Il mistero del bosco. L'incredibile storia del delitto di Arce 8866521442, 9788866521440

Serena Mollicone scompare da Isola Liri il primo giugno del 2001. Due giorni dopo, una squadra della protezione civile t

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Il mistero del bosco. L'incredibile storia del delitto di Arce
 8866521442, 9788866521440

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Nazio mistero 135x215_8_GIROLIMONI 18/11/13 11:53 Pagina 1

IL MISTERO DEL BOSCO

Pino Nazio (Roma, 1958) è sociologo, giornalista e autore televisivo. Dal 1992 è stato inviato del programma di Raitre “Chi l'ha visto?”, ha diretto per sette anni i canali satellitari di UnireTv, ha ideato e realizzato per la tv oltre mille servizi, spot, documentari e reportage, in Italia e all’estero. Ha scritto saggi sulla comunicazione: Le parole della tv, Il manuale del giornalista televisivo e Chi è della tv. Nelle nostre Edizioni ha pubblicato Il bambino che sognava i cavalli - 779 giorni ostaggio dei Corleonesi (2010), Il segreto di Emanuela Orlandi – Papa Wojtyla, la tomba del boss e la banda della Magliana (2012).

Pino Nazio

Serena Mollicone scompare da Isola Liri il primo giugno del 2001. Due giorni dopo, una squadra della protezione civile trova il corpo della studentessa nel boschetto di Fontecupa. Ha le mani e i piedi legati, un sacchetto di plastica le avvolge la testa, e una ferita vicino all’occhio provocata da un colpo violento che non può averla uccisa. Serena è morta dopo una lenta agonia ed è stata portata nel bosco poche ore prima del ritrovamento. La caccia all’assassino e ai suoi complici è ancora aperta.

Pino Nazio

Il mistero del bosco L'incredibile storia del delitto di Arce

SOVERA

€ 15,00

INCHIESTE

Pino Nazio

Il mistero del bosco L’incredibile storia del delitto di Arce

© 2013 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l.. Via Leon Pancaldo, 26 - 00147 Roma Tel. (06)5585265 - 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

A Rosina e Angelo, appassionati di cronaca, fin da quando i Misteri d’Italia portavano il nome di Wilma Montesi

Se vuoi diventare un vero cercatore della verità, almeno una volta nella tua vita devi dubitare, il più profondamente possibile, di tutte le cose. Cartesio

Ci ha provato tante volte a fare quel numero, poi, preso dai dubbi, ha sempre interrotto la chiamata. In fondo è passato un anno, hanno fatto un lavoro insieme, si sono salutati senza nessuna promessa di rivedersi e tutto è finito. Dopo così tanto, di chiamare Lorenzo a Jacopo proprio non va. Ma c’è una ragione importante per farlo, per questo prende a comporre sul cellulare quelle nove cifre. Trattiene il respiro, sorpreso da una strana emozione che un cronista non dovrebbe avere. Ha composto milioni di numeri nella sua vita, in quei secondi in cui il segnale dà libero, ha provato a calcolarli. “Allora”, pensa, “se sono 30 anni che uso il telefono, ho fatto una media di ottanta, cento telefonate al giorno? Diciamo che sono trecentomila l’anno. Ovvero... accidenti! Fa quasi un miliardo. Vuoi vedere che questa è la mia miliardesima telefonata?”. Con questo calcolo tra lo statistico e il demenziale è riuscito ad abbassare la tensione che accompagna quella sofferta telefonata, i dubbi sulle risposte che potrebbe ricevere, su quella sensazione di essere inopportuno, se non addirittura opportunista. Sì, perché è a lui che adesso fa comodo rintracciare quel personaggio enigmatico con il quale, per molti mesi, si è inoltrato nei meandri della scomparsa misteriosa di una ragazza. Anche se quella volta, a cercare il giornalista Jacopo Ammirati, era stato proprio Lorenzo. Il telefono suona libero e Jacopo lo avrebbe fatto squillare fino a quando non sarebbe caduta la linea o un disco registrato non lo avrebbe avvertito che “l’utente non è raggiungibile o momentaneamente occupato”. In quegli interminabili secondi ha ripassato il film del loro incontro, in strada, quando Lorenzo lo aveva avvicinato e, senza preamboli, gli aveva detto: “Sei tu Jacopo Ammirati? Dovrei parlarti di qualcosa che ti sta molto a cuore”.

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Jacopo rivive i fotogrammi del loro lavoro analitico, alla ricerca di risposte sulla scomparsa misteriosa di Emanuela, i retroscena, le rivelazioni, i dubbi, le conferme. Di quando, a un certo punto, gli era parso tutto chiaro e definito, poi, improvvisamente, la verità che sembrava a portata di mano era stata spinta di nuovo lontano, come fa il vento con un palloncino. Il giornalista immagina tanti bambini che giocano su una spiaggia sferzata dal vento in mezzo a tanti palloni un po’ sgonfi. I palloni non hanno la forza di volare in alto, ma si muovono in modo disordinato, imprevedibile, repentino, colpiti dalle folate, ogni tanto un bambino riesce ad afferrarne uno, a volte anche solo per un attimo. Nella sua fantasia, i bambini sono i cronisti come lui e i palloni le verità difficili da agguantare. Mentre si sta compiacendo di quella allegoria, di quel flash arrivato come un sogno notturno, bruscamente una voce lo riporta alla sua telefonata e a Lorenzo che con la consueta voce, pacata ma ferma, gli domanda: “Jacopo, a cosa devo l’onore?”. “Ma di quale onore parli. Dimmi come stai?”. “Se mi hai chiamato non è certo per sincerarti della mia salute, meglio se mi racconti subito perché dopo un anno hai deciso di farti vivo. C’è qualche altro sviluppo intorno alla scomparsa di Emanuela di cui vuoi parlare?”. “Hai visto anche tu quello che sta uscendo fuori?”. “Ne parlano tutti...”. “Ma non è per questo che ti chiamo”. “Ah no?”, risponde sorpreso Lorenzo, “mi aspettavo una chiamata proprio per questo”. “No, ma c’entra sempre una ragazza”. “Che ne dici di vederci all’ultimo posto dove ci siamo salutati?”. “Al solito bar?”.

A Campo de’ Fiori, nel cuore di Roma, c’è il via vai di tutti i giorni, la luce dell’alba ha dissolto i suoni e i rumori della movida alimentata dai turisti per lasciare il posto alle bancarelle dello

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storico mercato. Anche se del vecchio mercato resta ben poco: i banchi di souvenir hanno da tempo preso il sopravvento su quelli della frutta e del pesce. Jacopo procede a passo svelto, vicino alla statua di Giordano Bruno non può fare a meno di pensare a quanto siano fallibili i suoi simili, capaci di bruciare vivo un uomo per un pregiudizio, ma anche di come la verità possa farsi strada anche a quattrocento anni di distanza. Immerso in strani pensieri, si infila in via dei Giubbonari, al tavolino del bar riconosce la sagoma di Lorenzo dietro un quotidiano spalancato. “Disturbo?”. Jacopo non ha mai saputo quale lavoro faccia Lorenzo, sospetta che appartenga a un corpo speciale della polizia o dei carabinieri, magari che sia inquadrato in qualche servizio segreto. Non lo sa perché, fin dal loro primo incontro, Lorenzo ha posto una sola condizione alla loro collaborazione: non fare domande personali. E lui ha rispettato questa volontà. Nel corso del precedente lavoro, Jacopo ha apprezzato la accurata documentazione dell’amico e le sue doti analitiche, qualità gradite a ogni giornalista, e pensa di sfruttarle in questo nuovo caso che si è trovato ad affrontare. Niente preamboli, come al solito, e dritti al problema. In pochi minuti il giornalista racconta all’amico perché lo ha cercato, gli parla di quella storia che ha deciso di approfondire e per la quale ha chiesto il suo aiuto. “Ricordi un omicidio del 2001, di una ragazza trovata in un bosco del frusinate, legata mani e piedi?”. “Credo che ti riferisca a Serena Mollicone?”. “Sì, proprio lei”. “Non c’erano tracce di violenza sessuale”, Lorenzo sciorina le cose che sa come un file parlante di un immenso archivio, “e sicuramente era stata uccisa da un’altra parte e poi portata lì, era morta per soffocamento dopo una lenta agonia. Del caso si è occupata anche l’Uacv, la cosiddetta Squadra antimostro, ma dopo un po’ dovettero gettare la spugna”. Mentre ascolta l’amico, Jacopo si compiace di aver fatto quella telefonata: Lorenzo è la persona giusta per riuscire a diradare la

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nebbia che avvolge quel macabro ritrovamento. Serena era una ragazza sorridente, pronta ad aiutare chi era in difficoltà, persone o animali che fossero e, soprattutto, aveva solo diciotto anni. Chi le aveva portato via i sogni era ancora in libertà, chi non aveva provato alcuna pietà per una ragazzina agonizzante era capace di continuare ad ammazzare pur di restare impunito, chi aveva ucciso aveva potuto contare su complici e protezioni, anche altolocate. Sono tutti buoni motivi per occuparsi di un caso complesso, difficile, pericoloso. “Come mai ti vuoi dedicare a questa storia? Te lo hanno chiesto al giornale?”, chiede Lorenzo. Jacopo , sempre pronto nelle risposte, attende qualche secondo e poi stupisce l’amico: “Non te lo posso dire. Stavolta sono io a chiederti di non farmi questa domanda, ogni cosa a suo tempo”. “Mi sembra un’ottima ragione”, replica sarcastico Lorenzo, “ti darei una mano volentieri, ma conosco chi può fare molto meglio di me, ho una cara amica che vive a Sora, il centro più grande vicino ad Arce, il paese di Serena. Tu non chiederle nulla sul suo lavoro e vedrai che anche con lei ti troverai benissimo. Si chiama Lucrezia, avrà all’incirca la tua età, è anche carina. Basta che quando la chiami tu le faccia il mio nome!”.

Due giorni dopo Jacopo è all’appuntamento con Lucrezia, il tempo per lavorare a questo nuovo caso non è molto e lui vuole cominciare subito. Il posto in cui si devono vedere è al centro della cittadina ciociara, ai giardini pubblici, l’ora dell’incontro le 20, alla fine della giornata di lavoro per chi non ha orari di lavoro. Jacopo parte con un po’ di anticipo, vuole evitare imprevisti lungo la strada, come un incolonnamento sulla Roma-Napoli. È spinto dalla sua innata curiosità che lo porta a vivere ogni novità con un po’ di emozione. La voglia di scoprire quale aiuto potrebbe dargli la donna nel capire gli eventi di tredici anni prima e vedere se questa Lucrezia sia davvero carina.

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Mentre il giornalista è immerso in questi pensieri, si sente chiamare: “Sei tu Jacopo Ammirati?”. L’uomo si volta verso la voce che proviene dalle sue spalle e scopre un viso dai lineamenti aggraziati, una espressione dolce e due grandi occhi azzurri che si trovano esattamente all’altezza dei suoi. Ha un attimo di esitazione dovuta all’elaborazione dei dati visivi e poi conferma: “Certo, e tu Lucrezia?”. “A meno che tu non abbia dato due appuntamenti allo stesso posto e alla stessa ora, direi di sì”. Non c’è tempo per i convenevoli, decidono di scambiare le prime impressioni al tavolo di un bar del corso, per poi mangiare un boccone insieme. Nei pochi passi che fanno, Jacopo ha modo di apprezzare le fattezze della donna, rivelate da un paio di leggins neri e da una aderente magliettina che riproduce un dipinto geometrico di Gustav Klimt. La donna ha in mano un plico che a occhio e croce contiene un centinaio di pagine, parla velocemente, sorride spesso. Prima che si siedano, ha già raccontato che si è occupata a lungo del caso di Serena e che ancora se ne sta occupando, visto che a tutt’oggi non si conosce il nome dell’assassino. È convinta che la verità possa venire fuori da un momento all’altro. Nessuna informazione personale, nessun indizio rivelatore, solo la conferma della disponibilità a collaborare con il giornalista per un mero fine ideale, per la soddisfazione di risolvere un mistero. Dopo un’ora di intenso scambio di opinioni, decidono di trovare un posto dove mangiare, altrimenti rischiano di restare senza cena. Concordano su un pub poco distante da lì. Parlano a lungo, così a lungo che quando il proprietario del locale porta loro il conto, il pub è già vuoto da un pezzo, non se ne sono accorti, tanto sono presi dalla discussione. Jacopo mette la carta di credito sul tavolo e accenna a raccogliere i suoi appunti, quando viene fermato da Lucrezia: “Aspetta! Non ti ho detto la cosa più importante”. “Ma tanto ci rivediamo presto abbiamo detto”, replica il giornalista.

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“Sì, ma devi prima fare i compiti”, gli dice la donna mentre allunga il plico che non ha mai perso di vista per tutta la sera. “Cosa c’è qui dentro?”. “Non ti ho detto che sulla storia di Serena ho scritto un libro? Tutte le cose che so, ho cercato di confezionarle in una specie di romanzo”. “Allora sei una scrittrice?”. “Lascia stare cosa sono, ho voluto mettere nero su bianco questa storia e l’ho fatto”. “Ma non è ancora pubblicato?”. “No, non l’ho mandato in giro perché manca il finale. C’era anche un editore che me lo aveva chiesto”. Il gestore del pub, che ha ormai sistemato tutte le sedie sui tavoli e ha passato lo straccio in terra, tralasciando di pulire un sentiero centrale fino all’uscita, si avvicina porgendo all’uomo la ricevuta da firmare: “Adesso che uscite fate attenzione a non camminare dove è bagnato. Grazie!” L’ultima parola, pronunciata ad alta voce, rivela tutta la seccatura di chi ha atteso per un’ora che gli ultimi clienti liberassero il locale. Gli avventori tardivi tornano davanti ai giardinetti dopo sei ore dal loro primo incontro, hanno la sensazione di non essersi mossi da lì, tanto è volato il tempo. Si salutano con una stretta di mano e un timido bacio sulla guancia.

Sarà il caffè con cui ha chiuso la cena e a cui non è più abituato, saranno tutte le cose che gli ha raccontato Lucrezia, sarà la giornata di corta che gli permette di non andare al giornale il giorno dopo, Jacopo comincia a leggere il manoscritto con tutte le intenzioni di consumarne una grossa parte. Lo colpisce subito la cancellatura del cognome dell’autrice, non riesce a capire le ragioni di tanta riservatezza.

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La figlia del maestro di Arce di Lucrezia XXXXXXXXXXX

Arce è un paese di poche migliaia di anime nella Ciociaria, il cui nome deriva dal Latino Arx, arcis, che vuol dire rocca; infatti è arroccata su una collina piena di vecchie case, basse e modeste, circondata da una valle dalle costruzioni recenti. Lì la vita è scandita dai ritmi lenti della provincia, dagli appuntamenti che si ripetono, come il mercato una volta alla settimana, la messa della domenica, lo struscio lungo la via principale. Ci sono poche novità da raccontare agli amici, al massimo qualche pettegolezzo. Lì viveva con i suoi genitori e due fratelli Guglielmo Mollicone, un ragazzo che non aveva compiuto ancora vent’anni, minuto, dai capelli e dalla carnagione chiara, così come i suoi occhi. Uscendo e tornando a casa, non si era mai curato di una ragazzina dai capelli neri, lisci e lunghi, che sembrava non avere pensieri che per lui, che era interessata a ogni suo passo e a tutti i suoi gesti. All’improvviso Guglielmo cominciò a fare caso a quella vicina di casa, ricordò che si chiamava Bernarda Di Folco, notò i suoi capelli neri e lisci, e le sue forme di donna lasciate indovinare sotto gli stretti vestiti. Lei lo aveva puntato da sempre e cercava in tutti i modi di farsi notare. Appena sentiva la porta dei vicini che si apriva, si precipitava sull’uscio per incrociare chi passava. Se era Guglielmo, poteva ritenersi soddisfatta, se il ragazzo la salutava, sarebbe stata una buona giornata. Quello era il suo Guglielmo, con occhi chiari e dolcissimi. I teneri appostamenti adolescenziali andavano avanti da un po’ di tempo, senza che il giovanotto si fosse accorto di nulla, fino a quando, complice il distacco dall’adolescenza della ragazza, lui si mostrò interessato ad approfondire quella conoscenza.

La contestazione giovanile sarebbe esplosa l’anno seguente e i fermenti di una società che si interrogava sul proprio futuro erano

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già nell’aria, Guglielmo aveva i capelli lunghi, indossava camicie con grandi disegni dai colori sgargianti, si sentiva un figlio dei fiori, anche se in salsa paesana. Andavano di moda i cineforum, la proiezione di film con tematiche sociali, a cui seguiva l’immancabile dibattito, si discuteva di famiglia e di lavoro, di diritti civili e di disuguaglianza, senza trascurare i più scottanti temi internazionali. A Frosinone la domenica c’era uno di questi appuntamenti e il giovanissimo istitutore del collegio maschile del capoluogo ciociaro e vicino di casa, trovava sempre il modo di fermarsi a parlare con la quindicenne che aveva occhi solo per lui. Per la verità Guglielmo aveva puntato una amica di lei, molto carina e avvenente, dallo sguardo smaliziato e intrigante, aveva pensato di chiedere proprio a Bernarda di presentargliela, non immaginando quale reazione avrebbe potuto provocare una simile richiesta. La donna, all’età di due anni, aveva perso la mamma per un tumore e la nuova moglie del padre non aveva mai fatto mistero di non considerare Bernarda alla stregua degli altri figli che erano arrivati dal secondo matrimonio. Durante l’estate la giovane orfana doveva occuparsi della casa e dei fratelli perché la matrigna, abile venditrice, raccoglieva cesti di pere da alcuni parenti e si assentava per venderle. Appena cominciavano a cadere le foglie e le cantine del paese si riempivano di mosto, a Bernarda si apriva il cancello del collegio di suore. Senza dare spiegazioni, la matrigna annunciava la scelta di mandarla in collegio con la formula di rito: “A Bernarda le spetta”. Cosa volesse dire quella frase la ragazza non lo aveva mai capito e aveva sempre accettato l’idea di sentirsi considerata meno degli altri in famiglia. Con il fratello naturale, più grande di lei, non c’erano intensi rapporti, ma nemmeno la sotterranea ostilità che aveva con i sei fratelli nati dal secondo matrimonio, nonostante avesse dovuto far loro da madre, aiutare in casa giorno dopo giorno, insomma crescerli. Quando, passata la primavera, Bernarda tornava a casa per trascorrere i mesi estivi, la aspettava il compito di cuoca per tutta la

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famiglia. Dimostrava notevoli doti tra i fornelli, tutti apprezzavano i suoi piatti, pur mantenendo relazioni familiari complicate, compresa quella con il padre che a quel tempo era manovale. L’uomo, seguendo una tradizione di famiglia, aveva fatto il ciabattino, un mestiere antico, ma poco remunerativo, ed era stato costretto a cambiare attività. Per diversi anni era andato e venuto da Roma, lavorando come operaio nella importante società delle Condotte e, raccontava con orgoglio, come aiuto cuoco durante la costruzione dei sottopassaggi del Muro Torto e del parcheggio di villa Borghese.

Quando Bernarda prese a uscire con Guglielmo, il ragazzo pesava solo quarantotto chili, a causa di una forma di anoressia, conseguenza della separazione dei genitori che lui non era riuscito ancora ad accettare. Con i soldi che guadagnava facendo l’istitutore, il giovane aveva comprato una bella macchina usata, una Fiat spider disegnata da Bertone, una automobile che non poteva non essere notata per il suo originale colore celeste. Quando la gracile e minuta Bernarda saliva a bordo, sprofondava nel sedile, e mentre gironzolavano con la cappotta scoperta, lei aveva la sensazione di trovarsi nel posto giusto, proprio lì dove avrebbe voluto essere. Grazie alla cucina di Bernarda e alla voglia di mettere su famiglia, Guglielmo cominciò a prendere peso, fino a vincere completamente la malattia, ma ci vollero due anni perché tornasse tonico e florido.

Il male interiore non aveva impedito all’uomo di diplomarsi, lavorare e continuare a studiare. Frequentava la facoltà di Magistero a Roma, con grande dispendio economico e di tempo, ma era riuscito a sostenere tutti gli esami. A suggellare il suo impegno mancava solo la tesi di laurea, ma incappò in un professore che,

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oltre ad essere un vero pignolo, pensava di sfruttare il lavoro del laureando. Guglielmo si sentì umiliato da quel barone che dapprima gli aveva chiesto di commentare un autore attraverso Dante e Petrarca, un lavoro enciclopedico, che non avrebbe mai visto la fine; poi lo aveva ridotto al solo Petrarca. Nonostante tanti mesi di duro lavoro, tanti viaggi nella capitale e tanti sacrifici, la ricerca del maestro di Arce non soddisfaceva mai l’esigente professore. Accadde così che Guglielmo, convinto di essere entrato in un labirinto senza uscita, decise di fare l’unica cosa che sentiva giusta: lasciò perdere la compilazione della tesi e si accontentò del titolo di scuola media superiore.

A differenza della fidanzata, per lui non c’erano mai stati problemi con i genitori, aveva sempre fatto di testa sua, e quando presentò in famiglia Bernarda, lei venne ben accolta dai futuri suoceri. Anche la matrigna salutò con gioia l’arrivo del genero, perché non vedeva l’ora di togliersi di torno la figlia di primo letto, tanto era occupata a cercare una buona sistemazione ai sei figli del suo matrimonio. Dopo tre anni di fidanzamento, la diciannovenne Bernarda e il ventitreenne Guglielmo si sposarono nella chiesetta di Santa Maria Addolorata, nella parte alta del centro storico, alla fine di via Manfredi. La avevano scelta per rimanere più raccolti, ma con loro grande sorpresa, trovarono tutto il paese riunito nella piazzetta antistante l’edificio bianco in stile spagnolo su cui svettava un piccolo campanile. Gli sposi pronunciarono il loro sì tra il pregiato crocifisso e, in una nicchia sopra l’altare maggiore, la statua della Madonna Addolorata, incoronata con uno splendido diadema.

