévy, L’ère des tyrannies. Études sur le socialisme et la guerre, Paris, Gallimard, 1938. Vedi anche Halévy et L’ère des tyrannies. Histoire, philosophie et politi- que au XXe siècle, Paris, Les Belles Lettres, 2019. 285. Francesco Saverio Nitti, La déségrégation de l’Europe, Paris, Spes, 1938. 286. Engerman, From the Other Shore, pp. 176-177. E dello stesso autore John Dewey and the Soviet Union: Pragmatism Meets Revolution, in «Modern Intellectual History», 1 (2006), pp. 33-63. 287. Gary B. Bullet, The Committee for Cultural Freedom and the Roots of Mc- Carthyism, in «Education and Culture», 2 (2013), p. 27.
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prile 1937 ascoltò la versione di Trockij a Città del Messico. 288 Nel corso dello stesso anno, Trockij pubblicò Les crimes de Staline, curato e tradotto da Serge. 289 Emergendo la verità circa le improbabili responsabilità di Trockij nelle congiure antisovietiche, le fratture nella sinistra internazionale giunsero al punto di spingere Stalin sulla strada dell’assassinio politico anche fuori dai confini sovietici. In una seconda lettera alla Società delle Nazioni, risalente al 31 marzo 1938, Trockij si dichiarò pronto a sottomettersi al giudizio di un tribunale internazionale, con l’obiettivo di «trasformare i miei accusato- ri in accusati». 290 Infatti, nel frattempo «atti terroristici veri e propri» erano stati commessi dal regime di Stalin. Poche settimane prima, era morto il figlio di Trockij, Lev Sedov, probabilmente per mano della polizia politica sovietica. Ma la lista era oramai diventata lunga con i nomi di militanti di sinistra rapiti e uccisi, perlopiù in Spagna, dove infuriava non soltanto una guerra civile tra fascismo e antifascismo, ma anche una guerra senza quartiere tra due sinistre: Erwin Wolf, Kurt Landau, Mark Rein, Rudolf Klement e naturalmente Andreu Nin furono i nomi ricordati da Trockij, il quale menzionò anche Ignatij Rajss, agente sovietico che aveva rotto con Mosca, ed era stato ucciso a Losanna nel settembre 1937. In questa guerra tra due sinistre, perse la vita anche Camillo Berneri, l’anarchico italiano che aveva criticato su «Guerra di classe» i metodi stalinisti in Spagna. Nello stesso periodo, intellettuali e giornalisti statunitensi continua- rono a discutere dell’analogia tra nazionalsocialismo e regime staliniano, mostrando di non credere minimamente alla costruzione scenica dei pro- cessi moscoviti, allestita dagli apparati sovietici. Nel gennaio del 1937 si svolse il secondo processo, che decise questa volta il destino di Pjatakov, 288. Molto interessante la vicenda del comitato di difesa a favore di Trockij, che fornì la base operativa del controprocesso messicano. Si veda a tal proposito G. R., Une thèse magistrale: Contre-procès de Thomas R. Poole, in «Cahiers Léon Trotsky», numero spe- ciale Les procès de Moscou dans le monde, 3 (1979), pp. 17-31. Per gli atti del «processo» messicano vedi The Case of Leon Trotsky. Report of Hearings on the Charges Made Against Him in the Moscow Trials, Preliminary Commission of Inquiry into the Charges Made Against Trotzky in the Moscow Trials (Held April 10 to 17, 1937 at Avenida Londres, Co- yocan, Mexico), New York, Harper, 1937. Più recentemente è stato pubblicato un numero speciale dedicato Autour de la Commission Dewey, in «Cahiers Léon Trotsky», 42 (1990). 289. Léon Trotsky, Les crimes de Staline, Paris, Grasset, 1937. 290. Writings of Leon Trotsky [1937-38], a cura di Naomi Allen e George Breitman, New York, Pathfinder Press, 1976, p. 312.
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Radek, Muralov, Sokol’nikov e altri imputati. 291 È interessante notare che questo momento coincise con l’esordio della riflessione sul totalitarismo destinata a diventare il mainstream intellettuale durante la guerra fredda. Il nome di Carl Friedrich costituisce una garanzia da questo punto di vista. Divenuto da poco tempo Professor of Government ad Harvard, egli illu- strò infatti in uno studio dal titolo Constitutional Government and Politics il nesso esistente tra repressione e mobilitazione psicologica delle masse nei regimi dittatoriali degli anni Trenta, ossia la «distruzione di tutte le garanzie costituzionali» realizzata «nel nome di Sua Maestà il Popolo». 292 Erano parole ben calibrate, che si adattavano al clima tragico e farsesco dei processi di Mosca in corso, ma che guardavano anche in avanti verso una teoria politica complessiva. Nello stesso 1937 uscì A False Utopia di Chamberlin, il quale scrisse che la grande questione del Novecento era di- ventata la «contrapposizione tra democrazia e dittatura». 293 È interessante che uno studioso che aveva così sottilmente tracciato la specificità concreta della traiettoria dello stato sovietico, sentisse in quel momento l’esigenza di costruire analogie e contrapposizioni di tipo teorico. Nell’ambito della cultura socialista statunitense, «New Leader» raf- forzò la sua posizione contraria alla collaborazione con i comunisti, ospi- tando le riflessioni di Kautsky: come si poteva – si domandò quest’ulti- mo – consolidare un fronte unito con i sostenitori della variante di sinistra del dispotismo moderno, cioè il regime sovietico? Quali erano le differenze sostanziali rispetto alla variante di destra di questo dispotismo? 294 La do- manda era evidentemente retorica. D’altronde, sul terreno dell’antitotalita- rismo si produssero avvicinamenti inaspettati. Nel febbraio 1937, Kautsky ricevette una lettera da parte di Serge, nella quale erano avanzate idee per una convergenza delle diverse componenti della sinistra internazionale. E 291. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 573-574. 292. Carl Friedrich, Constitutional Government and Politics: Nature and Deve- lopment, New York, Harper, 1937. 293. William Henry Chamberlin, A False Utopia. Collectivism in Theory and Practi- ce, London, Duckworth, 1937. Pares invece prese un’altra strada: quella della simpatia per il comunismo sovietico. Si veda a tal proposito Bernard Pares, Moscow Admits a Critic, London, Nelson, 1936. 294. La «battaglia per la democrazia», intesa come democrazia politica in opposizio- ne al «dispotismo» di varia provenienza ideologica, fu sostenuta fino alla fine da Kautsky, come si legge in un dattiloscritto del 1937, conservato tra le sue carte, International Institute of Social History (Amsterdam), Karl Kautsky Papers, A.212 (Kommunismus und demokra- tie) (1937). Mschr. 5 S.-fol I
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per fare ciò era necessario avviare «una revisione» rispetto alla vicenda sovietica, che non poteva non avvalersi delle «esperienze» e delle «co- noscenze» di Kautsky. 295 Serge si rivolse pour cause al nemico storico di Trockij. Proprio tra 1937 e 1938 Serge pubblicò infatti una serie di articoli su «La Révolution prolétarienne» e su «Partisan review» che in definitiva chiusero la partita con la tesi della «rivoluzione tradita», dimostrando di aver maturato una disposizione a ragionare in modo nuovo sul totalitari- smo. 296 Alla vita di «New Leader» collaborò anche Sidney Hook. Intellet- tuale radicale newyorkese e interprete del pensiero di Marx, Hook prese spunto dalla notte dei cristalli in Germania per collocare la tragedia degli ebrei tedeschi nel quadro più generale della brutalità dei regimi totalitari. Scrisse che: «non possiamo in buona coscienza protestare contro il tratta- mento che Hitler ha riservato agli ebrei e rimanere in silenzio sui sei milio- ni che riempiono i campi di concentramento sovietici». 297 Come sappiamo, la cifra era esagerata, ma il ragionamento aveva una sua indubitabile chia- rezza. Nel maggio 1939, fondò insieme a Dewey il Committee for Cultural Freedom a New York, la prima grande organizzazione liberal-progressista orientata alla critica del totalitarismo. 298 Seguirono, come è noto, altri processi: uno nel marzo 1937 contro Bucharin, Rykov e Tomskij e un altro nel giugno che decapitò i vertici dell’Armata Rossa, Tuchačevskij compreso. Essi accelerarono la diffusio- ne del discorso antitotalitario presso una parte della sinistra internazionale che aveva aderito alla prospettiva del frontismo e che adesso maturava forti dubbi. La teoria politica del totalitarismo, per quanto ben lungi dall’essere 295. Serge inviò a Kautsky la sua opera in uscita Destin d’une révolution 1917-1937, Paris, Grasset, 1937. 296. Si veda in particolare Victor Serge, Sur Kronstadt 1921 et quelques autres sujets, in «Révolution Prolétarienne», 25 agosto 1938, pp. 263-264. Victor Serge, Marxism in Our Time, in «Partisan Review», 3 (1938), pp. 26-32. Anche questa rivista si stava lentamen- te incamminando verso il superamento delle idee di Trockij. Si veda Terry A. Cooney, The Rise of The New York Intellectuals. «Partisan Review» and Its Circle, 1934-1945, Madison,University of Wisconsin Press, 2004. La rottura definitiva con Trockij è documen- tata nel già citato Victor Serge e Léon Trotsky, La lutte contre le stalinisme, culminando nel celebre scritto del vecchio rivoluzionario, Their Morals and Ours, in «The New Internatio- nal», 6 (1938), pp. 163-173. 297. Sidney Hook, The Tragedy of German Jewry, cit. in Alexander Bloom, Prodigal Sons. The New York Intellectuals and Their World, New York-Oxford, New York University Press, 1986, p. 138. 298. Bullet, The Committee for Cultural Freedom.
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sistematizzata, ebbe una funzione politica rilevantissima in quest’ultimo scorcio degli anni Trenta, come abbiamo già notato. Una leva politico- ideologica tuttavia non costituisce necessariamente uno strumento di co- noscenza adeguata della realtà sociale nel suo concreto evolversi. E se i riferimenti a deportazioni e campi di concentramento sovietici avanzati da Serge, Hook e altri osservatori internazionali rappresentarono il segno di una forte ripresa della moralità all’interno degli ambienti della sinistra in- ternazionale, tuttavia il concreto svilupparsi del sistema repressivo sovie- tico, al di là della grande rappresentazione scenica dei processi moscoviti, restò, come si è già ricordato, nell’ombra. Molto dipese dal fatto già ricordato che il potere staliniano aveva im- parato ad agire in totale segretezza, senza lasciare trapelare alcunché delle sue più odiose azioni repressive, rivolte a masse di persone accusate non di reati specifici, ma già colpevoli in quanto appartenenti a determinate categorie sociali e nazionali. Nessuno poteva sapere in Occidente degli ordini segreti che incarnarono l’altra faccia del terrore, ma è un fatto che la grande rappresentazione dei processi abituò molti a una duplice opera- zione mentale: guardare da un lato al regime di Stalin come incarnazione del totalitarismo, che manipola la verità, assoggetta la magistratura e fana- tizza le masse, indirizzando l’odio di queste verso gli accusati; tralasciare dall’altro di domandarsi cosa stava succedendo dietro le quinte, ossia nel più vasto mondo sociale sovietico. Se davvero pensò ai grandi processi come mezzo per sviare l’opinione pubblica occidentale rispetto alla vera natura del Grande terrore, Stalin ottenne senza dubbio un grande successo. Queste conclusioni non devono essere portate all’estremo, giacché ne- gli anni del Grande terrore uscirono in Occidente libri che raccontarono, sia pure in riferimento agli anni trascorsi, la piega dispotica e castale presa dal sistema sovietico, con i suoi operai militarizzati, i suoi servi nelle campagne statalizzate e i suoi schiavi nei campi di concentramento. E soprattutto in questi anni ci fu almeno un autore capace di guardare oltre i processi mo- scoviti. Il suo nome lo conosciamo bene: Boris Souvarine. Iniziamo dunque da lui. Pur non essendo a conoscenza delle operazioni staliniane del 1937, l’autore di Staline si sforzò di comprendere cosa stesse accadendo dietro la facciata dei processi. 299 Già da qualche tempo, egli impegnava le proprie 299. Sui dibattiti francesi sul grande terrore Charles Jacquier, La gauche française, Boris Souvarine et les procès de Moscou, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 2 (1998), pp. 451-465.
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energie per mandare avanti l’Association des Amis de la vérité sur l’URSS, realizzando una serie di brochures dedicate a temi importanti quali la pena di morte in URSS, le cifre delle grandi ondate di terrore, la condizione degli operai e dei contadini. 300 Con questo retroterra di analisi dei problemi so- ciali, Souvarine intraprese una riflessione sulle purghe in corso, scrivendo per «Le Figaro» tra febbraio 1936 e novembre 1938 una serie di articoli di grande rilievo. Nel luglio 1937 inoltre pubblicò un importante scritto sulla «Revue de Paris» dal titolo Cauchemar en URSS che fu poi fatto circolare come estratto. 301 Pur utilizzando l’espressione «totalitarismo» a proposito del regime sovietico, Souvarine non indugiò a lungo sulla comparazione con il regime nazista, utilizzando invece le proprie conoscenze per com- prendere il significato delle purghe staliniane in relazione alle dinamiche interne del regime e al rapporto di quest’ultimo con la società sovietica. Souvarine cercò di cogliere le dinamiche interne al regime, sottoli- neando che i processi moscoviti dovevano essere compresi a partire dal- la spaventosa regressione sociale degli anni precedenti, provocata dalla collettivizzazione delle campagne con il suo strascico di odio diffuso nei confronti del regime e delle sue politiche. Ecco allora che nel corso dei processi, l’apparato staliniano aveva finito per chiamare trockijsmo «la sua impopolarità, il malcontento generale, la sorda ostilità latente che lo rende responsabile di tutte le disgrazie». 302 Souvarine fu forse l’unico osservatore in grado di leggere in controluce le confessioni degli imputati, non limitan- dosi a denunciare la «caccia alle streghe», ma indagando il significato più profondo rintracciabile in esse. Scrisse: Qual è il significato della sua politica di sterminio, a prima vista incompren- sibile? La situazione economica dell’URSS peggiora di giorno in giorno, il sistema totalitario è in bancarotta, il Paese non sarebbe in grado di combat- tere a lungo in caso di guerra. Il numero di dirigenti di imprese industriali 300. L’Association des Amis de la vérité sur l’URSS fu creata da Souvarine e da altri (Jacques Baron, Maurice Coquet, Anna e André Lejard, Pierre Kaan, Lucien Laurat, Édouard Liénert, Colette Peignot, Marcelle Pommera e Lucien Sablé). L’obiettivo fu di pro- durre brochure diffuse dalla Librairie du Travail di Marcel Hasfeld. Ne apparvero sette tra 1936 e 1937: La Peine de mort en URSS. Textes et documents; Un témoignage: URSS 1935; Bilan de la Terreur en URSS. Faits et chiffres; Un français moyen en URSS. Témoignage; Les Procès politiques en URSS. Articles de Édouard Herriot; Un mineur français en URSS. Rapport de Kléber Legay; Ouvriers et Paysans en URSS. 301. Boris Souvarine, Cauchemar en U.R.S.S, Éxtrait de «La Revue de Paris», 1937. 302. Ivi, p. 81.
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e agricole imprigionati in quanto incapaci, e in realtà impotenti, di gestire razionalmente qualsiasi cosa in un simile regime è incalcolabile. I piani quin- quennali hanno portato a un’economia impraticabile, dove il coordinamento può essere raggiunto solo con il terrore, e dove il terrore paralizza ogni inizia- tiva, sterilizza ogni sforzo. Stalin non vuole ammettere la sconfitta o la colpa e scarica le sue responsabilità su persone irresponsabili […]. Il tal accusato, ministro dell’agricoltura, ha organizzato l’ecatombe del bestiame? C’è stata dunque l’ecatombe del bestiame? Tal altro accusato, a capo del sistema degli approvvigionamenti, ha provocato la scarsità delle uova? C’è stata dunque una scarsità nella produzione di uova? Un terzo, presidente del Consiglio dei commissari in una delle Repubbliche federali, provocò le rivolte dei conta- dini? Ci sono state dunque le rivolte dei contadini? E così di seguito. Queste sono le sole confessioni che meritano credito […]. 303
Souvarine dunque utilizzò i processi – con il loro campionario di im- putazioni surreali, entusiasmo manovrato del pubblico e stupefacenti con- fessioni degli accusati – in un senso più sofisticato, andando oltre il mero dato della comparazione con il regime di Hitler. In controluce, come mo- stra il lungo brano appena citato, emergeva dagli atti dei processi una realtà assai complessa caratterizzata come segue: da un lato, l’elevata conflittua- lità interna propria di un regime in grado di promuovere la circolazione delle élite soltanto con metodi brutali; dall’altro, la perdurante crisi nelle relazioni tra stato e società, a partire dal fatto che quest’ultima era guardata con sospetto dal regime per la diffusa contrarietà alle politiche d’assalto, sfociata nelle ribellioni aperte dell’inizio del decennio e continuata in una sorda ostilità negli anni successivi. Una serie di testimonianze e memorie uscite in questi anni rafforzarono questo approccio teso a comprendere la società e le relazioni con lo stato sovietico. Nel 1936 uscirono le memorie di Andrew Smith, operaio specia- lizzato statunitense di origine slovacca che aveva lavorato come ispettore dei macchinari nel settore elettrico dell’industria sovietica. 304 Conobbe rapida- mente un’amara delusione e dipinse a tinte fosche la vita sociale sovietica: la prostituzione (nel paese dell’emancipazione femminile), le gang di ragazzini per strada (nel paese della tutela dell’infanzia), l’alcolismo diffuso e ancora la divisione tra cooperative d’acquisto che un dipartimento di salute occiden- tale avrebbe chiuso all’istante, e i negozi, assai diversi, destinati ai dirigenti. 303. Boris Souvarine, Une lutte sans merci pour le pouvoir dans les coulisses du Kremlin, in «Le Figaro»,12 marzo 1937, p. 3. 304. Andrew Smith, I Was a Soviet Worker, London, Robert Hale & Company, 1937.
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Smith visitò una fattoria statale e parlò con i contadini, i quali dissero di rimpiangere il tempo in cui avevano avuto la terra e non facevano la fame. Ciò che la delegazione di Smith incontrò lungo la strada e nelle città fu la disperazione, la fame dovuta alle requisizioni sistematica delle risorse. Visitò anche le periferie urbane, dove poté constatare la brutalità della condizione degli operai sovietici. Collocati al centro della propaganda sovietica, essi invece vivevano di bassi salari, mancanza di diritti sindacali, scarsità di cibo e sovraffollamento abitativo. 305 Criticato su «Tribune», organo della Socialist League britannica, il libro ebbe comunque una sua diffusione. Fu recensito negli Stati Uniti sugli «Annals of the American Academy of Political and So- cial Science» e in Francia su «Sciences Politiques». Una traduzione francese uscì nel 1937 per i tipi di Plon. 306 In Francia, «La Révolution prolétarienne» continuò indefessa un lavo- ro informativo che culminò nella pubblicazione delle memorie di Robert Guiheneuf, il quale adottò lo pseudonimo di Yvon. Comunista francese, operaio specializzato aveva vissuto e lavorato per circa dieci anni in URSS, non soltanto a Leningrado e Mosca, ma anche in Siberia, Turkestan e sul- le rive del Volga. 307 Pierre Pascal ne scrisse la prefazione, certificando che l’autore era un «testimone veritiero». 308 Il ritratto della condizione operaia fu impietoso come quello tratteggiato da Smith: entrambi mostrarono in fondo che la miseria della classe lavoratrice era il frutto di un sistema di comando assolutistico dentro le fabbriche, che evidentemente impediva una qualsiasi forma di lotta sindacale volta a migliorare le condizioni di vita fuori e dentro i luoghi di lavoro. Yvon dette maggiore attenzione al sistema dei campi. Denunciò infatti questo sistema e quello delle prigioni diventati, attraverso il lavoro forzato, vere e proprie «imprese commerciali» gestite della polizia politica. 309 Decine di migliaia di prigionieri che disboscavano 305. Dedica spazio alla vicenda di Smith anche Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 412-414. 306. Ebbe recensioni positive come quella di Michel B. Scheler, Smith Andrew, I Was a Soviet Worker, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», 198 (1938), p. 163; ma anche critiche come quella apparsa in Gran Bretagna su «Tribune», organo della Socialist League, per mano di Robert Hale, I Was a Soviet Worker. By Andrew Smith, in «Tribune», 13 (1937), p. 13. La versione francese fu intitolata J’ai été ouvrier en U.R.S.S., Paris, Plon, 1937. 307. Yvon, Ce qu’est devenue la Révolution Russe, Prefazione di Pierre Pascal, Paris, Les Brochures de la Révolution prolétarienne, s.d. 308. Ivi, p. 4. 309. Ivi, pp. 59-61.
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le foreste e che costruivano canali erano condannati a un duro lavoro e a un’alimentazione condizionata dalla produttività del lavoro svolto. Era un mondo terribile, nel quale criminali, gente comune e militanti antistalinisti erano confusi in un regime concentrazionario ben più rude di quello zarista. In Francia, le memorie tradotte di Smith e quelle di Yvon s’inseriro- no nel dibattito pubblico nel contesto della crisi del Fronte popolare che maturò nel 1938. Proprio allora «Le Populaire», che aveva annacquato nel periodo 1933-36 le critiche rivolte a Stalin, riprese la sua tradizione di opposizione alla tirannia sovietica. Espressione tipica della crisi del sen- timento di amicizia verso Stalin fu la pubblicazione di Au pays du grand mensonge di Ciliga per i tipi di Gallimard. 310 Nel 1935, in un clima mol- to più accesamente «antifascista», l’editore aveva rifiutato di pubblicare Staline di Souvarine. Nelle pagine di Ciliga, la descrizione dell’universo concentrazionario staliniano ebbe un ruolo di primo piano, riprendendo ciò che era stato scritto negli anni precedenti: Si immagini – scrisse – un territorio che ha una lunghezza di una decina di migliaia di chilometri e una larghezza che va da 500 a 2.000 chilometri, da Soloveckie e dal canal Baltico-Mar Bianco fino alle sponde del Pacifico, alla penisola del Kamčatka e a Vladivostok. Questo territorio, come pure tutta l’Asia centrale, è disseminato a ciascuno dei suoi crocevia di campi di concentramento e di «colonie di lavoro» (nome che designa i campi adibiti a un lavoro determinato)), nonché di centri obbligatori di confino. Ogni due o tre uomini che s’incontrano in Siberia per strada, negli uffici, nelle fabbriche, nei «sovchoz», uno è un deportato […]. 311
Il grande valore della testimonianza di Ciliga – come pure delle te- stimonianze di Smith e Yvon – derivò dal fatto di restituire un’immagi- ne più larga del mondo sovietico nel momento stesso in cui l’opinione pubblica internazionale era concentrata quasi esclusivamente sui processi moscoviti. Conscio dell’importanza del suo lavoro, Ciliga si decise proprio a partire dal marzo 1938 a scrivere un supplemento delle sue memorie che completò nel 1941, ma che pubblicò più tardi. Smith, Yvon e soprattutto Ciliga si riferivano al passato prossimo so- vietico, quello della prima metà degli anni Trenta. Pur all’oscuro delle reali proporzioni del grande terrore in corso, essi svolsero la preziosa funzione di confermare la visione di un mondo che le retoriche del progresso non 310. Ante Ciliga, Au pays du grand mensonge, Paris, Gallimard, 1938. 311. Citato dall’edizione italiana Ciliga, Nel paese della grande menzogna, p. 196.
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erano in grado di descrivere: i contadini diventati servi, i prigionieri diven- tati schiavi e una classe operaia che, per quanto magnificata dal regime, era posizionata nella parte bassa della società, laddove, per non parlare dell’assenza dei diritti civili e politici, regnava incontrastata la negazione delle minime tutele sociali. Per convenzione, questo sistema poteva esse- re chiamato totalitario, ma a patto di non smarrire che esso era sì feroce come un regime totalitario, ma era anche ben lontano dall’incarnare al- cuni elementi, destinati a diventare classici del totalitarismo: l’individuo atomizzato, l’entusiasmo organizzato capillarmente e via discorrendo. Da queste letture emergeva piuttosto l’immagine di un dispotismo dai tratti fortemente arcaici, operante in una società organizzata per caste. Questi libri ebbero un impatto non trascurabile. Si pensi che Fran- co Venturi, il quale era stato in URSS alla fine del 1936 per i suoi studi settecenteschi, recensendo questi libri, maturò un punto di vista diverso da quello che aveva mantenuto fino ad allora. Le sue Note sulla Russia, pubblicate su «Giustizia e Libertà» all’inizio del 1937, mostravano ancora una serie di equivoci prosovietici che tuttavia la lettura dei libri summen- zionati ridimensionò. 312 Alla fine dell’aprile 1938, Venturi mostrò di aver apprezzato il lavoro di Yvon soprattutto per il ragionamento che l’autore aveva svolto attorno all’idea dei due socialismi: uno era quello statalistico e repressivo di tipo sovietico, l’altro quello che riparava ingiustizie, edu- cava le masse, dando ai singoli l’opportunità di essere realmente liberi. 313 Quanto al lavoro di Ciliga, Venturi apprezzò non tanto la «cronaca delle sofferenze» che egli ebbe a patire a causa del suo anticonformismo quanto la capacità di trarne un insegnamento. Scrisse: «il problema sempre nuovo della libertà rinasce così da chi ha voluto e saputo andare fino in fondo alla sua esperienza russa». 314 L’analisi della realtà sovietica contribuì dunque a mettere a fuoco le coordinate del socialismo liberale che Venturi avrebbe espresso più tardi durante la guerra. 315 312. Si veda in particolare Andrea Graziosi, Nazione, socialismo e cosmopolitismo. L’Unione sovietica nell’evoluzione di Franco Venturi, in Franco Venturi e la Russia Franco Venturi e la Russia. Con documenti inediti, a cura di Antonello Venturi, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 131-165. 313. Franco Venturi, Tre libri sull’Urss, in Id., La lotta per la libertà. Scritti politici, Torino, Einaudi, 1996, p. 118. 314. Ivi, p. 117. 315. Franco Venturi, Socialismo di oggi e di domani, in Id., Lotta per la libertà, pp. 221-254.
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Tra i libri importanti usciti alla fine del decennio, non possiamo di- menticare quelli scritti da tecnici stranieri di alto grado inseriti nella no- menklatura sovietica. Tra questi, un lavoro importante fu senza dubbio In Search of Soviet Gold di John Littlepage, un ingegnere del Connecticut che lavorò per il Soviet Gold Trust dal 1928 al 1937. Ricevette numerose onorificenze fino a quando il suo patrono Aleksandr P. Serebrovskij finì nel tritacarne delle purghe staliniane. Riuscito a rientrare negli Stati Uniti, Littlepage pubblicò le sue memorie, nelle quali raccontò – con un tono di estraneità ai fatti – la realtà che aveva visto giorno per giorno per anni come tecnico di alto livello del regime. Scrisse dei kulaki ridotti ai lavori forzati: «li ho incontrati in tutti i distretti orientali della Russia, non solo nelle miniere, ma anche nelle fabbriche e nelle foreste e al lavoro su dighe, ferrovie, canali e centrali elettriche». Essi erano «la spina dorsale e la base del grande esercito del lavoro forzato». 316 Littlepage sapeva molte cose sulla Kolyma. Sapeva che le deporta- zioni all’inizio erano state terribili, molto più che in seguito. Sapeva che la gente era stata mandata molto lontano da casa per evitare la tentazione della fuga. Conosceva la logica duplice di un regime che, deportando i contadini, cercava di realizzare due obbiettivi: da un lato, liberare le cam- pagne dall’opposizione dei piccoli proprietari più accanitamente ostili alla collettivizzazione, dall’altro dotarsi di mano d’opera a bassissimo costo, da utilizzare per i grandi progetti industriali e infrastrutturali del regime. La sua idea che la gente in URSS fosse troppo impegnata a lavorare per dedi- carsi alle rivolte deve avergli fatto sottovalutare la tensione che comunque non smise mai di montare anche dentro i campi dell’estremo oriente sovie- tico. In data 31 marzo 1937 due prigionieri politici nei campi della Kolyma scrissero una lettera indirizzata al Comitato esecutivo dei soviet dell’URSS e al consiglio dei commissari del popolo per protestare contro una serie di condanne a morte inflitte ad altri prigionieri: «i nostri compagni hanno cer- cato di far rispettare il diritto d’essere trattati come dei prigionieri politici, una lotta intrapresa da lungo tempo da tutti i militanti rivoluzionari». 317 Il tempo della rivolta generalizzata degli zek era ancora molto lontano ed era adesso molto difficile comprendere la realtà effettiva dell’universo 316. John Littlepage, In Search of Soviet Gold, New York, Harcourt, Brace and Com- pany, 1938, p. 81. 317. Lettre des prisonniers politiques au Comité exécutif des soviets de l’URSS et au Conseil des commissaires du people de l’URSS, in Goulag, p. 847.
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concentrazionario sovietico. Per questa ragione forse il lavoro più signi- ficativo della fine degli anni Trenta fu una memoria riferita ai primi anni del decennio: Der Verratene Sozialismus di Karl Albrecht. 318 Ex comunista tedesco, ingegnere forestale, Albrecht aveva raggiunto i vertici dell’indu- stria sovietica del legname al momento della rivoluzione dall’alto di Stalin. Arrestato dalla OGPU nel 1933, dopo mesi di prigionia, torture e persino una condanna a morte, poi commutata in una lunga pena, fu rilasciato e poté tornare nel 1934 in Germania. Con i nazisti al potere, scontò in quanto comunista una detenzione in campo di concentramento. Lasciò in seguito il suo paese, stabilendosi prima in Turchia e successivamente in Svizzera. Tuttavia, le sue memorie non poterono sfuggire all’apparato propagandi- stico nazista che non perdeva naturalmente occasione per denunciare la barbarie sovietica. Nel 1936 ad esempio furono tradotte le memorie di Kitchin con il titolo Das endlose Gefängnis, mentre l’anno successivo uscì un volume a più mani dal titolo In der Kerken der GPU. All’inizio del 1938 il «Völkischer Beobachter» raccontò dei milioni nei campi di lavoro forzato. Il lavoro più importante fu però quello di Albrecht, che ebbe un grandissimo successo, con più di dieci edizioni e centomila copie vendute in Germania prima che il regime mettesse la sordina alle critiche rivolte allo stato sovietico nel contesto dell’alleanza tra Berlino e Mosca. 319 Albrecht aveva avuto un ruolo nell’espansione dell’industria del legna- me, la quale, basata largamente sull’impiego di deportati e lavoratori forza- ti, era finita sotto lo sguardo dell’opinione pubblica internazionale all’ini- zio degli anni Trenta. Il racconto, riferito proprio a questi anni, mosse dalla considerazione che il regime aveva scartato le proposte che nei vari settori dell’economia statale erano provenute da uomini come lo stesso Albrecht: un ritmo più blando nell’industrializzazione del paese che tenesse in consi- 318. Karl I. Albrecht, Der verratene Sozialismus. Zehn Jahre als hoher Staatsbeamter in der Sowjetunion, Berlin, Nibelungen Verlag, 1938. Della complessa vicenda editoriale di questo volume nel corso della Seconda guerra mondiale, diremo nel prossimo capitolo. Si può anticipare che nel 1943 ne uscì una versione francese Karl J. Albrecht, Le socialisme trahi, Paris, Éditions Populaires Françaises, 1943. 319. Jan C. Behrends, Back from the USSR. The Anticomintern Publications on Soviet Russia in Nazi Germany 1935-1941, in Fascination and Enmity. Russia and Germany as Entangled Histories, 1914-945, a cura di Michael David-Fox, Peter Holquist e Alexander M. Martin, Pittsburgh, PA, University of Pittsburgh Press, 2012. Vedi anche Paul Moore, «And What Concentration Camps Those Were!»: Foreign Concentration Camps in Nazi Propaganda, 1933-9, in «Journal of Contemporary History», 3 (2010), pp. 649-674.
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derazione il bisogno di formare maestranze e operai specializzati in grado di padroneggiare la tecnologia moderna, la necessità di costruire una rete di infrastrutture rispettando i tempi tecnici richiesti e infine l’opportunità di valorizzare il ruolo delle competenze, riducendo pertanto l’intrusione della polizia politica. Egli fu inviato all’inizio del 1932 dal Comitato centrale del partito e dal Consiglio dei commissari del popolo nella regione degli Urali per indagare le ragioni del rallentamento dei lavori di deforestazione. Al- brecht visitò il centro forestale che doveva fornire la legna da ardere per gli altiforni situati nel distretto di Sverdlovs’k. 320 Davanti agli occhi di Albrecht si dischiuse più volte l’immagine della «foresta infernale». I lavoratori forzati che egli ebbe la possibilità di incontrare versava- no in condizioni terribili. Si trattava di contadini che la dekulakizzazione aveva «strappato alle loro case e ai loro villaggi», e deportati in condizioni brutali in luoghi lontani. Qui erano costretti a ritmi di lavoro che «neppure un tagliaboschi esperto e ben nutrito sarebbe stato in grado di realizzare». Le squadre erano soggette alla norma, la quale stabiliva che l’alimentazio- ne dovesse costituire una variabile della produttività. Le malattie, dovute al freddo, alla fame e al duro lavoro, imperversavano: «per le cinquemila persone radunate in questo campo non c’era un solo medico, un solo in- fermiere». Lo spettacolo della miseria estrema delle capanne, dove i lavo- ratori e le loro famiglie alloggiavano, fece «fremere d’orrore» Albrecht, il quale si trovò di fronte gente che dormiva sulla «terra fredda» e bambini affamati in cerca di un tozzo di pane. L’autore dunque scoprì che, al di là dei progetti di riforma e le ispezioni di cui si discuteva ai vertici del re- gime, la realtà era molto diversa. Essa era determinata dalla OGPU, i cui vertici affidavano a gente malvagia il comando dei campi cosicché il com- pito di «annientare in nome della sicurezza dello stato i nemici di classe» fosse realizzato in modo efficace. Una logica di sterminio, caratteristica originaria dell’ideologia bolscevica, si era dunque sovrapposta a quella di tipo produttivo. L’opera di Albrecht fu importante per diverse ragioni. Innanzi tutto per- ché con essa si chiuse un ciclo documentario sulla condizione dei lavorato- ri forzati nel settore dell’industria e del commercio estero del legname. Se all’inizio del decennio erano circolate testimonianze di prigionieri riusciti a fuggire, alla fine dello stesso decennio un importante dirigente del settore confermò quanto si era già saputo, aggiungendo dettagli e riflessioni impor - 320. Cito dalla versione francese, Albrecht, Le socialisme trahi, pp. 74-79.
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tanti. Quindi, si chiuse un ciclo ideologico, perché nella sua opera non si fece nessuna concessione a un diverso modo di costruire il socialismo seguendo metodi più coerenti con le premesse ideologiche del bolscevismo. Anzi, ri- cordando il tempo della guerra civile, Albrecht concluse che Trockij era stato in fondo «il precursore di Stalin». Scrisse che i due «non avevano da rimpro- verarsi alcunché l’un l’altro»: Trockij aveva domandato la collettivizzazione delle terre e Stalin l’aveva introdotta «al prezzo di milioni di vite umane». 321 Il tramonto del mito della «rivoluzione tradita» coincise con la pub- blicazione di altre opere importanti. Accanto a Die Schule der Diktatoren di Ignazio Silone non va dimenticato che nello stesso anno, il 1938, Ange- lo Tasca pubblicò Naissance du fascisme, una ricerca sul fascismo italiano connessa a un discorso più ampio sui regimi di tipo nuovo, sorti tra le due guerre. 322 Si legge in un suo appunto dell’inizio del marzo 1938 che «i regimi fascisti sempre meno capitalistici e il regime sovietico sempre più nazionali- stico finiscono con il rassomigliarsi stranamente nello spirito [e] nella pratica politica». 323 Questa riflessione andava nella stessa direzione delle tesi di un altro italiano, Bruno Rizzi, trockijsta molto critico delle tesi del maestro, e autore a Parigi nel 1939 di La Bureaucratisation du monde. In questa opera l’URSS fu vista come una nuova formazione sociale, che non poteva certa- mente essere caratterizzata come un regime di tipo capitalistico, ma neppu- re essere considerata alla stregua di uno stato operaio, sia pure nella forma «degenerata» indicata da Trockij. Brizzi affermò che il regime sovietico era oramai guidato da una nuova classe dominante di derivazione burocratica, la quale deteneva il monopolio dei mezzi di produzione, essendosi dunque spinta un passo più avanti del fascismo italiano e del nazional-socialismo tedesco sulla strada della statizzazione integrale. 324
321. Ivi, p. 125 322. Ignazio Silone, Die Schule der Diktatoren, Zürich, Europe Verlag, 1938; Angelo Tasca, Naissance du fascisme, Paris, Gallimard, 1938. Si veda Sergio Soave, Senza tradirsi senza tradire. Silone e Tasca dal comunismo al socialismo cristiano (1900-1940), Torino, Aragno, 2005. 323. Si tratta di un appunto del 5 marzo 1938, citato da Leonardo Rapone, Gli anni dell’antifascismo, in Sergio Soave (a cura di), Un eretico della sinistra. Angelo Tasca dalla militanza alla crisi della politica, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 99. 324. Bruno Rizzi, La burocratizzazione del mondo, a cura di Paolo Sensini, Milano, Edizioni Colibrì, 2002 .
3. La «scoperta» dei campi sovietici (1939-1949)
1. Introduzione In questo capitolo discuteremo del decennio 1939-1949, cominciato con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e conclusosi nel pieno del- la guerra fredda. Nella prima fase della guerra, tra 1939-1941, il rove- sciamento delle alleanze, che vide Stalin sottoscrivere un patto con Hitler, portò al consolidamento del paradigma totalitario nei gruppi sparsi del- la sinistra internazionale, costretti a mettersi in salvo dall’avanzata delle armate tedesche in tutta Europa. Nel 1941-1945, a partire cioè dall’ag- gressione hitleriana dell’URSS, l’antifascismo tornò in auge come collante della coalizione militare alleata, ma il regime di Stalin non poté usufruirne come negli anni Trenta, perché il muro della segretezza sovietica, sotto i colpi inferti dall’avanzata nazista, subì dei danni irreparabili. Un fiume di documenti e testimonianze sul sistema repressivo sovietico iniziò, pur scorrendo nell’ombra, a raggiungere l’Occidente. Nel frattempo la cultura antitotalitaria, dopo il sea change attraverso l’Atlantico, continuò a vivere a Città del Messico e a New York, proiettandosi nel dopoguerra. I suoi esponenti si convinsero che, una volta finita la minaccia del militarismo tedesco e giapponese, le democrazie liberali e il regime sovietico si sareb- bero trovati contrapposti le une di fronte all’altro. Dopo il 1945, dunque, una nuova documentazione sul sistema sovieti- co e un paradigma in via di consolidamento, quello totalitario, invasero la scena pubblica, prima quella statunitense e successivamente quella europea occidentale. Un ruolo decisivo fu svolto dai dirigenti dell’AFL, i quali que- sta volta non intesero perdere l’occasione di mettersi alla guida dell’anti- comunismo globale. Vi riuscirono perché, con la morte di Roosevelt, svanì
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il progetto di collaborazione tra i vincitori della guerra. L’amministrazione Truman non tardò a scegliere la guerra fredda come metodo per contene- re l’aggressiva strategia di sicurezza messa in campo da Stalin. All’inter- no del «contenimento» trumaniano, la dimensione psicologica e culturale assunse un significato importantissimo: furono stampati libri di memorie sui campi sovietici, furono promosse iniziative pubbliche a sostegno delle «nazioni prigioniere» di Stalin, vennero coinvolti esponenti del sindacali- smo europeo e soprattutto vennero finanziate e sostenute le iniziative degli intellettuali antistalinisti di sinistra. Il periodo trattato in questo capitolo si conclude nel 1949, con l’avvio alle Nazioni Unite dell’inchiesta, dall’evidente sapore antisovietico, sui campi e sul lavoro forzato. Durante il blocco di Berlino, prima dell’esperi- mento atomico sovietico e della nascita della Repubblica popolare cinese, la mobilitazione occidentale contro la «schiavitù rossa» entrò nel vivo. Ab- biamo visto agire in modo sparso associazioni sindacali, gruppi umanitari e intellettuali, incarnando una sfera della moralità spesso priva di un quadro di riferimento più generale. Adesso, invece, questo quadro fu offerto dai funzionari del governo britannico e soprattutto statunitense, i quali infatti misero sul piatto il loro potere, abbandonando la difesa esclusiva di accordi commerciali e diplomatici. I funzionari del Dipartimento di Stato coordi- narono le iniziative sorte nel mondo associativo, proiettandole nella sfera degli organismi internazionali, laddove una comunità di esperti fu incari- cata di disegnare la strada del diritto, ossia un’inchiesta come primo passo per realizzare una nuova Convenzione contro il lavoro forzato. 2. Guerra: totalitarismo e rivoluzione documentaria Prendiamo le mosse dal «patto Molotov-Ribbentrop», perché esso sol- leva più di un interrogativo importante dal nostro punto di vista. Il primo riguarda gli schemi interpretativi: fino a che punto il paradigma totalitario, già diffuso nel corso degli anni Trenta, s’impose agli occhi della sinistra antistalinista? La seconda questione riguarda l’effettiva comprensione di cosa successe nel periodo successivo alla stipula del patto: cosa fu possi- bile sapere dei metodi utilizzati dagli apparati di Stalin nella sovietizzazio- ne dei nuovi territori? Circolarono informazioni in Occidente in grado di rompere quel muro di segretezza che aveva preso forma negli anni Trenta? Procediamo un passo alla volta, iniziando dai fatti. Il patto fu soltanto in
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parte un trattato di non aggressione, stipulato sulla falsariga del precedente con il governo di Weimar nel 1926. Infatti, un protocollo segreto menzionò la «questione delle sfere di interesse» che Stalin seppe abilmente sfruttare per avviare la ricostruzione del confine occidentale che era stato dell’im- pero zarista: Finlandia, Estonia e Lettonia vennero assegnate alla sfera di influenza sovietica, mentre la zona settentrionale della Lituania avrebbe dovuto segnare la demarcazione delle due sfere di influenza. Le regioni orientali della Polonia, così come la provincia rumena della Bessarabia, completarono il quadro delle ambizioni imperiali che Stalin intese realiz- zare all’ombra dell’alleanza con Hitler. 1 L’occupazione dei territori che Stalin riuscì effettivamente a conqui- stare prese la forma di una «rivoluzione dall’esterno», che concretamente ridette vigore alle operazioni speciali lanciate durante il grande terrore. Ad esempio, nei territori polacchi occupati, 25.700 cittadini appartenenti alle élites militari, civili ed economiche vennero incarcerati in campi spe- ciali (Kozel’sk, Ostaškov e Starobil’s’k) e una parte consistente di essi fu fucilata come nemica irrimediabile del regime sovietico. 2 Inoltre, 110.000 persone furono arrestate e condannate a pesanti pene ai lavori forzati nei campi sovietici e 320.000 furono avviati nei villaggi di popolamento nel nord della Russia, in Siberia e in Kazachstan. Una parte consistente di questi disperati erano ebrei in fuga dall’avanzata del nazismo. 3 I numeri che riguardano gli altri stati aggrediti, quelli del Baltico in particolare, fu- rono diversi, ma la logica applicata fu la stessa: distruggere innanzi tutto la classe dirigente, e con essa l’identità nazionale di questi popoli, e conte- stualmente deportare chiunque si opponesse alla statalizzazione integrale dell’economia. 1. Cinnella, La Russia di Stalin, pp. 680-681. 2. Si veda come punto di partenza per la comprensione del massacro di Katyn, Victor Zaslavsky, Le Massacre de Katyn, Monaco, Éditions du Rocher, 2003 [trad. it. Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Bologna, Il Mulino, 2011]. 3. Si veda Jan Tomasz Gross, Revolution from Abroad. The Soviet Conquest of Po- land’s Western Ukraine and Western Bielorussia, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1988 in cui è ricostruito nel dettaglio il processo di «de-polonizzazione» di queste regioni: fucilazioni, arresti di massa e diverse ondate di deportazioni negli insediamenti speciali nella Russia profonda. La cifra complessiva dei deportati nel corso delle successive opera- zioni speciali oscilla tra i 309 e i 327.000. Vedi anche Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin, pp. 447-458. Marta Craveri, Il lavoro forzato in Unione sovietica. 1939-1956, in Gulag. Storia e memoria, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 63-100.
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Nell’ambito del mondo liberale e socialista internazionale, il crol- lo delle aspettative circa la tenuta dell’antifascismo di Stalin, e dunque del ruolo conservatore dell’ordine internazionale, fu drammatico. Ancora nel giugno 1939, in un discorso tenuto alla Società francese di filosofia, Raymond Aron menzionò l’alleanza tra Stalin e Hitler come una eventua- lità remota. Nelle sue memorie, ripensando all’errore di valutazione com- piuto allora, ricordò di essersi trovato all’improvviso di fronte al problema spinosissimo di comprendere le ragioni di quanto accaduto. 4 L’errore era derivato da una concettualizzazione sbagliata della politica estera sovieti- ca, che egli aveva creduto – da buon francese progressista – ispirata a un «conservatorismo pacifico» in contrasto all’«imperialismo delle tiran- nie fasciste». 5 Aron non era però uno di quei progressisti che simpatizza- vano per Stalin. Era un liberale di profonde convinzioni, che aveva fatto sua la tesi di Halévy sull’assimilazione della «tirannia sovietica a quelle reazionarie». 6 La lezione che Aron dovette imparare fu che, parlando di totalitarismo, non si poteva più scindere tra politica interna autoritaria e politica estera aperta all’Occidente. L’URSS di Stalin, con la sua idea del conflitto inevitabile tra capitalismo e socialismo, era indubbiamente diver- sa dal regime imperiale zarista degli anni Novanta del secolo precedente. Veniamo dunque alle due questioni sollevate all’inizio: il consolida- mento del paradigma totalitario e la circolazione delle informazioni. La seconda questione è presto risolta: in continuità con gli anni Trenta, gli apparati sovietici agirono in base al principio della più assoluta segretezza e ben poco si seppe nell’immediato a livello internazionale. Si consideri inoltre che un discorso critico era diventato maledettamente difficile in tut- ta l’Europa occidentale, perché la formazione dell’impero di Hitler stava disarticolando quelle reti democratiche (sindacati, associazioni, gruppi di esuli e organizzazioni internazionali) che costituivano il cuore dell’anti- stalinismo militante. Souvarine ad esempio ricordò tempo dopo che la do- cumentazione che aveva raccolto negli anni precedenti e i suoi strumenti di lavori furono oggetto del «saccheggio congiunto da parte della GPU e della Gestapo nel 1941». 7 Era dunque in corso un impoverimento della 4. Raymond Aron, Mèmoires. 50 ans de réflexion politique, Paris, Julliard, 1983, p. 161. 5. Raymond Aron, Machiavelli e le tirannie moderne, introduzione di Dino Cofrance- sco, Roma, Edizione Seam, 1998, p. 363. 6. Ivi, p. 359. 7. Souvarine, Stalin, p. 22.
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capacità stessa di documentare, di formulare ipotesi e agire pubblicamente. Molti critici del potere sovietico, Souvarine compreso, furono obbligati ad abbandonare l’Europa. Questa fuga dal «continente oscuro» – e veniamo al primo pun- to – fu accompagnata da una riflessione sul totalitarismo come chiave per comprendere il regime di Stalin. 8 Il primo autore che s’incontra su questa strada è Franz Borkenau, considerato spesso un antesignano della guerra fredda culturale per il modo in cui scrisse del totalitarismo. Di cittadinanza austriaca (tedesca dal 1938), fu internato dalle autorità bri- tanniche in Australia come enemy alien, ma già nel 1941 poté rientrare a Londra. Egli, comunista fino alla fine degli anni Venti, aveva maturato dai tempi della guerra civile spagnola una visione antitotalitaria, critica cioè dello stalinismo. Pubblicò nel 1937 Spanish Cockpit, opera che ebbe una forte influenza su George Orwell, il quale ne scrisse una recensione molto positiva. 9 I due diventarono amici e nel 1938 Borkenau tessé le lodi di Homage to Catalonia, in cui erano denunciati, come già in Spa- nish Cockpit, i metodi staliniani in Spagna. 10 Nella sua opera maggiore, uscita nel 1940, Borkenau definì il nazionalsocialismo un «bolscevismo bruno» e il regime sovietico «una sorta di fascismo avant la lettre». 11 Il patto del 1939 gli era apparso un momento rivelatore, che egli de- scrisse lapidariamente: «potenze liberali da una parte, potenze totalitarie dall’altra». 12 8. Mark Mazower, Dark Continent: Europe’s Twentieth Century, New York, A.A. Knopf, 1998 [trad. it. Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi del XX secolo, Milano, Garzanti, 2009]. 9. Sulla base di cosa aveva visto a Barcellona nel 1937, Orwell scrisse una recen- sione che «The New Statesman» non intese pubblicare. Lo fece invece «Time and Tide» il 31 luglio 1937. Secondo Orwell era all’opera in Spagna una sorta di «racket» comuni- sta. G. Orwell, The Collected Essays, Journalism, and Letters, vol. I: An Age Like This, a cura di Sonia Orwell e Ian Angus, New York, Harcourt, Brace, World Inc., 1968, pp. 276-278. 10. George Orwell, Homage to Catalonia, London, Secker & Warburg, 1938 [trad. it. Omaggio alla Catalogna, Milano, Mondadori, 2003]. 11. Franz Borkenau, The Totalitarian Enemy, London, Faber and Faber Limited, 1940, p. 209. In una lettera dell’11 giugno 1938 Borkenau scrisse a Orwell che il «fasci- smo, sia quello bruno che quello rosso, ci sta sommergendo di menzogne; il modo migliore per opporvisi è semplicemente la verità». Cit. in William David Jones, The Lost Debate. German Socialist Intellectuals and Totalitarianism, Urbana, University of Illinois Press, 1999, p. 101. 12. Borkenau, The Totalitarian Enemy, p. 11.
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A Londra, oltre Borkenau, giunse Arthur Koestler, il quale completò Darkness at Noon nella prigione di Pentonville, dove trascorse un breve periodo per essere entrato in Gran Bretagna senza permesso di soggiorno. 13 La vicenda immaginaria del vecchio rivoluzionario Nikolai Rubashov, rinchiuso nelle galere staliniane e costretto a confessare crimini che non aveva commesso, a molti ricordò la figura di Bucharin. Rubashov era in realtà la summa delle storie concentrazionarie vissute da persone vicine all’autore. In particolare ebbe un peso significativo la testimonianza di Eva Weissberg, moglie del fisico austriaco Alex Weissberg, entrambi im- prigionati nel periodo del grande terrore. Eva spese un anno e mezzo alla Lubjanka, dove la polizia politica cercò di farla confessare con l’obiettivo di trasformarla in una criminale antisovietica pentita, disposta ad accusare altri imputati. Koestler la conobbe dopo che era stata espulsa dall’URSS nella primavera del 1938. Al di là di questa testimonianza, agì nel romanzo di Koestler ciò che egli stesso aveva visto con i propri occhi all’epoca del suo primo viaggio in URSS nel 1932-1933, allorquando poté assistere allo spettacolo tragico della grande carestia, pur facendo ogni sforzo possibile per negare la realtà. 14 L’avvento di Hitler al potere arrestò i primi germi di 13. La vicenda biografica di Koestler è ben ricostruita da Michael Scammell, Koe- stler. The Literary and Political Odyssey of Twentieth-Century Skeptic; New York, Random House, 2009. 14. In alcune discussioni accese, durante il freddo inverno di Char’kov 1932-33, un fisico austriaco non comunista, Victor Weisskopf, si trovò di fronte Weissberg e Ko- estler, i quali negavano la carestia, asserendo che in fondo ad aver fame erano soltanto i kulaki e non il resto della popolazione contadina. Scammell, Koestler, p. 97. Ha ricordato Weissberg: «Sapevamo tutti la verità, ma eravamo convinti che alla fine il socialismo avrebbe vinto. Sapevamo che la carestia non era, per così dire, un atto di Dio, ma era do- vuta alla falsa politica di Stalin, e speravamo che presto si sarebbe accorto del suo errore e lo avrebbe corretto». E aggiunse: «Non c’era alcuna possibilità di opposizione o anche solo di una modesta critica. Tutto ciò che potevamo fare era aspettare e sperare. Koestler lo sapeva perfettamente e, nonostante fosse diventato molto critico, scrisse il suo libro filosovietico». Alexander Weissberg, The Accused, New York, Simon and Schuster, 1951, p. 212. Quanto al libro «filosovietico» di Koestler, Weissberg si riferisce a Von weissen Nächten und roten Tagen. Zwölf Reportagen aus der Sowjetunion, Kharkov, Ukrainian State Publishing House for National Minorities, 1934. Negli anni Cinquanta, Koestler confessò che il libro era stato censurato in molte parti e che lui stesso d’altra parte aveva appreso «a classificare automaticamente ogni cosa che mi scioccava come «l’eredità del passato» e ogni cosa che mi piaceva come «i semi del futuro» Arthur Koestler, The Invis- ible Writing: The Second Volume of an Autobiography: 1932-1940, New York, Stein and Day, 1984 (I ed. 1954), p. 66.
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disillusione, che tuttavia maturarono più tardi, nel corso della guerra civile spagnola. 15 Questa sinistra antitotalitaria non era composta soltanto da scrittori più o meno isolati. Gruppi importanti parteciparono a questa svolta in- tellettuale, come accadde per i menscevichi in procinto di abbandonare Parigi per gli Stati Uniti. Il 19 settembre 1939 un gruppo di essi (tra cui Dan e Boris Nikolaevskij) redasse un manifesto nel quale lo stalinismo era definito «il dominio di una cricca nazional-imperialistica, caduta al livello dell’hitlerismo» e auspicò la «liquidazione democratica» della tirannide staliniana. 16 Dan avrebbe recuperato in seguito, dopo l’aggressione nazista dell’URSS nel giugno 1941, il suo atteggiamento filosovietico. Al di là dei dibattiti, i menscevichi dovettero compiere rapidamente un’altra tappa verso Occidente, raggiungendo New York. Essi furono sorpresi, una volta approdati negli Stati Uniti, dalla varietà degli insediamenti della sinistra russa: dal gruppo che si richiamava esplicitamente a Georgij Plechanov, il padre del marxismo russo, ad altri gruppi socialdemocratici fino al Jewish Socialist Verband e a svariate altre associazioni. Tutti dettero un contributo per accogliere e sistemare i nuovi arrivati. Il quartier generale di questi ultimi fu stabilito in un edificio, collocato sulla quindicesima strada, dove si trovavano le sedi della Rand School e di «New Leader». I menscevichi conobbero Sol Levitas e altri scrittori della rivista socialista, come Daniel Bell. Entrarono in contatto con Sidney Hook, Joseph Shaplen, giornalista del «New York Times», e molti altri protagonisti della sinistra locale. 17 Tra i nuovi arrivati dall’Europa, Abramovič fu il protagonista indiscusso. Dirigente di primo piano del menscevismo, fu incaricato dai vertici della AFL di presiedere la Labor Conference on International Affairs. La spinta di Abramovič si fece sentire con particolare forza quando il gruppo stretto attorno a lui decise di aderire alla American Social Democratic Federation
15. Michael Scammell, Arthur Koestler in Civil War Spain, in «Amnesty International Fortieth Anniversary», 54 (2001), pp. 86-104. 16. Citato in Cinnella, La Russia di Stalin, p. 688. 17. Liebich, From the Other Shore, p. 272. Sul mondo intellettuale nel quale essi s’inserirono, il già citato Bloom, Prodigal Sons e Alan M. Wald, The New York Intellec- tuals: The Rise and Decline of the Anti-Stalinist Left from the 1930’2 to the 1980’s, Cha- pel Hill-London, The University of North Carolina Press, 1987. Si veda anche Andrea Panaccione, I menscevichi dalla Russia all’America, in «Contemporanea», 1 (1999), pp. 143-154.
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e a partecipare alle iniziative del New York All-Socialist Club, al quale aderivano anche i socialisti rivoluzionari. 18 La declinazione antitotalitaria di questa rete politica e culturale spinse la minoranza di sinistra, oramai ridottasi alle figure di Dan e Aaron Jugov, all’ennesima rottura. Il conflitto tra il gruppo di «Novyi put’», la rivista fondata da questi, e il gruppo stretto attorno alla «Socialističeskij Vestnik» spaccò definitivamente un mondo già di per sé numericamente molto ri- dotto. 19 Mentre l’antifascismo prosovietico divenne la cifra definitiva di Dan, gli animatori della «Socialističeskij Vestnik» fecero proprie le idee antitotalitarie, così efficacemente tracciate da Rudolf Hilferding nel lungo saggio pubblicato nel 1940 su questa testata. Di Hilferding si può dire che a passare l’Atlantico furono le sue idee, ma purtroppo non la sua perso- na. Egli si trovava a Parigi al momento dell’invasione tedesca. Raggiunse Marsiglia, dove fu arrestato dalla polizia di Vichy, la quale lo consegnò alla Gestapo. Morì a Parigi in una prigione nazista dopo esser stato torturato. 20 Il suo lungo saggio sull’economia dello stato totalitario sovietico fu riedito più volte dopo la guerra, divenendo un riferimento importante per gli studi e per la lotta politica della sinistra ostile al comunismo sovietico. 21 Vale la pena di soffermarsi su questo classico dell’anti-totalitarismo. Hilferding mise da parte il marxismo scolastico con i suoi ragionamenti astratti su capitalismo e socialismo, incapaci di andare oltre la nozione di capitalismo di Stato come regime di transizione dal primo al secondo. La questione non era, a suo giudizio, di sapere chi fosse proprietario dei mezzi di produzione (i privati, lo stato oppure un sistema misto), bensì misurare il grado di autonomia del mercato, che nel sistema capitalistico era governato da leggi autonome, mentre nel sistema sovietico era di fatto sostituito da una stratificata burocrazia statale, impegnata a distribuire risorse secondo 18. Liebich, From the Other Shore, p. 273. Anche la voce biografica Abramovitch, Raphael Rein, ivi, p. 333. 19. Ha commentato Liebich: «Il piccolo mondo dei menscevichi si trasformò così in due mondi ancora più piccoli». Ivi, p. 274. 20. Si veda il profilo biografico di William Smaldone, Rudolf Hilferding. The Tragedy of a German Social Democrat, Dekalb, Northern Illinois University Press, 1998. 21. Originariamente pubblicato sulla «Vestnik» menscevica il 25 aprile del 1940, Sta- te Capitalism or Totalitarian State Economy uscì nuovamente dopo la guerra in inglese su «The Modern Review» nel giugno 1947, pp. 266-271. Per un inquadramento di questo scritto, così importante, si veda il già menzionato Liebich, Marxism and Totalitarianism; William Smaldone, Rudolf Hilferding and the Total State, «The Historian», 1 (1994), pp. 97-112. E di nuovo Liebich, From the Other Shore, pp. 240-242.
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criteri politici selettivi. Hilferding colse in definitiva il carattere peculiare della modernità sovietica, tesa a reintrodurre, assieme a quei criteri, una formazione sociale basata su privilegi e discriminazioni che rimandavano a uno scenario estraneo ai principi della grande tradizione dello stato di di- ritto. La Rivoluzione sovietica apparve ai suoi occhi l’avvio di una società irrigidita in gruppi distinti, quasi delle caste, nel loro complesso riconduci- bili all’idea di un regresso sulla strada della civiltà moderna. L’Europa delle tirannie mise in moto i critici dello stalinismo in più direzioni. Si trattò di una vera disseminazione americana. Il Messico ad esempio fu la meta che toccò a Victor Serge, l’uomo che già dal 1933 aveva parlato dello stato sovietico come stato totalitario. Nel 1939, egli pubblicò uno dei suoi romanzi più belli, nel quale era raccontata la tragica vicenda dei processi e delle deportazioni in Siberia alla fine degli anni Trenta. 22 I suoi scambi epistolari con Gide mostrano quanto il terreno dell’antistali- nismo, pur ridotto a sparute schiere, potesse rinsaldare legami intellettuali e umani, nati negli anni precedenti. In una lettera del 18 dicembre 1939, inviata da Nizza, Gide espresse con forza i sentimenti che aveva provato leggendo il libro di Serge, sottolineando l’«angoscia» che era sorta dentro di lui di fronte a un «incubo terribile», come quello descritto nel romanzo. Il 3 marzo dell’anno successivo elogiò la «chiarezza perfetta» che aveva còlto nell’esposizione della vita di Stalin, oggetto di un altro volume che Serge aveva appena dato alle stampe. Il 28 dello stesso mese Gide volle ribadire una «approvazione senza riserva» per le tesi esposte in queste pa- gine. 23 Allorquando i tedeschi giunsero a Parigi, Serge riparò a Marsiglia, riuscendo alla fine a imbarcarsi su un battello diretto in Messico, grazie all’aiuto dei coniugi Macdonald a New York e di Julián Gorkin, già ripara- to a Città del Messico. 24 La vicenda di Val’ter Krivickij, figura chiave dello spionaggio so- vietico, giunto negli Stati Uniti prima della guerra nell’ottobre 1938, è 22. Victor Serge, S’il est minuit dans le siècle, Paris, Grasset, 1939. 23. Victor Serge, Portrait de Staline, Paris, Grasset, 1940. Le lettere di Gide in Victor Serge Papers, GEN MSS 238, BOX 1, folder 34, Series I, Correspondence, GENERAL CORRESPONDENCE, Gide André. 24. È stato scritto che quello di Serge non era un caso semplice. Essendo stato citta- dino sovietico, membro dell’Internazionale comunista, egli avrebbe difficilmente ottenuto il permesso di entrare, anche soltanto per un transito, negli Stati Uniti. Weissman, Victor Serge, p. 348. Su tutta la vicenda, e l’importanza dell’impegno dei coniugi Macdonald, ivi, pp. 329-358.
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emblematica di questa fase. Krivickij aveva defezionato in Francia l’anno precedente dopo l’assassinio del suo collega ed amico Ignatij Rajss per mano di agenti di Stalin. Di seguito ad alcuni articoli usciti nella prima- vera del 1939 su «Saturday Evening Post», che gli valsero ripetuti attac- chi da parte della sinistra statunitense amica di Stalin, Krivickij pubblicò nell’autunno un volume destinato ad avere un grande impatto. 25 Uscendo infatti nel contesto dell’alleanza tra Hitler e Stalin, il libro rappresentò di fatto una sorta di risarcimento per le critiche ricevute intorno alla ve- ridicità del suo racconto. La pubblicazione degli articoli e del volume fu resa possibile da Levine, che abbiamo già incontrato per il libro su Stalin nel 1931 e per il carteggio con Berkman risalente al periodo im- mediatamente successivo. Krivickij incontrò Levine grazie a David Shub, socialista democratico che aveva partecipato alla rivoluzione del 1905 e da tempo emigrato negli Stati Uniti. Shub era convinto che l’incontro tra i due sarebbe stato proficuo per entrambi e così effettivamente fu, come ha osservato lo storico Gary Kern. 26 Levine riuscì a tirar fuori dalle memorie dell’ex agente segreto un racconto accurato dei misfatti dello stalinismo: i brutali interventi nelle fila della Spagna antifranchista, il potere pervasivo della polizia segreta, i processi moscoviti con le confessioni e infine la fu- cilazione dei generali dell’Armata Rossa. I campi e il lavoro forzato furo- no evocati come uno dei tragici spaccati della società sovietica degli anni Trenta. L’autore ricordò di aver interrogato nell’agosto 1935 un detenuto condannato a dieci anni di campo concentramento, dove la gente veniva mandata per apprendere «le benedizioni del collettivismo». 27 Nel febbraio 1941 Krivickij fu trovato morto in una stanza d’albergo a Washington. Si è a lungo discusso intorno all’ipotesi un assassinio, realizzato da sicari per conto di Stalin. 28 Pochi mesi dopo, l’aggressione hitleriana dell’URSS (22 giugno 1941) e l’attacco giapponese agli Stati Uniti (7 dicembre 1941) relega- 25. Walter G. Krivitzky, In Stalin’s Secret Service, New York-London, Harper & Brothers Publisher, 1939. 26. Kern ha scritto che: «Krivitsky avrebbe aperto un nuovo filone nella sua carriera: la storia del disertore, raccontata e curata da lui stesso». Gary Kern, A Death In Washington and the Stalin Terror, New York, Enigma Books, 2004, p. 175. 27. Krivitzky, In Stalin’s Secret Service, pp. 166-167. 28. Oltre il già citato volume di Kern, in cui sono dedicate molte pagine al mistero della morte di Krivickij, vedi anche Frederick C. Giffin, The Death of Walter Krivitsky, in «Social Science», 3 (1979), pp. 139-146.
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rono in un cantuccio le riflessioni sul totalitarismo, ridando fiato invece all’antifascismo, per quanto in larga parte chiamato in causa come collante propagandistico della nuova alleanza tra statunitensi, britannici e sovieti- ci. Ripercorriamo alcuni esempi di questo antifascismo pro-sovietico, che assunse a tratti una dimensione caricaturale. Nel 1941 Joseph Davis pub- blicò Mission to Moscow, realizzando un discreto successo editoriale che valse nel 1943 una celebre riduzione cinematografica. Esso resta uno dei documenti più caratterizzanti della fascinazione ideologica per lo stalini- smo dilagata fin dentro il corpo diplomatico statunitense. 29 Gli intellettuali non furono da meno. Pur scioccato dal terrore staliniano degli anni Trenta, Roger Baldwin continuò a reputare corretti i giudizi che aveva espresso alla fine degli anni Venti circa la possibile democratizzazione dell’URSS. Concluse un suo articolo su «New Republic» dell’agosto 1941 con queste fiduciose parole: «se le forze rappresentate dalle nostre imperfette demo- crazie sopravvivono, l’Unione sovietica, qualunque sia il suo destino im- mediato nella guerra, sembra destinata a seguire più da vicino il percorso del mondo occidentale, al quale è in parte associata dalle sue stesse timide professioni di fede». 30 Andando avanti di qualche anno, un discorso simile può esser fatto per il celebre viaggio che Henry Wallace, vicepresidente degli Stati Uniti, svolse nel maggio 1944 a Magadan nell’estremo Oriente sovietico. Wallace accreditò l’immagine retorica di una grande corsa verso la frontiera ad est, non rendendosi conto di esser stato ospite, ricevuto con tutti gli onori, all’interno della rete dei campi di lavoro forzato della regio- ne della Kolyma. 31 A questo gioco delle menzogne, diffuse per un fine più alto (la vittoria contro Hitler), parteciparono per qualche tempo anche le autorità polac- che in esilio. Nel clima dettato dagli accordi sovietico-polacchi dell’agosto 1941, queste ultime rinunciarono a mostrare all’opinione pubblica interna- zionale cosa era successo nel 1939-40 nelle regioni orientali brutalmente sovietizzate. L’opera Black Book of Poland, pubblicata a cura del ministero polacco dell’informazione in esilio, fu esclusivamente dedicata alle con- 29. Definitive da questo punto di vista le pagine di John Lewis Gaddis, The United States and the Origins of the Cold War 1941-1947, New York, Columbia University Press, 2000 (1972), pp. 34 sgg. 30. Roger N. Baldwin, The Question of Liberty, in «The New Republic», 17 novem- bre 1941, p. 651. 31. Su Wallace, Applebaum, Gulag, pp. 461-464.
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seguenze brutali della invasione tedesca. 32 Fu così che tra la fine del 1941 e i primi mesi del 1943, la documentazione delle politiche repressive so- vietiche fu appannaggio quasi esclusivo del regime nazista, il quale cercò di illustrare al pubblico tedesco (e quello dei paesi occupati) le ragioni del conflitto militare con «le orde barbariche dell’est». Il libro di Albrecht, del quale abbiamo discusso alla fine del capitolo precedente, tornò a circolare a partire dalla seconda metà del 1941, raggiungendo nel 1944 un milione di copie vendute. 33 Uscirono contemporaneamente le memorie di Kajetan Klug, un ex comunista austriaco, il quale, in fuga dal regime di Dolfuss, era giunto in URSS nel 1934. Le critiche al regime sovietico lo avevano portato a trascorrere cinque anni nei campi di Vorkuta. 34 Soprattutto, nel maggio 1942, fu inaugurata a Berlino una mostra dal titolo Das Sowjet- Paradies, che offrì al visitatore la visione degli orrori sovietici (la miseria della popolazione, il ruolo abnorme della polizia politica e le deportazio- ni, i campi di concentramento e l’espansione di un minaccioso apparato militare). 35 La grande coalizione antifascista, allestita per vincere la guerra contro le forze dell’Asse, mise fine dunque per qualche tempo a qualsiasi discorso sui crimini di Stalin. Le cose però non andarono avanti così per molto: nella prima metà del 1943 il silenzio sui crimini di Stalin fu infatti rotto. In aprile, i tedeschi scoprirono le fosse di Katyn nell’area di Smolensk, da loro occupata nel luglio 1941, mettendo a nudo la verità: migliaia di esponenti della classe dirigente polacca (ufficiali, politici, giornalisti e im- prenditori) erano stati massacrati dall’NKVD. 36 Nonostante il tentativo di addossare la colpa ai nazisti, le relazioni tra sovietici e vertici politici e mi- litari polacchi in esilio entrarono in crisi. Fu evidente che, al di là della pro- 32. The Black Book of Poland, New York, Putnam’s sons, 1942. Per un inquadra- mento delle speranze polacche verso l’alleanza antifascista e dell’approccio britannico nei confronti dei sovietici (ma anche delle delusioni che non tardarono ad arrivare), Anita J. Prazmowska, Britain and Poland 1939-1943. The Betrayed Ally, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. 33. Behrends, Back from the USSR. The Anticomintern Publications, p. 102. 34. Kajetan Klug, Die größte Sklaverei der Weltgeschichte Tatsachenbericht aus den Strafgebieten der GPU, Berlin, Zentral Verlag der NSDAP, 1941. 35. Vedi su questa mostra e i suoi presupposti ideologici Aristotle A. Kallis, Nazi Propaganda and the Second World War, London, Palgrave Macmillan, 1995, pp. 79 sgg. 36. Su Katyn, accanto al già citato volume di Zaslavsky, si veda Katyn. A Crime Wi- thout Punishment, a cura di Anna M. Cienciala e altri, New Haven-London, Yale University Press, 2007.
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paganda nazista, l’eccidio era da ricondurre alla «rivoluzione dall’esterno» sovietica, e che ciò indicava con chiarezza che la strategia di Stalin era stata quella di distruggere la classe dirigente polacca con metodi analoghi a quelli usati dai nazisti nella loro area di competenza. Di nuovo il paradig- ma antitotalitario si riaffacciò, togliendo credito a quello antifascista che aveva dominato fino ad allora. Le dure polemiche su Katyn portarono alla fine alla rottura delle relazioni diplomatiche polacco-sovietiche. 37 Da questo momento i vertici polacchi ebbero le mani più libere per raccontare la verità sulla «rivoluzione dall’esterno» realizzata da Stalin. Jan Ciechanowski, ambasciatore a Washington, impresse un’accelerazio- ne al quadro interpretativo della guerra di aggressione subita dal proprio paese. 38 L’ambasciata curò un volume dal titolo Polish-Soviet Relations 1918-1943, nel quale fu ricostruito l’intervento sovietico contemporaneo all’occupazione tedesca. 39 Fu messo nero su bianco ciò che gli storici han- no ripreso molto tempo dopo: lo stato polacco venne definito cessato dai sovietici stessi, i quali erano entrati nelle province orientali con la scusa di proteggere vita e proprietà dei polacchi di origine ucraina e bielorussa. Dopo l’ufficializzazione della spartizione della Polonia, iniziò il processo di acquisizione forzata della cittadinanza sovietica per i cittadini polacchi, con tutto ciò che ne conseguì, dalla coscrizione obbligatoria alla formazio- ne di assemblee per nuove elezioni in stile sovietico. 40 La descrizione delle deportazioni nel loro complesso (febbraio, aprile, giugno 1940 e giugno 37. Sulla rottura delle relazioni polacco-sovietiche si è fatto riferimento al già citato Prazmowska, Britain and Poland 1939-1943. 38. È forse il caso di anticipare che questo energico diplomatico fu in seguito autore di un mestissimo libro di memorie nel 1947, allorquando la Polonia si trovava oramai sotto il rullo compressore della sovietizzazione. Jan Ciechanowski, Defeat in Victory, New York, Doubleday, 1947. 39. Polish-Soviet relations 1918-1943. Official Documents, issued by the Polish Em- bassy in Washington by Authority of the Government of the Republic of Poland, 1943. 40. Gross ha scritto che l’intervento sovietico nelle regioni orientali della Polonia ebbe due dimensioni: la prima fu la conquista che passò appunto attraverso l’obbligo a par- tecipare alla vita del regime sovietico (il complesso problema delle elezioni, per esempio), mentre la seconda fu l’epurazione degli elementi ostili, con l’obiettivo di decostruire l’iden- tità nazionale, distruggendo la classe dirigente attraverso massacri e deportazioni. Gross, Revolution from Abroad. Confrontando le politiche di distruzione dell’identità nazionale nelle zone occupate dai tedeschi e nelle zone occupate dai sovietici, Snyder tra gli altri ha sottolineato che: «Alla fine le politiche erano molto simili, con deportazioni più o meno coincidenti e più o meno simultanee uccisioni di massa» Snyder, Terre di sangue, p. 183.
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1941) fu svolta nel volume summenzionato sul filo della documentazione raccolta. Si legge nelle prime pagine: Le deportazioni venivano effettuate in condizioni estremamente dure. Le vit- time venivano radunate di notte e avevano a disposizione solo un’ora per raccogliere il bagaglio che potevano portare con sé. Il trasporto avveniva di solito in vagoni merci non riscaldati e affollati senza tener conto del nume- ro di persone che potevano ragionevolmente ospitare. In queste circostanze, molti dei deboli e dei malati, soprattutto bambini, morivano nei vagoni per l’esposizione al freddo e per la fame. I loro corpi venivano rimossi di tanto in tanto dalle guardie sovietiche, mentre i treni erano fermi nelle stazioni, oppu- re venivano semplicemente gettati sui binari, durante il viaggio. 41
Seguì la descrizione delle condizioni di vita nei campi dove questi disgraziati erano stati condotti: Quando finalmente i deportati raggiunsero la loro destinazione, alcuni furono messi nelle prigioni, altri nei campi di lavoro, i rimanenti in insediamenti che non offrivano loro né un riparo né un lavoro, oppure in fattorie collettive […] dove erano alloggiati in capanne abbandonate senza stufe, senza finestre e senza pavimenti, o semplicemente in capannoni o stalle, e costretti a lavorare per molte ore in cambio di cibo inadeguato. Queste persone, strappate dalle loro case, non vestite a sufficienza, non abituate al rigido clima russo e co- strette a svolgere lavori pesanti indipendentemente dalla loro classificazione o istruzione, sono morte in gran numero. Il governo polacco ha le prove che il tasso di mortalità tra i deportati, in particolare tra i bambini e i giovani, ammontava ad almeno il 20%. 42
L’impianto generale di questo volume mostra che l’anti-totalitarismo era diventato la cifra culturale della classe dirigente polacca, la quale era chiamata dalla storia a resistere alla distruzione del proprio stato nazionale ad opera dei due regimi totalitari. È importante sottolineare che, al di là dei documenti ufficiali, l’autore affermò di conoscere le prove inconfutabili della brutalità del processo di sovietizzazione nelle regioni orientali del suo paese. Anche se non le citò espressamente, egli probabilmente si riferiva alle testimonianze degli ex detenuti polacchi nei campi sovietici, liberati a partire dall’autunno 1941. Proprio nel 1943, quando uscì il volume curato da Ciechanowski, queste testimonianze erano in fase di raccolta, grazie al lavoro di un ufficio storico del ricostituito esercito polacco. Quest’ultimo 41. Polish-Soviet Relations 1918-1943, p. 21. 42. Ibidem.