Il viaggio di nozze era un lusso che i giovani non si potevano permettere, perciò lo rimandarono a tempi migliori. Gli anni del boom economico avevano lasciato il posto alla crisi e il lavoro scarseggiava.

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I due sposi non si scoraggiarono, si trasferirono a Como dove viveva Armida, la sorella di Guglielmo. L’uomo, che aveva il diploma, si adattava a qualsiasi lavoro pur di mettere un po’ di soldi da parte per ristrutturare la casa che i genitori gli avevano messo a disposizione. Era un piccolo edificio, perfetto per le esigenze della giovane coppia che non desiderava altro che disporre di un tetto dove far crescere i figli. Lui accettava tutti i lavori che gli offrivano, lavori duri, lavori da operaio, prima in acciaieria, poi, appena acquisita un po’ di esperienza, in una trafileria. Guglielmo capì che il lavoro non era facile, rimase colpito dal gran numero di colleghi che erano incorsi in incidenti, a chi mancavano le falangi, a chi alcune dita, a chi le intere mani. Pensava spesso che quella non era la vita che avrebbe voluto vivere, resistette il più possibile in fabbrica, ma dopo sei mesi di sacrifici, avendo accumulato un piccolo gruzzolo, i coniugi fecero ritorno ad Arce.

Con in tasca l’abilitazione magistrale, Guglielmo iniziò a lavorare come supplente alla scuola materna; trascorreva qualche pomeriggio a dare ripetizioni e passava il resto del tempo a lavorare alla ristrutturazione dell’appartamento. Bernarda pensava alla casa e alla cucina, ma voleva anche trovare il modo di guadagnare qualcosa. Ogni volta che toccava questo argomento, suo marito le rispondeva che non era ancora il momento, che prima o poi sarebbe arrivato il tempo per contribuire alle entrate familiari, che lui aveva in mente un progetto, ma non era tempo di parlarne. Il ménage familiare scivolava tranquillo, gli sposi erano felici, salvo quella volta in cui si sfiorò la tragedia. Erano seduti a tavola, Bernarda disse a Guglielmo che la sua amica, quella dei tempi del collegio, aveva fatto una brutta fine: si era messa a fare “la vita”. Bella era bella, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe arrivata a vendere il suo corpo. Il piccolo dramma domestico esplose quando Guglielmo, un po’ impudentemente, confessò che a lui piaceva quella sua amica

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e che il progetto iniziale era quello di usare Bernarda per arrivare a conoscerla. Nonostante fosse passato tanto tempo, nonostante i due fossero stati fidanzati per quattro anni e si fossero sposati, nonostante tutto filasse liscio tra loro, si volessero bene, e stessero lavorando sodo per costruirsi una posizione, Bernarda andò in escandescenze. Guglielmo non avrebbe mai immaginato che questa rivelazione potesse turbare la donna che lui da tempo aveva scelto come sua compagna di vita. Bernarda era furiosa, la notizia le fece cambiare umore, affermò con assoluta certezza che se Guglielmo avesse provato a mettere in pratica il suo progetto, lei lo avrebbe picchiato. E ci mancò poco che non lo facesse, stavolta.

La prima nausea arrivò di mattina mentre puliva le patate, all’improvviso, quando era sola in casa. Sul momento non capì il motivo del suo malessere e lo attribuì alla cena sostanziosa, ma non ci mise molto a scoprire che i rapporti non protetti le avevano regalato una tanto desiderata gravidanza. Una bella notizia per la coppia che, nei limiti del possibile, cercò di gestire la novità senza particolari sconvolgimenti nelle loro abitudini. Per otto mesi Bernarda continuò la vita di sempre, tranne che per le visite e i controlli di rito, molteplici e stressanti, ma poté contare costantemente sulla presenza e sull’aiuto di Guglielmo che le stette vicino e la accompagnò dappertutto, districandosi tra i numerosi impegni scolastici. Si stava avvicinando la fine del tempo e Bernarda non restava in casa da sola, c’era sempre una parente o una amica a tenerle compagnia. Guglielmo era spesso nervoso per quella forzata lontananza, ma doveva rimanere a scuola. Entrambi aspettavano che i segnali dell’imminente parto si manifestassero, a ogni strano dolore Bernarda si interrogava se fosse una avvisaglia delle doglie, ogni minima perdita veniva interpretata come una possibile rottura delle acque. Più di una volta aveva svegliato il marito nel pieno della notte, per poi scoprire che erano falsi allarmi.

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Una mattina, mentre Guglielmo stava facendo supplenza e Bernarda era davanti al televisore, arrivarono le contrazioni, quelle vere. Erano i giorni caldi in cui era prevista la nascita, Guglielmo si era visto rifiutare dal direttore la possibilità di stare vicino alla moglie, nonostante avesse dato tutta la disponibilità a coprire il maggior numero di ore nelle settimane precedenti. Bernarda aveva fatto avvertire la sua ostetrica, che si era precipitata in casa. La levatrice trovò la partoriente che si agitava sul letto, le ricordò le operazioni che avevano simulato tante volte, le posizioni da assumere, come respirare durante la fase più acuta delle contrazioni. Guglielmo, quando finalmente riuscì a tornare da scuola, si fermò al piano di sotto e lì aspettò che arrivassero i primi segni di vita del neonato. Con il passare del tempo e con l’aumentare delle fitte, Bernarda cominciò a reclamare la sua presenza, così l’uomo decise sul momento che non poteva fare a meno di assistere al parto. Bernarda si contorceva dal dolore e si aggrappava al marito, lo faceva così forte che lui a un certo punto esclamò: “Bernarda, allenta un pochino, altrimenti il bambino nasce e io muoio”. La vista della neonata fu per i coniugi uno spettacolo che non avrebbero mai cancellato dalla loro mente. Come in un film, in pochi secondi rividero centinaia di immagini: gli appostamenti di lei, gli incontri al cineforum, i primi baci, la scoperta del sesso, il matrimonio, i parenti, la costruzione della casa, la scelta dei mobili, la risposta al test di gravidanza. L’ostetrica applicò alla puerpera cinque punti di sutura che non le provocarono alcun dolore, tanto aveva sofferto per far nascere Consuelo. Quando alla sera Bernarda e Guglielmo si ritrovarono abbracciati nel letto con il frutto del loro amore, pensarono che la vita aveva portato loro tutto quello che avrebbero potuto desiderare. C’era un forte sentimento, la gioia di aver concepito una nuova vita, la serenità di un futuro senza particolari preoccupazioni economiche, un tetto sulla testa, un domani che non poteva non essere felice.

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L’arrivo della bambina li portò alla decisione di cambiare automobile: ormai la spider era diventata vecchia, la cappottina si era rotta in più punti, era giunto il momento di passare a una berlina, più adatta a una famiglia. La scelta cadde su una auto diffusa e affidabile, una Fiat 128, ne trovarono una bianca, di seconda mano, per non sbilanciare le entrate familiari.

Determinati a costruire un futuro meno incerto di quanto la crisi e la vita in un piccolo centro rurale facessero immaginare, i coniugi decisero di compiere il grande salto; il maestro Guglielmo, che aveva oramai una notevole dimestichezza con programmi e libri di testo, con qualche esitazione raccontò alla moglie il progetto che coltivava da tempo. Era una idea pensata a lungo, valutata in ogni risvolto, soppesata in tutte le conseguenze, tutto quello che avrebbero avuto di fronte sarebbe stato un periodo di durissimo lavoro, una prospettiva resa ancor più complicata dalla presenza di Consuelo e dalla voglia, molto più dell’uomo che della donna, di avere almeno tre figli. Bernarda accolse con entusiasmo, anche se con un po’ di agitazione, il progetto di aprire una cartolibreria e si mise subito all’opera. Lei aveva il diploma di segretaria d’azienda, si rituffò nello studio e prese la licenza alla camera di commercio, trovarono un negozio sulla piazza del paese e, ordine dopo ordine, caricandosi di qualche debito, iniziarono l’attività. Il negozio, grande una sessantina di metri quadrati, affacciava sul monumento ai caduti, tra un bar e un fotografo. La mattina andava Bernarda, al pomeriggio, al ritorno dalla scuola, rimaneva Guglielmo. L’uomo, prima di andare a insegnare portava Consuelo al nido di Arce e sempre lui la riprendeva per portarla a casa a pranzo. Dal canto suo Bernarda, quando non era a negozio, si occupava della cucina e delle faccende domestiche; le sembrava non dovesse finire mai di lavare triangoli e sorrisi, gli antenati dei pannolini, necessari a contenere i bisogni di Consuelo.

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Intorno ai tre anni, la bambina iniziò a servirsi del bagno e quella parte di lavoro venne archiviata.

I coniugi, sacrificio dopo sacrificio, iniziarono a sistemarsi. La cartolaia divenuta mamma era abbastanza in gamba da portare avanti entrambi gli impegni; la quota mensile del nido era alla portata della famiglia che si stava costruendo una indipendenza economica. Il negozio si riempiva di nuovi articoli, il mese di settembre era una occasione di incasso straordinario, grazie alle centinaia di bambini e ragazzi che, dalle elementari alle superiori, dovevano dotarsi dei testi. Alla cartolibreria era un continuo via vai di mamme e ragazzini che, con il fermento che accompagnava ogni inizio di anno scolastico, si affacciavano e chiedevano: “Sono arrivati i miei libri?”. I piccoli e grandi successi della figlia di primo letto, invece di suscitare ammirazione nella matrigna, fecero posto a brutti sentimenti come l’invidia e la gelosia. Bernarda non riuscì a trovare un valido sostegno nel padre o nel fratello maggiore che bilanciasse il suo dispiacere. Solo il rapporto di profondo amore con Guglielmo e Consuelo la compensava di ogni frustrazione.

Guglielmo non era un semplice negoziante, era stato l’insegnante di tanti clienti, quasi tutti continuavano a chiamarlo maestro, si rivolgevano a lui per un consiglio, potevano pagare a rate senza problemi, chiedevano di poter passare al figlio più piccolo i libri del maggiore, nonostante il programma ufficiale richiedesse una edizione aggiornata. Guglielmo aveva una parola per tutti e annotava su una agenda nomi e importi da saldare, nella certezza che i debiti sarebbero stati onorati.

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A far decollare la principale entrata della famiglia era stata l’assenza di concorrenza. La crisi petrolifera e l’Austerity erano alle spalle, l’economia stava ripartendo, anche quella della famiglia dei librai di Arce. La casa era stata tirata su mattone dopo mattone; Guglielmo, la cui anoressia era solo un lontanissimo ricordo, non si era risparmiato nel fare viaggi con i pesanti sacchi di calce, sabbia e cemento, con i mattoni e le pietre, e non aveva risparmiato la sua Fiat 128, che serviva da navetta per arrivare dalla strada, fin dove potevano spingersi i camion, attraverso le strette strade del paese. Poi bisognava fare a piedi il resto del percorso, carichi come muli, con blocchi da venti chili da portare su e giù per le scale.

La vita di famiglia scorreva regolare, scandita dai tempi della scuola per Guglielmo e Consuelo, da quelli della cartolibreria e della casa per Bernarda. La donna, divisa tra i ruoli di moglie, madre e libraia, si accontentava di quella famiglia a tre, non se la sentiva di ricominciare, dopo dieci anni, con allattamento, cambi e pappine; con il passare del tempo anche Guglielmo parlò sempre meno del progetto di avere altri figli. La coppia, dalla regolare vita sessuale, aveva adottato, come prevenzione, il metodo Ogino-Knaus, che aveva funzionato per dieci anni. Ma il destino aveva preparato una sorpresa per i non più giovanissimi sposi. Al secondo mese di ritardo, Bernarda avvertì Guglielmo e fece il test di gravidanza: con grandissimo stupore scoprì di essere rimasta di nuovo incinta. Guglielmo celò il suo entusiasmo, conoscendo le riserve della moglie e lei, che pure non voleva più sentir parlare di neonati, accolse comunque l’idea di quel figlio arrivato a dispetto delle loro intenzioni. Di aborto non si parlò mai e la gravidanza procedette con regolarità. Anche in questa occasione, la vita del maestro, della cartolaia e della loro figlia non subì particolari cambiamenti, se non per l’organizzazione pratica, legata a visite e controlli di mamma e nascituro.

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Consuelo riceveva dai genitori messaggi tranquillizzanti sul bimbo in arrivo, sulla nuova compagnia che avrebbe avuto, sulla possibilità di giocare a fare la vicemamma. A differenza della prima volta decisero di far nascere il secondogenito in ospedale, a Sora.

La notte era iniziata da poco, battuta da fortissime raffiche di vento, Bernarda cominciò a riconoscere gli stessi dolori che aveva sentito dieci anni prima: non si poteva sbagliare, erano le contrazioni che annunciavano l’inizio del travaglio. Chiamarono una signora a cui lasciarono in custodia Consuelo, Bernarda prese la borsa che aveva preparato qualche giorno prima con vestaglia, ciabatte e asciugamani, si coprì per affrontare il freddo della notte e, sorretta dal marito, si avviò verso l’auto a pochi metri da casa. Appena furono sull’uscio, una folata fortissima quasi li ricacciò dentro, Guglielmo si tolse il cappotto, avvolse Bernarda fino alla testa e, facendole scudo con il corpo, la infilò a bordo. Lungo la strada, rami caduti e sassi erano la prova evidente della furia che si era scatenata; al passaggio dell’auto, altri rami si piegavano fin sul parabrezza. Le condizioni di Bernarda non giustificavano una corsa, perciò il marito procedette con prudenza, data la possibilità che qualche albero cadesse sull’automobile, fino a quando arrivarono all’ospedale. Pochi minuti dopo la mezzanotte, Bernarda venne ricoverata; Guglielmo, in una sala deserta, aspettava con ansia le risposte alle tante domande che gli rimbalzavano in testa in quelle poche, interminabili, ore. Si affollavano pensieri positivi e negativi, immagini belle e orribili, paure e speranze. Pensava alla salute della madre e del neonato, pregava perché tutto andasse bene, si chiedeva se sarebbe arrivato un maschio o una femmina. Avevano deciso di non sapere il sesso e per questo non avevano ancora un nome. Il sole non si era ancora alzato quando Guglielmo, vinto dalla stanchezza, crollò addormentato su una panca. Un sonno agitato,

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con un occhio solo, pronto a scrutare l’arrivo di qualche agognato ambasciatore. Mentre era nel dormiveglia, una figura femminile con un camice bianco si materializzò davanti all’uomo e gli disse la frase che ogni persona in quelle condizioni vorrebbe sentirsi dire: “È nato!”. “E come sta?”, rispose ancora frastornato, “Come sta la madre? Come stanno?”. “Bene, è andato tutto bene”. Guglielmo entrò al reparto di ostetricia convinto di trovarsi di fronte a un maschietto, abbracciò la moglie sfinita. Subito dopo arrivò l’infermiera con il neonato, lo mise sul petto della mamma. “Allora dobbiamo scegliere un nome da maschio”, disse Guglielmo. “Perché da maschio se è femmina?”, rispose con un filo di voce la donna. Guglielmo capì il malinteso, spiegò che era frutto della notizia data dall’infermiera. A quel punto la bella femminuccia con i capelli scuri e gli occhi celesti che se ne era stata tranquilla, lanciò un urlo acuto e lunghissimo, come quello di una sirena. “Accidenti che voce”, disse il padre, “uno dei nomi che avevamo pensato per una femmina non era Serena? Lei è proprio una sirena, questo è il nome giusto”. Serena, nata alle cinque del mattino del 18 novembre 1983, pesava tre chili e duecento grammi.

Giusto il tempo di tornare a casa e la neonata aveva già cambiato aspetto, gli occhi erano ancora più chiari, i capelli biondi, sembrava una olandese. Esattamente i colori del padre appena nato, al contrario della madre che aveva la carnagione e i capelli scuri. Purtroppo il rapporto tra la madre e la bambina manifestò fin da subito dei segnali negativi. La gravidanza non desiderata, forse qualcosa che dentro Bernarda non girava perfettamente, degli ingranaggi che davano segnali di cattivo funzionamento, fatto sta che il rapporto tra loro fu

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da subito difficile. La maternità improvvisa per la donna era stato un colpo, anche il suo organismo manifestò il rifiuto del nuovo arrivato: dopo soli quindici giorni Bernarda dovette sospendere l’allattamento. I suoi capezzoli erano attraversati da piccole ferite che non potevano essere rimarginate con nessuna crema, da lì uscivano insieme latte e sangue. I genitori si arresero all’idea del latte industriale e il primo che scelsero andò bene, non ci fu alcuna intolleranza. Quando la piccola si svegliava di notte, era sempre Guglielmo ad alzarsi, a sfamarla e a calmarla. A Bernarda non era bastata la sua esperienza di vita, il rapporto difficile con la matrigna, a spingerla verso un atteggiamento più amorevole nei confronti di Serena. In proporzioni minori di sua madre, anche Bernarda riprodusse un diverso rapporto tra i suoi figli. Molto legata a Consuelo, che la ricambiava ampiamente di questo riconoscimento, fortemente indipendente da Serena, fin dai primi giorni di vita.

Crescendo, la bambina si era sempre di più legata al padre, avvertendo inconsciamente il sentimento ambivalente che la madre nutriva verso di lei. Capitava spesso che Serena piombasse nel letto dei genitori in piena notte e, facendosi spazio tra loro, cominciasse a tirare dolcemente i capelli del padre, un rilassante esercizio che la faceva subito addormentare. Per anni Consuelo aveva tormentato i genitori affinché le dessero un fratellino, però con la nuova nata realizzò che, oltre al piacere del gioco e della compagnia, c’erano i doveri e gli impegni. La nuova arrivata aveva comportato un cambiamento di abitudini in tutti i componenti della famiglia: Consuelo già a dieci anni aveva l’incombenza di dover guardare la sorella, una circostanza che si verificava spesso a causa dell’insegnamento e del negozio da portare avanti. La sorella maggiore capì che l’affetto dei genitori, e del padre in particolare, prima di suo esclusivo appannaggio, adesso anda-

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vano ripartiti. Quando l’ultima nata chiedeva di essere presa in braccio, inevitabilmente alcune attenzioni di mamma e papà venivano concentrate su di lei, la piccola non era di grande appetito e c’era bisogno di ulteriore impegno e sollecitazioni per indurla a mangiare. Più difficile da comprendere se il rapporto concorrenziale che si stava sviluppando tra le sorelline non fosse in parte il frutto dell’atteggiamento della madre verso Serena. Non che Consuelo non volesse bene alla sorella, ma sicuramente meno di quanto avrebbe potuto immaginare quando chiedeva di non restare figlia unica. In questo non veniva certo aiutata dal suo carattere: schiva e orgogliosa, al punto che il padre doveva astenersi dal ringraziarla anche quando riceveva da lei una cortesia. Tanto chiusa e riservata era Consuelo, che aveva ripreso dalla madre, quanto estroversa e gioviale era l’indole di Serena, simile al carattere del padre. Con il passare del tempo, le linee affettive erano stabilizzate lungo le due direttrici Bernarda-Consuelo e Guglielmo-Serena.

Il rapporto tra padre e figlia maggiore non fu aiutato dal fatto che Guglielmo invitò Consuelo ad iscriversi all’istituto magistrale, mentre lei avrebbe preferito il liceo artistico. Il maestro, più che il padre, aveva letto i programmi della scuola desiderata dalla figlia e li aveva considerati inconsistenti; poco importava se la ragazza aveva una naturale predisposizione per la pittura e realizzava quadri che lasciavano tutti a bocca aperta. Guglielmo stesso aveva trovato delle interessanti somiglianze tra alcuni paesaggi innevati e i quadri della scuola fiamminga, di Bruegel in particolare. La vocazione di Consuelo dovette lasciare il posto alla concretezza del padre. La casa che era stata tirata su con sudore e rinunce, mostrava segni di instabilità. Con grande sorpresa Guglielmo venne a scoprire che la struttura rischiava di cedere sotto il peso delle zoccole. Erano stati i grandi roditori a mangiare il materiale che teneva

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insieme pietre e mattoni e a rendere insicura la dignitosa dimora di famiglia. I topi avevano scavato dei cunicoli tra pietra e pietra, mattone e mattone, e adesso bisognava ancorare i muri con delle catene per evitare che la casa crollasse. Fu così che ripresero i lavori per mettere in sicurezza l’unica proprietà di famiglia; intorno e dentro la casa venne costruita una sorta di gabbia di ferro e cemento, e l’abitazione venne salvata. L’intervento riuscì così bene che Guglielmo, il quale non si era risparmiato nel lavoro da manovale, ripeteva a tutti che adesso la costruzione poteva reggere persino al terremoto. Il prezzo del consolidamento era stato molto alto, una cifra folle, che i coniugi Mollicone non avrebbero recuperato nemmeno con la vendita del piccolo edificio. Però quella era la loro casa, costruita con le privazioni e i sacrifici, nel centro storico di Arce, dove era nata la loro prima figlia, lì stava crescendo Serena, e tutto questo valeva più di ogni calcolo economico. Fu proprio la casa a far esplodere la collera dei fratellastri di Bernarda. La molla del contenzioso era rappresentata da una assurda aspettativa, quella che lei potesse andare via da lì per fare posto a uno dei fratelli di secondo letto. Questo almeno era il diktat della madre a cui Guglielmo e sua moglie non avevano alcuna intenzione di sottostare. La richiesta era così pressante che un giorno Bernarda venne aggredita verbalmente dai fratelli, che rivendicavano inesistenti pretese sull’abitazione. Fu l’esplosione di antichi rancori, un misto di rabbia verso una sorella che era stata sempre considerata di rango inferiore, di invidia verso chi era riuscita a garantirsi una tranquillità economica con le proprie forze, di frustrazione del debole che di fronte ai propri fallimenti non sa trovare rimedio migliore che prendersela con gli altri. Una miscela esplosiva alimentata da una matrigna che non aveva accolto con amore una bambina sconvolta dalla prematura perdita della mamma, dall’indifferenza, se non dalla paura, di un padre che avrebbe dovuto proteggerla, perché più debole. Per poco Bernarda non venne picchiata dai fratellastri, se la cavò con grida e insulti. Non c’erano ferite visibili da rimargi-

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nare, bensì quelle profonde che le squarciavano l’anima, proprio perché arrivavano da chi avrebbe dovuto provare sentimenti fraterni.

A seguito di questo episodio, Bernarda cambiò: il suo equilibrio psicofisico aveva subito una alterazione. Lei aveva una tempra forte, non si ammalava mai, però in quel periodo accadde che venisse attaccata da una banale tonsillite. Quando Bernarda cercava un po’ di conforto tra le braccia di Guglielmo, forse dentro di lei qualcosa si era già rotto, il suo organismo non funzionava bene come prima. Una sera d’inverno, mentre i coniugi stavano godendo il caldo del nuovo impianto di riscaldamento che aveva sostituito il camino e le stufe, la vita di Guglielmo, Bernarda e delle loro figlie, cambiò per sempre. La donna ebbe un attacco di tosse che all’inizio venne valutato come un semplice malanno di stagione, quando poi si accompagnò a dolori e difficoltà respiratorie, si resero necessarie analisi più approfondite. Guglielmo passò a prendere i risultati e, senza troppe preoccupazioni, li portò al medico di famiglia. Il dottore conosceva bene la coppia, non riusciva proprio a trovare le parole, cercò di essere rassicurante, fino a quando dovette confessare che era necessario un controllo istologico al polmone. Guglielmo sentì come una mano infilarsi dentro il suo stomaco e stringerlo forte; era andato nello studio medico convinto di uscire con buone notizie, ma le parole che aveva appena sentito non promettevano nulla di buono. Lì per lì le interpretò come la necessità di un controllo più scrupoloso, pensò che sarebbe andato tutto bene. La mano aveva allentato un poco la presa, ma continuava a stringere, la gola era secca, le gambe deboli; la breve strada che separava lo studio da casa gli parve interminabile. A ogni passo si faceva avanti una nuova paura, lo tormentava un nuovo dubbio. Proprio adesso che le cose si erano messe per il meglio, che

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i tanti sacrifici avevano cominciato a dare i loro frutti, che la famiglia si era allargata, che aveva addirittura ripreso gli studi, lasciati quando mancava solo il traguardo della laurea, adesso che era il momento per tirare il fiato, arrivava questo fulmine a ciel sereno. Si sentiva come il viandante esposto al miraggio in un deserto, dopo un estenuante cammino, convinto di aver raggiunto l’oasi, solo in mezzo alle dune, niente acqua né l’ombra delle palme, solo una minacciosa tempesta di sabbia all’orizzonte. Si fermò sulla porta di casa, non trovava il coraggio di entrare, di incrociare gli occhi della compagna della sua vita, aveva timore che lei potesse leggere tutti i dubbi che lo avevano assalito. Quando si trovò faccia a faccia con Bernarda, non furono le parole a rivelare quello che l’uomo aveva da dire. Non poterono far altro che piangere insieme, abbracciati, mentre ognuno cercava di trasmettere all’altro quella forza che non possedeva, ma di cui non avrebbe mai confessato la mancanza. “Andrà tutto bene”, “è solo un controllo in più”, “vedrai ci rideremo sopra”, continuavano a ripetersi come una magica formula scaccia guai. Ma dentro di loro erano ben altre le frasi che risuonavano.

I coniugi vissero i giorni successivi al ritiro degli esami con grande compostezza, raramente toccavano l’argomento; alle bambine, le chiamavano ancora così sebbene Consuelo avesse sedici anni e le fattezze di una donna, non avevano detto nulla. Al terremoto familiare se ne accompagnò un altro, le profezie di Guglielmo sulla stabilità della casa ebbero una conferma alcuni mesi dopo. Un forte sisma colpì la zona, molte costruzioni riportarono seri danni, ci furono alcuni feriti, ma la casa di famiglia non subì alcun movimento, restò saldamente ancorata al terreno. Guglielmo andò al laboratorio con la promessa di non leggere i risultati, sarebbero andati insieme a portarli al dottore. Quando i tre furono nello studio, l’attesa fu come quella che si respira in corte di assise, un giudizio che contempla la pena di morte.

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Una corte senza giuria, qualcun altro aveva scritto il verdetto molto tempo prima. Un verdetto senza possibilità di appello: quei fogli parlavano chiaro, le prove erano state ripetute, Bernarda aveva un tumore al polmone sinistro. Una diagnosi dura da digerire anche perché lei, e nessun altro in casa, fumava. Guglielmo si diceva convinto che dopo l’aggressione subita dai fratellastri, Bernarda aveva scaricato le tensioni sul suo organismo perché era abituata a tenersi tutto dentro, a non manifestare i suoi patimenti. L’uomo ripeteva che la prima cellula malata le era partita dal polmone dopo quella lite, con la complicità della tonsillite. La malattia era già in uno stato avanzato, il tumore era grosso come un melone, segno che le covava dentro da tempo.

Su consiglio del medico e di alcuni amici, Bernarda cominciò le terapie di contrasto all’ospedale Forlanini di Roma, una grande struttura inaugurata ai tempi del fascismo, destinata alla cura della tubercolosi che all’epoca falcidiava i romani. La terribile malattia veniva trattata con il riposo e la cura in ambienti verdeggianti, perciò ancora adesso il nosocomio, che non aveva più la vecchia specializzazione, era un complesso circondato da ettari di alberi ad alto fusto. Ogni viaggio nel quartiere di Monteverde, dove sorgeva il decadente edificio, era un viaggio della speranza, vissuto tra aspettative e delusioni. In casa si parlava sempre meno, per evitare che potesse sfuggire quello che non poteva essere confessato. Consuelo e Serena, all’oscuro di tutto, avevano sentito parlare solo di generiche cure per una infezione polmonare. Bernarda affrontava ogni nuovo giorno rivelando una tenacia incredibile, nonostante avesse spesso degli scatti di rabbia che non aveva mai espresso prima. Era più nervosa del solito, gli unici momenti di conforto erano quelli che trovava pregando. I trattamenti a cui la donna si sottoponeva facevano intravedere

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tenui segnali di speranza, il corpo reagiva positivamente, una piccola luce in fondo al tunnel. Erano passati pochi mesi, Bernarda non aveva manifestato particolari problemi, venne ricoverata al Forlanini per affrontare una serie di esami che consigliavano la degenza in ospedale.

La domenica Guglielmo, con il negozio chiuso, poteva andare a trovare la moglie e passare del tempo con lei. A dispetto delle previsioni, Bernarda era tonica, sostenuta anche da un certo buon umore; i due passeggiavano tra i viali alberati del vecchio ospedale dei tubercolosi, senza che la donna mostrasse alcun problema respiratorio. Pensavano al futuro, erano entrambi fiduciosi che un giorno avrebbero parlato al passato di questa brutta storia. Ogni tanto un leggero colpo di tosse li riportava alla gravità del male che affliggeva Bernarda e all’ombra della tragedia che avrebbe potuto travolgere ognuno e ogni cosa. Si salutarono nel tardo pomeriggio, sapendo che di lì a poco lei sarebbe tornata a casa.

La vita ad Arce proseguiva apparentemente senza sconvolgimenti, se non per una diversa organizzazione delle faccende domestiche e i turni nella cartolibreria. Consuelo, sempre più chiusa e silenziosa, studiava e si occupava di sostituire la mamma, Serena era troppo piccola per avere coscienza del dramma che la circondava. La ragazzina passava spesso il tempo con zii e cugini che le facevano sentire meno la mancanza della mamma. Guglielmo cercava in ogni modo di stare vicino alla moglie, un giovedì mattina le fece una sorpresa: andò a trovarla lasciando per la prima volta Consuelo al negozio. Quando si vide davanti il marito, Bernarda lo rimproverò, perché riteneva la figlia ancora troppo piccola per badare alla cartolibreria.

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Entrando nella stanza l’uomo aveva trovato la donna attaccata a una flebo di cui ignorava il contenuto. Erano passate circa due ore dall’inizio del trattamento, quando Bernarda cominciò a lamentarsi vistosamente, non riusciva più a tollerare i forti dolori provocati dalla medicina. Dopo il primo flacone i dolori erano diventati atroci; Guglielmo chiamò la caposala per chiederle di fare qualcosa, ma la donna rispose che quella era la cura e che doveva resistere, perché sarebbe andata avanti ancora per alcune ore. Specificò che si trattava di una terapia espettorante per una bronchite alveolare, serviva per portarle fuori il muco. La risposta non convinse la coppia, che aveva sospettato fin da subito si trattasse di un trattamento chemioterapico, anche in ragione dei forti dolori. Guglielmo si alzava continuamente a svuotare la padella che la povera donna riempiva frequentemente. Dopo circa sei ore attaccata alla flebo, Bernarda cominciò a piangere per le fitte provocate dal trattamento. Quando le staccarono l’ago erano passate nove ore, la donna era esausta e riuscì a malapena a fare un cenno di saluto al marito prima di crollare, tanto che a lui, più che addormentata, parve svenuta.

Quando la domenica successiva, il giorno di ferragosto, Guglielmo e le due figlie la andarono a riprendere, Bernarda era completamente cambiata. Appena una settimana dopo la giornata passata insieme, Bernarda non era più capace di camminare, aveva grosse difficoltà a respirare, aveva subito un improvviso tracollo. Nel viaggio di ritorno Guglielmo era profondamente turbato, aveva davanti a sé l’immagine della serie di flaconi che, uno dopo l’altro, venivano portati via vuoti per far posto ad altre dosi. Si convinse che non fosse una terapia alveolare, quelle flebo erano del tutto simili a quelle che venivano usate per la chemioterapia, capì che avevano somministrato alla moglie una cura di più di una settimana, concentrata in meno di dieci ore.

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Due giorni dopo, quel tarlo su un intervento invasivo prese ulteriormente forma. Il cognato, di ritorno da una visita all’ospedale, gli rivelò uno strano particolare. Il fratello di Bernarda, non sapendo che la sorella era stata dimessa, si era recato a trovarla e, con grande sorpresa, aveva trovato l’intero reparto vuoto. Non c’erano i pazienti, gli infermieri, i dottori, non c’era nessuno. Per Guglielmo quella fu la conferma che la terapia con dosi da cavallo fosse dettata da esigenze non esclusivamente sanitarie, che quella strana accelerazione derivasse dalla necessità di liberare al più presto un reparto destinato al trasloco. Ad avvalorare questa ipotesi, riaffiorò il ricordo di un colloquio con il medico del Forlanini che gli aveva parlato del ciclo di chemioterapie a cui doveva sottoporsi Bernarda; Guglielmo aveva provato a chiedere di spostarlo dopo l’imminente ferragosto, ma aveva ricevuto un netto rifiuto. “Perché tanta fretta?”, si domandava continuamente Guglielmo, “e perché tanti flaconi tutti insieme?”. Domande che non poteva condividere con Bernarda, come non poteva rivelare i pensieri proibiti, quelli di cui si vergognava, per i quali provava disagio solo perché li aveva concepiti. La sua vita era sconvolta, aveva la consapevolezza che sarebbe potuta cambiare per sempre, si sentiva in prima linea, impegnato in un conflitto interiore in cui erano saltate tutte le convenzioni, tutti gli accordi. Come in in una guerra dove qualcuno sparasse sulla Croce Rossa, usasse gas mortali, torturasse i prigionieri. A Guglielmo capitava ogni tanto di pensare a uno scambio immaginario, in cui la malattia della moglie venisse barattata con una delle figlie, come fosse un mutuo, un debito da saldare, un impegno da onorare. La guarigione di Bernarda in cambio della malattia per Consuelo o Serena. “Una figlia”, pensava, “la puoi sempre rifare, ma una moglie come Bernarda no”. E più voleva allontanare da sé un pensiero così orrendo, più questo si riaffacciava, se ne vergognava profondamente, ma non riusciva a controllare queste elucubrazioni. La famiglia riteneva le cure del Forlanini non adatte, se non addirittura dannose.

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Alcuni amici consigliarono una visita in un centro di Lione, specializzato nella ricerca sul cancro, famoso in tutto il mondo. Oltretutto, nella seconda città della Francia, vivevano alcuni conoscenti che avrebbero potuto ospitare la donna. La partenza e il riaccendersi delle speranze avevano fatto desistere i coniugi dal richiedere alla direzione del Forlanini la cartella clinica per avere conferma dei sospetti sulla cura esagerata. Sarebbero partiti in treno, approfittando di quegli ultimi giorni di agosto in cui il negozio poteva restare chiuso; Guglielmo sarebbe tornato ad Arce per l’imminente riapertura delle scuole e della cartolibreria, poi sarebbe andato a riprenderla. I coniugi non avevano mai avuto occasione di viaggiare, anche il viaggio di nozze restò una promessa non mantenuta, prima i problemi economici, poi l’impegno con il negozio, infine l’arrivo delle bambine avevano impedito qualsiasi partenza. Adesso che dovevano andare in Francia non certo per piacere, provarono a distrarsi dalla terribile situazione, documentandosi sulla città. Una sera Guglielmo tornò a casa con una guida e lessero insieme un po’ di notizie su Lyon. “La città era stata fondata dai romani”, leggeva l’uomo ad alta voce, “come testimonia il teatro romano ancora in stato di ottima conservazione; nel medioevo era in predicato per diventare la capitale della Francia. Lione era stata un importante centro del cristianesimo, sede di diversi conclavi, il più famoso fu quello seguito alla morte di Papa Clemente V. I grandi elettori non riuscivano a trovare il suo successore e la sede papale restò vacante per circa due anni. Il re francese Filippo il bello chiamò i 23 cardinali, li fece rinchiudere nella basilica di Saint Jean e li murò dentro, con la promessa che vi sarebbero rimasti fino a quando non avessero eletto il Papa. Poco tempo dopo, si insediò sul soglio di Pietro il controverso Papa Giovanni XXll”. Per lui, che aveva studiato storia e letteratura francese, fu una specie di tuffo nel passato e l’occasione per trascorrere qualche ora con la moglie in maniera diversa dal solito. La coppia aveva desiderato spesso viaggi all’estero, adesso si trovavano a farne uno per necessità, senza poter gustare i piaceri delle visite ai monumenti e delle curiosità tipiche di un altro paese. Guglielmo

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continuava a leggere di quella città multiforme, dai molteplici stili architettonici, ma ormai leggeva a bassa voce perché Bernarda era crollata in un sonno profondo. Di lì a poco si addormentò anche lui e quella notte sognò lunghe passeggiate tra i vicoli della città e riposanti soste ai bistrot, insieme alla sua adorata Bernarda.

Il treno li portò in perfetto orario alla stazione di Lione, dove incontrarono la coppia che li avrebbe ospitati. Giusto il tempo di passare a casa loro per posare i bagagli e disfare la valigia, per poi recarsi all’ospedale “Leon Berard”, un polo di avanguardia. Bernarda venne visitata subito e le venne prescritta una serie di accertamenti. Guglielmo parlava benissimo francese e rimase colpito dal modo in cui gli infermieri si rivolgevano ai pazienti con gentilezza e con calma; furono entrambi stupiti da come i medici, tra i quali c’erano molti italiani, fossero sempre pronti ad ascoltare con attenzione ogni richiesta e a darle seguito. Quando venne il momento di salutarsi, Guglielmo e Bernarda non riuscirono a trattenere le lacrime. La prima volta che non avevano dormito insieme era stato alla nascita di Serena, poi per il ricovero di Bernarda al Forlanini. Ma un conto era stato lasciarsi a Sora o a Roma, distante poco più di un’ora da Arce, un conto era sapere che li avrebbero separati oltre mille chilometri e alcune settimane di tempo. Bernarda, rimasta sola in un paese che non conosceva, poteva contare solo sulla disponibilità dei coniugi che la avevano accolta e sulla cortesia del personale dell’ospedale. Si sentì persa come non si era mai sentita nella sua vita, nemmeno quando in famiglia aveva dovuto fare i conti con l’ostilità della matrigna, quando aveva dovuto giustificare il padre troppo succube di quella donna, quando aveva dovuto fronteggiare l’indifferenza dei fratelli. Si sentì sola di fronte a un destino che in qualsiasi momento avrebbe potuto strapparla alla sua famiglia, alle confidenze di

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Consuelo, alla complicità di Guglielmo, all’amore complicato di Serena. Tutto intorno a sé era bianco, ovattato, con grandi spazi, un po’ come poteva immaginare l’aldilà, un luogo che temeva di dover raggiungere presto. Guglielmo riprese il treno portando con sé solo una piccola borsa, ma il carico che si sentiva addosso era il più pesante che avesse mai dovuto sopportare. Passò ore e ore incollato al finestrino, nel buio dello scompartimento, mentre gli altri passeggeri sprofondavano nel sonno, nonostante il rumore delle rotaie, i rigidi sedili cigolanti e qualche impiegato che irrompeva, accendendo all’improvviso la luce per controllare i biglietti. Quel lungo viaggio a occhi aperti fu l’occasione per vedere il film della sua vita, come se il grande finestrino fosse uno schermo sul quale scorrevano non già campagne, palazzi e stazioni, ma i fotogrammi dei suoi primi quaranta anni, con le speranze e le delusioni, le gioie e i momenti brutti. C’era tanto di tutto. La parte più difficile arrivò quando dovette immaginare il finale. Una versione bellissima vedeva loro quattro viaggiare per l’Europa, con una lunga sosta in Francia, un lieto fine dove la mamma aveva finalmente trovato la cura adatta che la aveva portata via dal male e le figlie felici per quella inaspettata gita. Poi c’era il finale che più temeva, in cui sarebbe rimasto da solo a crescere una adolescente e una bambina orfane della mamma, un epilogo in cui difficilmente avrebbe sostituito la donna con la quale aveva raggiunto una grande intesa e con la quale aveva gioito e sofferto. Immaginare quel brutto epilogo lo aiutava a prepararsi ad affrontare quel momento, lo faceva sentire in pace con la sua coscienza, facendogli trovare la forza di andare avanti, anche se la donna che gli era stata vicino per venti anni lo avrebbe lasciato.

Dopo le analisi, a Bernarda venne prescritto un ciclo di che-

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mioterapia, attraverso un metodo meno invasivo del precedente. Invece di subire la somministrazione attraverso il sangue, e quindi in tutto il corpo, le venne applicato un bypass che arrivava direttamente sulla parte malata del polmone. La donna teneva informato Guglielmo di ogni novità e lui, a sua volta, parlava con parenti e amici. Lo spostamento a Lione aveva reso necessario dire a Consuelo qualcosa in più sulla malattia della madre, anche se non in tutta la sua gravità. Il metodo applicato in Francia stava funzionando, il tumore era sceso dal linfonodo; con il passare dei giorni Bernarda si era ripresa, camminava bene, era tornata autonoma, la speranza si era riaccesa. Finito il ciclo di chemio, le analisi mostrarono che il tumore era regredito, anche se non era sparito; la donna fu dimessa, in attesa di essere sottoposta a una nuova serie di trattamenti.

Guglielmo partì da Arce con la figlia più piccola, che affrontò con entusiasmo quel viaggio che la portava all’estero per la prima volta. Roma, la grande stazione Termini, il treno internazionale, il via vai di gente come non le era mai capitato di vedere, poi i paesaggi che si mostravano sotto i suoi occhi, abituati solo ai piccoli paesi della Ciociaria. Quando rividero la mamma si abbracciarono a lungo, felici di trovarla in buono stato, molto meglio di quando la avevano vista l’ultima volta. Finito il primo ciclo di cure, al momento delle dimissioni, approfittando del suo francese fluente, Guglielmo andò dal dottore per avere ogni informazione utile. “Sua moglie che mestiere faceva?”, gli domandò l’uomo dal faccione sorridente in camice bianco, “forse il minatore... ha i polmoni bruciati proprio come quelli di un minatore”. Guglielmo restò stupito, poi collegò l’episodio del Forlanini e dentro di sé ebbe la conferma che quel sovra dosaggio aveva bruciato i polmoni di Bernarda; lo scoprì a malincuore, mentre il medico gli andava fornendo delle spiegazioni circa la differenza

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tra una malattia che attacca una parte del polmone e i polmoni bruciati. Il medico terminò la sua diagnosi dicendo che con i polmoni in quello stato, le cure non sarebbero bastate, sarebbe stato necessario un trapianto di polmone.

Nonostante la gravità del male i coniugi non persero la speranza. Il viaggio di ritorno in treno fu meno triste del previsto, quella insolita formazione a tre, senza Consuelo rimasta a casa per non perdere la scuola, diede maggiore complicità al gruppo. Erano passati pochi giorni dal ritorno ad Arce, quando Bernarda ebbe una crisi come non le era mai accaduto prima e svenne sul pavimento della cucina. Consuelo corse a chiamare i vicini di casa, mentre Serena rimase vicino alla madre incosciente. Il marito della vicina raccolse la donna da terra e la portò sul divano, quando ormai non c’era più nulla da fare. Bernarda aveva avuto una difficoltà respiratoria che le aveva causato la partenza di un embolo. Nello stesso momento Guglielmo si trovava dal medico per ritirare alcuni certificati, quando il dottore si affacciò alla porta scuro in volto, capì che doveva correre a casa prima ancora di sentir dire che Bernarda si era sentita male. L’uomo immaginava una situazione grave, ma non certo di trovarsi di fronte al corpo senza vita della moglie. Scoppiò a piangere abbracciato alle figlie che non smettevano di singhiozzare, ancora sconvolte per lo shock subito.

L’agonia di Bernarda era durata sei mesi, se ne era andata all’improvviso il 17 novembre 1999, il giorno dopo Serena avrebbe compiuto sei anni. La bambina aspettava da tempo il suo compleanno e invece la mattina del giorno prima aveva visto la madre svenire. Alla sera, alcune cugine di Guglielmo presero Serena e la portaro-

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no a casa della zia per organizzarle una festicciola con altri bambini. Quando tornò a casa, la bambina continuava a chiedere al padre di un quadro raffigurante la crocefissione di Cristo che avevano in casa. La mamma era morta con gli occhi aperti, come in quell’immagine, e adesso Serena aveva paura di quel dipinto che riproduceva la stessa scena. Guglielmo tentò di mascherare la realtà, come fanno i grandi con i bambini, con delle scuse banali. “La mamma aveva gli occhi aperti perché ti stava guardando”, le disse. Poi andò a togliere il quadro, un poco per allontanare colui al quale erano state rivolte tante preghiere inascoltate e un poco per sottrarlo alla vista della figlia. Nessuno mai avrebbe potuto togliere a Serena l’immagine della madre con gli occhi aperti sul pavimento della cucina, che non rispondeva quando lei continuava a chiamarla.