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aveva preso forma sul territorio sovietico in base a un accordo, stipulato nell’agosto 1941, che impegnava i prigionieri polacchi liberati dai campi sovietici a combattere i tedeschi in loco. Le domande che sorgono a margi- ne di questa vicenda sono essenzialmente due: perché Stalin liberò questa gente? Quali furono le conseguenze di questo atto di clemenza? La risposta alla prima domanda è semplice: la guerra di annientamento scatenata da Hitler aveva costretto il dittatore sovietico a utilizzare tutte le risorse uma- ne disponibili e, allo stesso tempo, a compiere gesti di disponibilità verso le potenze occidentali. La conseguenza di questa liberazione fu invece che molti di quei prigionieri raccontarono, appena ne ebbero l’occasione, le terribili esperienze vissute nei due anni precedenti. Ciò avvenne quando l’Armata guidata dal generale Władysław Anders, nella quale gli ex dete- nuti furono inquadrati, uscì dai confini sovietici. Il muro della segretezza sovietica andò in mille pezzi. Presto se ne sarebbero viste le conseguenze. 43 Vale la pena di soffermarsi su questo vasto materiale. Esso consiste in più di diciottomila dichiarazioni per un totale di oltre 61.000 pagine: è ab- bastanza logico pensare che questo corpo documentario, nel suo costituirsi, venisse messo a disposizione delle alte sfere della classe dirigente polacca e successivamente di quella statunitense e britannica. 44 Migliaia di persone raccontarono storie coerenti l’una con l’altra, nonostante grandi differenze 43. Al di là di questo risultato, la liberazione dei prigionieri polacchi dai campi in se- guito all’amnistia fu comunque tutt’altro che un idillio, come ha ricostruito Norman Davis: «L’attuazione dell’amnistia fu caotica, prolungata e mai completata. Dopo l’annuncio del 12 agosto 1941, il governo sovietico emanò direttive ai commissari distrettuali e ai coman- danti dei campi in cui si affermava che tutti i polacchi dovevano essere rilasciati. Tuttavia, le direttive furono obbedite o ignorate o rimandate a seconda dei capricci dei funzionari, e il processo si trascinò per tutto il 1941 e il 1942». Norman Davies, Trail of Hope. The Anders Army, an Odissey Across Three Continents; Oxford, Osprey Publishing, 2015, p. 77. 44. L’intera Anders Collection è conservata a Stanford, presso gli archivi della Hoover Institution on War, Revolution and Peace, quivi depositata nel 1946 dallo stesso genera- le Anders. Essa è adesso interamente disponibile in lingua polacca negli archivi digitali polacchi (https://www.szukajwarchiwach.gov.pl/en/zespol/-/zespol/22991). Come avremo modo di vedere in questo e nel prossimo capitolo, questa documentazione ebbe un ruolo importante nell’organizzazione della guerra fredda sul terreno delle idee. Una parte della collezione fu tradotta in inglese e inviata nel 1951 dagli uffici del Dipartimento di Stato statunitense al Comitato per lo studio del lavoro forzato, con sede a Ginevra, nominato dall’ILO e dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Si veda in particolare (ILO Archives, Ginevra), ILO-BIT, series: ILO Committees on forced labour, Cabinet I, Forced Labor in Ussr 1939-1942. Memorandum Based on the Analysis of the Anders Col- lection of Manuscripts.
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nei percorsi di ciascuna di queste vittime. I racconti si snodarono seguendo il filo di diversi questionari, il quali ripetevano però uno schema simile. Veniva chiesta la data e le circostanze dell’arresto, il nome e la descrizione del campo, la composizione sociale ed etnica dei prigionieri. L’interesse verteva poi sulla vita dei prigionieri, con particolare rilievo alle condizioni di lavoro, ai regolamenti, al cibo e al vestiario. Si domandò anche delle cure mediche, degli ospedali e della mortalità. Altre domande furono spe- cificatamente dedicate alla condizione dei cittadini polacchi, dall’attitudi- ne della NKVD verso di essi (torture, punizioni e ricerca di informazioni sulla Polonia) fino alla possibilità o meno di avere contatti con i parenti a casa. Infine, ci si informò sulle forme e sui tempi dell’associazione all’Ar- mata Anders in seguito alla liberazione. 45 La varietà fu la cifra di questo materiale. Si consideri a questo pro- posito che se gli intervistati erano tutti cittadini polacchi, una parte di essi apparteneva a una qualche minoranza etnica della Polonia prebellica: ucraina, bielorussa e ebraica. Molti erano cattolici, ma altri erano ebrei, protestanti e greco-ortodossi. Non vi erano tra gli intervistati soltanto uo- mini, ma anche donne (adesso impiegate nel servizio ausiliare dell’Armata Anders). Inoltre, se furono prevalenti le persone tra i 18 e i 55 anni, non mancarono anziani e minori. Quanto al profilo sociale, i piccoli proprietari terrieri erano in prevalenza, ma vi erano anche lavoratori dell’industria, artigiani, impiegati, membri delle forze dell’ordine e appartenenti al va- rio mondo delle professioni. Molti erano apolitici, ma altri avevano idee che nel complesso riflettevano l’ampio spettro delle posizioni politiche della Polonia prebellica. Insomma, per appartenenza politica, estrazione sociale, professione, genere, etnia ed età abbiamo un campionario vasto e rappresentativo dei prigionieri polacchi di Stalin. Va inoltre considerato che questi ex prigionieri non raccontarono soltanto la propria tragedia, ma indirettamente anche quella dei cittadini sovietici che erano stati inghiottiti dal sistema dei campi negli anni precedenti. Al momento del loro ingresso nei campi, i polacchi trovarono un si- stema organizzato, che funzionava con regole formali e informali, le quali si erano stratificate nel tempo e che essi impararono a conoscere grazie al contatto quotidiano con gli altri prigionieri, la cui disperazione dunque 45. I modelli di questionari sono conservati in ILO Archives, Ginevra, ILO-BIT, seri- es: ILO Committees on Forced Labour, Cabinet I, Questionnaire of Ex prisoner of a Labor camp in the USSR.
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finalmente iniziò a trapelare fuori dai confini sovietici. Inoltre, queste te- stimonianze permisero una prima (molto rozza, per la verità) mappatura dei campi. Si riuscì a elencare fino a 924 unità che appartenevano a 38 raggruppamenti di campi gestiti dalla NKVD. Questa prima ricognizione fu possibile grazie alla corrispondenza mandata dalla fine dell’agosto 1941 all’inizio del 1942 all’ambasciata polacca da parte di prigionieri, i quali, man mano che venivano liberati, chiedevano assistenza. Dagli indirizzi po- stali risultano 356 campi situati nella Repubblica dei Komi e 568 in tutto il resto dell’URSS. L’elevato numero dei campi situati in quella repubblica dipese dal fatto che i polacchi erano stati mandati in gran parte propri in quei territori. 46 L’idea della mappatura dei campi prese comunque corpo ed ebbe – come vedremo – un ruolo importante negli anni a seguire. Può essere ripercorsa, a titolo esemplificativo, una di queste interviste. Prendiamo il caso di un ex impiegato presso la banca petrolifera Gazolina con sede a Lwòw (Leopoli). 47 Egli venne arrestato il 28 marzo 1940. Segui- rono venticinque giorni di prigionia in un carcere locale, dove regnavano spaventose condizioni igieniche e assenza di cure mediche. Nelle celle so- vraffollate (celle per dodici persone ne ospitavano fino a cento) si dormiva per terra. Il nostro protagonista trascorse un intero anno passando da una prigione all’altra senza sapere la ragione del suo arresto e quale fossero i termini della sua condanna. A un certo punto, fu caricato su un treno merci con altre duemila persone. Questo è il racconto: ci dirigemmo verso il fiume Pečora dove fummo divisi in due gruppi, uno ri- mase nelle vicinanze di Kotlas e quello in cui mi trovai io proseguì verso una località vicino ad Abez’. Le condizioni di alloggio erano migliori di quelle della prigione perché c’era più spazio, ma non ricevemmo nemmeno un ma- terasso di paglia o una coperta e dovemmo dormire su scaffali spogli di assi di legno. Faceva molto freddo, ma non si prestava attenzione a questo aspetto. L’assistenza medica era molto scarsa, perché, devo aggiungere, letteralmente, non avevamo nulla con cui curarci. Il nostro lavoro giornaliero durava 12 ore e, dopo lo scoppio della guerra con la Germania, fu prolungato a 14 ore. Ci veniva richiesto di realizzare una norma. 48 46. La lista dei campi è conservata in ILO Archives, Ginevra, ILO-BIT, series: ILO Com- mittees on Forced Labour, Cabinet I, List of Forced Labor Camps in the USSR 1939-1942. 47. Questa testimonianza è conservata in ILO Archives, Ginevra, ILO-BIT, series: ILO Committees on Forced Labour, Cabinet I, Answers to Former Labor Camp Question- naire. 48. Ivi,�� p. 352/2.
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Il lavoro consisteva nel costruire una linea ferroviaria che arrivasse fino ai depositi di carbone di Vorkuta. Un lavoro durissimo, soggetto ap- punto alla norma che spinse il nostro testimone a valutare il lavoro nei termini di un massacro: Questo lavoro nell’Estremo Nord fece molte vittime perché c’era un alto tas- so di mortalità dovuto alla mancanza di vitamine e al freddo. Non so dire con precisione quanti siano stati i morti, ma stimerei che mentre ero lì, su 700 di noi (polacchi, bielorussi, ruteni e anche cechi) […] ne morirono 150. La cosa peggiore erano le marce che eravamo costretti a fare a piedi. Una di queste marce a nord, che copriva 280 chilometri, fu fatta a metà luglio del 1941, durante il periodo più caldo, e a causa di ciò c’era molto fango, e la marcia era molto, molto difficile […] Da tutti i lati eravamo sorvegliati dai cosiddetti strelki che non risparmiavano l’uso delle loro carabine e dei loro calci di fucile sui ritardatari. Non c’era sollievo, bisognava andare avanti. Molti di noi avevano le vesciche ai piedi che sanguinavano molto; imploravamo che questi uomini non erano in condizione di andare oltre, ma tutto ciò non aveva alcun effetto. 49
Il nostro protagonista fu liberato il 6 settembre 1941, dopo aver girato diversi campi. Venne mandato in un luogo di raduno, iniziando così quel lungo percorso che terminò con l’arruolamento nel primo reggimento dei lancieri di Cracovia il 21 dicembre 1941. Adesso che abbiamo visto come le autorità polacche mutarono atteg- giamento, preparandosi a portare alla luce la documentazione in loro pos- sesso, possiamo tornare sul riassesto delle forze intellettuali della sinistra internazionale dopo il «sea change» attraverso l’Atlantico. 50 Iniziamo dallo scambio tra le minoranze antistaliniste a Città del Messico e i gruppi della sinistra newyorkese. Esso si svolse all’insegna della denuncia del «tota- litarismo» sovietico, il quale, dopo l’assassinio di Trockij, aveva mostra- to di essere capace, grazie ad estesi tentacoli, di saper raggiungere le sue vittime anche a molta distanza. In Messico, Serge strinse rapporti intensi con i reduci antistalinisti della guerra civile spagnola, intensificando allo stesso tempo i contatti con il mondo delle riviste di sinistra a New York grazie ai rapporti con Dwight Macdonald: «New Leader», (di cui divenne 49. Ivi, p. 352/3. 50. Si una questa espressione in riferimento al classico lavoro di Henry Stuart Hughes, The Sea Change. The Migration of Social Thought, 1930-1965, New York, Harper & Row, 1975.
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corrispondente), «Partisan review» e, dal 1944, «Politics», diretta dallo stesso Macdonald, il quale si era allontanato progressivamente dalla linea di «Partisan review» sui temi della pace e della guerra. 51 Serge inviò alla redazione di «New Leader» con assiduità le sue Nouvelles de Mexico che riguardavano una varietà di argomenti di carattere politico: la sorte della vedova di Trockij, il ritorno a Città del Messico del pittore Siqueiros (il quale aveva partecipato a un assalto alla casa di Trockij), il possibile ritor- no della monarchia in Spagna, la notizia di militanti comunisti che avevano avuto «crisi di coscienza», decidendo di abbandonare «il totalitarismo rus- so». La presenza dei reduci repubblicani della guerra civile spagnola, gra- zie all’ospitalità del presidente Cárdenas, i tentacoli della polizia segreta sovietica, lo stalinismo e l’antistalinismo locali resero Città del Messico un luogo di grande importanza, un crocevia nel quale i gruppi ostili all’URSS di Stalin si collegarono alle reti statunitensi, sindacali e intellettuali, men- tre gli amici di Stalin si dimostrano sempre pronti a eseguire le direttive provenienti da Mosca. In una lettera del 30 gennaio 1942 indirizzata a Sol Levitas, direttore di «New Leader», Serge allertò la comunità intellettuale statunitense circa la campagna «scatenata da Mosca» con l’obiettivo di «sbarazzarsi di alcuni uomini» che hanno combattuto «il totalitarismo sta- liniano che essi hanno conosciuto a fondo». 52 Julián Gorkìn, dirigente del POUM in esilio e autore nel 1941 di un libro che mise a confronto i crimini di Hitler e di Stalin in Spagna, fu una delle figure più vicine a Serge in Messico. 53 Egli ricordò più tardi, alla fine 51. Sull’approdo messicano e i nuovi rapporti di Serge, si rimanda a Weissman, Victor Serge, pp. 359 sgg. Sulla rottura di Macdonald con la direzione di «Partisan Review», Blo- om, Prodigal Sons, pp. 126-129. Sul percorso intellettuale e politico di Macdonald, Michael Wreszin, A Rebel in Defense of Tradition. The Life and Politics of Dwight Macdonald, New York, Basic Books,1994. Sulle vicissitudini della «Partisan Review», il già citato Cooney, The Rise of the New York Intellectuals: ‘Partisan Review’. 52. La lettera è conservata in Victor Serge Papers, GEN MSS 238, b. 1, f. 60, Series I, Correspondence GENERAL CORRESPONDENCE, The New Leader (New York)/1942-1947. 53. Julián Gorkìn, Cannibales politicos (Hitler y Stalin en España), Mexico, Edi- ciònes Quetzal, 1941. Gorkìn continuò a produrre libri importanti, intesi a far chiarezza circa la natura criminale dello stalinismo in URSS e fuori. Pubblicò Ainsi fut assassiné Trotski, Paris, Éditions Self, 1948; La vie et la Morte en U.R.S.S., Paris, Les Iles d’Or, 1950; Comunista en España y antistalinista en la U.R.S.S., Mexico, Editorial Guarania, 1952 e infine Destin du XXe siècle, Paris, Les Iles d’Or, 1954. Dal 1953 animò la rivista «Cuader- nos», che ebbe un ruolo importante nella guerra fredda culturale contro l’URSS.
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degli anni Cinquanta, delle minacce ricevute tra 1942 e 1944. 54 Per settima- ne, e talvolta per mesi, i due dovettero nascondersi, perché la stampa locale di sinistra vicina all’URSS incitava apertamente alla loro eliminazione. Serge e Gorkìn (assieme ad altri militanti antistalinisti quali Gustav Regler e Marcel Pivert) mandarono una lettera aperta a Cárdenas. Il presidente messicano ricevette inoltre due messaggi: uno proveniente dagli Stati Uniti con la firma di duecento intellettuali, politici e sindacalisti, e un altro dalla Gran Bretagna con la firma di parlamentari e giornalisti. 55 Questo coinvol- gimento dell’opinione pubblica internazionale di sinistra fu ottenuto grazie a un lavoro capillare svolto dallo stesso Serge e dai suoi amici a New York. L’8 febbraio 1942 Serge scrisse infatti anche a Macdonald per metterlo a parte del fatto che l’apparato staliniano stava studiando «la tecnica della nostra soppressione – la mia innanzi tutto, ma anche quella degli altri». 56 Macdonald rispose a Serge, dicendosi convinto che negli Stati Uniti la si- nistra nel suo complesso non era «intenzionata a perdonare gli sporchi me- todi degli stalinisti» per il solo fatto che essi stavano combattendo contro la Germania. 57 L’intervento della Workers Defense League, un’organizza- zione socialista per i diritti dei lavoratori, la cui nascita nel 1936 era stata favorita da Norman Thomas, ebbe un peso significativo nello stemperare l’aggressività dello stalinismo in Messico. Non vi è dubbio in conclusio- ne che l’intreccio tra eredità della Rivoluzione messicana, dissenso dallo stalinismo e turbolenze legate alla guerra civile spagnola dettero un con- tribuito a plasmare il linguaggio della guerra fredda, anticipando dunque gli eventi di qualche anno. 58 Tuttavia non si deve dimenticare che se il 54. Julián Gorki, The Last Years of Victor Serge, 1941-1947, in https://www.marxists. org/history/etol/revhist/backiss/vol5/no3/gorkin.html. 55. Ibidem. 56. Victor Serge Papers GEN MSS 238, BOX 1, folder 48, Series I, Correspondence GENERAL CORRESPONDENCE, MacDonald/1942-1946, n. d. Sono interessanti su que- sti temi le memorie di Gustav Regler, The Owl of Minerva. The Autobiography of Gustav Regler, New York, Farrar, Straus and Cudahy, 1959. 57. La lettera di Macdonald è conservata in Victor Serge Papers GEN MSS 238, BOX 1, folder 48, Series I, Correspondence GENERAL CORRESPONDENCE, MacDo- nald/1942-1946, n. d. 58. Sia pure con l’esagerazione di chi vuole affermare un giudizio che sente come innovativo, Patrick Iber non ha avuto torto nel voler valorizzare il ruolo di Città del Messi- co: «Dal momento che Città del Messico divenne un rifugio per gli esuli di sinistra, tra cui Trotsky, Serge, Pivert e Gorkin, fu uno dei nodi chiave della lotta globale. Gli eventi chiave della Guerra Fredda Culturale ebbero poco a che fare con gli Stati Uniti o il loro governo,
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materiale incendiario dell’anti-totalitarismo proveniva dagli scontri interni alla sinistra in Messico, furono le riviste di New York a dare forma a un discorso destinato a imporsi negli Stati Uniti e in Europa. Non solo le riviste antitotalitarie indipendenti, però. New York era la sede di ambienti sindacali moderni, di un giornalismo indipendente, di una presenza intellettuale di accademici di sinistra, ma contrari a Stalin, e infine pullulava degli esuli della sinistra europea. Qui insomma l’anti- totalitarismo diventò un vero e proprio laboratorio di idee politiche, pronte per l’uso ossia per la mobilitazione di piazza a sostegno delle vittime di Stalin. Un salto di qualità insomma rispetto a ciò che abbiamo visto fino ad adesso: le riflessioni solitarie di Borkenau e Hilferding, la rivoluzione silenziosa polacca, la resistenza disperata di Serge in Messico. Tra l’altro, negli Stati Uniti circolavano ancora testimonianze critiche di un certo ri- lievo sulla realtà sovietica. John Scott, un lavoratore statunitense di idee progressiste aveva soggiornato tra 1932 e 1937 a Magnitogorsk sugli Ura- li, centro della siderurgia sovietica. Il suo sguardo critico non poté essere ignorato. 59 Accanto al tempo delle testimonianze, tornò il tempo dell’agire pubblico a favore delle vittime di Stalin. L’azione pubblica più famosa fu la manifestazione di protesta contro la sparizione di Henryk Ehrlich e Wik- tor Alter, socialisti e leader del Bund. I due furono arrestati dalla NKVD nel dicembre 1941 in territorio so- vietico e, come si venne a sapere in seguito, giustiziati sbrigativamente. Ehrlich e Alter avevano condiviso vicende molto simili: ritrovatisi nelle regioni orientali della Polonia nel momento dell’occupazione sovietica, erano stati arrestati una prima volta dalla polizia politica e deportati nell’u- niverso concentrazionario di Stalin, dal quale uscirono grazie agli accordi tra governo sovietico e polacco in esilio dell’agosto 1941. I due furono tra i fondatori di un comitato antifascista ebraico in territorio sovietico, subito sospetto agli occhi delle autorità. Il nuovo arresto, operato nel dicembre 1941, fu dovuto al fatto che gli organi di sicurezza registrarono una loro conversazione su Katyn, avvenuta in un albergo di Kujbyšev (così fu ri- battezzata Samara nel 1935), dove i due si trovavano. Il silenzio sovietico ma nacquero dall’intersezione tra le eredità della Rivoluzione messicana, il dissenso dallo stalinismo e le turbolenze della guerra civile spagnola del 1936-1939». Patrick Iber, Neither Peace nor Freedom. The Cultural Cold War in Latin America, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2015, p. 22. 59. John Scott, Behind the Urals: An American Worker in Russia’s City of Steel, Bloomington-Indianapolis Indiana University Press, 1989 (I ed. 1942).
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sulla sorte di Ehrlich e Alter fu totale fino alla fine della battaglia di Stalin- grado. Da allora, in seguito alle pressanti richieste di rappresentanti inter- nazionali del mondo del lavoro, di uomini di scienza come Albert Einstein e di leader socialisti internazionali, le autorità sovietiche furono costrette a raccontare una parte almeno della verità. 60 Maksim Litvinov, ambasciatore sovietico a Washington, rispose nel febbraio 1943 a una lettera di William Green, presidente dell’AFL, con- fermando che Ehrlich e Alter erano stati giustiziati come «spie naziste». Fu organizzata per il 30 marzo una manifestazione di protesta a New York. Tra i delegati sindacali presenti, un ruolo decisivo fu svolto da Da- vid Dubinsky, ebreo polacco emigrato nel 1911 negli Stati Uniti, vicino al Bund in adolescenza. Il sindaco della città, Fiorello La Guardia, interven- ne, definendo l’assassinio dei due dirigenti bundisti il «caso Sacco e Van- zetti dell’URSS». Camille Huysmans, segretario della LSI, fece la propria parte. Scrisse la prefazione a un volumetto dedicato a questi fatti, affer- mando che la collaborazione militare con l’URSS non poteva trasformare i socialisti in «traditori» dei loro stessi compagni. I socialisti dovevano gridare la verità su quest’ennesimo omicidio di marca stalinista. 61 In una lettera del 1 o settembre 1944, Serge scrisse a Levitas dell’impegno della Commissione dei gruppi socialisti indipendenti, recentemente costituitasi a Città del Messico. In una risoluzione di questa commissione infatti si era ricordato «l’assassinio di Erlich e Alter e il recente tradimento degli insorti di Varsavia da parte del totalitarismo russo». 62 Questa mobilitazione a favore dei due sfortunati leader bundisti costi- tuì la prova generale di un intervento a più ampio spettro sul tema dei me- todi repressivi sovietici. Nel corso del 1944 la AFL iniziò a prepararsi sul terreno di una vera e propria guerra culturale per contrastare la fascinazio- ne sovietica nel mondo sindacale statunitense ed europeo. Jay Lovestone, 60. Isabelle Tombs, Erlich and Alter: «The Sacco and Vanzetti of the USSR»: An Epi- sode in the Wartime History of International Socialism, in «Journal of Contemporary Histo- ry», 4 (1988), pp. 531-549. Vedi anche The Murder of Ehrlich and Alter, Jewish Radicals: A Documentary History, a cura di Toni Michels, New York-London, New York University Press, 2012, pp. 264-267. 61. The Case of Henryk Erlich and Victor Alter, prefazione di Camille Huysmans, London, Liberty Publications, 1943. 62. La lettera è conservata in Victor Serge Papers, GEN MSS 238, b. 1, f. 60, Series I, Correspondence GENERAL CORRESPONDENCE, The New Leader (New York)/1942- 1947.
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ex dirigente del comunismo statunitense, fu collocato ai vertici della Free Trade Union Committee (FTUC), il dipartimento che si occupò da allora di sostenere il sindacalismo anticomunista all’estero. 63 Lovestone, dotato di conoscenze specifiche del mondo sovietico, divenne la mente operativa dello stato maggiore dell’AFL, composto da anticomunisti tetragoni quali Woll, Dubinsky e George Meany. 64 La AFL stava dunque prendendo passo dopo passo il sopravvento nell’ambito della mobilitazione antisovietica. La sua tradizione la metteva naturalmente in questa posizione. Basti ricordare la critica del radicalismo, la lotta contro la penetrazione del comunismo nel mondo del lavoro americano e nel 1930-1931 la campagna di mobili- tazione contro il lavoro forzato sovietico. Il rapporto stabilito adesso con il gruppo dei menscevichi mostrò che i leader sindacali erano interessati a un salto di qualità, attraverso il coinvolgimento di gruppi che incarnavano una tradizione politica e culturale diversa, ma convergente nel contesto della lotta contro Stalin. Al centro di questa attenzione si trovò la figura di David Dallin, il cui nome tornerà nel 1947 come autore di Forced Labor in Soviet Russia, scritto in collaborazione con Boris Nikolaevskij e uscito nel contesto della campagna che l’AFL aveva intrapreso contro i campi sovietici solo qual- che mese prima. La storia di Dallin era tipica dei dirigenti menscevichi. Entrato nel partito nel 1907, aveva compiuto studi all’estero, in Germania. Rientrato nel 1917, fu inserito nel comitato centrale menscevico. Divenne dunque membro del Soviet di Mosca. Dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, fu più volte arrestato e infine esiliato nel 1921. Membro della delegazione menscevica all’estero per lungo tempo, fu condirettore della «Socialističeskij Vestnik» durante il periodo berlinese fino cioè all’inizio degli anni Trenta. Giunto negli Stati Uniti nel 1940, egli dimostrò subito una notevole capacità di integrarsi nei circuiti accademici e, allo stesso 63. Anthony Carew, American Labour’s Cold War. From Deep Freeze to Détente, 1945-1970, Edmonton AB, AU Press 2018, pp. 20-24. Sulla formazione del ruolo inter- nazionale della AFL, accanto al lavoro di Carew, si veda Federico Romero, Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo 1944-1951, Roma, Edizioni Lavoro, 1989 e American Labor’s Global Ambassadors. The International History of the AFL-CIO during the Cold War, a cura di Robert Anthony Waters e Geert Van Gothem, New York, Palgrave-Macmillan, 2013. 64. Per la figura di Lovestone come «mente pensante della guerra fredda», Ted Morgan, A Covert Life. Jay Lovestone: Communist, Anti-Communist, and Spy, New York, Random House, 1989, p. 144.
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tempo, di assumere un ruolo di prestigio all’interno del socialismo statu- nitense, partecipando al dibattito interno di «New Leader». 65 Se il nome di Dallin è solitamente associato alla sua opera del 1947, non va dimenticato che questa fu basata su un discorso già pienamente sviluppatosi durante la guerra. Tra 1942 e 1944 Dallin pubblicò due opere che, in un certo senso, costituiscono l’una la continuazione dell’altra: nella prima, l’autore in- dicò i fondamenti della politica internazionale sovietica, considerandoli, nella seconda, la leva fondamentale delle politiche interne del regime. 66 Nel primo volume, uscito nel 1942 per i tipi di Yale University Press, l’autore scrisse che lo stato sovietico, per sua stessa natura, era restio a stipulare alleanze stabili. Questo era il punto cruciale: tanto il frontismo antifascista quanto il patto con Hitler possedevano una natura puramente tattica rispetto a una strategia difensiva più complessa che mirava es- senzialmente ad ottenere «allargamenti territoriali invece che alleanze militari». 67 E questi allargamenti erano fondamentali rispetto all’assunto di fondo della politica estera di Stalin, ossia l’inevitabilità del conflitto tra socialismo e capitalismo. Da questa lettura radicale delle relazioni in- ternazionali, ne era disceso già dalla fine degli anni Venti che il compito primario del partito e dello stato doveva essere il consolidamento della potenza militare-industriale, con conseguenze facilmente immaginabili sulla gestione delle risorse sociali ed economiche. 68 La politica interna dovevano prendere – o meglio, continuare a prendere – la forma di pratiche «estrattive» di quelle risorse. Senza una piena disponibilità di queste, infatti, non sarebbe stato possibile finanziare la costruzione in tempi rapidi dell’apparato industriale-militare. 65. Vedi la voce Dallin, David Iul’evich Levin (1889-1962), in Liebich, From the Other Shore, p. 334. 66. David J. Dallin, Soviet Russia’s Foreign Policy 1939-1942, New Haven, Yale Uni- versity Press, 1942; David J. Dallin, The Real Soviet Russia, New Haven, Yale University Press, 1944. 67. Dallin, Soviet Russia’s Foreign Policy, p. XVII. 68. Giudizi che nella sostanza sono stati confermati dalla storiografia più recente. Ad esempio Silvio Pons ha valutato che nel corso della seconda metà degli anni Trenta e durante la guerra si produsse quell’idea dello stato di sicurezza totale, che aveva come presupposto la guerra inevitabile con gli Stati capitalistici. Da ciò derivò la possibilità di stipulare qualsiasi alleanza che fosse in grado di produrre un aumento della sfera di in- fluenza sovietica. Silvio Pons, Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941, Torino, Einaudi, 1995.
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Proseguendo questo ragionamento, Dallin pubblicò nel 1944 un nuo- vo volume, incentrato questa volta sulla relazione tra stato e società. 69 Pres- sato dalla sua stessa logica, lo stato militare sovietico aveva edificato sé stesso con metodi brutali, realizzando, a partire dallo sfruttamento sistema- tico delle campagne, una complessa rete di gerarchie, tenuta insieme da un potere fortemente autoritario. Dallin collocò in definitiva al centro del pro- prio discorso lo stato come padrone di operai militarizzati, di «contadini non liberi» e di prigionieri ridotti al «lavoro schiavo». Insomma uno stato capitalista, feudale e schiavista. 70 Allo stesso tempo, sottolineò che questo stato si era costituito come centro di redistribuzione di beni e ricchezza in accordo alle preferenze della classe governante. Si trattava insomma di una «macchina mostruosa» che, sotto la coltre di un’ideologia egualitaria, aveva realizzato una società basata su esclusioni, discriminazioni e privi- legi garantiti per legge. 71 Una consonanza di giudizio sul regime sovietico emerse tra questo volume di Dallin e quelli che Chamberlin aveva pubbli- cato negli anni precedenti, da Russia’s Iron Age fino a Russian Enigma. Anche in questa sua ultima fatica, Chamberlin riprese il motivo della guer- ra interna che Stalin aveva scatenato contro vasti settori sociali, utilizzando mezzi repressivi eccezionali: «migliaia di persone erano state fucilate per motivi politici», mentre «milioni […] erano stati mandati nei campi di con- centramento ai lavori forzati», per ragioni collegate allo sviluppo econo- mico di regioni lontane. 72 Autori come Dallin e Chamberlin possedevano un messaggio per i governi statunitense e britannico. Nella misura in cui metodi brutali comunisti erano stati estesi ai territori di recente sovietizza- zione, quei governi dovevano considerarsi avvertiti sulle conseguenze di un’alleanza stabile con Stalin per il futuro prossimo. Chamberlin e Dallin erano autori ispirati alle idee dell’antitotalitari- smo, senza che tuttavia il confronto serrato con il regime di Hitler finisse per annullare nella loro mente le peculiarità del regime di Stalin. La cono- scenza che entrambi gli scrittori avevano maturato delle politiche sovieti- che negli anni Trenta fece sì che tracce del discorso sulla regressione socia- le, risultato delle politiche d’assalto di Stalin, fossero ben presenti nei loro 69. Dallin, The Real Soviet Russia. Le citazioni sono però tratte dall’edizione inglese del 1947. David J. Dallin, The Real Soviet Russia, London, Hollis & Carter, 1947, p. 28. 70. Ivi, p. 28. 71. Ivi, p. 63. 72. William Henry Chamberlin, Russian Enigma, New York, Charles Scribner’s Son, 1943, p. 157.
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libri. Si può obiettare che la compresenza di diversi approcci dette luogo a una contraddizione sul terreno concettuale. Delle due l’una, insomma: o il regime sovietico era un regime militare, impegnato in uno sforzo senza tregua di requisizione delle risorse sociali, suscitando pertanto un’ostilità permanente in ampi settori della popolazione, oppure era un regime totali- tario, per cui la dimensione della ferocia arbitraria conviveva con un largo consenso di massa, sia pure costruito con metodi autoritari e polizieschi. La coerenza avrebbe voluto una scelta tra le due ipotesi di lettura, ma du- rante la guerra gli obiettivi erano altri: offrire un controcanto rispetto alla diffusa fascinazione per l’Unione Sovietica, cercando allo stesso tempo di fornire alcune chiavi interpretative per la gestione dei problemi del dopo- guerra. Entrambi gli autori ribadirono più volte che una vera pacificazione tra democrazie occidentali e regime sovietico costituiva una prospettiva piuttosto improbabile. 73 3. Verso la guerra fredda: l’allineamento di moralità, potere e diritto In questo paragrafo, si cercherà di mostrare che la macchina della guerra fredda culturale mosse i primi passi negli Stati Uniti grazie alla sinergia dei sindacati, degli esuli menscevichi e di alcuni funzionari del go- verno statunitense. La pubblicazione delle memorie di Viktor Kravčenko fu il primo importante risultato di questa sinergia. Più ai margini rispetto a questo vero e proprio motore della guerra fredda sul terreno delle idee, la letteratura polacca basata sul materiale raccolto dagli ufficiali dell’Ar- mata Anders fece la sua apparizione tra Roma, Parigi e ancora New York. Contestualmente, avvenne un cambio di passo politico, allorquando, alla fine del 1947, la AFL, oramai supportata dai funzionari del Dipartimento di Stato, depositò alle Nazioni Unite la proposta per un’inchiesta sul lavoro forzato, con evidenti intenti antisovietici. Prima di entrare nel racconto di queste vicende conviene tuttavia fare brevemente riferimento a cosa stava succedendo in URSS dopo la guerra e soprattutto a come i vertici politici e militari statunitensi passarono, dopo qualche esitazione, da un atteggia- mento di comprensione verso le richieste di Stalin a una dura opposizione che sfociò nella guerra fredda. 73. La storia di questa consapevolezza in contrasto alle illusioni dell’amministrazione Roosevelt, in Gaddis, The United States and the Origins of the Cold War.
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Iniziamo dalla situazione sovietica. Il periodo post-bellico fu molto duro, a causa della determinazione del regime di riprodurre il sistema co- struito prima della guerra, basato sull’organizzazione kolchosiana dell’a- gricoltura, sull’industria pesante e sulla presenza capillare della polizia politica nella società e nell’economia. 74 Le speranze di cominciare una nuova «vita», dopo la grande vittoria popolare nella guerra antinazista, s’infransero nel «destino» di schiavitù che Stalin aveva predisposto per le popolazioni sovietiche. 75 Basti pensare che il sistema dei campi e degli insediamenti speciali conobbe l’apogeo negli anni successivi alla fine della guerra, raggiungendo nel 1953 la cifra di 2,5 milioni di detenuti nei cam- pi e 2,7 milioni di deportati nei villaggi speciali. 76 Questa crescita derivò da una decisione del potere sovietico, persuaso che, di fronte al clima di tensione postbellico con gli Stati Uniti, la produzione militare e l’industria pesante dovessero continuare a mantenere il primato, usando quanto più possibile la manodopera coatta. 77 A partire dalle ultime fasi della guerra e nel dopoguerra entrarono nei campi nuovi soggetti: partigiani nazionalisti (ucraini e baltici, prevalentemente), collaborazionisti dei tedeschi, veri e presunti, e infine prigionieri di guerra sovietici, i quali avevano lavorato nella macchina del Reich tedesco. Molti di questi dovettero passare attra- verso dei campi di filtraggio, dove venne testata la loro fedeltà al regime. Il numero dei prigionieri crebbe anche in virtù delle leggi draconiane che sanzionavano con pene abnormi il furto della proprietà di stato. Tra il 1947 e il 1952 più di un milione e mezzo di persone subì una condanna in virtù della legge del giugno 1947 sul furto della proprietà socialista. 78 Un discorso a parte va fatto per gli oltre 5 milioni di prigionieri di guerra e internati stranieri che si trovavano in Urss nel 1945. Durante la guerra era stato rapidamente edificato un nuovo comparto del sistema dei campi di concentramento, nel quale i prigionieri di guerra vennero sotto- 74. Sulla complessità del dopoguerra sovietico, Andrea Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 11-16. 75. L’intreccio tra speranza e conferma di un destino di oppressione è il nocciolo del capolavoro di Vasilij Grossman, Vita e destino, Milano, Adelphi, 2008. 76. Nicolas Werth, Le phénomène concentrationnaire soviétique au XXe siècle, in Id., La Terreur et le désarroi, p. 203. 77. Applebaum, Gulag, pp. 481-482. 78. Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, pp. 74-75.Vedi anche Werth, Les lois sur le vol du 4 juin 1947: l’apogée de la «répression légale» stalinienne, in Id, La Terreur et le désarroi, pp. 407-433.
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posti al comando dell’NKVD come tutti gli altri schiavi di Stalin. Lo sfrut- tamento sistematico del lavoro dei prigionieri fu pianificato dalle autorità sovietiche già nel 1942. Nel contesto della persistente crisi alimentare du- rante la guerra, la mortalità tra i prigionieri tedeschi e italiani, vessati dalla fame, dal freddo e dal duro lavoro, fu elevatissima. 79 Vediamo dunque l’atteggiamento statunitense verso Stalin. L’appea- sement nei confronti del regime sovietico raggiunse il culmine durante la conferenza di Yalta, nel corso della quale la questione del lavoro forzato fu discussa come forma possibile di riparazione da imporre alle potenze sconfitte. 80 Chiudendo gli occhi davanti all’impero del lavoro forzato co- struito in URSS, l’impiego di forme coatte di lavoro apparve una soluzio- ne possibile ai problemi della scarsità della forza-lavoro nel dopoguerra. Esso rispondeva tanto alla convinzione dei pianificatori del Dipartimento del Tesoro statunitense quanto alle richieste che Stalin aveva già avanzato nel 1943 a Teheran per «almeno quattro milioni di tedeschi» da utilizzare come lavoratori forzati per la ricostruzione dell’economia sovietica. 81 In realtà le autorità statunitensi smisero di fare concessioni molto presto. Al pari dei britannici e degli statunitensi, i sovietici dovettero iniziare il rim- patrio dei prigionieri nel 1946, pur tra mille difficoltà, ritardi e una generale disorganizzazione come tratto distintivo del modo sovietico di procedere in questi trasferimenti. 82 Che il clima delle relazioni tra occidentali e regi- me staliniano stesse rapidamente cambiando è rivelato anche dal fatto che 79. Maria Teresa Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 77; p. 118. 80. A Yalta, Stalin, incassata la conferma dei confini occidentali dell’URSS, ribadì il suo accordo circa libere elezioni in Polonia e negli altri paesi dell’Europa orientale, ma non aveva in realtà la minima intenzione di onorare gli impegni presi: «Così Stalin – commen- ta Gaddis – ottenne le acquisizioni territoriali e la sfera di influenza che voleva: i confini dell’Unione sovietica si spostarono verso Occidente di parecchie centinaia di chilometri e l’Armata Rossa instaurò regimi servili nel resto dell’Europa orientale». John Gaddis, La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e di speranza, Milano, Mondadori, 2007, p. 27. 81. John Dietrich, The Morgenthau Plan: Soviet Influence on American Postwar Po- licy, New York, Algora Publishing, 2002, p. 121. Più in generale, sull’idea che a Yalta «agenti segreti» di Stalin (come Alger Hiss) manovrassero all’interno della delegazione statunitense per servire gli interessi di Mosca, vedi M. Stanton Evans e Herbert Romerstein, Stalin’s Secret Agents. The Subversion of Roosevelt’s Government, New York, Thresold Editions, 2012. 82. Sui prigionieri tedeschi, vedi Frank Biess, Homecomings: Returning POWs and the Legacies of Defeat in Postwar Germany, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2006.
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già alla fine del 1945 le autorità di Washington si mostrarono sempre più interessate a studiare le fragilità del sistema sovietico in previsione di un possibile scontro tra le due potenze. L’ambasciata statunitense a Mosca inviò il 15 novembre 1945 a Washington un dispaccio sulla «scontentezza» delle popolazioni sovietiche, analizzando la situazione di intere categorie di persone, dai soldati smobilitati, ai lavoratori organizzati nei sindacati e considerando infine il pubblico in generale. L’estensore del documento sostenne che, a causa della guerra, il regime non era più riuscito a isolare la popolazione sovietica dal mondo. E tuttavia avvertì che «una serie di fat- tori vanifica qualsiasi impulso verso la rivolta». Il primo, e più importante fattore, era naturalmente «la forza onnipresente del controllo sovietico e dei meccanismi di repressione», che ben si integrava con il sentimento di sottomissione delle masse e l’assenza di una «filosofia alternativa di governo». 83 Dunque, soltanto la brutalità del regime e l’assenza di alternative reg- gevano il gigante dai piedi d’argilla. Questo aspetto emerse con sempre maggior frequenza nelle valutazioni dei responsabili della politica estera statunitense, tornando utile allorquando essi compresero che le strategie di sicurezza su scala globale delle due potenze erano di fatto inconciliabili. 84 Nel celebre telegramma che George Kennan inviò al Dipartimento di Stato da Mosca il 22 febbraio 1946 è possibile ritrovare le origini della presa d’atto da parte di Washington che i sovietici stavano puntando sulla crisi del mondo occidentale e delle sue istituzioni. La crisi doveva essere appro- fondita attraverso un lavoro capillare svolto dai partiti comunisti in loco, ai 83. Questo document si trova in National Archives at College Park, MD, Natio- nal Archives and Records Administration (da adesso NARA), RG 59 Department of State, Decimal File 1945-1949 (from 861.00/1-2245 to 861.00/4-3047), b. 6639, f. File 861.00/9.245 2-2846, Embassy of the United States of America, Discontent in the Soviet Union, p. 49. 84. Sulla inconciliabilità delle strategie di sicurezza statunitense e sovietica, si veda innanzi tutto Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009. In una letteratura vastissima, si è fatto riferimento soprattutto a Melvyn P. Leffler, A Preponderance of Power. National Security, the Truman Administra- tion and the Cold War, Stanford, CA, Stanford University Press, 1992 e Vladislav Zu- bok e Constantine Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev, Cambridge-London, Harvard University Press, 2001 (I ed. 1996). Più recentemente, The Cambridge History of the Cold War, vol. I: Origins, a cura di Melvyn P. Leffler e Odd Arne Westad, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. Si è tenuto presente infine Odd Arne Westad, The Cold War. A World History, New York, Basic Books, 2017.
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quali era affidato il compito di indebolire le capacità di mediazione sociale dei governi democratici. Mosca stava cioè cercando di: stimolare ogni forma possibile di disunità […] Tutte le persone con lamente- le, sia economiche che razziali, saranno spinte a cercare un rimedio non nella mediazione e nel compromesso, ma nella lotta violenta per la distruzione di altri elementi della società. Qui i poveri saranno messi contro i ricchi, i neri contro i bianchi, i giovani contro gli anziani, i nuovi arrivati contro i residenti consolidati, ecc.
Secondo Kennan, questo obiettivo andava di pari passo con quello di «indebolire il potere e l’influenza delle potenze occidentali sui popoli colo- niali, arretrati o dipendenti». Egli, tuttavia, si mostrò fiducioso nelle capa- cità di resistenza del mondo occidentale nella misura in cui il «comunismo mondiale» costituiva soltanto «un parassita maligno che si nutre solo di tessuti malati». Pertanto, molto poteva essere fatto dai governi democratici sul terreno economico, politico e culturale per arrestarne l’ascesa senza giungere a uno scontro militare globale. 85 Il progressivo affermarsi di que- sta visione negli uffici del Dipartimento di Stato andò di pari passo con il crescente impegno dell’AFL, la quale, con il supporto degli esuli mensce- vichi e di altri gruppi intellettuali, disegnò un conflitto in corso tra mondo occidentale del lavoro libero e mondo sovietico del lavoro schiavo. Questa dicotomia servì a sua volta come bussola per promuovere un’opposizione anticomunista nei sindacati europei e stimolare un impegno più forte nel settore della cultura e della società europee. 86 Il materiale documentario per costruire questo discorso non mancava, rivelandosi ben presto più consistente di quello di cui si era potuto disporre nel 1930-31. Soprattutto, questa volta non mancò la convergenza di quei tre piani dell’agire pubblico, più volte richiamati: moralità, potere e diritto. L’elemento decisivo fu questa volta il secondo, incarnato da quei funziona- ri del Dipartimento di Stato, i quali, seguendo la filosofia del «contenimen- 85. Il cosiddetto «lungo telegramma» è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1945-1949 (from 861.00/1-2245 to 861.00/4-3047), b. 6639, File 861.00/9.245 2-2846. Come è noto, esso fu alla base del celebre articolo del 1947, senza nome: X, The Sources of Soviet Conduct, in «Foreign Affairs», 4 (1947), pp. 566-582. Sulla figura di Kennan, adesso John Lewis Gaddis, George F. Kennan: An American Life, New York, Penguin Press, 2011. 86. Si veda in generale i già citati American Labor’s Global Ambassadors e Carew, American Labour’s Cold War, pp. 29 sgg.
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to» di Truman, si adoperarono per valorizzare le ricerche svolte dalle as- sociazioni non governative, facendole confluire in un vero e proprio corpo documentario da affidare alle Nazioni Unite e alle sue agenzie. In questo modo l’indagine sulle forme più oppressive del regime di Stalin, come il lavoro forzato, avrebbe in definitiva guadagnato visibilità e legittimazione su una scala molto più vasta. Trattandosi di una costruzione complessa, dobbiamo procedere per gradi, analizzando innanzi tutto il lavoro dei redu- ci dei campi, dei transfughi e di quelle reti associative in grado di organiz- zare un primo discorso e coinvolgere il più possibile l’opinione pubblica. Il primo grande appuntamento – come si è ricordato all’inizio del paragra- fo – fu la pubblicazione del memoriale di Viktor Kravčenko, funzionario sovietico, il quale, trovandosi a Washington per conto di una commissione d’acquisto nell’ambito del programma Lend-lease, decise di defezionare. 87 A distanza di qualche anno, Kravčenko ebbe miglior sorte di quel- la di Krivickij, del quale abbiamo già ricordato la triste fine. Nel caso di Kravčenko, ancor più che in quello di Krivickij, si mossero molte persone negli Stati Uniti, le quali evidentemente avevano compreso l’importanza di questa testimonianza. Sembra che la defezione di Kravčenko, risalente all’i- nizio di aprile 1944, fu incoraggiata da Dallin in seguito a una serie di incon- tri avvenuti all’inizio dell’anno. Certamente, gli interventi dell’ex ambascia- tore a Mosca, William Bullitt, e degli uffici dell’FBI furono più determinanti di quello del dirigente menscevico. Le autorità statunitensi s’interessarono della vicenda accuratamente. Il contenzioso apertosi con l’ambasciata sovie- tica non portò a un cedimento: fu anzi affermato dalle autorità statunitensi che l’estradizione avrebbe potuto essere effettuata soltanto nel caso di un di- sertore militare, non potendo dunque essere applicata a Kravčenko, il quale era entrato negli Stati uniti da civile. La questione si protrasse fino ai primi mesi del 1945, coinvolgendo, oltre Edgar Hoover, il procuratore generale Francis Biddle, il quale stabilì definitivamente che non vi erano basi legali per l’estradizione. La vicenda si concluse allorquando il segretario di Stato, Edward R. Stettinius, comunicò all’ambasciata sovietica l’impossibilità di far rimpatriare Kravčenko contro la sua volontà. 88 87. Per le informazioni che seguono si è fatto riferimento a documentato lavoro di Gary Kern, The Kravchenko Case. One Man’s War on Stalin, New York, Enigma Books, 2007. 88. Queste informazioni si trovano nel documento Kravchenko Case, prodotto dagli uffici del Dipartimento di Stato. Il documento è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal Files 1945-1949, from 861.00(w)/10-1548 to 861.011311/5-2747, box 6642, File 861.011311/1-445.
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L’impegno profuso da Dallin mostrò comunque che una parte degli esuli sbarcati negli Stati Uniti erano decisi a contrastare con ogni mezzo possibile le simpatie ancora molto diffuse nell’opinione pubblica progres- sista statunitense nei confronti del regime di Stalin. Circolò a lungo la no- tizia che erano stati i menscevichi a scrivere I Chose Freedom, le memorie che Kravčenko pubblicò nel dopoguerra, e che erano stati loro ad inventare di sana pianta gli episodi relativi alla carestia in Ucraina e ai campi di lavo- ro forzato. Non ci sono però ragioni per confermare questo giudizio. L’au- tore si giovò certamente della collaborazione degli ambienti della sinistra antistalinista statunitense, di cui i menscevichi emigrati erano oramai parte integrante, ma l’urgenza di raccontare come il potere sovietico gestisse i problemi economici e sociali proveniva da lui stesso. Egli proseguì così una piccola, ma importante tradizione di ex funzionari sovietici che intese- ro raccontare all’Occidente il funzionamento di istituzioni all’interno delle quali essi avevano ricoperto ruolo importanti. La ricerca di uno scrittore in grado di aiutare Kravčenko a comporre le sue memorie s’indirizzò inizialmente su Levine, già impegnatosi, si ri- corderà, nella lavorazione del libro di Krivickij. I contatti non portarono a risultati concreti e pertanto Dallin si rivolse a Eugene Lyons, direttore di «American Mercury» e autore nel 1941 di una importante ricognizione sulla penetrazione dello stalinismo negli Stati Uniti negli anni Trenta. 89 Di Assignment in Utopia abbiamo fatto menzione nel capitolo precedente. Se in aggiunta teniamo in considerazione che Max Eastman scrisse nel 1945 un’introduzione alle memorie di Aleksander Barmin, un altro funzionario sovietico disertore, abbiamo un quadro sufficientemente particolareggia- to di questa alba precoce della guerra fredda combattuta sul terreno delle idee. 90 Per inciso, le memorie di Barmin mostrarono l’esistenza di un retro- terra anche più vasto, condiviso con l’antitotalitarismo europeo della fine 89. Eugene Lyons, The Red Decade. The Stalinist Penetration of Stalinism of Ame- rica, New York, Bobbs-Merrill Company, 1941. A proposito della collaborazione tra Kravčenko e Lyons, Kern ha scritto: «[…] fu una collaborazione effettiva: Kravchenko fornì i contenuti, le osservazioni, le esperienze e le emozioni che avevano determinato la sua defezione, Lyons dette a tutto ciò una forma letteraria, con i suoi colori, flussi e vita artistica», Kern, The Kravchenko Case, p. 176. Vedi anche Susan L. Carruthers, Cold War Captives. Imprisonment, Escape, and Brainwashing, Berkeley, University of California Press, 2009, p. 109. 90. Alexander Barmine, One Who Survived. The Life Story of a Russian under the Soviets, New York, G. P. Putnam’s sons, 1945.
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degli anni Trenta. Dopo aver defezionato nel 1937, egli infatti era giunto a Parigi dove entrò in contatto con Serge, il quale redasse il testo delle sue memorie in una forma adeguata da un punto di vista letterario. Tornando a Kravčenko, I Chose Freedom venne pubblicato nell’apri- le 1946 per i tipi di Charles Scribner’s Sons, diventando rapidamente un best seller. Il volume uscì a stretto giro anche in Gran Bretagna e suc- cessivamente venne tradotto in francese, spagnolo e italiano. 91 Negli Stati Uniti, l’opinione pubblica si spaccò in due. Dorothy Thompson affermò che si aveva di fronte un «libro palpitante», che poteva essere descritto an- che come «dinamite sotto le illusioni» della sinistra prosovietica. I Chose Freedom era in definitiva «il rapporto più notevole e più rivelatore che sia uscito dall’Unione Sovietica da qualsiasi fonte». 92 Al contrario, «New Republic» definì il libro di Kravčenko «il più recente piatto speziato uscito dalla cucina anticomunista, con un sapore del tutto sgradevole» 93 Quali che fossero i giudizi, il grande pubblico venne a conoscenza della storia drammatica di un giovane ingegnere ucraino, presto legatosi a Grigorij K. Ordžonikidze, capo del Commissariato per l’industria pesante. Entusiasta della modernizzazione sovietica, Kravčenko era stato soprattutto fiero di esser diventato un membro dell’élite sovietica, proveniendo da una fami- glia operaia. I tre anni trascorsi a Nikopol’ (1935-1938) coincisero in larga parte con il Grande terrore, che infranse i suoi sogni e provocò in lui un distacco radicale dal regime di Stalin. Kravčenko scoprì in questo perio- do che l’allargamento del complesso industriale della cittadina ucraina era stato realizzato con i lavoratori forzati affittati dalla NKVD. Ricordò: Feci un’inchiesta discreta e seppi che quella maestranza di detenuti era stata fornita dalla NKVD ai funzionari dei lavori di costruzione in virtù di un con- tratto stilato con ogni regola. La NKVD riscuoteva per ogni prigioniero una retribuzione quasi uguale a quella che sarebbe toccata a un libero lavoratore. Così dunque non contenti di utilizzare direttamente il lavoro di milioni di prigionieri politici nelle miniere d’oro e di sale, nei disboscamenti, nei la- vori ferroviari e nelle istallazioni portuali, i funzionari della NKVD osavano anche «affittare» l’eccedenza dei loro schiavi ad altre imprese sovietiche. 94 91. Queste le prime edizioni: I chose Freedom. The Personal and Political Life of a Soviet Official, London, Robert Hale, 1947; J’ai choisi la liberté, Parigi, Éditions Self, 1947; Yo escogí la libertad, Madrid, NOS, 1947; Ho scelto la libertà, Milano, Longanesi, 1948. 92. Carruthers, Cold War Captives, p. 109. 93. Ivi, p. 110. 94. Cito dall’edizione italiana: Victor Kravchenko, Ho scelto la libertà, p. 364.
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Il grande terrore lo investì personalmente nella fase successiva alla morte del suo protettore politico. Tuttavia, cessate le persecuzioni, egli ri- prese la sua carriera di dirigente industriale nell’ultimo squarcio degli anni Trenta e durante la guerra. Passò dalle officine metallurgiche Andreiev a Taganrog, città portuale sul Mar d’Azov, alla fabbrica Novo Trubni a Pervoural’sk sugli Urali fino a Kemerovo nella Siberia sud occidentale e infine, durante l’offensiva tedesca, nei pressi di Kazan’. La sua coscienza dovette fare i conti con la presenza ricorrente di campi di concentramento collegati alla produzione industriale. Scrisse ad esempio che: A una dozzina di chilometri da Pervoural’sk vidi improvvisamente i recinti di filo spinato di un campo di concentramento che si trovava ad alcune centinaia di metri dalla strada. Per vedere meglio, feci fermare la macchina. Il campo si estendeva su una superficie di diversi ettari, in un’immensa radura in mezzo alla foresta. Era composto da file interminabili di baracche costruite in un luogo assolutamente deserto e silenzioso come una tomba. Il campo aveva forma di esagono; ad ogni angolo si drizzava un osservatorio coronato da grossi proiettori e da mitragliatrici. 95
La condizione dei lavoratori forzati era una scelta deliberata da parte del regime, il quale non attribuiva nessun valore, neppure economico, ai propri «schiavi». Scrisse: In un regime di schiavitù legalizzata, quale esisteva per esempio negli Sta- ti Uniti prima della guerra civile, gli schiavi rappresentavano un valore dal punto di vista economico e ricevevano quindi le cure che si dedicano agli animali utili. La situazione degli schiavi sovietici è infinitamente meno buo- na: il loro numero è pressoché illimitato e il loro proprietario – cioè lo Stato sovietico – trova più economico verosimilmente lasciarli morire in massa che nutrirli e vestirli. 96
Questo racconto era mirato a squarciare le illusioni che una parte con- sistente dell’opinione pubblica statunitense coltivava sull’alleato sovietico. 95. Ivi, p. 514. Più avanti, lo spettacolo dei lavoratori forzati, visti nel degrado assolu- to della loro condizione: «Un giorno, durante una passeggiata con un collega, ci trovammo improvvisamente sulla riva di una lugubre palude in cui lavoravano circa trecento prigio- nieri, in maggioranza donne. Tutti erano ridotti in uno stato di sporcizia indescrivibile e vestiti in modo grottesco; molti affondavano fino al ginocchio nell’acqua fangosa. Lavora- vano in un silenzio assoluto, aiutandosi con strumenti primitivi; la nostra presenza li lasciò perfettamente indifferenti». Ivi, p. 535. 96. Ivi, p. 615.
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Kravčenko conosceva bene la situazione dell’industria sovietica nel perio- do precedente l’aggressione di Hitler. La guerra fu dunque dipinta a tinte fosche: disorganizzazione e mancanza di coordinamento, subordinazione dei funzionari governativi e dei dirigenti industriali al partito nelle sue di- verse istanze, condizioni di arretratezza dell’apparato militare, volontari- smo estremistico della catena di comando, progetti insensati, condizioni terribili dei lavoratori, popolazione delle città lasciata priva di maschere antigas e soprattutto impiego massiccio del lavoro forzato. Quest’ulti- mo – non la capacità gestionale della burocrazia sovietica – rappresentò in definitiva il marchio di fabbrica dei successi militari di Stalin. Affermò con amarezza che: «gli stranieri che si ostinano a vedere nella vittoria fi- nale della Russia una prova di «successo del sistema sovietico», sarebbero più vicini alla verità se esaltassero il successo conseguito da una vasta impresa di schiavitù, sfruttata dallo Stato». 97 Pur distante dal centro della macchina culturale e politica che portò alla ribalta la vicenda di Kravčenko, una letteratura polacca, basata sulla docu- mentazione raccolta dagli ufficiali dell’Armata Anders, fu prodotta negli stessi anni, con l’obiettivo di presentare prove inoppugnabili sui campi e sul lavoro forzato sovietici. Al di là della memoria, per quanto recente e ancora bruciante, furono gli avvenimenti del presente ad avviare questa macchina. Mi riferisco al processo di sovietizzazione in corso della Polonia, che, ben- ché venisse realizzato compiutamente soltanto nel 1947, era stato messo in moto già nel 1944-1945. 98 A Varsavia, dopo l’arresto di sedici capi politici e militari nel marzo del 1945, si decise di formare un regime filosovietico attraverso la consultazione elettorale, come previsto dagli accordi di Yalta. A causa della presenza di un forte partito contadino, guidato da Stanisław Mikołajczyk, il quale era stato capo del governo polacco in esilio dal 1943, i sovietici non ottennero i risultati sperati. Metodi più spicci furono impie- gati allora all’inizio del 1947, allorquando fu utilizzato sistematicamente il terrore nella forma di intimidazioni, arresti e torture degli oppositori. 99 Dal 97. Ivi, p. 726. 98. Sui processi di sovietizzazione si è fatto riferimento a Norman Naimark, The So- vietization of Eastern Europe 1944-1953, in The Cold War, vol. I, pp. 175-197; The Establi- shment of Communist Regimes in Eastern Europe, 1944-1949, a cura di Norman Naimark e Leonid Gibianskii, Boulder, CO, Westview, 1997; Anne Applebaum, Iron Curtain. The Crushing of Eastern Europe 1944-1956, New York, Doubleday, 2012 [trad. it. La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est, 1944-1956, Milano, Mondadori, 2022]. 99. Applebaum, Iron Curtain, pp. 209-219.
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punto di vista polacco, il metodo migliore per denunciare il processo di so- vietizzazione in corso fu di portare a conoscenza dell’opinione pubblica oc- cidentale l’esperienza vissuta dai cittadini delle regioni orientali durante il periodo dell’alleanza tra Stalin e Hitler. Le interviste raccolte dagli ufficiali dell’armata Anders, delle quali abbiamo già discusso, fecero da tessuto con- nettivo per questa operazione politico-culturale. Per il fatto stesso che l’armata Anders aveva dato il suo contributo militare alla liberazione dell’Italia, Roma divenne per un tempo brevissi- mo il luogo dal quale s’irradiò in Europa la verità sul sistema concentra- zionario sovietico. Nel 1944, Józef Czapski, pittore e scrittore polacco, compose le sue memorie pubblicandole nel 1945 con il titolo Ricordi di Starobielsk. 100 Rinchiuso in uno di quei campi da dove migliaia di ufficia- li erano stati prelevati dalla NKVD e fucilati, Czapski era stato miracolo- samente risparmiato dal caso. Queste memorie uscirono contestualmente a un altro volume ad opera di ufficiali polacchi. Mi riferisco a La giustizia sovietica ad opera di Kazimierz Zamorski e Stanisław Starzewski, i quali preferirono utilizzare degli pseudonimi. Il volume non ebbe una grande circolazione anche se in contemporanea uscì un’edizione francese. 101 L’a- nalisi del quadro normativo sovietico si dimostrò impeccabile, sottoline- ando come tipici i criteri della colpa collettiva (ed ereditaria), l’analogia di reato, il principio della retroattività della legge. In secondo luogo, gli autori descrissero il funzionamento reale di questa giustizia «orientale» sulla base di testimonianze che oramai conosciamo. Attraverso di esse, il lettore apprese dei metodi d’arresto della NKVD (prevalentemen- te notturni), della peculiarità della fase istruttoria (tesa a ottenere una confessione), delle procedure di tipo amministrativo, con commissioni speciali che emettevano sentenze giudiziarie. Ed ancora si lesse delle ter- ribili condizioni dei trasferimenti verso i campi di smistamento e infine dell’inferno dei campi di destinazione, con fame, freddo, violenze delle guardie e lavoro coatto a farla da padroni. In terzo luogo, questo volume tentò una stima complessiva dei detenuti. Quindici milioni – corrispon- dente al 7,5% della popolazione sovietica – era effettivamente una cifra troppo alta, ripresa più volte durante la guerra fredda a fini propagandi- 100. Giuseppe Czapski, Ricordi di Starobielsk, Roma, 1945. 101. In italiano Silvestro Mora e Pietro Zwierniak, La giustizia sovietica, Roma, Ma- gi-Spinetti, 1945. In francese, Sylvestre Morra et Pierre Zwierniak, La justice soviétique, Roma, Magi-Spinetti, 1945.
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stici antisovietici. 102 La misurazione del «fenomeno gulag» fu fatta anche dal punto di vista geografico, proponendo in appendice una mappa dei principali sistemi di campi sovietici. Nel volume fu espressa una tesi radicale, ossia che il sistema dei campi era stato costruito per realizzare lo «sterminio biologico degli elementi indesiderati» non soltanto dunque per dotare il regime di una forza lavoro a basso costo. 103 Questo era il filo rosso che attraversò altre opere provenienti dagli stes- si ambienti, come Terre inhumaine che Czapski pubblicò a Parigi nel 1947, con la prefazione di Daniel Halévy, come sviluppo delle memorie che ave- va pubblicato in Italia. 104 Un altro volume uscì nel 1947 a New York, con il titolo The Dark Side of the Moon, pubblicato da un’autrice anonima, ma corredato da una prefazione affidata alla penna di Thomas S. Eliot. Elena Sikorski mise a parte il lettore che i documenti usati per scrivere questo vo- lume erano stati messi a disposizione dell’autrice da suo marito, il generale Władysław Sikorski, il quale era stato a capo del governo polacco in esilio fino al 1943. La descrizione della «rivoluzione dall’esterno» presentata in questo volume ci è già nota: saccheggio dell’economia, distruzione dei cul- ti, aggressione ai membri delle élite politiche e culturali, arresti di massa e infine deportazioni nel vasto nel sistema concentrazionario. 105 All’interno di quest’ultimo – commentò l’autrice – vi era un tale immenso serbato- io di schiavi a disposizione, che ciascun prigioniero «non rappresenta[va] nessun valore in denaro». Anzi «arrivato a un certo stadio di esaurimento e deterioramento fisico», il prigioniero poteva rappresentare un peso inutile: 102. Si è già ricordato all’inizio di questo paragrafo i numeri effettivi dei detenuti e dei deportati ad un dato momento storico, la morte di Stalin: un numero complessivo di 5,2 milioni di persone collocate dentro l’universo concentrazionario staliniano. Werth, Le phénomène concentrationnaire. 103. Mora e Zwierniak, La giustizia sovietica, p. 125. 104. Józef Czapski, Terre inhumaine, prefazione di Daniel Halévy, Paris, Éditions Self, 1947. 105. L’autrice confermò la ricchezza delle sue fonti: «ogni fatto che forma materia di questo libro è stato raccolto da fonti dirette. Queste fonti dirette sono: i racconti, le lettere, i diari e molti altri scritti di molte centinaia di persone che sono state deportate; inoltre rac- conti e dichiarazioni raccolti da me in conversazioni, durante giorni interi, se non settimane, con persone che raggiunsero l’Inghilterra dopo il 1941; racconti e deposizioni di persone che non furono deportate, ma che testimoniarono e assistettero agli avvenimenti riferiti; e, finalmente, atti e trattati fra i governi, di recente resi pubblici». Questa citazione è presa dall’edizione italiana, L’altra faccia della luna, con prefazione di Thomas S. Eliot, Milano, Longanesi, 1948, pp. 87-88.
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«meglio quindi – sembravano ragionare le autorità dei campi – se lo si toglie di mezzo al più presto possibile, come infatti accade». 106 L’idea dello sterminio (o comunque del disprezzo assoluto della vita umana) era teso a stabilire una parentela stretta con il regime nazionalsocialista, dando così una spinta alla diffusione del paradigma totalitario che avrebbe caratteriz- zato la guerra fredda culturale. A questa data, il 1947, un’opera di controinformazione era stata avvia- ta anche dalle comunità ucraine e del Baltico negli Stati Uniti e in Canada. Documentando fucilazioni di massa, deportazioni e lavoro schiavo, esse si collegarono al discorso sul genocidio, che nel 1946-47 dominò la scena alle Nazione Unite. 107 È un fatto che le istanze dei critici del regime sovie- tico stavano cambiando rispetto al passato. Se la prima campagna contro il lavoro forzato, quella del 1930-1931, era stata fortemente incentrata sul- la denuncia dell’aspetto economico dei campi, adesso la denuncia della volontà di sterminio di interi gruppi nazionali e sociali acquistò maggior peso, mirando a produrre un nuovo effetto sulla opinione pubblica interna- zionale: analogamente alle politiche genocidarie nazionalsocialiste, quelle sovietiche contemplavano lo sterminio intenzionale degli avversari sociali e nazionali all’interno di una logica che andava ben oltre il vasto sistema di arresti, deportazioni e lavoro forzato, edificato per contribuire al succes- so produttivo dell’economia statizzata sovietica. 108 In altri termini, già dai loro primi passi, destinati a culminare in un’azione più sistematica all’ini- zio degli anni Cinquanta, le comunità polacche, ucraine e delle nazioni del Baltico combinarono il discorso sul totalitarismo con quello sui genocidi, incontrando sulla loro strada la figura di Raphael Lemkin. Discuteremo più avanti del significato di questi incontri. Per adesso è più importante sottolineare il dato generale che accomuna il volume di Kravčenko, la letteratura polacca e i primi interventi ucraini e delle nazioni del Baltico. Nel complesso, queste testimonianze costituirono una prima grande arma documentaria, messa a disposizione degli attori intenzionati a prendere le redini delle iniziative antisovietiche. La AFL fu il principale tra 106. Ivi, p. 147. 107. Sul tema del genocidio, e il collegamento con i crimini staliniani, Anton Weiss- Wendt, The Soviet Union and the Gutting of the UN Genocide Convention, Madison, The University of Wisconsin Press, 2017. 108. Sul terreno storiografico Naimark ha ricondotto al termine «genocidio» le poli- tiche più estreme di Stalin. Norman Naimark, Stalin’s Genocides, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2010.
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questi attori, ridando vigore a quella campagna contro la «schiavitù rossa» sconfitta all’inizio degli anni Trenta. Adesso, la AFL non soltanto aveva accumulato maggiore esperienza, ma si era convinta di poter influenzare il mondo del lavoro europeo nell’ambito del confronto globale con il regi- me sovietico, disegnato da Truman. Era arrivato insomma il tempo della guerra fredda, nel cui ambito considerazioni corporative e particolaristiche dovevano cedere il passo al disegno di costruire un nuovo mondo basato sulla dicotomia tra lavoro libero e lavoro schiavo. Per i dirigenti dell’AFL fu dunque necessario acquisire rapidamente l’egemonia sul movimento sindacale europeo non comunista. Affidato alle cure di Lovestone, il FTUC, organismo della AFL impegnato negli affari internazionali, intensificò la costruzione di una rete diffusa in Europa con l’obiettivo di battere in breccia l’influenza del Congress of Industrial Or- ganizations (CIO). 109 La differenza tra le due grandi centrali americane era marcata. Diversamente dalla AFL, il CIO aveva aderito alla World Federa- tion of Trade Unions (WFTU), organizzazione nata a Parigi nel 1945 con l’impegno di mantenere vivi i valori dell’antifascismo dentro il sindacali- smo internazionale. A capo di questa nuova organizzazione fu messo Louis Saillant, leader della Confédération Générale du Travail, un uomo molto gradito ai sovietici. La nuova organizzazione fu definita da Sidney Hil- lman, esponente del CIO, come una «versione globale del New Deal». 110 I propositi della AFL erano completamente diversi da quelli di Hillman e Saillant. I vertici della AFL volevano rompere con gli equivoci dell’anti- fascismo internazionale e combattere l’influenza sovietica sul mondo del lavoro. Nel marzo 1947, contestualmente all’enunciazione della dottrina Tru- man, l’«International Free Trade Union News», periodico dell’AFL dal 1946, pubblicò un manifesto contro il «lavoro schiavo» a firma di David Dubinsky e Matthew Woll. Ispirato alla teoria del totalitarismo, il mani- festo denunciò il silenzio calato sui campi sovietici durante la guerra e 109. Quenby Olmsted Hugues, The American Federation of Labor’s Campaign against «slave labor», in American Labor’s Global Ambassadors, pp. 23-38. E, più diffu- samente, Quenby Olmsted Hugues, «In the interest of Democracy». The Rise and Fall of the Early Cold War Alliance Between the American Federation of Labor and the Central Intelligence Agency, Bern, Peter Lang, 2011. 110. Anthony Carew, A False Dawn: The World Federation of Trade Union, in The International Confederation of Free Trade Unions, a cura di Anthony Carew e altri, Bern, Peter Lang, 2000, p. 169.
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nell’immediato dopoguerra. Il perdurante silenzio fu descritto come una «colossale irrisione» dello stesso processo di Norimberga, in occasione del quale Frizt Sauckel, l’organizzatore del lavoro forzato del Reich tedesco, era stato giustiziato. Anche in URSS infatti «milioni di cittadini» erano «condannati ai campi di lavoro forzato» assieme a masse sterminate di stranieri (austriaci, estoni, ungheresi, tedeschi, italiani, lituani, lettoni, po- lacchi, giapponesi e rumeni). Nel complesso, fu indicata l’esistenza di un esercito di schiavi, impiegati a costruire strade e ferrovie, a lavorare nelle miniere, nelle fabbriche e nelle istallazioni belliche segrete. Lo sguardo poggiava in realtà su un universo più vasto, come se una marea stesse montando da oriente verso Occidente. Furono così denunciate le politiche del governo ceco, il quale aveva organizzato «la più grande deportazione in massa dei tempi moderni», spogliando dei loro averi due milioni di te- deschi dei Sudeti. Inoltre, la WFTU, fortemente ispirata allo spirito di col- laborazione con l’URSS, si era fatta promotrice di un impiego del lavoro forzato per far ripartire le miniere della Ruhr. I dirigenti dell’AFL denun- ciarono infine la realtà brutale dei campi di Tito e non tacquero del fin trop- po lento rilascio dei prigionieri tedeschi da parte francese e britannica. 111 I vertici della AFL avevano già da tempo definito l’URSS come re- gime totalitario. Già nell’agosto 1946, Dubinsky e Woll presentarono al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) un Interna- tional Bill of Rights nel quale affermarono che una dittatura «meno barbara per certi aspetti di un altro regime totalitario» non poteva comunque essere definita democratica. Infatti, la democrazia costituiva agli occhi dei due di- rigenti sindacali «l’antitesi della dittatura o del governo totalitario a partito unico in ogni sua forma». 112 Con queste certezze, mai venute meno neppure durante la guerra, la AFL stava svolgendo una funzione di traino rispetto all’amministrazione Truman, all’apparato di funzionari di Washington e 111. Il manifesto è riprodotto in Schiavismo rosso. Il lavoro forzato in Russia do- cumentato all’ONU dalla Federazione americana del lavoro, Firenze, Salani, 1952, pp. 17-21. Già nel gennaio 1947 «International Free Trade Union News» aveva denunciato la schiavitù sovietica. Si legge che il governo sovietico aveva ripreso «la politica iniziata nel 1939 e 1940», deportando nuovamente polacchi e baltici in zone remote dell’URSS. E che «il sistema russo dei campi di concentramento e del lavoro forzato» si stava espandendo nella stessa Polonia, in Bulgaria e Jugoslavia. Ivi, pp. 14-16. 112. The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Staff Files; George Delaney’s files 1921-1957, File 22, General File 1946-1953, An International Bill of Rights, pp. 4-5.
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allo stesso corpo diplomatico. Si posseggono in effetti diverse testimonian- ze dell’atteggiamento cauto del governo statunitense. Un rapporto segreto, risalente al 2 ottobre 1946, era stato inviato dall’ambasciata di Mosca agli uffici del Dipartimento di Stato. L’argomento presentato erano i campi di concentramento sovietici. Il rapporto riferì di un cittadino americano di origini polacche, il quale, recatosi in URSS negli anni Venti, era stato in- ghiottito nell’universo concentrazionario sovietico, imprigionato nell’uni- verso della Kolyma per lunghi anni. Il commento del funzionario preposto rifletté un approccio minimalista: «è impossibile – si legge – valutare l’accuratezza di ciascuna delle affermazioni fatte dalla fonte», cioè dal te- stimone, anche se l’intervistatore aveva percepito una sincerità di fondo. Questa cautela era molto diffusa tra i funzionari del Dipartimento di Stato, ancora incerti rispetto all’evoluzione della politica estera statunitense. 113 A partire dalla metà dell’anno successivo, dopo l’enunciazione della dottrina Truman, le cautele vennero però meno ed ogni informazione pos- sibile fu sfruttata sul terreno della propaganda. 114 Si è detto che i dirigenti sindacali erano già da tempo su queste posizioni. Tuttavia, il loro atteggia- mento divenne nel corso del 1947 ancora più aggressivo e i toni sempre più allarmati circa la possibilità che il comunismo sovietico si espandesse grazie alla manipolazione delle menti degli intellettuali occidentali. Lo- vestone scrisse il 23 maggio 1947 a Irving Brown, uno dei suoi uomini in Europa occidentale, che il «terrore» sovietico si era esteso oramai in «senso morale e intellettuale» durante la guerra. Era dunque compito del movimento operaio statunitense iniziare la guerra culturale contro «la bar- barie russa», denunciando «la schiavitù e il degrado intellettuale» che la sosteneva dall’esterno. 115 La forza di questa operazione s’intensificò con l’annuncio del piano Marshall, perché il grande trasferimento di risorse 113. A questo proposito, si veda il documento conservato in NARA, RG 59, Depart- ment of State, Decimal File 1945-1949 (from 861.00/1-2245 to 861.00/4-3047), b. 6639, File 861.00/9-446-11-3046, Soviet Concentration Camps. 114. Gleason ha scritto correttamente che: «La retorica di Truman ha conferito la mas- sima legittimità al termine totalitarismo nel lessico politico americano, oltre a rendere la lotta contro di esso all’ordine del giorno. Truman aveva ormai definito l’attuale fase del mo- vimento antitotalitario e se ne era posto alla testa», p. 74. Gleason, Totalitarianism, p. 70. 115. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, Box: 11, file 7, Brown Irving, 1947. Sulla figura di Irving Brown si può fare riferimento a Carew, American Labour’s Cold War, pp. 24-27.