Guglielmo si trovava solo con due figlie da crescere, in una casa e una vita alle spalle che gli parlavano solo della moglie che non c’era più. Pensava che se quell’attacco le fosse venuto pochi giorni prima, li avrebbe potuti sorprendere in treno nel viaggio di ritorno, che il dramma per Serena sarebbe stato ancora più grande. Pensava a Consuelo, legatissima alla mamma, che si sarebbe trovata a vivere i suoi sedici anni, e quelli a venire, senza la sua amica preferita. A chi avrebbe confidato le prime cotte o le inevitabili delusioni d’amore? Non certo a lui. Guglielmo conosceva bene le difficoltà di un figlio, lui che a quell’età aveva dovuto affrontare la separazione dei genitori. In linea con il suo carattere, Consuelo aveva continuato a tenere tutto dentro di sé, non aveva mai esternato dolore o debolezza, sembrava quasi non fosse stata colpita da quella perdita. Ma era così solo in apparenza.

Dopo la morte della mamma, Serena continuò a frequentare regolarmente la prima elementare alla scuola di Col Felice, la stessa dove

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insegnava il padre. Lei aveva subito un trauma minore di quello della sorella perché il legame con la madre non era molto forte; già pochi mesi dopo la scomparsa, la bambina non ricordava il volto della madre, come lo avesse cancellato, e così fu negli anni successivi. Serena non faceva mai domande sulla madre, e smise anche di chiedere di quegli occhi aperti che, immobili, continuavano a fissarla.

Guglielmo avvertiva il rischio che Consuelo potesse sentirsi isolata, cercava di comportarsi con le figlie nel modo più equilibrato possibile. Per festeggiare la comunione di Serena, scelse lo stesso ristorante dove erano andati per quella di Consuelo, non aveva un gesto in più per la piccola che non avesse anche per la sorella grande. Nonostante le attenzioni ai comportamenti esteriori, Guglielmo non poteva non prendere atto delle diversità che nascevano nel profondo di ognuno di loro. Il forte legame di Consuelo con la madre era insostituibile, la complicità e la evidente predisposizione di Serena verso il padre erano insopprimibili. Non c’era atteggiamento che potesse cambiare i caratteri e i sentimenti di quella famiglia alla quale era venuta a mancare una parte fondamentale.

Appena Consuelo ottenne l’abilitazione all’insegnamento, Guglielmo le consigliò di trasferirsi al Nord, dove sarebbe stato più facile trovare delle supplenze, mentre nei dintorni di Arce sarebbe stato uno stillicidio di piccole sostituzioni, senza alcuna prospettiva di stabilità. Oltretutto, la presenza di una zia a Como rendeva meno problematico il trasferimento. Consuelo, pur non manifestando alcun fastidio, prese questa esortazione come una imposizione, al pari di quella che anni prima le aveva impedito di frequentare il liceo artistico.

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Con il passare degli anni, si fece strada in lei la convinzione che quella decisione fosse stata suggerita non per facilitarle il lavoro, ma per allontanarla da casa. Vedeva il forte legame tra il padre e la sorella ed era diventata un poco gelosa di lei, si immaginava come una specie di intrusa, una persona sopportata dai suoi familiari.

Serena, nonostante la perdita della madre, cresceva con un buon equilibrio. Come nella tradizione di famiglia, si era iscritta all’istituto psicopedagogico di Sora; appena superata l’adolescenza, aveva avuto le prime esperienze con i ragazzetti, senza complessi o particolari problemi. Il tratto distintivo del suo carattere era una grande attenzione per gli altri, l’impegno per il sociale, sia che si trattasse di qualcuno finito nella spirale della droga, sia che fossero anziani bisognosi di aiuto. Il suo spirito caritatevole si esprimeva al massimo verso gli animali, in particolare i cani abbandonati. Si era iscritta alla sezione di Sora di Anpana, una associazione in difesa degli animali, era capace di grandi rinunce pur di aiutare un cucciolo. La ragazza era molto parsimoniosa, le sue entrate erano quelle che le arrivavano dai regali dei parenti più stretti; lei annotava diligentemente su un quaderno le somme ricevute accanto al nome del donatore, “Nonno”, “Gaetano”, “Consuelo”, “Papà”, “Zio Antonio”. Con grande fatica e privazioni, era riuscita a mettere da parte cinquantamila lire; un giorno, mentre andava a comprare una camicia di cui si era innamorata, incrociò lungo la strada un piccolo cane randagio, malandato e, probabilmente, malato. La ragazza non ebbe alcuna esitazione: lasciata la strada per il negozio, prese quella bestiolina e la portò al veterinario. Alla fine, pagata la visita, non si ritrovò un nuovo capo da esibire, ma uno scodinzolante bastardino. Dislocava le simpatiche bestiole tra parenti e amici, quando

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non ci riusciva c’era sempre Guglielmo pronto ad accogliere le richieste della figlia, come nel caso di un meticcio, raccolto con le zampette anteriori fratturate: solito viaggio dal veterinario e costosi gambaletti a sostenere l’animale. Purtroppo i sostegni stavano facendo marcire gli arti del povero cane, rischiando di farli finire in cancrena, per fortuna anche i veterinari hanno un cuore e il cucciolo venne curato gratuitamente in una clinica per animali nel vicino paese di Posta Fibreno. Per far tornare saltellante la bestiola ci volle un intervento chirurgico con tanto di viti speciali e la convalescenza a casa di Guglielmo. Serena si alzava almeno tre volte ogni notte per i bisogni del cagnolino, alla fine il quattro zampe venne adottato definitivamente tra le mura domestiche. Serena aveva avuto tre fidanzati ufficiali: Manolo, Toni e Angelo. Storielle, fino a quando non aveva conosciuto un ragazzo di un paese vicino, Strangolagalli; si erano frequentati, poi il loro rapporto si era trasformato in un legame che andava avanti da più di due anni. Così era agli occhi degli amici, mentre a casa Michele Fioretti non era mai stato presentato ufficialmente. “Pa’”, diceva a Guglielmo, che pur sapeva di quel fidanzato, “te lo porto a casa quando mi sento sicura”. Michele aveva sei anni più di lei, ma caratterialmente, nessuna differenza traspariva a vederli insieme, tanto era sicura e matura Serena. Qualche volta diceva al padre che andava dalla cugina Luana, invece si fermava a dormire nella mansarda a casa del fidanzato a Strangolagalli.

L’impegno animalista di Serena non conosceva soste, nemmeno nei giorni di festa, come quel Capodanno che segnava il passaggio del Millennio, quando insieme al fidanzato, vestiti di tutto punto, andavano in auto a festeggiare con gli amici. Il clima festoso e le attese per quel passaggio epocale si dissolsero di fronte alla vista di una cagna maremmana con i suoi cuccioli vicini al ciglio della strada.

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Faceva freddo ed erano evidenti i segni della malnutrizione. Le mammelle della madre, ormai secche, erano prese d’assalto da quelle palle di cotone che non trovavano più latte. La ragazza non ci pensò su e caricò in macchina tutta la famigliola. Il mattino seguente, insieme al nuovo anno, il padre trovò un biglietto che lo avvertiva di un nuovo arrivato, scese in giardino convinto di trovare un cagnolino, ma vide davanti a sé un animale che, se si alzava sulle zampe, era molto più alto di lui. A dispetto della mole, la bianca maremmana era dolcissima, con gli occhi invocanti amore e protezione. Appena i cuccioli si furono rimessi in sesto, Serena cominciò a collocarli tra gli amici che assicuravano di seguirli scrupolosamente; il primo andò proprio a Michele, mentre la mamma restò a casa con lei. Quando scoprirono che la cagna aveva un tumore alle mammelle, la fecero operare in una clinica per animali di Valmontone. Lì tutti conoscevano quella ragazza minuta, ma mettere insieme le centocinquantamila lire per l’operazione non fu affatto semplice.

Consuelo continuava la sua vita a Como, da anni aveva smesso di dipingere, come se la morte della madre si fosse portata dietro anche la sua creatività; fosse dipeso da lei, avrebbe anche cancellato quello che aveva fatto in passato. Solo grazie a Guglielmo le tele che erano in casa non vennero distrutte dall’autrice o dalla muffa del garage: lui le incartò una ad una in attesa che, in periodi più sereni, Consuelo avesse acconsentito ad appenderle di nuovo in casa.

Bernarda era morta da dodici anni, ogni venerdì Guglielmo la andava a trovare al cimitero di Rocca d’Arce, arrampicato sul cucuzzolo di una montagna da cui si domina la vallata. L’uomo si era ritrovato a crescere le due figlie non senza difficoltà, però si sentiva a posto con la coscienza per essere riuscito a indirizzare la

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più grande verso il lavoro e la più piccola verso l’indipendenza e la sicurezza. Serena aveva elaborato il lutto più facilmente di quanto non avesse fatto sua sorella: aveva una relazione stabile, frequentava con buoni risultati la scuola, suonava il clarinetto nella banda musicale del paese, aveva una grande passione per gli animali e molti amici. Aveva un debole per merendine e pizzette, ma non tollerava il latte; due volte a settimana frequentava la scuola nuoto ad Arce. L’unica cosa che la infastidiva veramente era una forma di dermatite purulenta alle gambe che cercava di contrastare con qualsiasi tipo di trattamento. Come ogni ragazza della sua età, aveva delle amiche del cuore, le sue si chiamavano Francesca e Valentina, a loro confidava tutto, anzi, quasi tutto. Come spesso accade, c’erano delle cose che, per vergogna o per evitare di essere giudicata, restavano in quella stanza dell’anima che ognuno ha. A Francesca non aveva mai detto di aver provato a fare qualche tiro da una canna che le avevano passato fuori da un pub. Il suo carattere gioviale e alla mano la portava a frequentare persone di diversa estrazione, tra le quali non mancava qualcuno dai comportamenti equivoci. Nella zona di Arce e nel suo circondario, l’uso e lo spaccio di droga era frequente. Droghe leggere, come hashish o marjuana, accanto a droghe pesanti, eroina e cocaina. Dopo quella volta in cui la studentessa aveva provato l’ebbrezza della canna, ne aveva limitato l’uso a rarissime occasioni. Nel suo giro di amicizie, nella comitiva di cui faceva parte, non mancavano personaggi poco raccomandabili. Alcune delle persone che frequentava erano dedite all’uso quotidiano di droghe pesanti, altre erano in cura presso il Sert, il centro pubblico di recupero di Sora, tra loro anche quelli che spacciavano. Per i piccoli pusher locali era facile sconfinare nella vicina Campania per rifornirsi di materia prima, che i Casalesi maneggiavano in gran quantità. Ogni tanto un’auto andava nella zona di Mondragone e tornava con il suo carico di polvere bianca che prometteva paradisi artificiali e portava a vivere una vita d’inferno.

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Serena aveva sempre combattuto la diffusione delle droghe, che avevano provocato diversi morti tra i giovani della zona e non lo teneva per sé. Durante la festa patronale, il 28 maggio del 2001, mentre era con la sua amica Francesca, vide passare un gruppo di amici: c’erano Domenico, Davide, Vittorio, Simone e Marco Mottola, il figlio del comandante dei carabinieri del paese. “Questi non si regolano”, commentò con l’amica, “faranno una brutta fine. Approfittano dell’amicizia con il figlio del maresciallo per fare quello che vogliono”. Francesca, come aveva fatto spesso in passato quando avevano affrontato l’argomento, diede ragione alla sua amica.

Un giorno, durante il pranzo, si era sfogata anche con il padre, aveva parlato di un brutto giro sul quale chi avrebbe dovuto indagare aveva chiuso entrambi gli occhi: “Ma questo che vuole da noi, che c’ha il figlio che spaccia e si droga?”. Guglielmo aveva preso sottogamba la determinazione della figlia, si era limitato a ridimensionarne l’affermazione, dimenticando che la ragazza non era tipo da assistere passivamente a una ingiustizia, a sopportare che venissero messe in pericolo le vite di tanti giovani. “Sere’, ma lascia stare, sii superiore”. L’uomo non aveva capito che la figlia aveva in mente di denunciare, che non avrebbe continuato a far finta di niente. Per Serena ogni occasione era buona per risparmiare: a maggio non acquistò l’abbonamento per la corriera, per raggiungere la scuola faceva l’autostop, un’abitudine che non le avevea mai procurato pericoli, a volte veniva caricata in auto da persone che l’avevano presa in precedenza, lei non andava mai con chi non conosceva. Salire sull’auto di qualcuno era un gesto normale, di routine, un gesto che, di lì a poco, le avrebbe portato tristi conseguenze.

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Quel mercoledì ad Arce c’era la festa di Sant’Eleuterio, il santo patrono. La sera Michele non era andato, anche se a Serena avrebbe fatto piacere avere a fianco il bel fidanzato. Il giorno precedente Serena lo aveva chiamato numerose volte, ma senza ricevere risposte; aveva usato il telefono di casa, perché il suo cellulare non funzionava. Nei due anni di fidanzamento erano capitati piccoli litigi o incomprensioni, a cui seguivano periodi di freddezza, ma i due si erano sempre ritrovati, come nulla fosse accaduto. In verità Serena aveva dimostrato qualche segno di stanchezza e quella volta ebbe la sensazione che forse qualcosa si stava rompendo definitivamente. Lo volle dire al padre: “Ma ti pare che Michele sparisce, mi sa che stavolta chiudo con lui!”. Il giorno dopo il ragazzo saltò il lavoro. Serena avrebbe voluto farsi accompagnare all’ospedale di Isola Liri, per una radiografia dentale panoramica, poi sarebbe dovuta andare a scuola a preparare la copertina di una tesina, e nel primo pomeriggio sarebbero dovuti andare insieme dal dentista, dal quale avevano entrambi un appuntamento. Le telefonate di Serena a Michele non ebbero risposta e il programma cambiò. La sera la ragazza crollò sul divano, davanti al televisore acceso; il papà la aiutò a mettersi a letto ancora mezza addormentata.

Il venerdì successivo, il primo di giugno, Serena si alzò, indossò i pantaloni neri modello pinocchietto tagliati sotto il ginocchio, la canottierina rossa con i fiorellini, un paio di scarponcini neri,

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legò in vita il maglioncino verde a strisce bianche e arancioni con la zip, mise a tracolla la solita borsetta marrone con le frange di perline, prese un libro su Van Gogh e la tesina a cui stava lavorando in vista dell’esame di maturità, dal titolo “La macchina e il progresso”, e uscì di casa. Era la preparazione della copertina della tesi che la avrebbe portata a scuola, prima però sarebbe dovuta passare all’ospedale di Isola Liri per l’ortopanoramica. Raggiunta la fermata di fronte alle scuole di Arce, salì sul pullman, dove incontrò alcune amiche che andavano a Sora: Federica e le sorelle Elena e Francesca, con loro scambiò qualche parola. Arrivata a destinazione, la diciottenne salutò le ragazze, dicendo che si sarebbero riviste più tardi al liceo sociopsicopedagogico. Scese alla fermata vicino al Circolo dei fiori e, come da programma, in perfetto orario arrivò al reparto radiologia dell’ospedale. Enzina, la radiologa, invitò Serena a togliersi i piccoli orecchini, prima di sottoporsi all’esame; quando ebbe terminato, la donna disse alla ragazza di non poterle consegnare il referto, perché mancava il medico che doveva firmarlo, perciò sarebbe dovuta ripassare a prenderlo più tardi. Lei aveva bisogno di quel referto, perché doveva portarlo al dentista nel pomeriggio; ripassare a prenderlo le cambiava ogni programma. E non poteva immaginare che le avrebbe cambiato la vita. Erano circa le nove e trenta del mattino quando la studentessa andò in via Napoli; vicino alla rotonda incontrò Gino, suo compaesano e amico della comitiva dei giardinetti, si salutarono con un cenno e nulla più. Serena, invece di andare a prendere la corriera che la avrebbe portata a Sora, prese la direzione opposta e si mise a fare l’autostop verso Arce. Dall’altro lato del marciapiede, alla fermata del bus, c’era Gabriele, un suo compagno di scuola. “Gabriele, che ci fai qui?”, chiese dopo averlo invitato ad attraversare la strada.

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“Sto andando a scuola”. “A quest’ora vai a scuola?”. “Sì, entro un po’ più tardi”, rispose Gabriele allontanandosi per non perdere l’autobus. Il compagno di scuola non le domandò perché lei stesse chiedendo un passaggio, né dove fosse diretta o quali fossero i suoi programmi. Inspiegabilmente, al contrario di quanto aveva detto al padre, la ragazza aveva cambiato programma, lei che non tornava mai su una decisione presa, aveva scelto di non andare a scuola per concludere la tesina. Ci aveva ripensato o era accaduto qualcosa che le aveva fatto cambiare idea? Di sicuro la ragazza non tornò ad Arce. Il venerdì era giorno di mercato ed era un piacere per lei girare tra le bancarelle dove era conosciuta da tutti. La ragazza non passò nemmeno di lì né andò al negozio del padre che si affacciava sulla piazza del mercato.

Guglielmo era all’oscuro dei movimenti della figlia, credeva di trovarla a casa alla chiusura del negozio. Verso l’ora di pranzo l’uomo rincasò e trovò le stanze vuote; immaginò che Serena, come era capitato altre volte, si fosse mangiata un pezzo di pizza per poi andare direttamente dal dentista. Non si preoccupò più di tanto di non essere stato avvertito, perché sapeva che in quei giorni il cellulare della figlia aveva dei problemi.

Come ogni venerdì pomeriggio, come tutte le settimane da dodici anni a quella parte, Guglielmo aveva un triste appuntamento: andava al cimitero a portare i fiori sulla tomba della moglie. Spesso lo accompagnava suo padre Gaetano, che desiderava compiere lo stesso rito con la sua consorte. Si ritrovavano padre e figlio per quel gesto che era insieme un

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omaggio alle loro congiunte, un esercizio che li pacificava con la loro coscienza, una visita che li metteva in contatto con qualcosa che trascendeva dal quotidiano, dai piccoli problemi di tutti i giorni, una occasione per parlare e raccontarsi di quella vita che, a dispetto delle statistiche, li aveva visti sopravvivere alle rispettive compagne. Portare i fiori era il modo per mantenere freschezza in quel loculo, ma anche un sistema per raccontare a Bernarda quello che era successo nella settimana, darle notizie delle figlie, dirle dell’andamento del negozio che lei tanto aveva contribuito a tirare su, una maniera per chiedere consigli di fronte ai tanti dilemmi della vita. Se solo Guglielmo avesse sospettato ciò che in quel preciso istante stava accadendo a Serena, avrebbe implorato la madre di fare qualcosa, le avrebbe chiesto un intervento di qualunque autorità dell’aldilà per fermare gli eventi. Guglielmo era all’oscuro di tutto, sistemò i fiori davanti ai loculi delle due donne e, come sempre, salutò Bernarda con un bacio sulla fotografia, pulendola amorevolmente con il fazzoletto per accertarsi di non averla sporcata con la saliva. Dopo aver accompagnato Gaetano, Guglielmo rientrò a casa, per vedere una corsa ciclistica, in cui il suo idolo Pantani era impegnato a scalare ripide strade di montagna. Mentre ancora si rammaricava per il mancato successo del ciclista, l’uomo ricevette una strana telefonata: dall’altro capo del filo c’era Michele. I due si conoscevano, ma non avevano mai parlato, se si escludevano il “buongiorno” e il “buonasera”. Con grande stupore, il padre venne a sapere che Serena alle 14.30 non era dal dentista. E non c’era nemmeno quando Michele aveva finito la sua visita: Serena dal dentista non era proprio andata. Guglielmo, che conosceva le intenzioni della figlia di non voler più vedere Michele, di avere l’intenzione di lasciarlo, suppose che lei avesse spostato l’appuntamento, perciò non si preoccupò più di tanto, convinto che alla sera, come sempre da diciotto anni, la avrebbe ritrovata a casa. Entrò nella stanza della figlia, si soffermò a guardare alcune foto di lei ancora piccolissima, con tutte le lentiggini che le coprivano il naso e le gote, a cavallo di un bianco destriero sulle giostre,

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in un costume medievale di colore turchese, con una coroncina dorata e il pizzo bianco. Ricordò momenti di tenerezza che Serena gli aveva regalato, quando le cantava delle canzoncine o le raccontava delle favole per farla addormentare, e lei che tirava dolcemente i capelli; ricordò le sue prime parole, dette in modo approssimativo, i momenti difficili che avevano superato insieme. Pensò a quanto fosse fortunato nel veder crescere così sorridente e posata la figlia, pensò a quante soddisfazioni ancora gli avrebbe riservato. Poi il maestro andò ad aprire il negozio quasi svogliatamente, in attesa dei pochi clienti che, con le scuole chiuse, si sarebbero potuti affacciare. Durante quel pomeriggio tranquillo, Guglielmo parlò spesso con la signora che gestiva il negozio di fotografia a fianco al suo. La donna era anche una agente di assicurazioni e l’uomo si informò sullo stato di una polizza richiesta alcuni giorni prima. La 128 di famiglia aveva ormai i suoi anni e la settimana precedente Guglielmo era andato con Serena a cercare una nuova auto. Quell’Alfa Romeo spider grigia metallizzata era subito piaciuta alla ragazza che già si immaginava al volante e aveva detto al padre di comprarla. La signora aveva confermato che l’assicurazione era arrivata e, siccome anche il finanziamento era stato sbloccato, Guglielmo progettò per il lunedì successivo il ritiro della nuova auto. Ovviamente avrebbe chiesto a Serena di accompagnarlo. Ogni tanto Michele telefonava per avere notizie della fidanzata, dato che il cellulare della ragazza risultava sempre spento. “Scusi, si è vista Serena?”, chiedeva, e dopo l’immancabile risposta negativa salutava e riattaccava. Guglielmo, innervosito da tanta insistenza, non poté trattenersi dal chiedergli perché il giorno precedente non avesse risposto al telefono alla figlia. “Avevo un forte mal di denti”, si giustificò Michele. Una risposta che Guglielmo giudicò inspiegabile, soprattutto quando seppe dal ragazzo che, nel tentativo di incrociare la sua

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fidanzata, aveva fatto in bicicletta i dieci chilometri che separano Strangolagalli da Arce. Aveva chiesto di lei a ogni persona che conosceva, a cominciare da Fabio, un tossicodipendente incrociato davanti alla caserma dei carabinieri. Michele però non aveva visto Serena né raccolto sue informazioni ed era tornato a casa pedalando. A volte le brutte notizie sono annunciate, lanciano dei segnali, sono lo sviluppo di situazioni che vanno avanti da tempo, che prendono lentamente una brutta piega e si avviano verso un tragico epilogo. I protagonisti hanno la possibilità di correggere o di provare a cambiare il corso degli eventi, di impedire che il finale arrivi in tutta la sua drammaticità. Poi ci sono le cattive notizie che colpiscono all’improvviso, non lanciano segnali premonitori, nessuno si aspetta che arrivino. Ma questo non è sufficiente a impedire che accadano.