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previsto metteva i funzionari della «diplomazia americana del lavoro» in condizioni di proporre ai dirigenti sindacali europei un’integrazione gra- duale nelle reti economico-finanziarie della comunità occidentale in for- mazione all’insegna della nuova politica della produttività statunitense. 116 L’influenza costante e crescente dell’AFL su Force Ouvrière in Francia rappresentò senza dubbio uno dei maggiori successi di questa strategia. 117 Era giunto il momento di saldare la moralità e il potere con il diritto. Finalmente, il 24 novembre 1947 l’AFL richiese formalmente all’ECOSOC di coinvolgere l’ILO in un’indagine sul lavoro forzato nel mondo. 118 Questa mossa fu mirata a ricostruire, adesso che l’amministrazione Truman aveva definitivamente cambiato rotta circa i rapporti con l’URSS, quell’intreccio tra diverse dimensioni dell’agire pubblico che si era perduto dopo i primi anni Trenta. I vertici sindacali, coadiuvati da una parte del mondo delle ri- viste antitotalitarie di sinistra, utilizzarono, con il consenso del Dipartimen- to di Stato, il grande palcoscenico delle Nazioni Unite per dare finalmente risalto internazionale al tema del lavoro forzato. Insomma, un’intera mac- china si era messa in moto a partire dalla continuità del lavoro svolto dal- la AFL. Quest’ultima non aveva mai smesso di combattere la penetrazione del comunismo negli Stati Uniti, aveva costruito organismi impegnati nella propaganda anticomunista in Europa e infine aveva favorito un’integrazione capillare tra i propri uomini e i funzionari dell’amministrazione Truman. Pur catalogabile come un successo, la «consegna» della battaglia contro il lavo- ro forzato sovietico agli organismi internazionali dovette attendere qualche tempo prima che l’intero processo giungesse a maturazione. 116. Vedi a questo proposito l’importante Conferenza sindacale internazionale, te- nutasi a Londra nel marzo 1948, in Carew, American Labour’s Cold War, pp. 62-65. Vedi anche Anthony Carew, The Politics of Productivity and the Politics of Anti-Communism: American and European Labour in the Cold War, in The Cultural Cold War in Western Europe, 1945-60, a cura di Hans Krabbendam e Giles Scott-Smith, London, Routledge, 2004. Inoltre Charles Maier, La politica della produttività. Gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, in Id., Alla ricerca della stabilità, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 177-222. 117. Barrett Dower, The Influence of the American Federation of Labor on the Force Ouvrière 1944-1954, in American Labor’s Global Ambassadors, pp. 85-101. 118. Harold Karan Jacobson, Labor, the UN and the Cold War, in «International Or- ganization», 1 (1957), pp. 63-65. Sandrine Kott, Abolition of Forced Labour Convention, in The Palgrave Dictionary of Transnational History from the Mid-19th Century to the Pre- sent Day, a cura di Akyra Iriye e Pierre-Ives Saunier, New York, Palgrave Macmillan, 2009; Sandrine Kott, The Forced Labor Issue between Human and Social Rights, 1947-1957 in «Humanity», 3 (2012), p. 325.
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4. Il dibattito intorno ai campi sovietici. Il contributo degli intellettuali La convergenza tra AFL e governo statunitense ridisegnò dunque l’intero modo di pensare il problema sovietico: non più il lavoro intel- lettuale e testimoniale sparso come in fondo era stato negli anni Trenta e neppure il grande lavoro organizzativo, ma in fondo autoreferenziale, svolto dal socialismo europeo negli anni Venti. Piuttosto, nel 1947 si realizzò una sinergia di forze che, agendo su diversi terreni, si propose di realizzare un obiettivo comune: giungere a una normativa internazionale che condannasse il lavoro forzato e i campi di concentramento. Questa maggiore concretezza rispetto al passato non significò che il tradizionale ruolo degli intellettuali, con i loro convegni, le loro riviste e i loro libri, venisse messo da parte. Si cercherà innanzi tutto di ripercorrere il dibat- tito attorno ai campi sovietici svoltosi nel 1947-1948; quindi, dovremo trarre alcune conclusioni sul diffondersi di un consenso antitotalitario dentro una parte della sinistra intellettuale europea e statunitense. Si può anticipare che questa ebbe una parte non secondaria nella partita della guerra fredda culturale. Una grande valorizzazione del ruolo delle idee durante la guerra fredda si trova in Grand schisme pubblicato da Raymond Aron nel 1948. Questo volume costituì un’analisi della guerra fredda che condensava i molteplici interessi del suo autore, dalla politica internazionale ai sistemi politici fino alla storia delle idee. Definendo la guerra fredda come guer- ra ideologica, Aron colse lucidamente che confini territoriali dei blocchi non coincidevano con la capacità di influenzare la mente degli uomini. Da questo punto di vista, la presenza di grandi partiti comunisti in Occidente, come quello francese e quello italiano, e soprattutto la condiscendenza nei loro confronti da parte degli intellettuali progressisti, aveva assunto grande importanza. Aron reputò necessario fare i conti con i diversi aspetti della mitologia resistenziale e rivoluzionaria, la quale era basata su un rifiuto radicale dell’anticomunismo, il quale impediva di guardare il regime so- vietico per quello che esso era realmente. Si trattava in sostanza di contra- stare sul terreno delle idee quella peculiare forma di legittimazione politica che inseriva il comunismo nella grande famiglia delle culture progressiste risalenti alla Rivoluzione francese. 119 119. Jean-François Sirinelli, Sartre et Aron, Deux intellectuels dans le siècle, Paris, Fayard, 1995, pp. 205 sgg.
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Per comprendere gli sviluppi di questo impegno sul terreno culturale, dobbiamo ancora una volta partire dal menscevismo in esilio negli Stati Uniti. Le iniziative dell’AFL, di cui si è detto nel paragrafo precedente, coincisero con la pubblicazione di un saggio di Dallin su «New Leader», dedicato ai campi sovietici. 120 Questo saggio costituì un’anteprima del vo- lume sul lavoro forzato in URSS che sarebbe uscito pochi mesi più tardi con la collaborazione di Nikolaevskij, storico menscevico che aveva se- guito una traiettoria esistenziale molto simile a quella dei suoi compagni di partito. 121 Forced Labor in Soviet Russia ebbe una vasta circolazione grazie a numerose recensioni, ristampe e, negli anni immediatamente successivi alla prima pubblicazione, traduzioni in altre lingue occidentali. 122 «New Leader» lo presentò nel novembre 1947 al pubblico come «un resoconto del ritorno in questo secolo del lavoro schiavo come istituzione di gover- no». Questa definizione contribuisce a spiegare perché i due autori finirono nell’occhio del ciclone, suscitando cioè durissime reazioni da parte sovie- tica. Durante una seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, un delegato sudafricano citò alcuni brani dal libro per dimostrare che le con- dizioni dei lavoratori sovietici erano complessivamente molto peggiori di quelle dei lavoratori sudafricani. Non fu certo questo uso strumentale e autoassolutorio a provocare la risposta dei rappresentanti sovietici, quanto gli stessi argomenti usati nel libro dai due autori. Dallin e Nikolaevskij vennero definiti «gangster» e «idioti» che avevano ricavato false infor- mazioni da «agenti hitleriani». L’immunità diplomatica permise a Andrej Vyšinskij, il grande accusatore dei processi degli anni Trenta e adesso rap- presentante sovietico alle Nazioni Unite, di utilizzare queste espressioni infamanti senza timore di essere denunciato. 123 120. David J. Dallin, Concentration camps in Soviet Russia, in «New Leader», n. 13, 29 marzo 1947. Dallin era diventato parte del circuito della rivista socialdemocratica statu- nitense diretta da Sol Levitas, pubblicando un considerevole numero di articoli, per lo più dedicati a questioni sovietiche, e diventando direttore aggiunto della rivista. 121. Nikolaevskij contribuì limitatamente allo studio dei campi dell’estremo oriente sovietico. David J. Dallin e Boris Nikolaevskij, Forced Labor in Soviet Russia, New Haven, CT, Yale University Press, 1947. 122. Sulla diffusione e impatto di questo volume, Liebich, From the Other Shore, pp. 304-307. Tra le traduzioni più importanti, Le travail forcé en U.R.S.S, Paris, Somogy, 1949; Lavoro forzato nella Russia sovietica, Roma, Jandi Sapi, 1949; Trabajo forzado en la Rusia soviética, Barcelona-Madrid, Editorial Difusión, 1950. Si segnala anche una edizione indiana Forced Labor in Soviet Russia, Calcutta, Prachi Prakashan, 1953. 123. Liebich, From the Other Shore, p. 306.
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Vyšinskij mentiva, sapendo di mentire. Se reso pubblico, infatti, un qualsiasi documento, scelto a caso tra quelli «strettamente confidenzia- li» che circolavano tra i dirigenti sovietici sul tema dei campi, lo avrebbe smentito. Ad esempio, il 25 giugno 1947 il ministro degli interni Sergej N. Kruglov si rivolse ai vice presidenti del Consiglio dei commissari del popolo, Berija e Nikolaj A. Voznesenskij, inviando una nota che riassume- va lo stato dell’impiego dei «detenuti dei campi e delle colonie di lavoro correttivo». Essi ammontavano al primo giugno alla cifra di 1.835.400, di cui però soltanto 1.389.000 erano in condizioni di lavorare. Gli altri erano malati oppure non potevano lavorare «per mancanza di vestiti e/o scarpe». 124 Nel 1948, per dirne un’altra, fu congelata la liberazione di tutti coloro i quali, avendo ricevuto una condanna di dieci anni nel 1937-1938, avrebbero dovuto adesso essere rilasciati. E infine nel corso dello stesso anno, furono istituiti i campi speciali, dove vennero portati gli elementi considerati più pericolosi, vale a dire i politici entrati nei campi dopo il 1945, tra cui soprattutto nazionalisti baltici e ucraini. 125 L’ostilità verso la collettivizzazione nel Baltico e nell’Ucraina occidentale continuò ad ali- mentare le deportazioni verso il Kazachstan e Siberia. Nel maggio 1948, i vertici del Gulag prepararono un bilancio dell’attività di controllo all’inter- no dei campi per il 1947. Assenza di vigilanza, violenze «gravi e ripetute» sui detenuti, un’organizzazione del lavoro completamente improduttiva e la diffusione dell’alcol erano le caratteristiche più ricorrenti. 126 Impedire che queste notizie circolassero fuori dai confini sovietici era ancora possibile, ma non era più tanto facile tuttavia negare l’esistenza dei campi. Il clamore suscitato dalla polemica contribuì naturalmente a incrementare le vendite del libro di Dallin scritto in collaborazione con Nikolaevskij, visto anche il clima di contrapposizione ideologica formatosi nei mesi precedenti. Forced Labor in Soviet Russia fu scritto in fitto dia- logo con la letteratura disponibile. Dopo un’aspra critica del recente libro 124. Note de S. N. Krouglov, ministre de l’Intérieur de l’URSS aux présidents-adjoints du Conseil des ministres de l’URSS, N.A. Voznessenski et l’augmentation du nombre des détenus aptes au travail, in Goulag, p. 406. 125. Questi campi furono istituiti per separare combattenti di vario genere ed ex parti- giani antisovietici dal resto della popolazione dei campi affinché i primi non contagiassero i secondi. Ivi, p. 76. 126. Matériaux pour le rapport annuel du 1er département du GOULAG sur «Le bilan d’activité de la garde des camps et colonies de travail correctif pour l’année 1947 (2e-4e trimestres et le premier trimestre de l’année 1948», in Goulag, pp. 459-461.
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di Wallace, nel quale erano glorificate le operazioni di estrazione dell’oro dalle miniere della Kolyma senza far riferimento al «prezzo in vite umane» pagato da migliaia di lavoratori prigionieri, Dallin menzionò i contributi che noi già conosciamo. Scrisse in particolare dell’accuratezza del lavoro svolto all’inizio degli anni Trenta dall’Anti-Slavery Society e valorizzò la campagna che i dirigenti dell’AFL avevano intrapreso nello stesso periodo contro il lavoro forzato sovietico, «mossi da puri interessi umanitari». 127 Con alcuni ex comunisti, fu meno generoso. Le memorie di Albrecht non gli apparvero del tutto sincere. Esse possedevano un qualche valore soltan- to per chi fosse stato in grado di «distinguere tra la verità e la finzione». 128 Ne apprezzò tuttavia il robusto apparato fotografico. Quanto a Kravčenko, Dallin non mise in dubbio la veridicità della gran parte dei suoi ricordi, ri- tenendo però eccessive le cifre riguardanti il numero dei lavoratori forzati. I venti milioni stimati da Kravčenko gli apparvero un’esagerazione, anche se la responsabilità di quest’errore non doveva essere attribuita all’autore, ma allo stesso governo sovietico, il quale manteneva a riguardo un «silen- zio totale» 129 . Grande rilievo infine fu attribuito da Dallin alla letteratura polacca che abbiamo esaminato sopra 130 , anche se il punto di vista com- plessivo di Dallin si avvicinava più a quello «produttivistico-punitivo» di Kravčenko che a quello «genocidario» degli autori polacchi. La focalizzazione sul lavoro forzato sovietico come schiavitù ebbe nelle pagine di Dallin il grande merito di mandare definitivamente in sof- fitta il paradigma progressista, basato sul marxismo dogmatico, al quale si abbeveravano le autorità sovietiche e i loro corifei occidentali. Secondo questo paradigma, la storia rappresentava una sequenza di forme di or- ganizzazione sociale, basate sullo sfruttamento di schiavi nell’economia antica, servi in quella feudale e infine salariati in quella capitalistica. La vicenda del regime sovietico aveva mostrato che la realtà del processo storico era più complessa, senza dubbio non così lineare. Lungi dal per- sistere soltanto nelle periferie asiatiche e africane dello sviluppo capita- listico-imperiale, la schiavitù era infatti tornata ad opera di un regime di tipo moderno, costruito a partire dall’ambizione di emancipare l’umanità 127. Cito dall’edizione di Calcutta del 1953, Dallin e Nicolaevsky, Forced Labor, pp. 228-230. 128. Ivi, p. 326. 129. Ivi, pp. 87-88. 130. Ivi, p. 325.
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dallo sfruttamento proprio delle società divise in classi. Per un tragico pa- radosso, le aspirazioni di questo regime avevano portato a una regressione spaventosa, dando forma a una società organizzata per caste, con masse di servi e schiavi la cui triste esistenza smentiva ogni possibile riferimento al carattere progressista del comunismo sovietico. Impiegando espressioni come «schiavitù» e «servitù», Dallin realizzò un attacco in grande stile contro le certezze di una parte consistente degli intellettuali di sinistra in Occidente. Una volta caratterizzato infatti il regime sovietico come regime schiavista, era evidente che tutto il discorso sul carattere temporaneo della violenza rivoluzionaria, necessaria come leva del progresso sociale, era destinato a cadere. Secondo Dallin, il lavoro forzato sovietico svolgeva una funzione es- senzialmente economica: la grande rete dei campi di lavoro si era struttu- rata come parte integrante dell’industrializzazione e dell’economia piani- ficata. Ricostruì i termini essenziali del turn staliniano del 1929 come un grande piano di coercizione della forza lavoro, articolatosi nella riduzione di una parte dei contadini a servi di stato nelle aziende collettivizzate e nella trasformazione di un’altra parte in classe operaia salariata. Le mi- sure draconiane di militarizzazione del lavoro fino ai passaporti interni e al divieto di cambiare impiego completarono la ricostruzione del quadro storico. Il lavoro forzato nei campi e negli insediamenti speciali era per Dallin l’espressione più radicale di questo disciplinamento brutale a fini produttivi, nella misura in cui coinvolgeva in varie forme milioni di per- sone private delle libertà più elementari. In altri termini, egli reputò la rete dei campi alla stregua di un sottosistema schiavistico collocato all’interno di un sistema di tipo servile a gestione statale, particolarmente brutale nelle campagne. Dallin ricondusse a ragioni di tipo economico-funzionali anche le fasi successive, riferendosi, per quel che era possibile sapere, alle quote degli arresti e alle deportazioni nel 1936-1938, alle deportazioni di cittadi- ni non sovietici nel 1939-1941 (polacchi, baltici) e sovietici non russi dopo il 1941 (ucraini, popolazioni caucasiche). Egli reputò che nelle scelte del regime agissero anche motivazioni non direttamente economiche, ma più marcatamente legate a una logica puni- tiva nei confronti di categorie di persone scelte su basi sociali e nazionali. Eppure la centralità del fondamento economico del gulag resta il tratto decisivo di questo volume, con la conseguenza di esporlo alle critiche di altri interpreti del fenomeno concentrazionario sovietico. Su un numero di «Partisan review», uscito nel luglio 1948, Hannah Arendt pubblicò un
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saggio sui campi di concentramento, intesi come strumento per distruggere la persona umana. In riferimento all’URSS scrisse che: L’esempio della Russia, i cui campi di concentramento sono abitualmente chiamati campi di lavoro forzato, perché la burocrazia sovietica ha dato loro questo titolo lusinghiero, mostra più chiaramente che il punto principale non è il lavoro forzato; il lavoro forzato è la condizione normale di tutto il pro- letariato russo che è stato privato della libertà di movimento e può essere mobilitato ovunque in qualsiasi momento. 131
Arendt polemizzò con Dallin, convinta che il sistema concentraziona- rio sovietico non potesse essere visto semplicemente come grado estremo del disciplinamento militare della forza-lavoro. Se il sistema concentra- zionario sovietico doveva essere certamente collocato su un gradino meno basso rispetto all’inferno dei centri di sterminio nazisti, tuttavia non si do- veva dimenticare che il regime di Stalin, al pari di quello di Hitler, aveva incarnato (e continuava a incarnare) l’aspirazione verso la perfezione to- talitaria. Il fondamento di quest’ultima era il «cane di Pavlov, l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, il fascio di reazioni che può sempre essere liquidato e sostituito da altri fasci di reazioni che si compor- tano esattamente allo stesso modo […]». 132 Arendt era dunque convinta che il totalitarismo stava realizzando una trasformazione antropologica all’in- terno dei campi, dove infatti era diventato possibile privare gli individui dell’identità, degli affetti e delle loro caratteristiche morali. Questa trasfor- mazione poteva essere realizzata «solo imperfettamente fuori dai campi» ed era proprio per questo che il terrore esercitato all’interno di questi pos- sedeva una sua indubbia specificità. 133 L’universo concentrazionario non 131. Hannah Arendt, The Concentration Camps, in «Partisan Review», 15 (luglio 1948), p. 748. Arendt era entrata nella fase finale della lunga elaborazione della sua opera maggiore dedicata alle Origins of Totalitarianism, che infatti uscì nel 1951, lo stesso anno in cui la studiosa acquisì la cittadinanza statunitense. Vedi adesso Samantha Rose Hill, Hannah Arendt, London, Reaktion Books, 2021, p. 126. Si è fatto riferimento, nell’ambito di una letteratura critica molto vasta, a Margaret Canovan, Arendt’s Theory of Totalita- rianism. A Reassessment, in The Cambridge Companion to Hannah Arendt, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 25-43. Della stessa autrice Hannah Arendt. A Rein- terpretation of Her Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. E si veda anche Philip Hansen, Hannah Arendt. Politics, History, and Citizenship, Stanford, CA, Stanford University Press, 1993. 132. Arendt, The Concentration Camps, p. 760. 133. Ibidem.
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costituiva dunque soltanto il grado estremo della tirannia, bensì un vero e proprio laboratorio sperimentale, i cui risultati sarebbero stati prima o poi applicati al resto della società. Al di là del suo indubitabile fascino, questa tesi esagerò la modernità del regime di Stalin. In realtà, come avevano già visto alcuni autori negli anni Trenta, la storia dello stato sovietico narra di un regime che, nella sua disperata lotta per modernizzarsi in tempi rapidi, non si fece scrupolo di impiegare strumenti brutali, suscitando un vasto odio sociale, esploso nelle rivolte delle campagne investite dalla dekulakizzazione e dalla col- lettivizzazione. Le rivolte furono definitivamente domate attraverso l’uso politico della fame, realizzando sulle ceneri della società tradizionale una nuova società dai tratti arcaici, dove le classi erano sì sparite, ma per fare posto a vere e proprie caste, composte da milioni di persone inchiodate a un destino immutabile. Ora, che nei campi – il luogo più caratteristico di questa società castale, perché popolato di una miriade di schiavi – si intendesse realizzare una rivoluzione antropologica contrasta non soltanto con la suddetta letteratura degli anni Trenta, ma anche con le fonti che oggi possiamo leggere e che di volta in volta si è cercato di presentare. I campi furono luoghi che intrecciarono obiettivi punitivi e produttivi, mal celando un cattivo funzionamento generale, caratterizzato da basso livello tecnolo- gico, scarsità degli incentivi al lavoro, limitata produttività di quest’ultimo e infine condizioni di vita dei lavoratori-schiavi generalmente pietose. Arendt era rimasta suggestionata dalla lettura dalle opere di David Rousset, ex militante trockijsta, uomo della Resistenza, reduce dei campi nazisti e autore nel 1946 di L’univers concentrationnaire. 134 In una confe- renza tenuta al teatro Sarah Bernhardt di Parigi, organizzata dalla Federa- zione nazionale deportati, internati, resistenti e patrioti (FNDIRP), Rousset descrisse la società concentrazionaria come il luogo dove masse di esseri umani subivano un processo preliminare di radicale alienazione, perdendo identità, diritti e relazioni sociali. Terminato questo processo, ciascuno di essi veniva inserito dentro un sistema sociale completamente nuovo, al quale era costretto ad adattarsi. Nasceva così una plebe immensa di «con- centrazionari», condannata al lavoro forzato sotto il controllo di criminali 134. David Rousset, L’univers concentrationnaire, Paris, Éditions du Pavois, 1946. Negli anni seguenti Rousset pubblicò altre opere ispirate all’esperienza di deportato nell’u- niverso concentrazionario nazista: Les jours de notre mort, Paris, Éditions du Pavois, 1947 e Le pitre ne rit pas, Paris, Éditions du Pavois, 1948.
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comuni, ai quali erano affidate funzioni di polizia da svolgere per conto dell’élite delle SS. 135 Rousset si riferiva ai campi nazisti, ma non in senso esclusivo. Con la guerra fredda oramai divenuta realtà anche in Francia, egli non esitò a sottolineare l’impossibilità di «allearsi con coloro i quali, sotto qualsivoglia etichetta, rappresentino un regime fondato, fosse anche soltanto parzialmente, sul lavoro forzato, sui campi». 136 Il riferimento ai comunisti e ai loro amici era evidente, anche se non esplicitato. La prospettiva di autori quali Arendt e Rousset fu diversa insomma da quella di Dallin e Kravčenko. Questa polarizzazione non deve naturalmen- te essere esagerata. Va anzi considerato che questi autori collaborarono più o meno intensamente gli uni con gli altri per denunciare lo stalinismo e i suoi metodi, si scambiarono idee e misero a disposizione l’uno per l’altro la documentazione di cui erano entrati in possesso. Eppure, la polarizza- zione discorsiva fu reale, risalendo in fondo a punti di vista e retoriche discorsive caratteristiche degli anni Trenta. Dallin, con la caratterizzazione del lavoro forzato come schiavitù, fu ispirato dall’idea che il regime di Stalin in definitiva stesse realizzando una drammatica regressione sociale, frutto delle sue stesse politiche modernizzatrici. Rousset e Arendt guar- darono invece con sgomento all’eventualità di una società di tipo nuovo, fondata sui disvalori vigenti nei sistemi concentrazionari. Non deve ingan- nare il comune riferimento al totalitarismo, in un certo senso obbligato nel contesto della prima guerra fredda. Dietro l’apparenza si agitavano infatti diversi modi di combinare le caratteristiche, la natura e le funzioni del si- stema repressivo sovietico. Dallin fu criticato anche su questioni più specifiche. Riguardo al nu- mero dei prigionieri egli confermò ciò che aveva già affermato in Real Soviet Russia del 1944: si trattava di una massa dei lavoratori forzati oscil- lante tra i sette e dodici milioni. Su queste cifre la stessa ambasciata statu- nitense a Mosca si era espressa all’inizio del febbraio 1947 in modo assai critico. Il generale Walter Bedell Smith inviò un telegramma a Washington nel quale espresse questo giudizio: Troppi libri su questo argomento danno troppa importanza alle cifre, presu- mibilmente accurate, del numero di prigionieri politici e della loro presunta condizione nei campi di concentramento, invece di dare risalto al semplice 135. David Rousset, Ce qui demeure de l’homme, in Id., La fraternité de nos ruines. Écrits sur la violence concentrationnaire 1945-1970, Paris, Fayard 2016, pp. 97-114. 136. Ivi, p. 113.
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fatto che sotto il regime sovietico gli individui vengono privati della libertà e mandati nei campi di concentramento solo per motivi politici. Che ci siano diecimila o dieci milioni di prigionieri politici è relativamente poco impor- tante se si riesce a far proprio il fatto che sotto il regime sovietico la sicurezza personale di ogni individuo è costantemente in pericolo e che a causa delle sue presunte opinioni politiche o del mancato rispetto della linea del partito al 100%, un individuo può essere improvvisamente prelevato e condannato senza un processo pubblico o senza i diritti legali di base ai lavori forzati in zone remote del Paese. 137
Era certamente una forzatura considerare poco significativa la diffe- renza tra migliaia e milioni di prigionieri, ma il senso del ragionamento era giusto: accanirsi sulle cifre rischiava di perdere di vista il fatto principale, ossia che in URSS vigeva uno stato di polizia in grado di infliggere la pena ai lavori forzati a chiunque e in qualsiasi momento. Alexander Werth, scrittore e giornalista franco-britannico di origine russa e autore di saggi su questioni sovietiche, contestò le cifre riproposte da Dallin. Scrisse su «New Statesman and the Nation» del 19 giugno 1948 che il libro di Dallin era uno dei libri più «strabici» tra quelli che aveva letto sull’argomento. A suo giudizio, infatti, nei campi non si trovavano più di un milione e mezzo, al massimo due milioni, di detenuti. Un nume- ro analogo si trovava nei villaggi speciali. 138 La «guerra delle cifre» era dunque iniziata, accompagnando le diverse stagioni del dibattito sui campi sovietici. Più tardi, nell’ottobre 1951, Naum Jasny, membro del Food Re- search Institute dell’Università di Stanford, enunciò sul «Journal of Poli- tical Economy» una verità forse ovvia, ma preziosa se riferita ai campi: «la segretezza [del regime] ha il suo opposto nell’esagerazione [dei suoi critici]». 139 En passant si può affermare che le cifre di Werth erano sostan- zialmente corrette, non discostandosi molto da quelle proposte più recen- temente dagli storici sulla base dei documenti d’archivio. Grazie a questi studi (compresi quelli di Nicolas Werth, figlio di Alexander), noi oggi sap- piamo che all’apogeo del sistema concentrazionario, cioè all’inizio degli
137. Il telegramma è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1945-1949, from 861.00/5-1447 to 861.00/3-3149, box. 6640, File 861.00/11.147—5-3148. 138. L’intervento di Alexander Werth su «New Statesman and Nation» è ripreso da Liebich, From the Other Shore, pp. 305-306. 139. Naum Jasny, Labor and Output in Soviet Concentration Camps, in «Journal of Political Economy», 5 (1951), p. 405.
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anni Cinquanta, i detenuti dei campi e i confinati nei villaggi speciali non superarono complessivamente la cifra 5,2 milioni di persone. 140 Forced Labor in Soviet Russia uscì nel momento in cui, oramai inizia- ta la guerra fredda, il sistema dei campi sovietici era divenuto una grande questione internazionale. Nel corso del 1948 (mentre il clima della guerra fredda si approfondì con il colpo comunista di Praga, le elezioni politiche in Italia e, poco dopo, l’inizio del blocco di Berlino) il dibattito sul lavoro forzato finì per coinvolgere l’intero Occidente, la Germania occidentale in corso di unificazione per prima. Va subito detto che qui il dibattito delle idee fu costantemente sollecitato da notizie terribili che giungevano dalle zone orientali sotto controllo sovietico. Il 29 febbraio 1948 il giornale so- cialdemocratico tedesco «Der Abend» denunciò la riduzione a lavoratori forzati di cittadini tedeschi. A questa data, le notizie sulle miniere di uranio nell’Erzgebirge occidentale in Sassonia erano già in circolazione. 141 Dal 1947 i sovietici avevano rilanciato queste miniere da tempo abbandonate, con l’intenzione di inserirle nel progetto di arricchimento dell’uranio fun- zionale alla costruzione del primo ordigno atomico. Decine di migliaia di persone furono deportate dalle città sassoni di Dresda, Lipsia, Zwickau, Chemnitz ma anche dalla Turingia e dal Meclemburgo. 142 «Der Abend« scrisse che: «anche in questo, la zona orientale segue l’Unione Sovietica […] che ha utilizzato tra i 10 e i 15 milioni di persone come lavoro forzato dal 1929, superando di gran lunga qualsiasi esempio di lavoro forzato nella storia dell’umanità, compreso quello del regime di 140. Nicolas Werth ha però notato che il gulag sovietico deteneva una sua peculiarità: l’entrata nei campi non era quasi mai un «biglietto senza ritorno», vigendo piuttosto una forte rotazione di gente che entrava e usciva e che «questa forte rotazione di detenuti è all’origine di numerose confusioni sugli effettivi del gulag. Stimata spesso a una ventina di milioni questa cifra rappresenta nei fatti il numero accumulato di entrate nel gulag su un po’ più di venti anni (inizio degli anni Trenta fino al 1953) e non la cifra dei detenuti in un dato momento» Nicolas Werth, Le phénomène concentrationnaire, pp. 203-204. 141. Caitlin E. Murdock, A Gulag in the Erzgebirge? Forced Labor, Political Legiti- macy, and Eastern German Uranium Mining in the Early Cold War, 1946-1949, in «Central European History», 4 (2014), pp. 791-821. 142. Dal 1947 iniziò dunque un rilancio di quelle miniere, senza personale specializza- to, ma con criteri «labor-intensive». Attrarre i lavoratori con incentivi non era certamente mai stato il metodo di Stalin, il quale infatti procedette a costruire una «Kolyma tedesca» che si rivelò per molti tedeschi orientali qui deportati una sorta di «marcia della morte». Norman M. Naimark, The Russians in Germany. A History of the Soviet Zone of Occupation 1945-1949, Cambridge-London, The Belknap Press of Harvard University Press, 1995, p. 239.
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Hitler». 143 Le cifre utilizzate – sia detto per inciso – furono le stesse che abbiamo riscontrato nei lavori di Kravčenko e Dallin, anche se è bene pre- cisare che questo articolo indicò la cifra complessiva dei detenuti «a partire da» e non in un determinato momento. Comunque, dal 1948 in avanti la stampa tedesca occidentale lanciò accuse a ripetizione sulle miniere sasso- ni, pubblicando storie terribili e contribuendo in definitiva a delegittimare sin dal suo esordio l’insediamento del comunismo in Germania. Da que- sto punto di vista, se l’espressione «Kolyma tedesca» rende bene l’idea di cosa stava succedendo nelle regioni tedesche occupate dai sovietici, d’al- tro canto essa rischia di non cogliere una differenza decisiva rispetto alla Kolyma sovietica: questa, grazie al carattere remoto della sua collocazione geografica, era stata a lungo al riparo da sguardi indiscreti; diversamen- te, la «Kolyma tedesca», collocata nel cuore dell’Europa, finì rapidamente nell’occhio del ciclone. 144 Werner Knop, giornalista antifascista fuggito dalla Germania nel 1937, operò in questo contesto. Durante la guerra, scontato un periodo di inter- namento, Knop combatté nell’esercito britannico. Nel dopoguerra, tornò in Germania con l’intento di comprendere cosa stesse succedendo soprat- tutto nella zona occupata dai sovietici. Raccolte alcune testimonianze di gente riuscita a scappare, Knop si diresse nell’area proibita del distretto attorno alla città di Aue, «la Siberia della zona sovietica» in Germania. Nella vicina città di Chemnitz, dove arrivavano i convogli di detenuti, vide arrivare un treno carico di ragazzi coscritti, verosimilmente studenti; un altro carico di prostitute e piccoli criminali da Lipsia e Dresda e infine un treno di prigionieri di guerra da poco tornati dall’URSS. Knop non ebbe il permesso di visitare le miniere, ma le testimonianze che comunque riuscì a raccogliere si rivelarono inquietanti. Affermò che: 143. Murdock, A Gulag in the Erzgebirge, p. 794. 144. È lo stesso Naimark a mettere a fuoco questa diversità: «Diversamente dai campi di lavoro nel lontano oriente e nord sovietici, era impossibile nascondere lo sfruttamento del lavoro nella regione dell’Erzgebirge». Naimark, Russians in Germany, p. 248. A questo proposito, Murdoch ha scritto che: «Le descrizioni occidentali ritraevano il distretto mine- rario come una prigione. Dichiaravano che la Wismut, la società sovietica che gestiva le miniere, era uno Stato nello Stato, un mondo segreto di cui gli estranei, compresi i tedeschi dell’Est, sapevano poco. Il giornalista occidentale Werner Knop descrisse il distretto mine- rario come “circondato da un muro vivente di polizia. [con] pesanti sanzioni per chiunque fosse trovato ad uscire o entrare […] senza permesso”». Murdock, A Gulag in the Erzge- birge?, p. 809.
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I minatori di uranio lavorano fino a dodici ore al giorno, sollecitati da soldati sovietici, che fungono da supervisori, e che sono essi stessi puniti draconia- namente se i prigionieri a loro affidati non rispettano le norme giornaliere. Non c’è alcun aiuto meccanico, nessuna ventilazione; e mancano i più ele- mentari dispositivi di sicurezza e precauzioni sanitarie. I minatori lavorano nell’acqua fino alle ginocchia e sono esposti alla radioattività. 145
Il «viaggio segreto» di Knop nella Germania sovietica fu pubblicato a New York nel 1949, nello stesso periodo in cui, a Berlino, rinacque la Lega tedesca per i diritti umani. Ispirata dalla figura di Otto Lehmann- Russbüldt, gli incontri iniziali di questa associazione furono caratterizzati da un dibattito intenso sui campi di concentramento come il modello re- pressivo e produttivo che i sovietici stavano esportando in Germania e in Europa orientale. 146 Se in Germania la questione dei campi sovietici era divenuta una que- stione drammatica di carattere «interno», diversamente in Italia e Francia tale questione ebbe essenzialmente la funzione di chiarire la distanza tra sinistra antitotalitaria e sinistra amica del comunismo sovietico. In Italia, dove la sinistra era egemonizzata dal Partito comunista, minoranze sociali- ste dettero battaglia sul terreno delle idee. Durante il congresso del PSIUP, svoltosi a Firenze nell’aprile 1946, Giuseppe Saragat denunciò «la natura totalitaria del comunismo». 147 Giuseppe Faravelli fece eco a questo giudi- zio dalle pagine di «Critica sociale», sottolineando la «simmetricità singo- lare» tra i due regimi totalitari. 148 Nel gennaio 1947, la nascita del Partito socialista dei lavoratori italiani contribuì a consolidare la rappresentazio- ne totalitaria dell’URSS. Scritti di Hilferding e Abramovič apparvero su «Critica sociale» e l’arcipelago delle riviste del socialismo democratico s’impegnò ad argomentare che le scelte occidentali fatte in Italia potevano essere viste in coerenza con una tradizione di sinistra, intellettuale e politi- 145. Werner Knop, Prowling Russia’s Forbidden Zone: A Secret Journey into Soviet Germany, New York, A.A. Knopf, 1949, pp. 137-138. 146. Lora Wildenthal, Human Rights Activism in Occupied and Early West Germany: The Case of the German League for Human Rights, in «Journal of Modern History», 3 (2008), pp. 515-556. 147. Giuseppe Saragat, Discorso al XXIV Congresso del PSIUP a Firenze, 13 aprile 1946, in Id., Quarant’anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, Milano, Mursia, 1966, p. 295. 148. Gi Effe [Giuseppe Faravelli], Dopo il congresso di Firenze: Socialismo e Bolsce- vismo, in «Critica Sociale», 9 (1 o maggio 1946), pp. 135-137.
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ca, di grande rilievo internazionale. Il 4 aprile 1948, «L’Umanità» recensì l’opera di Dallin e Nikolaevskij. Nel febbraio precedente erano state pre- sentate al lettore le iniziative dell’AFL contro il lavoro forzato sovietico. Anche «Italia socialista», diretta da Paolo Vittorelli, non esitò a descrivere il sistema del lavoro forzato come sistema schiavistico. 149 Gli interventi di Aldo Garosci su «Il Mondo» di Mario Pannunzio andarono nella stessa direzione. Recensì per il lettore italiano le memorie di Ciliga. 150 A ripro- va dell’interesse diffuso nell’opinione pubblica italiana – evidentemente non soltanto quella di sinistra – Longanesi pubblicò nel 1948 il libro di Kravčenko, mentre quello di Dallin e Nikolaevskij uscì l’anno successivo. L’antitotalitarismo fu la chiave che la cultura liberaldemocratica ita- liana utilizzò per comprendere l’irrigidirsi dei blocchi. Uscito nel 1948, il manifesto Europa, cultura e libertà fu promosso da Gaetano De Sanctis e approvato da Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Ferruccio Parri e Igna- zio Silone. L’ispirazione antitotalitaria era volta a suggerire all’opinione pubblica italiana la somiglianza tra fascismo e comunismo. La storia dei firmatari, tutti rigorosamente antifascisti, parlava da sé. Croce era stato promotore nel 1925 del manifesto degli intellettuali antifascisti, diventan- do negli anni successivi un faro dell’antifascismo morale. De Sanctis era stato uno dei dodici professori universitari che non avevano giurato fedeltà al regime di Mussolini. A completare il quadro, le figure di Einaudi, Parri e Silone erano identificabili da parte del pubblico rispettivamente come l’incarnazione del liberalismo economico, della Resistenza antifascista e del socialismo antistalinista. 151 Se consideriamo la ricchezza e varietà di questo lavoro, è difficile sostenere che in Italia non si sapesse alcunché della natura del regime sovietico. Ma certamente queste iniziative furono accolte da un pubblico abbastanza limitato, almeno per quanto riguarda la sinistra. Da questo punto di vista, ebbe un peso non secondario il fasci- no che il comunismo italiano, partito della Resistenza e dell’antifascismo, 149. Per tutte queste informazioni, ho fatto riferimento alla documentata ricerca di Daniele Pipitone, Il socialismo democratico italiano fra la liberazione e la legge truffa. Fratture, ricomposizioni e culture politiche di un’area di frontiera, Milano, Ledizioni, 2013. 150. Aldo Garosci, La menzogna sconcertante, in «Il Mondo», 35 (2 settembre 1950), pp. 5-6. Su Garosci adesso Daniele Pipitone, Alla ricerca della libertà. Vita di Aldo Garo- sci, Milano, Franco Angeli, 2017. 151. Rimando al mio La democrazia divisa. Cultura e politica della sinistra democra- tica dal dopoguerra alle origini del centro-sinistra, Milano, Unicopli, 2011, pp. 110-111.
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esercitò su una parte consistente dell’intellettualità italiana. 152 Basti qui un esempio. Recensendo il volume di Kravčenko, la redazione de «Il Ponte» di Calamandrei trovò che «adattarsi su tali argomenti [eccessi e violenze del regime sovietico] significa voler ignorare l’essenza del problema». 153 Per molti autori stretti attorno alla rivista fiorentina, l’eredità dell’ultimo Carlo Rosselli era ancora vivissima: il comunismo sovietico rappresentava l’annuncio di un mondo nuovo, per quanto deprecabili fossero i metodi impiegati per realizzarlo. Certamente chi poté vedere più da vicino, maturò una consapevo- lezza diversa. L’esperienza che Franco Venturi fece in quegli anni come addetto culturale dell’ambasciata italiana a Mosca, guidata da Manlio Brosio, si collegò alla crescita di consapevolezza da parte degli uomi- ni del socialismo democratico italiano. 154 I rapporti che Venturi inviò a Brosio e alla Farnesina nel 1948-49 descrissero la situazione spaventosa delle relazioni tra regime e popolazioni sovietiche, una situazione che egli precedentemente aveva potuto soltanto immaginare. In un saggio del 1943, egli aveva infatti affermato che se il socialismo moderno non poteva che essere «profondamente antitotalitario», e quindi molto distan- te dal regime di Stalin, tuttavia si doveva riconoscere a quest’ultimo di aver raggiunto «grandiosi risultati». 155 Adesso, giunto in pianta stabile a Mosca, Venturi ebbe la prova ravvicinata di quale pasta fossero fatti quei risultati. Scrivendo della magistratura sovietica, affermò che in URSS un giudice era in realtà soltanto un propagandista, «che condannava due lavoratori che avevano rubato 13 chili e mezzo di lardo, a 10 anni ciascu- 152. In generale Aurelio Lepre, Anticomunismo e antifascismo in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997; Giorgio Petracchi, Russofilia e russofobia. Mito e antimito dell’U.R.S.S. in Italia (1943-1948), in Ennio Di Nolfo e altri, L’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-1950), Milano, Marzorati, 1990, pp. 655-675; Roberto Pertici, Il vario anticomu- nismo italiano: lineamenti di una storia (1936-1960), adesso in È inutile avere ragione. La cultura «antitotalitaria» nell’Italia della prima Repubblica, Roma, Viella, 2021, pp. 57-129. 153. Cit. in Luca Polese Remaggi, «Il Ponte» di Calamandrei 1945-1956, Firenze, Olschki, 2001, p. 316. 154. Franco Venturi e la Russia, con documenti inediti, a cura di Antonello Venturi, Milano, Feltrinelli, 2006. 155. Franco Venturi, Socialismo di oggi e di domani, in Id., La Lotta per la libertà. Scritti Politici, Torino, Einaudi, 1997, pp. 221-254. Di grande interesse sul socialismo di Venturi il saggio di Andrea Graziosi, Nazione, socialismo e cosmopolitismo. L’Unione So- vietica nell’evoluzione di Franco Venturi, in Franco Venturi e la Russia, pp. 131-165.
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no di campo di lavoro». 156 Il riferimento alla legge del giugno 1947 sul furto della proprietà socialista era evidente. Più volte Venturi descrisse la situazione degli operai sovietici. Essi erano legati indissolubilmente alle fabbriche dove lavoravano, vittime di punizioni durissime per infrazioni anche minime (ritardi, assenze ingiustificate, ubriachezza sul posto di la- voro), con un sindacato privato di ogni arma per difenderli. 157 Agli occhi di Venturi, la militarizzazione della classe operaia era evidente. Quanto al lavoro forzato, egli sottolineò l’atteggiamento delle autorità pubbliche, le quali avevano «spostato il problema parlando di paesi non comunisti e, all’interno dell’Unione sovietica, parlando delle condizioni del lavoro libero, senza mai toccare la questione stessa dell’esistenza di campi di lavoro forzato […]». 158 In Francia, dove il Partito comunista si era imposto all’opinione pub- blica come il «partito dei 75.000 fucilati», Albert Camus entrò in polemica con Emmanuel d’Astier de La Vigerie, figura importante della Resistenza francese, ministro degli Interni nel governo provvisorio di De Gaulle e poi compagnon de route del partito comunista. Su «Gauche», periodico del Rassemblement démocratique révolutionnaire, Camus condannò il «socialismo dei campi concentramento», rifiutandosi «di credere che la giustizia possa esigere, perfino provvisoriamente, la soppressione della libertà». 159 Camus definì d’Astier de La Vigerie come «servitore del so- cialismo concentrazionario». 160 Negli anni del dopoguerra, Camus incalzò dalle pagine di «Combat» gli intellettuali che giustificavano la violenza e la repressione in nome della giustizia sociale, invitandoli a «sbarazzarsi della nostalgia del paradiso terrestre» e a far proprio un «pensiero politico 156. Franco Venturi, [Documento n. 10], Problemi della magistratura, in Franco Ven- turi e la Russia, p. 202. 157. Franco Venturi, [Documento n. 11], Disciplina del lavoro nell’URSS, in Franco Venturi e la Russia. 158. Franco Venturi, [Documento n. 17] Problema del lavoro forzato nell’URSS [16 marzo 1949], in Franco Venturi e la Russia, pp. 243-244. 159. Cit. in Paolo Flores d’Arcais, Albert Camus, giornalista e resistente, in Al- bert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Milano, Bompiani, 2018. Albert Camus, Camus à Combat. Editoriaux et articles d’Albert Camus 1944-47, Paris, Gallimard, 2002. Si veda dello stesso Camus, Actuelles, vol. II: Chroniques 1948-1953, Paris, Gallimard, 1953. E naturalmente. come punto di approdo di un’intera riflessione politico e filosofica, Albert Camus, L’homme révolté, Paris, Gallimard, 1951. 160. Cit. in Toni Judt, Past Imperfect. French Intellectuals 1944-1956, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1992, p. 139.
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più modesto». 161 Camus aveva ragione nell’insistere su questo punto. Si consideri ad esempio che nel 1947, ossia nel bel mezzo della sovietizzazio- ne dell’Europa orientale, Maurice Merleau-Ponty pubblicò Humanisme et terreur nel quale il filosofo francese discusse della violenza come caratteri- stica di ogni regime politico: in quanto tale, essa non poteva essere la chia- ve per giudicare il comunismo. 162 Affermazioni di questo tipo erano basate su assunti ideologici, che prescindevano dalla copiosa letteratura esistente sulla repressione sovietica, la quale invece mostrava quali orrori potessero nascondersi dietro l’immaginario romantico della violenza rivoluzionaria. Sul romanticismo della rivoluzione, sopravvissuto a quello della guerra, Aron avrebbe scritto qualche anno più tardi pagine acute. 163 In Gran Bretagna, il clima era diverso perché la sinistra era giunta al potere nel luglio 1945, combinando un programma di vaste riforme sociali con una vocazione europeista e atlantica che segnò una frattura rispetto alle simpatie sovietiche e agli opportunismi del periodo tra le due guerre. La Gran Bretagna laburista era dunque l’ambiente ideale per sviluppare un discorso antitotalitario di sinistra. George Orwell aveva preso a riflettere da tempo sulle torsioni linguistiche del totalitarismo sovietico in via di applicazione nell’Europa orientale. Aveva scritto nel 1946: Milioni di contadini vengono derubati delle loro fattorie e mandati ad arran- care lungo le strade senza più nulla da trasportare: questo si chiama trasferi- mento di popolazione o rettifica delle frontiere. La gente viene imprigionata per anni senza processo, o colpita alla nuca o mandata a morire di scorbuto nei campi di legname artici: questo si chiama eliminazione degli elementi 161. Albert Camus, Ni victimes, ni bourreaux. Sauves les corps, in «Combat. De la résistance à la révolution», 768 (20 novembre 1946), p. 1. Il giorno successivo egli ribadì il concetto, mettendo gli intellettuali sedicenti marxisti di fronte ad un’alternativa: «O ammet- teranno che il fine copre i mezzi, e quindi che l›omicidio può essere legittimato, o rinunce- ranno al marxismo come filosofia assoluta, limitandosi a conservarne l›aspetto critico, che spesso è ancora valido». Albert Camus, Ni victimes, ni bourreaux. Le Socialisme mystifié, in «Combat. De la résistance à la révolution», 768 (21 novembre 1946), p. 1. 162. Maurice Merleau-Ponty, Humanisme et terreur. Essai sur le problème commu- niste, Paris, Gallimard, 1947 [trad. it. Umanesimo e terrore, Milano, Sugar, 1965]. Vedi le pagine dedicate a questo testo da Judt, Past Imperfect, pp. 123-127. Andando indietro, Sonia Kruks, The Political Philosophy of Merleau-Ponty, New York, Humanities Press, 1981. 163. Raymond Aron, L’opium des intellectuels, Paris, Calmann-Lévy, 1955. Aron dedica un intero capitolo delle sue memorie a questo suo libro di battaglia contro le idee prevalenti tra gli intellettuali del suo tempo. Aron, Mémoires, pp. 306-331.
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inaffidabili. Questa fraseologia è necessaria se si vuole dare un nome alle cose senza richiamare immagini mentali su di esse. 164
Facendo propria questa distorsione del rapporto tra realtà e parole, gli entusiasti del potere sovietico in Occidente potevano continuare a credere ai loro sogni. Orwell fece un passo in avanti. Sottolineò le ambiguità e le insufficienze del pensiero utopico, prendendo come spunto un vecchio pamphlet di Oscar Wilde dedicato al socialismo. Ne scrisse il 9 maggio 1948 su «The Observer», mostrando che i fautori delle idee utopiche (ai tempi di Wilde come nel secondo dopoguerra) non percepiscono il caratte- re peculiare dei periodi di transizione, allorquando in nome della liberazio- ne dell’umanità, si compiono le peggiori nefandezze. Scrisse dunque che: Il problema dei periodi di transizione è che lo scenario brutale che essi ge- nerano tende a diventare permanente. Con ogni evidenzia questo è ciò che è successo nella Russia sovietica. Una dittatura che si suppone fosse istituita per uno scopo limitato, ha finito per diventare altro, e il socialismo viene considerato come sinonimo di campo di concentramento e polizia segreta. 165
Nelle pagine distopiche di Nineteen Eighty Four, uscito nel 1949, Orwell rese in forma narrativa la realtà degli arresti arbitrari, delle depor- tazioni e dei campi di concentramento, evocandola a più riprese. Il pro- tagonista, Winston Smith, era consapevole del rischio di finire in uno di questi campi qualora il diario dove annotava i suoi pensieri fosse stato scoperto. La deportazione nei campi venne raffigurata da Orwell non tanto come pena inflitta secondo regole stabilite da un sistema normativo quanto misura inflitta dal potere arbitrario degli apparati di sicurezza, a loro vol- ta incaricati di reprimere i punti di vista non in linea con l’ideologia del partito. La battaglia di Orwell – iniziata durante la guerra civile spagnola che lo aveva avvicinato a un precursore della teoria del totalitarismo come Borkenau – era giunta adesso al suo culmine. 166 Dalle file del laburismo britannico provenne nello stesso periodo un’iniziativa destinata a diven- tare celebre. Richard Crossman, parlamentare laburista, raccolse le voci di alcuni grandi disincantati del comunismo sovietico: Arthur Koestler, 164. George Orwell, Politics and the English Language, Id., The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell, vol. IV: In Front of Your Nose 1945-1950, New York, Harcourt, Brace & World, 1968, p. 136. 165. George Orwell, Review, ivi, p. 428. 166. George Orwell, Nineteen Eighty-Four, London, Secker &Warburg, 1949.
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Richard Wright, Louis Fischer, Ignazio Silone, André Gide e Stephen Spender, pubblicando un volume grazie al sostegno offerto dall’Informa- tion Research Department (IRD), istituito nel 1948 presso il Foreign Office e affidato a Ralph Murray, giornalista della BBC. 167 Può essere utile tornare a dare uno sguardo agli Stati Uniti, perché ci permette di cogliere quanto si fossero avvicinate in quel periodo le due sponde dell’Atlantico, dando vita a una cultura antitotalitaria di sinistra fortemente integrata. Negli Stati Uniti, Macdonald e il gruppo di «Poli- tics» seguirono con attenzione il discorso degli intellettuali europei sulla violenza e sulle repressioni sovietiche. 168 Furono pubblicati nel 1944-1946 scritti di Serge e Ciliga, a dimostrazione che i rapporti costruiti negli anni precedenti si erano consolidati. 169 Nel 1947 invece uscirono scritti di Caffi e dello stesso Camus, dedicati al problema della violenza politica, collegati direttamente al retroterra francese. 170 Questo dibattito transatlantico spinse Macdonald a fare il punto nel 1948 sulle conoscenze che nel frattempo erano state acquisite intorno al regime sovietico e ai suoi metodi. 171 Men- zionò la biografia che Shub aveva dedicato a Lenin. L’affermazione della linea di continuità tra quest’ultimo e Stalin nella gestione del potere andò a rafforzare la convinzione che il regime sovietico dovesse essere studiato 167. The God That Failed, a cura di Richard Crossman, New York, Harper & Brothers, 1949. Sul ruolo della IRD si veda Andrew Defty, Britain, America and Anti- communist Propaganda 1945-53. The Information Research Department, London-New York, Routledge, 2004. 168. Gregory D. Sumner, Dwight MacDonald and the Politics Circle. The Chal- lenge of Cosmopolitan Democracy, Ithaca-New York-London, Cornell University Press, 1996. 169. Si vedano in particolare Victor Serge, The Revolution at Dead End (1926-1928), in «Politics», 5 (1944), pp. 147-151; Id., The Intelligence Office. Stalin and Resistance, in «Politics» 2 (1945), pp. 61-62; Ante Ciliga, A Talk with Lenin in Stalin’s Prison, in «Poli- tics» 7 (1946), pp. 234-241. 170. Caffi fu molto chiaro in proposito: «La mia tesi è che un movimento per il raggiungimento di «pane, libertà, pace», la liberazione della società dall’apparato coer- citivo dello Stato, la fine delle «nazioni» concorrenti e ostili, e l’abolizione del lavoro salariato e delle classi – la mia tesi è che un tale movimento non può considerare utili, o anche solo possibili, i mezzi della violenza organizzata». European (Andrea Caffi), Violence and Sociability, in «Politics», 1 (1947), pp. 23-28. Vedi anche Albert Camus, French Political Writing. Neither Victims nor Executioners, in «Politics», 4 (1947), pp. 141-147. 171. In un numero interamente dedicato all’URSS, Dwight Macdonald scrisse un sag- gio dal titolo USA v. URSS, in «Politics», 2 (Summer 1948), pp. 75-77.
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senza far riferimento a una presunta bontà originaria del bolscevismo, tra- dita in seguito. 172 Macdonald menzionò anche le memorie di Jerzy Gliksman, membro del Bund polacco, arrestato dai sovietici all’inizio della guerra duran- te l’occupazione delle provincie orientali della Polonia. Gliksman riuscì a sopravvivere alla deportazione in Siberia e dunque raccontò le proprie esperienze in un volume dal titolo Tell the West. Macdonald riferì anche di una varia letteratura che abbiamo già incontrato, che andava dall’opera di Goldman fino al racconto di Kravčenko, passando per le Letters curate da Baldwin fino alle memorie di Černavin. A queste pubblicazioni, che aveva- no avuto un qualche successo editoriale, Macdonald aggiunse le interviste che la «piccola gente» sovietica in Germania occidentale (gli ex lavoratori forzati nell’industria bellica tedesca che non avevano intenzione di rien- trare in URSS), aveva rilasciato a Melvin J. Laski, fondatore proprio nel 1948 della rivista «Der Monat» e organizzatore nel 1950 del Kongress für Kulturelle Freiheit a Berlino. La logica conclusione di Macdonald fu che nel suo complesso questo insieme di testimonianze, così ricche e circostan- ziate, non potesse essere certamente considerato «un’impostura politica» ai danni del potere sovietico. 173 «Politics» fu forse in questi anni la rivista transatlantica di sinistra per eccellenza. Era nata da una costola di «Partisan review», la quale continuò la sua battaglia politica culturale, rompendo del tutto con l’eredità del co- munismo eterodosso. Spettò a Burnham, il più famoso degli ex trockijsti, affermare che Stalin era il degno erede di Lenin e che «lo stalinismo è il comunismo». 174 A partire da questo assunto, il gruppo di «Partisan review» discusse dello stalinismo, e della sinistra in generale, affidandosi alla pen- na di scrittori del calibro di Sidney Hook e Arthur Schlesinger Jr. Il primo era convinto che la democrazia a livello globale si sarebbe meglio difesa dal «pericolo del totalitarismo», prendendo misure socialiste. Diversamen- te da Burnham che stava viaggiando a velocità sostenuta verso posizioni conservatrici, Hook cercò di mantenere in vita la distinzione tra socialismo 172. David Shub, Lenin: A Biography, New York, Doubleday, 1948. 173. Macdonald, USA v. URSS, p. 76. 174. E aggiunse che «Non c’è più la benché minima ragione per credere che lo svilup- po del comunismo al potere possa prendere una strada diversa, se non per piccoli dettagli, da quella presa in Russia», James Burnham, Lenin’s Heir, in «Partisan Review», 1 (1945), p. 71.
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totalitario e socialismo democratico. 175 Dal canto suo, con un ragionamen- to non molto diverso, Schlesinger Jr affermò che il «il nemico serio» del totalitarismo sovietico era il «democratico radicale» con la sua proposta «di risolvere i problemi della disoccupazione e del bisogno senza rendere schiave le masse ed edificare uno stato di polizia» 176 . Questo punto di vista era condiviso dal gruppo di «New Leader», il quale aveva alle spalle una nobilissima tradizione socialista democratica, ispirata alle idee di Eugene Debs e Norman Thomas. Una tradizione entrata in conflitto con le idee dei gruppi intellettuali filosovietici come erano quelli stretti attorno a «The Nation» e «The New Masses». Dopo il sea change, si ricorderà, «New Leader» era divenuto la «nave ammiraglia» dei menscevichi: vi scrissero, infatti, Dallin, Nikolaevskij, Abramovič e Solomon Schwarz. Quest’ultimo fu autore di un volume sul mondo del lavoro in URSS. 177 Mentre tra 1947 e 1948 gli intellettuali appartenenti alla sinistra an- titotalitaria europea e statunitense si stavano battendo sulle due sponde dell’Atlantico contro la legittimazione del comunismo sovietico, i rappre- sentanti dell’AFL furono esasperati dall’atteggiamento di cautela mante- nuto dal governo statunitense sulla questione del lavoro forzato sovietico. Toni Sender, socialista tedesca esule negli Stati Uniti e adesso rappresen- tante dell’AFL presso l’ECOSOC, scrisse a Woll il primo marzo 1948 che il governo statunitense non aveva mostrato un reale interesse per la que- stione. Era dunque necessario che i vertici sindacali condannassero pubbli- camente «l’approccio del delegato statunitense», iniziando così «una pro- testa» formale. Sender temeva che la sfasatura tra l’interventismo morale dell’AFL, impegnato a denunciare su scala globale il regime schiavista di Stalin, e la riluttanza, mostrata del governo a procedere nella stessa dire- zione, potesse allargarsi. 178 I sindacalisti temevano che la prudenza gover- nativa potesse compromettere l’intera campagna, ricalcando la situazione 175. Sidney Hook, The Future of Socialism, in «Partisan Review», 14 (1947), p. 29. Tra i suoi studi sulla mentalità totalitaria spicca Heresy, Yes – Conspiracy, No!, New York, J. Day Co., 1953. 176. Arthur Schlesinger Jr, The Future of Socialism, in «Partisan Review», 3 (May- June 1947), p. 238. 177. Liebich, From the Other Shore, p. 292. Solomon M. Schwarz, Labor in the So- viet Union, New York, Praeger, 1952. 178. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Advisors to the United Nations Economic and Social Council (1945-1952), RG 18-008, box 1, File 56 Matthew Woll.
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del 1930-31, allorquando l’amministrazione Hoover non aveva accolto le istanze più radicali avanzate dall’AFL. Le cose andarono diversamente, mostrando che le preoccupazioni di Sender e degli altri sindacalisti erano davvero eccessive. Si consideri infatti che nel 1948 l’atteggiamento di Wa- shington e Londra nei confronti del regime sovietico era oramai molto di- verso da quello mantenuto nel 1945. La guerra fredda era iniziata in fondo per scelta di Washington, che ebbe chiaro fin dall’inizio quanto importante fosse la dimensione delle idee e della propaganda. 179 Semmai, la cautela derivò dal timing stesso della guerra fredda. Prima di coinvolgere le Nazio- ni Unite apertamente, si reputò necessario aspettare che l’Assemblea gene- rale delle Nazioni Unite approvasse la Convenzione contro il genocidio e la Dichiarazione universale dei diritti. 180 Ciò avvenne nel dicembre 1948, in un clima di forte ambiguità e re- lativismo morale. La Convenzione contro il genocidio fu pesantemente influenzata dalla determinazione di Stalin, e del gruppo dirigente stretto attorno a lui, di evitare che il testo finale suggerisse l’appartenenza del- le repressioni sovietiche al catalogo dei crimini genocidari, disegnato da Raphael Lemkin e da altri giuristi. 181 I sovietici la spuntarono perché in definitiva la «fascistizzazione» della categoria genocidio era conveniente anche per altri attori internazionali, come i vecchi imperi europei, i cui ver- 179. Sulla formazione del clima della guerra fredda come risposta statunitense si è fatto riferimento, nell’ambito di una vasta letteratura, soprattutto a Romero, Storia della guerra fredda, pp. 17-72. Per un’interpretazione di lungo periodo, David Engerman, Ide- ology and the Origins of the Cold War 1917-1962, in The Cambridge History of the Cold War, vol. I, pp. 20-43. Da tenere ancora in considerazione John Lewis Gaddis, The Unites States and the Origins of the Cold War 1941-1947, New York, Columbia University Press, 2000 (1972). 180. Si è fatto riferimento per quanto segue alla riflessione di Johannes Morsink, The Declaration of Human Rights. Origins, Drafting and Intent, Philadelphia, University of Pennsylvania, 1999 e di Weiss-Wendt, The Soviet Union and the Gutting, pp. 114-129. 181. Vedi su questo aspetto Anton Weiss-Wendt, Somebody’s Else Crime. The Drafting of the Genocide Convention as a Cold War Battle, in Genocide. The Power and Problems of a Concept, a cura di Andrea Graziosi e Frank E. Sysyn, Montreal-Kingston-London- Chicago, McGill-Queen’s University Press, 2022, pp. 22-43. I «due punti preoccupanti» per il gruppo dirigente staliniano erano evidentemente i campi e le deportazioni etniche di massa, Weiss-Wendt, The Soviet Union and the Gutting, p. 79. Raphael Lemkin entrò in conflitto con i sovietici proprio a partire dal tentativo di estendere la categoria genocidio, che in questo modo avrebbe potuto includere anche i crimini di Stalin. Vedi a tal proposito anche John Cooper, Raphael Lemkin and the Struggle for the Genocide Convention, New York, Palgrave Macmillan, 2008, p. 113.
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tici erano preoccupati che l’espansione della sfera del diritto internazionale potesse ritorcersi contro di loro. 182 Anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fu costituta su una profonda alterazione della verità: uno stato genocidario e schiavista, come quello sovietico, trovò un posto di pri- mo piano nel grande album di famiglia della cultura di derivazione illumi- nistica, all’interno della quale esso appariva come il portatore di una con- cezione democratica aperta ai diritti sociali e alla giustizia sostanziale. 183 5. La macchina della guerra fredda culturale a pieni giri. Inchiesta alle Nazioni Unite e processo Kravčenko All’inizio del 1949, chiusa la partita duplice della Convenzione sul ge- nocidio e della Dichiarazione universale, l’amministrazione Truman ruppe gli indugi, facendo propria la battaglia dell’AFL e portandola finalmente al cospetto delle Nazione Unite. 184 Da quel momento, il processo di osmosi tra apparati sindacali e governativi fu pressoché totale, come dimostra il modo di operare di Lovestone e dei suoi delegati, diventati bracci operativi dei servizi segreti in Europa. 185 Ciò avvenne nel corso di un anno di gran- de importanza nella storia della guerra fredda – il 1949, appunto – che registrò sì la grande dimostrazione di potenza statunitense nella gestione del blocco sovietico di Berlino, ma che, a partire dall’estate, mandò segnali completamente opposti: in agosto l’esperimento atomico sovietico ruppe, 182. Ad esempio, come ha scritto Weiss-Wendt: «il collegamento del genocidio al colonialismo rese i britannici particolarmente vulnerabili». Weiss-Wendt, The Soviet Union and the Gutting, p. 91. D’altra parte, lo stesso autore ha sottolineato che: «la posizione bri- tannica sulla Convenzione contro il genocidio rifletté un’attitudine verso le Nazioni Unite in una certa misura diversa da quella degli Stati Uniti. I diplomatici britannici avevano avuto sin dall’inizio poca fiducia nelle Nazioni Unite e criticavano il disegno americano dell’organizzazione mondiale come evasivo e moralistico», Ivi, p. 57. 183. Morsink, The Declaration of Human Rights. 184. Jacobson, Labor, the UN and the Cold War, p. 64. 185. Ha scritto Hugh Wilford: «Fu Lovestone, intrigante inveterato, a ideare le prime operazioni segrete della CIA nel campo della politica del lavoro internazionale, convo- gliando segretamente milioni di dollari a sindacalisti anticomunisti in Europa e in altri paesi». Hugh Wilford, The Mighty Wurlitzer. How the CIA Played America, Cambridge, MA-London, Harvard University Press, 2008, pp. 5-6. Si veda per questo filone fortemente polemic anche Frances Stonor Saunders, Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War, London, Granta Books, 1999.
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almeno simbolicamente, il monopolio atomico occidentale, e nell’ottobre successivo fu proclamata a Pechino la Repubblica popolare cinese: i comu- nisti avevano vinto la guerra civile iniziata nel 1946. All’interno di questo quadro generale, la battaglia sul terreno dell’immaginario s’intensificò. Si può affermare a questo proposito che tra 1949 e 1950, il governo statuni- tense raggiunse il momento di massima identificazione con l’universalismo espresso dalle Nazioni Unite, realizzando il primato del diritto internazio- nale sia nei meccanismi di sicurezza, come avvenne con l’intervento delle Nazioni Unite in Corea, sia nella redazione di convenzioni a protezione e garanzia dei diritti umani. 186 Come si è visto, la mobilitazione occidentale su questo secondo ter- reno era stata preparata già da tempo, ma soltanto adesso si crearono le condizioni affinché la battaglia contro i campi sovietici ottenesse una forte visibilità. E non si trattò soltanto del fatto che la Dichiarazione universale era stata firmata e che dunque non esistevano più grandi remore ad agire un conflitto ideologico contro le politiche repressive sovietiche. Fu piutto- sto un fatto specifico a innescare il clima di scontro: la scottante questio- ne dei prigionieri di guerra. Essa coinvolgeva in vario modo tutti i paesi vincitori, i cui governi avevano organizzato una conferenza di esperti nel 1947 con l’obiettivo di stabilire un quadro giuridico e una tempistica per la conclusione dei rimpatri: una nuova convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra entrò infatti in vigore a Ginevra il 12 agosto 1949, mentre la data dei rimpatri dei prigionieri fu stabilita per il 31 dicembre 1948. 187 Tuttavia, proprio a partire dal 1948, il clima si fece sempre più teso. In Italia, ad esempio, un’interrogazione parlamentare cercò di far luce sul numero dei soldati italiani ancora trattenuti in Urss e sulle condizioni terribili vissute da essi nei campi di Stalin. Il tema divenne importante in vista delle elezioni dell’aprile 1948. Fu sfruttato abilmente dalla Dc di De Gasperi il cui orizzonte politico-ideologico era costituito dall’antitotalita- rismo. Un manifesto elettorale, dedicato ai prigionieri ancora lontani da casa, recitava: «Mandati in Russia dai fascisti, trattenuti dai comunisti». 188 Quanto alla Germania, il ritardo sovietico dei rimpatri fino al 1950 ebbe certamente un peso nell’accendere la polemica nella neonata Repubbli- 186. Mazower, Governing The World, pp. 215-243. 187. Prisoners of War and their Captors in World War II, a cura di Bob Moore e Kent Fedorowich, Oxford, Oxford University Press, 2006. 188. Cit. in Giusti, I prigionieri italiani in Russia, p. 258.
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ca federale tedesca. A suscitare emozioni ancora più forti fu nel maggio 1950 la dichiarazione della TASS, l’agenzia stampa sovietica, secondo cui le operazioni di rimpatrio erano da considerarsi concluse. Da allora, i te- deschi occidentali discussero ininterrottamente sul numero dei prigionieri tedeschi morti nei campi di Stalin (con cifre che oscillarono tra 300 mila ad un milione) e sulla sorte dei cosiddetti «criminali di guerra», trattenuti in base a processi sommari. Essi peraltro sarebbero tornati a casa dopo la morte di Stalin in due ondate: nel 1953-54 e nel 1955-56. 189 Naturalmente, tutto ciò contribuì a inasprire il clima e incoraggiò gli uomini della guerra fredda culturale a dare battaglia. Adesso, sindacali- sti, funzionari del Dipartimento di Stato statunitense e del Foreign Offi- ce britannico e, ancora, rappresentanti delle Nazioni Unite operarono con maggiore decisione, utilizzando a piene mani la documentazione prodotta durante la guerra e acquisita nel periodo immediatamente successivo. An- cor più significativo fu il fatto che le categorie impiegate da questa grande coalizione furono forgiate in larga parte dalla sinistra antistalinista euro- americana, la quale adesso si ritrovò, dopo una lunga storia di marginalità politica, nella cabina di regìa della guerra fredda culturale. 190 Il totalitari- smo – concretamente la possibilità di schiacciare l’immagine del regime sovietico sul calco tracciato dal regime nazista – offrì dunque il quadro concettuale di riferimento. Rispetto al carattere molto più blando della campagna del 1930-1931, allorquando la convergenza tra moralità, potere e diritto era stata soltanto un’ipotesi, le sinergie del 1949 registrarono un salto di qualità. Adesso, una vasta coalizione puntò a realizzare un nuo- vo quadro normativo per mettere al bando il lavoro forzato, ridefinendo quest’ultimo a partire dall’analisi dei sistemi repressivi e produttivi di tipo sovietico. All’inizio del 1949, la Divisione europea dell’Office of Intelligence Research del Dipartimento di Stato realizzò una serie di reports per ap- profondire la conoscenza del regime sovietico, delle sue strutture e del rapporto con le popolazioni ad esso soggette. In uno di questi reports, risa- lente al 1° gennaio 1949 e dedicato al sistema giudiziario, fu analizzato un circuito di «corti militarizzate» e di «procedure giudiziarie straordinarie», 189. Biess, Homecomings: Returning POWs, p. 45. Vedi anche Naimark, Russians in Germany. 190. Per gli emigrati menscevichi fu una «vittoria» dopo tante sconfitte. Liebich, From the Other Shore, pp. 297-309.
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culminanti nella conferenza speciale della MVD, la quale «impone le sue sentenze senza processo formale e come pura misura amministrativa». 191 In un Report successivo, risalente al primo luglio dello stesso anno, fu esaminata la fragilità del rapporto tra stato e società, con le tensioni sociali caratteristiche di «qualunque governo che governi attraverso la repressio- ne», e che lamenti le «carenze» caratteristiche di una «economia autarchi- ca», le «criticità storiche» nel rapporto tra maggioranza russa e minoranze allogene e infine la fatica di costruire un impero esterno, imposto a «popoli ostili». Lungi dall’indicare un rischio immediato per la stabilità interna del regime, gli autori di questo studio riconobbero i fattori di tenuta, in parti- colare l’assenza di un’opposizione organizzata. Il punto era tuttavia che «l’assenza di debolezze immediate in URSS non vuol dire che quest’ultima possegga un potere preponderante» su scala internazionale. Il potere sovietico era «decisamente inferiore» a quello oc- cidentale e «un conflitto su scala globale» non era pensabile fino a quando fosse perdurato questo squilibrio. 192 Certamente, gli esperimenti atomici sovietici, la vittoria di Mao in Cina e infine lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950 finirono per ridimensionare la fiducia americana. Ma la convinzione che si potesse dar battaglia sul terreno della guerra fredda culturale, soprattutto in Europa, si era oramai consolidata. E al centro di questa guerra di discorsi e di immagini, il sistema repressivo sovietico, con la sua rete dei campi di lavoro forzato, si impose come nucleo di una rappresentazione dicotomica: da un lato, il mondo del lavoro libero, rap- presentato dalle democrazie liberali, dall’altro il mondo del lavoro schiavo, rappresentato dai regimi di tipo sovietico. Prima di vedere come si entrò nel vivo di questa guerra di immagini, conviene fare una breve ricognizione su cosa era davvero diventato il si- stema dei campi sovietici alla fine degli anni Quaranta. La situazione era davvero drammatica. Bastino questi esempi, tratti dalla documentazione ufficiale, per rendersene conto. Nel rapporto del 23 giugno 1949, preparato dal Dipartimento di controllo e ispezione del Gulag sullo stato del campo 191. Il Report è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950- 54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b File 861.064/5-150 Forced Labor Secret. 192. Questo documento è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 6641, File 861.00/7-149-8-3049, Division of Research for Europe, Office of Intelligence Research, Soviet Internal Situation. An analysis of the Thesis that Soviet Internal Weakness Constitutes the Determining Factor in Current Soviet Foreign Policy, OIR Report n. 4998, July 1, 1949, pp. 4-5.
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di recente allestito sull’isola di Sachalin, emerse un quadro desolante: as- senza di biancheria e di materassi, mancanza di lavandini e acqua calda, diffusione di pidocchi e assenza di cure: «il numero dei detenuti liberati dal lavoro aumenta […] principalmente a causa della progressione dei casi di scorbuto, di tubercolosi avanzata, di malattie intestinali aggravate in seguito ad assenza prolungata di cure mediche». Mancavano anche abiti e scarpe adatte al lavoro. Soprattutto il «banditismo criminale» regnava sovrano tra i prigionieri e più spesso tra le guardie. 193 Una situazione dispe- rata e tutt’altro che isolata. Il problema era di rendere il lavoro forzato più efficiente sia nei campi sia nei villaggi speciali. Il 16 aprile precedente Kruglov, scrisse a Stalin, Berija, Malenkov e Molotov sulla situazione dei confinati speciali «in vista di rinforzare la sorveglianza e il controllo amministrativo e di polizia dei confinati» e soprattutto «di migliorare il loro sfruttamento economico». Questo documento presentò in termini numerici il quadro delle repressioni effettuate negli anni precedenti. Tra i 2307410 confinati speciali si trova- vano cittadini di origine tedesca, ceceni, balcari, calmucchi tatari, greci e membri di altri popoli deportati durante la guerra. E ancora, si trovano gli ex kulaki, i vlasoviti e i «membri delle famiglie di nazionalisti ucraini» e del Baltico. Un impressionante esercito di lavoratori schiavi, sparso tra l’e- stremo oriente sovietico, il Kazachstan e la Siberia, impegnato nell’indu- stria estrattiva, del legname, in quella petrolifera, nella costruzione di fer- rovie, nell’industria chimica e in molte altre ancora. 194 Il quadro generale era improntato alla disorganizzazione, all’inefficienza e alla miseria di un universo concentrazionario che proprio in quegli anni stava raggiungendo la sua massima espansione. L’innesco della grande campagna antisovietica fu dato non da queste notizie, che certamente non trapelarono fuori dal perimetro del potere so- vietico, ma – come si diceva – dalla gestione staliniana dei prigionieri di guerra. Il fatto che Stalin non rispettasse i termini della restituzione, prevista per la fine di dicembre 1948, portò a un inasprimento dei toni della guerra fredda. Di fronte alle cifre minimaliste offerte dai sovietici (circa 193. Rapport du département de contrôle et d’inspection du GOULAG sur l’état du Sakhalinlag au 1 avril 1949, in Goulag, pp. 773-776. 194. Rapport de S. Krouglov, ministre de l’Intérieur de l’URSS, aux cam[arades] Staline, Molotov, Beria et Malenkov, sur la situation des peuplements spéciaux en janvier- février 1949, in Goulag, p. 776-779.