Poco dopo le otto di sera, sotto una pioggia battente, Guglielmo rientrò a casa e, solo allora, venne assalito dai più cupi pensieri. Serena non c’era, nessuno dei vicini l’aveva vista per tutto il giorno. La ragazza non era mai rimasta fuori casa senza avvertire, la preoccupazione cominciò a crescere e dalla preoccupazione all’ansia il passo fu breve. Ancor più breve fu quello dall’ansia all’angoscia, alla disperazione: Guglielmo fu attraversato da uno strano tremore, provò un senso di impotenza, immaginò scenari catastrofici, la gola era secca come il fondo di un pozzo prosciugato da secoli. Chiamò sua sorella Armida a Como, le diede la notizia pregandola di tenerla per sé, Consuelo non doveva saperlo. Mario, il cognato, si incaricò di chiamare tutti gli ospedali della zona, mentre Guglielmo montò in macchina, dirigendosi subito verso Sora, perché era lì che sarebbe dovuta andare la figlia e non c’era alcun motivo per immaginare che la figlia fosse tornata sui suoi

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passi. Negli ospedali della zona, fino a Cassino, nessuno aveva ricoverato una ragazza. Guglielmo percorse tutte le strade nel raggio di trenta chilometri, non notò nulla di anomalo; allertò gli amici Pasquale e Mario, poi decise di andare dai carabinieri per denunciare la scomparsa. Michele chiamò di nuovo, Guglielmo lo informò che stava per andare in caserma e il ragazzo insistette per accompagnarlo. Passò un’interminabile mezz’ora prima che Michele arrivasse a casa di Serena, con Guglielmo che non riusciva a spiegarsi perché ci mettesse tanto tempo, il doppio di quello che avrebbe impiegato guidando piano. A quell’ora, la stazione era chiusa da un pezzo, ma al suono del campanello si presentò il maresciallo Franco Mottola, originario di Teano, storico centro della Campania. Di notte, normalmente, è la caserma di Pontecorvo, che funge da guardia notturna, a rispondere alle chiamate. Una anomalia che lasciò perplesso Guglielmo, anche se in quel momento aveva ben altro a cui pensare. Il carabiniere era in borghese, riconobbe subito il maestro dei suoi figli alle elementari, Guglielmo alla femmina aveva anche dato ripetizioni di francese, erano amici. Mottola conosceva Serena, la vedeva ogni volta che si presentava alle spaghettate organizzate in caserma da suo figlio Marco. I ragazzi avevano frequentato le scuole medie insieme, poi lui era andato al chimico ad Arpino e Serena a Sora; forse tra i due c’era stato anche del tenero. Franco raccolse la denuncia e cercò di tranquillizzare il padre, sempre più preoccupato, assicurandogli che avrebbe subito avvertito i carabinieri dei paesi vicini. Con gli amici Michele e Antonio, con il fratello di Guglielmo, appena arrivato da Cassino con un amico, venne organizzata un’altra battuta, vennero perlustrati boschi e sentieri della zona. Michele e suo padre Luigi andarono a casa del preside del liceo di Sora, Celso Costantini, temendo che la ragazza, avendo avuto un malore, potesse essere rimasta chiusa dentro. Perlustrarono ogni angolo della scuola, dagli scantinati alle soffitte, ma di Serena non c’era traccia. Guglielmo temeva che la figlia potesse essere rimasta vittima di

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qualche maniaco ed essere stata abbandonata nella fitta boscaglia che circonda Arce. Tanto per non scartare nessuna pista e pur non avendo alcuna avvisaglia in tal senso, venne presa in considerazione l’ipotesi che Serena potesse aver fatto un gesto estremo; i ricercatori perlustrarono la diga del fiume, nel territorio di Fontana Liri, poi batterono l’area intorno al ponte della località Anitrella, senza trovare un solo indizio. Le strade erano deserte, buie, attraversate dai fari delle auto del gruppo che stava cercando la diciottenne scomparsa da meno di venti ore. Il padre cercava sollievo valutando altre ipotesi sull’assenza della figlia, dal fatto che potesse essere rimasta fuori casa con qualche amico o aver deciso di non rientrare per qualche motivo personale, dato che era maggiorenne.

Michele era impegnato a cercare la fidanzata, assalito dal rimorso dei giorni passati in cui aveva litigato con lei, pensava che se le fosse stato più vicino forse adesso non si sarebbe trovato nella disperazione. A tratti parlava da solo, in un dialogo ideale con Serena, un atteggiamento che Guglielmo notò e che rafforzò le sue convinzioni circa la stranezza di quel tipo: sembrava che stesse dando i numeri, si convinse che aveva ragione la figlia a volerlo lasciare. Le ricerche non diedero alcun risultato. Lo zio Antonio, nonostante fosse notte, non esitò a telefonare ad alcune compagne di scuola per avere notizie di come era vestita Serena. Ricevette qualche conferma da chi la aveva vista prendere la corriera per Sora il mattino precedente, ottenne la descrizione degli indumenti.

Quando la parte più lunga della notte era già trascorsa, Guglielmo rientrò a casa in preda allo sconforto e trovò una strana sorpresa: ad aspettarlo davanti casa non c’era la figlia, come durante

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quelle interminabili ore aveva pregato che avvenisse, ma il maresciallo Mottola. Frastornato dall’insolita apparizione, non trovò irrealistica la richiesta dell’uomo di entrare in casa e perquisire la stanza di Serena, alla ricerca di elementi utili. Tutte le denunce di scomparsa non vengono approfondite dalle forze dell’ordine nelle prime ore; la stragrande maggioranza dei casi si risolvono nell’arco delle ventiquattro ore. Questo caso, invece, venne trattato dal maresciallo con inconsueta solerzia. Come se, per un banale danneggiamento di una insegna, intervenisse la polizia scientifica, oppure per una denuncia di furto d’auto fossero istituiti posti di blocco. Il turbine dei pensieri era così forte nella testa di Guglielmo e il suo sconvolgimento così grande, che l’uomo non trovò nulla da ridire quando il maresciallo uscì di casa portando con sé alcuni oggetti di Serena, quaderni, diari, libri, dicendo che lo avrebbero aiutato nelle indagini. Il padre non trovò nemmeno strano che non gli fosse sottoposto alcun verbale di sequestro o che non fosse invitato a firmarlo in un secondo tempo. Il maresciallo Franco Mottola si dimostrò inspiegabilmente esagerato e noncurante delle regole, c’erano tante stranezze nel suo comportamento, ma cosa non era sembrato strano a Guglielmo in quella notte?

Il sole si affacciò sulle montagne dominanti la valle del Liri e sul primo giorno di assenza da casa di Serena. Guglielmo, da solo o accompagnato da chiunque gli dava disponibilità, non aveva smesso di cercare la figlia. Verso le undici rincasò, sperando in qualche buona notizia, sfamò gli animali tanto cari alla ragazza; si mise a fissare con insistenza il telefono, pregando dentro di sé di sentire uno squillo, ma il suo desiderio restò frustrato. Lo afferrò quasi con rabbia e fece il numero di sua sorella, raccontandole della inutilità delle ricerche e pregandola di non dire nulla a Consuelo che, a causa di una leggera depressione, ne sarebbe rimasta sconvolta.

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L’uomo non aveva chiuso occhio tutta la notte, ma non avvertiva alcun segno di stanchezza; la voglia di trovare Serena lo spingeva ad andare avanti. Si sentiva come una nave impazzita, che si muove senza una rotta precisa o un porto dove arrivare, sapeva che non poteva fermarsi, doveva cercare, cercare, cercare.

Le battute erano riprese in grande stile, in paese le voci erano corse veloci come il vento che sferzava le case. Il giorno della festa della Repubblica in molti decisero di mettersi a cercare la figlia del maestro, la ragazzina che suonava nella banda del paese. Guglielmo, nel suo frenetico cercare, incontrò di nuovo Michele che vagava da solo, parlando a un interlocutore immaginario. “Serena... la madre... cimitero… Serena...”, ripeteva come un vecchio disco incantato. Quelle parole sconnesse e quell’inconsueto atteggiamento fecero insospettire Guglielmo, la sua schiena venne attraversata da un brivido. Anche alcuni amici avevano avuto la stessa sensazione, tutti pensarono a Michele come all’autore di un gesto inconsulto, colui che poi aveva abbandonato la fidanzata vicino al cimitero. Poteva averla picchiata, violentata, ammazzata? Ognuno andò con la memoria a recentissimi fatti di cronaca in cui gli assassini erano persone vicine alle vittime, ripensarono all’orrendo delitto di Novi Ligure dove i minorenni Erika e Omar non avevano avuto pietà della madre e del fratellino di lei di soli undici anni; a quello di poche settimane prima a Bologna, quando il convivente della sorella aveva violentato e ucciso la piccola Sara Jay, di soli nove anni. Cominciarono tutti, compreso Michele, ignaro di essere entrato nella pericolosa categoria dei sospettati, a cercare dentro e fuori il cimitero. La ricerca non fu facile, a causa dell’erba alta, l’area fu battuta palmo a palmo, senza che ci fossero tracce della diciottenne. Michele venne giudicato da tutti in preda a un delirio.

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Era ormai il pomeriggio di sabato quando, in uno dei tanti passaggi per Sora, Guglielmo notò una gazzella dei carabinieri, si precipitò verso di loro che rimasero stupiti alla vista di quel signore stravolto che si parava davanti. Come se stesse parlando a chi non poteva non conoscere l’argomento, chiese agli agenti se avevano notizie di Serena. La loro risposta lo lasciò basito, non sapevano che una ragazza del vicino paese di Arce, vista per l’ultima volta il giorno prima a pochi chilometri da lì, fosse appena scomparsa. Guglielmo non ci capì niente, non riusciva a trovare una logica alla incredibile perquisizione notturna e alla mancanza di allarme alle caserme dei carabinieri da parte dell’apparentemente solerte maresciallo Mottola. Non si fermò a pensare oltre, troppe domande erano senza risposta, a cominciare da quella su dove fosse sua figlia. Guglielmo, suo malgrado, fu costretto a fermarsi a Sora, per presentare la stessa denuncia che la notte prima aveva fatto ad Arce. Un amico di famiglia stigmatizzò il comportamento del comandante della caserma di Arce; l’uomo, appassionato di cronaca nera, ricordava come in un caso famoso, quello della scomparsa della minorenne e cittadina vaticana Emanuela Orlandi, avvenuto sempre nel mese di giugno ma di diciotto anni prima, il poliziotto che aveva ricevuto a mezzanotte la denuncia, abbia risposto al padre della ragazzina: “Ci dorma su, domani Emanuela tornerà sicuramente, sarà stata una ragazzata. Ma voi sapete quanti minorenni scompaiono d’estate?”.

Appena Guglielmo incrociò Franco Mottola, gli chiese spiegazioni su quello che era successo a Sora, il maresciallo lo liquidò frettolosamente, dicendo di aver avvisato persino l’Interpol. A Guglielmo venne spontaneo interrogarsi sul perché la polizia internazionale sì e i carabinieri di Sora no, ma evitò di polemizzare con l’uomo per non togliere nemmeno un attimo alla ricerca della figlia.

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Serena era da qualche parte e doveva trovarla a tutti i costi. La denuncia della sua scomparsa era stata diramata, nel pomeriggio anche un elicottero militare, attivato dai carabinieri di Pontecorvo, perlustrò la zona soffermandosi nelle aree intorno alla via Casilina, senza notare nulla di insolito. Alcuni amici avevano preparato un volantino con la foto di Serena, un numero di telefono per le segnalazioni e ne avevano fatto centinaia di copie. Erano in tanti ad aiutare il padre nelle ricerche, la faccia di Serena era affissa ai pali della luce e dentro i bar di Arce, Isola Liri, Sora, Pontecorvo, Ceprano. A sera, il fisico di Gugliemo dette qualche segno di cedimento, non si era mai fermato, fosse dipeso da lui avrebbe continuato a cercare; furono gli amici a costringerlo a restare a casa di uno di loro, per mettere qualcosa sotto i denti e provare a riposare. Dormire in quella situazione non sarebbe stato possibile, ma restare sdraiato su un divano, anche per pochi minuti, gli avrebbe permesso di ricaricarsi un po’. Nonostante fossero trentadue ore che non toccava cibo, Guglielmo non riuscì a mangiare quasi nulla, non sentiva gli stimoli del corpo: né fame, sete o sonno, produceva adrenalina in dosi massicce e l’idea che alla figlia fosse successo qualcosa di brutto lo faceva impazzire.

Il maresciallo Mottola fu avvertito di alcuni avvistamenti che indicavano Serena, nel primo pomeriggio del venerdì, al bar della Valle, nella località Chioppetelle, Chiupparelle per gli abitanti del luogo, e andò a verificare di persona, portando con sé una fotografia a colori della studentessa, molto più nitida delle fotocopie che circolavano in quelle ore. Il bar era diventato il luogo di ritrovo di quanti si erano spontaneamente aggregati alle ricerche della giovane. Simonetta, una dipendente, ricordava che il giorno prima Serena era passata di lì, era con tre ragazzi su una Lancia Y, ricordava anche che avevano comprato un pacchetto di Marlboro light, le si-

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garette fumate dalla diciottenne. Ma il dubbio che potesse trattarsi di uno scambio di persona era forte, c’erano almeno altre due frequentatrici della zona, le giovani Katia e Sabrina, che avevano una certa somiglianza con la ragazza scomparsa e, oltretutto, vestivano in modo simile a lei. Dello stesso tenore fu la testimonianza di un carrozziere di Arce, Carmine Belli, che era convinto di aver visto Serena, il giorno della scomparsa intorno alle nove e trenta del mattino, discutere con un ragazzo dai capelli corti, biondi, che la stava strattonando per un braccio. Belli, che si trovava a passare di lì sull’auto guidata da Pierpaolo Tomaselli, un suo collega, descrisse la scena, aggiungendo che aveva visto la ragazza piangere. Tomaselli non vide nulla perché l’automobile era già dietro una curva da cui non era possibile scorgere la piazzola del bar. Il maresciallo confermò ai presenti che Serena indossava pantaloni e scarponcini neri e una maglietta a fiori, poi aggiunse che gli avevano riferito che era stata vista salire su una macchina rossa. Tante voci, segnalazioni più o meno incerte, somiglianze, ma nessuna certezza. Le ricerche nella zona erano state condotte in ogni direzione, non c’erano altri posti in cui cercare, era di nuovo scesa la notte ad Arce e nei dintorni, il caldo del giorno aveva lasciato il posto a una timida frescura. Come al solito, il sabato sera le strade dei paesi si erano riempite di persone, di capannelli di giovani, i bar affollati di clienti che consumavano gelati e sorseggiavano bevande fresche. Tra la gente della zona c’era un nuovo argomento di cui parlare: di quella ragazza che qualcuno conosceva, che qualcun altro aveva intravisto, che era sparita senza lasciare traccia. Guglielmo aveva lasciato gli amici, che avrebbero voluto continuare le ricerche insieme a lui, ma ormai non c’erano luoghi in cui non fossero passati e il buio aveva avvolto ogni cosa. Il maestro tornò a casa con la debole speranza di vedere la fine del suo incubo, immaginò la figlia sul divano davanti alla televisione, come due sere prima, che gli gettava le braccia al collo e gli confessava di aver fatto un colpo di testa e di essersi pentita. Immaginava e si sbagliava: a casa trovò solo le cose che gli parla-

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vano di lei, ma non la sua voce; gli oggetti che maneggiava erano immobili al loro posto. Entrò nella stanza di Serena che era vuota, come era vuota d’un colpo la vita di un padre al quale era stato sottratto il bene più grande. Le poche ore passate sul letto, schiantato dalla stanchezza, furono agitate, popolate da mostri di ogni genere. Furono ore in cui si alternavano ricordi di momenti dolorosi e situazioni piacevoli, dove anche i ricordi più belli si trasformavano in episodi orrendi, per la terribile paura di non riuscire a viverli mai più.

Domenica, di buon mattino, Guglielmo pensò agli animali di casa, voleva che al suo ritorno la figlia li trovasse in buono stato; poco dopo arrivarono le prime telefonate degli amici e dei parenti, per avere notizie di Serena. Poi, accompagnato da un amico, scese in paese.

Alle ricerche si erano aggiunti gli uomini della protezione civile, verso mezzogiorno un gruppo di loro stava battendo la zona boscosa a ridosso della via Casilina, a cui si accedeva attraverso un piccolo sentiero sterrato vicino al bar della Valle. Erano in cinque, sparpagliati a raggiera, ognuno controllava a fondo una area circoscritta, a causa della pioggia del venerdì il terreno era fangoso. La sera prima i carabinieri avevano perlustrato la zona, erano arrivati in una piazzola piena di elettrodomestici abbandonati, non avevano notato nulla di strano in quell’area circondata da alberi. Tony, un volontario, si spinse a perlustrare l’area dei rifiuti, davanti a lui c’era un cassone metallico, uno dei tanti oggetti abbandonati nel corso del tempo da mani incivili. Fu allora che venne attratto da un paio di pantaloncini neri e da una maglietta colorata. Fece due passi verso il cassone, riuscì a vedere meglio quello che spuntava tra la vegetazione: si trattava, inequivocabilmente, di un corpo.

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Si trovava in posizione supina, era coperto nella parte superiore da alcuni rami conficcati nel terreno e da foglie, in un tentativo maldestro di occultarlo alla vista di occhi indiscreti. I pantaloncini, la maglietta e il maglioncino corrispondevano a quelli indicati nella segnalazione di scomparsa. Tony non ebbe più dubbi, era la ragazza che stavano cercando, il luogo era a pochi metri in linea d’aria dal bar della Valle dove alcuni testimoni giuravano di aver visto Serena venerdì primo giugno. Si sporse ancora avanti, senza superare una barriera immaginaria che il pudore e la paura avevano alzato davanti a lui, non riuscì a vedere la testa, poi capì che c’era un sacchetto di plastica, di quelli che si usano per la spesa, avvolto intorno al capo. Paralizzato a pochi passi dal corpo, appena avuta la certezza che fosse proprio la studentessa, l’uomo si fermò qualche istante, poi, sconvolto e preoccupato, tornò sui suoi passi per avvertire i compagni. Quelli che seguirono furono momenti concitati: Vittorio, il caposquadra, provvide a transennare la zona che di lì a poco si sarebbe riempita di persone; Stefania, una volontaria, chiamò i carabinieri. I primi ad arrivare furono quelli della caserma di Fontana Liri, seguiti dai colleghi di Arce.

Guglielmo si trovava con un amico ad Arce, all’altezza del monumento, pochi metri prima della cartolibreria, gli si fece incontro una sorellastra di Bernarda, aveva gli occhi bagnati. Non riuscì a dire nulla, le parole restavano mute, prigioniere nella gola stretta dal pianto. A Guglielmo per poco non venne un infarto, capì che c’era qualcosa in un bosco, una notizia che è sinonimo di tragedia, di fine delle ricerche nella maniera in cui, aveva pregato mille volte in quelle ore, non dovesse avvenire. Pregò ancora dentro di sé che non si trattasse della figlia, che fosse, per quanto improbabile, solo una coincidenza, che si trattasse di un altro malcapitato, di chiunque altro, ma non di Serena.

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Era mezzogiorno e mezza, con l’auto dell’amico avevano percorso pochi chilometri della statale che porta verso Isola Liri, costeggiato il lungo muro di cinta della fabbrica Index, superato il sentiero che porta al fiume; alla curva successiva, si trovarono di fronte un assembramento, tanta gente, macchine, la strada bloccata. Sulla sinistra, nel bosco di Fontecupa, frazione di Anitrella, si apriva un tratturo con una fila di erba bassa al centro, testimonianza di un passaggio di auto non infrequente, che finiva in uno spiazzo erboso. Dalla piazzola partivano due piccoli sentieri, assaliti da una fitta vegetazione; quello di destra correva fino al fiume, usato dai pescatori della zona, quello di sinistra, meno frequentato, portava uno spiazzo che fungeva da discarica. Nessuna delle persone che incrociava aveva il coraggio di dire a Guglielmo cosa ci fosse in quel bosco, ma lui lo aveva letto chiaramente su tutti i loro volti. La folla, animata dal passaparola, si apriva lentamente al passaggio del padre, fino a quando un uomo in divisa lo fermò, pregandolo di non proseguire. Fu davanti a quel fine corsa che Guglielmo non resse più, in quell’istante capì che tutto era finito, che le sue preghiere non erano state accolte. Le gambe non lo reggevano più, crollò a terra in preda alla disperazione. Braccia pietose lo sorressero fino a farlo rimontare in macchina.

Era solo sul sedile del passeggero, solo in mezzo a centinaia di persone, si sentiva solo al mondo. Con le mani tra i capelli, accartocciato su se stesso, non smetteva di singhiozzare. Un dolore così forte non lo aveva provato nemmeno per Bernarda, complice la malattia, i mesi in cui si era inevitabilmente preparato. La scomparsa improvvisa della sua ragazza era qualcosa che non aveva mai immaginato di dover vivere. Guglielmo non aveva mai pensato di sopravvivere a un figlio, le rare volte che aveva im-

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maginato il futuro lo aveva visto popolato di nipoti con le sue due bambine che si occupavano di lui fino alla vecchiaia. L’uomo non aveva difese, né protezioni, si sentiva inerme. Mentre papà Guglielmo era da solo col suo dolore, la vita intorno procedeva con i ritmi tradizionali, dei curiosi che facevano domande, dei più solerti che dispensavano risposte, anche quando non ne avevano, dei carabinieri che tenevano lontana la gente.

In mezzo alle carcasse di televisori e frigoriferi, si muovevano gli uomini avvolti in involucri di plastica che effettuavano rilievi; il fotografo della scientifica operava come fosse su un set cinematografico, in mezzo a tanta confusione, dietro a un alto contenitore metallico, giaceva il corpo senza vita della povera Serena. Antonio, un cugino di Guglielmo che si trovava sul posto, uno dei primi ad arrivare, fu invitato dai carabinieri al riconoscimento ufficiale. Guglielmo aveva sempre saputo che fosse uno strano cugino, era convinto che per guadagnarsi da vivere facesse lavori oscuri. Antonio non conosceva bene Serena, perché aveva vissuto per molti anni fuori da Arce, nel paese di Roccasecca, ma il maresciallo Mottola aveva chiesto proprio a lui di effettuare il riconoscimento e il cugino non si era tirato indietro. Le mani e i piedi di Serena, dopo essere stati avvolti nello scotch che si usa per chiudere i pacchi, erano stati legati con del fil di ferro; sulla testa aveva un sacchetto di plastica del supermercato, chiuso anch’esso con il nastro da pacchi; all’apparenza non c’erano segni di violenza. Nel modo di condurre le operazioni a caldo, molti particolari non quadrarono a Guglielmo, come il fatto che invece dei carabinieri di Isola Liri, competenti per territorio, erano intervenuti quelli di Arce. Le auto degli uomini dell’Arma arrivavano ad alta velocità sul piazzale davanti al bosco, sgommando sul terreno umido. Nessuno si preoccupava delle tracce dei pneumatici che altre auto potevano aver lasciato, nessuno preservava, in un ragionevole raggio, la scena del crimine.

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Guglielmo era sceso dall’auto, avrebbe voluto avvicinarsi alla figlia, ma anche per lui l’area era off-limits; ogni tanto qualcuno si avvicinava per abbracciarlo, per provare a consolarlo, per esprimergli le condoglianze. Dalle parole a mezza bocca che gli venivano dette, carpì quale era lo stato della figlia, capì che qualcuno la aveva ammazzata. In quei terribili momenti giurò che non si sarebbe fatto sopraffare dalla disperazione, dall’impotenza, che avrebbe impiegato tutte le sue energie per scoprire la verità su quella morte. Lo giurò davanti al bosco, il bosco che custodiva il corpo di Serena.

Quando Guglielmo rientrò a casa dilaniato dal dolore, trovò la forza di telefonare alla sorella, dandole la terribile notizia, pregandola di dire a Consuelo un’altra bugia, che Serena aveva avuto un incidente e che la avevano ricoverata. Nella casa di Arce c’era nonno Gaetano; quando si trovarono l’uno di fronte all’altro, non fecero che abbracciarsi, sostenendosi a vicenda per non cadere. Non c’era bisogno di parole in quel dialogo di lacrime e singhiozzi. Fu un lungo abbraccio tra un padre che stringe un figlio che non potrà mai più abbracciare il suo.

Nel bosco, intorno alle due e mezza del pomeriggio, arrivò il medico legale, Antonella Conticelli, che si occupò di una ispezione sommaria del corpo. La dottoressa constatò che i polsi erano stati stretti con una certa maestria da un fil di ferro da chi era abituato a usare la mano destra, un altro pezzo dello stesso filo girava intorno a un arbusto. Anche le gambe erano avvolte in due punti nel fil di ferro, la seconda legatura sulle caviglie, appena sopra gli scarponcini che Serena indossava al momento della scomparsa.

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La dottoressa notò fin da subito che il nastro adesivo aveva pochissime pieghe e il fil di ferro era avvolto con precisione, segno che chi aveva confezionato quel povero corpo non aveva avuto fretta, oltre a dimostrare una certa perizia con questi strumenti. Il medico notò ancora che il corpo era tutto rigido, nonostante la calda giornata, la pelle era molto fredda, le macchie ipostatiche non sbiancavano se sottoposte alla pressione delle dita, sui vestiti c’erano già delle larve della lunghezza di circa due centimetri. Tutte informazioni preziose al fine di stabilire l’ora in cui Serena era stata assassinata. Dopo che tutti i rilievi furono completati, i fragili resti della giovane studentessa vennero portati nella camera mortuaria dell’ospedale di Sora, dove la dottoressa proseguì l’esame esterno, in attesa di procedere all’autopsia.

Il pomeriggio della domenica nella casa di Serena c’erano i parenti e gli amici, stretti attorno al papà. Alla sera arrivarono i carabinieri di Arce, non per porgere le condoglianze, bensì per portarlo in caserma, dove Guglielmo entrò verso le venti. Il maresciallo Franco Mottola condusse l’interrogatorio, incurante del dolore dell’uomo e delle due nottate in bianco, appena trascorse. Le domande erano sempre le stesse, ripetitive, ossessive, a cui Guglielmo rispondeva sempre nello stesso modo. A nulla valevano le suppliche di farlo tornare a casa, perché da un momento all’altro sarebbe rientrata Consuelo e non avrebbe trovato nessuno. Solo alle quattro del mattino si riaprì il portone della caserma e Guglielmo poté tornare a casa. Come sospettava, trovò Consuelo da sola e dovette dare fondo a tutte le sue forze per mentire. “Serena ha avuto un incidente”, ripeté una parte ripassata più volte, “sono tornato adesso dall’ospedale”. Consuelo sul momento credette alla versione del padre, aveva viaggiato tutto il giorno e non aveva incontrato nessuno in paese.

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“È grave? Quando posso vederla? Come è successo?”, chiese. “L’hanno operata alla testa, è una situazione complicata. Domani la andiamo a trovare assieme. È successo mentre era sull’auto di un amico, anche lui è grave”, inventò alla meglio il padre, sapendo che la sorella avrebbe potuto rivedere Serena solo morta. Cominciava ad albeggiare quando Guglielmo si alzò di nuovo dal letto, erano passate circa due ore; Consuelo non ci mise molto a svegliarsi, voleva andare in ospedale il prima possibile. Il genitore doveva affrontare una nuova prova, non poteva più tenere quel segreto straziante. “Guarda che Serena non c’è più”, confessò, evitando di darle il colpo più duro, “dopo l’incidente non ce l’ha fatta”. Consuelo pianse, piansero insieme i superstiti di quella famiglia che dopo aver seppellito la mamma doveva affrontare lo stesso dilaniante rituale con la sorella più piccola. Si sentivano soli padre e figlia, spaventati dall’assenza dei propri cari, in balia dei fantasmi delle loro piccole incomprensioni, vittime di sette anni di forzata lontananza.

Guglielmo andò incontro ai parenti e agli amici che per primi arrivarono a casa, avvisandoli che Consuelo non sapeva che la sorella era stata uccisa. Poi affidò a uno zio il triste compito di informarla. Costui rifletté sul modo meno traumatico per lei, ma non poteva fare a meno di considerare che se è vero che la morte è una livella, non è vero che tutte le morti sono uguali: alcuni dei modi in cui lasciamo il transito terreno sono più duri da digerire. Una morte violenta per mano di altri uomini non ha niente di naturale, di scontato, accade semplicemente perché nell’indole umana, negli aspetti più reconditi, si annidano comportamenti inspiegabili, comportamenti contro natura. Alla fine prese coraggio e disse la verità a Consuelo. Com’era nel suo carattere, la ragazza non manifestò platealmente il suo dolore, sembrava quasi catatonica. E tutto quello che non riusciva a tirare fuori, le bruciava dentro, come alcol su

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una ferita; il dolore era più acuto perché si sentiva in colpa per lo scarso affetto che aveva mostrato verso Serena, pur sapendo che nutriva per lei un forte sentimento. Le sorelle telefonavano ogni settimana per raccontarsi le loro confidenze, non c’era mese che Consuelo non inviasse un po’ di soldi a Serena.

Ad Arce, fin dalla domenica pomeriggio, ci fu un gran fermento di giornalisti. Ai corrispondenti che lavoravano sul posto, quelli delle testate locali, si aggiunsero gli inviati e le telecamere da tutta Italia, perché il caso aveva suscitato grande scalpore. Bruno Vespa allestì per la sera del lunedì una puntata di “Porta a Porta”; in studio c’erano il sindaco e il parroco del paese, mancava solo il plastico del bosco dell’Anitrella. Pochissime certezze e tanti dubbi, solo il parroco si avventurò nel campo delle ipotesi, affermando che Serena era morta per un giro di messe nere e riti satanici, nonostante non ci fossero elementi a supporto di questa tesi. Le indagini si presentarono subito complesse, partendo da un dubbio iniziale. Serena era stata uccisa altrove e portata nel bosco la notte tra il venerdì e il sabato? Oppure si era trattato di un omicidio consumatosi proprio lì? Furono ascoltate centinaia di persone, si trovarono i primi testimoni per provare a ricostruire le ultime ore di vita della ragazza, ancora avvolte dal mistero. Un omicidio richiede delle procedure che non tengono conto dei sentimenti né dei legami familiari. Quando Guglielmo fu informato che dovevano procedere con l’autopsia, ne rimase sconvolto, vide in quelle necessarie operazioni sul corpo di Serena una ulteriore violazione, uno scempio, necessario, ma pur sempre uno scempio. Lui voleva a tutti i costi la verità, lo aveva giurato nel bosco, trovare chi aveva potuto togliere la vita a una ragazza solare e altruista, incapace non solo di fare, ma di concepire il male. Decise di rivolgersi a un avvocato, Dario De Santis, attraverso il quale fece arrivare al tribunale la dichiarazione che, dopo aver

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lasciato il tempo necessario per gli accertamenti sul corpo della ragazza, dopo la sepoltura, la famiglia non avrebbe acconsentito alla riesumazione del cadavere. Non sapeva nemmeno se giuridicamente quella richiesta avesse valore, ma ci teneva a far sapere a chi conduceva le indagini, a chi stava per fare l’autopsia, aprendo, prelevando, chiudendo il corpo della figlia, che non avrebbe tollerato altre intrusioni. A Guglielmo era successo già dodici anni prima, quando dovette scegliere se richiedere l’autopsia sul corpo di Bernarda di fronte all’ipotesi di un errore sanitario dell’ospedale Forlanini. Allora si astenne anche dal richiedere la cartella clinica della moglie, che sarebbe stato il primo passo per aprire la strada agli accertamenti e all’autopsia. Allora come ora, scelse la via del rispetto dei poveri resti umani.

Tre giorni dopo il ritrovamento del corpo, la casa di Serena venne perquisita a fondo. Stavolta gli investigatori arrivarono nel pieno rispetto delle procedure, non come quella strana iniziativa del maresciallo Mottola, che aveva più il sapore dell’abuso che dell’attività investigativa. Da un cassetto nella stanza di Serena, sotto alcuni indumenti, c’era una bustina con una piccola quantità di hashish che nessuno aveva notato prima. Un fatto insolito per una ragazza che non aveva dimestichezza con le droghe, anche se considerate leggere, al massimo aveva fatto qualche tiro da una canna passata dagli amici. Quel ritrovamento rimase un fatto inspiegabile che aveva due motivazioni plausibili. La prima, che la studentessa, pulita e mai segnalata per attività illecite, conservasse quel pezzo di fumo per conto di qualcuno che glielo aveva affidato temendo di essere perquisito, perché già invischiato in storie di droga. Tra gli amici più recenti della ragazza c’era chi aveva avuto problemi con le forze dell’ordine e la giustizia per reati connessi allo spaccio.

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La seconda ipotesi che fecero gli inquirenti fu che quell’hashish fosse stato messo lì dopo la morte della ragazza per segnalare una pista investigativa, per indicare la direzione che avrebbero dovuto prendere le indagini. In ogni caso nessuno si disse convinto che Serena avesse comprato e custodito quel pezzetto di roba per suo uso personale, trasformandola da consumatrice occasionale ad abituale.

L’anatomopatologo che si occupò degli accertamenti all’ospedale di Sora terminò il suo lavoro ed espletò tutte le formalità; cinque giorni dopo il ritrovamento, il corpo della ragazza fu restituito alla famiglia e i funerali furono fissati per il giorno seguente, il sabato, alle quattro del pomeriggio. I primi risultati dell’autopsia stabilirono che Serena aveva ricevuto un colpo alla testa, all’altezza del sopracciglio sinistro, che le aveva provocato una piccola ferita di forma ovoidale causata da un oggetto non identificato; lo testimoniava una lieve ecchimosi e del sangue raggrumato, ma ancora di più da una piccola frattura dell’orbita e da una vasta emorragia che interessava una parte più ampia della testa. Il corpo contundente che aveva colpito la ragazza era probabilmente rigido, di forma piatta, non completamente liscio e di spessore contenuto. Con la mano destra l’assassino aveva impugnato un oggetto e aveva colpito al capo la studentessa in modo violento, facendole perdere i sensi a lungo, un colpo che non era stato sufficiente a ucciderla. A mettere la parola fine alla sua vita era stata l’indifferenza dell’assassino che, dopo averla colpita, non aveva scelto di salvarla. Sarebbe bastato portarla in ospedale, sottoporla a delle cure, per non farla morire. Invece chi l’aveva stordita era stato per ore vicino a lei senza muovere un dito, assistendo alla sua lenta agonia. Lo testimoniava la presenza di un massiccio edema polmonare e di uno cerebrale. La morte era giunta dopo che Serena era rimasta a lungo priva di sensi a causa di una manovra che le aveva impedito di respirare.

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Forse l’assassino aveva usato un asciugamano per bloccare il naso e la bocca, forse aveva esercitato una pressione sul collo, sicuramente non era stato il sacchetto di plastica sulla testa a soffocarla. Serena non aveva tentato alcuna difesa, era priva di sensi quando aveva esalato l’ultimo respiro. Chi aveva strappato alla vita una diciottenne non lo aveva fatto a seguito di un incidente, ma aveva colpito la vittima d’impeto, probabilmente senza una precisa volontà di uccidere. Poi, forse preso dalla paura, non aveva esitato a toglierle la vita. Il confezionamento del cadavere sembrava rispondere alle esigenze di trasporto e il sacchetto sulla testa sarebbe servito a evitare che l’auto usata per trasportarla si macchiasse col sangue della vittima. Il corpo era stato preparato in un altro luogo, lo testimoniava la totale assenza di terriccio o foglie sul nastro e il fil di ferro che stringeva la ragazza, mentre dei licheni, non presenti nel bosco del ritrovamento, erano sul maglioncino di Serena, come se qualcuno la avesse trascinata, portandosi dietro residui di muschio. Tenendo conto del temporale che si era abbattuto nella zona nella notte tra venerdì 1 e sabato 2 giugno, il trasporto nel bosco di Fontecupa sarebbe avvenuto successivamente, ad opera di almeno due persone. Lo rivelavano l’assenza di ristagni di acqua intorno al corpo e i calzini di spugna asciutti, nonostante che, a causa del terreno umido, fossero bagnati i pantaloncini, la maglietta e il maglioncino, ma in modo diverso per l’effetto dell’umidità di risalita. La ricostruzione più probabile fu quella che Serena fosse stata stordita dal colpo alla testa, fosse rimasta incosciente per parecchi minuti, forse delle ore, prima che l’assassino le impedisse di respirare. Poi, in una abitazione, un casolare, un locale che garantiva la pulizia e la tranquillità, il suo corpo era stato immobilizzato con nastro adesivo, fil di ferro e un sacchetto dell’Eurospin.

Una settimana dopo la scomparsa, il venerdì notte, tanta gente partecipò alla veglia di preghiera per la giovane nella chiesa di San

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Pietro e Paolo, al centro del paese. Guglielmo e Consuelo erano in prima fila, a dire alla loro congiunta tutto quello che non avevano avuto tempo di dirle, prima che se ne andasse. Avrebbero voluto restare tutta la notte, ma il giorno dopo ci sarebbero stati i funerali e avrebbero rischiato di non reggere alla stanchezza. Mario, il fratello di Bernarda, portò a Guglielmo un messaggio del maresciallo Mottola riguardo a qualcosa di utile alle indagini che si sarebbe potuto trovare nei cassetti della camera di Serena. L’uomo rimase di nuovo stupito dalla richiesta, ricordando quella strana perquisizione notturna, ma non aveva la lucidità necessaria per formulare ipotesi e tanto meno abbozzare risposte. Non erano la logica e la razionalità a guidare le sue azioni; dopo la morte di Serena non c’era stata più logica e razionalità, e non c’era quasi nient’altro. Appena tornato a casa, Guglielmo andò ad aprire un cassetto, già aperto ore prima da Mario, senza che quest’ultimo vi avesse trovato nulla di interessante, fece una incredibile scoperta: qualcuno aveva messo lì dentro il telefono della ragazza. Era tardi, lo aspettava la durissima giornata dei funerali, lasciò sul tavolo il cellulare che aveva trovato e crollò sul letto quasi svenuto. Il giorno dell’addio a Serena, Guglielmo e Consuelo si prepararono alla cerimonia con azioni meccaniche; avrebbero voluto svegliarsi dall’incubo, scappare lontano, non vivere quel momento. Continuarono a lavarsi, radersi, truccarsi, sistemare i capelli, cercare negli armadi i vestiti, mascherare il loro dolore dietro la semplicità dei gesti quotidiani. Tra loro non parlarono di altro che non fosse “ho preparato il caffè”, “hai visto il libro delle firme”, “alle tre passa qui la zia”. Non potevano toccare nessun altro argomento, ogni frase avrebbe potuto far esplodere il pianto, dovevano controllare ogni parola. Di lì a poco li raggiunse Mario e Guglielmo gli mostrò subito il telefonino di Serena, dicendogli che, come in un gioco di prestigio, il portatile era apparso nel cassetto della ragazza, un cassetto aperto da almeno altre due persone prima di lui, non era possibile non averlo notato prima, qualcuno doveva avercelo messo. L’accesso alla casa era semplice, la chiave era infilata nella por-

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ta, chi conosceva le abitudini di chi ci viveva, sapeva che i cani erano chiusi e non si sarebbero accorti di niente. Senza contare che l’assassino disponeva delle chiavi di casa, che non erano state più ritrovate, insieme alla borsa, i documenti, gli orecchini e l’orologio della ragazza. Guglielmo non riusciva a trovare una spiegazione di quell’apparizione, prese il telefonino, lo passò a una amica che era a casa, chiedendole di metterlo in una busta prima di affidarlo a Mario affinché lo portasse in caserma. Verso mezzogiorno il cognato Mario tornò, riferì a Guglielmo che doveva andare in caserma per firmare il verbale di ritrovamento del telefonino. “Per forza ci devo andare subito?”, rispose infastidito, “non potevano aspettare dopo il funerale?”. L’uomo pensò che si trattasse di semplice mancanza di attenzione, non sospettava che quella richiesta poteva nascondere ben altro. Padre e figlia uscirono di casa, arrivarono nella piazza dove le telecamere erano già schierate a immortalare i familiari per l’ultimo giallo che la cronaca proponeva alla curiosità, se non alla morbosità, del pubblico. La veglia intorno alla bara era andata avanti per tutta la notte e proseguiva in attesa della cerimonia funebre che sarebbe iniziata poche ore dopo, c’era tanta gente che voleva testimoniare la vicinanza alla ragazza, in silenzio, pensando, ricordando, pregando. Come in un quadro caravaggesco, il dolore era immortalato in una immagine in cui Guglielmo era seduto tra Consuelo e nonno Gaetano, mentre la zia Armida, in piedi alle sue spalle, abbracciava suo fratello. Non era trascorso molto tempo, quando entrarono due carabinieri in borghese, inviati dal maresciallo Mottola, che si avvicinarono al banco dove erano seduti i parenti di Serena e chiesero al padre della studentessa di seguirli in caserma. Guglielmo era interdetto, come in un esperimento di ipnosi, venne portato in trance fuori dalla chiesa, accompagnato dal brusio dei commenti dei presenti. La circostanza non sfuggì ai fotografi e ai cameramen, che lo

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seguirono fin dentro l’auto che aspettava il terzetto sul piazzale, davanti all’ingresso dell’edificio religioso. Sembrava una messa in scena studiata a tavolino, in modo che non potesse sfuggire a nessuno. Tra i giornalisti ci fu un gran fermento, il padre prelevato in chiesa, a poche ore dalla cerimonia, lo faceva diventare immediatamente uno dei sospettati. I corrispondenti dei principali telegiornali riportarono questa circostanza nei loro servizi. Guglielmo aveva i capelli lunghi, i vestiti vistosi, aveva il profilo giusto per diventare l’indiziato numero uno del delitto. Poco importava se, per tutto il tempo della scomparsa di Serena, lui aveva un alibi confermato da testimoni che nessuno aveva ascoltato. Nonostante fosse stato più volte interrogato, nessuno degli investigatori aveva sentito la necessità di verificare le circostanze ripetute e ripetute. Il maestro, ignaro dell’effetto che quella specie di fermo in chiesa aveva provocato tra la gente e sui media, era seduto nel corridoio della caserma, non aveva la forza per chiedere spiegazioni di quelle lunghe ore di attesa né, tanto meno, per protestare. Doveva solo firmare un verbale, una semplice formalità, ma le ore passate nel corridoio erano diventate troppe. Fuori le voci crescevano con il passare del tempo, si trasformavano in sospetti e questi diventavano indizi. Dopo tre ore in caserma, c’era chi si aspettava addirittura un fermo, un provvedimento, l’iscrizione nel registro degli indagati; c’era chi diceva che lo avessero messo sotto torchio, chi aggiungeva che avevano trovato delle prove, qualcuno aveva fatto trapelare la notizia dello strano ritrovamento del telefonino di Serena a casa di Guglielmo, forse una confessione sarebbe potuta arrivare da un momento all’altro. Dalle redazioni centrali arrivavano continuamente richieste sugli ultimi sviluppi della vicenda, i corrispondenti locali rispondevano di essere in attesa di importanti novità. I compaesani, sempre più spaesati, parlavano fra loro e parlottavano a mezza bocca con i giornalisti, si scambiavano ammiccamenti, impressioni, dubbi. “Che tipo era Guglielmo?”. “Che rapporto aveva con la figlia?”. “Vivevano soli?”.