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890.000 prigionieri), un Report inviato da Herbert Hoover nel febbraio 1947 aveva parlato di tre milioni di persone ancora detenute nei campi sovietici. La questione dell’altissimo tasso di mortalità in questi campi si allargò anche ai campi dei paesi di recente sovietizzazione. Il «New York Times» del 5 gennaio 1949, raccogliendo queste cifre, informò i propri lettori che il governo statunitense aveva deciso di intraprendere «la prima azione ufficiale per condannare un nuovo sistema di schiavitù che [era] stato tollerato per troppo tempo […]». 195 Il riferimento alla schiavitù era tutt’altro che una scelta casuale, perché, con tutte le implicazioni che esso possedeva sul terreno delle emozioni pubbliche, fu mirato in definitiva a rafforzare presso l’opinione pubblica occidentale la percezione di una contrapposizione tra due mondi in termini di civiltà giuridica. Il termine schiavitù si collegò naturalmente alla tradizione britannica e statunitense dell’abolizionismo, ma soprattutto fu inteso a stabilire un’analogia con il regime di Hitler. Infine, questo richiamo stabilì che qualcosa nella mo- dernità sovietica – la stessa modernità che aveva prodotto la vittoria di Stalingrado – aveva funzionato in modo del tutto peculiare. E questa pe- culiarità altro non era che il modo che da sempre il dispotismo impiegava per edificare le sue grandi opere, con la fatica appunto dei lavoratori schia- vi, producendo il paradosso di una modernità costruita con metodi arcaici. Tracciato questo quadro generale (il cambio di passo dell’amministra- zione Truman, la questione dei prigionieri di guerra e la reale situazione all’interno dei campi sovietici), conviene soffermarsi sulle vicende del sin- dacalismo internazionale che proprio all’inizio del 1949 conobbero una svolta decisiva. Il CIO, l’altra centrale sindacale statunitense, legata alle politiche rooseveltiane e non esente ai suoi vertici da simpatie nei confronti dei sovietici, abbandonò il grande sindacato internazionale (WFTU), ispi- rato ai valori dell’antifascismo e costantemente impegnato a impedire ini- ziative contrarie all’URSS. Così fecero i sindacati britannici (TUC), con- tribuendo pertanto a una sensibile riduzione del potere di condizionamento che i sovietici avevano esercitato fino ad allora sull’agenda internazionale. Questo potere in realtà aveva retto fino all’annuncio del Piano Marshall, funzionando sempre meno nel periodo successivo. 196 Iniziò da allora infatti 195. L’articolo è Russia’s War Prisoners, in «The New York Times», 5 gennaio 1949, conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4- 2550 to 861.064/12-751, b. 5157, File 861.064/5-150 Forced Labor Secret. 196. Carew, A False Dawn: The World Federation of Trade Union.
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una fase di preparazione in vista di una nuova organizzazione sindacale internazionale, orientata al conflitto con il comunismo sovietico su scala globale. I suoi curatori furono essenzialmente Irving Brown per la AFL, Vin- cent Tewson, il quale aveva rimpiazzato Citrine dal 1946 alla guida dei sindacati britannici, e Jacobus Hendrik Oldebroek, sindacalista olandese per lungo tempo esponente di primo piano della International Transport Workers’ Federation. L’obbiettivo condiviso fu di dar vita a un’organizza- zione indipendente «da ogni dominazione esterna», definizione nella quale era evidente il riferimento ai sindacati di tipo sovietico, ridotti a cinghia di trasmissione dei regimi comunisti. Tuttavia, i protagonisti di questa opera- zione intesero declinarla in modo diverso, rendendo la formazione dell’In- ternational Confederation of Free Trade Union (ICFTU) – questo il nome del nuovo sindacato internazionale, nato alla fine del 1949 – una «luna di miele di breve durata». 197 Comunque, per il momento l’operazione riuscì: la AFL accettò che venisse incluso anche il CIO ai vertici della nuova or- ganizzazione, ottenendo in cambio che non fosse ostacolata la partecipa- zione di sindacati d’ispirazione non socialista. Ma le differenze restarono: i dirigenti dell’AFL tennero fermo naturalmente l’anticomunismo come principio cardine, laddove l’altro sindacato statunitense e i sindacati bri- tannici avrebbero voluto un sindacato mondiale che fosse qualcosa di più della bandiera dell’anticomunismo piantata nel mondo del lavoro. 198 Questo processo (dalla rottura della WFTU alla formazione della ICFTU) favorì la ripresa dell’iniziativa dell’AFL nelle sedi internaziona- li. Essa mirava da tempo, come sappiamo, a coinvolgere le Nazioni Uni- te nella condanna del lavoro forzato sovietico. Altri soggetti associativi, comunque connessi alla AFL, si mossero nella stessa direzione. Già nel dicembre 1948, la Workers Defense League aveva infatti costituito una Commissione d’inchiesta, sulla base di una risoluzione che condannava «il lavoro forzato e schiavo negli stati totalitari di tipo sovietico» accanto alle persistenti forme di sfruttamento in Asia, Africa, Centro e Sud America. La Commissione, presieduta da Harry D. Gideonse, economista e presidente del College di Brooklyn, fu composta da importanti figure della sinistra statunitense: intellettuali e accademici quali Sidney Hook e Arthur Schle- singer Jr, leader politici come Norman Thomas e dirigenti sindacali come 197. Carew, American Labour’s Cold War, p. 68. 198. Ivi, p. 71.
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Matthew Woll per la AFL, e John Green per il CIO. Albert Konrad Herling, il quale ricoprì nella Commissione la carica di direttore della ricerca, pub- blicò più tardi, nel 1951, un volume dal titolo Soviet Slave Empire. 199 Am- messo come consulente all’ECOSOC, Herling collaborò con le iniziative dei rappresentanti dell’AFL. 200 Il clima era propizio: funzionari governativi e rappresentanti sinda- cali presero ad agire di concerto nel corso delle sedute dell’ECOSOC per tutta la prima metà dell’anno. Il 14 febbraio Willard Thorp, rappresentan- te del governo statunitense, chiese che il memorandum dell’AFL venisse finalmente recapitato all’ILO, affinché questa istituisse una commissione d’indagine sul sistema concentrazionario sovietico, dove erano imprigio- nati – affermò con la consueta esagerazione – «tra gli 8 e i 14 milioni di persone». 201 Al discorso di Thorp fece seguito quello di Sender, rappre- sentante della AFL: «toccherà al Consiglio – ella disse con forza – far vedere al mondo che facciamo sul serio quando ci impegniamo a salva- guardare la dignità umana e ad abolire il lavoro forzato e obbligatorio». 202 George Barrett, giornalista del «New York Times», commentò quanto era stato detto fino ad allora. Gli parve che, per quanto il rappresentante sovie- tico si fosse sforzato di negare la realtà dei campi, le storie riportate dalla Sender ricordavano «cupamente le atrocità dei campi di concentramento nazisti». 203 La stessa Sender, esule tedesca antinazista, non perse occasio- ne per consolidare l’analogia tra i due regimi totalitari. Questa linea si 199. Nella prefazione, scritta dallo stesso Herling, si trovano informazioni utili circa la Commissione istituita dalla WDL. Albert Konrad Herling, The Soviet Slave Empire, New York, Wilfred Inc. publishers, 1951, pp. V-XI. 200. A riprova dell’intensa collaborazione con la AFL, Sender scrisse a Gideonse qualche tempo dopo, l’11 aprile 1951, che «Albert K. Herling ha messo a disposizione dei nostri sforzi la preziosissima documentazione che ha contribuito a convincere la maggio- ranza del Consiglio economico e sociale a intraprendere un’azione contro il lavoro forzato, per la cui abolizione la Federazione Americana del Lavoro e, successivamente, i Consulenti della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi si sono costantemente battuti». La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, Interna- tional Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 15, fasc. 16: Commis- sion of inquiry into forced labor. 201. Schiavismo rosso, p. 44. 202. Ivi, p. 48. 203. George Barrett, Soviet Denies Slave Charges, in «New York Times», conserva- to in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5157, File 861.064/5-150 Forced Labor Secret.
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consolidò di settimana in settimana. Il 9 marzo sempre il «New York Ti- mes» parlò della «reintroduzione da parte degli stati totalitari di un sistema schiavitù umana». Il giornalista lamentò che la Dichiarazione dei diritti e la convenzione contro il genocidio non erano stati dotati di «disposizioni esecutive» per colpire il sistema dei campi di Stalin. 204 Se consideriamo ancora una volta quanto stretti fossero divenuti i rapporti tra rappresentanti dell’AFL e i funzionari del Dipartimento di Stato, il quadro statunitense appare davvero completo. 205 Alla mobilitazione antisovietica parteciparono anche rappresentanti del governo laburista britannico. La figura chiave fu Christopher Mayhew, rappresentante del suo governo all’ECOSOC. Eletto nel 1945 nelle liste del Partito laburista, e divenuto sottosegretario agli Esteri sotto Ernst Be- vin, egli incarnò il passaggio della sinistra britannica dalle posizioni pro- sovietiche degli anni Trenta alla partecipazione in prima fila alla guerra fredda contro l’URSS di Stalin. 206 Il contributo di Mayhew fu costruito sul filo di un ragionamento basato su prove giuridiche e fattuali. Citò nel suo discorso all’ECOSOC una legge dello stato cecoslovacco, risalente all’ottobre 1948, dove era stabilito che i prigionieri dovevano essere utiliz- zati nell’ambito della pianificazione economica. Le miniere di uranio della Boemia nord-occidentale erano sfruttate per il programma nucleare sovie- tico con il lavoro forzato dei numerosi campi vicino Jáchymov. Mayhew fece poi una ricognizione sui campi di concentramento nella zona sovietiz- zata della Germania, che risultavano in un numero maggiore di quelli della Germania nazista fino al 1939. Non mancò di notare che il nome sinistro di Buchenwald adesso indicava un campo sovietico. Mayhew sfidò inoltre le autorità sovietiche a lasciar entrare i rappresentanti delle Nazioni Unite nelle seguenti zone: la grande area penale di Karaganda in Kazachstan, i 204. Slave States, in «New York Times», 9 marzo 1949, conservato ibidem. 205. Toni Sender scrisse il 14 giugno 1949 a un funzionario della Divisione econo- mica del Dipartimento di Stato: «Le sarei molto grato se potesse farmi avere i dati, che so che il Dipartimento possiede, sul lavoro forzato negli Stati satellite. Forse saranno utili per la prossima sessione del Consiglio economico e sociale di Ginevra, alla quale parteciperò». La lettera è conservata in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 6666, File 861.5048. 206. Si vedano innanzi tutto le sue memorie, Christopher Mayhew, A War of Words. A Cold War Witness, London, I.B. Tauris, 1998. Il miglior volume sul laburismo al potere nel dopoguerra, resta Kenneth O. Morgan, Labour in Power 1945-1951, Oxford-New York, Oxford University Press, 1984.
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campi di concentramento del Dal’stroj nell’estremo oriente, compreso il campo delle miniere di carbone sul fiume Kolyma; il gruppo dei campi sul fiume Pečora nel Nord-Est russo; il gruppo attorno al lago Bajkal in Sibe- ria, i campi della regione di Arcangelo e altri ancora. 207 L’IRD, che aveva finanziato The God that Failed, si preparò a sfrutta- re questo lavoro informativo sul terreno della propaganda antisovietica. 208 L’indirizzo era stato impresso dalle idee che lo stesso Bevin aveva da poco espresso. Nel corso di una riunione di gabinetto del governo Attlee, te- nutasi l’8 gennaio 1948, il responsabile del Foreign Office aveva parlato della necessità di un’«unione occidentale» che non costituisse soltanto un patto a difesa dei confini. Era necessario «anche organizzare e consolidare le forze etiche e spirituali interne a questa civiltà occidentale, di cui noi siamo i principali protagonisti». Toccava insomma ai britannici «in quanto europei con un governo socialdemocratico in carica» di rispondere colpo su colpo alla minaccia comunista e di farlo ancor prima, e con maggiore intensità, dei conservatori o del governo statunitense. L’«offensiva» contro il comunismo doveva dunque essere intrapresa a partire dalle «idee vitali della socialdemocrazia britannica», dando così una «guida ai nostri ami- ci all’estero, aiutandoli nella lotta anticomunista». 209 Nel 1949, dunque la battaglia contro il lavoro forzato sovietico si prestò all’obbiettivo di tenere vive sia le ragioni di un partito, quello laburista, deciso a prendere la guida del socialismo internazionale durante la guerra fredda, sia le ragioni di un governo, quello presieduto da Clement Attlee, convinto di poter contribui- re al rafforzamento spirituale, e non soltanto militare, dell’Occidente. Tornando al dibattito svoltosi all’ECOSOC, il 7 marzo fu il giorno della svolta. Fu approvata a larghissima maggioranza la risoluzione n. 195 207. Affermò che «Le nostre informazioni ci dicono che questi campi comprendono solo una parte della popolazione totale dei lavoratori forzati dell’Unione sovietica. Ma delle visite anche a questi soli campi farebbero molto per rassicurare il mondo esterno». Schia- vismo rosso, p. 135. 208. Si veda a questo proposito Defty, Britain, America and Anti-communist Pro- paganda e John Jenks, British Propaganda and News Media in the Cold War, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2006. 209. Defty, Britain, America and Anti-communist Propaganda, pp. 80 sgg. A dimo- strazione della svolta profonda del laburismo rispetto al comunismo sovietico, Udy ha re- cuperato e commentato tre importanti «Cabinet papers» nei quali Bevin espresse concetti analoghi a quelli della riunione summenzionata: Extinction of Human Rights in Eastern Europe (24 novembre 1947), Review of Soviet Policy (5 January 1948) e The Threat to We- stern Civilization (3 marzo 1948). Cfr. Udy, Labour and the Gulag, pp. 521-523.
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a favore di un’inchiesta globale sul lavoro forzato. Si richiese che il Segre- tario generale delle Nazioni Unite agisse in stretto contatto con l’ILO, per verificare in quale misura i governi fossero disponibili a collaborare allo studio dei «sistemi di lavoro forzato, impiegati come strumento di coerci- zione politica» o costituenti «un importante elemento nell’economia di un dato paese». 210 La risoluzione aveva un evidente significato antisovietico, che il «New York Times» si preoccupò di ribadire il 9 marzo. Si era infatti di fronte alla «reintroduzione da parte degli Stati totalitari di un sistema schiavistico» ed era «fuori discussione» che spettasse alle Nazioni Unite di imporre il rispetto dei diritti umani. Secondo il «New York Times», la giurisdizione dei singoli stati, e nella fattispecie quella dello stato sovieti- co, non poteva essere chiamata in causa per ostacolare l’inchiesta, giacché i campi di Stalin costituivano un’«istituzione internazionale», all’interno della quale erano tenuti prigionieri russi, ucraini, polacchi, rumeni, ma an- che baltici, tedeschi, francesi, italiani e persino cittadini statunitensi. Dal canto suo, Woll rivendicò ancora una volta il ruolo di antesigna- no svolto dalla AFL rispetto ai governi occidentali, rimasti immobili per lunghi mesi. Scrisse su «The American Federationist» che essi «esitavano e ondeggiavano. Si agitavano e si riscaldavano» senza però decidersi. 211 Il tempo delle indecisioni politiche però era adesso finito, così come del resto quello del neutralismo intellettuale. Alla fine di marzo, Hook, Macdonald e Thomas presero l’iniziativa di contrastare la grande conferenza per la pace mondiale, tenutasi a partire dal 25 al Waldorf-Astoria Hotel di New York. 212 Questa conferenza era stata pensata per predicare la coesistenza con l’URSS al posto del conflitto ideologico su scala globale. E il nome di Albert Einstein, tra molti altri, dette lustro all’evento. Il giorno successivo nella sede della Freedom House, Hook e compagni annunciarono la nasci- ta dell’organizzazione Americans for Intellectual Freedom, finanziata dal sindacato di Dubinsky, afferente all’AFL. La base di partenza fu il rifiuto radicale per una pacificazione tra stati che prescindesse dalla libertà e dai diritti civili come grandi questioni a carattere globale. Alla Freedom Hou- se, dunque, l’anti-totalitarismo delle riviste di sinistra fece la sua grande 210. Per la ricostruzione puntuale di questi sviluppi si può fare riferimento a Appendix I. Historical Survey of International Action concerning Forced Labour, in United Nations – International Labour Office, Report of the ad hoc Committee on Forced Labour, Geneva, ILO, 1953, p. 150. 211. Cit. in Schiavismo Rosso, p. 24. 212. Bloom, Prodigal Sons, pp. 259 sgg.
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uscita, affermando i principi fondamentali della guerra fredda culturale. Questa idea – il rifiuto dello scambio tra pace e libertà – orientò anche i lavori del celebre congresso per la libertà della cultura, tenutosi a Berlino nel giugno 1950. 213 A queste iniziative sul terreno intellettuale fecero riscontro iniziative, per così dire, dal basso, soprattutto in Germania occidentale, dove i rifugia- ti sovietici – che si erano rifiutati di tornare in URSS per timore di arresti e deportazioni – sfilarono per le strade di Monaco il 10 aprile 1949 nelle file dell’Anti-Bolshevik Bloc of Nations. 214 I rappresentanti si alternarono a parlare sul palco allestito in Königsplatz. Gli striscioni sorretti dai mili- tanti dettero la misura dell’iniziativa: «Terrore e genocidio imperversano in Lituania», «Mosca assetata di sangue! 300.000 ucraini giacciono vicino Kiev con un colpo sparato alla nuca». E ancora: «Chiediamo a Mosca dove sono le tombe di migliaia e migliaia di lettoni torturati». Altri striscioni raffigurarono una mappa dei campi sovietici, destinata ad avere un impatto notevole nel clima della guerra fredda. Alcune versioni, più o meno accu- rate erano circolate già a partire dal 1945. La prima, e la più importante, si trovava in appendice al volume, già menzionato, che gli ufficiali dell’Ar- mata Anders pubblicarono a Roma proprio nel 1945. Ripresa e rielaborata da Dallin, la carta geografica dei campi sovietici continuò a circolare nel 1947, allorquando Levine pubblicò The First Comprehensive Map of Slave Camps in U.S.S.R. La mappatura del gulag staliniano era destinata a svol- gere una funzione propagandistica di prim’ordine, andando dunque ben oltre il ruolo di appendice documentaria ai volumi che man mano uscivano sul mercato editoriale. Per la manifestazione di Königsplatz si era trattato probabilmente di un’iniziativa di tipo spontaneo, ma non va dimenticato che nello stesso periodo l’AFL si impegnò finanziariamente per produr- re una versione sempre più accurata della mappa. Lovestone in persona si impegnò a sostenere gli sforzi fatti da Levine per migliorare i dettagli contenuti nella carta del 1947. Il risultato di questi sforzi venne alla luce nel 1951 durante la conferenza di San Francisco che sancì la pace con il Giappone. In questa occasione, fu recapitata ai rappresentanti sovietici una 213. Torneremo sul congresso berlinese nel prossimo capitolo. È sufficiente qui men- zionare il lavoro più completo a esso dedicato, Peter Coleman, The Congress of Cultural Freedom and the Struggle for the Mind of Postwar Europe, New York, The Free Press, 1989. 214. Anna Holian, Anticommunism in the Streets: Refugee Politics in Cold War Ger- many, in «Journal of Contemporary History», 1 (2010), pp. 134-161.
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mappa molto più dettagliata. Poco dopo, il 17 settembre, quest’ultima fu pubblicata su «Time». Il processo di costruzione dell’«arma cartografica» si era in definitiva compiuto. 215 Un’altra «arma» era invece già pronta per la primavera-estate del 1949. Mi riferisco alla diffusione del codice sovietico del lavoro corret- tivo, risalente al 1933. Una versione era stata pubblicata e commentata in Italia nel 1934. 216 Adesso, alla fine degli anni Quaranta, le versioni inglese e francese, ottenute a partire dall’originale russo, furono messe a dispo- sizione per la prima volta a favore di un largo pubblico occidentale. In oggetto erano norme penali che infrangevano la Dichiarazione universale dei diritti. Gettare luce su questo fatto, tra l’altro, funzionò come contro- mossa rispetto ai tentativi sovietici di puntare i riflettori sulla schiavitù nei territori coloniali. 217 La «scoperta» del codice fu il frutto dell’impegno profuso dai funzionari dell’Information Research Office britannico, i quali passarono il testo tradotto a Gerard Corley Smith, rappresentante britan- nico all’ECOSOC. 218 Il 22 luglio, allorquando il codice fu presentato in questa importante sede internazionale, si ebbe l’impressione che venisse gettata la prima pietra dell’edificio, progettato il 7 marzo precedente con la risoluzione n. 195. Infatti, l’indagine sui sistemi di lavoro forzato, affidata a un Comitato ad hoc, richiedeva che, a fianco delle testimonianze delle vittime, si rico- struisse il quadro normativo che reggeva il lavoro forzato come istituzione. Da questo punto di vista, il codice correttivo sovietico mostrò che in URSS il lavoro forzato non costituiva una deviazione dalla lettera e dallo spirito delle leggi, bensì un vero e proprio sistema, che intrecciava norme, proce- dure e pratiche. Il codice infatti aveva trasferito la giurisdizione delle isti- tuzioni correttive da ministeri competenti alla NKVD, prevedendo inoltre la deportazione senza una condanna in tribunale, ma per via amministrati- 215. Per la vicenda della mappa, si rimanda a Timothy Barney, ‘Gulag’– Slavery, Inc.: The Power of Place and the Rhetorical Life of a Cold War Map, in «Rhetoric & Public History», 2 (2013), pp. 317-353. 216. Il testo del codice venne pubblicato in italiano nel 1934 come appendice ad un saggio del giurista Tomaso Napolitano. Si cita qui la seconda edizione di poco successiva. Tomaso Napolitano, La politica criminale sovietica, in appendice: Codice del lavoro cor- rettivo e Regolamento generale dei campi per i lavori correttivi, Padova, CEDAM, 1936. 217. Miers, Slavery in the Twentieth Century, p. 321. 218. Su queste notizie si veda in particolare la ricostruzione di Jenks, British Propa- ganda, pp. 138 sgg.
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va. Disegnando per legge un sistema poliziesco e arbitrario di questa por- tata, il codice assunse un posto ben preciso nel quadro normativo sovietico, collocandosi a metà strada tra le esigenze punitive e quelle produttive che il regime aveva stabilito come necessarie per il proprio consolidamento. 219 A sostegno dell’iniziativa britannica, Thorp intervenne il 3 agosto in sessione plenaria, riprendendo le dichiarazioni del rappresentante sovie- tico, secondo il quale si era trattato di una falsa scoperta. Thorp affermò polemicamente: Certo, non è il tipo di educazione che avevamo in mente in relazione alla Di- chiarazione dei diritti dell’uomo, e direi che la sua descrizione di un processo di rieducazione obbligatoria, un processo che permette di mandare gli indi- vidui in isolamento ed esilio, un processo che spesso non prevede un’azione giudiziaria, non prevede la protezione dei diritti dell’individuo, rappresenta una situazione di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. Abbiamo esa- minato le procedure e il processo delineato nei documenti, e sosteniamo che in questo processo involontario sono coinvolte violazioni di almeno nove articoli della Dichiarazione dei diritti umani. Pertanto, signor Presidente, ri- teniamo che la discussione di questa mattina abbia rafforzato la necessità di intraprendere qualche azione in questo campo. 220
Mentre dunque alle Nazioni Unite l’iniziativa antisovietica statuni- tense e britannica giunse al suo apice, a Parigi era in corso il processo per diffamazione che Kravčenko intentò contro il periodico comunista «Les Lettres Françaises», il quale aveva insistentemente accusato l’ex funziona- rio sovietico di mentire circa la vera realtà del regime sovietico. Il processo si svolse nella prima metà del 1949, ma affondava le sue radici nell’autun- no del 1947, allorquando il 13 novembre il periodico comunista pubblicò un articolo dal titolo Comment fut «fabriqué» Kravchenko, firmato da Sim Thomas, presunto giornalista statunitense che nessuno aveva mai sentito nominare e che in realtà era stato inventato per l’occasione dall’apparato propagandistico comunista francese. Secondo questo Thomas, l’opera di Kravčenko sarebbe stata il frutto di un accurato lavoro di manipolazione 219. Non a torto è stato scritto che la traduzione e la presentazione alle Nazioni Unite del codice sovietico fu una vera e propria «bomba», Miers, Slavery in the Twentieth Cen- tury, p. 322. 220. Il testo dell’intervento è conservato in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Staff Files; George Delaney’s files 1921- 1957, File 13, 5. United States Mission to the United Nations 1948-1955.
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svolto dai menscevichi esuli negli Stati Uniti per conto degli apparati go- vernativi di questo paese, assetato di propaganda antisovietica. Secondo questa versione, i funzionari di Washington avrebbero messo disposizione una serie di documenti che riguardavano i crimini nazisti, raccolti in vista del processo di Norimberga. E cambiare situazioni, luoghi e nomi apparte- nenti al Reich di Hitler con altrettanti attribuiti al regime di Stalin era stato un gioco in definitiva molto semplice. E semplice – secondo il misterioso autore – fu il risultato, trasformando dei crimini nazisti, realmente perpe- trati, in crimini sovietici, del tutto inventati. In un confronto con la documentazione prodotta dalle autorità sovie- tiche, naturalmente non disponibile a quel tempo, questa tesi si sarebbe sciolta come neve al sole. Non molto tempo prima che i comunisti francesi denunciassero la presunta fabbricazione del libro di Kravčenko, le autorità sovietiche erano alle prese con il disastro umanitario prodotto dalle depor- tazioni. Il ministro degli Interni della repubblica del Kirgizstan scrisse il 18 luglio 1946 a Kruglov della situazione dei confinati speciali, deportati dal Caucaso del Nord e dalla Georgia: «A seguito delle condizioni deplora- bili di alloggio, di infrastrutture sanitarie e di vita in generale, le epidemie di tifo si sono rapidamente propagate e hanno avuto come risultato una mortalità accentuata». L’assenza di vestiti e scarpe ha finito per ostacola- re «l’impiego economico» dei confinati. 221 Nello stesso periodo, l’aprile 1946, una circolare indirizzata dal Dipartimento operativo del gulag alle autorità subordinate denunciò una situazione che il regime aveva sempre tollerato se non promosso, ossia il dilagare delle violenze dei detenuti cri- minali sugli altri: «non si conta più il numero di risse che coinvolgono bande rivali di criminali, di estorsioni, furti e altre violenze commesse dai loro membri a discapito dei detenuti che cercano di lavorare onestamente o perlomeno di riscattare i loro errori di fronte allo stato». 222 Tutto ciò non era invenzione di cinici pennivendoli al soldo dei funzionari statunitensi, ma il racconto preciso delle stesse autorità sovietiche, impegnate nello sforzo di far funzionare razionalmente il sistema del lavoro forzato. 221. Rapport de A. Ptchelkine, ministre de l’Intérieur de la RSS de Kirghizie, à S. Krouglov, ministre de l’interieur de l’URSS, sur la situation des déplacés spéciaux du Cau- case du Nord et de Géorgie (extraits), in Goulag, pp. 765. 222. Circulaire du département opérationnel du GOULAG n. 37/3425 à tous les chefs des départements opérationnels des camps et colonies de travail correctif sur l’activisme croissant des criminels de droit commun (extraits), in Goulag, pp. 458-459.
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Kravčenko trascinò sul banco degli imputati lo scrittore Claude Mor- gan, il quale aveva fondato «Les Lettres françaises» nel 1942, e il redattore André Wurmser, il quale aveva continuato a ingiuriare Kravčenko anche dopo l’articolo del novembre 1947. Il processo per diffamazione si svolse in venticinque sedute tra il 24 gennaio e il 22 marzo 1949 presso la X Ca- mera correzionale. 223 La scrittrice russa in esilio Nina Berberova fu croni- sta d’eccezione del processo, del quale pubblicò un resoconto sulla rivista «La Pensée russe». 224 Colse con acutezza le contorsioni mentali dei difen- sori del giornale comunista, scelti nelle file dell’establishment progressista e resistenziale francese: da Frédéric Joliot-Curie a Vercors, passando per Jean Cassou, Fernard Grenier, Louis Martin-Chauffier e Emmanuel d’A- stier de La Vigerie. Ciascuno di essi intervenne duramente nei confronti di Kravčenko. Grenier ad esempio riprese l’idea, già avanzata da altri, che la traiettoria esistenziale di Kravčenko assomigliava a quella di Doriot, ben nota al pubblico francese. D’Astier de la Vigerie garantì dal canto suo che: «[…] le cose dette da Kravčenko sono state tradotte nella realtà da Vlasov». 225 I nomi inquietanti di Vlasov e di Doriot, incarnazioni del col- laborazionismo russo e francese, furono evidentemente richiamati con l’o- biettivo di «fascistizzare» l’immagine di Kravčenko al cospetto dell’opi- nione pubblica francese, la quale doveva finalmente convincersi – come fu detto – che «ogni anticomunista è un antifrancese». 226 Il processo Kravčenko fu seguito anche in Italia, dove alcuni gran- di classici della sinistra antistalinista vennero pubblicati proprio in quegli anni. Buio a mezzogiorno di Koestler era uscito nel 1946 presso Monda- dori, che lo ristampò due volte nel 1947. Lo stesso editore stampò tra 1947 e 1949 La fattoria degli animali di Orwell. Fu invece Longanesi – come 223. Per la vicenda processuale si è fatto riferimento essenzialmente alla ricostruzione di Kern, The Kravchenko Case. Si veda anche il resoconto stenografato Le procès Kravchenko contre Les Lettres françaises. Compte rendu des débats d’après la sténographie, Paris, la Jeune Parque, 1949. Infine, le memorie dello stesso protagonista, Victor Kravchenko, L’épée et le Serpent. J’ai choisi la Justice!, Paris, Éditions Self, 1950 224. Nina Berberova, L’affaire Kravtchenko, [Arles], Actes Sud, 1990. 225. Ivi, p. 38. 226. Ivi, p. 31. Erano accuse forse improbabili, ma che a quel tempo, per il fatto stesso di essere pronunciate da figure di prestigio di uomini legati alla Resistenza, ebbero comunque un peso. Hanno commentato Ory e Sirinelli a questo proposito che: «di fronte ad a un accusatore che non intese citare che testimoni oscuri e in qualche caso divisi tra loro, gli accusati non ebbero alcuna difficoltà a mobilitare tutta la schiera degli intellettuali della Resistenza». Ory e Sirinelli, Les intellectuels en France, p. 287.
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si è già ricordato – a pubblicare Ho scelto la libertà di Kravčenko all’a- pice dello scontro di civiltà tra comunismo e anticomunismo in Italia, cioè nel 1948. 227 Quanto al processo parigino, «L’Unità» inviò nella capitale francese Luigi Cavallo che ripeté i luoghi comuni sulla scarsa credibilità dell’autore. La stampa liberale invece coprì l’evento in modo diametral- mente opposto. Gli inviati de «Il Messaggero» di Mario Missiroli (Mino Caudana e Bruno Romani) guardarono con simpatia all’esule sovietico, sottolineando i rischi personali che egli stava correndo. Guido Piovene fu inviato dal «Corriere della sera» di Guglielmo Emanuel. I suoi articoli fu- rono tesi a mostrare che, al di là dei tentativi diffamatori da parte comu- nista, Kravčenko era «padrone» del libro, esponendone durante il dibatti- mento il contenuto con precisione e profondità. 228 La storia del processo Kravčenko è stata raccontata molte volte come capitolo decisivo della guerra fredda culturale in Europa, senza però soffer- marsi a sufficienza sul lavoro che in concreto Kravčenko svolse per allesti- re, e dunque presentare in aula, il corpus di testimonianze a sostegno della veridicità del proprio racconto. A questo proposito, ci è d’obbligo ascoltare la voce dell’interessato: Ho iniziato mettendo annunci sui giornali che potevano essere letti dai DP [displaced persons]. Le lettere cominciarono ad arrivare, dieci, cento, mille. Venivano da tutti i paesi dove esistevano i campi profughi, fuggiti dal para- diso di Stalin o dall’inferno di Hitler. Erano indirizzate non solo ai giornali, ma ai miei editori, ai miei avvocati o alle autorità governative. Venivano da russi, ucraini, bielorussi e altri, persone di entrambi i sessi, di tutte le età, tutte le professioni, tutte le condizioni. Avevano tutti queste due caratteristiche in comune: l’amore per la patria e l’odio per i suoi tiranni. 229
Lo spoglio di queste lettere fu «un compito difficile», perché se tutte rivelarono storie di ingiustizia e oppressione, nondimeno era necessario un lavoro di scrematura dei testimoni, seguendo criteri non soltanto di ve- ridicità, ma anche di opportunità. I collaborazionisti ucraini dei nazisti, i vlasoviti e i vecchi partigiani zaristi dovettero essere scartati, perché preve- 227. Roberto Pertici, Il vario anticomunismo italiano, p. 109. 228. Andrea Mariuzzo, «La Russia com’è». L’immagine critica dell’Unione sovie- tica e del blocco orientale nella pubblicistica italiana, in «Ricerche di storia politica», 2 (2007), pp. 157-176. Vedi anche Domenico Vecchioni, Le reazioni in Italia al processo Kravchenko, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 2 (1997), pp. 236-240. 229. Kravchenko, L’épée et le Serpent, p. 43.
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dibilmente la loro testimonianza avrebbe alimentato la reazione della mac- china di propaganda sovietica, così efficiente in Francia. Il secondo pro- blema che Kravčenko dovette affrontare fu di gestire la quotidianità delle persone prescelte e dunque portate a Parigi. Fu necessario radunarle in un unico albergo, far sì che non andassero in giro da sole per la città, magari parlando con sconosciuti e facendosi fotografare. Come ricordò lo stesso Kravčenko, i testimoni erano persone provenienti in prevalenza dai campi profughi situati nelle province occidentali della Germania, con l’eccezione di tre russi residenti a Tangeri, in Belgio e in Danimarca e una tedesca che arrivò dalla Svezia. 230 Come vedremo nel prossimo capitolo, un gruppo di ricercatori di Harvard, finanziati dall’aviazione statunitense, giunse nella Repubblica federale tedesca nella primavera del 1950 per realizzare una serie di interviste a migliaia di displaced persons, riprendendo e ampliando il lavoro già iniziato da Kravčenko. La testimone tedesca proveniente dalla Svezia era Margarete Buber- Neumann, destinata a diventare uno dei testimoni più importanti in questi anni. 231 Sposata con Heinz Neumann, dirigente comunista tedesco di primo piano, Margarete era giunta a Mosca assieme al marito dopo la vittoria di Hitler, finendo presto però, come tanti altri, nel tritacarne staliniano. Le sue memorie presero le mosse dal maggio del 1937, allorquando il marito venne arrestato dall’NKVD e lei si mise alla ricerca spasmodica di noti- zie nei meandri della burocrazia moscovita. Sempre più isolata (la coppia viveva presso il celebre Hotel Lux), Margarete venne infine arrestata nel giugno 1938, iniziando così un calvario che dalla detenzione alla Butyr- ka la condusse nell’universo concentrazionario di Karaganda. In seguito al patto Molotov-Ribbentrop, che prevedeva lo scambio dei prigionieri, Buber-Neumann fu portata nuovamente a Mosca. Scortata da agenti della NKVD, fu infine condotta al confine con il Governato generale, dove ven- ne presa in consegna da agenti delle SS e, dopo alcuni passaggi nelle galere del Reich, condotta nel campo di Ravensbrück. Ne uscì viva, diversamente dalla sua amica Milena Jesenská, la quale aveva avuto una relazione con Franz Kafka. Il primo nucleo delle memorie di Buber-Neumann fu pub- blicato in Francia nel 1949 per i tipi di Seuil, mentre la seconda parte, 230. Ivi, pp. 44-45. 231. Per un ritratto breve ma efficace, Victor Zaslavsky, Margarete Buber-Neumann, testimone del proprio secolo, in Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Hitler e di Stalin, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. VII-XVIII.
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dedicata alla deportazione a Ravensbrück, uscì soltanto in seguito. Già nel 1949, uscirono invece versioni complete della sua esperienza concentra- zionaria in inglese e in tedesco, marcando così il confronto tra i due regimi totalitari. 232 Berberova ascoltò il racconto di Buber-Neumann nel corso dell’u- dienza del 22 febbraio, annotando queste considerazioni sul taccuino: «la sala ascolta la sua testimonianza con un’attenzione costante, e, diciamolo francamente: questa testimonianza vale di per sé dieci anni di propagan- da anticomunista». 233 Due elementi apparvero particolarmente significa- tivi in questa testimonianza. Il primo fu la caratterizzazione del sistema concentrazionario sovietico come insieme di grandi zone, che nel caso di Karaganda raggiungeva un’estensione «due volte la Danimarca». 234 All’o- biezione dell’avvocato difensore di «Les Lettres françaises» che un campo di norma presupponeva una recinzione, Buber Neumann rispose che «il campo di cui parlo non ha mura di recinzione, perché si trova nella steppa. L’evasione da un campo di questo tipo è impossibile perché la steppa è per- corsa dalle truppe mobili dell’NKVD». 235 Con queste parole, la testimone non soltanto smontò l’insinuazione dell’avvocato suddetto circa una pre- sunta scarsa verosimiglianza del racconto, ma aprì uno squarcio sull’esten- sione e il carattere pervasivo dell’universo concentrazionario sovietico. Il secondo elemento di rilievo fu la questione dell’alimentazione nei campi, la terribile norma con la quale si distribuiva il cibo a seconda dei risultati ottenuti nel lavoro. La testimonianza di Buber Neumann si soffermò inoltre sulla retorica di tipo coloniale del regime sovietico: «la steppa del Kazachstan doveva esser resa fertile da questi uomini», trattati con una brutalità che era pro- pria di un mondo arretrato, molto distante dai costumi dell’Europa centro- occidentale. 236 Persino le prigioni e i campi nazionalsocialisti, sperimentati al suo ritorno in Germania, sembrarono ai suoi occhi posti migliori. Così 232. Margarete Buber-Neumann, Déportée en Sibérie, Paris, Seuil, 1949. Id., Under Two Dictators, London, Victor Gollancz, 1949; Id., Als Gefangene bei Hitler und Stalin, Monaco, Verlag der Zwölf, 1949. In Italia, si è dovuto aspettare il 1994 per la prima edizio- ne, già ricordata: Buber-Neumann, Prigioniera di Hitler e di Stalin. 233. Berberova, L’affaire Kravtchenko, p. 148. 234. Le procès Kravchenko contre Les Lettres françaises. Compte rendu des débats, p. 555. 235. Ibidem. 236. Ivi, p. 557.
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facendo, la testimone toccò un nervo scoperto degli amici del comunismo, impegnati a cantare le lodi del progresso sovietico. Non soltanto dunque esistevano enormi aree concentrazionarie, veri e propri sistemi all’interno dei quali erano collocati miriadi di campi e luoghi di detenzione, ma que- sti si erano rivelati decisamente distanti, per caratteristiche e trattamento dei detenuti, dalla retorica ufficiale della rieducazione attraverso il lavoro. Attraverso il racconto di Karaganda, emerse dunque un mondo di arretra- tezza spaventosa che nessun apparato di propaganda poteva nascondere. Il carattere regressivo della modernità sovietica venne una volta di più con- fermato. La gran parte delle testimonianze al processo provenne da cittadini so- vietici, gente comune che – come si è detto – non desiderava tornare in URSS. Tra questi, Ol’ga Marčenko, contadina ucraina che aveva subìto la dekulakizzazione nel 1930 e che più di dieci anni dopo era stata deportata nel Reich tedesco come lavoratrice forzata. Il racconto colpì il pubblico per la crudezza dei fatti: Il 5 febbraio 1930, una brigata arrivò alla nostra fattoria, guidata dal rappre- sentante del partito dei lavoratori della città di Rostov […] Sono entrati in casa mia, ero sola in quel momento, e non c’era nessun bene rimasto dentro l’abitazione. Mi hanno detto: «Esci da questa casa». Ho cercato di difender- mi, ho insistito che avevo pagato il prezzo della mia casa. Mi hanno preso per entrambe le mani e mi hanno buttato fuori. Hanno distrutto il camino, l’atrio e messo i sigilli alla porta. Poi mi hanno buttato nella neve, ero incinta di otto mesi e mezzo a quell’epoca. 237
Delle deportazioni e del lavoro forzato nell’estremo Oriente sovietico ne parlò un altro contadino ucraino. Riferendosi al mese di ottobre 1930, raccontò dell’arresto seguito da una vicenda terribile di prigionia in celle sovraffollate, pestaggi continui e richieste di confessioni per avere svolto attività antisovietiche. 238 Lui e i suoi compagni di sventura, dopo alcune soste in prigioni e campi di transito, giunsero a destinazione dopo tren- 237. Ivi, pp. 193-194. 238. L’arresto avvenne secondo le modalità classiche della GPU: «Il 20 ottobre 1930, la milizia della GPU arrivò a casa mia, guidata da un certo Yakouchef. Non appena aprii la porta, mi ordinarono di alzare le mani. Ero in camicia da notte. Mi hanno perquisito, hanno perquisito la casa e poi mi hanno detto che ero stato arrestato. Non hanno trovato nulla, e soltanto dichiarato che ero in arresto», Le procès Kravchenko contre Les Lettres françaises. Compte rendu des débats, p. 224.
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totto giorni e notti di viaggio: «eravamo così estenuati che non ci ricono- scevamo più». 239 Il peggio tuttavia doveva ancora arrivare. Nelle miniere d’oro della Kolyma «il lavoro era estenuante, il freddo era permanente. Fummo picchiati e costretti a scavare la terra che era dura come la pie- tra […] Il freddo raggiunse sessantacinque gradi sotto lo zero. Inoltre, lo scorbuto sopraggiunse, provocando un pesante tributo di vite umane tra le nostre file». 240 L’idea che questa brutalità dovesse essere ricondotta alle esigenze dei piani economici di Stalin circolò in altre testimonianze. Nel corso della tredicesima udienza, svoltasi il 22 febbraio 1949, fu la volta di Nikolaj F. Antonov, un ingegnere che aveva lavorato con Kravčenko a Nikopol’ e che fu arrestato più volte nel corso degli anni Trenta. Il suo racconto colpì la Berberova per la «maniera ordinata e concreta» con la quale il testimone mise in relazione la mancanza di manodopera nelle segherie, nelle miniere d’oro e di ferro del nord sovietico alle ondate di purghe organizzate perio- dicamente dalla NKVD nei villaggi, nei borghi e nelle città. 241 Antonov si rivolse alla corte con queste parole: Signor Presidente, l’Unione Sovietica ha bisogno di fortificare le sue frontie- re, di scavare canali […] di estrarre oro e metalli. Per fare questo, ha deciso di sfruttare la parte settentrionale del suo territorio […] In queste regioni, non solo non ci sono lavoratori, ma in alcuni luoghi non ci sono mai stati nemmeno esseri umani. Il Politburo, nella sua pianificazione, tenendo conto di questa mancanza di manodopera in queste regioni, dà ordini al Narkomat che chiede al NKVD di fornire questa manodopera e in ogni città, in ogni villaggio, in ogni Kolchoz, il NKVD raccoglie questa manodopera. E da quel momento, tutta la stampa sovietica pubblica storie di complotti e attività ri- voluzionarie dirette contro il regime. E infine arriva il tempo degli arresti di massa ovunque. 242
La quantità e la qualità delle testimonianze convinsero il tribunale che Kravčenko avesse diritto a un risarcimento sia pure simbolico. La vittoria dell’ex funzionario sovietico segnò una discontinuità im- portante nel dibattito intellettuale in Francia, dove il mondo degli intellet- 239. Ivi, p. 226. 240. Ivi, p. 225. 241. Berberova, L’affaire Kravtchenko, p. 136. 242. Le procès Kravchenko contre Les Lettres françaises. Compte rendu des débats, p. 527.
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tuali e della Resistenza antifascista era attraversato da un clima di scontro costante. Prima che questo scontro si verificasse, «Franc Tireur» aveva lanciato un appello nel novembre 1947 contro la logica dei blocchi della guerra fredda, avviando così la breve stagione del Rassemblement démo- cratique révolutionnaire (RDR). A questa formazione politica, aderirono i gruppi intellettuali stretti attorno alle riviste di cultura: in particolare, ac- canto a «Franc Tireur», «Combat» e «Temps modernes». Questi intellet- tuali (tra i quali c’erano anche David Rousset e Jean-Paul Sartre) cercarono la strada verso un socialismo europeo, equidistante da Mosca e da Wa- shington. 243 La vocazione niniste (né Mosca, né Washington), così caratte- ristica di questo piccolo partito, durò per una stagione molto breve, perché, all’inizio del 1949, Rousset e altri rigettarono il principio di equidistanza rispetto ai blocchi, intessendo relazioni sempre più intense con i rappresen- tanti del mondo sindacale e intellettuale statunitense. Sartre dal canto suo trovò inaccettabile che l’organizzazione che aveva contribuito a fondare stesse rapidamente passando dal socialismo neutralista ed europeista a un socialismo inserito dentro lo spazio euro-atlantico. 244 Tornato nel 1947 dagli Stati Uniti, Boris Souvarine comprese che il clima in Francia non era più quello dell’isolamento che aveva sperimentato alla metà degli anni Trenta. Collaborò quasi subito con un’associazione di studi e di informazioni dedicata alla politica internazionale, di cui il «Bul- letin de l’association d’études e d’Informations politiques internationales», diretto da Georges Albertini, divenne organo di stampa a partire al marzo 1949. Nel numero di dicembre, la redazione informò il lettore del lavoro svolto in Occidente attorno ai campi sovietici, non limitandosi a menzio- nare le pubblicazioni più recenti, ma valorizzando soprattutto i lavori pio- nieristici dello stesso Souvarine: non soltanto Staline, ma anche Bilan de la Terreur en U.R.S.S. (faits et Chiffres), risalenti entrambi alla metà degli anni Trenta. Nel frattempo, Souvarine continuò a svolgere con impegno il suo lavoro culturale sulla repressione sovietica, promuovendo presso l’e- ditore Calmann Lévy la pubblicazione delle memorie di Julius Margolin e 243. Jean-Paul Sartre, David Rousset e Gérard Rosenthal, Entretiens sur la politique, Paris, Gallimard, 1949. Si veda, per il particolare rilievo che dà a questa esperienza lo stesso David Rousset, Une vie dans le siècle. Fragments d’autobiographie, a cura di Émile Copfermann, Paris, Plon, 1991, pp. 99-111. 244. Sul fallimento delle avventure della terza via in Francia, si vedano, per un primo inquadramento, le pagine di Ory e Sirinelli, Les intellectuels en France, pp. 258-262; Wi- nock, Le siècle des intellectuels; Id., La Gauche en France, pp. 403-404.
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collaborando a «Les Îles d’or», la celebre collana di Plon, dove trovarono spazio i temi concentrazionari sovietici. Secondo il biografo di Souvarine, il giudizio di quest’ultimo contò parecchio in vista della pubblicazione dei lavori di Ciliga, El Campesino e Czapski. 245 Non va infine dimenticato che Souvarine era in collegamento costante con i protagonisti statunitensi della guerra fredda culturale di passaggio oppure di stanza in Francia: da Brown a Lyons, da Eastman a Hook fino a Burnham. 246 Souvarine era in contatto con altri gruppi e figure dell’anticomunismo a Parigi, dagli esuli polacchi stretti attorno a «Kultura» fino ad Aron, con il quale Souvarine condivise il modo di guardare la guerra fredda. Collaborarono allo stesso giornale, «Le Figaro». A conferma della vicinanza intellettuale tra i due, Aron affermò nelle sue memorie che Souvarine «aveva scritto l’essenziale sullo stalini- smo degli anni Trenta». 247 Riepilogando, il 1949 fu un anno di grandi successi dal punto di vista della guerra fredda culturale occidentale: da un lato, le testimonianze del- le vittime durante il processo Kravčenko si imposero prepotentemente al cospetto dell’opinione pubblica europea occidentale, dall’altro, le eviden- ze giuridiche (ricavate dal codice correttivo sovietico) rafforzarono l’im- pressione che il lavoro forzato sovietico costituisse qualcosa di diverso da una persistenza del passato, oppure una pratica odiosa non riconosciuta dal diritto penale. Il lavoro forzato costituiva invece un’istituzione propria del regime sovietico, il quale pertanto non poteva essere guardato sem- plicemente come carente dal punto di vista dei diritti civili: esso aveva subordinato deliberatamente questi ultimi al criterio della sicurezza dello stato. Anche in ragione del vasto apparato di militarizzazione del lavo- ro, il comunismo sovietico venne così caratterizzato come agente di una marcata divergenza storica, incompatibile con i valori dell’Occidente. Per tutte queste ragioni, si rendeva necessaria dunque una nuova convenzione internazionale sul lavoro forzato, che collocasse al centro del discorso la dimensione propria dei regimi dispotici moderni e non già quella residuale delle vecchie realtà coloniali. Vale forse la pena di ripetere ancora una volta che queste idee non appartenevano oramai più soltanto a minoranze intellettuali di sinistra, associazioni umanitarie e sindacati, come era stato negli anni Trenta. Esse 245. Panne, Boris Souvarine, pp. 376-377. 246. Ivi, p. 353. 247. Aron, Mémoires, p. 721.
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erano diventate patrimonio dei funzionari pubblici dei governi occidenta- li, i quali non esitarono a coinvolgere le Nazioni Unite, i suoi organi e le sue agenzie nel disegno di bandire il «gulag» sovietico dal diritto inter- nazionale. Nel 1949 s’intravide finalmente la maturazione di una conver- genza tra diverse istanze: la coerenza etica delle associazioni non gover- native (la moralità), l’implementazione della logica della guerra fredda degli apparati di governo (il potere) e infine uno sforzo normativo che proseguiva, modificandola, l’opera intrapresa dall’ILO tra le due guerre (il diritto). Ma all’origine di questa convergenza – giova ripeterlo qui in chiusura di capitolo – si trovò quel massiccio aumento di informazioni sui campi sovietici, verificatosi a partire dal dopoguerra. Si potrebbe dire che, come un fiume carsico, una rivoluzione della conoscenza era scorsa sotto la superficie durante la guerra per riemergere prepotentemente dopo la fine del conflitto. Fuor di metafora, la disgregazione della segretezza sovietica, che aveva a lungo isolato i crimini di Stalin, fu uno dei bocconi più amari che la Seconda guerra mondiale fece inghiottire alla classe di- rigente dell’URSS.
4. Il lavoro forzato sovietico in un mondo in trasformazione (1950-1957)
1. Introduzione Nei primissimi anni Cinquanta, il dibattito sul lavoro forzato sovietico raggiunse l’apice grazie a una pluralità di iniziative culturali: le investi- gazioni promosse da David Rousset, messosi a capo del movimento degli ex deportati nei campi di Hitler, le ricerche promosse da centri associati a prestigiose università americane e, infine, gli studi finanziati dal sinda- calismo internazionale. Questi interventi accompagnarono la nascita del Comitato ad hoc dell’ILO, il quale, a partire dalla fine del 1951, raccolse e selezionò il lavoro svolto da una miriade di associazioni non governative e da uffici governativi su arresti, deportazioni e lavoro forzato nel mondo. Il problema era di produrre definizioni sufficientemente chiare per rendere compatibile la nuova Convenzione contro il lavoro forzato con il quadro della guerra fredda. Il concetto chiave utilizzato a questo scopo fu quello di «sistema di lavoro forzato», il cui significato deve essere già abbozzato in questa introduzione. Esso venne collegato alla categoria di totalitarismo, stabilendo che i regimi totalitari erano gli unici regimi al mondo ad essere dotati di «si- stemi di lavoro forzato». L’obiettivo di questa operazione fu di sottoli- neare un’alterità globale tra regime sovietico, assimilato a quello nazista, e i regimi di tipo autoritario ad esso contemporaneo. Le distinzioni tra totalitarismo e autoritarismo (un regime come quello franchista fu definito «autoritario») e tra lavoro forzato come sistema e lavoro forzato come per- sistenza (come in alcuni imperi occidentali), posero non pochi problemi di tipo concettuale. Il primo naturalmente fu quello relativo al carattere unita- rio del fenomeno totalitario: l’immagine dei campi sovietici poteva essere
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sovrapposta completamente a quella dei campi nazisti oppure esistevano realtà irriducibili al confronto, come ad esempio i centri di sterminio dove era stato realizzato il genocidio degli ebrei? Un problema ancora più gros- so dal punto di vista politico fu quello di distinguere tra le forme di oppres- sione sovietiche e altre ad esse contemporanee, cercando di convincere l’o- pinione pubblica globale che queste ultime (praticate da regimi autoritari e vecchi imperi coloniali) fossero meno significative. Questa distinzione finì per urtare molte sensibilità in un mondo in trasformazione, dove la guerra fredda s’intrecciava sempre di più con il processo di decolonizzazione. Tutto sommato, nonostante queste tensioni, il quadro di riferimento resse, facendo sì che le istanze della decolonizzazione agissero in subordine ri- spetto a quelle della guerra fredda. Dopo la morte di Stalin, occorsa il 5 marzo del 1953, tutto però cam- biò rapidamente. La classe dirigente sovietica – tra conflitti interni, ritardi e ambiguità – avviò lo smantellamento del sistema dei campi, provocan- do una mutazione profonda della natura stessa dello stato entro la fine del decennio. Questa mutazione avvenne sia nelle relazioni tra stato e società sia nel modo in cui i vertici dello stato erano soliti riferirsi alla politica internazionale. In definitiva gli anni tra la morte del dittatore georgiano e il 1957, allorquando fu approvata a Ginevra la nuova Convenzione contro il lavoro forzato, ci appaiono estremamente complessi, soggetti a spinte contrastanti: da un lato, essi registrarono la piena codificazione dei concetti della guerra fredda (totalitarismo, sistema di lavoro forzato e universo con- centrazionario), dall’altro, emersero forze politiche e intellettuali, decise a erodere o ridimensionare quei concetti in nome di una gestione dei proble- mi globali che non poteva essere limitata alla dimensione Est-Ovest, ma doveva farsi carico delle sperequazioni tra Nord e Sud. 2. David Rousset: il contesto internazionale della sua iniziativa contro i campi sovietici In questo paragrafo ci soffermeremo soprattutto sull’iniziativa di David Rousset contro l’«universo concentrazionario» sovietico, intrapre- sa nel novembre 1949, collocandola nel contesto più ampio della guerra fredda culturale che vide proprio in questo periodo allinearsi le diverse dimensioni della moralità, del potere e del diritto. Grazie all’iniziativa di Rousset, gli ex deportati di Hitler fecero la loro prima apparizione sulla
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scena pubblica della guerra fredda. Il loro coinvolgimento dette la misura di uno scontro ideologico durissimo, in atto nelle stesse associazioni dei re- duci, che ruppe repentinamente la solidarietà antifascista, schierando gente che aveva condiviso esperienze simili nei campi nazisti in fazioni opposte. La scelta di mettere Rousset al centro degli eventi occorsi nell’anno 1950 (con l’aggiunta preliminare dei mesi di novembre e dicembre 1949) può forse risultare arbitraria in un libro che, come questo, predilige la dimen- sione internazionale della politica. In effetti, la vicenda di Rousset è stata studiata fino a tempi recenti dentro un contesto esclusivamente nazionale francese, cogliendo scarsamente le implicazioni e le risonanze internazio- nali delle iniziative dell’autore de L’univers concentrationnaire. Esse fu- rono in realtà notevoli. Il movimento da lui avviato possedeva un alto valore simbolico eu- ropeo: i sopravvissuti (non soltanto francesi) dei campi di Hitler si schie- ravano dalla parte delle vittime di Stalin, riconoscendo in esse i propri fratelli e le proprie sorelle, donne e uomini cioè che stavano patendo le stesse sofferenze che essi avevano patito. La rappresentazione era perfet- ta per rafforzare la guerra fredda sul piano dell’immaginario collettivo, rendendo il concetto di totalitarismo, di per sé piuttosto asettico, una for- za vibrante che sgorgava dall’impegno di persone segnate a vita, ma non disposte però a tornarsene a casa in silenzio: la guerra contro tutti i campi di concentramento insomma era iniziata! Come era prevedibile, i protago- nisti statunitensi della guerra fredda culturale, cioè i dirigenti della AFL, non tardarono ad accorgersi del potenziale ideologico di questa vicenda, impegnandosi pertanto a sostenere Rousset e i suoi amici. Conoscendo il livello di integrazione dell’AFL negli apparati di sicurezza degli Stati Uni- ti, si pone il problema di stabilire il grado di autonomia dell’iniziativa di Rousset (e di molte altre) dalle direttive di Washington, anche se va detto che troppo spesso gli storici hanno fatto confusione: una cosa è il sostegno economico, un’altra il condizionamento intellettuale. Nessuno a Washing- ton o a New York avrebbe potuto mobilitare gli ex prigionieri di Hitler in modo credibile. Poté farlo invece fece Rousset, il quale, ex prigioniero egli stesso e spinto da un sacro fuoco, non esitò a batter cassa ovunque per la buona riuscita delle proprie iniziative. 1 Oggi che la guerra fredda è alle no- 1. Per una conoscenza adeguata della figura di David Rousset, è necessario partire dai suoi scritti, ricordati nel capitolo precedente, La fraternité de nos ruines. E Id., Une vie dans le siècle. Si veda anche il numero speciale David Rousset, in «Lignes», 2 (2000).
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stre spalle, continuare a chiedersi «chi ha pagato il pifferaio?» non sembra contribuire granché al discorso storiografico. 2 Iniziamo allora dai fatti. Nell’autunno 1949 Rousset decise di rivol- gere un appello agli ex prigionieri dei lager di Hitler, pubblicandolo il 12 novembre su «Le Figaro littéraire»: essi furono chiamati a intervenire a so- stegno dei prigionieri di Stalin in nome della condivisa esperienza concen- trazionaria. 3 L’appello annunciò la formazione di una commissione d’in- chiesta sui campi sovietici, suscitando forti polemiche in Francia, dove i comunisti, ma anche molto intellettuali legati alla Resistenza, denunciaro- no il carattere sostanzialmente eterodiretto dell’iniziativa. 4 Se quest’ultima in realtà era più collegata alla storia di militante antistalinista che a presunti cedimenti all’imperialismo americano, è pur vero che da qualche tempo Rousset aveva stretto relazioni negli Stati Uniti grazie all’interessamento dei dirigenti della AFL. Dietro consiglio di Irving Brown e, per suo trami- te, di Lovestone, Rousset realizzò all’inizio del 1949 un viaggio che gli permise di entrare in contatto con la sinistra antistalinista americana. Sap- piamo che in seguito all’appello strinse rapporti anche con l’Information Research Department britannico. 5 Nel corso del 1949, Rousset completò in definitiva la sua transizione politico-intellettuale, che lo portò molto lonta- no dalla gauche rivoluzionaria, di cui il movimento terzaforzista che aveva fondato con Sartre (l’RDR) era stata in fondo l’ultima incarnazione. Nell’appello del 12 novembre Rousset giudicò la guerra come una vera e propria rivoluzione grazie alla quale si era «rotto in modo definitivo il silenzio sui territori lontani della Russia». Adesso, si aveva a disposi- 2. Frances Stonor Saunders, Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War, London, Granta Books, 1999 [trad. it. Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale, Roma, Fazi, 2007]. 3. David Rousset, Au secours des déportés dans les camps soviétiques. Un appel aux anciens déportés des camps Nazis, in Id., La fraternité de nos ruines, pp. 121-140. Si veda anche Thomas Wieder, L’affaire Rousset et le figure du déporté. Les rescapés des camps Nazis contre les camps soviétiques (1949-1959), in Qu’est-ce qu’un déporté ? Historie et mémoires des déportations de la Seconde Guerre Mondiale, a cura di Tal Bruttmann, Lau- rent Joly e Annette Wieviorka, Paris, CNRS, 2009. Di Wieder vedi anche La Commission International contre le régime concentrationnaire 1949-1959. Des rescapés des camps na- zis combattent les camps de concentration, Mémoire de maîtrise présenté à l’Université de Paris-I (UFR d’histoire) sous la direction de M. Pascal Ory, Octobre 2001. 4. Copfermann, David Rousset, pp. 115 sgg. 5. Su questi contatti, ivi, pp. 108-109. Sul rapporto con i britannici Jenks, British Propaganda, pp. 140 sgg.
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zione le «prove schiaccianti» dell’esistenza dell’universo concentraziona- rio sovietico. 6 Rousset non mancò di passare in rassegna queste prove: le memorie polacche, quelle dei funzionari sovietici disertori e altre ancora, ma soprattutto la pubblicazione del codice correttivo del 1933, il quale, prevedendo «la deportazione senza processo», aveva inchiodato il regime sovietico alle proprie responsabilità. 7 A partire da queste basi (non sol- tanto testimoniali, ma anche normative, dunque), era necessario avviare l’indagine su «uno dei più grandi trust economici dell’URSS», quello del lavoro forzato, gestito dalla polizia politica. 8 Con questa espressione, egli non intese caratterizzare i campi in senso esclusivamente economico. Anzi, egli era fortemente convinto che i campi sovietici, al pari di quelli nazisti, costituissero qualcosa di più radicale, ossia un grande laboratorio per la costruzione di una società totalitaria nel senso indicato da Arendt. Scrisse: Sotto l’alta direzione della polizia segreta, i campi come in Germania, sono gestiti dai detenuti. Essi si trasformano così in una autentica società con le sue classi e le loro gerarchie. Il comandante del campo deve essere un uomo libero e, da qualche anno, anche il responsabile della rieducazione. La buro- crazia, composta da detenuti, sembra numericamente più importante di quan- to non fosse la nostra e svolge compiti più complessi. 9
Proseguì, illustrando il funzionamento di questa burocrazia, con il si- stema di calcolo delle norme applicate al lavoro, la distribuzione del cibo e le varie forme di inquadramento dei lavoratori forzati. La mobilitazione contro il regime di Stalin di una parte del mondo dei sopravvissuti al nazismo fu una scelta politica di grande forza, che mandò in crisi i tentativi, molto diffusi nella sinistra francese, di giustificare il regime staliniano sulla base della memoria antifascista della guerra. 10 Una parte dei critici di Rousset difese ciecamente l’onore del regime sovietico, negando l’esistenza dei campi o comunque ridimensionando la loro im- portanza. Il 17 novembre «Les Lettres françaises», lo stesso periodico che 6. Rousset, Aux secours des déportés, p. 121. 7. Ivi, p. 124. 8. Ivi, p. 126. 9. Ivi, pp. 131-132. 10. In una letteratura oramai sterminata, si vedano le pagine dedicate da Winock alla «grande cecità» che affliggeva gran parte della sinistra francese (comunista, procomunista e neutralista), espressione del «rifiuto di sapere» cosa davvero accadesse in URSS e nei paesi in via di sovietizzazione e d’altra parte incline a svolgere all’infinito un «immenso esercizio di devozione». Winock, La gauche en France, pp. 311 sgg.
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aveva attaccato Kravčenko, uscì con un titolo ad effetto che contrappose l’esperienza di Pierre Daix, reduce di Mauthausen e militante comunista, alle affermazioni di Rousset. Daix si rivolse a questo con parole estrema- mente pesanti: «voi non farete dei deportati dei campi nazisti i portaparola della guerra di Hitler» contro l’URSS; guerra della cui continuazione si erano incaricati adesso gli Stati Uniti. Secondo Daix, i campi sovietici de- scritti da Rousset riprendevano troppo da vicino il profilo dei campi nazisti per essere veri. L’accusa di aver sostituito nomi e luoghi tedeschi con al- trettanti nomi e luoghi russi era stata già rivolta a Kravčenko senza grande successo. 11 Mettendo sul piatto della bilancia la sua drammatica vicenda di deportato, Daix intese certificare che l’analogia proposta da Rousset tra campi sovietici e campi nazisti era in definitiva espressione di un clima di perdurante aggressione contro l’URSS. Eppure, se Daix avesse potuto leggere la direttiva del 30 novembre del 1949, che gli uffici centrali del Gulag inviarono ai capi dei campi di lavo- ro correttivo avrebbe riconosciuto qualcosa che era accaduto anche a lui. Sotto il piglio riformatore delle autorità centrali sovietiche si avverte infatti in questo documento cosa deve aver significato per milioni di prigionieri la «legalizzazione degli elementi criminali», ossia il «clima di terrore che permette ai criminali recidivi di regnare sull’insieme del campo». 12 Le fon- ti sovietiche abbondano di documenti di questo tipo, che segnalano l’impo- tenza delle autorità di fronte a situazioni di violenza e terrore indiscrimina- ti, agli antipodi dalla retorica del lavoro correttivo sbandierata dal regime. D’altro canto, la preoccupazione delle autorità centrali non era certamente umanitaria, ma derivata dallo scarso rendimento del lavoro forzato: proble- mi di produzione e produttività, problemi di sicurezza, dunque, ma certa- mente non problemi di carattere umanitario. Il 27 dicembre 1949 Kruglov scrisse a Stalin, Malenkov e Berija sui successi raggiunti dall’economia schiavistica nella produzione dell’oro, affermando orgogliosamente che il
11. David Rousset a-t-il inventé les camps soviétiques? Pierre Daix, matricule 59.807 à Mauthausen répond à David Rousset, in «Les Lettres françaises», 286 (17 novembre 1949), p. 1, conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 53, f. 3. 12. Directive du GOULAG n. 9/9/831 à tous les chefs des 1ers départements des camps de travail correctif sur la position erronée d’un certain nombre de responsables et chefs de camp dans le recrutement de criminels ayant rompu avec la «loi du milieu« à des postes subalternes de l’administration des camps, in Goulag, pp. 463-464.
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Dal’stroj aveva realizzato per intero il piano affidatogli. 13 I costi umani di questi risultati non erano neppure menzionati. Per quanto fallaci, le accuse di Daix possedevano almeno una logica politica, collegando le presunte bugie di Rousset agli apparati di propagan- da statunitensi. Daix era stato incaricato insomma di produrre una contro- narrazione a sostegno del regime sovietico e del comunismo in Francia, puntando l’indice verso l’irrimediabile vocazione antisovietica di figure come Rousset, che in un modo o nell’altro derivavano dal trockijsmo. 14 Il fatto che ex deportati comunisti accettassero di sostenere tesi così pa- tentemente false, rievocanti il clima plumbeo delle accuse staliniane degli anni Trenta, dimostra con chiarezza che l’apparato comunista francese era intimorito. E lo era pour cause. L’attacco infatti provenne dall’interno del- la sinistra, mettendo così in discussione la strategia di legittimazione del comunismo in Francia presso l’opinione pubblica progressista. Nello spe- cifico, Rousset era andato a toccare un ambito particolarmente sensibile, quello della deportazione e dei campi, affidando il raffronto tra il regime di Hitler e quello di Stalin agli ex deportati di entrambi gli universi con- centrazionari. La formazione della Commissione internazionale contro il regime concentrazionario (CICRC) testimoniò che il comunismo francese aveva trovato sul terreno cruciale della memoria della deportazione pane per i suoi denti. Accanto a ex deportati francesi, belgi, olandesi, norvege- si, aderirono all’iniziativa di Rousset gli esiliati dalla Spagna di Franco. Presidente della Commissione fu eletto Georges André, una delle figure più importanti della Resistenza in Belgio. Rousset assunse la carica di vi- cepresidente. 15 Una sfida di maggior peso intellettuale fu lanciata a Rousset da uo- mini di sinistra, i quali, pur non legati direttamente comunismo france- se, non erano disposti a cedere alle lusinghe della guerra fredda a guida 13. Note de S. N. Krouglov, ministre de l’Intérieur de l’URSS, à J. V. Staline, L. P. Be- ria et G. M. Malenkov sur la réalisation du plan de production d’or, d’argent et de platine pour l’année 1949, in Goulag, pp. 407-408. 14. Marc Lazar, Le communisme une passion française, Paris, Perrin, 2002. 15. Sulla formazione della CICRC, la documentazione conservata in La Contempo- raine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, bb. 54 e 55. Si veda lo studio di Wieder, La Commission international contre le régime concentrationnaire 1949-1959. E infine Notes complémentaires sur la Commission internationale contre le régime concen- trationnaire, in Commission internationale contre le régime concentrationnaire, Livre blanc sur les camps de concentration soviétiques, Paris, Le Pavois, 1951, pp. 225 sgg.
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statunitense. Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre, direttori di «Les Temps modernes», pubblicarono nel gennaio 1950 un editoriale critico delle tesi espresse da Rousset. 16 I due non negarono espressamente l’e- sistenza dei campi sovietici, ma criticarono Rousset perché era venuto a patti con i nemici del comunismo finendo per lasciare nell’armadio gli scheletri dell’Occidente. 17 L’argomento non era secondario, perché regi- mi autoritari di destra, come quello di Franco, e regimi coloniali, come quello portoghese, non potevano essere ritenuti estranei a crimini perpe- trati contro prigionieri ridotti ai lavori forzati. Questo argomento tuttavia non era destinato a far breccia, perché Rousset e i suoi compagni avevano già chiarito che avrebbero indagato il fenomeno concentrazionario in tutte le direzioni senza esclusioni dettate dalle esigenze della guerra fredda. 18 Altre critiche risultarono invece più impegnative. Sartre e Merleau-Ponty trovarono discutibile l’idea di una società concentrazionaria globale in co- struzione, di cui i campi nazisti e sovietici costituivano il prototipo. Essi infatti argomentarono che, pur costruito a partire dall’esperienza sovietica già esistente, l’universo concentrazionario tedesco era divenuto una realtà diversa con l’apparizione durante la guerra dei centri di sterminio. L’af- fermazione di Rousset secondo cui «le camere a gas o il sadismo delle SS non sono che le illustrazioni estreme della realizzazione del fenome- no concentrazionario» apparve loro inaccettabile. 19 Secondo Emma Kuby, Sartre e Merleau-Ponty colsero in definitiva un punto essenziale, ossia che la retorica dell’universo concentrazionario come realtà compatta finiva per eludere la realtà del genocidio ebraico, realizzato non nei lager dei regimi totalitari, ma all’interno di quella istituzione specifica del nazismo che fu- rono i centri di sterminio. 20 16. Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre, Les jours de notre vie, in «Les Temps modernes», 51 (1950), pp. 1153-1168. 17. Coglie lucidamente la peculiarità del punto di vista dei direttori di «Les Temps modernes». Winock, Le siècle des intellectuels, pp. 582-583. 18. E così fecero. Nel periodo intercorso tra le inchieste dedicate all’universo concen- trazionario sovietico e quelle dedicata ai campi cinesi (delle prime e delle seconde diremo più avanti), la CICRC pubblicò nel 1953 un Livre blanc sur les camps d’internement en Grèce; un Livre blanc sur le système pénitentiaire espagnol e un Livre blanc sur la déten- tion politique en Tunisie, Paris, Pavois, 1953. 19. David Rousset, Au secours des déportés dans les camps soviétiques, p. 135. 20. Emma Kuby, Political survivors. The Resistance, the Cold War, and the Fight against Concentration Camps after 1945, Ithaca-London, Cornell University, 2019, p. 69.
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In effetti l’impegno di Rousset fu tutto rivolto a costruire la presenza sulla scena pubblica internazionale della rete dei deportati che avevano aderito alla sua iniziativa, confermando con ciò la labile presenza dell’O- locausto nella cultura del dopoguerra. 21 È interessante notare che già il 28 novembre l’ambasciata statunitense a Parigi annunciasse, in un telegram- ma diretto al segretario di Stato a Washington, i preparativi. Si legge in questo telegramma che: L’interesse per l’appello di Rousset e per il suo processo sta guadagnando slancio e praticamente tutta la sinistra non comunista è pronta a dare il pro- prio sostegno. Si ha sempre più la sensazione che questo processo possa di- ventare il «vero processo all’Unione Sovietica» e di conseguenza un numero considerevole di persone importanti sta cercando di documentarsi e di stilare una lista di persone che sarebbero testimoni preziosi grazie alle loro esperien- ze personali nei campi sovietici. Rousset e i suoi amici desiderano avere solo i testimoni migliori e intendono limitarli a persone identificate strettamente con la sinistra non comunista e con le vittime ebree. 22
Questa osservazione corrobora quanto si è cercato di dimostrare fino ad adesso, aggiungendo che, in vista del processo contro «Les Lettres françaises», Rousset non fece mistero di voler puntare non tanto sulla gen- te comune, come aveva fatto Kravčenko, ma su persone dichiaratamente di sinistra, prevalentemente di estrazione intellettuale e preferibilmente con un retroterra ebraico. Il punto era evidentemente quello di ostacolare il processo di costruzione della memoria della guerra da parte comunista, ridando dunque forza e dignità ad un’altra sinistra, la quale aveva sofferto e combattuto la tirannia di Stalin. L’azione giudiziaria contro «Les Lettres françaises» fu annunciata pubblicamente il 14 gennaio 1950. Affidato alla XVII Camera correzionale del tribunale della Senna, il processo iniziò il 25 novembre 1950. 23 Prima di addentrarsi nelle giornate del processo, conviene ripercorrere il clima internazionale venutosi a creare nel corso dei mesi precedenti. Tra 21. Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopo- guerra, Bologna, Il Mulino, 2004; Annette Wieviorka, Déportation et génocide. Entre la mémoire et l’oubli, Paris, Hachette, 1995. 22. Il telegramma è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal Files 1945-1949, from 861.00/4-4-449 to 861.005/2-1649, box 6641, File 861.00/11-249–12-3149. 23. David Rousset, Gérard Rosenthal e Théo Bernard, Pour la vérité sur les camps concentrationnaires (un procès antistalinien à Paris), Paris, Éditions Ramsay, 1990.
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la metà del gennaio e la fine del novembre infatti la guerra fredda culturale s’intensificò sempre più fino a raggiungere l’acme con lo scoppio della guerra di Corea, che coincise con la prima grande uscita degli intellettuali europei e statunitensi anticomunisti, i quali si si ritrovarono a Berlino per il convegno sulla libertà della cultura. Partiremo dai collegamenti transatlan- tici di Rousset, che dettero la misura dell’estendersi repentino della circo- lazione transatlantica delle idee. Nel corso di quest’anno del resto furono rese pubbliche le investigazioni sui regimi di tipo sovietico promosse dalla sinistra statunitense antitotalitaria, di cui la Workers Defense League costi- tuì la punta di diamante. Contestualmente, la grande stampa (soprattutto il «New York Times») accompagnò l’azione dei rappresentanti del governo statunitense alle Nazioni Unite. Essi agirono in un clima dove grandi prota- gonisti del mondo politico, militare e culturale si pronunciarono con forza contro il regime di Stalin. Nell’ombra continuarono ad operare gli uffici del Dipartimento di Stato che produssero una serie di Reports sulle repressioni sovietiche, messi a disposizione per la battaglia delle idee. La convergenza di moralità, potere e diritto fece dunque passi da gigante nel corso della pri- ma metà del 1950, culminando – come si è già ricordato – nel congresso di Berlino. Rousset uscì dalle giornate berlinesi come una figura di statura internazionale, pronto dunque a dare battaglia in tribunale contro le accuse infamanti del comunismo francese. Iniziamo dalla rete transatlantica, messa in piedi da Rousset a partire dalla fine del 1949. Va precisato subito che egli era convinto della neces- sità di offrire un contributo specificatamente europeo. Ripeté più volte che la sua iniziativa doveva rimanere autonoma da altre coeve che si stava- no sviluppando negli Stati Uniti. Il 3 gennaio ad esempio gli fu proposta l’affiliazione della costituenda Commissione contro il regime concentra- zionario al Comitato d’inchiesta che la Workers Defense League aveva nominato alla fine del 1948. 24 Pur apprezzando la proposta, Rousset de- clinò l’invito. Questo orientamento verso l’autonomia tornò negli scambi epistolari intrattenuti in questo periodo con altri interlocutori statunitensi. Il 16 dello stesso mese inviò una lettera a James Burnham, autore nel 1941 di The Managerial Revolution e oramai tra i più inflessibili combatten- ti della guerra fredda sul terreno delle idee. Rousset affermò che la que- 24. La proposta fu presentata in una missiva indirizzata a Rousset da Konrad Herling, conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 61, f. 2, sf. 1 Corresp. Américaine.
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stione dei campi rappresentava «la questione decisiva per l’orientamento dell’opinione dell’Europa occidentale». 25 E, come tale, era necessario dar vita a un’organizzazione specificatamente europea. Burnham era da molti considerato un punto di riferimento nell’opera di sostegno di iniziative di tipo antisovietico presso i funzionari dell’amministrazione Truman. In una lettera di poco successiva, inviata durante un suo soggiorno newyorkese, Czapski confidò a Rousset di aver avuto l’occasione di parlare a una «mas- sa di persone del Dipartimento di Stato» proprio grazie all’intercessione di Burnham. 26 Qualche giorno prima, il 14, Dallin, anch’egli al centro delle reti statu- nitensi della guerra fredda culturale, garantì a Rousset di essersi già speso per un «aiuto finanziario alla tua campagna». Tuttavia, non era stato facile ottenere granché, perché, a sentire l’esule menscevico, la questione del lavoro forzato sovietico non era negli Stati Uniti una «questione scottante» come nei paesi dove esistevano forti partiti comunisti 27 . È interessante no- tare che, al di là della espressa volontà di mantenere un profilo specificata- mente europeo alla propria azione politica, Rousset si inserì rapidamente in un network transatlantico, il quale, con buona pace delle giustificazioni di Dallin, si rivelò importante per il finanziamento delle iniziative. Nel carteg- gio tra Irving Brown e Jay Lovestone del 1950 il «movimento Rousset» fu al centro di una discussione: entrambi erano decisi a offrire «qualche forma di assistenza», anche se Lovestone smorzò gli entusiasmi di Brown. 28 Il contributo intellettuale della sinistra statunitense dette i suoi frutti migliori proprio in questo periodo. All’inizio del febbraio, Herling presen- tò all’ECOSOC il lavoro d’inchiesta svolto dalla Commissione nominata 25. Lettera di Rousset a James Burnham del 16 gennaio 1950, ibidem. 26. Lettera di Czapski a Rousset del 19 gennaio 1950, ibidem. 27. Lettera di Dallin a Rousset del 14 gennaio 1950. Importanti furono però gli scambi con Levitas di «New Leader», interessato ad avere un articolo raccontasse degli scontri interni al mondo intellettuale francese seguiti all’appello del 12 novembre 1949. Rousset rispose affermativamente il 27 gennaio, aggiungendo: «conosco il valore della vostra rivi- sta». Lettera di Rousset a Levitas del 27 gennaio 1950, ivi. 28. Il 19 dicembre 1950 Lovestone scrisse a Brown che: «Non credo che possiamo coprire tutto questo terreno, Irving. Probabilmente dovremmo essere d’aiuto a questo grup- po, ma ormai dovresti sapere che questo tipo di assistenza comporta lavoro, responsabilità, tempo, energie, doveri. Non so fino a che punto io sia in grado di svolgere questo lavoro ex- tracurriculare. Penso che dobbiate porvi questa domanda». La lettera si trova in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 11, f. 12 Brown Irving 1950.
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dalla Workers Defense League. Riferendosi al sistema concentrazionario sovietico, Herling ne indicò con precisione i settori produttivi (legname, ferrovie, miniere, agricoltura, costruzioni, canali, pesca, settore tessile e costruzioni di aerei), la tipologia dei campi, le regioni di appartenenza e i quartieri generali dell’MVD. Di grande interesse fu la documentazione riguardante gli ex stati baltici, soggetti a una sovietizzazione intensa fatta di arresti di massa, deportazioni e lavoro forzato. Kaarel R. Pusta, ex mini- stro degli Esteri estone, interrogato dalla Commissione il 24 febbraio 1949, parlò espressamente di «genocidio», un termine dunque che, al di là dei compromessi realizzati alle Nazioni Unite nel dicembre 1948, continuò ad avere una circolazione in senso antisovietico. Pusta affermò: Sembra anche chiaro che le misure sovietiche tendono a uno sterminio diret- to degli estoni, dei lettoni e dei lituani, crimine, questo, che viene detto geno- cidio. Una buona parte della popolazione presente è già composta da stranie- ri. Dato che i russi si sono stabiliti nei paesi baltici come operai e contadini. Essi portano ora persino i nomi degli estoni, dei lettoni e dei lituani espulsi. 29
La commissione raccolse anche le memorie di Nicolae Rădescu, ex primo ministro rumeno antinazista, in cui erano menzionati quei prigio- nieri di guerra rumeni nei campi di Stalin che non avevano fatto ritorno e la parte della popolazione della Bessarabia e della Bucovina, deportata nel 1940 in URSS. Rădescu inoltre denunciò che nelle prigioni e nei campi della Romania sovietizzata, situati nei pressi di Caracal, Slobozia e Mier- curea Ciuc, si trovavavano centocinquantamila prigionieri. Altri testimoni parlarono per la Romania di un «autentico genocidio». 30 La commissione nominata dalla Workers Defense League raccolse anche informazioni dal Bulgarian National Committee sul trattamento dei prigionieri nel campo di Rosica, costretti a un duro lavoro alternato a un regime di continue con- fessioni. 31 Nella prima metà del 1950 s’intensificò l’opera di informazione realiz- zata dalla grande stampa internazionale e l’impegno degli apparati gover- nativi e militari statunitensi. E in definitiva, il riferimento al «lavoro schia- vo» sovietico, assieme al motivo delle brutali aggressioni nei confronti 29. Questi brani e informazioni si trovano in Herling, The Soviet Slave Empire. Qui vengono citati dalla versione italiana Albert Konrad Herling, L’impero schiavista dei So- viet, Milano, Garzanti, 1953, p. 67. 30. Ivi, p. 101. 31. Ivi, pp. 128-129.
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delle nazionalità oppresse dal regime sovietico, divenne la cifra condivisa da una varietà di soggetti. Il 10 febbraio Mary Spargo, figlia del vecchio leader socialista John Spargo, scrisse sul «Washington Post» a proposito delle accuse rivolte dall’Ukrainian Congress Committee of America al re- gime di Stalin per le uccisioni di massa prima, durante e dopo la guerra. 32 Il 27 Thorp intervenne nuovamente all’ECOSOC per ribadire la falsità del «progetto educativo», contenuto nel codice sovietico del 1933. Dietro la facciata, si celava infatti la realtà di «milioni di individui strappati dalle loro case, dalle loro famiglie, dalla loro gente» sulla base di accuse impro- babili. Affermò che: Nessuna nazione può impedire l’accumulo di prove sul trattamento riservato a milioni di uomini e donne innocenti. I governi e le organizzazioni non go- vernative devono continuare a impegnarsi per suscitare la volontà del mondo morale. E questo Consiglio deve cercare continuamente i modi in cui può contribuire a focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa nega- zione medievale della dignità e del valore degli esseri umani. 33
La convergenza tra associazioni, grande stampa e funzionari del go- verno statunitense alle Nazioni Unite raggiunse le più alte sfere, ossia i vertici del potere culturale, politico e militare statunitense. In una con- ferenza stampa del marzo, Eleanor Roosevelt in persona affermò a pro- posito del draft sui diritti umani, proposto dagli Stati Uniti alle Nazioni Unite, che esso «fornirebbe garanzie di molti diritti che in questo paese abbiamo dato per scontato per parecchio tempo». Si riferiva naturalmente a quei diritti che erano negati sistematicamente dal potere sovietico, ossia la «libertà da arresti e punizioni arbitrarie, libertà di movimento, processi equi e procedure giudiziarie, libertà di pensiero, coscienza e religione, di stampa, di riunione e di associazione». 34 Dal punto di vista della signora 32. Mary Spargo, Ukrainian Accuse Russians of Mass Murders of Millions, in «The Washington Post», 10 febbraio 1950, conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal file 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5157, File 861.064/5-150. 33. United States mission to the United Nations, Press Release 816, February 27, 1950, Statement by the Honorable Willard L. Thorp, United States Representatives in the Economic and Social Council, on the Question of forced labor, conservato in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Staff Files; George Delaney’s files 1921-1957, b. 13, f. 6 United States Mission to the United Nations 1949-1950. 34. United States mission to the United Nations, Press release 821, 24 marzo 1950, Statement for the press by Mrs Franklin D. Roosevelt, ivi.
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Roosevelt, la diffusione dei diritti costituiva la premessa per il raggiungi- mento di un effettivo equilibrio tra gli stati, partendo dalla considerazione che il maggior rischio per la pace – questa era stata la lezione degli anni Trenta – proveniva dalle tirannie, dimostratesi protezionistiche sul piano delle relazioni commerciali, aggressive sul piano militare e non in grado di risolvere le questioni interne se non attraverso la repressione di massa. 35 Questo circuito discorsivo di diritti umani, liberalizzazione degli scambi e pacificazione delle relazioni internazionali ispirò una serie di documenti prodotti in questi mesi dagli apparati statuali statunitensi. Si consideri a tal proposito che la metafora schiavista entrò rapidamente nel gergo dei fun- zionari del Dipartimento di Stato, impegnati nella gestione del confronto con il regime sovietico. Nel celebre NSC-68, risalente al 7 aprile 1950 dal Policy Planning Staff e associato al nome di Paul Nitze, si legge ad esem- pio che la «società schiavistica» sovietica costituiva la leva della politica aggressiva di Stalin, al quale era evidentemente attribuita la responsabilità della guerra fredda. 36 Nello stesso periodo anche grandi figure di pensatori intervennero sul terreno della riflessione pubblica. Il filosofo britannico di origine russa, Isaiah Berlin pubblicò un lungo saggio su «Foreign Affairs» nell’aprile 1950, dedicato alle idee politiche del XX secolo. In esso fu tracciato il disegno delle «ideologie totalitarie» impegnate a imporre la conformi- tà d’azione e di pensiero a milioni di uomini con l’obiettivo di renderli funzionali alla stabilità di un potere dispotico. Oltre a Orwell, Berlin citò Aldous Huxley. 37 Come ha scritto Michael Ignatieff, questo saggio rap- presentò qualcosa di più che una difesa dei diritti dell’individuo da parte di un pensatore liberale, trattandosi in fondo di una denuncia delle stesse illusioni razionaliste del social engineering dell’Occidente. 38 Certamente, però la sua esperienza personale aveva avuto un peso nel forgiare questi giudizi. Nell’immediato dopoguerra, visitando l’URSS per conto dei servi- 35. Questo modo di ragionare era in fondo espressione della «lezione degli anni Tren- ta» cfr. Leffler, A Preponderance of Power, pp. 19-24. 36. Romero, Storia della Guerra fredda, p. 79. E di nuovo Leffler, A Preponderance of Power, pp. 355-360. 37. Isaiah Berlin, Political Ideas in the Twentieth Century, in «Foreign Affairs», 3 (1950), pp. 351-385. Aldous Huxley, Brave New World, London, Chatto & Windus, 1932 [trad. it. Il mondo nuovo, Milano, Mondadori, 1951]. 38. Michael Ignatieff, Isaiah Berlin: A Life, New York, Metropolitan Books, 1998, p. 198.
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zi di informazione britannici, ebbe l’opportunità di conoscere e intervistare lo scrittore Boris Pasternak e la poetessa Anna Achmatova. 39 L’anticomuni- smo divenne un pilastro della sua riflessione successiva. Tornato all’inse- gnamento nella sua cattedra a Oxford, egli allargò negli anni successivi lo spettro dei propri interessi culturali in direzione della storia delle ideologie politiche, peraltro già ben presenti da tempo, come testimonia una biogra- fia di Karl Marx pubblicata nel 1939, opportunamente ristampata più volte nel dopoguerra. 40 Nei diversi contesti nazionali, lo scontro intellettuale sul terreno del totalitarismo fu durissimo in questo inizio degli anni Cinquanta. Si pensi all’Italia. Nel corso del 1950 alcune grandi opere che stavano animando la cultura antitotalitaria in Europa e negli Stati Uniti furono oggetto di interesse anche da noi. 1984, il romanzo distopico di Orwell di cui si è già parlato, fu riprodotto a puntate su «Il Mondo» di Pannunzio. 41 Esso suscitò una reazione durissima da parte comunista. Togliatti in persona scese in campo alla fine del 1950 contro la «rivista di sedicenti liberali», attardatasi nella pubblicazione di un testo che «accumula con la maggior diligenza tutte le più sceme fra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti». Orwell fu attaccato dal leader comunista sul piano personale: egli era un «funzionario della polizia inglese», giunto in Catalogna per sobillare gli anarchici contro la repubblica spagnola e il regime sovietico che la sosteneva. 42 Il capo del PCI era già intervenuto duramente all’inizio dell’anno contro il «rinnegato» Silone, il cui scritto Uscita di sicurezza, già contenuto in The God that Failed, fu pubblicato dalla rivista di Adriano Olivetti, «Comunità» alla fine del 1949. 43 L’intero volume curato da Crossman venne tradotto dalla casa editrice di Olivetti nel 1950. 44 Sembrava effettivamente esser giunta l’ora dei «rinnegati» se si 39. Ivi, pp. 135-169. 40. Isaiah Berlin, Karl Marx: His Life and Environment, Oxford, Oxford University Press, 1949 (I ed. 1939). 41. La pubblicazione iniziò con il primo numero dell’anno: 1984. Romanzo di George Orwell, in «Il Mondo», 1 (1950), pp. 13-14. 42. Roderigo di Castiglia (Palmiro Togliatti), Hanno perduto la speranza, in «La Ri- nascita», 11-12 (1950), pp. 115-116. 43. Palmiro Togliatti, Contributo alla psicologia di un rinnegato. Come Ignazio Silo- ne venne espulso dal Partito comunista, in «L’Unità», 6 gennaio 1950, p. 3. 44. Il Dio che è fallito. Sei testimonianze sul comunismo, a cura di Richard Crossman, Milano, Edizioni di Comunità, 1950.
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considera che La Nuova Italia pubblicò adesso La nascita del fascismo di Angelo Tasca, che, si ricorderà, era uscito per la prima volta in Francia nel 1938. Tasca, critico dei regimi totalitari, collaborò al «Mondo» di Pannun- zio, difendendo Silone dagli attacchi comunisti. 45 Al di là dei grandi pronunciamenti sul terreno giuridico (Roosevelt) e militare (Nitze) e al di là del dibattito culturale (la riflessione di Berlin e le polemiche in un paese importante come l’Italia), la «cucina» della guerra fredda culturale si svolse prevalentemente negli uffici del Dipartimento di Stato. Nel maggio fu pronto un grande fascicolo dal titolo Forced Labor Secret, realizzato dall’Office of the Labor Adviser e dall’Office of the As- sistant Secretary for Economic Affairs. 46 Questa raccolta accorpò diversi tipi di documenti: un insieme di analisi puntuali del sistema del lavoro forzato sovietico, gruppi di testimonianze autenticate, notizie sull’impor- tazione negli Stati Uniti di merci prodotte con il lavoro forzato e una ras- segna stampa dei principali giornali sovietici, britannici e statunitensi. Uno studio proveniente dall’Office of Intelligence Research, con il titolo So- viet Violations of Human Rights, fu particolarmente significativo, perché consolidò l’immagine di un vero e proprio stato di polizia in contrasto con la stessa Costituzione sovietica. Se questa infatti garantiva in teoria la libertà personale, l’habeas corpus, l’indipendenza della magistratura e il diritto alla difesa all’interno di processi pubblici, diversamente la realtà era costituita di arresti arbitrari, sentenze di tipo amministrativo, limiti imposti al diritto di difesa e un ruolo abnorme svolto dai tribunali militari. Benché chiaramente anticostituzionali, proliferavano le violazioni di domicilio, il sistema dei passaporti interni, la disciplina di polizia sul lavoro e la depor- tazione delle minoranze. Costituita una grande rete transnazionale di associazioni contro i cam- pi sovietici, coinvolta la grande stampa, pronunciatesi prestigiose figure del mondo della cultura e soprattutto entrato a pieni giri il lavoro degli uffici del Dipartimento di Stato, la guerra fredda culturale occidentale fu pronta per la sua prima grande apparizione in pubblico. Nel giugno, l’ini- zio della guerra di Corea coincise con l’inaugurazione del Kongress für Kulturelle Freiheit a Berlino. Organizzato da Melvin Lasky, il convegno mirò a contrastare la deriva neutralistica nel mondo intellettuale europeo 45. Pertici, Il vario anticomunismo italiano, p. 110. 46. Questo voluminoso fascicolo si trova in NARA, RG 59, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5157, fasc. 861.064/5-150 Forced Labor Secret.
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occidentale e statunitense. 47 Rousset svolse un ruolo di primo piano allor- quando si discusse dei campi e del lavoro forzato sovietici. La sua pre- senza al congresso fu sostenuta dagli apparati statunitensi. Già da qual- che tempo, Lovestone aveva apprezzato il suo impegno contro il regime di Stalin, anche se – come si è visto – aveva inteso mettere dei limiti all’impegno di Brown a suo favore. In una lettera del 14 febbraio, indiriz- zata alla moglie di Brown, scrisse con soddisfazione che «Rousset [aveva] fatto progressi». Si riferiva agli scontri avvenuti in un recente meeting a Bruxelles, dove Rousset, aggredito verbalmente dai comunisti, aveva ri- sposto a tono, collegando la propria azione alla campagna dell’AFL sul lavoro forzato. 48 Durante il congresso di Berlino, Rousset affrontò il tema dei campi sovietici con grande intelligenza, mostrando di aver fatto proprie alcune delle critiche che gli erano state mosse da Sartre e Merleau Ponty. Era necessario – affermò – che il congresso prendesse posizione innanzi tutto sul problema della distruzione dei diritti civili nella Spagna franchi- sta, sgombrando così il campo da equivoci. Al centro del suo ragionamento campeggiò tuttavia l’universo concentrazionario sovietico, il quale, con i suoi milioni di prigionieri, costituiva la perversione assoluta dei valori in funzione dei quali il regime di Stalin affermava di esistere. 49 L’intervento di Rousset fu molto apprezzato da Margarete Buber-Neu- mann, la cui vicenda di ex prigioniera di Stalin e di Hitler abbiamo già conosciuto nel precedente capitolo. In una lettera da Francoforte del 13 luglio, ella non nascose di essere entusiasta per il clima venutosi a creare durante il congresso: «Dopo Berlino, la battaglia», affermò con fiducia. Buber-Neumann si complimentò anche per le iniziative della CICRC, sot- tolineando l’importanza delle inchieste come «mezzo per allievare la sorte dei prigionieri in URSS». 50 Il carteggio tra i due andava avanti da mesi. Il 18 marzo Buber-Neumann giudicò «non troppo intelligenti» gli avversari di Rousset. In particolare, la presa di posizione di Daix contro l’appello 47. Peter Coleman, The Congress of Cultural Freedom and the Struggle for the Mind of Postwar Europe, New York, The Free Press, 1989. E in una prospettiva francese, Pierre Gremion, Intelligence de l’anticommunisme. Le congrès pour la liberté de la culture à Paris 1950-1975, Paris, Fayard, 1995. 48. The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 11, f. 13 Brown Irving 1950. 49. Gremion, Intelligence de l’anticommunisme, pp. 31-33. 50. L’epistolario di Rousset e Buber-Neumann in La Contemporaine (Nanterre), Fon- ds David Rousset, F Delta 1880, b. 47 Correspondance, ff. 3-4-5-7.
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del 12 novembre 1949 apparve ai suoi occhi come «il culmine della stu- pidità». Nella sua risposta del 12 aprile, Rousset affermò che, nel clima di scontro vigente, era giunto il momento di «accelerare la preparazione della commissione d’inchiesta internazionale». Pertanto, chiese alla sua interlocutrice di mettere pressione sulle associazioni dei reduci tedesche e norvegesi affinché aderissero rapidamente. In realtà, le tensioni erano fortissime anche in questi paesi. La stessa Buber-Neumann venne coin- volta in prima persona in un duro scontro personale. Definita «trockijsta» e «simpatizzante nazista» da Emil Carlebach, militante comunista e redu- ce di Buchenwald, fu costretta a ricorrere alle vie legali. Dal canto suo, Rousset continuò ad avere un ruolo di primo piano anche dopo il giugno 1950, diventando nel novembre membro del comitato esecutivo del Con- gresso assieme a Irving Brown, Koestler, Carlo Schmid e Ignazio Silone. Riconoscendone la posizione raggiunta, Lovestone si rivolse a Rousset il 16 giugno con una missiva da New York, domandandogli perché, a suo giudizio, il sindacalismo europeo e il movimento socialista internazionale non fossero maggiormente «interessati alla minaccia del lavoro forzato e dei campi del lavoro schiavo». Aggiunse che «certamente la minaccia […] è più grave per i lavoratori europei che non per noi negli Stati Uniti». 51 Rousset dunque aveva guadagnato una grande reputazione nel corso dei mesi precedenti ed era adesso deciso a spendere le proprie energie nel processo contro le «Les Lettres françaises», peraltro destinato a svolgersi in un clima di crescente tensione internazionale a causa dell’intervento cinese nella guerra di Corea risalente all’ottobre. Conviene soffermarsi su questo processo, come abbiamo già fatto su quello che oppose Kravčenko alla rivista comunista francese, perché si trattò dell’evento forse più si- gnificativo della guerra fredda culturale in questo periodo. Due sinistre si opposero infatti in una ruvida battaglia di parole: da un lato, una sinistra decisa a collegare l’antifascismo all’anticomunismo nell’orizzonte di un discorso antitotalitario come chiave per comprendere la diffusione degli universi concentrazionari; dall’altro, un’altra sinistra, decisa a rafforzare la memoria dell’antifascismo, della quale i comunisti francesi erano gli al- fieri. Questa memoria doveva essere spesa nel conflitto politico e culturale contro l’imperialismo americano. Secondo i rappresentanti di questa se- conda sinistra, infatti, l’equiparazione tra nazionalsocialismo e comunismo 51. La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 47 Corre- spondance, f. 7.
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sovietico rappresentava una bieca operazione ideologica a cui si erano pre- stati uomini, i quali avevano tradito le proprie idee e la propria esperienza, perché prezzolati da Washington. In realtà, questa sinistra filosovietica si trovò, ancora una volta, a do- ver rispondere delle proprie affermazioni infamanti di fronte a un giudice. L’ostruzionismo esercitato dagli avvocati difensori batté la stessa strada percorsa durante il processo Kravčenko, quella cioè di ostacolare i lavo- ri con interventi tesi a denunciare l’illegittimo procedimento accusatorio contro uno stato sovrano, quello sovietico. Gli avvocati di Rousset parlaro- no comprensibilmente di «maquis procedurale», che peraltro non riuscì a impedire il regolare svolgimento del processo. Così, nel corso delle prime udienze, l’accusa ebbe modo di definire la propria strategia processuale, presentando diverse tipologie di documenti, volte a sostenere la tesi se- condo cui il regime sovietico era colpevole di un vero e proprio «crimine concentrazionario». 52 Questa documentazione doveva in definitiva mostra- re che i campi costituivano il terminale di politiche produttive e punitive ben precise, allestite dal regime di Stalin con l’obiettivo di consolidare la potenza dello stato sovietico. Nel corso delle udienze fu dunque presentato un intreccio di norma- tive, disposizioni burocratiche e pratiche poliziesche su cui erano fondati gli arresti di massa, le deportazioni e infine la riduzione ai lavori forzati a beneficio delle forze di sicurezza. Queste emersero ancora una volta come una sorta di stato nello stato. Gli avvocati di Rousset insistettero soprat- tutto sul carattere puramente amministrativo delle deportazioni, come è mostrato dall’intervento che Gérard Rosenthal fece nel corso della quar- ta udienza, svoltasi l’8 dicembre. Avvocato di Trockij negli anni Trenta, Rosenthal citò le ordinanze che stabilivano questo principio, estrapolan- dole dalla Raccolta di leggi e disposizioni del governo degli operai e dei contadini dell’URSS. Fece in particolare modo riferimento all’ordinanza del 19 luglio 1934 n. 283, la quale prevedeva che una «conferenza specia- le» interna al Commissariato del popolo degli affari interni venisse dotata del potere di infliggere deportazione e incarcerazione nei campi di lavoro correttivo. La strategia processuale scelta da Rousset e dai suoi compa- gni fu in definitiva costruita attorno alla denuncia dell’elemento che più 52. Si veda il dibattimento processuale in Rousset, Rosenthal, Bernard, Pour la vérité sur les camps concentrationnaires. Esso è anche conservato in La Contemporaine (Nanter- re), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 56.
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di ogni altro negava alla radice la lettera e lo spirito dello stato di diritto occidentale. È vero che le sentenze amministrative furono soltanto uno dei modi, sicuramente il più spiccio, di infliggere deportazioni e lavoro forzato nei campi. Puntare l’attenzione principalmente su di essa, poteva dunque costituire una semplificazione eccessiva. Tuttavia, adeguatamente documentata, la denuncia del «confino senza processo», risultò un modo particolarmente efficace per far breccia nella cultura garantista dei giudici e nell’immaginario dell’opinione pubblica francese. Come già nel corso del processo Kravčenko, un ruolo importante fu svolto dai testimoni. Se Kravčenko aveva scelto prevalentemente gente comune, selezionata tra quei cittadini sovietici all’estero che non avevano intenzione di far ritorno in patria, Rousset, lo si è già accennato, puntò maggiormente su testimoni più direttamente legati alla sinistra politica internazionale. Théo Bernard, il secondo avvocato scelto da Rousset, af- fermò che i testimoni scelti non erano «soltanto antifascisti, ma dei com- battenti antifascisti», intendendo con questa affermazione che le loro cre- denziali erano impeccabili. 53 Al di là del fatto che essi avevano fatto una tragica esperienza personale nei campi di Stalin, chi più di questi uomini e donne di sinistra, antifascisti provati, era legittimato a pronunciare un’ac- cusa rivolta a quel regime? Bernard sottolineò che ciascuno di essi era in grado di confermare, con la propria testimonianza personale, la sequenza dell’universo concentrazionario sovietico, emersa dalla documentazione disponibile, ossia «la privazione arbitraria della libertà, il lavoro forzato e la detenzione in condizioni disumane». 54 La gran parte di questi testimoni è nota al lettore di questo volume: Kazimierz Zamorski, Józef Czapski, Jerzy Gliksman e Margarete Buber-Neumann. Si trattava di figure che avevano creduto nelle sue varie versioni all’ideale del socialismo, ma che nel pro- prio percorso individuale ne avevano incontrato una versione particolar- mente brutale, ossia uno stato militare che li aveva arrestati e in molti casi deportati e ridotti ai lavori forzati. Altri testimoni si aggiunsero con caratteristiche analoghe. Elinor Lipper, svizzera, militante di sinistra in Germania all’inizio degli anni Trenta, era giunta in URSS nel 1936. 55 Nel 1937 fu arrestata dalla NKVD, 53. Rousset, Rosenthal, Bernard, Pour la vérité sur les camps concentrationnaires, p. 200. 54. Ibidem. 55. Ivi, pp. 76 sgg.
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iniziando così undici travagliatissimi anni di detenzione nelle prigioni e nei campi sovietici. Lipper fu chiamata a testimoniare sulla base del volume che aveva da poco pubblicato, nel quale raccontò l’inferno della Kolyma. 56 Testimoniò anche Valentín González, generale repubblicano nella guerra civile spagnola. Noto come El Campesino, González giunse in URSS nel 1939 dopo la vittoria di Franco. A causa della sua irriducibile opposizione al clima repressivo che trovò nella patria del socialismo, fu deportato in uno dei campi di Vorkuta. Riuscì a evadere nel 1949, varcando il confine con la Persia dopo aver realizzato una fuga epica destinata ad alimentare un vero e proprio mito. Le sue memorie uscirono nel 1950. 57 L’anno suc- cessivo invece furono pubblicate le memorie di Alexander Weissberg, con un’introduzione di Arthur Koestler. 58 Weissberg fu un altro dei testimoni scelti da Rousset, perché la sua vicenda contribuì a descrivere nel dettaglio i meccanismi del terrore sovietico. Conosciamo già la sua storia: fisico au- striaco giunto in URSS nel 1931, fu imprigionato come cospiratore durante il Grande terrore e successivamente consegnato alla Gestapo nel 1939. 59 Un altro testimone, Julius Margolin, definì nelle sue memorie il sistema concentrazionario sovietico come un insieme di «centri di sterminio per milioni di sovietici». 60 Ebreo di origine polacche, sionista trasferitosi in Palestina nel 1936, Margolin si trovava a Lodz in Polonia nel settembre 1939. Fu così costretto a scappare sotto i bombardamenti tedeschi verso est fino a raggiungere la città natale di Pinsk nella Bielorussia occidentale. La situazione si radicalizzò rapidamente. Dopo aver occupato quei terri- tori, i sovietici imposero anche a coloro i quali erano fuggiti dai nazisti, cioè prevalentemente ebrei, di diventare cittadini sovietici. Margolin venne 56. Elinor Lipper, Onze ans dans les bagnes soviétiques, Paris, Nagel, 1951. 57. Valentìn González (El Campesino), Le vie et la morte en U.R.S.S, Paris, Plon 1950. 58. Alexander Weissberg-Cybulski, The Accused, New York, Simon and Schuster, 1951. 59. La sua testimonianza si trova in Rousset, Rosenthal, Bernard, Pour la vérité sur les camps concentrationnaires, pp. 118 sgg. 60. Jules Margoline, La condition inhumaine. Cinque ans dans les camps de con- centration soviétiques, Paris, Calmann-Lévy, 1949, p. 119. Convinto che non si dovesse chiudere gli occhi di fronte ai campi sovietici perché quelli nazisti erano stati peggiori, egli scrisse: «Non ti sbagliare, lettore, e non confondere i campi sovietici con quelli di Hitler. Non scusare i campi sovietici perché Osventzim, Maidanek e Treblinka erano peggio. Ri- corda che le fabbriche della morte di Hitler non esistono più; sono passate come un incubo, e sui loro siti ci sono monumenti sulle tombe delle vittime. Ma la « piazza 48ª», Krouglitza e Kotlas sono ancora in funzione, e gli uomini vi muoiono oggi come cinque e dieci anni fa». Ivi, p. 443.
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arrestato dalla polizia sovietica nel giugno 1940, iniziando poco dopo un lunghissimo calvario, fatto di prigioni, deportazioni e campi di lavoro sugli Urali e nei campi di Vorkuta. La scelta di puntare su donne e uomini di sinistra, perlopiù figure di intellettuali, marcò una differenza rispetto alle scelte di Kravčenko. Met- tendo a fuoco il carattere internazionale del sistema concentrazionario so- vietico (che inghiottiva vittime provenienti da tutta Europa), Rousset e i suoi amici sottolinearono inoltre che quel sistema doveva fronteggiare una critica frontale avanzata da uomini e donne provenienti da diversi paesi e con alle spalle una condivisa esperienza di sofferenza. Alcuni tra essi – ad esempio Buber-Neumann e Weissberg – erano stati vittime di entrambe le tirannie, quella di Stalin e quella di Hitler, diventando dunque l’incar- nazione stessa della battaglia antitotalitaria. La testimonianza di Buber- Neumann culminò in un giudizio sconvolgente. Affermò che era «difficile decidersi su quale sia il metodo meno umanitario, gassare delle persone in cinque minuti oppure strangolarle lentamente con la fame in tre mesi». 61 Le condizioni di vita alla Kolyma, descritte vividamente da Lipper, confer- marono l’impressione che la domanda terribile di Buber-Neumann avesse un fondo di ragione. Lipper infatti descrisse la vita dei prigionieri della NKVD appaltati alle imprese statali forestali, minerarie e agricole come segue: sottoposti a un lavoro fisico di 12-16 ore al giorno a temperatu- re oltre i cinquanta gradi sotto lo zero per molti mesi l’anno. A fronte di ciò, era previsto un regime alimentare scarso (pane, zuppa di cavolo, teste di pesce), e per di più soggetto alla famigerata norma, che, indebolendo l’organismo dei detenuti, portava alla diffusione di malattie, spesso antica- mera della morte. 62 Ora, mettendo assieme le testimonianze di Margolin, Buber-Neumann e Lipper, si può notare che l’idea dei campi come luoghi dove prevaleva una logica di tipo punitivo/produttivo aveva un contraltare in un’immagine ben più radicale, quella dei campi come centri di stermi- nio: non attraverso il gas, certamente, ma attraverso il lavoro, la fame e il freddo. Era un’ipotesi estrema, che certamente rispondeva a esperienze vissu- te in prima persona. Non solo. In alcune fasi della storia del gulag, l’intero meccanismo punitivo/produttivo si trasformò effettivamente in qualcosa di diverso, diventando i campi sovietici campi di morte, dove – specialmen- 61. Ivi, p. 183. 62. Lipper, Dans les bagnes soviétiques.
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te durante il Grande terrore – le fucilazioni di massa furono all’ordine del giorno. Del resto, in quel periodo lo stesso avveniva fuori dai campi. Resta il fatto che, anche nelle fasi più drammatiche, i tassi di mortalità non furo- no mai comparabili con quelli dei centri di sterminio nazisti. Le fonti stesse ci suggeriscono l’immagine di un regime che certamente non teneva in gran conto la vita umana, ma la cui principale preoccupazione fu di produr- re, produrre e ancora produrre. L’ansia produttivistica di Kruglov emerse nel settembre 1950 in una lettera a Berija, nella quale tesseva le lodi delle giornate-lavoro, un meccanismo che quest’ultimo aveva abolito qualche anno addietro. Kruglov affermò che: «il sistema del conteggio delle gior- nate-lavoro ha dimostrato, nel passato, di funzionare ai fini dell’aumento della produttività del lavoro dei detenuti e della disciplina all’interno dei campi». 63 La riproposizione adesso della prassi della liberazione anticipata per i detenuti che si fossero mostrati più produttivi mal celava in definitiva il fatto che l’intero gruppo dirigente sovietico continuava ad arrovellarsi attorno al problema del lavoro schiavo e in particolare degli incentivi ne- cessari per renderlo più efficace. A fianco del problema della produttività, la disciplina interna ai campi e alle colonie rappresentò l’altra grande fonte di preoccupazione per le autorità sovietiche. L’esito del processo Rousset, conclusosi con la condanna inflitta al pe- riodico comunista a pagare un risarcimento simbolico, registrò una vittoria di questa sinistra europea, la quale sentì come proprio compito precipuo quello di denunciare i crimini del totalitarismo. Queste donne e questi uo- mini – i quali avevano subìto sulla propria pelle la violenza dell’uno o dell’altro regime totalitario (e a volte di entrambi) – mostrarono con la forza del loro esempio e del loro ragionamento che il nemico contro cui combattere non era costituito sempre e soltanto dal fascismo e dal nazismo, ma anche da regimi di tipo comunista: le ideologie erano diverse, ma i metodi repressivi risultavano essere molto simili. Rousset, i suoi collabo- ratori e i testimoni del processo impartirono una lezione a coloro i quali, nel mondo della sinistra francese, non avevano mai smesso di ritenere che l’anticomunismo non fosse altro che la maschera del fascismo. Quanto al carattere eterodiretto dell’iniziativa, costruita a Washington, secondo i suoi avversari, le polemiche andarono con il tempo scemando, anche se 63. Note de S.N. Krouglov, ministre de l’Intérieur de l’URSS, à L.P. Beria, vice-prési- dent du Conseil des ministres de l’URSS, sur le rétablissement du décompte des journées- travail dans les camps de travail, in Goulag, pp. 408-409.
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le fratture (comprese quelle personali) consumatesi tra la fine del 1949 e la fine del 1950 nella sinistra parigina rimasero. In definitiva, si può affer- mare che lo sforzo prodotto a partire dall’appello del 12 novembre 1949 fu premiato, rafforzando così le ragioni che nel frattempo avevano porta- to alla formazione della CICRC. Quest’ultima era destinata a diventare un tassello importante di quel mosaico di associazioni che partecipò alla guerra fredda culturale nel periodo successivo, proponendosi come forza umanitaria transnazionale chiamata a interagire con governi e organismi internazionali. 3. La conoscenza del nemico, la decostruzione del suo fascino Nel corso del 1951 maturarono iniziative che in vario modo furono il frutto del clima globale della guerra di Corea, iniziata nel giugno dell’anno precedente ed entrata in una fase nuova con l’intervento della Cina di Mao nell’ottobre. Queste iniziative possono essere viste nel complesso come parte di un riarmo ideologico dell’Occidente, parallelo a quello militare: alcune di esse sono riconducibili a un proposito del tipo «conosci il tuo nemico». 64 Testare la forza militare dei sovietici e metterne alla prova le strategie di sicurezza non era infatti considerato sufficiente dalla classe dirigente americana. Era altresì necessario cogliere la tenuta complessiva del sistema sociale sovietico in caso di guerra. Avrebbe il regime di Stalin mostrato di essere fondato sul consenso della popolazione sovietica oppure l’assenza di questo consenso, la sua fragilità perlomeno, avrebbe ridotto la capacità dei soldati di combattere? Un secondo tipo di intervento fu rivol- to verso le società occidentali, all’interno delle quali la fascinazione per l’esperimento sovietico era molto diffusa nelle file del mondo del lavoro europeo e tra gli intellettuali progressisti. Quali strumenti era necessario predisporre per arginare questo fenomeno che rischiava di dilagare, alme- no in alcuni paesi, in un dissenso di massa rispetto al modello democratico rappresentativo fondato sul mercato? Dedichiamo la nostra attenzione innanzi tutto al proposito del «co- nosci il tuo nemico», partendo dal progetto di interviste ai profughi so- vietici realizzato nella neonata Repubblica federale tedesca da ricercatori 64. David C. Engerman, Know Your Enemy. The Rise and Fall of America’s Soviet Experts, Oxford-New York, Oxford University Press, 2009.
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statunitensi. 65 Il Refugee Interview Project fu ideato all’interno del Russian Research Center di Harvard. Esso selezionò centinaia di interviste, par- tendo da un bacino di 40.000 persone tra ex lavoratori forzati nella mac- china bellica tedesca, prigionieri di guerra, disertori dell’Armata Rossa e quant’altro. 66 Gran parte di essi si trovava in Baviera e non intendeva far ritorno in URSS. Realizzate tra il settembre 1950 e il settembre 1951, le interviste aprirono un nuovo squarcio sulla società sovietica degli anni Trenta, con le sue ondate di arresti, deportazioni e formazione di un siste- ma di campi di lavoro forzato. Assieme ad altri corpi documentari (come le interviste dell’Armata Anders), il Refugee Interview Project dette un contributo notevole alla messa a fuoco di una realtà complessa, all’interno della quale l’odio della popolazione per gli aspetti più brutali del regime emerse con chiarezza. La questione della disaffezione possedeva evidente- mente un retroterra scientifico, nella misura in cui questi ricercatori erano impegnati a verificare la tenuta delle categorie interpretative della socio- logia di Talcott Parsons, i princìpi della quale essi avevano assorbito nel corso della formazione accademica. Tuttavia, il problema della disaffezio- ne dei cittadini sovietici interessava anche gli apparati militari, diventando dunque lo studio della società sovietica un terreno condiviso. Con queste premesse, il Russian Research Center di Harvard ricevette un cospicuo finanziamento dall’aeronautica. 67 L’indagine spinse i ricercatori a cogliere innanzi tutto gli elementi spe- cifici dell’esperienza sovietica, ancor prima della riduzione della stessa nei termini del totalitarismo con i suoi meccanismi pervasivi volti a produrre obbedienza. Una domanda reggeva l’impianto complessivo del progetto di Harvard: in quale misura un regime terroristico, come quello sovietico, era in grado di raccogliere il consenso della popolazione? E, più precisa- mente, come si sarebbero comportati i cittadini sovietici in caso di guerra? 65. Queste interviste sono diventate adesso parte di The Harvard Project on the So- viet Social System (https://library.harvard.edu/sites/default/files/static/collections/hpsss/ index.html). 66. Engerman, Know Your Enemy, p. 51. 67. Engerman scrive: «Per gli scienziati comportamentali, conoscere l’atteggiamento dei sovietici nei confronti del regime avrebbe aiutato a misurare il grado di adattamento alle norme sociali. Mentre gli ufficiali militari volevano conoscere l’entità del sostegno del fronte interno in un conflitto militare». Ivi, p. 60. Engerman scrive inoltre che gli uomini dell’Air Force dovettero fare i conti con i loro superiori e con la stampa ostile a questo tipo di impiego del denaro pubblico, che sembra raggiunse la cifra di un milione di dollari. Ivi, p. 68.
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Avrebbero ancora una volta difeso la patria socialista oppure di fronte alla prospettiva di una liberazione effettiva si sarebbero finalmente ribellati? Se romanzi come quello di Orwell e saggi critici come quello di Arendt aveva- no studiato i meccanismi dell’obbedienza propri di una società totalitaria, nella quale proteste e ribellioni erano ridotte al minimo, gli scienziati so- ciali di Harvard mostrarono al contrario un forte interesse per il problema della disaffezione. Peraltro, questa attenzione per la disaffezione dei citta- dini non incrinò l’idea che il regime sovietico avesse consolidato potenti meccanismi volti alla stabilizzazione della società in senso totalitario. Il to- talitarismo restò dunque la chiave per comprendere il sistema sovietico, ma il contatto ravvicinato con quella rabbia sofferente emersa dalle interviste impedì ai ricercatori di ripararsi dietro l’immagine tetragona di uno stato in grado di manipolare durevolmente le emozioni dei cittadini, distruggere la loro identità e in definitiva ridurli a un’obbedienza definitiva. 68 Prima di ascoltare la voce degli intervistati, può essere utile discutere alcune criticità, emerse nel processo di allestimento del progetto. 69 Collo- cato sotto la guida degli studiosi Alex Inkeles e Raymond Bauer, il gruppo dei ricercatori si riferì costantemente agli intervistati come «russi», finendo così per non cogliere, per fare un esempio, la specificità degli ucraini in ri- ferimento alla repressione su basi nazionali. Alcuni stereotipi sugli slavi (il proverbiale senso dell’amicizia, la propensione a bere ecc.) dettero il senso di un’approssimazione poco scientifica nella redazione di documenti, cri- teri e relazioni conclusive. L’analisi delle paure degli intervistati fu invece più interessante. I ricercatori percepirono che questi intervistati temevano di trovarsi di fronte ad agenti sovietici sotto mentite spoglie e che dun- que era necessario guadagnare la loro fiducia con pazienza. D’altro canto, 68. Avremo modo di vedere più avanti che lavori accademici usciti a partire dal 1953, ma largamente ispirati a questo lavoro di raccolta svolto nel 1950-1951, espressero punti di vista critici rispetto alla versione più radicale della teoria del totalitario, secondo cui lo stato sovietico, durante il regime di Stalin, avrebbe risolto dentro di sé le tensioni e pacifi- cato definitivamente la società. Torneremo in particolare sui lavori di Merle Fainsod, How Russia is Ruled, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1953, di Raymond A. Bauer, Alex Inkeles, Clyde Kluckhohn, How the Soviet System Works, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1956 e infine di Merle Fainsod, Smolensk Under Soviet Rule, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1958. 69. Si veda Alice H. Bauer, A Guide for Interviewing Soviet Escapes, Harvard, Rus- sian Research Center, Harvard University-Research Study, n. 3, Air Research and Develop- ment Command Human Resources Research Institute, Maxwell Air Force Base, Alabama, agosto 1953.
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i ricercatori mostrarono piena consapevolezza del rischio che le risposte potessero contenere distorsioni, esagerazioni, omissioni e falsificazioni, causate dalle ragioni più varie, dal senso di colpa verso il paese abbando- nato al desiderio di ingraziarsi gli intervistatori. 70 Le interviste non vennero registrate, ma trascritte grazie ad appunti in inglese presi durante i colloqui in russo. A proposito delle criticità, vale la pena di soffermarsi sul fatto che gli intervistati non rappresentavano un campione perfetto della società sovietica. La maggior parte di essi, per esempio, proveniva da contesti ur- bani, rendendo così la società rurale sottorappresentata. Questo però era vero soltanto in parte, considerando che molti inter- vistati provenivano da un retroterra contadino. Non mancarono quindi te- stimonianze sulle violenze nelle campagne a partire dal 1929, che anzi furono tra le più interessanti. Il tenore dei racconti sulla de-kulakizzazione, le deportazioni e l’esperienza dei campi fu questo: Mio zio, cioè il fratello di mio padre, e sua moglie furono arrestati ed esiliati alle isole Solovki nel 1930. Lui lavorava sul Canale Baltico del Mar Bianco e credo che sia morto lì perché non abbiamo mai avuto sue notizie dopo che la sua pena era stata scontata [ ] Mio zio fu arrestato perché aveva due mucche. 71
…
Accanto alle sofferenze dovute alle violenze e agli espropri fu rievo- cata l’immagine di una resistenza contadina diffusa. Noi sappiamo oggi grazie agli storici che se non ci fu mai una resistenza organizzata su vasta scala, in grado di sconfiggere il regime e le sue politiche brutali, i primi anni Trenta furono il teatro di una diffusa insorgenza delle campagne, sen- za una comprensione adeguata della quale poco si comprenderebbe delle scelte operate da Stalin nel resto del decennio. 72 Inoltre, l’ostilità persi- stente dei contadini dimostra di per sé che nel corso degli anni Trenta, e verosimilmente in seguito, una società pacificata e risolta nell’atomismo 70. Un passaggio mostra l’immagine che gli intervistatori erano chiamati a tenere presente: «Il carattere e la cultura russa tradizionale rendono il russo amichevole e incline a parlare liberamente. Al contrario, la vita sotto i bolscevichi lo ha reso reticente e un maestro nell’arte della menzogna. Il fatto di essere un disertore o uno sfollato lo porta a essere sulla difensiva, con il risultato che è contemporaneamente molto in guardia e molto ansioso di parlare con qualcuno di cui si fida. Questa combinazione di circostanze fa sì che queste persone siano comunicative e informatori preziosi solo se gestiti correttamente. Se gestite male, saranno estremamente difficili e inaffidabili». Ivi, p. VI. 71. https://iiif.lib.harvard.edu/manifests/view/drs:5165686$19i. 72. Graziosi, La grande guerra contadina, pp. 74 sgg.
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totalitario non era mai esistita. 73 Un bielorusso di 33 anni offrì uno spaccato dell’odio che i contadini provarono per l’aggressione statale sotto forma della collettivizzazione: Quando mio zio fu represso, mio padre disse che sarebbe stato meglio se si fosse unito al Kholchoz, e lui lo fece, volontariamente. Per paura delle conseguenze di una mancata adesione. Ma nel 1931 fu comunque mandato via. Non solo io, ma tutti, odiavamo la collettivizzazione. […] La voleva il lumpen-proletariat. Ma anche per loro si rivelò un male. 74
Passando alle esperienze di prigionia, un ex professore di matematica, che aveva studiato all’Università di Voronež e che poi si era trovato in Ger- mania dopo la guerra a lavorare nei quartieri generali del governo militare sovietico, parlò della giustizia del suo paese come «un teatro», nel quale si svolgeva una «messa in scena» dove il procuratore rappresentava la figura principale, gli avvocati dei comprimari che non difendevano l’accusato, chiedendo al massimo una lieve riduzione della pena. L’accusato – e que- sta era la differenza principale dal sistema giudiziario occidentale – do- veva dimostrare di essere innocente e non gli accusatori che egli fosse colpevole. 75 L’esperienza dei campi tornò in molte interviste. Una contadina ucrai- na di 53 anni affermò: Nel 1930, durante la collettivizzazione forzata, mio marito fu arrestato dal- l’NKVD e poi condannato dalla «troika» dell’NKVD a dieci anni di lavori forzati nei campi di concentramento in Siberia per attività «controrivoluzio- naria». Prima fu imprigionato nella città di Sumy, a 70 chilometri dal nostro chutor. Sono stata 13 volte a Sumy per portargli del cibo e della biancheria, ma non mi è stato permesso di vederlo. Dopo la sentenza, nel 1931, fu man- 73. Graziosi, Guerra e rivoluzione, pp. 65-91. 74. https://iiif.lib.harvard.edu/manifests/view/drs:5155966$13i. 75. L’intervistato ricostruì un clima che oramai conosciamo bene: «Negli anni del terrore politico la maggior parte delle sedute del tribunale si svolgeva a porte chiuse. I giu- dici, anzi, l’intero tribunale era costituito da una speciale «troika» dell’NKVD, in cui non c’erano né procuratore, né avvocato, né legale. Giudicavano ed emettevano la sentenza e la sentenza si svolgeva nelle cantine in assoluta segretezza. Ci sono alcune particolarità del Codice penale sovietico che vanno sottolineate. Fino alla fine della guerra i crimini politici erano severamente puniti, così come erano puniti i crimini contro lo Stato o l’economia o il semplice racconto di storie antisovietiche […] La legge del 7 agosto 1932 sulla «Protezione della proprietà socialista» era la base per incriminare le persone che commettevano i cosid- detti crimini politici». https://iiif.lib.harvard.edu/manifests/view/drs:5594578$30i.
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dato nella cosiddetta foresta vergine di Sarov, nella regione di Tombovsk, a tagliare legna. Lavorò lì per due anni. Lì si trovavano soprattutto ucraini e co- sacchi del Kuban’ condannati dall’NKVD per azioni «controrivoluzionarie». Le persone vivevano e lavoravano lì in condizioni molto difficili. Una grande percentuale moriva di fame, gelo e malattie. Poi fu mandato nel campo di concentramento di Kolyma a lavorare sulle sabbie aurifere. Ha vissuto lì per sette anni in condizioni incredibili e insopportabili. È un miracolo che sia ancora vivo. È di stirpe contadina molto testarda e sana. 76
La forza di queste interviste dipese certamente dal fatto che, scontate le paure iniziali, i rifugiati parlarono diffusamente, sentendosi in un contesto libero dalle interferenze della polizia politica sovietica. Soprattutto, queste testimonianze mostrarono che se il totalitarismo rappresentava una chiave interpretativa importante per comprendere le aspirazioni ideologiche del regime di Stalin (realizzare cioè una società definitivamente pacificata), d’altra parte esso costituiva una categoria per molti aspetti inadeguata per comprendere il profilo reale della società sovietica. Indubbiamente, al di là delle rivolte, la stessa resistenza individuale e collettiva di coloro i quali avevano sopportato le torture nelle prigioni, il freddo e la fame dei campi, mantenendo viva la speranza mostrarono ampiamente che la rappresenta- zione del prigioniero sovietico come uomo pavloviano, privato di identità e della propria coscienza, non corrispose mai alla realtà, limitandosi semmai ad essere un’aspirazione del regime di Stalin. Da questo punto di vista, lo studio coevo sulla polizia politica sovie- tica che l’Air Force commissionò a Rand, sorta nel 1948 e destinata a di- ventare uno dei più importanti think tanks statunitensi, appare altrettanto interessante delle interviste raccolti dai ricercatori di Harvard: se questi avevano cercato di cogliere il vissuto della gente comune, costretta a subire le scelte radicali del regime di Stalin, il lavoro uscito dalle stanze di Rand fu invece dedicato allo studio del funzionamento dell’istituzione cardine di quel regime, la polizia politica appunto. Il lavoro fu inviato il 21 giugno 1950 da Hans Speier, direttore del Dipartimento di scienze sociali di Rand, all’ufficio di Paul Nitze e ad altri del Dipartimento di Stato. Realizzato da Herbert Dinerstein, Some Information on Soviet Political Police mise dun- que a fuoco alcuni meccanismi importanti del funzionamento della polizia politica sovietica relativi soprattutto agli anni Trenta. L’autore colse il fun-
76. https://iiif.lib.harvard.edu/manifests/view/drs:5634437$30i.
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zionamento degli arresti per categorie e la complessa dinamica instauratasi tra centro e periferia. Essa fu così descritta: Il capo della polizia politica riceve dall’alto le cifre degli arresti per categorie: una certa quota di trockijsti, una certa quota di nazionalisti borghesi, una cer- ta quota di spie ecc. Le quote per provincia sono così stabilite. Nelle province questa quota è spesso divisa in quartieri. Questo movimento del piano dall’al- to suscita un contro-movimento del piano dal basso. Gli organismi inferiori presentano dunque un «piano di opposizione» che è anche più ambizioso del piano che proviene dall’alto. E allora il lavoro di adempimento e di sovra- adempimento del piano comincia. 77
Questo brano mostra bene che il profilo reale del Grande terrore stava lentamente emergendo all’inizio degli anni Cinquanta: non si poteva sape- re certamente delle cifre spaventose della repressione del 1937-1938, ma la dimensione categoriale e preventiva di questa repressione era esposta con chiarezza, così come il perverso funzionamento di un sistema nel quale gli organi più bassi della polizia contribuivano ad aumentare le quote delle persone da reprimere, dando così vita a una crescente spirale di violenza statale. Restiamo sul tema del totalitarismo, perché proprio nel 1951, mentre i ricercatori di Harvard stavano concludendo le loro interviste, uscì The Origins of Totalitarianism di Hannah Arendt. La sua idea-forza era rimasta la stessa: il regime sovietico era un regime totalitario che stava realizzan- do, senza più incontrare particolare opposizione, una rivoluzione antro- pologica di cui i campi costituivano una rete di laboratori sperimentali. In altri termini, a suo giudizio, i campi nel totalitarismo non possedevano una funzione di tipo produttivo o punitivo, ma, piuttosto, incarnavano l’a- spirazione al dominio totale da parte di un regime, deciso a sperimentare un modello nuovo di società, nel quale fosse completamente annichilita l’identità della persona umana. Arendt sostenne con forza rinnovata che termini quali «schiavitù» e «lavoro forzato» erano inadeguati per descrive- re la realtà dei campi di concentramento, aggiungendo che: 77. Herbert Dinerstein, Some Information on the Soviet Political Police, , pp. 45-46. Questo studio è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.4531/7-1852 to 861c.261/10-2852, b. 5167, 861.511/6-2150. Si veda su questo argomento in particolare La police politique en Union Soviétique 1918-1953, a cura di Andrea Graziosi, Terry Martin e Jutta Scherrer, in «Cahiers du Monde Russe», 42/2-4, 2001.
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I campi di concentramento come istituzione non sono stati creati in vista di una possibile prestazione produttiva, dato che la loro unica funzione eco- nomica permanente è stata quella di finanziare l’apparato di sorveglianza: quindi per quanto concerne l’economia, essi esistono principalmente per sé stessi. Qualsiasi lavoro compiuto potrebbe essere stato fatto meglio e con minor spesa in condizioni diverse. Specialmente nel regime staliniano, i cui campi di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava di questo; il lavoro coatto era la condizione normale di tutti i lavoratori russi, che non avevano la libertà di spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitrariamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo. 78
Riprendendo l’idea che «il cane di Pavlov» costituiva il «cittadino mo- dello di uno stato totalitario», Arendt individuò la vera utilità dei campi non nella loro partecipazione ai piani produttivi, ma nella duplice funzione di collaudo per una società di tipo nuovo e di strumento per intimorire allo stesso tempo il resto della popolazione. Scrisse: L’inutilità dei campi, la loro anti-utilità cinicamente ammessa, è solo appa- rente. In realtà, per la preservazione del potere del regime essi sono più indi- spensabili di qualsiasi altra istituzione. Senza di essi, senza l’indefinita paura che ispirano e il ben definito addestramento al dominio totale, che in nessun altro luogo può essere collaudato nelle sue possibilità più radicali, uno stato totalitario non può infondere il fanatismo nelle sue truppe scelte né mantene- re un intero popolo nell’apatia. 79
Il profilo della «società dei morenti» – in cui la punizione non ave- va relazione con un reato, lo sfruttamento era praticato senza profitto e «il lavoro» era «compiuto senza un prodotto» – fu ritagliato sui centri di sterminio nazisti. 80 E, per quanto Arendt costruisse una gerarchia tra diver- se categorie, caratterizzando il lager sovietico come «purgatorio» (diverso dunque dall’«inferno» di Bełżec, Sobibór e Treblinka), ella restò convinta della sostanziale unitarietà del fenomeno concentrazionario. Sappiamo però dagli storici che queste assimilazioni erano approssi- mative, perché lo stesso universo concentrazionario nazionalsocialista può essere compreso a fondo soltanto a partire da chiare distinzioni concettuali 78. Le citazioni sono prese dall’edizione italiana, Hannah Arendt, Le origini del tota- litarismo, Roma, Edizioni di Comunità, 1996, pp. 608-609. 79. Ivi, p. 624. 80. Ivi, p. 626.
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tra centri di detenzione, campi di concentramento e centri di sterminio. 81 Il primo grande lavoro di raccolta di archivi e informazioni sullo stermi- nio degli ebrei era del resto soltanto agli inizi, allorquando il Centre de Documentation Juive Contemporaine di Parigi stimolò le prime ricerche, culminate alla metà degli anni Cinquanta nel volume di Léon Poliakov. 82 In definitiva, Arendt formulò dei concetti generali, cercando di rendere la realtà dei campi sovietici coerente con essi, prescindendo dunque da quelle serie documentarie che, se studiate attentamente, avrebbero forse spinto l’autrice a una maggiore cautela nell’attribuire al gulag staliniano la carat- teristica dell’«anti-utilità». Quella di Arendt fu dunque una lettura tutta fi- losofica che certamente dette un contributo all’esplorazione delle zone più oscure dello stalinismo come ideologia, ma perse di vista il quadro com- plessivo delle scelte operate all’inizio degli anni Trenta con la «rivoluzione dall’alto» e, ancor più, il modo in cui la società sovietica reagì all’offensiva del regime. Insomma, giova ripeterlo, è ben possibile che Stalin aspirasse a trasformare ogni singolo cittadino sovietico, dentro e fuori i campi, nel «cane di Pavlov», ma non si poteva dare per scontato che questo obiettivo fosse stato realizzato o comunque fosse prossimo a realizzarsi. Va detto in generale che la diffusione dell’immagine monolitica dello stato sovietico come stato totalitario nel senso arendtiano dipese probabil- mente dall’assenza di una conoscenza adeguata delle condizioni effettive dei campi sovietici all’inizio degli anni Cinquanta, i cui dirigenti si barca- menavano tra i problemi della scarsa produttività dei detenuti, della vio- lenza endemica e della criminalità diffusa. In un rapporto stilato dal capo del complesso dei campi di Noril’sk, risalente al 31 gennaio 1952 e dunque riguardante la situazione dell’anno precedente, si legge che alcuni gruppi di criminali si trovavano in un endemico « stato di guerra» con altri gruppi, 81. Le distinzioni operate da Joel Kotek e Piere Rigoulot riprendono le distinzioni arendtiane, enucleando tuttavia i centri di sterminio nazisti (raffigurati come la «Geenna» del «secolo dei campi»). Per quanto siano anch’esse discutibili, le distinzioni dei due autori si basano su una corretta critica della riflessione arendtiana: «Quando scrive la sua opera sul totalitarismo, la Arendt non è ancora in grado di cogliere la specificità dei «centri di sterminio». Per la filosofa tedesca, questi centri sono un semplice prodotto del fenomeno concentrazionario, e di conseguenza vengono ascritti all’Inferno». Joel Kotek e Pierre Ri- goulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio, Milano, Mondadori, 2001, p. 27. 82. Léon Poliakov, Bréviaire de la haine. Le IIIe Reich et les Juifs, Paris, Calmann- Lévy, 1955 [trad. it. Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi, 1955].
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mentre gli invalidi si erano trasformati in ladri, le morti violente si susse- guivano una dopo l’altra ed erano all’ordine del giorno continui casi di in- disciplina e tentativi di evasione: «migliaia di detenuti sono oggi implicati nelle fazioni rivali in lotta gli uni contro gli altri. Tutti i campi sono toccati da questo fenomeno». Ciò era dipeso dall’arrivo in massa di criminali co- muni nei campi di Noril’sk, i quali, con le loro attività illegali, mettevano a repentaglio la produzione. Il rapporto affermò la necessità di «smascherare i nemici del potere sovietico che manipolano e strumentalizzano queste fazioni […]». 83 Al di là di questa chiosa, vagamente rassicurante e auto- assolutoria, la realtà descritta era quella di un degrado accentuato sia dal punto di vista della produttività sia dal punto di vista della legalità. 84 Del laboratorio di una nuova antropologia totalitaria, insomma, neppure una traccia. Nel complesso, né le voci dei rifugiati, che fu possibile conoscere allora, né quello dei dirigenti sovietici, che possiamo conoscere soltanto oggi, confermano la tesi di Arendt. Passando dai lavori del tipo «conosci il tuo nemico» a quelli che in- vece furono rivolti a consolidare in Occidente il consenso intorno ai valori liberal-democratici nel mondo dei lavoratori e dell’opinione pubblica, in- contriamo ancora una volta l’iniziativa dei sindacati. Si è accennato al fatto che nel 1949 la scissione del sindacalismo internazionale aveva portato alla nascita di una nuova grande organizzazione nel mondo del lavoro globale, la ICFTU, la quale, per una primissima fase, fu fortemente dominata dalla AFL. Quest’ultima impose non soltanto il martellante riferimento ai princi- pi antitotalitari, e il primato della libertà sulla giustizia sociale, ma realizzò una politica di occupazione dei posti chiave dell’organizzazione sindacale internazionale: nel settore della stampa, Arnold Beichman diventò la voce più accordata alle idee di Lovestone. Quest’ultimo volle che il monitoraggio dei rapporti con le Nazioni Unite fosse affidato all’ufficio newyorkese della AFL, a capo del quale fu messa Toni Sender. David Dubinsky e Matthew Woll vennero nominati consulenti della ICFTU all’ECOSOC. 85 Con sede a Bruxelles, la nuova organizzazione sindacale raggiunse la cifra di quaran- totto milioni di aderenti da più di cinquanta paesi. Jacobus Oldenbroek fu il 83. Rapport du chef du complexe de camps de travail correctif de Norilsk au chef du GOULAG sur la situation du camp de Norilsk en 1951, in Goulag, pp. 779-788. 84. Sul degrado delle istituzioni concentrazionarie sovietiche al loro apogeo, Werth, Le phénomène concentrationnaire soviétique au XXe siècle, pp. 215-218. 85. Carew, American Labour’s Cold War, pp. 74-75.
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primo segretario generale. Certamente anticomunista, egli tuttavia avvertì i limiti di una politica esclusivamente votata alla lotta contro il regime sovie- tico e i suoi alleati. 86 Nel clima coreano, caratterizzato dalla centralità delle istanze anti- comuniste, fu comunque intrapresa una grande iniziativa per documen- tare il lavoro forzato, che culminò nella pubblicazione di un volumetto dal titolo Stalin’s Slave Camps. 87 Si trattava di un lavoro di poche pagine, dotato di mappe e fotografie, con i concetti principali ben evidenziati. A tutti gli effetti, si era di fronte a un testo destinato alla più larga circo- lazione politica nelle fila dei sindacati non comunisti. Nella copertina e nella quarta era mostrata la grande estensione del territorio euroasiatico dell’URSS, punteggiato da macchie rosse che indicavano le principali aree concentrazionarie quali Karaganda, Vorkuta, Noril’sk e Kolyma. Preparato da un lungo e impegnativo lavoro di Charles A. Orr, addetto alla ricerca nel Dipartimento sociale ed economico dell’ICFTU, il libretto espresse un modo di ragionare che oramai – a partire dalla pubblicazione del codice correttivo sovietico nell’estate del 1949 – era diffusissimo: in Unione so- vietica – si affermava in modo perentorio – la schiavitù non era soltan- to praticata, ma possedeva una copertura legale. 88 Il gruppo di ricercatori dell’ICFTU passò in rassegna l’apparato normativo (leggi, codice del lavo- ro correttivo, codice penale) e ripercorse le diverse definizioni sovietiche di crimine contro lo stato. Quanto alla natura del lavoro forzato, fu scelta la chiave interpretativa della logica produttivistica del regime accanto a quella punitiva. I giudizi espressi mostrarono che le acquisizioni degli anni precedenti si erano oramai consolidate in un più largo pubblico. Si legge infatti che la classe dirigente sovietica, invece di costituire lentamente un fondo di capitale o di prenderlo in prestito all’estero, aveva puntato sulla formazione di un esercito di schiavi, organizzati dalla polizia politica. 89 Questa caratterizzazione in senso produttivistico del sistema dei cam- pi era collegata, per quanto riguarda il numero complessivo dei lavoratori 86. Ivi, p. 75. 87. Stalin’s Slave Camps: An Indictment of Modern Slavery, a cura di Charles Andrew Orr, Bruxelles, International Confederation of Free Trade Unions, 1951. 88. Ivi, p. 8. 89. L’analisi del potere economico della polizia politica, vero e proprio stato nello stato, fu sorretta dalla pubblicazione del documento State Plan for the Development of the National Economy of the USSR in 1941 dal quale emergeva come chiarezza che in molti settori la percentuale affidata alla polizia politica era vastissima. Ivi, p. 19
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forzati, a cifre troppo elevate, già avanzate nei lavori di Kravčenko e di Dallin. Più interessante appare lo sforzo di ragionare sull’espansione del sistema del lavoro forzato come «stalinismo che si muove verso ovest». 90 Si fece riferimento per la Cecoslovacchia al codice penale approvato nell’estate del 1950, ai codici del lavoro correttivo ungherese e rumeno e, passando alla descrizione della realtà concentrazionaria, alle miniere di uranio nella DDR. Gli autori svolsero un confronto con la «schiavitù fa- scista», avanzando l’ipotesi che i due sistemi (quello comunista e quello nazionalsocialista) rispondessero a una stessa logica politica: quella di ri- produrre all’infinito un clima di terrore funzionale alle necessità produttive in un contesto di guerra incipiente. È appena il caso di sottolineare che que- sta iniziativa sindacale s’inserì nel solco tracciato dalla risoluzione dell’E- COSOC del marzo 1949, e che, allo stesso tempo, contribuì a consolidare un’atmosfera antitotalitaria nella quale erano destinati a svolgersi i lavori del Comitato ad hoc nominato nel 1951 in base a quella risoluzione. Con il suo linguaggio semplice ed efficace, Stalin’s Slave Camps illustrò a favore di un largo pubblico cosa in concreto fosse un «sistema di lavoro forzato» e perché il mondo del lavoro si doveva opporre con tutte le sue forze alla sua espansione. A conclusioni simili arrivò il socialismo europeo, il quale – si ricor- derà – era stato propenso negli anni Trenta a collaborare con i comunisti nella lotta contro il fascismo internazionale. Adesso, abbandonate le po- sizioni favorevoli all’URSS, e assunto piuttosto rapidamente un antico- munismo di principio, il socialismo internazionale divenne protagonista della guerra fredda culturale. Non mancarono eccezioni, naturalmente. Il socialismo italiano si attestò nella sua maggioranza su posizioni frontiste, ritagliandosi un ruolo di subordinazione verso il PCI. Tornando al 1950, in una lettera inviata a Rousset il 7 marzo, poche settimane prima di mo- rire, Blum salutò le varie iniziative contro i campi sovietici, definendo- le un’«immensa procedura di giustizia internazionale» che il movimento operaio internazionale, non egemonizzato dai comunisti, era chiamato a sostenere. 91 Blum era da tempo diventato uno dei bersagli preferiti della pubblicistica comunista francese e sovietica e continuò a esserlo ancora
90. Sulla diffusione del lavoro forzato oltre i confini dell’URSS, ivi, p. 24 sgg. 91. La lettera è conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, Corrispondance 61.
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dopo la sua morte. 92 Il processo di ricostruzione dell’Internazionale so- cialista (la LSI aveva interrotto le sue attività nel 1940) fu caratterizzato da prese di posizione continue contro le diverse forme della repressione sovietica. Julius Braunthal, segretario del Comitato della Conferenza in- ternazionale socialista (Comisco) dal 1949 al 1951 e in seguito, tra 1951 e 1956, della ricostituita Internazionale Socialista, scrisse a Rousset il 28 aprile 1950 a proposito della seduta plenaria del Comisco prevista per il giugno successivo. Assicurò che la conferenza avrebbe discusso del lavoro forzato in URSS sulla base della documentazione inviata dai partiti bri- tannico, francese e tedesco. Inoltre Braunthal prese l’iniziativa di inviare a tutti i partiti membri un documento prodotto dalla SFIO, ma tradotto in inglese, con il titolo Concentration Camps, Forced Labour and the Denial of Human Rights in Russia. Vi era affermato il principio che il socialismo democratico doveva far propria la «questione della schiavitù» in URSS e mobilitare i militanti contro di essa. 93 Il dialogo tra Rousset e Blum, così come le posizioni espresse da Braunthal, costituirono la riprova che molta acqua era passata sotto i ponti del socialismo francese ed europeo: i vecchi riferimenti antifascisti, in base ai quali si era combattuto durante la guerra, erano oramai morti. Lo mostra 92. La voce «Léon Blum» sull’Enciclopedia sovietica, ispirata dagli articoli di Mauri- ce Thorez, descrisse il leader socialista francese come un «mostro» che racchiudeva in sé il disgusto di Millerand per il socialismo, la crudeltà di Piłsudski, la vigliaccheria e la sete di sangue di Noske e, ancora, l’odio di Trockij verso l’URSS. Winock, La gauche en France, p. 245. Blum aveva definito nel 1945 il PCF come «partito nazionalista straniero» in rife- rimento alla sua adesione al patto Molotov-Ribbentrop: Léon Blum, A l’échelle humaine, Paris, Gallimard, 1945. Era stato uno degli artefici della rottura a sinistra e della formazione della «terza forza». Si veda Bernstein, Léon Blum, soprattutto i due capitoli Léon Blum face à la guerra froide e La Naissance de la «Trosième Force». Per il contesto generale, Jean-Pierre Rioux, La France de la Quatrème République, vol. I: L’ardeur et la nécessité (1944-1952), Paris, Seuil, 1980, pp. 159 sgg. 93. La lettera è conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 61, f. 3 Correspondance Anglaise. Il clima di mobilitazione anticomuni- sta che avviò a partire dal 1948 la rinascita dell’Internazionale socialista è ben presente nelle pagine che lo stesso Braunthal avrebbe dedicato come storico a questi argomenti. Si veda in particolare Julius Braunthal, History of the International 1943-1968, London-New York, Routledge, 2018, vol. 3, pp. 182 sgg. L’edizione originale di questo volume risale al 1971, allorquando l’autore lo pubblicò in tedesco con il titolo Geschichte der Internatio- nale, Hannover, Verlag J.H.W. Dietz, 1971, vol. 3. I primi due volumi della History of the International (1864-1914) e (1914-1943) erano usciti a New York nel 1967 per Frederick A. Praeger Publishers.
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anche il fatto che il movimento di Rousset tra gli ex deportati continuò a crescere. La CICRC inaugurò il 21 maggio 1951 a Bruxelles un convegno con l’obiettivo di fare luce sull’esistenza e sulle caratteristiche dei campi di lavoro in URSS. La rottura della solidarietà tra reduci europei dei campi di Hitler sul terreno della critica dei campi di Stalin era definitiva, perché a Bruxelles fu affermato il principio che l’antifascismo non possedeva al- cun valore senza collegarsi all’anticomunismo o quantomeno alla critica frontale del regime di Stalin. Data dunque la natura dello scontro apertosi con l’appello rivolto da Rousset agli ex deportati, ne seguì una frattura che assurse, forse ancor più di quella sindacale, a simbolo della guerra fredda sul terreno della memoria e del discorso pubblico. Il resoconto di questi incontri di Bruxelles, durati fino al 26 dello stesso mese, fu pubblicato in un Livre Blanc che consolidò il paradigma totalitario a partire dal paralle- lismo tra regime concentrazionario sovietico e regime concentrazionario nazista. 94 Ancora una volta, più della coerenza interpretativa, valse la passione e la volontà di questi uomini, che si erano associati con l’obiettivo di porre l’opinione pubblica di fronte alla verità sui campi sovietici. La sessione di Bruxelles prese insomma la forma di un tribunale sui generis, composto da persone, le quali, pur non appartenendo in gran parte al mondo delle professioni forensi, esercitarono una funzione giudiziaria (in senso lato) in virtù della loro passata esperienza di prigionia. Fu detto che questa espe- rienza aveva resto gli ex prigionieri dei detentori esclusivi di una sorta di expertise concentrazionario, percepito come adatto per formulare un giu- dizio sui campi di tutti i regimi di tipo totalitario. Alfred-Serge Balachow- sky, presidente del tribunale ed ex deportato nei campi di Buchenwald e Dora, affermò in modo perentorio il significato di questo expertise su basi testimoniali: «siamo noi i veri esperti del regime concentrazionario, i soli qualificati per giudicare i campi di concentramento». 95 Nel rapporto preli- minare, svolto da Rousset, questo punto venne approfondito: Per la prima volta, uomini che hanno vissuto ad Auschwitz e a Buchenwald ascolteranno uomini che hanno vissuto alla Kolyma e a Magadan. Per la pri- ma volta uomini che hanno sofferto il mondo concentrazionario ascolteranno altre vittime del mondo concentrazionario. Per la prima volta, coloro i quali 94. Commission internationale contre le régime concentrationnaire, Livre blanc sur les camps de concentration soviétiques, Paris, Le Pavois, 1951. 95. Ivi, p. 11.