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“È vero che fosse tremendamente geloso di lei?”. “Come mai l’altra figlia non viveva con loro?”. Gli ingredienti c’erano tutti, qualcuno aveva già immaginato il pezzo sul mostro di Arce, qualcun altro provava a interrogare la mitologia greca su Internet, alla ricerca di storie di padri che uccidono i figli. Trovarono Medea che uccide i figli, i figli, come Edipo, che uccidono i padri, stentavano a trovare un padre che uccide la figlia. Anche la cronaca non aiutava: i padri che uccidono i figli si rivolgono quasi sempre ai maschi. Facevano eccezione i casi di rifiuto di matrimoni combinati tra gli immigrati o di punizioni seguite all’adozione di costumi occidentali, in famiglie dominate dall’integralismo religioso.

Mancavano pochi minuti all’inizio della cerimonia, Guglielmo non era ancora tornato, i sacerdoti presenti e il vescovo della diocesi di Sora, che comprende anche Arce, decisero che non avrebbero iniziato fino al ritorno del padre, o almeno fino a quando non fossero arrivate notizie dalla caserma. Quando, alle quattro del pomeriggio, Guglielmo apparve sul piazzale, i reporter erano scatenati, qualcuno provò ad avvicinarlo, fotografi e operatori non volevano farsi sfuggire quelle che potevano essere le ultime immagini in libertà di un assassino. Quando entrò in chiesa, la trovò affollata e un vociare crescente accompagnò i suoi passi fino alla prima fila, tra il nonno Gaetano e Consuelo. “Ci eravamo preoccupati”, disse Consuelo. “Dopo vi racconto tutto, dopo vi racconto, dovevo solo firmare un verbale”, fece in tempo a rassicurare i suoi Guglielmo. Finalmente la cerimonia dell’ultimo saluto a Serena poteva avere inizio. Il vescovo che pronunciò l’omelia funebre chiese dal pulpito verità e giustizia, parole che, con tutta probabilità, stavano ascoltando l’assassino e i suoi complici. Il parroco non parlò, in molti non si dispiacquero di ciò, ancora bruciavano le sue affermazioni televisive a caldo, quasi fosse un depistaggio, su sette segrete e riti diabolici.

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Intorno alla candida bara che avvolgeva il corpo della studentessa c’erano decine di suoi amici con le magliette bianche, simbolo di purezza, di qualcosa di immacolato che il sangue raccolto intorno alla sua tempia non avrebbe potuto macchiare. I ragazzi si strinsero intorno al feretro per l’ultimo saluto, vi poggiarono sopra le loro mani e Serena uscì dalla chiesa accompagnata da un lunghissimo applauso sulle spalle di Claudio, Salvatore, Emiliano, Ramon Vittorio, Fabio e Marco, prima di essere caricata sul carro che l’avrebbe portata al cimitero. Un corteo di auto l’accompagnò a Rocca d’Arce, al vecchio castello di Federico II, trasformato in luogo di sepoltura. All’ingresso c’era una grossa tomba, sormontata da una scultura bronzea di un angelo che abbraccia una giovane donna sul letto di morte. Quella sepoltura rimandava alla storia di una sposa morta di parto insieme al suo bambino appena due mesi dopo la nascita di Serena. Il corteo funebre superò la scultura e si diresse verso la lunga fila di loculi sulla sinistra, davanti a tutti c’era la bara bianca che stava per trovare posto accanto alle donne della sua famiglia, la nonna paterna e la mamma. Lo spazio di Serena era sopra quello di Bernarda, a testimoniare, se non fossero bastate le date, la sequenza temporale dei decessi. Faceva impressione a tutti leggere che un solo giorno separava la nascita della figlia e la morte della madre. Consuelo e Guglielmo, in mezzo a centinaia di persone, erano lì a confidare frettolosamente le ultime cose che avevano da dire a Serena. Quando la pietra avesse ricoperto la bara, anche quell’immaginario spazio che va dalla morte alla sepoltura definitiva di un essere umano, sarebbe stato chiuso per sempre. Il papà aveva avuto modo di pensare a quanto fosse stato stupido e bestiale chiedere, all’epoca della malattia di Bernarda, quello scellerato scambio di persona tra lei e la figlia, non poteva immaginare il dolore che avrebbe provato nel dire addio per sempre a Serena.

Il giorno successivo, la notizia sui giornali non fu quella dei funerali, perché tutti i media si erano concentrati su quelle tre ore

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passate dal padre in caserma; alcuni giornali arrivarono a titolare: “E adesso la verità!”. Come se Guglielmo, fino ad allora, avesse mentito. Gli investigatori tenevano d’occhio anche il fidanzato di Serena, perquisirono a fondo l’auto di Michele, ma non trovarono nulla. Verificarono quello che non si potrebbe certo definire un alibi di ferro: essere a casa con la madre e un dente dolorante. Tutti sapevano che il ragazzo era innamorato di Serena, ma se esiste qualcosa difficile da decifrare dal di fuori, sono proprio i rapporti intimi tra le persone, il loro grado di complicità, l’esistenza di problemi profondi o gravi.

Le relazioni con la stampa vennero affidate allo zio Antonio che viveva a Cassino. Lo psicologo si limitava a dichiarare generiche frasi sul dolore e sulla volontà di arrivare alla verità, non un sospetto, nessuna pista da privilegiare. I giornali e le televisioni dovevano raccontare qualcosa, avevano bisogno di certezze e, dove non le trovavano, erano sufficienti i sospetti, gli scenari, le ipotesi, purché fossero plausibili, purché avessero un lontano fondo di probabilità. Ad Arce era calato quell’alone dove il verosimile poteva diventare vero, dove un indizio, in assenza di prove, si trasformava in prova, dove un comportamento insolito passava subito come il gesto del possibile colpevole. Dietro ognuna delle migliaia di finestre del paese, c’era un testimone, forse un complice, addirittura lo stesso assassino. Il padre, che pure era stato messo sotto i riflettori, era uscito rapidamente dalla rosa dei sospettati; il fidanzato, che per un po’ era stato illuminato dalla stessa luce, era tornato nel cono d’ombra, derubricato dalla cronaca come un ragazzo sprovveduto, colpevole solo di essere un po’ immaturo. Nella roulette dei sospetti, a un certo punto, era uscito il numero collegato allo zio che fungeva da portavoce. Lui era attaccatissimo a Serena, lei lo andava a trovare a Cas-

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sino, lui le dava sempre qualche soldo che la ragazza annotava diligentemente sul suo taccuino. Lo zio viveva a Cassino, fuori, dove probabilmente Serena aveva trascorso le ultime ore della sua vita; era psicologo e psichiatra, una professione in rapporto di familiarità con le degenerazioni della mente, anche con le deviazioni criminali. Era lui stesso che affrontava le telecamere, era il personaggio giusto su cui ricamare trame letterarie. Ma in poco tempo, la pista familiare si sgonfiò del tutto, frantumata di fronte al nulla.

A dispetto dei dati di fatto, la pressione da parte degli investigatori su Guglielmo non si allentò, l’uomo veniva sottoposto a continui interrogatori, in cui ripeteva le solite cose, che non avrebbero potuto far fare alle indagini un solo passo in avanti. Qualche volta doveva andare in caserma, qualche altra in procura a Cassino, poi ancora ad Arce, decine e decine di ore di domande, verbali uno uguale all’altro e il maresciallo Franco sempre in evidenza. Nello stesso tempo, però, Guglielmo si domandava perché non ascoltassero le testimonianze della fotografa, vicina di negozio, con la quale si trovava quel maledetto venerdì, o del proprietario del negozio di alimentari, dove aveva fatto la spesa quella mattina, oppure gli amici dei banchi del mercato, con i quali aveva parlato. In mancanza di indizi, tornò utile la dichiarazione a caldo del sacerdote, che in televisione aveva parlato di sette sataniche. Per molte settimane le indagini furono orientate a cercare qualsiasi appiglio che potesse giustificare l’esistenza di giuramenti rischiarati dalla luna piena, di riti iniziatici benedetti dal sangue, di formule arcaiche, di sacrifici e di punizioni corporali. Nessuna setta segreta venne scoperta, nessun luogo dove fossero trovati animali morti o altari blasfemi venne alla luce. Anche le ricerche sul web non rivelarono questo tipo di attività nel circondario di Arce.

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Intanto le prime testimonianze cominciarono a perdere consistenza. La barista del bar della Valle, la prima che aveva raccontato di aver visto Serena, cambiò versione e persona, sparirono la Lancia Y e gli amici che sarebbero stati con la ragazza, sparì pure il pacchetto di sigarette acquistato. Qualcuno mormorò che lei stesse coprendo qualcuno, che fosse stata avvicinata da chi le aveva chiesto di non ricordare quello che aveva visto, che sarebbe stato meglio restare sul vago. Qualcuno verso cui la donna avrebbe avuto un grosso debito di riconoscenza. Anche il carrozziere Carmine Belli, che diceva di averla vista al bar Chioppetelle, arrivando a descrivere con precisione i vestiti che indossava, manifestò delle approssimazioni. Dopo qualche giorno, non era più in grado di ricordare con chi fosse Serena: dapprima sosteneva che fosse in compagnia di una ragazza bionda con le meches, successivamente, fermi restando il colore dei capelli e le meches, la ragazza era diventato un ragazzo. Infine il ricordo si trasformò e la persona vista era un’altra, una certa Ylenia, una tossicodipendente di Arce. La ragazza venne identificata e smentì la circostanza con tanto di alibi: quella mattina non poteva essere insieme a Serena perché era partita con un ragazzo ed era andata al Sert di Sora a farsi somministrare il metadone. Il racconto del ragazzo e la firma sul registro del centro per le tossicodipendenze, confermarono la sua versione. Perché Belli era così incerto? Perché tirava in ballo una persona che sicuramente non stava con Serena quel giorno? L’aveva scelta perché anche lei consumava droga e quindi era consona a entrare nella rosa dei sospettati? E se così fosse stato, perché avrebbe dovuto creare dei sospettati? Una cosa sembrò certa, quel carrozziere non era smemorato, aveva altre finalità, ma nessuno era in grado di intuire quali fossero.

Le indagini non produssero fatti di rilievo, nonostante fossero

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state ascoltate centinaia di persone, nonostante fossero stati effettuati numerosi rilievi sul corpo di Serena, alcuni dei quali avevano portato all’individuazione di un frammento di una impronta sul nastro adesivo usato per immobilizzarla, nonostante fossero stati isolati alcuni tipi di Dna sui suoi indumenti.

Alcuni mesi dopo l’omicidio entrarono in scena gli uomini dell’Uacv, l’Unità di analisi dei crimini violenti della polizia, meglio conosciuta come Squadra antimostro, per i risultati ottenuti nella caccia al serial killer che nella zona di Firenze uccideva le coppiette e mutilava i cadaveri delle donne. Il coordinamento fu affidato al dottor Carlo Bui, l’attività sul posto fu svolta da alcuni uomini, tra cui il sovrintendente Giuseppe Pizzo, in collaborazione con il personale della Squadra mobile di Frosinone. Come prima attività, i poliziotti specializzati presero a risentire tutte le persone che erano state ascoltate in precedenza, verificarono alibi, cercarono contraddizioni, scandagliarono, episodio su episodio, tutta la vita di Serena. C’era molta confusione intorno agli avvistamenti, molti dei quali indotti dal clima frenetico delle ricerche e dalla sovraesposizione mediatica del caso. Furono raccolte le testimonianze di almeno quattrocentocinquanta persone, compresa quella di Marco, il figlio del maresciallo Mottola e amico di Serena, che non era mai stato ascoltato nei tre mesi precedenti. Proprio in quei giorni il padre venne trasferito in un’altra località, una circostanza alquanto insolita durante una delicata indagine per omicidio. Qualcuno volle attribuire la decisione del trasferimento da parte del comando dei carabinieri alle voci che circolavano in paese sulla presenza di Serena nella caserma di Arce la mattina della sua scomparsa. Altri commentarono che quella scelta era dovuta alla necessità di agevolare potenziali testimoni a collaborare.

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Gli investigatori analizzarono tutte le tracce che il bosco aveva permesso di trovare: alcune impronte sulla tesina di Serena, una sul nastro adesivo, alcune impronte sul bidone metallico che era stato spostato nel tentativo di occultare il cadavere, dodici profili di Dna rilevati su mozziconi di sigaretta e fazzolettini trovati vicino al corpo. Testimonianza dopo testimonianza, i poliziotti si accorsero che c’erano molti punti oscuri su quanto aveva dichiarato Carmine il carrozziere. L’uomo, un mese dopo la morte di Serena, aveva chiuso la sua attività per andare a lavorare come dipendente in una officina di Ceprano, si comportava in modo autolesionistico, diceva di non conoscere Serena e invece si scopriva che la aveva accompagnata a scuola quando faceva l’autostop, fondava il suo alibi sul suo compagno di lavoro Pierpaolo, ma quest’ultimo forniva delle versioni diverse sui loro movimenti il giorno della scomparsa.

Nel mese di settembre il magistrato titolare dell’inchiesta iscrisse il carrozziere nel registro degli indagati, si trattava molto di più di un atto dovuto, tanto che vennero piazzate delle telecamere nascoste nell’anticamera dove Belli aspettava di essere interrogato. Passarono di lì Ylenia e Silvia, le ragazze con cui aveva rapporti a pagamento, Pierpaolo il collega e testimone del suo alibi. Ogni volta l’indagato assumeva atteggiamenti sospetti, faceva segno di tacere, perché si sentiva intercettato. Il sovrintendente Pizzo, nel tentativo di stanare l’assassino del bosco di Fontecupa, dopo aver ascoltato Ylenia che aveva smontato l’ennesimo avvistamento di Serena in sua compagnia al bar della Valle, lo interrogò pesantemente. “Ah, ti sei sbagliato un’altra volta, come lo spieghi?”, chiese l’ispettore. “Non ci sto a capire più niente”, si difese Carmine. “Lei ha detto non ero io, però tu sei sicuro che era lei...”.

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“Pensavo di sì, adesso mi è venuto il dubbio”. “Ci hai fatto perdere tempo per un anno. L’unica persona che sa come era vestita Serena prima di morire sei tu... almeno ti rendi conto di quante stupidaggini hai detto?”, incalzò l’ispettore. “A questo punto sì”. Intervenne un collega di Giuseppe Pizzo: alzando il tono della voce, provò a mettere in fila una plausibile ricostruzione degli eventi: “Tu dici di non conoscere Serena, ma poi si scopre che la caricavi quando faceva l’autostop; aggiungi di aver visto Serena e Ylenia quella mattina al bar, ma non è vero. Quindi ti appartavi con Ylenia proprio lì dove troviamo Serena e non l’hai mai detto. Sei l’unico a dare una descrizione precisa su come era vestita la scomparsa, sei l’unico che dice di averla vista litigare a centocinquanta metri da dove è stato ritrovato il corpo... che strane coincidenze, se sono solo coincidenze, vuol dire che qualcuno ti ha cucito addosso il vestito dell’assassino”. Intervenne Pizzo: “Carmine, la risposta è una, l’hai presa su, Serena saliva in macchina solo con chi conosceva, e ti conosceva, l’ha scritto anche sul diario. A questo punto tu hai tentato un approccio, lei ti ha detto di no, ti ha detto di farla scendere... Che è successo?”. “Non lo so”, rispose con voce flebile il carrozziere. L’uomo dimostrava uno strano stile di vita e una personalità complessa, possedeva un’auto di grossa cilindrata, una Lancia Dedra, che però non riusciva a mantenere, al punto che poteva pagare l’assicurazione solo per sei mesi l’anno, quelli durante i quali andava in Polonia a trovare i parenti della convivente. Spesso non aveva i soldi per rifornire di gasolio la caldaia di casa, ma non passava settimana in cui, almeno un paio di volte, lasciasse cinquantamila lire a chi era disposta a vendere il suo corpo.

Anche se venerdì primo giugno, quando aveva fatto l’autostop, nessuno aveva visto Serena salire sull’auto del carrozziere, il magistrato si convinse che quell’uomo poteva aver commesso il delitto: contro di lui gravavano pesanti indizi di colpevolezza.

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Il 6 febbraio del 2003, un giovedì, il Tg1 annunciò importanti sviluppi sull’omicidio di Serena, addirittura l’imminente arresto dell’assassino. Carmine Belli era al lavoro nella nuova officina di Ceprano, a riportargli la notizia del telegiornale fu il suo collega Bruno. Poco dopo, il carrozziere ricevette la visita dei poliziotti che dovevano procedere a una perquisizione. Un ispettore lo invitò ad accompagnarlo nella sua casa, dove in quel momento non c’era nessuno, perché Eva, la sua compagna polacca, era andata a trovare i genitori insieme alla piccola figlia Amanda. Dopo la perquisizione, Belli, in manette, venne portato direttamente al carcere di Cassino: il giudice per le indagini preliminari aveva disposto l’arresto del carrozziere. Il magistrato si era convinto che potesse essere lui l’assassino di Serena e per questo andasse sottoposto a giudizio, sulla base di indizi raccolti che giudicava gravi, precisi e concordanti. Innanzitutto, perché l’indagato negava di conoscere la ragazza, nonostante fosse stato accertato che a volte le aveva dato un passaggio quando faceva l’autostop; poi perché aveva fornito un alibi del giorno della scomparsa che non era stato confermato; perché era un frequentatore della zona in cui era stato ritrovato il corpo di Serena; infine, perché a casa sua furono trovate tracce di adesivo, compatibili con quelle del nastro che aveva avvolto il corpo della giovane.

Quando Eva tornò dalla Polonia, andò a trovare Carmine; l’uomo le diede la sua versione dei fatti e lei disse che credeva a quelle parole. In carcere portò con sé la piccola Amanda di tre anni, che fu felice di vedere il padre, ma pianse a dirotto quando dovette lasciarlo. I genitori inventarono una storia per alleggerire quella lontananza: la mamma le raccontò che suo papà era molto bravo nel suo lavoro e doveva rimettere a posto tante automobili lì dentro,

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per questo non poteva tornare a casa. I mesi passavano e Carmine non tornava, un giorno, all’uscita del penitenziario, dopo la visita settimanale, la bambina disse a una guardia carceraria: “Adesso quando mio papà avrà finito, per tutto il lavoro che sta facendo per voi, gli dovrete dare un sacco di soldi”.

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La piazza del tribunale di Cassino, quel 14 gennaio 2014, era fredda e piena di cronisti, telecamere, pullman regia pronti per le dirette dei telegiornali: si stava per aprire il processo contro l’unico indiziato per il delitto e l’occultamento del cadavere di Serena. Carmine Belli, ancora detenuto, venne portato a Cassino da un furgone della polizia penitenziaria, due agenti lo scortarono fino all’aula dove si trovavano i giudici togati e quelli popolari, i pubblici ministeri, gli avvocati, i consulenti delle parti, i parenti di Serena, con Guglielmo in prima fila e i suoi amici, poi tanti curiosi richiamati da quello che, senza dubbio, era un evento per certi versi spettacolare. Li aveva attratti la voglia di vedere in faccia i protagonisti, di conoscere i retroscena, di assistere a racconti di particolari, spesso scabrosi. Belli era dimagrito, la vita del carcere e la preoccupazione di non uscire da quel luogo per molti anni, gli avevano fatto perdere un bel po’ di chili. Il suo ingresso in aula fu accompagnato da uno strano vociare; in quei mesi i giornali locali si erano lungamente occupati di lui, l’esito del processo non era affatto scontato. Il presidente lesse i capi di imputazione che, nel burocratico linguaggio giuridico, corrispondono agli articoli 575, 412 e 61 del codice penale. Seguì la costituzione in giudizio delle parti, con due diversi avvocati a rappresentare Guglielmo e Consuelo. Il presidente del collegio giudicante doveva risolvere una questione preliminare, rispondere alle richieste di emittenti nazionali e locali di effettuare riprese durante il processo, una decisione che spettava al giudice, sentite le parti. La questione fu risolta con una limitazione all’accesso delle telecamere solo alla fase di presen-

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tazione delle prove e delle conclusioni, per non compromettere il sereno svolgimento del dibattimento. Una settimana dopo, alla seconda udienza, venne decisa l’ammissione dei mezzi istruttori e dei testimoni, quelli della difesa vennero notevolmente ridotti perché giudicati ridondanti.

Il 23 gennaio furono proiettate in aula le riprese del sopralluogo effettuate dai carabinieri a Fontecupa di Isola del Liri; Guglielmo, seduto in prima fila, assistette al film che non aveva potuto vedere il 3 giugno di tre anni prima, quando fu fermato all’ingresso del sentiero. Da quel giorno Guglielmo era tornato spesso all’inizio del sentiero, lì c’era sempre una foto di Serena e dei fiori freschi, ma non si era mai spinto oltre, non aveva fatto quei trenta passi che lo avrebbero portato nella radura dove era stato trovato il corpo della figlia. Vennero ascoltati gli uomini della protezione civile che avevano fatto la macabra scoperta quella incancellabile mattina e i due carabinieri che erano passati di lì il giorno prima senza notare nulla di strano.

Le udienze si susseguirono al ritmo di una alla settimana; alla fine del mese venne ascoltata la dottoressa Antonella Conticelli, il medico legale che era intervenuta sul posto e che aveva fatto l’autopsia, poi i due carabinieri della stazione di Sora, che avevano riferito in merito all’avvistamento sbagliato del primo giugno, quando una ragazza, Katia era stata scambiata per Serena.