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sono stati degli schiavi ascolteranno degli altri che rivolgono le loro accuse contro i loro vecchi padroni. 96
Una commissione istruttoria, diretta da Elisabeth Dussauze, organizzò le fonti raccolte dalla CICRC, distinguendo tra «fonti di diritto» e «situa- zioni di fatto», intendendo con quest’ultime le testimonianze dei reduci dei campi sovietici. 97 A partire da questa distinzione, si possono cogliere gli aspetti salienti delle giornate di Bruxelles. La prima fu connessa al ricono- scimento della guerra come grande rivoluzione della conoscenza, a cui si è fatto più volte riferimento. Furono selezionate venticinque testimonianze con l’obiettivo di restituire il carattere globale dell’universo concentrazio- nario sovietico con le sue diversità nazionali (russi, ucraini, polacchi, tede- schi, bulgari e cechi), sociali (operai e tecnici, ma anche medici, professori, giornalisti e scrittori) e politiche (vecchi comunisti, oppositori interni, na- zionalisti, socialdemocratici, membri della gioventù comunista, stalinisti caduti in disgrazia). La rivoluzione della conoscenza portata dalla guerra permise inoltre di gettare lo sguardo su un periodo vastissimo, dal 1927 al 1949, indirizzando lo sguardo su tutte le grandi regioni concentrazionarie dalla Kolyma nell’Estremo Oriente a Karaganda in Asia centrale a Vorkuta nel Grande Nord e ai campi della Siberia e degli Urali. E permise altresì di distinguere tra colonie di adolescenti, isolatori, colonie di lavoro e campi di lavoro correttivo. 98 Nel suo rapporto giuridico, Bernard avanzò la tesi secondo cui lo stato so- vietico, diversamente dallo stato nazista, non si basava interamente sullo scarto tra apparato legale e procedure di urgenza. In altri termini, tesi come quella del «doppio stato», proposta da Ernst Fraenkel per il nazionalsocialismo, potevano adattarsi soltanto in parte al caso sovietico, perché l’universo concentraziona- 96. David Rousset, Rapport sur les camps de concentration soviétiques, in Id., La fraternité de nos ruines, p. 216. 97. La distinzione tra sources du droit e situations de fait si trova al centro del rappor- to redatto da Madame Ingrand, in Livre blanc, pp. 179-189. 98. Tra le carte di Rousset sono conservate le liste dei nominativi dei testimoni chia- mati a raccontare la propria esperienza di deportati nell’universo concentrazionario sovie- tico. La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, 68/5 Biographie des témoins au procès de Bruxelles. Tra essi si può almeno ricordare la vicenda di Anton/ Antoni Ekart, ebreo polacco, arrestato nel marzo 1940, deportato in un campo sovietico e liberato nel 1942. Fu arrestato nuovamente nel 1943, mentre cercava di raggiungere l’Ar- mata Anders. Le sue memorie furono pubblicate nel 1949 con il titolo Échappé de Russie. Le cauchemar des jours et des nuits, Paris, Hachette, 1949.
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rio edificato da Stalin era collocato non già ai margini, ma al centro dell’as- setto normativo, previsto da leggi, codici e regolamenti. 99 L’analisi puntuale del codice correttivo del 1933 (e di altre disposizioni che ampliarono già dal 1934 il potere dell’NKVD) mostrò dunque l’esistenza giuridica dell’universo concentrazionario, collegata a un sistema giudiziario dove le condanne veni- vano comminate sovente da organismi amministrativi. Il punto era dirimente, giacché, come affermò Rousset in un’altra pubblicazione della CICRC dello stesso anno, «stabilire che una tale procedura esista, significa stabilire che non esiste la libertà». 100 Complessivamente, la Commissione registrò un numero altissimo di procedure per via amministrativa, l’uso estensivo dell’articolo 58 del codice penale e una durata delle pene caratterizzata da continui elementi di incertezza. Queste osservazioni puntuali, specificatamente riferite al regime sovietico, sembrano mostrare che Rousset e i suoi amici maneggiassero con una certa elasticità il concetto di totalitarismo, cercando di cogliere le diversità del regime sovietico rispetto a quello nazista. 101 In realtà, l’assimilazione dei due regimi costituì una tentazione a cui questa giuria composta di ex deportati non seppe resistere. Nel «verdetto» si legge che: Il parallelo tra il regime dei campi russi e quello dei campi nazisti è evidente: lavoro di massa a beneficio di un’organizzazione di polizia che costituisce uno stato nello stato (Waffen SS e NKVD), detenzione arbitraria e mesco- lanza di categorie di detenuti, con la sottomissione dei politici alla legge co- mune, e la disumanizzazione morale e fisica degli individui. Pur non avendo rilevato nei campi sovietici esperimenti sui detenuti e stermini di massa come quelli praticati su ebrei e zingari, lo sterminio dei detenuti risulta, infatti, dal progressivo esaurimento dovuto a condizioni di lavoro disumane e alla fame. 102 99. Ernst Fraenkel, The Dual State. A Contribution to the Theory of Dictatorship, New York-London-Toronto, Oxford University Press, 2010 (I ed. 1941). 100. Commission internationale contre le régime concentrationnaire Les condition de la liberté en U.R.S.S.. Le rôle de la décision administrative dans la procédure soviétique, Paris, Le Pavois, 1951, p. 7. 101. Per rafforzare l’argomento, Rousset aggiunse: «Questa dimostrazione non è stata fatta dalle vittime del regime, ma dallo stesso governo sovietico attraverso le sue leggi, i suoi decreti e i suoi commentatori non ufficiali. Abbiamo appena pubblicato i documenti essenziali di questo dossier. Tutti possono essere controllati. I libri di legge sovietici sono disponibili nelle nostre biblioteche». Ivi, pp. 91-92. 102. Il verdetto si chiuse con l’affermazione che il tribunale «condanna davanti all’o- pinione pubblica universale i campi di concentramento sovietici, sopravvivenza mostruosa
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Come si è già rilevato, non mancano difficoltà interpretative in giudizi di questo tipo. Questi alfieri della memoria concentrazionaria non tenne- ro in conto il fatto che i tassi di mortalità nei campi sovietici, per quanto elevati in alcune fasi della loro storia, non potevano essere confrontati con l’ordine di grandezza dei tassi di mortalità dei centri di sterminio nazisti. Da questo punto di vista, si può affermare che l’idea stessa di un universo concentrazionario universale, con al suo interno alcune differenze secon- darie, poggiava in definitiva su basi poco solide. Giova dunque ribadire che un’intera stagione di impegno pubblico scontò errori interpretativi che necessariamente portarono con sé esagerazioni statistiche e viceversa. La polarizzazione interpretativa attorno alla funzione dei campi (mere istitu- zioni produttive/punitive versus complessi laboratori per la società futura) si accompagnò dunque a questa confusione provocata dalla sovrapposizio- ne tra campi di lavoro e centri di sterminio quale si è appena registrata nel «verdetto» della CICRC. Una confusione che espressioni quali «società concentrazionaria» e «universo concentrazionario», con tutta la loro in- dubbia capacità evocativa, non aiutarono certamente a sciogliere. Gli ex deportati della CICRC non furono gli unici a fare confronti impropri. Su questi è dunque opportuno soffermarsi. Gustaw Herling- Grudziński, cittadino polacco catturato dalla NKVD nel 1940, venne in- ternato in uno dei campi della provincia di Arcangelo. Liberato in seguito, prese parte all’epopea dell’Armata Anders combattendo a Montecassino. Tra i fondatori di «Kultura» nel dopoguerra, visse tra Roma e Londra fino a stabilirsi a Napoli dove sposò una figlia di Benedetto Croce. Strin- se rapporti con il gruppo di «Tempo presente», diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. 103 Se in Italia le memorie di Herling-Grudziński dovettero attendere il 1958, a causa della pressione del Pci affinché non venissero pubblicate, diversamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti uscirono nel 1951, con una prefazione di Bertrand Russell, nella quale era denunciata ancora una volta l’irresponsabilità dei compagni di strada del comunismo. 104 Il giudizio che Herling-Grudziński formulò sull’esperienza di un regime di schiavitù già condannato dalla storia […]». CICRC, Livre blanc sur les camps de concentration soviétiques, p. 174. A ribadire appunto la stretta parentela con il regime nazista. 103. Vedi Gustaw Herling e il suo mondo. La Storia, il coraggio civile e la libertà di scrivere, a cura di Andrea F. De Carlo e Marta Herling, Roma, Viella, 2022. 104. Russell parlò dei fellow travellers come di gente «priva di umanità, perché se avessero un po’ di umanità, non respingerebbero le prove, ma farebbero un sforzo per cer-
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che aveva vissuto nei campi di Stalin fu molto radicale: quel sistema non funzionava in base a criteri punitivi e produttivi, bensì mirava alla «disin- tegrazione completa della personalità» dei prigionieri. 105 Se era indubbio infatti che questi ultimi fossero oggetto di «sfruttamento economico», la logica complessiva del sistema era un’altra. Affermò in modo perentorio che: «adesso che ho letto qualche testimonianza sui campi di concentra- mento tedeschi, mi rendo conto che un trasferimento a Kolyma, nei campi di lavoro sovietici, era l’equivalente della “scelta per le camere a gas” dei tedeschi». 106 Era questa una posizione estrema, che non teneva certamente conto delle diversità presenti nei due universi concentrazionari, ma che nondimeno è importante perché ci restituisce, da un punto di vista sogget- tivo, tutta la tragicità di un’esperienza di oppressione al crepuscolo dell’era delle tirannie. L’endiadi totalitarismo-genocidio, come chiave per descrivere i campi sovietici come luogo di morte, si diffuse rapidamente in questi anni. An- che lasciando da parte per adesso le comunità polacche, ucraine e baltiche negli Stati Uniti e in Canada, verità sempre più terribili vennero alla luce all’inizio degli anni Cinquanta. Nuove testimonianze mostrarono con chia- rezza le metamorfosi compiute dal regime di Stalin nel corso degli anni Trenta, ma che a quel tempo non era stato possibile documentare. Celati dietro gli pseudonimi di Beck e Godin, Konstantin Shteppa, storico sovie- tico emigrato negli Stati Uniti (e più tardi autore di Russian Historians and the Soviet State), e Fritz Houtermans, fisico austriaco, scrissero di quegli anni tremendi. 107 Compagni di cella nel 1938, essi avevano potuto consta- tare che le prigioni sovietiche erano stracolme di gente con diversi livelli di istruzione, diverse professionalità e appartenenti a diverse nazionalità. 108 Tutti però erano accomunati dal fatto che in URSS non erano stati arrestati per aver commesso un reato, ma perché si rispondeva a «caratteristiche obiettive», facendo parte di una categoria sociale o nazionale invisa al regi- care di comprendere» in Gustaw Herling, A World Apart, New York, Roy Publishers, 1951 p. IX. 105. Cito dall’edizione italiana, Gustaw Herling, Un mondo a parte, Bari, Laterza, 1958, p. 97. 106. Ivi, p. 123. 107. F. Beck e W. Godin, Russian Purge and the Extraction of Confession, Lon- don-New York-Melbourne-Sydney-Cape Town, Hurst and Lackett Ltd., 1951 [trad. it. Con- fessioni e processi nella Russia sovietica, Firenze, La Nuova Italia, 1953]. 108. Ivi, p. 80.
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me. 109 Nella dimensione categoriale delle punizioni fu dunque tracciata dai due autori tutta la distanza che il regime sovietico aveva maturato rispetto all’Occidente giuridico, riemergendo così quella dimensione regressiva del potere sovietico che il riferimento insistito al moderno totalitarismo aveva alla fine dei conti eluso. Pensando alla sorte dei polacchi, dei coreani, dei bulgari e dei greci e, durante la guerra, dei tedeschi del Volga, dei Ceceni, dei Calmucchi e degli Ingusci, i due autori scrissero: Questa pratica di deportazione di massa obbligatoria di gruppi di popolazione autonomi, che era stata attuata nell’antichità dagli Assiri e dal Nuovo Impero Babilonese (la cattività babilonese degli Ebrei), era sconosciuta nell’antichità successiva e in tutta la storia medievale e moderna. È stato lasciato all’U- nione Sovietica il compito di farlo rivivere nei nostri tempi vinti nei rapporti con le popolazioni della sua frontiera occidentale e del confine coreano in Estremo Oriente. 110
Non si può pretendere in definitiva che il discorso sui campi sovietici fosse univoco, coerente nel suo disegno complessivo e, allo stesso tempo, capace di esercitare le dovute distinzioni. Non era allora il tempo della rifles- sione storiografica, ma della battaglia politica: la carica emotiva di espressio- ni quali totalitarismo, sistema di lavoro forzato e genocidio era troppo forte per potervi rinunciare nel corso di questa battaglia per la verità sui campi di Stalin. D’altro canto, come si è visto, se la sovrapposizione tra i lager so- vietici e i centri di sterminio nazisti fu una forzatura, nondimeno il carattere assassino di alcuni passaggi della storia del gulag non poteva essere dimenti- cato. Anche per queste ragioni, le giornate di Bruxelles ebbero una notevole copertura sulla stampa francese e su quella internazionale. Non mancarono gli attacchi, naturalmente. Su «Le Parisien libéré» apparve un articolo il 29 maggio 1951 che denunciò la «mascherata giuridico-politica» di Rousset e dei suoi amici, i quali avevano dato credito a testimoni che in realtà erano soltanto «rinnegati e avventurieri», spesso veri e propri «hitleriani». Dall’al- tra parte della barricata, «Le Figaro littéraire» salutò «la resistenza anonima dei campi» che era diventata oramai una «realtà internazionale». Negli Stati Uniti, se ne occupò con continuità il «New York Times». 111 109. Ivi, p. 87. 110. Ivi, p. 121. 111. Copie di questi giornali sono conservate in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 68, f. 6 Dossier de presse.
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In Italia, l’intera vicenda Rousset fu oggetto di un articolo che Garosci affidò al «Mondo», rivista con la quale egli collaborava con continuità. 112 Resta il fatto che nel nostro paese le cose avevano preso una piega assai diversa. Mentre infatti in Francia i socialisti sostenevano le iniziative di Rousset, in Italia Carlo Matteotti, figlio del martire antifascista, fu sospe- so dai suoi incarichi di partito (era un parlamentare del PSIUP) per aver pubblicato un libro nel quale era riprodotta la mappa dei campi sovietici. 113 Anche in questi episodi emerse tutta la divergenza dei due partiti socialisti: l’uno era diventato parte integrante di una «troisième force» a forte voca- zione occidentale, l’altro si era accomodato nella formula del frontismo guidato dal PCI. Quanto alla pubblicazione degli atti del processo, l’edito- re Pavois, per il quale Rousset aveva già pubblicato i suoi libri, s’impegnò a far uscire un Livre Blanc e, entro lo stesso 1951, altri lavori sul regime di Stalin. 114 Questa collaborazione editoriale affondava le radici nei trascorsi rapporti umani e politici tra Rousset e Maurice Nadeau, risalenti al tempo della Resistenza. All’interno della rete dei deportati che avevano aderito all’iniziativa di Rousset, operò dunque un nucleo di militanza politica pre- cedente, che un tempo si era richiamata al trockijsmo, e che adesso pro- seguiva la battaglia contro Stalin da un punto di vista nuovo, quello della difesa degli esseri umani dalla logica e dalle pratiche concentrazionarie. Il ruolo di primo piano svolto da Rosenthal, ex avvocato di Trockij, conferma questa osservazione. 115 Va ribadito che questa rete europea era oramai collegata a quella più vasta a carattere transatlantico, con importanti connotazioni non soltanto politiche, ma anche finanziarie. Il 27 febbraio Rousset scrisse a Lovestone, oramai inserito nei ruoli della CIA, per ringraziarlo del «grande sostegno materiale» grazie al quale era stato possibile dar corpo a un ufficio per 112. Aldo Garosci, Il caso di Rousset, in «Il Mondo», 5 (1951), p. 9. 113. Carlo Matteotti, Capitalismo e comunismo. Fatti e documentazioni al di là della polemica, Milano, Garzanti, 1951. Vedi Andrea Mariuzzo, «La Russia com’è». L’immagine critica dell’Unione sovietica e del blocco orientale nella pubblicistica italiana, in «Ricer- che di storia politica», 2 (2007), pp. 161-162. 114. Il lavoro sulla decisione amministrativa è Les conditions de la liberté en U.R.S.S., già ricordato alla nota 100. Completano il quadro di questi volumetti: Le crime politique en U.R.S.S., Paris, Pavois, 1951 e La condition ouvrière en U.R.S.S., Paris, Pavois, 1951. 115. Sulle reti e la relazioni di Rousset prima e durante la guerra si rimanda ancora a Rousset, Une vie dans le siècle.
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la pubblicazione dei lavori della CICRC. 116 L’indirizzario americano di Rousset, conservato tra le sue carte, mostra quanto questa rete politica e intellettuale fosse ramificata. La lista dei nomi dovrebbe essere integral- mente nota ai lettori di questo volume: Roger Baldwin, Józef Czapski, Da- vid Dallin, Albert Herling, Sidney Hook, Dwight Macdonald, Toni Sender, Norman Thomas e Sol Levitas. 117 E il ruolo avuto da alcuni tra questi fu davvero significativo. In una lettera a Levitas, risalente al 7 aprile 1950, Rousset aveva definito «New Leader» come il «nostro miglior punto di appoggio negli Stati Uniti» assieme all’AFL. Tra gli animatori di «New Leader», Dallin era ritenuto da Rousset la figura più importante per le competenze e per il lavoro svolto fino ad allora. Proprio a Dallin infatti si era rivolto Rousset, cercando di coinvolgerlo nell’iniziativa sull’univer- so concentrazionario sovietico culminata nelle giornate di Bruxelles. 118 In una missiva inviata all’autore di Forced Labor in Soviet Union, Rousset espresse parole di grande ammirazione: «La qualità del suo lavoro, le in- dagini che lei stesso ha già fatto, il gran numero di contatti che ha avuto con la gente nei campi sovietici, fanno di lei un testimone indiretto senza dubbio, ma prezioso». 119 Dallin accordò il suo favore, inviando documenti e testimonianze in suo possesso. Riepilogando, si è analizzato in questo paragrafo due forme di interven- to: il primo volto a «conoscere il nemico», il secondo ad arrestare la fascina- zione per il mondo sovietico all’interno del mondo del lavoro e nell’opinione pubblica occidentali. Si è registrato così l’esistenza di diverse forme organiz- zative, approcci e finalità, ma tutto sommato tutte riconducibili alla grande mobilitazione contro il comunismo globale. Gli attori stessi (dai sindacati ai 116. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Irving Brown Files 1943-1989, RG 18-004, b. 12, f. 16 Commission Internationale contre la [sic] regime concentrationnaire 1950-1960. 117. Ibidem. 118. E Dallin preparò un accuratissimo dossier che conteneva il percorso concentra- zionario di 66 ex prigionieri, organizzato per voci: nome, età, gruppo sociale, mestiere e appartenenza politica, data di arresto, e infine la dimensione della sentenza: pronunciata da chi, quanto lunga, sulla base di quali accuse, raggiunta in contumacia oppure presente l’accusato. Infine, la destinazione: nome del campo, durata della permanenza, quale lavo- ro, quantità nutrizionali giornaliere, come e quando era avvenuta la liberazione. La Con- temporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, 68, f. 4 Procès de Bruxelles (témoins), sf. Serie DP. 119. La lettera è conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F Delta 1880, b. 61, f. 2, sf. 2 Corresp. Américaine.
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reduci dei campi di Hitler, dagli intellettuali ai funzionari di governo) lavo- rarono per obiettivi comuni. Si è però anche visto nel corso della narrazione che questo variegato impegno lasciò intravedere difficoltà di tipo concettuale che non è stato possibile sottovalutare. Innanzi tutto, la categoria stessa di totalitarismo applicata al regime sovietico scricchiolò di fronte al racconto dei profughi sovietici in Germania, i quali descrissero uno scontro tra stato e società, che di per sé rimandava ben poco al totalitarismo, se quest’ultimo doveva indicare un misto di ferocia e consenso. In quelle interviste, infatti, il secondo termine fu pressoché assente. Un’altra criticità emerse dalla disa- mina di questo impegno: da una troppo rigida acquisizione dell’espressione totalitarismo, si finì per sovrapporre completamente o quasi (fu il caso di Rousset e dei suoi amici) l’immagine dei campi sovietici a quella dei cen- tri di sterminio nazisti, i quali invece – adesso lo sappiamo – costituirono un’istituzione specifica distinta dalle istituzioni di carattere concentraziona- rio. Per comprendere oggi le ragioni di questa confusione dobbiamo far rife- rimento al clima della prima guerra fredda con le sue specifiche coordinate culturali e ideologiche. 4. Progressismo su scala globale. Il primo Comitato ad hoc contro il lavoro forzato In questo paragrafo è presentata la vicenda del primo Comitato gine- vrino contro il lavoro forzato, muovendo dall’assunto che esso acquisì fin dai primi passi il linguaggio della guerra fredda, con al centro le categorie di totalitarismo e di sistema di lavoro forzato. Prima di entrare in medias res, è utile svolgere alcune considerazioni generali. Tra la seconda metà del 1951 e la prima metà del 1953, il suddetto Comitato raccolse e sele- zionò il materiale necessario per dare fondamento empirico e concettuale alla nuova Convenzione contro il lavoro forzato. Il Comitato costituì uno dei tasselli della macchina della guerra fredda culturale in Occidente, alla quale fu affidato l’obiettivo di consolidare, attraverso l’imprimatur degli organismi internazionali, la contrapposizione tra mondo del lavoro libero e mondo del lavoro forzato a livello ideologico globale. Come vedremo, la stessa composizione del Comitato, formato da esponenti della decolo- nizzazione, della cultura del progresso latino-americana e della tradizione giuridica europea rispose al criterio di mobilitare, a fianco degli Stati Uniti, le forze del progressismo su scala globale.
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Essendo il lavoro forzato una realtà complessa, ancora in vita in alcuni contesti coloniali e trovando posto nelle politiche produttive e punitive di regimi autoritari vicini agli Stati Uniti, c’era bisogno di attuare distinzioni efficaci. Da questo punto di vista l’endiadi totalitarismo-sistema di lavoro forzato servì per costituire una contrapposizione funzionale alla conduzio- ne della guerra fredda culturale: da un lato, esistevano i sistemi di lavoro forzato costruiti dagli stati socialisti, collocati al crocevia tra istanze puniti- ve e produttive, dosate dalla polizia politica in forme non dissimili rispetto a quelle del passato regime nazista; dall’altro, c’era la sopravvivenza del lavoro forzato in specifici luoghi e situazioni, dove esso appariva una pra- tica odiosa, ma non espressione di una logica di sistema. In questi luoghi e in queste situazioni, esso era insomma riconducibile a persistenti pratiche e ideologie autoritarie, ma non totalitarie. 120 Ma vediamo i fatti, tornando alla fine del 1950. Il 28 dicembre il se- gretario generale delle Nazioni Unite inviò ai membri dell’ECOSOC, im- pegnati nei lavori della XII sessione, un Report dal titolo Forced Labor and Measures for Its Abolition nel quale erano ripercorsi i progressi svolti a partire dal marzo 1949, allorquando era stata votata la risoluzione n. 195, con la quale si era dato inizio all’inchiesta sul lavoro forzato. 121 Le proce- dure previste incaricavano gli uffici del Segretario generale di raccoglie- re le adesioni dei governi e registrare i rifiuti. La concettualizzazione del lavoro forzato come «sistema», connesso alla repressione politica e alla sfera della produzione industriale, spinse naturalmente i regimi di tipo so- vietico a rifiutare ogni possibile collaborazione. A giudicare dall’indirizzo impresso da David A. Morse, ex sottosegretario al Lavoro nell’ammini- strazione Truman, e dal 1948 nuovo direttore dell’ILO, non sorprende che i rappresentanti del mondo sovietico non aderissero, giacché sin dalle sue 120. Daniel Maul, Human Rights, Development and Decolonization. The Interna- tional Labour Organization, 1940-70, New York, Palgrave-Macmillan, 2012. Una chiara distinzione concettuale tra autoritarismo e totalitarismo fu elaborata più tardi, nel 1975, da Juan J. Linz, Sistemi totalitari e regimi autoritari. Un’analisi storico-comparativa, introdu- zione di Alessandro Campi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. 121. Il documento si trova in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, FLC, 1-1-1, Ad Hoc Committee on Forced Labour – Setting Up Composition of Committee and Secre- tariat, Forced Labour and measures for its abolition. Report by the Secretary-General, E/1885 28 dicembre 1950. Si dava inoltre conto delle informazioni fornite dagli stessi governi circa l’esistenza o meno del lavoro forzato nei territori da essi governati. Ivi, pp. 17 sgg.
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prime mosse l’iniziativa aveva un sapore marcatamente antisovietico. 122 L’antisovietismo peraltro non rassicurò neppure quei paesi occidentali che governavano territori coloniali. Ancor più forte fu la diffidenza dei regimi autoritari o segregazionisti. Si ricorderà l’ostilità che il Portogallo aveva mostrato in occasione della prima Convenzione del 1930. Adesso, funzio- nari del Dipartimento di Stato statunitense lamentarono che l’inviato fran- cese all’ECOSOC stava «facendo ogni sforzo possibile per screditare la posizione statunitense sul lavoro forzato». 123 Persino alcuni rappresentanti del laburismo britannico apparvero preoccupati dei «pericoli di questo tipo di inchiesta». 124 La grande difficoltà della strategia globale statunitense era dunque quella di consolidare il quadro della guerra fredda, coinvolgendo vecchi imperi non sempre a proprio agio con la logica politica e le rappre- sentazioni prodotte a Washington. 125 La strada era comunque tracciata grazie al grande accordo transnazio- nale che coinvolse partiti, associazioni non governative, sindacati, funzio- nari governativi ed esperti di diritto internazionale. Nel corso della sessio- ne dell’ECOSOC, tenutasi a Santiago del Cile nei primi mesi del 1951, fu votata una risoluzione (la n. 350 del 19 marzo) nella quale l’ILO fu invitata a collaborare alla formazione di «un comitato ad hoc sul lavoro forzato». La risoluzione registrò la necessità di: studiare la natura e la portata del problema sollevato dall’esistenza nel mondo di sistemi di lavoro forzato o «correttivo», utilizzati come mezzo di coerci- zione politica o di punizione per avere o esprimere opinioni politiche, e che sono su una scala tale da costituire un elemento importante nell’economia di un determinato paese, esaminando i testi delle leggi e dei regolamenti e la loro applicazione alla luce dei principi sopra menzionati e, se il Comitato lo ritiene opportuno, prendendo in considerazione ulteriori elementi di prova. 126 122. Su Morse, vedi Daniel Roger Maul, The «Morse Years»: The ILO 1948-1970, in ILO Histories. Essays on the International Labour Organization and Its Impact on the World During the Twentieth Century, a cura di Jasmien Van Daele e altri, Bern-New York, Peter Lang, 2010. pp. 365-400. 123. Maul, Human Rights, Development and Decolonization, p. 205. 124. Ivi, p. 203. 125. Si rimanda qui alla riflessione di Mark Mazower, No Enchanted Palace. The End of Empire and the Ideological Origins of the United Nations, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2009; e Id., Governing the World. 126. APPENDIX I: Historical Survey of International Action Concerning Forced La- bour, in United Nations – International Labour Office, Report of the ad hoc Committee on forced Labour, Lausanne, Imprimeries réunies S.A., 1953, p. 155.
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L’obiettivo era evidentemente ritagliato sugli stati di tipo sovietico e non sulle persistenze di forme coercitive del lavoro nei vecchi imperi oc- cidentali. Su queste basi si realizzò un’osmosi pressoché totale tra sinda- calismo internazionale e governo statunitense. Il 2 marzo Sender, divenuta rappresentante dell’ICFTU all’ECOSOC, mise a fuoco le sfide che il mon- do del lavoro stava affrontando nel contesto di una rapida militarizzazione della guerra fredda al tempo della guerra di Corea. Ammise che anche in Occidente «il passaggio dall’industria civile e quella difensiva potrebbe richiedere un alto grado di mobilità del lavoro». Aggiunse tuttavia con fi- ducia che «i paesi democratici faranno però di tutto per evitare un sistema di controlli obbligatori sulla manodopera». Sender marcò così la distanza che, militarizzazione della vita civile a parte, sarebbe comunque rimasta invariata tra democrazie liberali e sistemi totalitari. 127 Questo schema binario fu utilizzato il 15 marzo successivo da Walter Kotschnig, vice rappresentante degli Stati Uniti presso l’ECOSOC. Kotsch- nig, ex cittadino austriaco, era stato dal 1927 segretario dello International Student Service. Antifascista e antinazista, emigrò negli Stati Uniti nel 1936. Nel 1944, oramai cittadino americano, intraprese una carriera di funzionario governativo come specialista di questioni internazionali. Partecipò alle con- ferenze di Dumbarton Oaks nel 1944 e San Francisco nel 1945, contribuendo alla formazione delle Nazioni Unite. Ebbe altresì un ruolo di primo piano nelle conferenze preparatorie per la formazione dell’ECOSOC. Come rap- presentante statunitense, Kotschnig partecipò alle attività del Consiglio per decenni. 128 Il discorso che tenne il 15 marzo 1951 a Santiago del Cile mosse dalla constatazione che il regime sovietico doveva essere considerato, assie- me al nazismo, un «disastro totalitario». E aggiunse: «esistono poche realtà così brutte come i campi di concentramento che sono gli strumenti sia della dittatura fascista sia della dittatura comunista». 129 Kotschnig non prese posi- 127. Questo documento è conservato in The George Meany Memorial Archives, AFL- CIO Records, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 58, f. 11 Sender Toni, 1951. 128. In mancanza di un lavoro di sintesi su questa importante figura, si faccia riferi- mento alla nota biografica che accompagna il suo archivio: Walter Maria Kotschnig Papers 1920-1984, conservato presso University at Albany, State University of New York (https:// archives.albany.edu/description/catalog/ger053). 129. Il discorso è conservato in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 3, b. 48. Documents transmitted by the United States: Walter Kotschnig, Forced Labor, Press Release 1159, Santiago, Chile, 15 marzo 1951, p. 2.
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zione sulla vexata questio del numero dei prigionieri, limitandosi a registrare che le stime oscillavano dai 2 ai 20 milioni. 130 Inoltre, per quanto riguardava le fonti, non insistette tanto sull’appa- rato normativo, quanto sul «piano sovietico per il 1941», ritrovato in Ger- mania dopo la guerra. Esso, affermò Kotschnig, «presenta i dati ufficiali sul contributo del lavoro forzato alle attività economiche dell’URSS come previsto per il 1941». A suo giudizio, questo documento era quello mag- giormente «incriminante […] nelle mani del governo degli Stati Uniti». Da esso infatti risultava l’enorme finanziamento che lo stato riservava alle imprese targate NKVD (costruzioni, canali, ferrovie, industria del legno ecc.), le quali erano basate massicciamente sull’impiego del lavoro for- zato. Tra gli sfortunati abitanti dei campi furono ricordati da Kotschnig i «lavoratori del Dal’stroj» per la crudeltà delle condizioni in cui versa- vano 131 . Il giorno successivo Sender scrisse a Lovestone, rassicurandolo sull’andamento positivo dei lavori del Consiglio: «Siamo stati molto attivi in questa sessione e l’esito per l’Est non è stato positivo. Erano completa- mente sulla difensiva […] Il lavoro forzato è ancora in discussione mentre ti sto scrivendo». 132 I mesi successivi furono dedicati a consolidare il percorso che avrebbe portato nel giugno alla costituzione del Comitato ad hoc. Il 27 il segre- tario generale delle Nazioni Unite congiuntamente al segretario dell’ILO annunciò la costituzione di suddetto comitato, nominandone i membri. Il ruolo di presidente fu affidato a Ramasamy Mudaliar, figura di spicco della classe dirigente indiana, il quale aveva rivestito importanti incarichi già nel gabinetto di guerra presieduto da Winston Churchill. Nel 1946 divenne presidente dell’ECOSOC, svolgendo subito dopo un ruolo di primo piano nella transizione verso l’indipendenza del suo paese. Paal Berg era un av- vocato e giurista norvegese d’ispirazione liberale. Era stato membro della Corte costituzionale del suo paese e, secondo alcuni, leader segreto della Resistenza contro Hitler a Oslo. Possedeva una grande competenza giu- ridica sui temi del lavoro che gli valse una partecipazione di primo piano nella gestione delle controversie sindacali nella Norvegia del dopoguerra. 130. Ivi, pp. 3-4. 131. Ivi, p. 5. 132. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 58, f. 11 Sender Toni, 1951.
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Félix Fulgencio Palavicini fu il terzo membro del Comitato. Politico, di- plomatico e giornalista messicano di idee progressiste, Palavicini aveva una lunga storia alle spalle, iniziata con la partecipazione alla rivoluzione messicana. Fu uno dei disegnatori della Costituzione del 1917, la cui storia raccontò in due importanti volumi. Da sempre, egli si dedicò alle questioni sociali dalla cura dell’infanzia alla salute pubblica fino ai problemi dell’i- struzione. Deceduto nel febbraio 1952, lasciò il posto a Enrique García Sayán, un diplomatico peruviano. Completò il quadro Alexandre Salkin, il quale assunse l’incarico di segretario del Comitato. Giurista belga, era stato avvocato presso la Corte d’appello del suo paese fino al 1940. Anti- nazista, emigrò proprio quell’anno negli Stati Uniti. Il suo expertise gli era valso un posto come consigliere giuridico della missione economica belga a Washington. 133 In quanto direttore dell’ILO, Morse espresse grande soddisfazione per queste nomine, aumentata dal fatto che Mudaliar aveva mostrato ini- zialmente molte perplessità, poi superate, ad accettare l’incarico. 134 Morse ribadì il proprio stato d’animo più volte negli anni successivi. In una mis- siva del novembre 1953, indirizzata a George Delaney, Morse scrisse che Mudaliar e gli altri erano uomini di «altissimo livello e reputazione», in grado di garantire «l’indipendenza necessaria per rendere possibile un esa- me dell’intera questione completamente imparziale e obiettivo». 135 Il livel- lo e la reputazione di queste figure erano indubbiamente elevati. Soprattut- to, però, le nomine erano riconducibili a una logica politica complessiva che andò ben oltre le competenze nel senso che ciascuna di queste figure era stata scelta per i princìpi da essa incarnati. Rappresentando le forze moderne dell’America latina, la tradizione giuridica e resistenziale euro- pea e il mondo della decolonizzazione, i membri del comitato espressero 133. Per queste informazioni, vedi ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Forced Labour Commission, 1-1-1, Ad Hoc Committee on Forced Labour – Setting Up Compo- sition of Committee and Secretariat e 1-1-2, Ad Hoc Committee on Forced Labour – Staff Candidatures. 134. Mudaliar confidò a Morse, in una lettera del 5 giugno 1951, di aver avuto «qual- che esitazione ad accettare un incarico che, per dirla senza mezzi termini, non è di quelli facili». La lettera si trova in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Forced Labour Com- mission, 1-1-1, Ad Hoc Committee on Forced Labour – Setting Up Composition of Com- mittee and Secretariat. 135. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Staff Files; George Delaney’s files 1921-1957, b. 12, f. 18, General Assembly Sixth 1951-1952.
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al meglio il desiderio statunitense di coinvolgere le forze progressiste a livello globale nella guerra fredda culturale contro il regime di Stalin. In definitiva, non vi possono essere dubbi sul fatto che il motore dell’indagine sul lavoro forzato si trovasse a Washington negli uffici del Dipartimento di Stato. A questo proposito, basti pensare alla circolazione delle interviste raccolte dagli ufficiali dell’Armata Anders. In una lettera indirizzata a Mudaliar, Józef Lipski, ex ambasciatore polacco a Washington, scrisse che la «collezione di documenti […] scritti da cittadini polacchi deportati nei campi di lavoro forzato in Unione sovietica, sono stati messi a disposizione del Comitato attraverso l’intermediazione del Dipartimento di Stato». E lo stesso Dipartimento di Stato mise a disposizione di Mudaliar e dei suoi colleghi una varietà di documenti sia di tipo giuridico sia di tipo testimo- niale, dopo averli raccolti in un Red Paper on Forced Labor, curato dallo United States Information Service. 136 Il riferimento costante in questo do- cumento al lavoro forzato come parte del «sistema legale sovietico» trovò una perfetta corrispondenza nei criteri di indagine stabiliti dalla risoluzione che aveva istituito il Comitato ad hoc. Il Dipartimento di Stato inoltre com- missionò all’International Public Opinion Research uno studio sui campi sovietici, sulla base di interviste a ex prigionieri (circa duecento), riprodu- cendo in questo modo il modello delle interviste svolte dai ricercatori di Harvard. 137 Scorrendo l’indice di questo lavoro, inviato a Ginevra come il summenzionato Red Paper, 138 colpisce che i diversi momenti del sistema repressivo sovietico fossero oramai codificati in un discorso che andava dagli arresti arbitrari, vero e proprio incipit della sospensione sine die dello stato di diritto, alle deportazioni di massa fino alla vita e al lavoro forzato nei campi. Sugli arresti arbitrari, il testimone n. 19 raccontò di esser stato cattu- rato e a lungo detenuto come agitatore antisovietico sulla base di una dela- zione in merito ad alcuni suoi commenti in privato su Stalin. Dichiarò che: 136. Questo voluminoso fascicolo si trova in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 1, b. 13, Red Paper on Forced Labor. 137. Questo lavoro è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5158, File 861069/9-2552 Restricted. Security Information, A Summary of Interviews with Former Inmates of Soviet Labor Camps. 138. ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 3, b. 54 Special report. Soviet Labor Camps Study, Prepared for the US Department of State by International Public Opinion Research Inc.
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Circa 5-7 giorni prima del mio arresto, due amici vennero a trovarmi di sera. Uno di loro era membro dell’organizzazione giovanile comunista. Sul tavolo c’era una rivista con il ritratto di Stalin. Non so come avvenne, ma comin- ciammo tutti a ridere di lui. E alla fine macchiai il ritratto con l’inchiostro con una frase che diceva: «a causa sua non abbiamo più una vita». Lo feci perché il mio cuore ribolliva delle sofferenze che avevamo patito. Odiavo Stalin e la sua politica. Il membro della gioventù comunista mi denunciò alla NKVD. 139
Se nella società sovietica dunque vigeva sospetto, odio e rischio co- stante di essere denunciati da amici o familiari, dentro le carceri prese cor- po, al tempo del Grande terrore, una brutalità senza confronti. Il testimone n. 39 dichiarò che: Fui messo in una cella dove si trovava il cadavere di una persona fucilata con un colpo alla testa. La luce nella cella tremava in continuazione. Veniva acce- sa e spenta per far sì che l’improvvisa vista del cadavere mi facesse perdere l’autocontrollo. 140
L’obiettivo di questo metodo era naturalmente quello di ottenere ra- pidamente confessioni che completavano la prima fase delle sofferenze dell’accusato, il quale veniva alla fine condannato o rimesso in circolazio- ne come spia. A questo proposito, sono impressionanti i dati riguardanti la dimensione processuale di quel tempo. Tra gli intervistati, 65 erano stati processati dalla NKVD, 22 da giudici pubblici, 5 da corti militari, 12 non avevano avuto processo, mentre i restanti ne avevano avuto uno, ma non riferirono elementi più precisi. I dati concernenti la notifica della sentenza e l’invio nei campi di lavoro completarono il quadro di uno stato, il cui uni- co principio era la sicurezza del regime guidato da Stalin. Questo regime di polizia dunque era d’appoggio al sistema burocratico-militare che deportò milioni di persone in luoghi remoti. Il quadro ricostruito dai deportati non variava mai nella sostanza: sorveglianza asfissiante dei vagoni, occulta- mento dei prigionieri nelle stazioni di transito, sovraffollamento, pessime condizioni igieniche, scarsa alimentazione e idratazione insufficiente. Un inferno, destinato a protrarsi per giorni e giorni. Tralasciando le sofferenze patite durante il tragitto, il testimone 94 ricostruì il suo viaggio di deportato verso l’Estremo Oriente: 139. NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5158, File 861069/9-2552 Restricted. Security Information, A Sum- mary of Interviews with Former Inmates of Soviet Labor Camps, p. 25. 140. Ivi, p. 37.
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Viaggiammo sul treno per Vladivostok per 13 giorni. Trascorremmo quattro mesi laggiù e poi fummo diretti a Magadan via nave. Lì si trovano i campi di transito. Trascorsi un mese laggiù e successivamente fui spedito in un campo a 15 km da Magadan. 141
Gli intervistati parlarono molto della vita dei campi. E tutti i racconti tesero a descrivere la stessa situazione: criminali come guardie dei cam- pi, filo spinato dappertutto, torrette di guardia incombenti e routine delle brigate del lavoro, costrette a uscire tutti i giorni nelle miniere, a tagliar legname o costruire strade e ferrovie. Dalle interviste emerse che il sistema delle categorie dei prigionieri era composto da criminali comuni, politici (art. 58 del codice penale) e una enorme quantità di «civil offenders», ossia persone arrivate tardi al lavoro, piccoli grassatori della pubblica ammini- strazione e kolchoziani accusati di aver rubato beni dello stato. Quanto al cibo, la stragrande maggioranza degli intervistati rammentò ovviamente la «norma», illustrando il carattere perverso della relazione vigente nei cam- pi tra alimentazione e lavoro. Per la stragrande parte degli intervistati il vestiario era inadeguato per le condizioni climatiche in cui essi si erano trovati: i vestiti non erano sufficientemente caldi (o freschi), essendo sem- mai stracciati e sporchi. Quanto ai dormitori, le condizioni furono descritte come raccapriccianti: affollamento, freddo, assenza di ventilazione, sporci- zia e infestazioni. Infine, le cure mediche erano scarse, con medici improv- visati, privi di strumenti e medicine, ma con il potere di mandare un essere umano nei campi della morte. Così il testimone 103 parlò dei malati gravi e di coloro i quali non erano in grado di svolgere lavori pesanti: C’erano tre categorie di malati. Se il dottore firma un certificato di terza ca- tegoria per un invalido, egli veniva trasferito in un campo speciale dove an- dava a morire […] La gente non lavorava laggiù. Vi erano mandati a morire. Siccome non lavoravano, mangiavano meno. Erano malati e morivano più facilmente. Questi erano i campi speciali per gli invalidi. Non c’era pratica- mente niente da mangiare. I prigionieri erano colpiti con bastoni per far sì che camminassero durante gli esercizi. 142
A riprova del fatto che la spinta fondamentale dell’indagine proveniva dagli Stati Uniti, la AFL fu l’organizzazione non governativa che più di ogni altra mise a disposizione del Comitato ad hoc documenti sul lavoro 141. Ivi, p. 49. 142. Ivi, p. 66.
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forzato sovietico. Il 25 giugno 1952 Woll fu ascoltato dai membri del Co- mitato. La tesi espressa mostrò una radicalizzazione ulteriore rispetto alle posizioni espresse in precedenza. Al tema dello sfruttamento di tipo schia- vistico, fu accostato quello dello «sterminio» degli oppositori politici at- traverso il lavoro. Woll affermò che «la parola sterminio non poteva essere considerata un’esagerazione perché i tassi di mortalità nei campi di lavoro sovietici sono notoriamente molto elevati». 143 Tra i materiali consegnati al Comitato, c’era la mappa dei campi (già resa pubblica come sappiamo nel settembre 1951), la testimonianza di un colonello dell’Armata Rossa, documenti sul lavoro femminile alla Kolyma e sulle condizioni di salute in diverse aree concentrazionarie, testimonianze di ex prigionieri tedeschi e giapponesi e infine documenti sul massacro della Vorkuta nel 1937. L’AFL consegnò infine materiali concernenti la Cina di Mao: mappe, documenti sul lavoro forzato nel settore delle costruzioni e nelle carceri di Pechino. Infine, non mancarono in questo dossier testimonianze sul lavoro forzato in Europa orientale (con particolare riferimento a Ungheria e Polonia) 144 . Anche la ICFTU, in questa fase fortemente identificata con le istanze della AFL, offrì al Comitato un notevole contributo documentario, invian- do i materiali che erano serviti a Sender nella preparazione dei suoi inter- venti all’ECOSOC. Spiccano nel lungo elenco inviato a Ginevra nel luglio 1951 le pubblicazioni dell’AFL, un pamphlet di Dallin dal titolo The Eco- nomics of Slave Labour e uno di Nicolae Rădescu, dal titolo Forced La- bor in Romania. Vi erano anche brochures concernenti le persecuzioni in Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi dell’Europa orientale, testimonianze di ex detenuti nei campi sovietici e di ex lavoratori forzati nelle miniere di uranio in Germania e Cecoslovacchia, norme e regolamenti dei campi del- la zona concentrazionaria di Uchta Pečora, corrispondenze diplomatiche tra governo sovietico e governo polacco in esilio a proposito di prigionie- ri polacchi, fotografie degli antifascisti spagnoli imprigionati nel sistema concentrazionario di Karaganda e infine un notevole corpo di lettere di sopravvissuti all’esperienza dei campi sovietici. 145 Tra altre associazioni 143. La lettera è conservata in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Re- cords, International Affairs Dept., Jay Lovestone Files 1939-1974, RG 18-003, b. 59, f. 2 Slave labour 1953. 144. L’elenco dei materiali ibidem. 145. Questa documentazione è conservata in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 3, b. 49 Documents transmitted by the International Confederation of free trade Unions.
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non governative un ruolo importante fu svolto dalla CICRC di Rousset, la cui attività di indagine sugli universi concentrazionari, come sappiamo, era stata seguita costantemente a Washington grazie alle informazioni che Lovestone riceveva da Irving Brown. Scrivendo a Mudaliar il 14 marzo 1952, George André, presidente della CICRC, definì i membri della pro- pria associazione come gli «esperti più qualificati». 146 La tradizione dell’umanitarismo libertario fu mobilitata in questa rac- colta di documenti. Un ruolo significativo fu svolto dalla International League for The Rights of Man, presieduta da Roger Baldwin. Questa associazione inviò un Memorandum on Forced Labor che documentava l’esistenza di campi di lavoro forzato in Albania, Bulgaria, Ungheria, Po- lonia, Cecoslovacchia e nel Baltico. 147 L’organizzazione era nata a New York nel 1942, con l’obiettivo di prendere il testimone della Ligue des droits de l’homme, la cui attività era cessata in Francia nel 1940. Abbiamo già incontrato nel primo capitolo la figura di Baldwin, critico delle poli- tiche repressive del regime di Lenin e di Stalin, ma a lungo convinto del carattere progressista del progetto sociale comunista. Le sue idee erano cambiate radicalmente a partire dal 1939. Si avvicinò allora al Committee for Cultural Freedom di Dewey e Hook, convintosi che la distinzione tra regimi fascisti e regime sovietico fosse meno rilevante della loro somi- glianza in quanto regimi di tipo totalitario. 148 Nel 1949 Baldwin abbando- nò la presidenza dell’American Civil Liberties Union, continuando però a battersi per i diritti umani nel suo paese e nel mondo. 149 Fu proprio la sua storia di vecchio libertario a renderlo utile alle strategie della guerra fred- da. Ispirato alla teoria del totalitarismo, A New Slavery uscì nel giugno di quest’anno. Baldwin vi raccolse buona parte della documentazione che 146. La lettera è conservata in Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 2, Commission Internationale contre le régime concentrationnaire. 147. Nel memorandum era presente una lista dei campi di concentramento e di lavoro, le descrizioni dei crimini e delle leggi sotto le quali le sentenze venivano emesse; la natura del lavoro nei campi «e la relazione con i fini economici individuati dallo stato in questio- ne»; l’analisi dettagliata delle fotografie ufficiali, che pur volendo mostrare «il lavoro libero in esecuzione», in realtà, se guardate attentamente, mostravano «dei lavoratori forzati che realizzavano i compiti loro affidati»; infine una serie di mappe localizzò l’ubicazione dei campi di questi paesi. Si veda questa documentazione in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 2, International League for The Rights of Man. 148. Cottrell, Roger Nash Baldwin, p. 265. 149. Ivi, pp. 325 sgg.
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la International League aveva raccolto a favore del Comitato ad hoc. 150 Adolf Berle Jr, ex membro di punta del brain trust di Roosevelt, scrisse l’introduzione e funzionari del Dipartimento di Stato promisero di acqui- stare un certo numero di copie. 151 Come abbiamo più volte ricordato, Dallin rappresentò un punto di ri- ferimento per il Dipartimento di Stato, i cui uffici egli frequentava con assi- duità. Dallin dette il suo contributo al Comitato, inviando materiali e rifles- sioni relative agli anni post-bellici, muovendo dall’assunto che il sistema dei campi sovietici fosse profondamente cambiato dopo la guerra. La po- polazione dei campi era adesso composta da gente proveniente dalle aree occupate dai tedeschi durante la guerra e dunque accusata di essersi com- portata in modo sleale verso il potere sovietico; da prigionieri e lavoratori forzati tornati dalla Germania e ritenuti inaffidabili; infine da quei cittadini sovietici incappati nella «crescente severità punitiva per la violazione della proprietà di stato». Ai precisi riferimenti normativi (ad esempio, il decreto del giugno 1947 sui furti) fece però riscontro la consueta esagerazione di Dallin intorno alla cifra complessiva dei detenuti nei campi sovietici. Lo scrittore menscevico fece riferimento al piano sovietico per il 1941, già citato da Kotschnig, ritenendolo sì un documento utile, ma che tuttavia era da considerarsi una «fonte di malintesi ed errori per quanto riguardava la misura dei battaglioni di lavoratori forzati in Russia». Dallin continuò così la sua battaglia sulle cifre dei prigionieri dei campi. 152 Spostandoci in Europa, l’International Committee of Free Jurists, nata a Berlino ovest nel 1952, parlò il linguaggio del totalitarismo in un volume pubblicato con il sostegno del ministero degli Affari pantedeschi della Re- pubblica federale. 153 Raccogliendo le deposizioni di gente riuscita a scap- pare a Berlino ovest, i responsabili dell’inchiesta ricostruirono un quadro 150. Roger N. Baldwin, A New Slavery. Forced Labor. The Communist Betrayal of Human Rights, New York, Oceana Publications, 1953. 151. Cottrell, Roger Nash Baldwin, p. 335. 152. Dallin continuava a ritenere che tra campi e colonie si trovassero tra i 10 e 14 milioni di persone. Si veda ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 2, David Dallin 153. International Commission of Jurists, Injustice as a system. Documents on sy- stematic infractions of the law in the Soviet Zone of Occupation, Ministry for All German Affairs, 1952. Il volume è conservato tra le carte della Commissione di Mudaliar, vedi ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 6, 75, Material Submitted by the Committee of Free Jurists.
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impressionante della sovietizzazione delle regioni della Germania orienta- le: arresti arbitrari, rapimenti, assenza di avvisi di garanzia, processi senza giudice, cioè gestiti da funzionari di polizia, e infine assenza delle minime garanzie della difesa. Spiccavano in questo studio le «sentenze ammini- strative e senza prova di colpevolezza» con le quali si era inviato migliaia di persone ai lavori forzati nelle miniere di uranio. Interessanti furono an- che altri capitoli, nei quali si trattò delle espropriazioni attraverso «mezzi legali», delle manipolazioni e dei brogli elettorali, dell’assenza di libertà di associazione, della censura sulla stampa, delle restrizioni alla libertà di movimento e della continua interferenza nella vita privata dei cittadini. Il vario mondo delle organizzazioni di esuli dell’Europa orientale, di- slocato tra Stoccolma, Londra e New York, partecipò in prima linea allo sforzo statunitense di indirizzare il Comitato ad hoc ginevrino in senso antisovietico. È importante sottolineare la specificità di questa documen- tazione raccolta con l’intento di mostrare al mondo che, al di là del lavoro forzato, le politiche repressive sovietiche in questi paesi avevano implica- zioni ancor più radicali. La questione che si cercò di mettere a fuoco, come tratto specifico del regime sovietico, paragonabile esclusivamente al regi- me nazista, fu quella del genocidio, inteso come insieme di politiche volte a distruggere l’identità di popoli interi attraverso una varietà di metodi re- pressivi. Forti di queste idee, una miriade di organizzazioni si adoperò per inviare documenti sulla sovietizzazione dell’Europa orientale dal punto di vista della repressione, degli arresti arbitrari, delle deportazioni e del lavo- ro forzato. Nell’aprile 1948, la CIA aveva dato vita al National Committee for a Free Europe, un’organizzazione che coordinò, soprattutto negli anni tra 1949 e 1954, decine di associazioni con il duplice obiettivo di forgia- re una comunità di destino per gli esuli dei paesi controllati dall’URSS e allo stesso tempo di sostenere i movimenti di resistenza clandestina oltre cortina. 154 I memoranda del Council for Free Czechoslovakia, dell’Esto- nian Consultative Panel, del Consultative Lithuanian Panel, del Rumanian National Committee, della Polish Association of Former Soviet Political Prisoners, del Bulgarian National Committee e della Association of Poli- tical Prisoners of Soviet Labour Camps rifletterono peraltro non soltanto 154. Weiss-Wendt, The Soviet Union, p. 159. E The Inauguration of Organized Po- litical Warfare: Cold War Organizations Sponsored by the National Committee for a Free Europe/Free Europe Committeee, a cura di Kàdàr Lynn, Saint Helena CA, Helena History Press, 2013.
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il sentimento di appartenere a un destino comune, ma il concreto bisogno di agire pubblicamente, orientando il più possibile i lavori del Comitato in senso antisovietico. Il presidente dell’Estonian Consultative Panel scrisse a Manfred Si- mon, nuovo segretario del Comitato ad hoc, una missiva di accompagna- mento al materiale inviato. Questo consisteva in: 1. Estratti da giornali di Tallin e registrazioni di trasmissioni sulla lotta dei co- munisti contro i cosiddetti nazionalisti borghesi e la Chiesa in quanto nemici del comunismo e sulle misure pratiche adottate contro di loro, nonché sul lavoro forzato, in relazione alla realizzazione del piano di produzione statale. 2. Un elenco dei campi di lavoro forzato e delle carceri in Estonia e materiali che mostrano il numero di persone e l’ordine prevalente in essi, nonché dati sul metodo di detenzione e di dislocamento nei campi e nelle carceri. 3. Estratti dai verbali dei testimoni sulla deportazione in aree remote dell’U- nione Sovietica. 155
I materiali inviati dalle altre associazioni ricalcarono da vicino que- sto corpo documentario, fermo restando la specificità di ogni situazione. Ad esempio il Consultative Lithuanian Panel, con sede a New York, inviò un’interessante documentazione, da cui era possibile estrarre i metodi usa- ti durante l’occupazione sovietica a partire dal 1940. 156 La International Federation of Free Journalists of Central and Eastern Europe and Baltic and Balkan Countries inviò un memorandum dal titolo Slave Labour in Eastern Europe, mentre la sezione cecoslovacca del National Committee for a Free Europe inviò un Report dedicato a Population Transfers, Depor- tations and Forced Labor Camps in Czechoslovakia: le miniere di uranio con i suoi lavoratori forzati ricevettero l’attenzione dovuta. Lemkin stabilì un rapporto speciale con queste associazioni, condi- videndo con esse l’idea che soltanto il genocidio potesse dare alle politi- che repressive sovietiche (arresti arbitrari, deportazioni e lavoro forzato) 155. La missiva è conservata in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 2, Estonian Consultative Panel. 156. Si legge nel documento di accompagnamento che i sovietici misero in essere: «(a) l’introduzione di un sistema di lavoro forzato su larga scala, consistente nello sfrutta- mento spietato e sconsiderata della forza lavoro del Paese sottomesso a beneficio esclusivo dello Stato russo e del suo programma di riarmo; (b) l’istituzione di campi di schiavitù in Lituania, e (c) la deportazione di massa dei lituani in Siberia e in altre regioni dell’Unione Sovietica e la loro detenzione in campi di lavoro forzato». ILO Archives (Ginevra), ILO- BIT, ILO Committees on Forced Labour, Cabinet 2, Lithuanian Consultative Panel.
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un’adeguata sistemazione concettuale. Diversamente, se slegate da questo riferimento, quelle politiche rischiavano di confondersi con fenomeni di- versi quali trasferimenti di popolazione e impiego del lavoro dei prigio- nieri, frequenti altrove nel mondo, imperi occidentali compresi. Lemkin insisteva su questi temi, perché aveva colto che il clima negli Stati Uniti era largamente ispirato al motivo dei genocidi sovietici. Il 25 aprile 1950 il «New York Times» denunciò il «silenzio imbarazzato» dell’Occidente di fronte al genocidio in corso nel Baltico. Riferendosi alle deportazioni, il giornalista affermò che lo scopo era ovvio: È quello di rimuovere una popolazione potenzialmente ostile dalle nuove zone militari sovietiche e di sostituirla con un muro umano di russi presumi- bilmente fedeli che saranno tanto più disposti a combattere in quanto dotati di beni rubati. Questo è un chiaro caso di genocidio come qualsiasi altro commesso dai nazisti […]. 157
Partendo da un giudizio analogo, la sezione di Cleveland della Lithuanian American Council allestì una mostra sul genocidio nel Balti- co, chiamando Lemkin a inaugurarla il 17 giugno 1951. La mostra poi si trasferì a New York e a Boston, con l’intento di far conoscere al pubblico statunitense documenti e foto su arresti, terrore e deportazioni nei campi. L’assunto interpretativo era chiaro, suggerendo l’immagine di una nazio- ne, quella lituana, che aveva cercato di opporsi a tre occupazioni: quel- la sovietica del 1940-1941, quella nazista del 1941-1944 e nuovamente quella sovietica, ripresa a partire dal 1944. Gli organizzatori valorizzaro- no non soltanto la resistenza antisovietica, ma anche quella antinazista, caratterizzando dunque il proprio nazionalismo in senso antitotalitario. Il fenomeno del collaborazionismo lituano alle violente pratiche antisemite naziste fu pertanto taciuto. 158 Verso la fine del 1951 Lemkin strinse lega- mi con altre organizzazioni di immigrati dall’Europa centrale e orientale quali l’Ukrainian Congress Committee of America, l’Hungarian Natio- nal Council e l’Americans of German Origin. Intensificò i rapporti con Béla Varga, ex presidente del Parlamento ungherese. Allo stesso tempo, la campagna allargò il suo ambito, quando il 24 novembre rappresentanti di 157. Genocide in the Baltics, in «New York Times», 25 aprile 1950, conserva- to in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5157, File 861.064/5-150 Forced Labor Secret. 158. Weiss-Wendt, The Soviet Union, pp. 163-164. E soprattutto Cooper, Raphael Lemkin, pp. 210 sgg.
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circa 12 milioni di cittadini americani di origine polacca, lituana, lettone, ucraina, ungherese, ceca e slovacca spinsero il Dipartimento di Stato a far pressione sulle Nazioni Unite affinché s’indagasse su esempi di genocidio perpetrati dai sovietici. Dietro queste iniziative, non è difficile scorgere la mano di Lemkin. 159 Lemkin si convinse che, per vincere la guerra delle idee contro l’U- nione sovietica, era necessario insistere sul genocidio più che attestarsi su generici riferimenti ai diritti umani: rispetto ad essi, infatti, persino le democrazie liberali non avevano la casa perfettamente in ordine, mentre in materia di genocidio l’URSS non era nella posizione di avanzare controac- cuse. La strategia di Lemkin, certamente connessa al desiderio di collocare la categoria da egli forgiata al centro della propaganda statunitense, non ebbe tuttavia grande successo. A nome del comitato statunitense che so- steneva la ratifica della convenzione contro il genocidio, James Rosenberg scrisse il 18 giugno 1951 al segretario di Stato, Dean Acheson, che era in corso da tempo un tentativo di «uccidere la convenzione sul genocidio» e che dunque gli Stati Uniti, ratificandola prontamente, avrebbero impedito questo scempio, mantenendo oltre tutto la loro «leadership morale» nel mondo. La ratifica da parte di Washington insomma «sarebbe stata una battaglia vinta nella guerra fredda contro l’Unione sovietica». 160 Il fatto era però che gli Stati Uniti non avevano intenzione di legarsi le mani una volta per tutte su un terreno così complicato come questo. Washington preferì rimandare la ratifica sine die. Restò invece aperta sul tavolo la questione del lavoro forzato. Le grandi associazioni non governative di cui si è di- scusso – dalla CICRC alla IFTUC fino alla International League for the Rights of Man – continuarono a puntare sulla realizzazione di una nuova convenzione internazionale. Tra le associazioni, che si erano distinte, in un passato recente o remo- to, per il lavoro di raccolta e sistemazione di documenti relativi al lavoro forzato sovietico, ve ne furono alcune che questa volta s’impegnarono in altre direzioni, prendendo in considerazione il lavoro forzato negli impe- ri occidentali, come quello portoghese, nei regimi segregazionisti, come quello sudafricano, e nei regimi autoritari, come quello franchista. Il lavoro della CICRC di Rousset fu importante questa volta soprattutto per l’indagi- 159. Cooper, Raphael Lemkin, p. 219 160. New York Libraries, Raphael Lemkin Papers, b. 1, f. 1 General Correspondence 1947-1953.
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ne sulle prigioni franchiste. Regimi segregazionisti e vecchi imperi europei furono invece il bersaglio della Anti-Slavery Society. Il 16 ottobre 1952, il Comitato ad hoc ascoltò il segretario, Charles Wilton Wood Greenidge, il quale era succeduto nel 1941 ad Harris alla guida della prestigiosa asso- ciazione britannica. 161 Dal 1946, Greenidge aveva chiesto al Foreign Office di sostenere la proposta di un Comitato permanente sulla schiavitù alle Nazioni Unite, riuscendo infine a imporre questa soluzione nel dicembre 1949. 162 Dal momento che il lavoro forzato era stato enucleato dall’indagi- ne sulla schiavitù, Greenidge fu ascoltato nel 1952 dal comitato presieduto da Mudaliar. 163 Greenidge accusò il governo del Sudafrica di far uso mas- siccio di lavoro forzato, inflitto ai lavoratori neri con metodi che dimostra- vano l’estraneità del regime di Pretoria allo spirito delle norme prodotte dall’ILO. Il segretario della Anti-Slavery Society denunciò con particolare insistenza la pratica del «pass system» che consisteva nello stanziamento di fondi per costruire prigioni, dove neri incriminati per futili motivi ve- nivano arrestati con l’obiettivo di passarli ad agricoltori bianchi. Questi ultimi vedevano crescere così il valore delle loro terre, per il semplice fatto di essere lavorate da prigionieri, ai quali non era necessario corrispondere per legge un salario. 164 Le accuse di Greenidge furono estese anche alla Rodhesia, all’Afri- ca portoghese e al Madagascar francese. In Rodhesia era in vigore una norma che costringeva i disoccupati a lavorare, contravvenendo dunque alle norme basilari dell’ILO. In Madagascar le autorità coloniali francesi esercitavano il diritto di estrarre lavoro non pagato dai nativi e assegnar- lo ai possessori europei di piantagioni. Infine, nell’impero portoghese in Africa, le popolazioni locali erano coscritte e spedite a lavorare nel- le piantagioni di zucchero nella cinta costiera dell’Angola oppure nel- le piantagioni di cacao dell’isola di Sao Tomè. Accordi internazionali avevano stabilito l’«esportazione» di centomila lavoratori mozambicani
161. Miers, Slavery in the Twentieth Century, p. 317. 162. Ivi, p. 324. 163. Ivi, p. 325. 164. Non mancarono naturalmente dure repliche da parte dei governi chiamati in cau- sa come quello sudafricano. Si veda ad esempio la documentazione conservata in ILO Ar- chives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on forced labour, 1-7-65, Ad Hoc Committee on Forced Labour – Correspondence with Governments (comments) – South Africa, UN/ ILO Forced Labour Resumes Hearings, Press Release n. ECOSOC/541, pp. 1-2.
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nelle miniere d’oro sudafricane. 165 Il quadro tracciato non era propria- mente edificante ai fini di una rappresentazione antitotalitaria, basata sul- la contrapposizione tra democrazie liberali e regimi totalitari. Gli stessi membri del Comitato erano uomini progressisti asiatici, latinoamericani e europei del Nord, che guardavano con molta fiducia al ruolo degli Stati Uniti, ma non erano disposti a fare sconti alle vecchie forme di dominio imperialistico né tantomeno alle dittature autoritarie di destra. Pertanto il quadro che emerse fu estremamente complesso, basato sullo sforzo di distinguere gli stati socialisti di tipo totalitario, dotati di un sistema di lavoro forzato, e regimi autoritari e tradizionali, i quali erano comunque dotati di forme coercitive di lavoro. E tra queste, fu necessario praticare un’altra distinzione: da un lato, le forme brutali del colonialismo porto- ghese e del razzismo sudafricano, dall’altro il «normale livello» di coer- cizione esercitato dalla «dittature dello sviluppo», governate da Francia e Gran Bretagna. 166 Nel complesso, queste distinzioni sembrarono tenere da un punto di vi- sta concettuale nella misura in cui i membri del comitato s’impegnarono a respingere la duplice pressione che subirono: da un lato, quella dei governi coloniali e autoritari di destra che negavano le evidenze portate dai militanti dei diritti umani come Greenidge; dall’altro, quella dell’opinione pubblica prosovietica, intenta ad annacquare le accuse contro i regimi stalinisti alla luce dei crimini commessi degli imperi occidentali e dei regimi autoritari an- ticomunisti. La resistenza a questa duplice pressione fu decisiva per mante- nere fermo il disegno che la guerra fredda culturale aveva affidato al comita- to di Mudaliar, ossia quello di dare corpo a un contrasto il più netto possibile tra mondo del lavoro libero, quello delle democrazie occidentali, e mondo del lavoro schiavo, quello del totalitarismo, senza chiudere gli occhi però su altre realtà. In altri termini, si pensò che fosse possibile rinsaldare quel contrasto, mostrando che il mondo delle liberal-democrazie, lungi dall’es- sere perfetto, era comunque in grado di emendarsi, spingendo i propri amici a fare lo stesso. La convenzione del 1930 era senza dubbio invecchiata, ma le sue ambizioni riformatrici erano rimaste intatte e rimodulate all’interno dell’ideologia americana dell’«impero della libertà». 167 165. Ivi, pp. 2-3. 166. Maul, Human Rights, Development and Decolonization, p. 207. 167. Odd Arne Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Ma- king of Our Times, Cambdrige, Cambridge University Press, 2007.
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I regimi di tipo sovietico furono dunque descritti come regimi tota- litari, che avevano adottato un sistema di lavoro forzato di tipo nuovo, necessario punto di approdo di pratiche estreme sul terreno produttivo e punitivo. Per contrastare questa realtà era necessario che lo spirito riforma- tore dell’ILO prendesse la forma di una nuova convenzione, maggiormen- te capace della precedente di fornire un quadro di norme atto a mettere al bando i nuovi «sistemi» di lavoro forzato. Il 27 maggio 1953 i membri del comitato incontrarono i vertici dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’ILO per discutere del Report che di lì a breve sarebbe stato presentato all’opinione pubblica internazionale. A un certo punto del discorso, emerse la grande questione che aveva giustificato tutto quel faticoso lavoro di rac- colta di una nuova documentazione. Si poteva leggere: Il comitato ha constato che questi sistemi non esistono solamente tra la popo- lazione indigena dei paesi insufficientemente sviluppati, ma che essi si sono gradualmente estesi a regioni e a paesi che dispongono di pieno diritto di governarsi da sé, e a delle popolazioni che non sono indigene nel senso in cui intende l’Organizzazione internazionale del lavoro, ma che di fatto sono popolazioni locali di questi paesi. 168
La convenzione del 1930 aveva dunque mirato a una riforma dei vecchi imperi, cercando di persuadere le classi dirigenti delle metropoli europee a impegnarsi nella messa al bando di quelle odiose pratiche che opprimevano le popolazioni coloniali. In realtà, proprio a partire dal 1930, il regime sovietico aveva mandato in crisi questo progetto di graduale ci- vilizzazione, nella misura in cui il gruppo dirigente staliniano aveva deciso di adottare con inusitata violenza una logica politico-militare che potrem- mo considerare come una sorta di «occupazione interna», nel cui ambi- to l’oppressione statuale finì per realizzarsi in forme spesso più brutali di quelle impiegate nel mondo coloniale classico. 169 168. Questa comunicazione è conservata in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, 1-8-1, Communication anticipée de Rapport du Comité Spécial du Travail Force. 169. E allora il confronto doveva essere svolto tra stalinismo e hitlerismo, entrambi alla ricerca di risorse per far funzionare i loro imperi in costruzione. Ha scritto Snyder che: «Il segreto della collettivizzazione (come Stalin aveva notato già da parecchio tempo) era il suo essere un’alternativa alla colonizzazione espansionistica ovvero una forma di occu- pazione interna. Al contrario Hitler pensava di potersi ancora impossessare di colonie all’e- stero e aveva in mente le terre coltivabili dell’Unione sovietica, oltre alle riserve di petrolio del Caucaso sovietico». Snyder, Terre di sangue, p. 193. Ciò non vuol dire però che Stalin
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Il Report fu centrato essenzialmente sull’analisi degli Stati socialisti. Si giunse alla conclusione che il sistema penale di questi stati prescinde- va dalle garanzie proprie dello Stato di diritto, coniugandosi invece con politiche puramente repressive, rivolte a distruggere l’autonomia della società e ad alimentare un’enorme macchina produttiva affidata alla ge- stione della polizia politica. Habeas corpus, garanzie nel processo, liber- tà di opinione e libertà del lavoro (ossia, i principi qualificanti della Car- ta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale del 1948) erano sistematicamente calpestati. Uno degli assunti fondamentali del Report fu che le pratiche repressive di tipo sovietico possedevano un carattere omogeneo, formatosi nel corso degli anni Trenta in URSS ed esteso agli stati socialisti dell’Europa orientale. Per fare un esempio, fu passata al setaccio la legislazione penale della Bulgaria, come leva di un sistema di lavoro forzato funzionale alla correzione politica dei prigionieri e le procedure amministrative necessarie a mettere in atto questo sistema. Si valutò, sulla base della documentazione disponibile, la centralità econo- mica del sistema dei campi anche se non era stato possibile giungere a una «conclusione accurata» circa «il numero o la locazione» dei campi stessi. 170 La situazione di altri stati di tipo sovietico era meglio cono- sciuta, come quella della Repubblica democratica tedesca, 171 di cui fu denunciato ancora una volta lo sfruttamento dei prigionieri nelle miniere di uranio, o quella della Cecoslovacchia con la deportazione di schiere di lavoratori forzati in URSS. 172 Naturalmente, il caso descritto con maggiore dettaglio fu quello dell’URSS, oggetto di ricerche di lungo corso, che avevano coinvolto funzionari governativi britannici e statunitensi, il mondo sindacale su scala globale (l’AFL e l’IFTUC) le grandi organizzazioni umanitarie (CI- CRC, International League for the Rights of Man, International Federa- avesse all’inizio una visione meramente estrattiva della sua «rivoluzione dall’alto». Egli era convinto della superiorità dell’agricoltura collettivizzata. Ha scritto Graziosi: «Come Stalin ripeté, e molti credettero, lo stato insomma non si limitava a prendere dalla sua principale «colonia interna». Esso anzi investiva nelle campagne, fino allora neglette, per trasformar- le, introducendovi dei principi superiori». Le cose come sappiamo, andarono diversamente. Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin, pp. 264-265. 170. United Nations – International Labour Office, Report of the ad Hoc Committee on Forced Labour, p. 32. 171. Ivi, pp. 41-44. 172. Ivi, pp. 32-37.
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tion of Free Journalists e altre) e infine le associazioni di emigrati dalle «nazioni prigioniere» (soprattutto i Consultative panels lituano, lettone e estone, nonché le associazioni ucraine). Grazie ai copiosi materiali otte- nuti, il comitato di Mudaliar poté esaminare le basi giuridiche del lavoro forzato, partendo ovviamente dai codici: l’edizione del 1950 del Codi- ce penale, l’edizione del 1940 del Codice del lavoro correttivo (risalen- te, come sappiamo, al 1933) e infine l’edizione del 1947 del Codice di procedura criminale. Di grande importanza fu l’acquisizione dei grandi commentari, come il manuale di procedura criminale del 1936, redatto da Andrej Vyšinskij, nel quale si poteva leggere che i tribunali sotto la dittatura del proletariato dovevano costituire «un’arma infallibile contro i nemici di classe, reprimendoli senza pietà e dispensando giustizia senza pietà». Lo strumento principe di questa repressione spietata fu individuato, come era prevedibile, nell’art. 58, il quale definiva i vari crimini contro lo stato, partendo dall’assunto generale che «qualsiasi azione» diretta anche soltanto a indebolire l’autorità dello Stato, a minare la sua sicurezza ester- na e le sue conquiste interne, era da considerare «controrivoluzionaria» e come tale doveva essere punita severamente. Passando dal terreno delle leggi e dei commentari a quello delle procedure, il Report sottolineò la dif- fusione costante dei riti abbreviati nelle corti territoriali e regionali, ma so- prattutto la presenza costante della punizione per via amministrativa, vale a dire il ruolo preponderante rivestito dalla polizia politica. Il riferimento principale andò al Consiglio speciale, instituito all’interno della NKVD nel 1934, vale a dire un «corpo amministrativo» dotato del potere di infliggere la «detenzione nei campi di lavoro correttivo per periodi non superiori a cinque anni a persone riconosciute come un pericolo per la società». Su queste basi, il Report raccolse le copiose informazioni oramai esistenti sul numero medio dei deportati, sul carattere delle deportazioni di massa, sulla distribuzione geografica dei campi e dei villaggi speciali e, ancora, sulle condizioni di vita dei prigionieri nell’universo concentrazionario sovieti- co. Con un ragionamento proprio di questi primi anni Cinquanta, gli autori del Report denunciarono il fatto che nel mondo sovietico il lavoro forzato era in costante espansione. 173 173. Il rappresentante dell’IFTUC affermò durante la seconda sessione del comitato che «I rapporti del dopoguerra indicano che la rete dei campi di concentramento sovietici si sta diffondendo costantemente dai suoi centri originari nelle zone remote del Paese verso
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In via generale, il principio stabilito nel Report fu che i sistemi socia- listi erano sistemi totalitari, diversi dalla varia gamma degli autoritarismi tradizionali e imperiali. Questi ultimi dovevano essere certamente passati al setaccio, ma senza mettere in discussione l’idea di fondo dalla quale si era partiti, ossia il carattere unitario dei regimi socialisti rispetto ad ogni altra tipologia di regime nel quale il sistema di impiego dei lavoratori non fosse ancora in linea con quello ispirato alle democrazie occidentali. In questa chiave, furono indagate le sopravvivenze del passato semi-feudale, caratteristiche delle società dell’America latina, i cui governi non erano ancora in grado di far rispettare le norme proprie del lavoro libero che teoricamente avevano adottato. Del pari, si indagò il persistente impiego forzato di popolazioni indigene nei territori amministrati dalle potenze co- loniali attraverso una varietà di escamotages. Il giudizio fu comunque as- solutorio, perché collegato all’idea, non priva di ambiguità, che si trattasse di «dittature dello sviluppo», collocate sotto il controllo delle democrazie liberali occidentali. Su regimi autoritari e segregazionisti, come il Sud Africa e il regime imperiale portoghese, fu espresso invece un giudizio assai duro, a dimo- strazione che il lavoro svolto da organizzazioni come la Anti-Slavery So- ciety aveva dato i suoi frutti. L’accusa depositata da quest’ultima lasciò il segno proprio sul sistema dei lascia passare, sopra richiamato. Si legge che: Nell’Unione del Sudafrica esiste un sistema noto come sistema dei pass. Il pass è un documento che autorizza un africano a spostarsi da un luogo all’al- tro dell’Unione del Sudafrica. Se un africano nell’Unione vuole essere in re- gola con la legge, deve avere con sé da sei a dodici pass, perché, se chiamato dalla polizia, deve mostrare i pass e la mancata esibizione può comportare la prigione. Il sistema dei lasciapassare è pensato per fornire ai datori di la- il cuore dell’Unione Sovietica, nelle aree più densamente popolate. Questo processo ha un effetto di vasta portata sull’economia sovietica. La manodopera schiavizzata in Unione Sovietica è stata utilizzata inizialmente nell’industria del legname. Poi è stata impiegata nell’edilizia e nell’industria mineraria. Il piano economico segreto sovietico per il 1941, divenuto noto in Occidente dopo la guerra, mostrava che, oltre ai settori già citati dell’e- conomia sovietica, l’uso del lavoro schiavo era stato esteso ad alcuni rami dell’industria manifatturiera. Questo processo è continuato anche dopo la guerra. I prigionieri sono oggi utilizzati come manodopera non qualificata in molte industrie» Ivi, p. 439. In generale, per le conclusioni del comitato circa le accuse rivolte al regime sovietico, ivi, pp. 82-98. Per un sommario delle accuse e delle repliche del governo sovietico, ivi, pp. 426-528.
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voro europei una quantità sufficiente di manodopera africana. Quando viene arrestato perché non ha il lasciapassare, l’africano può scegliere se lavorare per un europeo in una fattoria o essere perseguito. Questo sembra essere una violazione della Convenzione sul lavoro forzato. 174
Come si è detto, questi riferimenti al vario autoritarismo dei regimi amici degli Stati Uniti complicarono soltanto in parte il discorso binario della guerra fredda culturale, costruito sull’opposizione tra democrazie li- berali da un lato, regimi totalitari dall’altro. Infatti, giova ripeterlo, pur puntando l’indice anche contro regimi autoritari e segregazionisti, fu fatto salvo l’immaginario dell’Occidente come luogo di libertà e modello di ri- forma a livello globale. Anche per questa strada, certamente di tipo indiret- to, si stava dando corpo a quel modello economico basato su produttività, crescita, collaborazione sindacale e diffusione delle garanzie sociali, che è stato chiamato «impero della produzione». 175 Si può concludere che nella stesura del Report trovarono spazio tutte le tensioni politiche di un tempo storico caratterizzato non soltanto dalla guerra fredda, ma anche dall’avvio del processo di decolonizzazione, senza che però la costruzione ideologica della prima andasse in frantumi a causa del secondo. Per adesso, infatti, la decolonizzazione agì come forza subordinata alla guerra fredda, grazie al fatto che i rappresentanti del progressismo latino americano, della cultura dei diritti umani europea e del mondo della decolonizzazione si compor- tarono coerentemente con il progetto statunitense, volto principalmente a contenere l’espansionismo sovietico. 5. La difficile strada verso la nuova convenzione contro il lavoro forzato (1957) Questo paragrafo è dedicato alla fase conclusiva del nostro racconto. Tra 1953 e 1957 il quadro della prima guerra fredda cambiò radicalmente nella misura in cui la decolonizzazione acquistò un peso molto maggiore rispetto agli anni precedenti. La strategia del progressismo globale, che in definitiva aveva subordinato le istanze della decolonizzazione a quelle della guerra fredda, s’indebolì notevolmente. La strada verso la Conven- 174. Ivi, p. 374. 175. Charles Maier, Among Empires. American Ascendancy and its Predecessors, Cambridge, MA-London, Harvard University Press, 2006, pp. 191 sgg.
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zione di Ginevra fu costellata da dichiarazioni di rappresentanti del Terzo mondo, i quali non accettavano più che la «linea del colore», che divi- deva Sud e Nord, venisse respinta in secondo piano rispetto allo scontro ideologico, che divideva Est e Ovest. Lo stesso gruppo dirigente sovietico post-staliniano avviò, tra conflitti personali e lotte di potere, cambiamen- ti epocali. Con la morte di Stalin, occorsa il 5 marzo 1953, tramontò il ri- ferimento alla guerra inevitabile con il capitalismo, affacciandosi dunque la possibilità di ridefinire le relazioni con l’Occidente nei termini di una competizione tra modelli offerti agli stati nascenti del Terzo mondo. Allo stesso tempo, lo smantellamento dei campi, avviato subito dopo la morte di Stalin, segnalò che qualcosa di nuovo stava succedendo all’interno del regime sovietico e che probabilmente vecchie categorie interpretative come il totalitarismo rischiavano di funzionare meno efficacemente. Nel 1953-1954, le rivolte dei prigionieri che accompagnarono questo sman- tellamento, probabilmente accelerandolo, espressero motivi contraddito- ri: se da un lato confermarono che la vita dei campi era brutale e dunque si doveva continuare a condannarla, dall’altro però esse resero sempre più evidente che il sistema dei campi, tra rigurgiti repressivi e aperture improvvise, stava disgregandosi. I protagonisti occidentali della prima guerra fredda fecero di tutto per convincersi che in fondo niente era cambiato, sostenendo che gli elementi di continuità erano comunque maggiori di quelli di discontinuità. Ma lo stalinismo era al tramonto e, pertanto, la battaglia contro le repressioni so- vietiche dovette entrare necessariamente in una fase di ridefinizione. Ana- lizzeremo pertanto tre distinte traiettorie. La prima riguarda il terreno della memoria. Le vittime di Stalin non aspettarono le ambigue e parziali rive- lazioni di Chruščëv per raccontare la tragedia delle popolazioni sovietiche, a partire dagli ucraini, vissute sotto Stalin. La seconda traiettoria riguarda l’estensione del campo di indagine verso luoghi dove l’universo concentra- zionario di tipo sovietico, lungi dall’essere smantellato, entrò proprio ades- so nella sua fase costruttiva. Mi riferisco all’impegno della CICRC profuso da Rousset nello studio del processo di formazione dei campi cinesi. In- fine, la terza traiettoria ci riporta negli Stati Uniti. Nello stesso ambito in- tellettuale che aveva consolidato la categoria del totalitarismo, alcuni studi misero in discussione almeno le versioni più rigide di questa categoria, mostrando che sul terreno della ricerca il monolite totalitario, dipinto in precedenza, forse non era mai esistito. Un altro sguardo probabilmente era necessario per cogliere la complessità della realtà sovietica. Considerato
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tutto ciò, la convenzione contro il lavoro forzato entrò in dirittura d’arrivo in un mondo che era oramai avviato verso profonde trasformazioni. Iniziamo dal mutamento del clima generale della guerra fredda, de- stinato ad avere un forte impatto nel dibattito interno agli organismi in- ternazionali. Il 27 aprile 1954 la risoluzione 524 del Consiglio economico e sociale invitò l’ILO a proseguire lo studio dei modi per abolire il lavo- ro forzato. 176 Il dibattito svoltosi nei giorni precedenti, a partire dal 23, aveva mostrato che l’atmosfera generale era in realtà ancora caratterizzata dalle vecchie tensioni. Preston Hotchkis, rappresentante degli Stati Uni- ti, descrisse per l’ennesima volta la realtà dei campi sovietici, circondati di filo spinato, dotati di torri di controllo e guardie armate. Al loro inter- no, i prigionieri continuavano ad essere sottoposti a un regime di lavoro massacrante, mentre l’alimentazione e le cure erano scarse. Delle amnistie realizzate dal potere sovietico, egli disse correttamente che «il rilascio dei prigionieri politici fu attentamente evitato». 177 Dal canto suo, il rappresen- tante dello stato sovietico definì il Report del 1953 un «falso», cioè una «fabbricazione» di notizie a tavolino per screditare il comunismo sovietico proprio nel momento in cui si stavano avviando le procedure per ammet- tere l’URSS nelle file dell’ILO. 178 Fino a qui niente di nuovo, dunque. La novità venne dai rappresentanti di quei paesi, i quali erano orientati ad esprimere una posizione terza rispetto alla guerra fredda. La forza del loro messaggio sarebbe emersa di lì a breve nel corso della conferenza di Ban- dung del 1955. Ramji Ram Saksena, rappresentante indiano, dopo aver comunque lo- dato i membri del comitato Mudaliar per il loro lavoro, criticò il Report, perché esso era apparso troppo indulgente nella denuncia dell’imperiali- smo coloniale. Affermò che: Il lavoro forzato non è monopolio dei Paesi che sposano una determinata ideo- logia. Il Consiglio non solo dovrebbe evitare di dare l’impressione che la sua azione sia basata su motivazioni politiche, ma dovrebbe dimostrare con le pa- role e con i fatti di avere a cuore il benessere degli esseri umani che vivono in Africa tanto quanto quello dei detenuti dei campi di lavoro in Europa. Nessuna 176. Forced Labour. Reports of the Ad Hoc Committee on Forced Labour, in Uni- ted Nations, Economic and Social Council, Seventeenth Session, Official Records, 782 nd Meeting, 23-27 aprile 1954. 177. Ivi, pp. 173-175. 178. Ivi, p. 176.
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razza, colore o credo è immune dalla sofferenza e tutte le sofferenze meritano compassione. Tutti gli atti di crudeltà o di oppressione dovrebbero essere con- dannati con lo stesso vigore, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti. Anziché cedere alla tentazione di portare avanti la «guerra fredda» in seno al Consiglio, i suoi membri dovrebbero fare un esame di coscienza. 179
Questo brano fa luce sul fatto che la distinzione tra lavoro forzato come sistema e lavoro forzato come insieme di pratiche tradizionali pro- prie di regimi autoritari e coloniali non aveva convinto tutti. Anzi, il rap- presentante indiano rilanciò la centralità della questione razziale, la quale poteva essere affrontata soltanto evitando di collocare la guerra fredda sul tavolo dell’ECOSOC come unica chiave per leggere la realtà globale. Era evidente insomma che lo schema che aveva portato alla formazione del pri- mo comitato non era più accettato universalmente. Il progressismo globale aveva oramai preso a rivendicare una piena autonomia rispetto alle stra- tegie del contenimento in chiave antisovietica elaborate a Washington. In altri termini, la decolonizzazione entrò in scena con prepotenza, con i suoi protagonisti impegnati a rivendicare con decisione quello spazio per i paesi poveri del sud del mondo che la guerra fredda, esasperando la conflittualità ideologica tra Est e Ovest, aveva offuscato. 180 In questo contesto, il timore che il sistema dei campi sovietici potesse venire assorbito all’interno di un discorso più generico sul lavoro forzato nel mondo, e dunque di fatto derubricato dall’agenda internazionale, si dif- fuse tra i protagonisti della prima guerra fredda. Gliksman, autore del già citato Tell the West e adesso Research Fellow presso il Russian Research Center di Harvard, rievocò dalle pagine del «New York Times» del 12 luglio 1953 la «riluttanza» a procedere da parte dei governi occidentali, attanagliati dalla «paura di rivelare, nel corso del processo investigativo, le pratiche di lavoro forzato in alcune aree coloniali […]». Fortunatamen- te – aggiunse Gliksman – la pressione dei sindacati aveva vinto la resi- 179. Ivi, p. 193. 180. Staging Growth. Modernization, Development and the Global Cold War, a cura di David Engerman e altri, Amherst-Boston, University of Massachusetts Press, 2003; Romero, Storia della guerra fredda, pp. 124 sgg.; Westad, The Cold War. A World His- tory; Mark Philip Bradley, Decolonization, the Global South and the Cold War, in The Cambridge History of the Cold War, vol. I, pp. 464-485. Dello stesso autore The World Re- imagined. Americans and Human Rights in the Twentieth Century, New York, Cambridge University Press, 2016.
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stenza di quei governi, grazie anche alla collaborazione dei funzionari del Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Truman. Adesso però che, con la morte di Stalin, la guerra fredda era entra- ta in una fase di ridefinizione, la questione dei campi sovietici rischiava di cadere nel dimenticatoio come «arma» in disuso. A ben guardare, non si trattò soltanto dell’emergere in quanto tale di nuove forze, sprigionate dalla crisi terminale degli imperi occidentali, ma dallo stesso mutamento che stava verificandosi nel quadro complessivo della guerra fredda. Da un lato, il Cremlino mostrò un forte attivismo nella convinzione che lo scontro storico tra socialismo e capitalismo si sarebbe trasferito nel «Terzo mon- do»; dall’altro lato, negli Stati Uniti, la nuova amministrazione di Dwight Eisenhower stava ridefinendo le coordinate della guerra fredda, puntando adesso sulla nuclearizzazione della politica mondiale e sul rafforzamento della coalizione occidentale. 181 Queste tendenze portarono necessariamente a una diminuzione da par- te statunitense dell’interesse nei riguardi della sinergia tra moralità, potere e diritto internazionale, che invece aveva caratterizzato l’epoca di Truman. Alcune delle figure chiave di quella fase al tramonto intervennero, riven- dicando il lavoro svolto fino ad allora. Nel corso della settantesima con- vention annuale della AFL, tenutasi tra il 21 e il 26 settembre 1953, Irving Brown fece di tutto per mostrare che niente in fin dei conti era cambiato. I dirigenti del Cremlino stavano cercando di alleggerire temporaneamente la tensione con l’Occidente, passando in realtà «da forme di aggressione aperta e diretta a forme di aggressione indiretta e occulta». Era necessa- rio dunque evitare il rischio di un «nuovo appeasement» e continuare a lavorare con gli alleati europei non soltanto sul terreno delle relazioni go- vernative, ma anche sul terreno dell’immaginario globale. 182 Un aspetto importante di quest’azione era naturalmente spingere l’ILO e l’ECOSOC a compiere passi in avanti verso la nuova convenzione internazionale contro i sistemi di lavoro forzato. La questione era diventata particolarmente de- licata nella misura in cui uno dei primi cambiamenti operati dalla politica
181. Romero, Storia della guerra fredda, pp. 105-111. 182. Report to the 72 Annual Convention of the AFL, September 21/26 1953, conser- vato in The George Meany Memorial Archives, AFL-CIO Records, International Affairs Dept., Irving Brown Files 1943-1989, RG 18-004, b. 11, File 1 Brown Irving: Writings 1952-1954.
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sovietica dopo la morte di Stalin fu di avvicinarsi nuovamente all’ILO, boicottato sin dal 1937, per aderirvi nuovamente nel 1954. 183 Dobbiamo collocare le rivolte del gulag in questo contesto, perché se da un lato esse sembrarono portare acqua al mulino di coloro i quali continuavano a denunciare la brutalità del sistema sovietico e soprattutto a sottolineare che niente era cambiato rispetto ai tempi di Stalin, dall’altro, le cose assunsero un aspetto completamente diverso. Le rivolte erano infatti il segno di una fragilità profonda del sistema dei campi, di cui le autorità sovietiche volevano sbarazzarsi il prima possibile, anche se il meccanismo messo in moto – tra lotte di potere interne al gruppo dirigente, amnistie parziali e quant’altro – sembrò confermare che si era rimasti al punto di sempre: un potere brutale che si ergeva di fronte a gente inerme che si ribel- lava come poteva. I fatti andarono come segue. Poco dopo la scomparsa di Stalin venne promulgata una prima amnistia, il 27 marzo 1953. Essa ebbe un carattere limitato, dal momento che escludeva i «nemici dello stato», vale a dire i prigionieri politici che popolavano soprattutto i campi specia- li. Pur costituendo il primo positivo segnale della destalinizzazione, 184 il ritorno dei detenuti comuni portò con sé «un forte aumento della piccola criminalità» e la diffusione di una paura generalizzata nelle città per atti di vandalismo, furti e violenze, commessi da uomini esasperati che non ritrovarono il posto nella società dalla quale erano stati trascinati via al momento della condanna. 185 Ma il peggio, dal punto di vista delle autorità sovietiche, doveva anco- ra arrivare. Reso pubblico il 10 luglio 1953, l’arresto di Berija, promotore dell’amnistia di marzo, alimentò grandi speranze nei prigionieri che ne erano stati esclusi. 186 Essi domandarono a viva voce una revisione delle loro condanne. Il silenzio delle autorità provocò rivolte nel Retchlag di Vorkuta, il più popolato dei campi speciali con 38.000 detenuti, e nello Steplag a Karaganda, un altro campo speciale con circa 6.000 detenuti. Nel Gorlag, il grande campo speciale di Noril’sk con più di 20.000 dete- nuti, era già insorto alla fine di maggio. Queste rivolte furono dirette in gran parte dai nazionalisti ucraini dell’UPA-OUN e dai detenuti del Baltico 183. Harold Karan Jacobson, The USSR and ILO, in «International Organization», 3 (1960), pp. 402- 428. 184. Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, pp. 147-149. 185. Rapport du service des lettres de la Pravda sur la forte augmentation des actes cri- minels commis en RSFSR en liaison avec l’amnistie du 27 mars 1953, in Goulag, pp. 911-912. 186. Applebaum, Gulag, p. 501.
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che avevano resistito alla sovietizzazione dei loro paesi. I polacchi ebbero probabilmente un ruolo importante soprattutto nella rivolta dello Steplag. 187 Le note della direzione dei campi dell’area di Noril’sk si susseguirono una dopo l’altra, denunciando il «rifiuto d’obbedienza collettiva da parte dei detenuti» attraverso l’abbandono del lavoro e lo sciopero della fame e richieste ritenute esorbitanti. 188 Le minacce, l’accoglienza parziale delle richieste e infine l’intimazione di tornare al lavoro fino alla repressione armata costituirono il filo di questa tragica vicenda. Dal nostro punto di vista, è interessante ascoltare la voce dei detenuti del Gorlag, i quali rivolsero il 27 giugno 1953 un appello al Presidium del Soviet supremo, al Consiglio dei ministri e al Comitato centrale del Pcus. Questo appello si collegò idealmente alla cultura dei diritti civili che la sinistra internazionale aveva opposto per decenni al dispotismo sovietico. L’intera configurazione del sistema concentrazionario sovietico fu passata al setaccio. In origine – si legge – c’era da parte del regime l’imperativo di «ottenere costi quel che costi delle confessioni anche da persone inno- centi» da far valere durante udienze senza testimoni, senza neppure gli im- putati, «a porte chiuse con la sola base di protocolli di interrogatori spesso falsificati». Con questi metodi si era ottenuto il trionfo della «giurisdizione d’eccezione», esercitata dalla Conferenza speciale, la quale infliggeva la deportazione nei campi attraverso l’uso e l’abuso dell’art. 58 del codice penale. Così – aggiunsero i prigionieri – era nato il sistema dei campi, a metà strada tra dimensione punitiva e dimensione produttiva, ma sicura- mente molto diverso dalla retorica ufficiale della volontà di correggere i comportamenti criminali attraverso il lavoro. La domanda sorgeva dunque spontanea in bocca ai prigionieri: «Cos’è un ITL? Non un campo di lavoro correttivo, ma un’istituzione di lavoro forzato, dove l’uomo è privato delle condizioni elementari non della vita, ma della sopravvivenza, privato dei diritti elementari dell’Uomo». 189 187. Sulle rivolte si veda Andrea Graziosi, The Great Strikes in Soviet Labor Camps. The Accounts of Their Participants. A Review, in «Cahiers du Monde russe et soviétique», 4 (1992), pp. 419-446. E soprattutto Marta Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 188. Note du chef de la direction des camps du MVD, le colonel M. V. Kouznetsov, au ministre-adjoint de l’Intérieur de l’URSS, I.A. Serov, sur l’usage d’armes contre les détenus du Gorlag et sur le refus collectif des détenus des 4e et 5e sections du camp de travailler, in Goulag, pp. 915-916. 189. Appel des détenus du Gorlag au gouvernement soviétique, in Goulag, pp. 929 sgg.
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Nel frattempo, in Occidente, venne alla luce una documentazione più o meno attendibile che richiamava la stessa cultura dei diritti umani invocata dai prigionieri. Uscirono a stretto giro saggi rilevanti, come ad esempio quello di Joseph Scholmer, un testimone d’eccezione. 190 Radiologo tedesco presso l’università di Lipsia, le sue idee socialiste e antinaziste lo avevano spinto a criticare la stalinizzazione della Germania orientale, con la conse- guenza di farsi arrestare dalla polizia sovietica nel 1949. Dopo un periodo di detenzione, Scholmer fu inviato in uno dei campi della Vorkuta con una condanna a venticinque anni. Amnistiato assieme ad altri prigionieri tedeschi e austriaci, tornò nella Repubblica democratica tedesca alla fine del 1953, riuscendo poco dopo a passare clandestinamente a Berlino ovest. Le sue memorie furono pubblicate prima in tedesco e successivamente in francese e in inglese, con un’edizione prima britannica e successivamente statunitense. Grazie a queste memorie, il lettore occidentale poté conosce- re alcuni elementi decisivi della «rivoluzione degli zek» ai suoi albori. 191 Quel lettore apprese ad esempio che i prigionieri non erano del tutto isolati dal mondo. Essi avevano infatti saputo non soltanto dell’arresto di Berija, ma anche della rivolta degli operai a Berlino. Entrambi gli eventi aveva- no avuto un impatto notevolissimo sugli animi dei prigionieri, che passo dopo passo svilupparono una mentalità condivisa (potremmo dire «anti- totalitaria»), superando in qualche misura gli odi che laceravano i gruppi nazionali e politici in cui erano divisi. 192 Al di là del fallimento e della repressione subìta, questi prigionieri avevano dimostrato quanto poteva pesare uno sciopero in uno dei setto- ri fondamentali dell’economia sovietica, come quello dell’estrazione del carbone. La rivolta di Vorkuta apparve a Scholmer dunque il nucleo di una possibile rivolta più vasta che avrebbe infine travolto lo stato sovietico. Il 190. Joseph Scholmer, Die Toten kehren zurück. Bericht eines Arztes aus Workuta, Köln-Berlin, Kiepenheuer & Witsch, 1954. Di questo volume uscirono contestualmente un’edizione francese, La grève de Vorkouta, Paris, Amiot-Dumont, 1954 e una inglese, Vorkuta, London, Weidenfeld & Nicholson, 1954. L’edizione statunitense uscì un anno dopo con lo stesso titolo (New York, Henry Holt & Co., 1955). 191. Applebaum, Gulag, p. 505. 192. I russi (soldati e ufficiali e che si erano arresi ai tedeschi, vlasoviti ecc.) odiavano gli ucraini, specialmente se banderisti; gli antifascisti tedeschi come Scholmer si consola- vano della propria situazione guardando ufficiali nazisti ridotti ai lavori forzati; polacchi e ucraini erano divisi da una rivalità secolare, mentre tra gli ucraini imperversava lo scontro tra chi aveva collaborato con i nazisti e che invece aveva combattuto contro entrambe le tirannie, quella di Hitler e quella di Stalin. Graziosi, The Great Strikes, pp. 424-425.
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16 settembre 1955 egli presentò a un convegno milanese del Congresso per la libertà della cultura una relazione dal titolo emblematico Opposition et résistance dans l’Union soviétique, nella quale appunto affermò con con- vinzione la speranza che le proteste dei campi si allargassero alla società intera. Il programma dei detenuti del resto avrebbe potuto benissimo esse- re accolto dai cittadini comuni: democrazia fondata sull’introduzione dei diritti civili, smantellamento dell’economia collettiva, scioglimento della polizia politica e naturalmente ridimensionamento dell’apparato industria- le-militare. 193 L’eco dell’intervento di Scholmer a Milano si fece sentire all’interno della rete delle riviste critiche del potere sovietico. Ne discus- sero ampiamente «Est & Ouest» e «Preuves», sulle cui pagine si disse che il libro di Scholmer non aveva ricevuto l’attenzione che invece avrebbe meritato. 194 Se la rivolta dei campi di Vorkuta fu raccontata da un ex prigioniero tedesco, quella dei campi di Noril’sk fu conosciuta grazie alla testimonian- za di prigionieri di guerra giapponesi, raccolte da Herbert Passin. Antro- pologo statunitense che viveva da tempo a Tokyo, dove si era occupato dei problemi della riforma agraria giapponese, Passin intervistò quei pri- gionieri poco dopo il loro rientro. Sulla base di queste interviste, scrisse alcuni articoli pubblicati per il «Bulletin» della CICRC e per «Encounter», rivista diretta da Stephen Spender e Irving Kristol, che nell’aprile 1956 dedicò un’intera sezione a The End of Forced Labour? 195 Nel saggio scritto assieme a Fritz Van Briessen, Passin sottolineò che la rivolta di Noril’sk era iniziata prima di quella di Vorkuta e della rivolta operaia di Berlino est. La guida dell’organizzazione clandestina ucraina aveva avuto un peso decisivo nel sollevare i prigionieri nel grande sciopero che investì la città del nichel, durando oltre quello di Vorkuta. Scrivendo a una certa distanza di tempo dalla conclusione dello sciopero, Passin poté misurare gli effetti della ribellione oltre la contingenza della repressione esercitata dalle auto- rità. Scrisse: 193. Non è senza significato che un uomo di sinistra come Scholmer leggesse la sua relazione nella sezione presieduta da Hayek, intitolata L’invincible liberté. Vedi Grémion, Intelligence de l’anticommunisme, pp. 183-184. 194. Ivi, p. 223. 195. Herbert Passin, Quatre-vingt-seize jours de grève dans les camps de Norilsk, in «Bulletin d’information de la CICRC», 4 (1955), pp. 29-37; Alfred Burmeister, Herbert Pas- sin e Fritz Van Briessen, The End of Forced Labour?, in «Encounter», 31 (1956).
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Sembra che da qualche tempo si stia preparando un’amnistia parziale per i pri- gionieri politici. Anche durante lo sciopero sono iniziati i preparativi per la libe- razione dei prigionieri politici stranieri. I rapporti da Noril’sk mostrano un netto miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nei campi. I regolamenti sono osservati con maggiore attenzione e gran parte dello «sfruttamento intermedio» operato dall’amministrazione del campo e dei funzionari minori – corruzione, frode, favoritismi, falsificazione dei registri – è stato eliminato. 196
Dal canto suo, Alfred Burmeister, ex prigioniero del gulag sovietico liberato alla fine degli anni Quaranta, scrisse della «riforma silenziosa» in corso in URSS. La liberazione dei prigionieri, causata da successive amni- stie, sollecitò una domanda: «perché i sovietici realizzano soltanto adesso ciò che Marx aveva affermato un secolo fa, ossia che il lavoro schiavo è meno produttivo, e perciò meno redditizio del lavoro libero?». 197 A suo giudizio, la ragione non risiedeva esclusivamente nella naturale inclina- zione di Stalin verso l’uso del terrore, ma nel fatto che nessun lavoratore libero sarebbe andato a vivere in aree remote come Kolyma, Vorkuta e Karaganda. Affermò che «neppure i più alti salari, i più allettanti incen- tivi avrebbero fatto sorgere le nuove città da quel terreno inospitale con lo stesso ritmo con cui lo fecero milioni di schiavi». 198 La trasformazione degli schiavi in coloni era dunque l’orizzonte del potere sovietico dopo Stalin. Il riduzionismo economico di Burmeister ebbe se non altro il pregio di mettere a fuoco, sia pure indirettamente, il motivo del carattere scarsa- mente produttivo del lavoro forzato, di cui la classe dirigente sovietica era peraltro consapevole da tempo. Sul carattere improduttivo del lavoro forzato sovietico, sui costi ecces- sivi e sugli sprechi, si interrogò anche Jiri Veltrusky, un socialista antista- linista di origini ceche, in esilio a Parigi, dopo il colpo di stato a Praga del febbraio 1948. Conosciuto qui con il nome di Paul Barton, egli fu un gior- nalista indipendente, che negli anni Cinquanta collaborò con «La Révolu- tion prolétarienne», «Preuves», «Saturne» e la nuova rivista di Boris Sou- varine, «Le Contrat social», pubblicata a partire dal 1957. Redasse inoltre un bollettino di informazioni sulla Cecoslovacchia sovietizzata. Con alle spalle un’esperienza di lavoratore forzato nella macchina bellica nazista (e di sindacalista clandestino), Barton s’interessò del lavoro forzato sovieti- 196. Herbert Passin e Fritz Van Briessen, The Strike at Norilsk, ivi, p. 61. 197. Alfred Burmeister, The Silent Reform, ivi, p. 52. 198. Ibidem.
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co, pubblicando all’inizio del 1956 un saggio su «Saturne» dedicato alle trasformazioni del sistema concentrazionario sovietico. 199 Il saggio uscì dopo l’estate anche sul periodico tedesco «Ost-Probleme», con un titolo che richiamò più da vicino la tesi espressa dall’autore nel testo, ossia che le trasformazioni in corso indicavano un processo di «razionalizzazione del lavoro forzato» e non già una sua eliminazione. 200 Questo giudizio fu confermato nella sua opera maggiore, dedicata qualche anno più tardi alla storia dell’istituzione concentrazionaria in URSS. In questa opera infatti Barton sostenne che, per quanto fossero cambiate molte cose dopo la morte di Stalin, il sistema in quanto tale non era stato abolito. L’intera seconda parte del libro fu dedicata al disfacimento del si- stema concentrazionario sovietico (l’Institution se défait). Barton ripercorse tutta la vicenda che già conosciamo: l’amnistia del 1953, i grandi scioperi nei campi, con le loro rivendicazioni e la loro direzione politica. La riorganizza- zione della produzione, sottratta progressivamente alla polizia politica, andò di pari passo con nuove amnistie nel 1955 e nel 1956 che accelerarono la riduzione degli effettivi nei campi. Eppure, secondo Barton, il lavoro forzato rappresentava, allo sbocco di questo processo, uno strumento ancora valido per la repressione politica in URSS. In alcune repubbliche sovietiche era tornata in auge persino la famigerata procedura amministrativa. 201 Il lavoro di Barton fu presentato da Rousset come punto di approdo dell’impegno che per anni era stato svolto dalla CICRC: un’«opera collettiva», dunque. Ma si trattava, come lo stesso Rousset aggiunse, anche di un’«opera personale», realizzata da uno studioso serio che si era dedicato a studiare l’ultima fase dell’universo concentrazionario sovietico. 202 199. Su queste informazioni, Charles Jacquier, Paul Barton et quelques revues de la gauche antistalinienne (1948-1962), in «La Revue des revues», 1 (2021), pp. 86-99. 200. Paul Barton, Die Rationalisierung der Zwangsarbeit, in «Ost-Probleme», 38 (1956), pp. 1306-1314. 201. Paul Barton, L’institution concentrationnaire en Russie (1930-1957), con uno scritto di David Rousset, Le sens de notre combat, Paris, Plon, 1959, pp. 376-387. 202. Barton era stato invitato nel 1955 da Rousset a partecipare al lavoro del piccolo gruppo di esperti della CICRC e del suo centro di documentazione. I suoi studi sulla classe operaia in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’est suggerirono a Rousset che Barton potesse essere la figura capace di individuare «il legame organico tra l’analisi concentrazionaria e i problemi essenziali del lavoro salariato nella nostra società mondiale». Rousset, Le sense de notre combat, p. 26. Gli studi di Barton a cui si riferisce Rousset sono Salariat et contrainte en Tchécoslovaquie, Paris, Marcel Rivière, 1956 e Conventions collectives et réalités ouvrières en Europe de l’Est, Paris, Les éditions ouvrières, 1957.
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L’inclinazione a intrecciare discontinuità e persistenze fu tipica anche del ragionamento svolto da Bertram Wolfe, figura di lungo corso dell’an- tistalinismo statunitense e consigliere del Dipartimento di Stato. Nel suo libro del 1956, dedicato alla comprensione del sistema sovietico, egli affer- mò che la caratterizzazione della trasformazione del lavoro forzato come «riforma» era in definitiva troppo generosa nella misura in cui un vasto nu- mero di lavoratori forzati continuava ad esercitare pressione sui lavoratori «liberi» sovietici e sui lavoratori di tutto il mondo. Più che da un disegno politico e culturale, infatti, quella trasformazione era dipesa da una serie di fattori perlopiù esterni quali la crisi di potere nella leadership sovietica dopo la morte di Stalin, la pressione delle investigazioni sul lavoro forzato svolte sotto l’egida delle Nazioni Unite, la carenza di forza lavoro nelle fabbriche, nelle fattorie collettive e nell’esercito e infine le rivolte dei cam- pi. Soprattutto, a suo giudizio, contò il trasferimento delle industrie gestite dalla MVD, il ministero degli Affari interni, ai rispettivi settori economici di appartenenza; operazione che la classe dirigente post-staliniana aveva deciso per indebolire il potere della stessa polizia politica. Quei settori eco- nomici di appartenenza, a cui le industrie del lavoro forzato erano state passate, non intendevano essere ostacolati «nella realizzazione del piano» a causa del carico di «un’enorme forza lavoro di schiavi improduttivi e apatici». E pertanto fecero di tutto per liberarsene. 203 La riflessione di uomini intelligenti come Barton e Wolfe fu in realtà crepuscolare nella misura in cui a partire dal giugno 1954 la discontinuità prese il sopravvento. Presero allora a formarsi a Mosca le commissioni per rivedere le condanne dei «controrivoluzionari». Era giunto dunque l’inizio della fine del sistema concentrazionario sovietico, completata nel 1957-58, allorquando vennero smantellati, assieme all’apparato normativo, i campi della Kolyma e di Noril’sk. I ministeri competenti per le risorse minerarie, l’industria meccanica, il legname e la costruzione stradali incamerarono gran parte di ciò che era stato parte del complesso industriale dei campi. 204 Il punto è che per molti in Occidente non fu facile abbandonare l’idea che il regime sovietico potesse trasformarsi in qualche cosa di diverso rispetto a ciò che era stato nell’epoca di Stalin. Gli intellettuali, i sindacalisti e le associazioni umanitarie che avevano per lungo tempo cercato di sensibilizzare l’opinione 203. Bertram D. Wolfe, Communist Totalitarianism. Keys to the Soviet System, Bo- ston, Beacon Press, 1961 (I ed. 1956). 204. Applebaum, Gulag.
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pubblica e i governi occidentali, forgiando e diffondendo categorie inter - pretative quali totalitarismo, universo concentrazionario e, su un terreno più legato alla propaganda, «schiavitù rossa», entrarono in crisi. In fondo le stesse rivolte del 1953-1954 avevano mostrato che l’i- deale distopico dell’uomo concentrazionario ridotto a un fascio di riflessi pavloviani (base su cui consolidare ed estendere il paradigma totalitario nella sua versione più radicale) non era stato realizzato. Così come nei primi anni Trenta le rivolte contadine avevano mostrato tutta la brutale incapacità del regime di Stalin di risolvere una volta per tutte la società dentro lo stato, così dopo la morte di Stalin, le rivolte dei campi mostra- rono alla classe dirigente sovietica che era necessario cambiare strada. Si apriva così con il 1956 la grande battaglia sulla memoria dei crimini di Stalin, che nel rapporto segreto di Nikita Sergeevič Chruščëv fu ogget- to di una prima grande narrazione falsificata. Secondo il segretario del PCUS, i crimini erano iniziati nel 1934, ignorando a bella posta le terribi- li sofferenze che nel 1929-1933 la «rivoluzione dall’alto» di Stalin aveva inflitto alla società sovietica. Questa tragica omissione era necessaria per salvare il processo di collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industria- lizzazione statalizzata che erano divenute la basi della modernità sovie- tica. Chruščëv rivolse accuse pesanti a Stalin per lo scatenamento del Grande terrore del 1936-1938, affrettandosi però ad affermare che le sue vittime erano state essenzialmente i quadri dello stato e del partito. Il fatto che il Grande terrore aveva travolto brutalmente gruppi sociali e nazionali, che niente avevano a che fare con lo stato e il partito, non venne preso in considerazione. In definitiva, rappresentando il partito co- munista sovietico come principale vittima dello stalinismo, il segretario scagionò una parte considerevole della classe dirigente adesso al potere, a partire da sé stesso. 205 Pur con questi limiti, le rivelazioni provenienti dai vertici dello stato sovietico innescarono indagini indipendenti, come ad esempio quelle pubblicate da Renato Mieli nel 1964 sulle correspon- sabilità di Togliatti ai tempi del Grande terrore. 206 Si è detto all’inizio di questo paragrafo che avremmo analizzato tre traiettorie da intendersi come altrettante risposte alle trasformazioni avvia- te dal potere sovietico dopo la morte di Stalin e l’avvio dei mutamenti sia nella politica interna sia nella politica estera. La prima traiettoria fu quella 205. Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, p. 187. 206. Renato Mieli, Togliatti 1937, Milano, BUR, 1988.
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della memoria, che per le vittime di Stalin non poteva coincidere con la versione edulcorata imposta da Chruščëv. 207 Anzi, ben prima che egli com- pisse la sua operazione, un robusto discorso internazionale sulla memoria sovietica aveva preso forma. Nel 1953, durante le celebrazioni per il ven- tesimo anniversario della carestia in Ucraina, un pubblico di ucraini ame- ricani ascoltò un discorso di Lemkin dal titolo emblematico: Soviet Ge- nocide in Ukraine. Fu presentato il «più lungo e più vasto esperimento di russificazione» avvenuto a partire dall’obbiettivo imperiale che il regime di Stalin si era dato ai fini di costruire un uomo e una nazione interamen- te sovietici sulle ceneri dei vecchi gruppi nazionali. Per realizzare questo scopo si era proceduto alla distruzione dell’intellighenzia, delle chiese, al controllo assoluto sulle scuole e infine all’aggressione brutale dei conta- dini. Questi metodi – qui stava il punto – non erano poi così diversi da quelli che il nazismo aveva impiegato contro gli ebrei: Significativamente non c’è stato un tentativo di completo annichilimento, come il metodo nazista di aggressione agli ebrei. Eppure, se il programma sovietico avesse avuto un successo completo, se l’intellighentzia, i preti e i contadini avessero potuto essere eliminati, l’Ucraina sarebbe morta allo stes- so modo che se ogni ucraino fosse stato ucciso, perché essa avrebbe perso quella parte che ha mantenuto e sviluppato la sua cultura, le sue credenze, le sue idee condivise, che l’hanno guidata e che le hanno dato un’anima, che in definitiva ne fa una nazione piuttosto che una massa di persone. 208
Proseguendo sulla strada dell’analogia, Lemkin affermò che Vinnycja doveva essere considerata la «Dachau ucraina» per le fosse piene delle persone fucilate nel 1937-1938 dall’NKVD e ritrovate dai tedeschi nel 1943. 209 All’interno di questo quadro concettuale, che dunque saldava genoci- dio e totalitarismo, la diaspora ucraina cercò di mantenere viva la memo- ria di quegli eventi, pubblicando una vasta documentazione relativa alle diverse ondate della repressione sovietica, culminante nella carestia del 207. In generale, anche per i decenni successivi a quelli di cui si tratta in questo libro, Irina Ščerbakova, La memoria del Gulag. Ricordi e testimonianze orali di ex detenuti, in Gulag. Storia e memoria, pp. 233-258. 208. Il testo dell’intervento è conservato in New York Libraries, Raphael Lemkin Pa- pers, b. 2, f. 16 Ukraine/Soviet genocide, pp. 6-7. 209. Ivi, p. 7. Adesso è disponibile in rete sul sito dell’Holomodor Museum (https:// holodomormuseum.org.ua/en/publikacija/raphael-lemkin-soviet-genocide-in-ukraine- arti- cle-in-33-languages/).
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1932-33, ma che era proseguita in seguito. La violenta repressione che investì il campo di Kengir in rivolta, con l’uccisione di 500 prigioniere ucraine il 26 giugno 1954, fu all’origine di una protesta a New York, che culminò nell’invio di un telegramma ad Eisenhower, affinché quest’ultimo si interessasse della vicenda. Uscì in seguito una pubblicazione che cercò di ricostruire quei tragici fatti. 210 L’operazione più importante sul terreno della memoria furono però i due volumi dedicati ai Black Deeds of the Kremlin, pubblicati nel 1953 e nel 1955: il primo in Canada e il secondo negli Stati Uniti. Il promotore dell’iniziativa fu Semen O. Pidhainy, re- centemente immigrato a Toronto, con alle spalle una storia di sofferenze e militanza come quella di molti altri intellettuali ucraini. Arrestato nel 1933, egli aveva trascorso lunghi anni alle Solovki per poi riparare in Europa occidentale durante la guerra. Fondò nel 1947 l’Ukrainian Revolutionary Democratic Party (URDP), nel quale continuò a impegnarsi una volta rag- giunto il Canada, dove nel 1950 partecipò alla fondazione della Ukrainian Association of Victims of Russian Communist Terror. 211 Nel 1953 pubblicò le sue memorie di prigioniero delle isole Solovki. 212 I gruppi che lavoraro- no a The Black Deeds of the Kremlin s’impegnarono con energia nella rac- colta delle testimonianze di coloro i quali avevano sperimentato la brutalità della repressione sovietica. E grazie a uno sforzo finanziario collettivo im- ponente – realizzato da gente semplice, senza grandi patrimoni – questa documentazione venne finalmente pubblicata. L’obiettivo fu di mantenere vivo lo spirito di una nazione martoriata attraverso il racconto della storia come era realmente accaduta. 213 210. Stephania Halychyn, 550 Ukrainian Martyred Women, New York, The United Ukrainian Womens’ Organizations of America, 1956. Vedi il saggio di Steven A. Barnes, «In a Manner Befitting Soviet Citizens». An Uprising in the Post-Stalin Gulag, in «Slavic Review», 4 (2005), pp. 823-850. 211. Questa associazione pubblicò la prima parte di Black Deeds, mentre la seconda fu pubblicata negli Stati Uniti dalla Democratic Organization of Ukrainians Formerly Per- secuted by the Soviet Regime. Erano organizzazioni con finalità analoghe, le quali aderiva- no alla World Federation of Ukrainian Former Political Prisoners and Victims of the Soviet Regime, The Black Deeds of the Kremlin: A White Book, vol. I: Book of Testimonies, Toron- to, Ukrainian Association of Victims of Russian Communist Terror, 1953; The Black Deeds of the Kremlin. A White Book, vol. II: The Great Famine in Ukraine 1932-1933, Detroit, MI, Democratic Organization of Ukrainians Formerly Persecuted by the Soviet Regime, 1955. 212. Semen Pidhainy, Islands of Death, Toronto, Burns & MacEachern, 1953. 213. Per queste informazioni, vedi Bohdan Klid, The Black Deeds of the Kremlin, in «Genocide Studies International», 2 (2014), pp. 224-235.
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Il grande tema che attraversa questi due volumi è dunque la distru- zione deliberata della nazione ucraina da parte del potere sovietico, de- ciso a stroncare il risveglio nazionale ucraino degli anni Venti come pre- messa per avviare la costruzione di «un impero rosso totalitario unificato, con un’amministrazione centralizzata, un’unica lingua, un’unica cultura, un’unica ideologia e un’unica politica». Ricordando il processo farsa in- tentato a Char’kov nel 1930 contro l’Unione per la liberazione dell’Ucrai- na, Kost Turkalo mise in luce natura e obiettivi del nazionalismo ucraino. Affermò che: La lotta contro l’occupante non si basava sull’insurrezione, sulla resistenza armata e sullo spargimento di sangue, ma sull’acquisizione del controllo di molti settori della vita economica e culturale del paese, sull’organizzazione del popolo e sulla crescita della sua coscienza nazionale e politica, al fine di ostacolare i russi nei loro sforzi per mantenere il popolo e il paese in una condizione di arretratezza e, allo stesso tempo, di promuovere l’idea dell’in- dividualità nazionale, economica e culturale, preparando così il popolo alla resistenza attiva al momento opportuno in futuro. 214
In risposta a questo movimento nazionale, il «colonialismo rosso» intraprese la strada del genocidio attraverso una carestia artificialmente provocata per non perdere il controllo della situazione. Curiosamente, il termine genocidio non fu molto usato nel secondo volume, che pure era completamente dedicato alla carestia come conseguenza delle scelte po- litiche di Stalin. Lo stesso nome di Lemkin, il quale aveva fatto ripetuta- mente ricorso all’espressione genocidio a proposito dell’Ucraina, fu citato raramente. La diaspora ucraina non aveva dovuto aspettare gli interventi di Lemkin per maturare il giudizio sulla grande carestia come sterminio intenzionale, perpetrato dallo stato sovietico. Peraltro, con grande one- stà intellettuale, gli autori dell’opera riconobbero il ruolo svolto da alcu- ni testimoni degli anni Trenta. Pidhainy affermò che il termine «carestia organizzata» non doveva esser fatto risalire al movimento degli emigrati ucraini, ma a Chamberlin, «il quale fu testimone di questa forma terribile di terrore, la tragedia a cui andarono attraverso gli ucraini durante gli anni 1932-1933». Furono citati anche Jones e Muggeridge. 215 La seconda traiettoria in risposta alle trasformazioni operate dallo stato sovietico fu di indagare i luoghi dove l’universo concentrazionario, 214. The Black Deeds of the Kremlin. A White Book, vol. 1, p. 313. 215. The Black Deeds of the Kremlin. A White Book, vol. 2, p. V.
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lungi dall’essere smantellato, era invece in costruzione. Pur non smettendo di occuparsi dei regimi di tipo sovietico in Europa e dell’URSS, la CICRC di Rousset finì per dedicare gran parte delle proprie attenzioni alla Repub- blica popolare cinese. 216 In parte, questa decisione era in sintonia con le di- rettive stabilite dalle risoluzioni dell’ILO, nelle quali si era lamentato l’as- senza di una documentazione sufficiente per potere collocare le politiche del regime maoista nel quadro dei sistemi del lavoro forzato. Si trattava dunque di completare un lavoro sul terreno documentario. Ma c’era di più. Rousset era convinto da tempo che il XX secolo fosse caratterizzato da due grandi minacce, la tecnologia nucleare applicata agli armamenti e la diffu- sione degli universi concentrazionari su scala planetaria. Da questo punto di vista, il sistema dei campi cinese, venuto dopo quello nazista e quello al- lestito da Stalin in URSS, non costituiva ai suoi occhi una mera appendice, per quanto drammatica, di una storia avviata al tramonto, quanto piuttosto il segno della vitalità di un fenomeno caratteristico di un’intera epoca. 217 Con queste premesse, Rousset si trovò di fronte al problema del carat- tere «recidivo» della rivoluzione cinese rispetto al modello sovietico, che infatti venne prontamente adottato dalle autorità della Repubblica popo- lare. 218 Già all’inizio del 1950 funzionari sovietici erano giunti a Pechino con il compito di trapiantare il modello concentrazionario, ritenuto di fon- damentale importanza sia dal punto di vista della repressione dei nemici sia della costruzione di una grande appendice produttiva dell’economia nazionale da gestire attraverso il lavoro forzato dei prigionieri. 219 Come ha spiegato alcuni anni fa Lucien Bianco, il sistema del «laogai» prese forma per imitazione, non come prodotto di un tornante brutale, come era stata la «rivoluzione dall’alto» di Stalin a partire dal 1929. Il «grande balzo in avanti», ossia la grande tragedia cinese prodotta dalle illusioni di Mao, av- 216. CICRC, Livre blanc sur le travail forcé et les institutions concentrationnaires dans la République Populaire de Chine, 2 voll., Paris, Centre International de edition et de documentation, 1958. 217. Per questa visione si vedano ancora gli scritti di Rousset, La fraternité de nos ruines. 218. Il riferimento va al lavoro di Lucien Bianco, La récidive. Révolution russe, révo- lution chinoise, Paris, Gallimard, 2014. 219. Sull’impianto del sistema repressivo di tipo sovietico si è fatto riferimento a Jean-Luc Domenach, Chine: l’archipel oublié, Paris, Fayard, 1992 e, in un quadro più generale, a Frank Dikötter, The Tragedy of Liberation. A History of the Chinese Revolution 1945-1957, New York, Bloomsbury Press, 2013.
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venne più avanti a partire dal 1957-1958 fino a sfociare in una carestia che, secondo gli storici, uccise più di quaranta milioni di persone. 220 Fino ad allora, la presa del partito-stato sulle campagne assunse forme diverse, più graduali. Ciò detto (e scontate altre differenze come il numero ridotto degli stranieri nei campi cinesi rispetto a quelli sovietici, ad esempio), Bianco ha concluso che in definitiva «niente d’essenziale cambia», passando da un sistema concentrazionario all’altro: ondate di arresti arbitrari di massa (con detenzioni illegali, torture e sentenze amministrative), deportazioni in condizioni spaventose e infine lavoro forzato fino all’esaurimento delle energie dei detenuti. 221 Si può semmai affermare che alla metà degli anni Cinquanta, mentre il sistema concentrazionario sovietico era oramai avvia- to alla disgregazione, il lavoro forzato cinese continuò a crescere, finendo per acquisire un rilievo nel dibattito internazionale. 222 Nella riunione sopra menzionata dell’ECOSOC dell’aprile 1954, il rappresentante statunitense ricordò che i regimi di tipo sovietico in Alba- nia e nella Cina di Mao erano rimasti fuori dall’indagine del Comitato ad hoc soltanto perché il materiale documentario non era stato sufficiente. 223 A suo giudizio, era necessario un supplemento di ricerca, a partire da accuse provenienti da più parti. Il rappresentante del governo di Taiwan denunciò ad esempio la riduzione di più di sei milioni di persone ai lavori forzati nella Cina popolare, basandosi sulla documentazione fornita dalla Chinese Federation of Labour (CFL), il sindacato vicino al Guomindang e nato nell’ultima fase della guerra civile cinese. In realtà, il lavoro documentario era iniziato già da tempo. Nel marzo 1952, Richard Karl Compton aveva inviato, a nome dell’organizzazione statunitense Aid Refugee Chinese In- tellectuals, una lettera alla CICRC sulle condizioni degli intellettuali cinesi rifugiatisi a Hong Kong dopo la presa del potere dei comunisti a Pechino. La macchina dunque si era messa in moto, destinata ad accelerare nel cor- so dei mesi successivi. 224 Erano iniziative importanti soprattutto a fronte 220. Frank Dikötter, Mao’s Great Famine. The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-1962, New York, Walker & Co., 2010. 221. Bianco, La récidive, p. 358. 222. Domenach, Chine: l’archipel oublié, pp. 139 sgg. 223. Forced Labour: Reports of the Ad Hoc Committee on Forced Labour, in United Nations, Economic and Social Council, Seventeenth Session. 224. Per queste informazioni si veda CICRC, Livre blanc sur le travail forcé et les institutions concentrationnaires dans la République Populaire de Chine, vol. I: Les débats, pp. 11-20.
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dell’atteggiamento estremamente cauto inizialmente mostrato dai funzio- nari del Dipartimento di Stato statunitense. L’Office of Intelligence Rese- arch ad esempio aveva considerato un errore «enfatizzare eccessivamente l’aspetto del lavoro forzato di tali misure» quali l’impiego di prigionieri in lavori pubblici, le corvée nelle campagne, le migrazioni di disoccupati delle città e la mobilitazione dell’esercito. 225 La CICRC, riunita in sessione plenaria, decise dunque di avviare un’indagine per fare luce su cosa stava accadendo in Cina. Nel corso del- la riunione, Rousset denunciò l’esistenza di «una rete di campi di con- centramento importante, che gioca un ruolo analogo alla rete dei campi sovietici». 226 Ancora una volta i campi, collegati alla categoria del totali- tarismo, furono la chiave per cogliere l’unitarietà del fenomeno concen- trazionario. Alla fine dello stesso mese, grazie all’intercessione di Irving Brown, Bernard incontrò a Ginevra un rappresentante della CFL, il sin- dacato vicino al Guomindang, dal quale ricevette un documento che men- zionava l’esistenza di cinquemila campi di lavoro sparsi nel territorio della Repubblica popolare. Il 14 marzo 1953 la CFL chiese ufficialmente alla CICRC di intraprendere un’inchiesta sulle condizioni di detenzione e di lavoro forzato in questi campi. Poco dopo, la CICRC ricevette una richie- sta simile da parte del Consiglio sindacale di Hong Kong e di Kowloon. Il rapporto fu depositato dai rappresentanti della CICRC il 27 maggio 1953 all’Onu, due mesi dopo cioè che i sindacati di Taiwan e Hong Kong ave- vano chiesto ufficialmente l’intervento dell’associazione degli ex deportati europei. Nel corso della seduta del 6-7 novembre 1953, la CICRC decise di inviare una delegazione in Asia per studiare tempi e forme dell’inchiesta. Balachowski e Rousset vennero scelti per svolgere un primo viaggio che ebbe luogo tra 21 febbraio e 8 maggio 1954. I due si recarono a Bangkok, Tokyo, Taipei, Hong Kong, Rangoon, Calcutta, Nuova Delhi e Bombay. Incontrarono giornalisti, esponenti sindacali, uomini politici, membri di associazioni culturali e religiose. Si mossero insomma tra cerchie di go- verno e circoli privati. La CICRC nel frattempo contattò le grandi cen- 225. Il documento è conservato in NARA, RG 59 Department of State, Decimal File 1950-54 From 861.06/4-2550 to 861.064/12-751, b. 5157, File 861.064/5-150 Forced La- bor Secret, The Nature and Extension of Slave Labor in China. 226. L’intervento di Rousset è conservato in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F delta 1880, b. 77, f. 1, Negociations 2 Décision de principe de la Cicrc d’enquêtér sur le travail forcé en Chine, p. 21.
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trali sindacali (la AFL e le Trade Unions britanniche) affinché mettessero a disposizione la loro rete di contatti con i sindacati birmani, indiani, fi- lippini, indonesiani e giapponesi. Allo stesso tempo, un servizio di tradu- zione (fondamentale non soltanto per le testimonianze, ma per lo stesso apparato di norme e di commentari) venne allestito grazie al lavoro dei monaci benedettini dell’Abbazia di Sant’Andrea a Bruges e delle Missions étrangères di Parigi, fondata dai gesuiti. Si estese così al contesto asiatico la grande rete di contatti che fino ad allora non era andata oltre nuclei eu- ropei e statunitensi. 227 La lista di contatti in Asia conservata tra le carte di Rousset lascia intravedere in effetti la formazione di una rete vastissima. A Tokyo opera- vano i benedettini amici di padre Eleuthère, fuggiti dalla Cina comunista, i rappresentanti della AFL e i missionari di Scheut. Nella capitale giappo- nese operava Passin, il quale non si occupò soltanto di intervistare i reduci giapponesi del gulag staliniano, ma anche di realizzare, assieme ad alcuni collaboratori, una mappa dei campi cinesi. A Hong Kong, accanto ai sin- dacati che avevano coinvolto la CICRC, si trovava il centro di accoglienza dei missionari espulsi da Pechino. Nella colonia britannica si pubblicava il «China Missionary Bulletin» ed era attivo il gruppo dei padri gesuiti di Léon Trivière, specializzato nella raccolta di notizie sulla Cina comu- nista, che uscivano sul «Bulletin de la société des Missions Etrangères». Un’intensa circolazione di notizie caratterizzò l’operato di questi gruppi. La stratificazione di conoscenze si ripercosse sugli stessi orientamenti del- la CICRC, la quale spostò proprio in questo periodo il proprio interesse dall’universo concentrazionario sovietico, avviato oramai verso la decom- posizione, a quello cinese, che invece era in piena espansione. 228 Una parte notevole degli articoli del «Bulletin» pubblicato dalla CI- CRC (che cambiò nome in «Saturne» all’inizio del 1956) fu quindi dedicata alla Cina, seguendo uno sviluppo di temi piuttosto coerente: il piano delle trasformazioni economiche e sociali (collettivizzazione delle campagne e piano quinquennale per l’industria) fu connesso a quello della repressione politica, degli arbìtri sul terreno giudiziario e del consolidamento dell’u- niverso concentrazionario. Al centro del discorso fu collocata la presa che 227. CICRC, Livre blanc sur le travail forcé et les institutions concentrationnaires dans la République Populaire de Chine, vol. I: Les débats, pp. 11-20. 228. Si veda la documentazione conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F delta 1880, b. 77, f. 2, Negociations 23 Liste des contacts.
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la burocrazia comunista stava realizzando con metodi militari sul mondo delle campagne, con l’obiettivo di estrarre sistematicamente le risorse ne- cessarie all’industrializzazione. Il «Bulletin» indagò le tecniche politiche della collettivizzazione, le forme di opposizione contadina alla politica agraria, la repressione della libertà intellettuale, le lotta interne al partito, la campagna nazionale per la riforma ideologica e la formazione del quadro normativo del terrore concentrazionario. La «guerra contro i contadini» fu un tema ricorrente negli articoli di Rousset e Trivière. Quest’ultimo, un gesuita che collaborava con un ex trockijsta, dette un contributo importante sul piano interpretativo. Nel carteggio tra i due emerge con forza il nesso tra collettivizzazione e repressione politica. In una lettera del 29 novembre 1955, Rousset chiese al suo interlocutore di «preparare uno studio sul nuo- vo corso della riforma agraria» nella convinzione che questa fosse «la ra- dice sociale della repressione». 229 Il primo dicembre 1955 Trivière rispose confermando la tesi di Rousset e aggiungendo che le «misure draconiane» del regime erano funzionali a distruggere «definitivamente e implacabil- mente tutte le forme di resistenza: ideologiche economiche e politiche». Si disse convinto che «la trasformazione socialista ha creato resistenze serie nei contesti rurali, industriali e commerciali». 230 Questo grande lavoro preparatorio culminò nel «processo» svoltosi a Bruxelles tra 20 e 30 aprile 1956 a opera di una Commissione speciale d’inchiesta sulla repressione politica nella Cina continentale. Questo in- contro riprodusse criteri e forme già sperimentate nel corso della sessio- ne pubblica dedicata ai campi sovietici. La fase istruttoria fu affidata a Bernard, consigliere giuridico della CICRC, mentre l’accusa fu svolta nel rapporto giuridico di Rosenthal e in quello di Rousset. La commissione, chiamata a trarre le conclusioni, fu composta per metà dagli stessi membri della CICRC e per l’altra metà da esponenti dei sindacati asiatici aderenti alla ICFTU. Gli ideatori del «processo» cercarono di far luce su un siste- ma concentrazionario in costruzione che, nel contesto della coesistenza pacifica e del terzomondismo incipiente, veniva sistematicamente oscurato dalla strategia propagandistica del regime di Pechino, il quale infatti aveva appreso rapidamente i metodi della gestione staliniana delle informazioni. L’obiettivo era lo stesso: stendere una cortina fumogena attorno agli aspetti 229. La lettera è conservata in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F delta 1880, b. 80/3, Corresp. Trivière (jullet-décembre 1955). 230. Ibidem.
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che più contrastavano con la facciata ideologica del regime. Dal punto di vista del discorso pubblico, la propaganda cinese puntò sull’immagine di una rivoluzione in due fasi: la prima era quella necessariamente illegale delle origini che tuttavia aveva presto ceduto il passo alla seconda, quella della costruzione di una nuova legalità. L’idea che la rivoluzione avesse prodotto una nuova legalità, dopo una breve necessaria sospensione dei diritti civili, fu diffusa dagli alfie- ri occidentali del comunismo cinese, come Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir in Francia e Piero Calamandrei in Italia. Sartre e de Beauvoir svolsero una visita ufficiale a Pechino tra settembre e ottobre 1955, re- alizzando un grande classico del turismo politico rivoluzionario. Mentre imperversava la repressione degli intellettuali dissidenti (Hu Feng e i suoi amici), Sartre scrisse un articolo encomiastico del regime di Mao su «Fran- ce Observateur». 231 Rousset commentò aspramente l’articolo, denuncian- do il «cinismo di un mandarino» ricevuto con tutti gli onori alla corte di Mao. Pur non dovendo temere alcuna conseguenza, Sartre aveva deciso di tacere su quanto stava allora accadendo in Cina. 232 In Italia, Chiaromon- te, fondatore nel 1956 della rivista «Tempo presente» assieme a Silone, formulò un giudizio altrettanto severo nei confronti di Piero Calamandrei, il quale aveva preso parte a una delegazione italiana in Cina nel 1955. Lo spunto era questo. All’interno del numero speciale de «Il Ponte» dedicato alla Cina d’oggi, ricco di centinaia di pagine in lode del regime di Mao, era pubblicata una foto, scattata da Antonello Trombadori, nella quale il 231. Jean-Paul Sartre, La Chine que j’ai vue, in «France Observateur», dicembre 1955. Dal canto suo, la de Beauvoir pubblicò più tardi un libro che glorificava i risultati della rivoluzione di Mao, La Longue Marche. Essay sur la Chine, Paris, Gallimard, 1957 [trad. it. La lunga marcia, Milano, Mondadori, 2006]. 232. Rousset scrisse: «[Sartre] è libero. Le autorità non possono fare nulla contro di lui. Viene ricevuto all’Università di Pechino e accetta gli onori. Gli scrittori cinesi, gli scrittori comunisti cinesi, possono legittimamente aspettarsi sostegno, conforto e intervento da questo uomo libero, amico del regime, ben accolto […]. Non gli manca il coraggio di agire, ma solo la probità. Sartre tace. Per lui non ci sono che bambini soddisfatti, un popolo gioioso già impegnato in un futuro di grandezza e libertà». Il testo di questo intervento in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, F delta 1880, b. 30, Texts sur la Chine, Jean Paul Sartre en Chine ou les cynisme d’un mandarin. Sul viaggio di Sartre intervenne aspramente anche «Est&Ouest»: «Sartre, di ritorno dalla Cina, ci racconta che la rivoluzio- ne cinese è prudente e saggia, che non ha spargimenti di sangue, che la resistenza passiva dei contadini è inesistente, e per prova egli ci reinvia ai testi ufficiali», Où en est la Chine communiste?, in «Est&Ouest», 144 (1956), p. 11.
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giurista fiorentino era ritratto mentre scriveva su una lavagna collocata all’ingresso di una grande acciaieria una frase di saluti idealmente portati dalla classe operaia italiana a quella cinese. Chiaromonte commentò du- ramente: «Falso il gesto, falsa la frase, falsa la situazione, falso l’uomo in quella situazione». 233 Gli stessi amici di più lungo corso del direttore de «Il Ponte» erano preoccupati per questi entusiasmi cinesi. Il 30 agosto 1955 Salvemini scrisse a Ernesto Rossi di temere che l’amico comune stesse per fare «il salto mortale» del passaggio al comunismo. 234 Tornando al «processo di Bruxelles», il lavoro di inchiesta si svolse a partire da ipotesi consolidate. Fu ripresa la definizione che Germaine Tillion aveva proposto nel 1950 per comprendere cosa fosse un regime concentra- zionario: privazione arbitraria della libertà, deportazione e lavoro forzato a favore dello Stato in condizioni inumane di detenzione. Nell’archivio di Rousset è conservato il materiale che servì a dare spessore documentario a questo apparato concettuale. La costituzione di un corpo di testi giuridici e regolamentari sul lavoro forzato cinese permise di ovviare alle carenze che avevano impedito alle organizzazioni internazionali di occuparsi a tempo debito della Cina popolare. Questa documentazione rafforzò l’idea che un sistema concentrazionario, collocato a metà strada tra dimensione punitiva e obiettivi legati alla produzione, si stava sviluppando all’interno di norme previste dal regime, non costituendo affatto una deviazione (magari tempo- ranea) dalla legalità, necessaria per combattere i nemici della rivoluzione. 235 233. Nicola Chiaromonte, Viaggi in Cina, in «Tempo presente», 3 (1956), pp. 347- 352. Si veda Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte e il tradimento dei chierici, in «Annali della Fondazione La Malfa», 26 (2012), pp. 199-216. 234. Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944- 1957, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 828. 235. Fondamentale in questa documentazione fu l’articolo 7 del Programma comune del settembre 1949, perché pose al centro della legislazione penale il principio del lavoro forzato come misura adatta a vari scopi: punitivi, collegati alla costruzione dell’economia e infine connessi alla riforma del pensiero. La CICRC raccolse altra documentazione che completò l’edificio del lavoro forzato nella Repubblica popolare cinese: il regolamento generale riguardante le corti di giustizia popolari del 20 luglio 1950; il regolamento sulla punizione dei controrivoluzionari del 21 febbraio 1951; le disposizioni sulla formazione dei tribunali popolari durante la campagna dei «cinque anti» del marzo 1952; le misure provvisorie per la sorveglianza dei controrivoluzionari del 27 giugno 1952; i regolamenti che riguardavano la Riforma attraverso il lavoro dei criminali del 26 giugno-7 settembre 1954; la Costituzione della Repubblica popolare cinese del 20 settembre 1954; la legge di organizzazione delle procure del 21 settembre 1954; la legge di organizzazione dei tribunali popolari del 21 settembre 1954, il regolamento sugli arresti e detenzione del 20 dicem-
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La raccolta della stampa (anche locale) e delle dichiarazioni ufficiali di mini- stri e altri esponenti del regime comunista costituì una sezione documentaria altrettanto importante: essa mostrò con chiarezza l’intrusione sistematica del partito e della sua ideologia nelle vicende giudiziarie, il peso abnorme degli organi di polizia, l’uso massiccio di sentenze amministrative, la presenza costante di tribunali speciali che operavano fuori da ogni principio di garan- zia. 236 Attraverso queste fonti fu possibile infatti approfondire il significato che le autorità attribuivano di volta in volta al sistema dei campi in uno sfor- zo retorico crescente, volto a rendere funzionale la repressione agli obbiettivi della modernizzazione economica, senza rinunciare peraltro alla mitologia della costruzione dell’uomo nuovo attraverso il lavoro coatto. 237 Furono avviati inoltre diversi tentativi di mappare i campi cinesi: quanti erano, dove si trovavano, provincia per provincia, quanti esseri umani erano racchiusi dietro il filo spinato e a quale settore produttivo erano collegati i lavori svolti. Questa ricerca fu compiuta in parte grazie allo studio delle stesse fonti ufficiali, in parte grazie ai risultati delle ricer- che promosse da leghe per i diritti umani con sede a Macao, Hong Kong e Tokyo. Una mappa dettagliata del lavoro forzato in Cina provincia per provincia presentò la cifra di circa cinque milioni di detenuti, mentre fonti di Hong Kong e Taiwan parlavano di circa sedici milioni di persone. 238 In- fine, al di là di luoghi e cifre, la carne viva dell’universo concentrazionario cinese fu messa in risalto dalle testimonianze di quanti erano stati rilasciati (prevalentemente missionari espulsi dopo un periodo di detenzione, ma anche soldati giapponesi) e quanti, tra i cittadini cinesi, erano invece mira- bre 1954. Tutta questa documentazione si trova, tradotta in francese, in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, b. 85, f. 2, Note generale de travail. 236. Ibidem. 237. Per la particolare insistenza sulla «riforma del pensiero» nel contesto cinese, vera novità rispetto al modello sovietico, dove la «correzione» costituiva un motivo puramente retorico, si veda Domenach, Chine: l’archipel oublié e le osservazioni di Bianco, il quale chiama in causa la tradizione confuciana con al centro il motivo la malleabilità della natura umana. Bianco, La récidive. Cosa concretamente significasse la riforma del pensiero nei campi e nelle prigioni cinesi, è stato raccontato in memoriali usciti molti anni più tardi Jean Pasqualini, Prisoner of Mao, Harmondsworth, Penguin Books, 1976; Harry Wu, Laogai: The Chinese Gulag, San Francisco-Oxford, Boulder, 1992; Id., Bitter Wind. A Memory of My Years in China’s Gulag, New York, John Wiley, 1994. 238. Il censimento dei luoghi concentrazionari è conservato in La Contemporaine (Nanterre), Fonds David Rousset, b. 91, f. 1 Plan détaillé des lieux de travaux forcés en Chine communiste.
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colosamente fuggiti. Dopo esser state raccolte e tradotte, le testimonianze furono vagliate seguendo alcuni criteri fondamentali. Venne verificata per quanto possibile la collocazione spazio-temporale delle storie raccontate e furono accolte soltanto quelle testimonianze che presentavano elementi sufficientemente tipici, cioè ricorrenti anche nelle altre. Emerse in definiti- va un quadro che non lasciava dubbi circa l’arbitrarietà degli arresti, l’uso esteso di procedure di deportazione per via amministrativa, gli scarsi diritti della difesa durante i processi (quando venivano celebrati) e infine le terri- bili condizioni di vita e di lavoro nei campi. 239 Il giudizio della Commissione speciale fu senza appello, riprendendo da vicino gli argomenti espressi dall’accusa. Nel suo intervento, Rousset stabilì un nesso concettuale tra regime «statista» e «regime concentra- zionario». La politica di penetrazione nella società rurale tradizionale da parte del partito-Stato comunista fu analizzata con grande lucidità: il ter- rore nelle campagne scatenato subito dopo l’avvento al potere del partito comunista non proveniva dal basso, dall’ansia di giustizia dei contadini poveri, ma dall’alto: esso proveniva «dalla prefettura». E aggiunse che l’obiettivo essenziale «dal punto di vista del regime» non era certamente l’equa distribuzione della terra, ma «l’instaurazione di nuovi rapporti di costrizione» basati «sugli interessi particolari ed egoistici dei nuovi pa- droni dello Stato». 240 La lettura della riforma agraria come «istallazione di un nuovo dispositivo statista» era tesa a mandare in pezzi tutte le illusioni dei progressisti occidentali, amici del regime di Mao. 241 Rousset cercò di ripercorrere le diverse tappe della repressione attuata in quei primi anni dal regime, soffermandosi sulla formazione di un universo concentrazionario in espansione come terminale di quelle politiche. Questa analisi fu condot- ta sul filo delle scelte che il regime era chiamato a compiere di lì a breve. Se avessero definitivamente prevalso le politiche radicali, i comunisti cine- si non avrebbero potuto fare altro che «affrontare i cinquecento milioni di contadini con il terrore e impegnarsi lungo una strada che condurrà neces- 239. Sulle testimonianze di ex detenuti si veda innanzi tutto ivi, b. 85, f. 3, che rac- coglie testi di missionari e uomini di chiesa occidentali, i quali, arrestati, avevano scontato pene durissime nei primi anni di vita del regime di Mao. 240. Livre blanc sur le travail forcé et les institutions concentrationnaires dans la République Populaire de Chine, vol. I, p. 202. 241. Ibidem. Questa caratterizzazione della riforma agraria come «bisogno di rompe- re i legami tradizionali del villaggio» è stata recepita dalla storiografia recente più avvertita cfr. Dikötter , The Tragedy of Liberation, p. 76.
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sariamente all’instaurazione di una società concentrazionaria». 242 A partire dall’estate del 1958, l’avvio del tragico esperimento delle comuni popolari nell’ambito del Grande balzo in avanti voluto da Mao confermò i timori di Rousset. Questa lungimiranza, tragica nella sua essenza, non fu un caso o semplicemente un giudizio azzeccato, ma qualcosa di più. La riflessione di Rousset, al di là di alcune forzature sul carattere unitario degli universi concentrazionari, era infatti fondata su una precisa cognizione della logica estrema degli stati militari novecenteschi. 243 E veniamo alla terza traiettoria, ossia la ridefinizione del paradigma totalitario in epoca post-staliniana. Per comprendere questo passaggio è necessario scomporlo in due parti: nella prima si osserva come questo pa- radigma raggiunse il suo apice proprio mentre la realtà stava cambiando: sia quella internazionale, con una più pronunciata presenza del discorso terzomondista, sia quella interna allo stato sovietico, il quale, smantel- lando i campi, appariva sempre di più qualcosa di diverso da uno stato totalitario. Nella seconda, si seguono testi e autori, i quali, pur non rifiu- tando il discorso sul totalitarismo, seppero cogliere le più evidenti fra- gilità interpretative di questa categoria. Vediamo il primo punto: proprio mentre, i rappresentanti del mondo della decolonizzazione criticavano il primato della guerra fredda, relativizzando dunque le sue categorie (tota- litarismo, sistema di lavoro forzato ecc.), il paradigma totalitario sembrò rafforzare la sua coerenza interpretativa. Lo si può cogliere con facili- tà, dando uno sguardo alla sinistra democratica in Italia. L’associazione italiana per la libertà della cultura, la quale faceva parte di un più vasto mondo di associazioni sorelle sorte a partire dal congresso di Berlino del 1950, produsse, a partire dagli anni successivi. opuscoli di grande interesse, variamente ispirati alla cultura dell’antitotalitarismo. Vitaliano Brancati si esercitò sul tema delle «due dittature» nel 1952, anno in cui Czesław Miłosz, il grande poeta e saggista polacco, scrisse del «dramma degli intellettuali» dell’Europa orientale. 244 Riferendosi alla fascinazione degli intellettuali occidentali per il comunismo sovietico, Chiaromonte 242. Livre blanc sur le travail forcé et les institutions concentrationnaires dans la République Populaire de Chine, vol. I, p. 250. 243. Di cui indubbiamente il grande balzo in avanti rappresentò uno dei suoi tragici apogei. Si veda il già menzionato Dikötter, Mao’s Great Famine. 244. Vitaliano Brancati, Le due dittature, Roma, Associazione italiana per la libertà della cultura, 1952; Czesław Miłosz, La grande tentazione. Il dramma degli intellettuali nelle democrazie popolari, Roma, Associazione italiana per la libertà della cultura, 1952.
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parlò del proprio tempo come del «tempo della malafede». 245 Nel 1954, Sidney Hook, che già abbiamo incontrato alla fine degli anni Trenta come esponente della sinistra antistalinista statunitense, e lo scrittore Roger Caillois rifletterono sul marxismo come «filosofia di stato». 246 Nello stes- so anno, Garosci dette alle stampe un saggio sul carattere totalitario del pensiero di Gramsci, espressione, a suo dire, di una concezione mirante a «ridurre ogni cosa alla politica, di costringere entro la battaglia politica tutti i valori della vita». Gramsci aveva rotto l’impianto economicistico del marxismo, realizzando secondo Garosci «un salto fuori dalle con- traddizioni della società grazie a una ferrea organizzazione che cerca di legarsi le forze intellettuali e di sottomettersele». 247 A completamento del quadro, la casa editrice Comunità pubblicò nel 1956 Oppressione e liber- tà di Simone Weil e La teoria comunista del diritto di Kelsen. Comprensibilmente, i frutti più maturi furono prodotti dalla cultura accademica statunitense. Il maggiore fu Totalitarian Dictatorship and Au- tocracy di Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski. Uscito nel 1956, esso segnò senza dubbio un punto di approdo delle ricerche svoltesi dentro quel laboratorio politico transatlantico che aveva i suoi cardini nel Russian Research Center di Harvard, diretto da Clyde Kluckhohn, e nell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco, diretto dallo storico Hans Rothfels e dedicato allo studio della Germania nazista. 248 Dopo la fine della guerra, Friedrich fu nominato consigliere del governatore militare Lucius D. Clay, impegnan- dosi così nel difficile processo della denazificazione e della ricostruzione delle istituzioni tedesco-occidentali. Quanto a Brzezinski, figlio di un di- plomatico polacco il quale aveva svolto il suo servizio negli anni Trenta prima in Germania e poi in URSS, egli discusse la sua tesi di dottorato sul regime sovietico nel 1953. Egli fu guidato nella redazione di questo lavoro da Merle Fainsod, uno dei ricercatori del Russian Research Center di Har- 245. Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede (il comunismo e gli intellettuali), Roma, Associazione italiana per la libertà della cultura, 1953. 246. Sidney Hook, Il materialismo dialettico come filosofia di stato, Roma, Asso- ciazione italiana per la cultura, 1954; Roger Callois, Descrizione del marxismo, Roma, Associazione per la libertà della cultura, 1954. 247. Aldo Garosci, Totalitarismo e storicismo nel pensiero di Gramsci, in Id., Pen- siero politico e storiografia moderna. Saggi di storia contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi, 1954, p. 241. 248. Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Auto- cracy, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1956.
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vard. Come è noto, il volume del 1956 costituì lo sviluppo delle idee che Friedrich aveva già esposto in Totalitarianism, un volume collettaneo da lui curato nel 1953 e che in una certa misura era collegato alla produzione dello stesso autore risalente alla fine degli anni Trenta. 249 Le caratteristiche dei regimi totalitari, individuate da Friedrich e Br - zezinski, sono fin troppo note per essere analizzate, anche soltanto sinte- ticamente, in questa sede: il principio del capo, il partito unico, la polizia politica, il sindacato cinghia di trasmissione, il monopolio dei mezzi di co- municazione di massa e la direzione statale dell’economia. È però interes- sante soffermarsi almeno su un aspetto che ci riguarda più da vicino, ossia la natura del terrore totalitario, la sua funzione e i suoi strumenti. Il terrore fu definito dai due autori come un «nervo vitale» dei regimi totalitari: esso serviva soltanto inizialmente a reprimere i nemici reali, diventando successi- vamente uno strumento ordinario di governo che paradossalmente cresceva «per portata e violenza» una volta che il partito totalitario si era consolidato al potere. 250 Nuove categorie di nemici, su basi sociali o nazionali, appariva- no di volta in volta come soggetti da punire attraverso una macchina gestita dalla polizia segreta e un sistema giudiziario degradato a funzioni politico- ideologiche. 251 I due autori concentrarono l’attenzione sul sistema dei campi, ricorrendo per l’universo concentrazionario nazista – non diversamente da Hannah Arendt – all’opera di David Rousset. Sempre attenti a cogliere le differenze funzionali delle istituzioni totalitarie naziste e sovietiche, Frie- drich e Brzezinski enuclearono l’esperienza dei centri di sterminio nazisti come «fabbriche di ossa». Tuttavia, l’esperienza concentrazionaria in gene- rale (quella nazista come quella sovietica) era presentata a partire da elemen- ti analoghi quali la presenza di «schiavi» costretti, in condizioni terribili, a dare il loro contributo allo sforzo produttivo generale «dietro una cortina di mistero». 252 Nel caso specifico del regime sovietico, il lavoro forzato venne dipinto innanzi tutto come strumento per diffondere un sentimento di paura 249. Totalitarianism. Proceedings of a Conference Held at the American Academy of Arts and Sciences, March 1953, a cura di Carl J. Friedrich, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1954. Su questo contesto Engerman, Know Your Enemy, pp. 207-208. 250. Il terrore costituisce il «metodo fondamentale per raggiungere gli obiettivi totali del regime e per mantenere la rivoluzione permanente, senza la quale il regime perderebbe il suo carattere totale e probabilmente anche il suo potere. Il terrore totalitario è, quindi, il nervo vitale del sistema totalitario». Friedrich e Brzezinski, Totalitarian Dictatorship, p. 132. 251. Ivi, p. 137. 252. Ivi, p. 165.
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nella società, quindi come surrogato di incentivi economici nelle terre di frontiera (come la regione della Kolyma), dove nessuno voleva recarsi. 253 Considerando questo intreccio di motivazioni politiche ed economiche (as- sieme allo sforzo di costruire un quadro di analogie e differenze tra i due regimi concentrazionari), si può concludere che Totalitarian Dictatorship and Autocracy abbia effettivamente rappresentato il punto più alto di un im- portante dibattito svoltosi a partire dagli anni Trenta. 254 Venendo al secondo punto richiamato sopra (le fragilità interpretati- ve del totalitarismo come categoria), già da qualche tempo presero forma riflessioni meno statiche, più aperte a indagare il concreto evolversi del sistema sovietico, andando così al di là dello spirito di sistema che caratte- rizzò l’opera di Friedrich e Brzezinski. Nel 1953, Merle Fainsod dette alle stampe un volume, il quale, basato sulle interviste ai rifugiati sovietici in Germania che già conosciamo, intese comunicare il «senso del processo politico vivente in cui governanti e sudditi sovietici sono coinvolti», ossia il terrorismo di stato e il lavoro forzato come cardini del regime politico edificato da Stalin. 255 La specificità di questo lavoro rispetto al paradigma totalitario culminato nell’opera di Friedrich e Brzezinski derivò dalla let- tura attenta delle interviste sopra ricordate: da esse era emerso infatti che un sistema come quello sovietico, impegnato a consolidare in tempi rapidi uno stato di tipo militare, non potesse che suscitare un odio diffuso nella popolazione; un odio rivolto alla polizia politica, alle deportazioni e al si- stema dei campi. 256 Le osservazioni di Fainsod erano preziose perché, pur mantenendosi nell’orizzonte della teoria del totalitarismo, introdussero un punto di vista critico: una piena sussunzione della società dentro le strut- ture dello stato, così come avrebbe voluto l’applicazione della teoria del totalitarismo, non si era semplicemente data. L’odio persistente per le poli- tiche del regime (dall’eredità delle rivolte contadine dei primi anni Trenta alla rivolta dei prigionieri del gulag nel 1953-1954) restituì insomma l’idea che la società sovietica non era composta da atomi isolati, privi di legami 253. Ivi, pp. 218-219. 254. Peraltro la ricezione del libro fu varia con commenti tanto positivi quanto nega- tivi, come quello di Alexander Dallin che definì come statica la visione del totalitarismo dei due autori. Il giudizio di Dallin è citato in Engerman, Know Your Enemy, pp. 208-209. 255. Merle Fainsod, How Russia is Ruled, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1953. 256. Ivi, p. 497.
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sociali e capacità di agire, bensì da una pluralità di soggetti in alcuni casi attivi e pronti a sfidare il dispotismo. La critica della teoria del totalitarismo, inteso come perfetta macchina di dominio sociale, proseguì parallelamente alla sua piena codificazione. Nello stesso periodo in cui infatti uscì l’opera di Friedrich e Brzezinski, venne pubblicato, per gli stessi tipi di Harvard University Press, How the Soviet System Works, un lavoro collettaneo realizzato da Raymond A. Bauer, Alex Inkeles e Clyde Kluckhohn, ossia i ricercatori che avevano coordina- to le interviste dei rifugiati sovietici in Germania all’inizio del decennio. 257 Engerman ha notato che in questo volume venne delineato un quadro in netto contrasto con la visione del totalitarismo realizzato, al cui interno in- dividui atomizzati non sarebbero stati più in grado di agire autonomamen- te, ma soltanto di obbedire. In URSS, invece, l’integrazione della società nello stato era stata del tutto imperfetta, caratterizzata da uno scontro con- tinuo tra richieste esose del regime e aspettative delle persone, dei gruppi nazionali e delle categorie sociali. 258 La lettura che Engerman ha proposto di How the Soviet System Works, è corretta nella sostanza, anche se priva di sfumature. In realtà, a ben guardare, gli autori definirono il regime so- vietico una sorta di «statismo totale», collocando al centro della loro opera il «terrore e il lavoro forzato», non diversamente da Friedrich e Brzezinski. Non si può negare tuttavia che, pur restando all’interno della griglia del totalitarismo, Bauer e i suoi colleghi seppero cogliere le implicazioni te- oriche dell’odio diffuso per il regime da parte della popolazione. In altri termini, lo «statismo totale» sovietico risultava in sostanza esser stato sin dagli esordi un’aspirazione più che una realtà compiuta. 259 La strada del ridimensionamento del paradigma totalitario era stata oramai imboccata. Smolensk under the Soviet Rule di Fainsod uscì nel 1958. L’autore utilizzò ancora l’espressione totalitarismo per comprendere la natura delle relazioni tra stato sovietico e società. 260 Allo stesso tempo, però, non esitò a mandare in mille pezzi l’idea che in URSS era esisti- ta un’efficiente macchina totalitaria. Fainsod aveva potuto lavorare sulle carte del partito bolscevico a Smolensk, entrate in possesso dell’intelli- 257. Raymond A. Bauer, Alex Inkeles e Clyde Kluckhohn, How the Soviet System Works, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1956. 258. Engerman, Know Your Enemy, p. 266. 259. Bauer, Inkeles e Kluckhohn, How the Soviet System Works, p. 114. 260. Merle Fainsod, Smolensk Under Soviet Rule, Cambridge, MA, Harvard Univer- sity Press, 1958.
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gence statunitense in Germania dopo la fine della guerra. L’archivio era qui giunto per opera degli apparati nazisti già nell’immediato periodo suc- cessivo all’invasione del giugno 1941. Da questa documentazione emerse un’immagine del regime sovietico come attraversato da conflittualità a vari livelli: poteri regionali in conflitto con le richieste del centro, contadini in conflitto con il partito, lavoratori in rivolta contro i dirigenti dell’industria locale, una tensione permanente tra partito e polizia. Tutto ciò, commentò Fainsod, rendeva il totalitarismo sovietico «ben lungi dall’essere perfetto». In altri termini, la complessità delle relazioni centro-periferia, i conflitti interni ai gruppi di potere di diversa estrazione e funzione e ancora il grado di autonomia presente in settori della popolazione, non disposta dunque, a farsi ridurre a un indefinito numero di atomi slegati tra loro, costituivano nel loro complesso un quadro di riferimento concettuale che il paradigma del totalitarismo conteneva a fatica. 261 Riepilogando quanto si è venuti dicendo fino ad adesso, questi anni tra 1953 e 1957 videro profonde trasformazioni. La fine del regime di Stalin dette forza a una nuova visione dei rapporti internazionali, nel cui ambito la decolonizzazione e i suoi protagonisti trovarono molto più spazio. Del resto, le trasformazioni interne del regime sovietico (con lo smantellamen- to del gulag avviato già nel 1953) posero il problema di una ridefinizione della battaglia politica del variegato mondo antisovietico internazionale. Le tre traiettorie che abbiamo ricostruito (la memoria degli anni Trenta oltre le manipolazioni del potere post-staliniano, la documentazione dei campi cinesi e ancora la ridefinizione del paradigma totalitario se non pro- prio la sua sconfessione) costituiscono nel loro complesso la cornice all’in- terno della quale si svolse l’ultimo tratto della strada che condusse alla Convenzione contro il lavoro forzato. Come vedremo, il nuovo Comitato ad hoc fece molta più fatica nell’individuare un punto di equilibrio tra le esigenze della guerra fredda e quelle della decolonizzazione. Una fatica derivata anche dal fatto che la realtà nel suo complesso non era più quella di quando l’intero processo era iniziato, cioè il 1949. Nel novembre 1954, il corpo esecutivo dell’International Labour Offi- ce introdusse nuovamente la questione del lavoro forzato nell’agenda della Conferenza generale dell’ILO, prevista per il 1956. E nel corso della sua 129esima sessione, tenutasi a Ginevra nel giugno 1955, lo stesso corpo ese- cutivo autorizzò il direttore Morse a nominare un nuovo Comitato ad hoc. 261. Engerman, Know Your Enemy, pp. 213-215.
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Presieduto da Paul Ruegger, presidente della Croce Rossa tra 1948 e 1955, il comitato fu composto da César Charlone, figura di lungo corso della poli- tica uruguaiana, e da T.B.P. Goonetilleke, già membro del primo governo di Ceylon indipendente nel 1947. 262 Lo schema era stato già sperimentato con il comitato di Mudaliar: una figura di rilievo proveniente dalla cultura dei diritti umani europea, un esponente del progressismo latinoamericano e uno del mondo della decolonizzazione asiatica. Tuttavia, questo nuovo comitato si trovò a lavorare in un contesto assai diverso da quello in cui avevano lavo- rato Mudaliar e gli altri membri del primo comitato, nella misura in cui i rap- porti tra i due blocchi erano entrati in un’epoca di ridefinizione rispetto agli anni della guerra di Corea. Il nuovo orizzonte della politica globale divenne la competizione tra diversi modelli politici e sociali che i nuovi stati, usci- ti dal processo di decolonizzazione, erano destinati a scegliere. Se tuttavia questa ridefinizione del ruolo guida delle superpotenze non poté esercitare se non in parte la propria influenza sugli organismi internazionali, è pur vero che una posizione «terza», decisa a segnalare il conflitto tra Nord e Sud, a fianco di quello tra Est e Ovest, si fece infatti strada. Questa posizione bussò con forza alle porte delle Nazione Unite, dei suoi organismi e delle sue agen- zie, finendo con il tempo per imporsi. Il quadro documentario riguardante la Cina sembrò confermare le co- ordinate della guerra fredda, ma contestualmente le voci di denuncia dei misfatti del colonialismo e dei regimi segregazionisti mirarono in qualche modo a modificare in profondità le coordinate stabilite. Ruegger inaugurò la prima sessione di riunioni a Ginevra nel marzo 1956. Poco prima, il 7 febbraio, Greenidge, dirigente dell’Anti-Slavery Society, aveva scritto una lettera a Robert Gavin, funzionario dell’International Labour Office, nella quale affermò di aver apprezzato la nomina del nuovo comitato. L’occa- sione di questo scambio epistolare spinse Greenidge a comunicare al suo interlocutore alcune notizie sulla questione del lavoro forzato nell’impero portoghese. In particolare, trovò degno di nota che a Lisbona si era giunti all’«ammissione ufficiale che 142.000 lavoratori forzati sono stati trasferiti in Angola nel 1953». 263 Trovarono spazio in questo periodo le accuse rivol- 262. La lettera di nomina della Commissione si trova in ILO Archives (Ginevra), ILO- BIT, ILO Committees on Forced Labour, 2-1-1, ILO Committee on Forced Labour – Set- ting Up: Composition of Committee and Secretariat. 263. La missiva è conservata in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour, 2, ILO Committee on Forced Labour – General.
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te alle autorità imperiali britanniche circa l’allestimento di campi di lavoro forzato in Kenya in risposta alla rivolta dei Mau Mau. Il comitato però non arrivò mai a denunciare ciò che gli stessi britannici sapevano, cioè di es- sere «tecnicamente in violazione delle convenzioni sul lavoro forzato». 264 Questi episodi ci mostrano che in definitiva l’intreccio tra guerra fredda e decolonizzazione agisse sullo sfondo, condizionando in qualche modo i lavori del Comitato Ruegger, costretto a cercare un equilibrio tra diverse, e forse inconciliabili, istanze. La ricerca di un punto di equilibrio emerse con evidenza dalla boz- za delle conclusioni provvisorie dei lavori del comitato. Si sottolineò la continuità dei metodi analitici e di raccolta dei dati rispetto al lavoro svolto dal primo comitato. Del pari, fu riproposta la definizione di lavoro forzato come «sistema» distinto dalle sopravvivenze di forme arcaiche di sfruttamento. Si ribadì inoltre che la funzione specifica del comita- to fosse di raccogliere materiale sui casi precedentemente esclusi, come quella della Repubblica popolare cinese. Fu espresso un giudizio nega- tivo sulle amnistie in Europa centro-orientale e in URSS, derivante dal fatto che non erano stati ancora liberati i prigionieri politici. E infine fu affermata la continuità dell’umanitarismo antischiavista contro il gover- no sudafricano e il colonialismo portoghese. 265 Tuttavia, nel nuovo clima, nonostante questo tentativo di procedere secondo i metodi consolidati, lo scontro intorno al lavoro del nuovo Comitato non accennò a placarsi. L’8 giugno 1956 James L. Mowat, a capo della Divisione delle ricerche e dei rapporti speciali dell’ILO, scrisse a Charlone a proposito delle criti- che provenienti non soltanto dal rappresentante sovietico, ma, di nuovo, da quello indiano, il quale, assieme a quello pakistano, aveva sostenuto che nelle indagini del comitato erano ignorati quasi del tutto «i territori coloniali». 266 In definitiva, se l’anticolonialismo non invase completa- mente gli austeri ambienti ginevrini, nel complesso, il Report finale del Comitato Ruegger finì comunque per comporre un quadro più ampio del lavoro forzato come sistema: non più soltanto come strumento di coerci-
264. Caroline Elkins, Imperial Reckoning. The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya, New York, Holt, 2005. 265. La bozza delle conclusioni si trova in ILO Archives (Ginevra), ILO-BIT, ILO Committees on Forced Labour 2-1001, ILO Committee on Forced Labour – 1 st Session 266. Ibidem.
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zione politica o mobilitazione a fini produttivi, ma anche espressione di discriminazione razziale, sociale e nazionale. 267 La convergenza delle critiche dei rappresentanti dell’URSS (e degli altri regimi di tipo sovietico) con quelle dei rappresentanti dei nuovi stati, espressione del vasto movimento della decolonizzazione, condizionò evi- dentemente gli ultimi passaggi di una strada che era stata intrapresa dieci anni addietro in tutt’altro contesto. Quando il Report finale del Comitato fu sottoposto dal corpo esecutivo dell’ILO alla conferenza annuale del 1956, i rappresentanti sovietici cercarono di trasformare la questione del lavoro forzato in un giudizio senza appello sul colonialismo, forti del fatto che lo smantellamento progressivo del gulag stava mettendo, almeno in parte, l’URSS e i suoi alleati al riparo dalle critiche che precedentemente era- no state rivolte loro con tanta veemenza. L’attivismo sovietico deve esser messo in relazione con il fatto che, già prima della Conferenza, gli Stati Uniti avevano fatto sapere che non avrebbero ratificato la Convenzione, lasciando così campo libero alla propaganda antiimperialistica sovietica. 268 Questa propaganda si fece sentire anche sul terreno della schiavitù, che dal 1949 era oggetto di indagine da parte di un altro Comitato ad hoc. Duran- te il percorso che sfociò nel 1956 in una convenzione supplementare (la prima, si ricorderà, risaliva al 1926) i sovietici animarono un blocco anti- coloniale che avrebbe voluto imporre il bando immediato di tutte le forme di schiavitù, rovesciando l’approccio gradualista coltivato soprattutto dalla delegazione britannica. 269 Ora, questo rovesciamento di posizioni, per quanto significativo, non deve essere esagerato nella sua portata. Infatti, alla fine, la logica che ave- va spinto a ripensare le convenzioni del 1926 (sulla schiavitù) e del 1930 (sul lavoro forzato) si impose, neutralizzando la manovra sovietica volta a costituire, attraverso nuove convenzioni, un tribunale permanente contro il colonialismo e contro l’Occidente. Al di là di ogni critica possibile, in- fatti la revisione delle convenzioni era stata avviata sui binari della guerra 267. Maul, Human Rights, Development and Decolonization, pp. 208-209. 268. Secondo Maul, i sovietici agirono in questo modo con l’obbiettivo di distrarre l’attenzione dal lavoro forzato sovietico e attrarre le simpatie dei nuovi stati sorti dalla decolonizzazione. Ivi, p. 209. Resta che questa strategia fu resa possibile dal fatto che, a quella data, il sistema sovietico del lavoro forzato era già avviato verso lo smantellamento, rendendo l’URSS e i suoi alleati interlocutori più credibili nei confronti delle élite del Terzo mondo e dell’opinione pubblica globale. 269. Miers, Slavery in the Twentieth Century, pp. 328-329.
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fredda occidentale e su di essa si cercò di farla rimanere. Le scelte iniziali, come sempre, contarono: il semplice fatto che il lavoro forzato fosse sta- to disinserito dal campo di indagine del Comitato ad hoc sulla schiavitù aveva costituito a suo tempo, cioè dal 1949, una scelta non casuale. Così facendo, infatti, il lavoro forzato, divenuto oggetto di indagine specifica, poteva essere connesso più facilmente alla nuova realtà del totalitarismo sovietico, mantenendo allo stesso tempo un rapporto residuale con l’eredi- tà del colonialismo. Il problema fu certamente che, con il passare del tem- po, le trasformazioni della guerra fredda dopo il 1953, l’emergere con pre- potenza della decolonizzazione e altro ancora, finirono per condizionare in qualche misura il processo di revisione delle convenzioni internazionali. 270 In definitiva, se è corretto affermare che un rovesciamento sovietico dei presupposti non poté essere realizzato, non va dimenticato che il successo dei riformatori occidentali fu molto limitato. Vediamo allora la nuova Convenzione contro il lavoro forzato. 271 Se il nesso totalitarismo-sistemi di lavoro rimase centrale fino alle ultime bat- tute, fu altresì necessario realizzare un tentativo di sintesi con le istanze provenienti dal Terzo mondo, come mostrano i risultati dei lavori della Conferenza generale dell’ILO. Leggendo l’art. 1 della nuova convenzione si ritrova lo spirito e la lettera della prima guerra fredda. I paesi intenzio- nati a ratificare la convenzione avrebbero dovuto impegnarsi ad abolire il lavoro forzato nelle seguenti forme: (a) come mezzo di coercizione politica o di educazione o come punizione per il possesso o l’espressione di opinioni politiche o ideologicamente opposte al sistema politico, sociale o economico stabilito; (b) come metodo per mobilitare e utilizzare la manodopera ai fini dello svi- luppo economico.
Un punto di approdo fu finalmente raggiunto, perché queste norme era- no esplicitamente rivolte a stigmatizzare i sistemi di lavoro forzato vigenti 270. Come si è già ricordato, divenne decisiva la competizione tra le due superpoten- ze nel cosiddetto Terzo mondo sul terreno economico, politico e militare. Non trattandosi più soltanto del teatro europeo, ma oramai mondiale, le stesse categorie interpretative della prima guerra fredda subirono una forte pressione sul terreno concettuale. Westad, The Cold War. A World History. 271. Per il testo della convenzione si rimanda a https://www.ilo.org/dyn/normlex/ en/f?p=NORMLEXPUB:55:0:::55:P55_TYPE,P55_LANG,P55_DOCUMENT,P55_ NODE:CON,en,C105,/Document#A4.
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nei paesi socialisti. Peraltro, il riferimento al lavoro forzato come mezzo ri- educativo segnalò, al di là delle vaghe aspirazioni correttive del regime so- vietico e dei suoi alleati in Europa orientale, che i metodi brutali del lavaggio del cervello, vigenti nei campi di Mao, erano stati presi in considerazione. Gli altri punti presenti all’art. 1 tuttavia parlarono un linguaggio completa- mente diverso. Fatto salvo il terzo, che indicava una generica «disciplina del lavoro», gli ultimi due costituirono il frutto di un mutamento di prospetti- va globale che aveva influenzato gli ambienti ginevrini. Laddove infatti si fece riferimento al lavoro forzato «come punizione per aver partecipato a scioperi» e «come mezzo di discriminazione razziale, sociale, nazionale o religiosa» si poté avvertire che l’obiettivo non fosse stigmatizzare i regimi socialisti, ma altri regimi di tipo autoritario e coloniale. Nella stessa direzione andò la nuova Convenzione sulla schiavitù, che incluse il peonage, i legami contratti per debiti, i matrimoni forzati e infine l’adozione ai fini di sfruttamento. Greenidge rimase molto deluso, perché, a suo modo di vedere, la Convenzione non era stata dotata di «denti» per mordere queste forme di schiavitù, imponendone quindi un’effettiva abo- lizione. 272 Le delusioni avevano una loro ragion d’essere anche per quanto riguarda la Convenzione contro il lavoro forzato. Al di là del fatto che nep- pur essa era stata dotata di «denti» per mordere, la storia della sua ratifica fu piuttosto curiosa: gli Stati Uniti si disimpegnarono definitivamente, rati- ficandola soltanto nel 1991, mentre altri paesi, come la Francia, ritardarono la ratifica fino alla fine degli anni Sessanta. Persino, le nuove realtà statuali sorte sul terreno della decolonizzazione non si affrettarono a ratificare la convenzione, perché in fondo coltivavano il desiderio di mantenere le mani libere al momento dell’avvio del processo di modernizzazione. Fu eviden- te che moralità e diritto senza la forza impressa dal potere, ossia la volontà dei governi occidentali, non poterono certamente ottenere grandi risultati nell’immediato. Tuttavia, per quanto avesse raggiunto risultati poco più che simbolici, la battaglia pluridecennale culminata nella Convenzione del 1957, era destinata a lasciare una traccia. Decenni di dibattiti, iniziative e pubblicazioni avevano contestato l’immagine dei regimi di tipo sovietico come regimi impegnati a realizzare l’emancipazione dell’uomo. In un intreccio costante di ricerca documentaria, passione civile e militanza politica, la sinistra internazionale ostile al regime di Lenin e di Stalin aveva raggiunto qualche risultato non 272. Miers, Slavery in the Twentieth Century, pp. 330-331.
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disprezzabile. Sganciando l’immagine del regime sovietico dalla tradizione progressista, basata sull’espansione dei diritti individuali e collettivi, essa presentò il regime sovietico sotto una luce assai diversa: già all’inizio degli anni Venti fu sottolineato il carattere originario (e non derivato) del «terrore rosso» connaturato all’ideologia bolscevica. In seguito, indagando sulle isole Solovki, si mise a fuoco la dimensione concentrazionaria durante gli anni della NEP fino a caratterizzare la «rivoluzione dall’alto» di Stalin, intrapresa nel 1929, come una spaventosa regressione sul terreno civile. La concettua- lizzazione totalitaria di questo regime fece infine da viatico per lo studio dei sistemi di lavoro forzato al tempo della guerra fredda. In questo percorso, la sinistra internazionale non agì isolatamente, ma interagendo con un più vasto mondo. Si è visto che la circolazione delle in- formazioni coinvolse soggetti distanti anni luce dalla sinistra (dalla Com- missione Denikin fino all’intervento delle chiese cristiane). Soprattutto si è visto che la sinistra internazionale agì, almeno in determinati contesti come quello della prima guerra fredda, come parte di una coalizione più vasta, che tenne insieme la dimensione della moralità con quella del potere e del diritto. Un grande blocco culturale antisovietico, insomma, dove associa- zioni, leghe per i diritti umani, sindacati, gruppi stretti attorno a riviste e partiti collaborarono con i governi occidentali e con le grandi istituzioni internazionali. Tutto ciò, come si è visto, fu un percorso lungo e faticoso, mentre la disgregazione di quella coalizione si verificò facilmente di fronte alle grandi trasformazioni degli anni Cinquanta, più volte richiamate in quest’ultimo paragrafo. Eppure l’eco delle campagne politiche contro il lavoro forzato sovie- tico, dei dibattiti sulle riviste sul regime servile instaurato nelle campagne collettivizzate e ancora delle grandi occasioni pubbliche (come i processi che opposero Kravčenko e Rousset a «Les Lettres françaises») risuonò per lungo tempo ancora. Si è ricordata nell’introduzione la gratitudine espres- sa da Solženicyn nei confronti dell’AFL alla metà degli anni Settanta. Gli interventi americani di Solženicyn seguirono a breve la chiusura dei lavo- ri della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE). Apertasi nel 1972, essa registrò un impegno generale rivolto al ricono- scimento formale dei confini del 1945 e all’attuazione di forme di coo- perazione tra i due blocchi. Vecchie aspirazioni sovietiche furono dunque prossime a realizzarsi, spingendo pertanto i dirigenti del blocco orientale a sottovalutare l’impatto che la terza sezione degli accordi, quella dedicata ai diritti umani, avrebbe avuto in seguito. Infatti, reti di dissidenti prese-
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ro forma un po’ dappertutto negli anni successivi: il Comitato di difesa operaio in Polonia, il gruppo Charta 77 in Cecoslovacchia e il gruppo di monitoraggio degli accordi di Helsinki in Urss. 273 A partire dal 1978 prese forma il nucleo originario di Human Right Watch, un’organizzazione non governativa a carattere globale tutt’ora in attività. «La moralità – ha ricordato Samuel Moyn – sembrò diventare l’aspirazione dell’umanità» intera e il diritto internazionale umanitario parve imporsi sulle ideologie e sulla logica dei blocchi. 274 Sappiamo che il clima internazionale della distensione era però destinato a sgretolarsi a breve. Rinnovate tensioni internazionali caratterizzarono la prima metà degli anni Ottanta prima che il sistema sovietico nel suo complesso si av- viasse lungo la strada di una crisi definitiva dopo il tentativo fallimentare di autoriforma, guidato da Michail Gorbačëv. Con la storia che si rimetteva in moto, la memoria del passato riemerse prepotentemente. Si è ricordato nell’introduzione la nascita nel 1989 di Memorial e del ruolo che questa associazione ebbe nel corso degli anni successivi. Fuori dal mondo sovietico, che stava andando in pezzi, l’ora di ritessere il filo della memoria era già scoccata da tempo. A conferma definitiva della resilienza dei critici europei del potere dispotico di Stalin, possono essere richiamate qui in chiusura le testimonianze di due reduci non sovietici dei campi di Stalin, i quali, una volta tornati a casa, s’im- pegnarono in faticose ricerche su cosa era realmente successo in Unione sovietica nel corso degli anni Venti e Trenta. Il primo di questi testimoni, Dante Corneli, era stato un giovane comu- nista italiano, nato e cresciuto a Tivoli, da dove partì per l’Unione sovietica nel 1922 per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Qui, a causa delle sue po- sizioni anticonformiste, conobbe ogni sorta di vessazione nel corso degli anni: ripetuti arresti, lavoro forzato nei campi di Vorkuta e lunghi anni di confino. Restò in Siberia fino al 1960. Tornato in Italia, e rimasto qui defi- nitivamente a partire dal 1970, incontrò l’indifferenza e l’ostilità dei vertici del Partito comunista (ma non di Umberto Terracini). Non smise mai di fare ricerche sui suoi compagni scomparsi nel sistema concentrazionario
273. Romero, Storia della guerra fredda, pp. 245-247. 274. Samuel Moyn, The Last Utopia. Human Rights in History, Cambridge, Massa- chusetts, and London, The Belknap Press of Harvard University Press, p. 213.
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sovietico. Le sue opere, uscite senza lasciare grande traccia, sono state recentemente ristampate. 275 Jacques Rossi, nato in Polonia da una ricca famiglia francese, spe- rimentò come Corneli il sistema concentrazionario staliniano. Iscritto al partito comunista polacco, ebbe molti incarichi internazionali tra gli anni Venti e Trenta fino a quando nel 1937 fu richiamato a Mosca ed arrestato. Soggiornò nella prigione di Butyrka, fu deportato nel campo correzionale di Noril’sk e in molti altri fino alla sua «liberazione» nel 1956. Soltanto nel 1959 ottenne il certificato di riabilitazione e il riconoscimento della nazionalità polacca. Tornò a Varsavia nel 1961. La sua opera maggiore, il Manuale del gulag, uscì nel 1987 in russo (Spravočnik po Gulagu) presso un editore britannico. Osteggiata in vari paesi (Italia compresa), la pubbli- cazione dell’opera in una lingua occidentale avvenne in Francia soltanto nel 1997. Diversamente da Corneli, il quale dette un importante contributo memorialistico, Rossi dedicò le proprie energie a costruire un dizionario storico-linguistico del sistema dei campi di Stalin. Il Manuale del gulag è ancora oggi un’opera fondamentale per comprendere i decenni più tragici della vicenda sovietica. 276
275. Ricci, Come Mussolini sorvegliava l’emigrazione politica, pp. 58-60. Dante Cor- neli, Ritorno dal Gulag. Memorie del Redivivo tiburtino, Bolsena, Massari editore, 2019; Id., Italiani vittime di Togliatti e dello stalinismo, Bolsena, Massari editore, 2019; Id., Dal leninismo allo stalinismo, Bolsena, Massari editore, 2019. 276. Per queste informazioni, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Introduzione, in Jacques Rossi, Manuale del gulag. Dizionario storico, Napoli, L’àncora del Mediterraneo, 2006, pp. 5-12.
Indice dei nomi *
Abraham, Richard, 138n Abramovič, Rafail, 74, 75, 94, 142, 143 e n, 144 e n, 255, 302, 310 Acheson, Dean Gooderham, 396 Achmatova, Anna Andreevna, 351 Addams, Jane Laura, 96 Adkerson, J. Carson, 167n Adler, Friedrich Wolfang, 87 e n, 90, 94, 95, 199 e n, 200n, 232, 233 e n Aksel’rod, Pavel Borisovič, 60 Albertini, Georges, 333 Albrecht, Karl, 246 e n, 247 e n, 248, 260, 294 Alcock, Antony, 160 n Alessandro II, Imperatore di Russia, 18, 31, 32, 138 e n Allen, Naomi, 227n, 236n Alter, Wiktor, 269, 270 e n Amendola, Giovanni, 70 Ammende, Ewald, 216 e n, 217 e n, 218n Anders, Władysław, 263 e n, 264, 274, 283, 284, 323, 361, 374n, 376, 387 André, Georges, 343, 391 Angus, Ian, 253n Antonov, Nikolaj, 332 Applebaum, Anne, 84n, 151n, 190n, 193n, 259n, 275n, 283n, 408n, 410n, 414n Arendt, Hannah, 295, 296 e n, 297, 298, 341, 362, 366, 367 e n, 368 e n, 369, 430 Aron, Raymond, 252 e n, 291 e n, 306 e n, 334 e n Ascher, Abraham, 60n, 94n Astier de La Vigerie, Emmanuel d’, 305, 327 Attlee, Clement Richard, 321
Audoin-Rouzeau, Stéphane, 44n, 64n Avrich, Karen, 77n Avrich, Paul, 77n, 78n Bakunin, Michail Aleksandrovič, 145 Balachowsky, Alfred Serge, 373 Balan, Jars, 28, 194n, 195n Baldwin, Roger Nash, 96-98, 99n, 100, 102, 104, 117 e n, 147, 158, 176, 259 e n, 309, 380, 391 e n, 392n Baldwin, Stanley, 176 Balfour, Arthur James, 51 Barnes, Steven A., 417n Barney, Timothy, 324n Baron, Jacques, 240n Barone, Enrico, 216n Barrett, George, 319 e n Barton, Paul (pseud. di Jiri Veltrusky), 412, 413 e n, 414 Bateson, Edward, 174 e n, 176, 177n Bauer, Alice H., 362n Bauer, Otto, 21, 92, 93 e n, 111 e n, 142 e n, 144 e n, 149n, 199, 200n, 215 Bauer, Raymond, 362 e n, 432 e n Beard, Charles Austin, 133 Beauvoir, Simone de, 424 e n Beck, F., 377n Becker, Annette, 44n, 64n Bedeschi, Giulio, 61n Beer, Daniel, 35n, 37n Behrends, Jan C., 246n, 260n Beichman, Arnold, 369 Bell, Daniel, 255 Beneš, Edvard, 68
* La voce Stalin non è stata indicizzata per via delle numerosissime occorrenze.
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Benigno, Francesco, 60n Berberova, Nina Nikolaevna, 327 e n Berg, Paal Olav, 385 Berija, Lavrentij Pavlovič, 89, 293, 316 e n, 342, 343n, 359 e n, 408,410 Berkman, Alexandr, 47, 66, 77 e n, 78 e n, 79 e n, 80 e n, 100n, 103, 119, 120 e n, 145 e n, 146, 147 e n, 203 e n, 258 Berle jr, Adolf Augustus, 392 Berlin, Isaiah, 214n, 350 e n, 351n Berman, Matvej Davydovič, 186 e n, 190, 191n, 220, 221n Bernard, Théo, 345n, 355n, 356 e n, 357n, 374, 421, 423 Berneri, Camillo, 236 Bernstein, Serge, 138n, 372n Berrone, Milly, 75n Bessedovsky (Besedovskij), Grégoire (Gri- gorij Zinov’jevič), 168n Bessonov, Jurij, 114 e n Bettanin, Fabio, 64n, 222n Bevin, Ernest, 320, 321 e n Bianco, Lucien André, 419 e n Biddle, Francis, 279 Biess, Frank, 276n, 314n Bigazzi, Francesco, 206n Bíró, Anna-Mária, 217n Bles, David Geoffrey, 189 e n Bloom, Alexander, 238n, 255n, 267n, 322n Blum, Léon, 23, 69, 138 e n, 139 e n, 145 e n, 201n, 231, 371, 372 e n Borkenau, Franz, 253 e n, 254, 269, 307 Bourrinet, Philippe, 227n Bradley, J. F. N., 213n Bradley, Mark Philip, 406n Brancati, Vitaliano, 428 e n Braunthal, Julius, 372 e n Breitman, George, 187n, 227n, 228n, 234n, 236n Breschi, Danilo, 70n Bresciani, Marco, 69n, 71n, 225n, 226n Briessen, Fritz Van, 411 e n, 412n Brosio, Manlio, 304 Brouckère, Louis de, 201, 232 Broué, Pierre, 148 e n, 149n, 187n Browder, Robert Paul, 159n, 167n
Brown, Irving, 289 e n, 318, 340, 347, 354, 380n, 391, 407 e n, 421 Brown, John, 36 Bruckus, Boris Davydovič, 215 e n Bruttmann, Tal, 340n Brzezinski, Zbigniew K., 429 e n, 430 e n, 431, 432, Buber-Neumann, Margarete, 329 e n, 330 e n, 353 e n, 354, 356, 358 Bucharin, Nikolaj Ivanovič, 204, 233n, 238, 254 Buci-Glucksmann, Christine, 93n Buckmaster (Lord), Stanley Owen, 174n Buisson, Ferdinand, 38 Bullet, Gary B, 235n, 238n Bullitt, William Christian, 279 Bunyan, James, 65n Burmeister, Alfred, 411 n, 412 e n Burnham, James, 309 e n, 334, 346, 347 e n Burroughs, Robert M., 173n Byles William, 36 Cadorna, Luigi, 52 Caffi, Andrea, 69n, 70, 71, 74, 225, 308 e n Caglioti, Daniela Luigia, 28, 64n Cahan, Abraham, 180 e n Caillois, Roger, 429 Cairns, Andrew, 192 Calamandrei, Piero, 304 e n, 424 Calligaris, Luigi, 206 Camus, Albert, 305 e n, 306 e n, 308 e n Canovan, Margaret, 296n Cárdenas del Río, Lázaro, 267, 268 Carew, Anthony, 271n, 278n, 287n, 289n, 290n, 317n, 318n, 369n Carew, Joy, 127n Carlebach, Emil, 354 Carruthers, Susan L., 280n, 281n Carynnyk, Marco, 191n Casement, Roger, 173, 174n Cassou, Jean, 327 Caudana, Mino, 328 Caute, David, 127n Cavallo, Luigi, 328 Čechov, Anton Pavlovič, 37 e n Cederholm, Boris, 114n
Indice dei nomi
Cereteli, Iraklij, 46, 89, 90 Černavin, Vladimir, 207 e n, 208 e n, 309 Černov, Viktor Michajlovič, 45, 67, 69 e n, 70, 73n, 76 Chamberlin, William Henry,134 e n, 135, 136, 194n, 195, 209 e n, 210 e n, 211 e n, 214, 216, 230, 237 e n, 273 e n, 418 Charlone, César, 434, 435 Chase, Stuart, 133 Chiaromonte, Nicola, 225 e n, 376, 424, 425 e n, 428, 429n Chlevnjuk, Oleg V., 151n, 152n, 154n, 184n, 185n, 221n, 222n Chruščëv, Nikita Sergeevič, 27, 404, 415, 416 Churchill, Winston, 177, 385 Ciechanowski, Jan, 261 e n, 262 Cienciala, Anna M., 261n Ciliga, Ante, 227 e n, 228 e n, 243 e n, 244, 303, 308 e n, 334 Cinnella, Ettore, 28, 32 e n, 38n, 44n, 45n, 47n, 49n, 70n, 84n, 86n, 95n, 109n, 126n, 183n, 190n, 204n, 218n, 231n, 237n, 242n, 251n, 255n Citrine, Walter McLennan, 106n, 200, 232 e n, 233n, 318 Clay, Lucius Dubignon, 429 Clerk, George, 51 Clyman, Rhea, 194 e n, 195 e n Coeuré, Sophie, 127n, 192n Cofrancesco, Dino, 252n Colby, Bainbridge, 110, 169n Coleman, Peter, 323n, 353n Collard, Dudley, 233 e n Colley, Margaret Siriol, 196n Collotti, Enzo, 87n, 200n Compton, Richard Karl, 420 Conquest, Robert, 190n, 219n, 251n Cooney, Terry A., 238n, 267n Cooper, John, 311n, 395n, 396n Copfermann, Émile, 333n, 340n Coquet, Maurice, 240n Corneli, Dante, 440, 441 e n Corthorn, Paul, 232n Cottrell, Robert C., 99n, 391n, 392n Cough, Alfred William, 130 e n Cox, Robert W., 162n
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Craveri, Marta, 28, 251n, 409n Croce, Benedetto, 303, 376 Crossman, Richard, 307, 308n, 351 e n Curie, Marie, 38 Curie, Pierre, 38 Custine, Astolphe de, 31 e n, 214 Czerwińska-Schupp, Ewa, 93n, 142n Daele, Jasmien Van, 165n, 383n Daix, Pierre, 342 e n, 343, 353 Dalgleish, Peter, 175 Dallin, Alexander, 431n Dallin, David J., 271, 272 e n, 273 e n, 279, 280, 292 e n, 293, 294 e n, 295, 296, 298, 299, 301, 303, 310, 323, 347 e n, 371, 380 e n, 390, 392 e n Daly, Jonathan W., 32n, 33n Dan, Fëdor Il’ič, 46, 75 e n, 141 e n, 142 e n, 144, 200n, 255, 256 Daniele, Chiara, 186n David-Fox, Michael, 115n, 185 e n, 246n Davis, Jonathan, 159n Davis, Jeremy, 100 Davis, Joseph Edward, 259 Davis, Norman, 263n Dawes, Charles Gates, 95 Dawson, George Geoffrey, 129 De Carlo, Andrea F., 376n De Felice, Franco, 160n De Felice, Renzo, 69n De Galliffet, Gaston, 100 De Gasperi, Alcide, 313 De Rosa, Gabriele, 119n De Sanctis, Gaetano, 303 Debs, Eugene Victor, 96, 310 Defty, Andrew, 308n, 321n Delaney, George, 288n, 325n, 349n, 386 e n Denikin, Anton Ivanovič, 52 e n, 53, 54 e n, 81, 82, 106, 156, 439 Deutscher, Isaac, 187n Dewey, John, 148n, 235 e n, 236n, 238, 391 Di Biagio, Anna, 92 n Di Nolfo, Ennio, 304n Dietrich, John, 276n Dikötter, Frank, 419n, 420n, 427n, 428n Dimitrov, Georgi, 204
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Il nemico tra di noi
Dinerstein, Herbert, 365, 366n Dolfuss, Engelbert, 260 Domenach, Jean-Luc, 419n, 420n, 426n Don Levine, Isaac, 97, 147 e n Doriot, Jacques, 327 Dostoevskij, Fëdor Michajlovič, 32, 115 Dower, Barrett, 290n Dreiser, Theodore Herman Albert, 167n, 168n Dreyfus, Michel, 228n Du Bois, William Edward Burghardt, 96 Dubinsky, David, 200, 270, 271, 287, 288, 322, 369 Duguet, Raymond, 111 e n, 112 e n, 113, 116 Duhamel, Olivier, 138n Dundovich, Elena, 206n, 251n Dunois, Amédée, 200n Duranty, Walter, 133 e n, 134, 157, 193 e n, 194, 197 e n, 198 e n Dussauze, Elisabeth (vedi Ingrand), 374 e n Dzeržinskij, Feliks Ėdmundovič, 54, 84, 105 Eastman, Max Forrester, 96 e n, 280, 334 Edelman, Joseph, 233 Ehrlich, Henryk, 269, 270 e n Eiler, Ferenc, 217n Einaudi, Luigi, 303 Einstein, Albert, 97, 270 Eisenhower, Dwight David, 407, 417 Eisner, Kurt, 59 El Campesino (pseud. di Valentín González González), 334, 357 e n Eliot, Thomas Stearns, 285 e n Elkins, Caroline, 435n Emanuel, Guglielmo, 328 Engerman, David, 33n, 42n, 127n, 133n, 211n, 215n Evans, Medford Stanton, 276n Fainsod, Merle, 362n, 429, 431 e n, 432 e n, 433 Faravelli, Giuseppe, 302 e n Farbman, Michael, 42 e n Faure, Paul, 89, 180 e n Fayet, Jean François, 185n Fedele, Santi, 225n Fedorowich, Kent, 313n
Fellner, Gene, 120n Ferrara, Antonio, 218n Ferretti, Maria, 22 e n, 127n Figner, Vera Nikolaevna, 40, 81 Filene, Peter G., 159n, 160n, 167n Finkel, Stuart, 65n Fischer, Louis, 104 e n, 193, 308 Fish, Hamilton, 108 e n Fitzgerald, Elinor, 99 Fitzpatrick, Sheila, 126n Flešin, Senya, 78 Flores d’Arcais, Paolo, 305n Flores, Marcello, 127n Foglesong, David S., 36n Forti, Simona, 70n, 223n Foulke, William Dudley, 36 e n Fox, Michael S., 228n Fraenkel, Ernst, 374, 375n France, Anatole (pseud. di Jacques François- Anatole Thibault), 38, 74 Franco, Francisco, 343, 344, 357 Friedrich, Carl Joachim, 237 e n, 429 e n, 430 e n, 431, 432 Furet, François, 87n, 192n, 199n, 209n Gaddis, John Lewis, 259n, 274n, 276n, 278n, 311n Gaggi, Otello, 205, 206 Galmarini, Maria Cristina, 65n, 98n Gamache, Ray, 192n, 193n, 196n García Sayán, Enrique, 386 Garosci, Aldo, 303 e n, 379 e n, 429 e n Garvi, Pëtr, 111 e n Gavin, Robert, 434 Gaxotte, Pierre, 129 e n Ghezzi, Carlo, 146n Ghezzi, Francesco, 145, 146 e n Gide, André, 229 e n, 257 e n, 308 Gideonse, Harry D., 318, 319n Giffin, Frederick C., 258n Giusti, Maria Teresa, 70n, 276n, 313n Gleason, Abbott, 223n, 289n Gliksman, Jerzy, 309, 356, 406 Godin, W., 377n Goethem, Geert Van, 74n, 161n, 165n, 200n, 232n
Indice dei nomi
Goldman, Emma, 77 e n, 78, 98 e n, 99 e n, 100, 103, 120, 203, 309 Goldstein, Robert Justin, 168n Gompers, Samuel, 61, 166n Goodall, Alex, 168n Goonetilleke, T.B.P., 434 Gor’kij Maksim (pseud. di Aleksej Maksi- movič Peškov), 74, 114, 115 e n, 116, 117, 183 Gori, Francesca, 127n, 206n, 251n, 441n Göring, Hermann Wilhelm, 234 Gorkin Julián (pseud. di Julián Gómez García), 257, 267 e n, 268 e n Gradenigo, Sergio, 192 Gramsci, Antonio, 60 e n, 185, 186n, 429 e n Graziosi, Andrea, 16n, 28, 48n, 63n, 80n, 113n, 125n, 126n, 128n, 130n, 154n, 190n, 192n, 220n, 222n, 244n, 251n, 275n, 304n, 311n, 363n, 364n, 366n, 400n, 408n, 409n, 410n, 415n Green, John, 319 Green, William B., 110, 166n, 270 Greenidge, Charles Wilton Wood, 397, 398, 434, 438 Gregory, Paul R., 152n Gremion, Pierre, 353n, 411n Grenier, Fernard, 327 Grey, Edward, Visconte di Fallodon, 173 Gross, Jan Tomasz, 251n, 261n Grossman, Vasilij Semënovič, 275n Guarnaschelli, Emilio, 206n Guercetti, Emanuela, 251n, 441n Guerin, Denis, 163n Guiraud, Jean, 112 Hale, Robert, 242n Halévy, Daniel, 285 e n Halévy, Élie, 235 e n, 252 Halm, George Nikolaus, 216n Halychyn, Stephania, 417n Handerburg, Walter, 173 e n Hansen, Philip, 296n Harper, Samuel, 42 e n, 192 Harris, John Hobbis, 171, 172 e n, 173, 174, 176, 177, 397 Hasfeld, Marcel, 240n
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Hauptmann, Gerhart Johann Robert, 74, 97 Hawley, Willis C., 160 e n Hayek, Friedrich August von, 215n, 216 e n, 411n Henderson, Arthur, 136n Herbigny, Michel-Joseph Bourguignon d’, 131 e n Herling-Grudziński, Gustaw, 376 e n, 377n Herling, Albert Konrad, 319 e n, 346n, 347, 348 e n, 380 Herling, Marta, 376n Herr, Lucien, 38 Herriot, Édouard, 86, 192 e n, 240 e n Herzen, Aleksandr Ivanovič, 32, 214 e n Hilferding, Rudolf, 256 e n, 257, 269, 302 Hill, David Jayne, 63 Hill, Samantha Rose, 296n Hillman, Sidney, 287 Hillquit, Morris, 143 e n Hilton Young, Edward, 170, 171n Hindenburg, Paul Ludwig von Benecken- dorff, 132 Hiroaki, Kuromiya, 222n Hirsch, Alfred, 235 Hiss, Alger, 276n Hitler, Adolf, 23, 24, 26, 124, 187, 191, 192, 193n, 200, 202, 204n, 222n, 226, 229 n, 231n, 234, 235, 238, 241, 249, 251, 252, 254, 258, 259, 263, 267 e n, 272, 273, 283, 284, 296, 301, 317, 326, 328, 329 e n, 330n, 337-340, 342, 343, 353, 357n, 358, 373, 381, 385, 399n, 410n Hobhouse, Leonard Trelawny, 36 Hochschild, Adam, 174n Holian, Anna, 323n Hollander, Paul, 127n Holquist, Peter, 246n Hook, Sidney, 238 e n, 239, 255, 309, 310n, 318, 322, 334, 380, 391, 429 e n Hoover, Calvin Bryce, 135 e n Hoover, Herbert, 24, 95, 160 e n, 166 e n, 169, 311, 317 Hoover, John Edgar, 279 Hopper, Bruce, 192 Hotchkis, Preston, 405 Housden, Martyn, 216n, 217n
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Il nemico tra di noi
Houtermans, Friedrich Georg, 377 Hugues, Henry Stuart, 266n Hugues, Quenby Olmsted, 287n Huxley, Aldous Leonard, 350 e n Huysmans, Camille, 88, 270 e n Hyndman, Henry Mayers, 50 e n, 61 Iber, Patrick, 268n, 269n Ignatieff, Michael, 350 e n Ignatij, Rajss, 236, 258 Ingrams, Richard, 195n Ingrand (vedi Dussauze, Elisabeth), 374 e n Inkeles, Alex, 362 e n, 432 e n Innitzer, Theodor, 217 Iriye, Akyra, 290n Irwin, Douglas A., 160n Iswolsky Hélène (Izvol’skaja, Elena Aleksan- drovna), 114 Iversen, Robin William, 143n Jacobson, Harold Karan, 162n, 290n, 312n, 408n Jacobson, Michael, 64n Jacques Rossi, 441 e n Jacquier, Charles, 239n, 413n Jagoda, Genrich Grigor’evič, 186, 187n, 194n Jansen, Mark, 72n, 74n Jantz, Harold, 131n Jasny, Naum, 299 e n Jeansonne, Glen, 166n Jelen, Christian, 56n Jenks, John, 321n, 324n, 340n Jesenská, Milena, 329 Joliot-Curie, Frédéric, 327 Joly, Laurent, 340n Jones, Gareth, 196 e n, 197 e n, 198 e n, 418 Jones, Stephen, 88n Jones, William David, 253n Judt, Toni, 305n, 306n Jurgenson, Luba, 84n Kaan, Pierre, 240n Kallis, Aristotle A., 260n Kamenev (Rozenfel’d), Lev Borisovič, 70, 109, 231, 233
Kautsky Karl Johann, 21, 43 e n, 58 e n, 59 e n, 60 e n, 62, 75 e n, 77, 88 e n, 89, 91 e n, 92 e n, 93, 140 e n, 141 e n, 142 e n, 143n, 144 e n, 150, 181 e n, 199 e n, 215, 237 e n, 238 e n Kelly, Aileen M., 214n Kelsen, Hans, 62 e n, 429 Kennan, George, 33 e n, 34, 36, 39n Kennan, George Frost, 277, 278 e n Kerenskij, Aleksandr Fëdorovič, 44, 56, 69, 95, 109, 110 e n, 137, 138 Kern, Gary, 258 e n, 279n, 280n, 327n Kirov, Sergej Mironovič, 203, 204, 231, 233 Kitchin, George, 184 e n, 246 Klement, Rudolf Alois, 236 Klid, Bohdan, 417n Kluckhohn, Clyde, 362n, 429, 432 e n Klug, Kajetan, 260 e n Knickerbocker, Huberto Renfro, 159n Knop, Werner, 301 e n, 302 e n Koestler, Arthur (Artúr Kösztler), 254 e n, 255n, 307, 327, 354, 357 Köhrer, Erich, 52 e n, 81 Kolčak, Aleksandr Vasil’evič, 48 Kordan, Bohdan S., 191n Korolenko, Vladimir Galaktionovič, 69 Kostalin, Ivan, 156, 175 Kotek, Joel, 64n, 368n Kotschnig, Walter, 384 e n, 385, 392 Kott, Sandrine, 28, 290n Krabbendam, Hans, 290n Kravčenko, Viktor, 8, 274, 279 e n, 280 e n, 281 e n, 283, 286, 294, 298, 301, 303, 304, 309, 312, 325, 326, 327 e n, 328 e n, 329, 330n, 331n, 332 e n, 334, 342, 345, 354-356, 358, 371, 439 Kristol, Irving William, 411 Krivickij, Val’ter, 257, 258 e n, 279, 280 Kropotkin, Pëtr Alekseevič, 39 e n, 40, 41, 81 Kruglov (Jakovlev), Sergej Nikiforovič, 293 e n, 316 e n, 326 e n, 342, 343n, 359 e n Kruks, Sonia, 306n Krylenko, Nikolaj Vasil’evič, 144 Kuby, Emma, 344 e n Kuliscioff (Rozenštejn), Anna Moiseevna, 43
Indice dei nomi
Kurskij, Dimitrij, 84 Kyselev, Nikolaj, 179, 180n L’vov, Georgij Evgen’evič, 42 La Guardia, Fiorello Henry, 270 Lacis, Martin Ivanovič, 54 Lambelin, Roger, 112 Landau, Kurt, 236 Lang, William Cosmo Gordon, 130 Lansbury, Georges, 42 Laski, Harold Joseph, 97 Lasky, Melvin Jonah, 309 Laurat, Lucien, 215, 240n Lawson, John Howard, 235 Lazar, Marc, 343n Lazarev, Valery, 152n Lee, Eric, 88n Leffler, Melvyn P., 277n, 350n Lehovic, Dimitry V., 52n Lejard, André, 240n Lejard, Anna, 240n Lemkin, Raphael, 286, 311, 394, 395 e n, 396 e n, 416 e n, 418 Lenin (Ul’janov), Vladimir Il’ič, 15, 17-21, 28-30, 34, 42n, 44-47, 48n, 49, 50, 54, 55 e n, 56, 61, 63, 64, 66, 69, 70, 72 e n, 74n, 79, 80n, 83, 84, 88n, 93, 94, 96n, 98, 102, 113n, 125n, 143n, 222n, 230, 251n, 308 e n, 309 e n, 391, 400n, 438n Leopoldo, II, re del Belgio, 36 Lepre, Aurelio, 304n Levitas, Sol (Samuel), 255, 267, 270, 292n, 347n, 380 Lewin, Moshe, 154n Lewis, Albert, 209n Lichačëv, Dmitrij Sergeevič, 115 Liebich, André, 43n, 46n, 75n, 76n, 93 e n, 137n, 138n, 144n, 228n, 233n, 255n, 256n, 272n, 292n, 299n, 310n, 314n Liebknecht, Karl, 40 Liebknecht, Theodor, 73 Liechtenan, Francine-Dominique, 64n Liénert, Édouard, 240n Lieven, Dominic, 32n Linden, Marcel van der, 165n Linz, Juan J., 382n
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Lipper, Elinor, 356, 357 e n, 358 e n Lipski, Józef, 387 Littlepage, John, 245 e n Litvinov, Maksim Maksimovič, 270 Liveright, Horace, 99 Llosa Vargas, Mario, 174n Lloyd George, David, 176, 196 Lo Gatto, Ettore, 69 Lockhart, M., 51 Lokerman, A., 54 e n, 81 Lorwin, Lewis Levitzki, 133 Lovell, Sarah, 187n Lovestone, Jay (pseud. di Jacob Liebstein), 270, 271 e n, 287, 289 e n, 312 e n, 319n, 323, 340, 347 e n, 353 e n, 354, 369, 379, 384n, 385 e n, 390n, 391 Loving, Jerome, 168n Luciuk, Lubomyr Y., 191n Luff, Jennifer, 165n Lunačarskij, Anatolij Vasil’evič, 69 Lyons, Eugene, 234 e n, 235 e n, 280 e n, 334 Macdonald, Dwight, 257 e n, 266, 267 e n, 268 e n, 308 e n, 309 e n, 322, 380 MacDonald, Ramsay, 68, 72, 73, 85, 88, 93- 95, 136 e n, 170, 171, 179 Machno, Nestor Ivanovič, 48, 66, 79 Maier, Charles S., 290n, 403n Maksimov,Grigorij Petrovič, 78 e n Mal’sagov, Sozerko Artaganovič, 106 e n, 107 e n, 108, 109, 111, 112, 114, 116 Malenkov Georgij Maksimilianovič, 316 e n, 342, 343n Mann, Thomas, 97 Mann, Heinrich, 224 Mao Zedong, 315, 360, 390, 419, 420 e n, 424 e n, 426n, 427 e n, 428 e n, 438 Marčenko, Ol’ga, 331 Marcou, Lilly, 93n Margolin, Julius, 333, 357 e n, 358 Mariuzzo, Andrea, 328n, 379n Marshall, George Catlett, 289, 317 Martin-Chauffier, Louis, 327 Martin, Alexander M., 246 Martin, Jean, 90
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Il nemico tra di noi
Martin, Terry, 131n, 132n, 221n, 222n, 366n Martov (Cederbaum), Julij Osipovič, 46 e n, 55, 66, 74, 75, 93, 141, 142, 230 Marx, Karl, 50, 58, 60 e n, 61, 62, 96n, 143n, 238, 351 e n, 412 Masaryk, Tomáš, 68, 213 e n, 214n Mathiez, Albert, 60 e n Matteotti, Carlo, 379 e n Matteotti, Giacomo, 71, 201 e n, 202n Maul, Daniel, 28, 160n, 161n, 382n, 383n, 398n, 436n Mauranges, Georges, 57 e n Mayer, Arno J., 42n Mayhew, Christopher, 320 e n Mazower, Mark, 24 e n, 231n, 253n, 313n, 383n McCaffray, Susan, 32n McNamara, Patrick J., 168n Meany, William George, 271, 288n, 289n, 310n, 319n, 325n, 347n, 349n, 353n, 380n, 384n, 385n, 386n, 390n, 407n Mel’gunov, Sergej Petrovič, 21, 53n, 54n, 55n, 66, 80, 81 e n, 82, 83, 95, 112 Melancon, Michael, 32n Menken, Jules, 192 Merleau-Ponty, Maurice, 306 e n, 344 e n, 353 Mesnil, Jacques, 188 Michels, Toni, 270n Mieli, Renato, 415 e n Miers, Suzanne, 161n, 324n, 325n, 397n, 435n, 438n Mikołajczyk, Stanisław, 283 Milhaud, Edgar, 91 e n Miljukov, Pavel Nikolaevič, 42, 67, 117, 135 e n, 136, 210 Mill, John Stuart, 36 Miłosz, Czesław, 428 e n Mingardi, Alberto, 214n Mirkine-Guetzévitch (Mirkin-Gecevič), Boris Sergeevič, 117, 118 e n, 119 e n Mises, Ludwig von, 62, 63 e n, 177 e n, 216 e n Missiroli, Mario, 328 Molotov (Skrjabin), Vjačeslav Michajlovič, 23, 184 e n, 220, 223 e n, 250, 316 e n, 329, 372n
Mommsen, Wolfang Justin, 39n Monatte, Pierre, 146 Mondolfo, Rodolfo, 60 e n, 61 e n, 77 Moore, Bob, 313n Moore, Paul, 246n Morgan, Claude, 327 Morgan, Kenneth O., 320n Morgan, Ted, 271n Morse, David Abner, 382, 383n, 386 e n, 433 Morsink, Johannes, 311n, 312n Mosse, George Lachmann, 44n Mowat, James L., 435 Moyn, Samuel, 440 e n Mračnyj, Mark, 78 Mudaliar, Arcot Ramasamy, 385, 386 e n, 387, 391, 392n, 397, 398, 401, 405, 434 Muggeridge, Malcom, 195, 196n, 197, 198 e n, 418 Muralov, Nikolaj Ivanovič, 237 Murdock, Caitlin E., 300n, 301n Murray, Ralph, 308 Mussey, Henry Raymond, 167n Mussolini, Benito, 70, 119, 192, 200, 202, 206 e n, 235, 303, 441n Naarden, Bruno, 32n, 38n, 41n Nadeau, Maurice, 379 Naimark, Norman, 190n, 222n, 283n, 286n, 300n, 301n, 314n Napolitano, Tomaso, 324n Neumann, Heinz, 329 Newton (Lord), Thomas Legh, 177 Nicola II, Imperatore di Russia, 39 Nin, Andreu, 236 Nitti, Francesco Saverio, 119 e n, 235 e n Nitze, Paul Henry, 350, 352, 365 Nofri, Gregorio, 68n Noske, Gustav, 372n Oldebroek, Jacobus Hendrik, 318 Olivetti, Adriano, 351 Ordžonikidze, Grigorij Konstantinovič, 281 Orr, Charles Andrew, 370 e n Orwell George (pseud. di Eric Arthur Blair), 253 e n, 306, 307 e n, 327, 350, 351 e n, 362
Indice dei nomi
Orwell, Sonia, 253n Ory, Pascal, 204n, 327n, 333n, 340n Ovey, Esmond, 136 e n Palavicini, Félix Fulgencio, 386 Panaccione, Andrea, 75n, 76n, 87n, 89n, 92n, 201n, 255n Panait, Istrati, 213n Panizza, Cesare, 225n, 425n Panne, Jean-Louis, 212n, 215n, 224n, 334n Pannunzio, Mario, 303, 351, 352 Pares, Bernard, 42, 189 e n, 207, 237n Parri, Ferruccio, 303 Pascal, Pierre, 242 e n Pasqualini, Jean, 426n Passin, Herbert, 411 e n, 412n, 422 Pasternak, Boris Leonidovič, 351 Patrizi, Étienne, 112 Paz, Magdeleine, 188, 229 Pedersen, Susan, 172n Peignot, Colette, 240n Pellicani, Luciano, 60n Pertici, Roberto, 28, 304n, 328n, 352n Peškova Volžina, Ekaterina Pavlovna, 63, 98 e n, 101, 103 Petit, Eugène, 38n Petracchi, Giorgio, 56n, 69n, 304n Pettinaroli, Laura, 106n, 131n Phelan, Edward J., 163n Pianciola, Niccolò, 218n Pidhainy, Semen O., 417 e n, 418 Pierson, Nikolaas Gerard, 216n Pietro I il Grande, imperatore di Russia, 22, 127 Piłsudski, Józef Klemens, 372n Pim, Alan, 174 e n, 176, 177n Piovene, Guido, 328 Pipitone, Daniele, 303n Pivert, Marcel, 268 e n Pjatakov, Georgij Leonidovič, 105, 236 Plechanov, Georgij Valentinovič, 255 Pleshakov, Constantine, 277n Poe, Edgar Allan, 102 Polese Remaggi, Luca, 303n, 304n Poliakov, Léon (Lev Poljakov), 368 e n Pommera, Marcelle, 240n
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Pons, Silvio, 28, 126n, 170n, 186n, 204n, 272n Poole, Thomas R, 236n Pouthier, Luc, 230n Powers, Richard Gid, 165n Pozzani, Fernando, 68n Pratt, Norma Fain, 143n Prazmowska, Anita J., 260n, 261n Preobraženskij, Evgenij Alekseevič, 147 Purcell, Albert Arthur, 104, 106n Pusta, Kaarel R., 348 Quevedo, Vasco de, 163-165 Racine, Nicole, 138n Radek, Karl, 147, 237 Rădescu, Nicolae, 348, 390 Rakovskij, Christian Georgievič, 149 Rapetti, Sergio, 53n, 81n Rapone, Leonardo, 204n, 248n Reed, John, 99 e n Regler, Gustav, 268 e n Rein, Mark, 236 Renaudel, Pierre, 180 Ribbentrop, Joachim von, 23, 220, 250, 329, 372n Ricci, Aldo G., 206n, 441n Rigoulot, Pierre, 64n, 368n Rioux, Jean-Pierre, 372n Rizzi, Bruno, 248 e n Rodrìguez Garcìa, Magaly, 165n Rolland, Romain, 74, 97, 146, 213n Romani, Bruno, 328 Romero, Federico, 271n, 277n, 311n, 350n, 406n, 407n, 440n Romerstein, Herbert, 276n Roosevelt, Anna Eleanor, 349 e n, 350, 352 Roosevelt, Franklin Delano, 25, 133, 181, 191-193, 198, 249, 274n, 392 Rosenberg, Arthur, 217 Rosenberg, James, 396 Rosenfeld, Kurt, 73 Rosenfeld, Oreste, 138 e n, 139 e n, 144 Rosenmark, Raymond, 234 Rosenthal, Gérard, 333n, 345n, 355 e n, 356n, 357n, 379, 423
452
Il nemico tra di noi
Rosselli, Carlo, 225 e n, 304 Rossi, Ernesto, 425 e n Rossi, Jacques, 441 e n Rothfels, Hans, 429 Rousset, David, 297 e n, 298 e n, 333 e n, 337, 338, 339 e n, 340 e n, 341 e n, 342 e n, 343 e n, 344 e n, 345 e n, 346 e n, 347 e n, 353 e n, 354 e n, 355 e n, 356 e n, 357 e n, 358, 359, 371 e n, 372 e n, 373, 374n, 375 e n, 378 e n, 379 e n, 380 e n, 381, 391, 396, 404, 413 e n, 419 e n, 421 e n, 422 e n, 423 e n, 424 e n, 425, 426n, 427, 428, 430, 439 Rousso, Henri, 220n Rubanovič, Il’ja Adol’fovič, 73 e n Ruegger, Paul, 434, 435 Ruotsila, Markku, 50n, 62n, 63n Rusanov, Nikolaj Sergeevič, 73n Russell, Bertrand, 97 e n, 376 e n Rykov, Aleksej Ivanovič, 238 Sablé, Lucien, 240n Sacco, Nicola, 234, 270 e n Saksena, Ramji Ram, 405 Šalamov, Varlam Tichonovič, 28 Salkin, Alexandre, 386 Salvadori, Massimo, 43n, 58n, 62n, 199n Salvemini, Gaetano, 224, 225 e n, 232, 425 e n Saragat, Giuseppe, 302 e n Sartre, Jean-Paul, 291n, 333 e n, 340, 344 e n, 353, 424 e n Sauckel, Ernst Friedrich Christoph (“Fritz”), 288 Saunders, Frances Stonor, 312n, 340n Saunier, Pierre-Ives, 290n Savant, Giovanna, 43n Scammell, Michael, 254n, 255n Scandura, Claudia, 60n Ščelučin, Aleksandr, 155 Ščerbakova, Irina, 416n Schachtman, Max, 234 e n Schaper, Bertus Willem, 163n Scheffer, Paul, 134 e n, 135, 196 Scheler, Michel B., 242n Schenevels, Walter, 232
Scherrer, Jutta, 366n Schiller, Otto, 192 Schlesinger Jr., Arthur, 309, 310 e n, 318 Schmid, Carlo, 354 Scholmer, Joseph, 410 e n, 411 e n Schwartz, Stephen, 227n Schwarz, Solomon, 310 e n Scott-Smith, Giles, 290n Scott, Bev, 234n Scott, John, 269 e n Séailles, Gabriel, 56, 57n Sedov, Lev L’vovič, 148, 187, 234 e n, 236 Seignobos Charles, 38 Sender, Toni, 310, 311, 319 e n, 320n, 369, 380, 384 e n, 385 e n, 390 Sensini, Paolo, 53n, 227n, 248n Serge (Kibal’cic), Victor (Viktor L’vovic), 47, 188 e n, 224 e n, 226, 228 e n, 229 e n, 236, 237, 238 e n, 239, 257 e n, 266, 267 e n, 268 e n, 269, 270 e n, 281, 308 e n Service, Robert, 59n, 150n, 188n Seton-Watson, Robert William, 189 e n, 207 Shaplen, Joseph, 255 Shaw, George Bernard, 74 Shaw, Tom, 87, 88, 90 Shepherd, John, 159n Shteppa, Konstantin F., 377 Shub, David, 258, 308, 309n Sigida, Nadežda, 35 Signori, Elisa, 225n Sikorski, Elena, 285 Sikorski, Władysław, 285 Silone, Ignazio (pseud. di Secondino Tran- quilli), 248 e n, 303, 308, 351 e n, 352, 354, 376, 424 Siqueiros, David Alfario, 267 Sirinelli, Jean-François, 204n, 291n, 327n, 333n Slonim, Mark L’vovič, 60 e n, 67 Smaldone, William, 256n Smilga, Ivar Tenisovič, 147 Smith, Andrew, 241e n, 242 e n, 243 Smith, Gerard Corley, 324 Smith, Stephen A., 126n Smith, Walter Bedell, 298
Indice dei nomi
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Smoot, Reed, 160 e n Snowden, Ethel, 68, 88 e n Snyder, Timothy, 222n, 261n, 399n Soave, Sergio, 248n Sokol’nikov, Grigorij Jakovlevič, 237 Solonevič, Ivan, 206, 207n, 213 Solženicyn, Aleksandr Isaevič, 27, 439 Sorokin, Pitirim Aleksandrovič, 44, 45 e n Soule, George, 133 Souvarine (Lifschitz), Boris, 47, 136, 211 e n, 212 e n, 213 e n, 214 e n, 215 e n, 216, 230, 239 e n, 240 e n, 241 e n, 243, 252 e n, 253, 333, 334 e n, 412 Spargo, John, 61 e n, 349 Spargo, Mary, 349 e n Speier, Hans, 365 Spence Robert, 36 Spencer, Herbert, 214 e n Spender, Stephen, 308, 411 Spiridonova, Marija Aleksandrovna, 102 Starzewski, Stanisław, 284 Steele, Anne-Françoise, 229n Steele, Stephen, 229n Steimer, Mollie, 78, 103 Stein, Alexander, 75 Stepnjak (Sergej Michajlovič Kravčinskij), 36 Stettinius, Edward Reilly, 279 Stewart Murray, Katharine (duchessa di Atholl), 178 e n Stolypin, Pëtr Arkad’evič, 39, 40 Strong, Anne Louise, 193 Sturzo, Luigi, 230 e n, 231 Suchomlin, Vasilij Vasil’evič, 55 e n, 73n, 94 Sumner, Gregory D., 308n Swaisland, Charles, 171n Sysyn, Frank E., 190n, 311n
Thiers, Adolphe, 100 Thomas, Albert, 162, 163 e n, 164 e n, 165 e n, 182 Thomas, Norman Mattoon, 96, 268, 310, 318, 322, 380 Thompson, Dorothy, 281 Thorez, Maurice, 372n Thorp, Willard Long, 319, 325, 349 e n Thorton, Arthur, 177 Tillion, Germaine, 425 Tito (pseud. di Josip Broz), 288 Togliatti, Palmiro, 186, 351 e n, 415 e n, 441n Tombs, Isabelle, 270 Tomskij, Michail Pavlovič, 238 Tosstorff, Reiner, 164n Traverso, Enzo, 199n, 223n, 230n, 345n Travis, Frederick F., 33n Treves, Claudio, 43 e n Trivière, Léon, 422, 423 e n Trockij (Bronštejn), Lev Davidovič, 21, 58, 59 e n, 79, 89 e n, 100, 109, 133, 148 e n, 149 e n, 150n, 187 e n, 188, 189, 211, 212 e n, 223n, 226, 227 e n, 228 e n, 231, 233, 234 e n, 236 e n, 238 e n, 248, 266, 267, 268n, 355, 372n, 379 Trombadori, Antonello, 424 Truman, Harry Spencer, 250, 277n, 279, 287, 288, 289 e n, 290, 312, 317, 347, 382, 407 Tuchačevskij, Michail Nikolaevič, 238 Tucker, Robert C., 233n Tugwell, Rexford, 133 Turati, Filippo, 43 e n, 61, 68n Turkalo, Kost, 418
Taft, William Howard, 63 Tallandier, Jules, 114 e n Tarov, 226 e n Tasca, Angelo, 225, 248 e n, 352 Taylor, S. J., 133n Terešin, Grigorij, 175, 281 Tewson, Harold Vincent, 318
Vacca, Giuseppe, 28, 186n Vandervelde, Émile, 73, 88 Vanzetti, Bartolomeo, 234, 270 e n Varga, Béla, 395 Vatulescu, Cristina, 114n Vaucher, Robert, 52 e n, 81 Veblen, Thorstein Bunde, 133
Udy, Gill, 107n, 130n, 131n, 159n, 179n, 321n
454
Il nemico tra di noi
Vecchioni, Domenico, 328n Vejdemjuller, Karl Ludvigovič, 69 Venturi, Antonello, 56n, 60n, 68n, 69n Venturi, Franco, 244 e n, 304 e n, 305 e n Vercors (pseud. di Jean Marcel Adolphe Bruller), 327 Viola, Lynn, 126n, 130, 131n Višnjak, Mark Veniaminovič, 67 e n, 69n, 70 Vivarelli, Roberto, 225n Vlasov, Andrej Andreevič, 327 Vojtinskij, Vladimir Savel´evič, 75 e n, 88, 89n Volskij, Stanislav, 54 Vorst, Hans, 49 e n, 50 Voznesenskij, Nikolaj Alekseevič, 293 e n Vrangel’, Pëtr Nikolaevič, 106, 155, 156 Vyšinskij, Andrej Januar’evič, 292, 293, 401 Wald, Alan M., 255n Waldenberg, Marek, 43n, 58n, 59n Walsh, Edmund, 168 e n Waters, Robert Anthony, 271n Webb, Beatrice, 205 e n, 209 Webb, Sidney, 205 e n, 209 Weber, Max, 38, 39n Weil, Simone Adolphine, 429 Weiss-Wendt, Anton, 286n, 311n, 312n, 393n, 395n Weissberg-Cybulski, Alexander, 254 e n, 357 e n, 358 Weissberg, Eva, 254 Weisskopf, Victor, 254n Weissman, Susan, 188n, 224n, 229n, 257n, 267n Wells, Herbert George, 74 Werth, Alexander, 299 e n Werth, Nicolas, 16 e n, 39n, 49n, 64n, 65n, 84n, 87n, 89n, 111n, 112n, 126n, 152n, 154n, 158n, 186n, 190n, 218n, 219n, 222n, 275n, 285n, 299, 300n, 369n
Westad, Odd Arne, 277n, 398n, 406n, 437n White, Elisabeth, 66n, 68n, 138n Wieder, Thomas, 340n, 343n Wieviorka, Annette, 340n, 345n Wilde, Oscar, 307 Wildenthal, Lora, 302n Wilford, Hugh, 312n Willan, Brian, 172n Williams, Andrew J., 93n, 94n, 106n, 136n, 155n Williams, Harold, 54 Wilson Walter, 167 e n Wilson, Woodrow, 41, 42n, 61, 110 Winock, Michel, 224, 333, 341, 344, 372 Witte (Vitte), Sergej, 37 Wolf, Erwin, 236 Wolfe, Bertram David, 414 e n Wolfson, Martin, 167 e n Woll, Matthew, 165, 166, 167 e n, 168, 169 e n, 200, 271, 287, 288, 310 e n, 319, 322, 369, 390 Wreszin, Michael, 267n Wright, Richard Robert, 308 Wrigley, Chris, 159n Wu, Harry, 426n Wunderlich, Frieda, 211n Wurmser, André, 327 Yvon (pseud. di Robert Guiheneuf), 242 e n, 243, 244 Zamorski, Kazimierz, 284, 356 Zanotti Bianco, Umberto, 69n, 74 e n Zaslavsky, Victor, 28, 251n, 260, 329n Zasulič, Vera Ivanovna, 32 Zenzinov, Vladimir Michajlovič, 67, 73n Zinov’ev, Grigorij Evseevič, 100, 109, 231, 233 Žordanija, Noj, 89 Zyromski, Jean, 200 Zubok, Vladislav, 277n
Finito di stampare nel mese di febbraio 2024 da The Factory s.r.l. Roma