La deposizione del maresciallo Franco Mottola, comandante della stazione di Arce, lasciò uno strascico di dubbi. Molti dei presenti in aula furono colpiti dalla quantità di ap-

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prossimazioni e “non ricordo” di cui erano piene le sue risposte, lo stesso giudice restò stupito del tenore delle sue parole, gli sembrarono frammentarie e lacunose. Eppure si trattava del più importante caso di cronaca che avesse investito il paese che era sotto il suo controllo, l’uomo conosceva Serena e i suoi familiari, fin dalle primissime ore aveva dimostrato un insolito attivismo per questa scomparsa. Il suo contributo alla comprensione dell’accaduto fu decisamente modesto.

Nelle altre deposizioni le amiche di scuola di Serena, che avevano viaggiato sulla corriera da Arce, il personale dell’ospedale dove aveva fatto l’ortopanoramica, chi l’aveva vista per l’ultima volta fare l’autostop a Isola Liri, tutti non ebbero dubbi a ricostruire l’abbigliamento della ragazza.

Il dibattito al processo si accese quando vennero confrontate le posizioni dei tre medici: Antonella Conticelli, il professor Ernesto D’Aloya, entrambi consulenti dell’accusa, e Giancarlo Umani Ronchi, il perito indicato dalla difesa. Fu un confronto basato sull’esposizione dei dati raccolti durante la prima ispezione del corpo di Serena, sulla successiva autopsia e su tanti testi di anatomopatologia che permettevano di risalire all’ora della morte, in base a temperatura, rigidità cadaverica, macchie e larve di ditteri. “La morte di Serena va collocata tra le ventiquattro e le trentasei ore prima del ritrovamento”, disse la Conticelli. “Tra le quarantatré e le settantuno ore”, ribatté il professor D’Aloya. Un intervallo, quest’ultimo, troppo retrodatato, considerato che dall’ultimo avvistamento al ritrovamento del cadavere erano passate cinquantadue ore. Il consulente della difesa, il professor Umani Ronchi, tendeva

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a ravvicinare il momento della morte di Serena: parlò di venti, massimo trenta ore, uno scenario che serviva a scagionare Belli da ogni accusa. Se l’ora della morte fu motivo di grossi contrasti fra i periti, ciò non avvenne per le cause del decesso: tutti concordarono nel ritenere il colpo in testa sufficiente solo a stordire la studentessa che sarebbe morta per asfissia meccanica, cioè per soffocamento.

Poi sfilarono i testimoni che durante le ricerche erano stati vicino all’imputato, compreso Antonio Fraioli, il cugino di Guglielmo, tra i primi a giungere sul luogo del ritrovamento. Alla fine di marzo venne ascoltato il sovrintendente Giuseppe Pizzo dell’Uacv, l’Unità di analisi dei crimini violenti della Polizia di Stato, che nella sua deposizione parlò di come si era arrivati a stringere il cerchio attorno a Carmine Belli, di come non ci fossero sospettati privilegiati, piste precostituite, ma la sua individuazione fosse il risultato di tanti interrogatori, raccolta scrupolosa di elementi e riscontri incrociati.

Poi fu la volta di Guglielmo che ricostruì minuziosamente il giorno della scomparsa, i contatti telefonici con il fidanzato della figlia, la denuncia ai carabinieri, l’organizzazione delle ricerche, la completa sua disponibilità a collaborare con le forze dell’ordine. Per lui fu anche l’occasione, dopo anni da quegli inconcepibili giorni, per parlare di strane perquisizioni, di depistaggi, di interrogatori a orologeria volti a sviare le indagini.

L’ultimo giorno di marzo venne ascoltata Silvia, una ragazza che aveva rapporti a pagamento con Carmine, con il quale si appartava lungo il viottolo che portava al luogo dove era stata trovata Serena. Silvia confermava i suoi contatti occasionali con il car-

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rozziere, specificando che mai si erano addentrati fino alla radura, si fermavano sempre all’inizio del viottolo, appena l’auto scompariva alla vista degli automobilisti che transitavano sulla strada consolare Casilina, quindi prima rispetto a dove il corpo di Serena era stato portato.

Nella stessa udienza fu ascoltato un testimone importante, colui al quale era collegato l’alibi di Belli, Pierpaolo Tomaselli, anche lui di professione carrozziere. L’imputato aveva sempre sostenuto che la mattina della scomparsa era stato con il suo collega e non avrebbe potuto compiere l’omicidio. Tomaselli confermò che al mattino erano stati insieme in auto, per questioni relative al lavoro, ma che poi erano tornati in officina e Carmine si era allontanato. Fu una deposizione che lasciò più di un dubbio tra i giurati.

Il 28 aprile arrivò il giorno più atteso, quello della deposizione dell’imputato. Belli, contrariamente alle prime testimonianze, raccontò che aveva notato Serena un anno prima della sua morte, quando passava sotto casa sua, in via Campostefano, con gli altri componenti della banda musicale di Arce; l’aveva rivista in piazza, mentre lui portava a passeggio la figlioletta, e nella cartolibreria, pensando che lavorasse lì e non che fosse la figlia di Guglielmo. Alcuni mesi prima della scomparsa, almeno un paio di volte, davanti al cimitero di Arce, le aveva dato un passaggio, come era sua abitudine con chiunque facesse l’autostop, soprattutto donne. In auto avevano parlato poco, si erano soffermati sulla musica anni Sessanta di cui Belli era appassionato. Durante la deposizione l’imputato disse di essersi sbagliato sull’avvistamento di Serena al bar della Valle il giorno della scomparsa, mentre veniva strattonata da un ragazzo biondo, rettificando

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che si trattava del giorno prima, quando era andato a comprare della vernice insieme a Pierpaolo. Il collega nei giorni seguenti la morte della diciottenne, gli aveva fatto notare l’errore e Carmine lo aveva ammonito dicendo: “Vabbé, ormai ci siamo sbagliati e stiamoci zitti così, tanto che succede? Non possiamo riportare in vita quella ragazza”. L’imputato confermava di conoscere il sentiero di Fontecupa, da quando aveva preso la patente, ci era andato con qualche fidanzata o per rapporti a pagamento, ma non si era mai spinto alla fine dello sterrato, fino a quella specie di discarica dove era stato trovato il corpo di Serena. Anche sull’alibi riuscì a essere più preciso e circostanziato, riducendo di molto il lasso di tempo in cui aveva lasciato l’officina, comunque non prima delle dieci e mezza. Se a questo tempo si fosse sommato quello necessario per raggiungere Isola Liri, dove Serena era stata vista per l’ultima volta, restavano scoperti molti minuti, più di un’ora, in cui qualcuno avrebbe dovuto notare i movimenti della studentessa. Ma nessuno l’aveva vista dopo le nove e trentacinque; gli ultimi erano stati i suoi amici Gino e Gabriele. L’imputato spiegò che il pezzo del talloncino-promemoria, con indicato un appuntamento dallo stesso dentista di Serena, portato in aula come ulteriore prova a carico di Belli perché rinvenuto a casa dei suoi genitori, poteva provenire da qualche automobile che lui aveva riparato e che, per sua abitudine, svuotava di tutte le cose che si trovavano all’interno. Oggetti, foglietti e immondizia varia che venivano gettati in uno scatolone per essere conservati. Poteva essere stata la stessa ragazza, ripulendo le tasche di un talloncino ormai inutile, ad averlo lasciato nell’auto di qualcuno che, a sua volta, avrebbe portato l’auto alla carrozzeria di Carmine Belli.

Quattro udienze di maggio furono dedicate all’ascolto dei testimoni indicati dalla difesa e all’esame del criminologo Carmelo Lavorino.

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L’uomo era arrivato sul luogo del delitto dieci giorni dopo l’accaduto, era stato chiamato da Guglielmo che voleva conoscere a tutti i costi la verità. Poi Guglielmo aveva scelto un avvocato che con il professionista non aveva buoni rapporti e Lavorino non si era più occupato del caso. Quando Belli venne rinviato a giudizio, l’esperienza delle prime indagini sul posto tornò utile al criminologo che si vide affidare l’incarico di affiancare il collegio di difesa. Il suo fu un puntiglioso intervento, teso a smontare, punto per punto, le tesi dell’accusa.

Gli interrogatori di Tomaselli e dell’imputato avevano mostrato evidenti discordanze, e l’alibi dell’uomo era diventato determinante per stabilire la sua colpevolezza o la sua innocenza. La corte dispose per il 9 giugno del 2004 il confronto tra i due ex colleghi. Dal faccia a faccia venne confermato l’avvistamento di una ragazza che somigliava a Serena al bar Chioppetelle, e che Carmine aveva esclamato: “O Pa’, sta guagliona sta a chiagne”, anche se Pierpaolo Tomaselli, impegnato nella guida, non riuscì a vedere nulla. Vennero ridefiniti i loro movimenti dalla mattina fino alle dieci e un quarto, quando Belli uscì dalla carrozzeria di via di Valle Cautara. Tomaselli confermò che sentì l’auto uscire a retromarcia, anche se disse di non avere visto la scena. Sul punto i due fornirono versioni discordanti. Alle 12.15, quando Pierpaolo Tomaselli lasciò la carrozzeria, non seppe dire se l’auto di Carmine fosse parcheggiata lì o meno, disse di non averci fatto caso. Invece confermò che, quando tornò in officina dopo il pranzo, alle due, Carmine c’era già e stava lucidando un’Alfa 156. Chiuso il dibattimento, la parola passò alle relazioni finali del pubblico ministero, degli avvocati di parte civile e di quelli della difesa.

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C’era molta attesa intorno a un giudizio che avrebbe potuto mettere la parola fine a un omicidio brutale, smascherare un lucido assassino che avrebbe avuto tutto il tempo di salvare una diciottenne colpevole solo di altruismo, inchiodare l’autore di una meticolosa messa in scena rivolta a ottenere l’impunità. Oppure, la decisione di una decina di persone chiuse in camera di consiglio avrebbe lasciato il caso aperto. Aspettavano con ansia la sentenza il carrozziere e coloro che gli volevano bene, i familiari di Serena dalla vita segnata per sempre, gli amici della ragazza che non la avrebbero più rivista, la gente di Arce che la conosceva, e un po’ tutti quelli che facevano parte dell’opinione pubblica, milioni di persone che si appassionano alla cronaca, che per curiosità o per reale empatia partecipano ai fatti che accadono intorno o lontano da loro.

Il 7 luglio del 2004, alle 19.15, dopo ore di camera di consiglio, il presidente fece il suo ingresso in aula, seguito dagli altri giudici, per dare lettura del dispositivo della sentenza. La sala era muta, l’emozione vibrava nell’aria, non solo quella di Carmine e di Guglielmo. Il carrozziere aveva il viso pallido e tirato, segno della notte passata tra mille tormenti; soltanto il consulente della difesa, il criminologo Carmelo Lavorino, si sentiva sicuro del verdetto e disse all’imputato: “Carmine, stasera ceniamo tutti insieme a casa tua”. Era arrivato il momento della verità, affidato ai numeri, quelli degli articoli del codice penale, il 575 che contemplava la colpevolezza e il 530 che significava innocenza. Solo due numeri dai quali sarebbe dipesa la sorte del processo, di Carmine e della verità sulla morte di Serena. Un numero o l’altro avrebbe determinato il ritorno in cella dell’imputato o la sua immediata scarcerazione. Il presidente attese che tutti i presenti fossero al loro posto, che gli stenografi fossero pronti, che l’ultimo rumore di panche si fosse dissolto, poi, avvicinandosi al microfono pronunciò il numero 530, quello che apriva le porte del carcere.

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Belli fu colto da una esplosione di gioia, battiti di mani e cenni di disapprovazione si mescolarono, i giornalisti presenti corsero tutti a telefonare alle redazioni. Persone che si abbracciavano e altre con il capo chino in segno di sconfitta, avvocati raggianti perché avevano raggiunto il loro obiettivo, altri uomini di legge perplessi. Fuori dal tribunale la vita scorreva come sempre, in una calda serata di mezza estate.

Il carrozziere non aveva ucciso, dopo diciassette mesi di carcere tornava a casa, millecentoventinove giorni dopo l’omicidio di Serena, l’autore era ancora in libertà. La sentenza stabilì che Serena era morta il giorno della scomparsa; dopo una lenta agonia, nella notte tra il primo e il due giugno, con il favore del buio, era stata portata nel bosco. Gli elementi raccolti a carico di Belli non erano univoci e concordanti, non avevano convinto i giudici che fosse lui l’assassino, andavano letti in termini di probabilità, verosimiglianza, non erano solidamente resistenti alle obiezioni e quindi non attendibili e sufficienti. Riguardo alle numerose contraddizioni emerse nei racconti dell’uomo, per i giudici erano da riferire a una sua volontà di porsi al centro dell’attenzione, una sorta di smania di protagonismo, piuttosto che a un omicida che cercava di coprire le proprie responsabilità. Certo non lo avevano aiutato a spiegarsi il suo basso livello d’istruzione, un diploma di terza media e una capacità di espressione limitata, colorita da parole dialettali. I giudici si erano convinti che l’uomo, pur dotato di una intelligenza istintiva e immediata, coltivava una specie di orgoglio narcisistico che lo portava a vivere egocentricamente anche le situazioni più ordinarie e banali del quotidiano. La sentenza stabilì la sostanziale tenuta dell’alibi di Belli. Serena era stata vista per l’ultima volta alle 9.35 mentre faceva l’autostop verso Arce, l’autobus sarebbe passato alle 10.10; ipotiz-

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zando che, se nessuno avesse dato un passaggio alla ragazza, lei avrebbe preso quella corriera. Il carrozziere, in ogni caso, non sarebbe potuto arrivare a prendere la studentessa prima delle 10.10. Inoltre le tracce dell’imputato non risultavano corrispondenti né alle impronte dattiloscopiche né ai profili di Dna rilevati dal Ris, il Raggruppamento investigazioni scientifiche dei carabinieri, nel bosco di Fontecupa.

Il mistero del bosco si avviava a diventare uno dei tanti casi insoluti dell’Italia della Seconda Repubblica, storie di donne finite in modo tragico a causa di mani che erano rimaste anonime, come Simonetta uccisa con quarantasette coltellate in via Poma a Roma. Vicende sulle quali si accendevano periodicamente i riflettori dei media, vuoi per l’ultima rivelazione, vuoi perché, soprattutto d’estate, bisognava riempire le pagine dei giornali a corto di notizie.

Dopo l’assoluzione definitiva di Carmine Belli in Cassazione, arrivata il 6 ottobre del 2006, un cono d’ombra sembrava inghiottire la morte di Serena, relegando il suo omicidio a uno dei tanti gialli insoluti. Fu un lampo improvviso che squarciò il buio, una rivelazione inaspettata arrivò a cambiare l’ordine delle cose. I magistrati ascoltarono un carabiniere, Santino Tuzzi, che era in servizio alla caserma di Arce il giorno in cui era scomparsa la ragazza e che aveva partecipato alle indagini. L’uomo aveva deciso di raccontare quello che sapeva, dopo un lungo travaglio interiore. Non era facile per lui imprimere una svolta alle indagini, anche dirigendo i sospetti verso i suoi colleghi, soprattutto verso il suo superiore diretto, il maresciallo Mottola, colui che comandava la stazione. Le tracce di Serena si erano perse alle 9.35 di fronte alla fermata della corriera di Isola Liri, un successivo avvistamento la vole-

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va in compagnia di alcuni ragazzi al bar della Valle intorno alle 10. Era stata la dipendente del bar, Simonetta, a ricordare che Serena era scesa da una Lancia Y, lo stesso modello di automobile che aveva Marco Mottola, figlio del comandante della stazione dei carabinieri di Arce. Simonetta ricordava di averla vista entrare nel bar con il ragazzo per comprare delle Marlboro light, le stesse sigarette che fumava Serena. Simonetta raccontò queste cose a caldo durante le ricerche, poi le ripeté agli investigatori. Quando si trovò di fronte al magistrato fu informata che il ragazzo di cui parlava era il figlio del maresciallo dei carabinieri: a quel punto la donna fece marcia indietro e ritrattò, inspiegabilmente, tutto. Ora le rivelazioni di Santino Tuzzi aprivano un scenario che poteva essere la logica prosecuzione di quell’avvistamento. Il brigadiere non stava passando un bel periodo. Superata da quattro anni la soglia dei cinquanta, si era separato dalla moglie dalla quale aveva avuto un maschio e una femmina, da anni aveva una relazione extraconiugale che però non si era stabilizzata nemmeno dopo che lui era tornato a vivere a Sora con la madre. Più volte l’uomo aveva cercato di convincere Rita ad andare a vivere insieme, ma lei aveva sempre detto di no. Ai problemi affettivi si sommavano quelli lavorativi, dopo che era stato trasferito dalla sua storica caserma di Arce a quella di Fontana Liri. Solo uno spostamento di pochi chilometri, ma che aveva alterato il suo equilibrio già precario. Il destino aveva voluto che a raccogliere le sue dichiarazioni spontanee nella procura di Cassino ci fosse una donna, il magistrato titolare delle indagini sulla morte di Serena. “Verso le 11, 11.30”, raccontò Santino mentre si asciugava la fronte, “ero di piantone, ho sentito citofonare alla porta della caserma. Sono andato ad aprire e mi sono trovato di fronte la studentessa che, solo più tardi, seppi fosse scomparsa. Mi disse che voleva parlare con uno dei nostri, non ricordo se disse anche di voler fare una denuncia. Io chiamai di sopra, dove c’era l’alloggio del comandante”. “E chi ha risposto?”, chiese il magistrato. “Io ho sentito solo la voce, non saprei dire con certezza se fosse

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quella del maresciallo o di qualcun altro. Fatto sta che mi disse di farla salire sopra, dove c’erano gli alloggi del comandante e di alcuni graduati. Io non avevo alcun motivo per dubitare di quella richiesta, mi sembrò una prassi normale. Le spiegai che avrebbe dovuto prendere le scale e che avrebbe trovato qualcuno ad aspettarla”. “Poi cosa è successo?”. “Poi non è successo niente, nel senso che sono rimasto in servizio fino alle 14.30 e non l’ho vista tornare”. “Sì, ma poi ha saputo che la ragazza era scomparsa?”. “Certo, il giorno dopo”. “E perché non l’ha detto subito?”. “Mi è stato consigliato di non dirlo, che quella notizia avrebbe creato confusione, avrebbe alimentato sospetti infondati. Mi hanno detto che la ragazza se ne era andata più tardi da sola”. “Vedo che è sudato, ha bisogno di qualcosa?”. “Grazie dottoressa, potrei avere un po’ d’acqua?”. Santino aveva la gola secca, la fronte imperlata di gocce che riflettevano le luci della stanza, la mano sinistra con un sinistro tremore. Il magistrato era sconvolto dalla notizia, non ci era voluto molto a capire che si trovava di fronte a una svolta nelle indagini; dopo mesi di buio, anni di processi a vuoto contro il carrozziere, arrivava, come un dono inaspettato incartato in una divisa da carabiniere, una confessione bomba. Il titolare delle indagini voleva chiedere a Santino perché si fosse lasciato convincere a non parlare e perché adesso aveva deciso di vuotare il sacco, sapere se aveva notato altri strani particolari, se era a conoscenza di alcune confidenze che circolavano sulla caserma, subito dopo la morte di Serena, su quel luogo che secondo le voci di paese aveva a che fare con la scomparsa della studentessa, prima che riapparisse, cadavere, a Fontecupa. Era intenzionata ad andare in fondo, ma voleva evitare di mettere sotto pressione un uomo sicuramente molto provato, un uomo che doveva aver passato pene infernali per lunghi anni, prima di presentarsi davanti a lei. Il sostituto procuratore meditò una strategia che la avrebbe portata a raccogliere altri elementi, approfittò della richiesta di Santi-

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no e, con la scusa di trovare l’acqua, si allontanò, facendo segno al collaboratore più fidato di seguirla. Il tempo stringeva, la decisione da prendere era delicata. “Ce la facciamo a organizzare una intercettazione d’urgenza?”, chiese il magistrato al suo assistente. “Dottoressa, ci possiamo provare, ho un amico al servizio, posso chiamarlo anche adesso”, rispose l’agente. “Allora vai e digli che mi serve subito di intercettare Santino Tuzzi. Poi verifica se, oltre al numero che abbiamo e quello di casa, lui dispone di altre utenze”. L’uomo si attivò all’istante, mentre la donna rientrò nella stanza e trovò il carabiniere in piedi davanti alla finestra, preso da inconfessabili pensieri. “Allora, dove eravamo rimasti?”, esordì il magistrato. “Veramente io aspettavo l’acqua”, rispose Santino. “Certo, arriva subito. E se non arriva la sollecitiamo”. Poco dopo il procuratore congedò il carabiniere, dicendogli di restare a disposizione, perché avrebbe organizzato un confronto tra lui e il maresciallo Franco Mottola. Santino uscì dal tribunale con più dubbi di quanti ne aveva quando era entrato, con uno stato d’animo combattuto tra il sollievo di chi si è appena tolto un dente dolorante e la sofferenza mentre si dissolve l’effetto dell’anestesia. Sapeva che a breve avrebbe rivisto i suoi colleghi, soprattutto il suo ex superiore, sapeva che avrebbero chiamato Marco, il suo migliore amico, con il quale si era confidato, sapeva che lo aspettavano giorni difficili. Forse sapeva pure, adesso che stava chiamando casa, che qualcuno ascoltava le sue conversazioni.

Il magistrato era nel suo ufficio a rileggere quello che avevano prodotto le indagini condotte fino ad allora dai suoi colleghi Maurizio Arcuri e Carlo Morra e dal procuratore capo di Cassino, Gianfranco Izzo; li collegò a quanto aveva dichiarato l’uomo e prese a immaginare scenari.

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Conosceva la fama di Arce e dei dintorni come terra di spacciatori e consumatori di sostanze stupefacenti, ricordava il triste primato della cittadina per numero di morti per droga. E ricordava lo spirito caritatevole di Serena che avrebbe lottato contro tutti, pur di salvare un amico in difficoltà, pur di far finire quel traffico indecente. Prese dei verbali, rilesse quello di Michele, si soffermò sul giorno della scomparsa, quando il fidanzato arrivò da Strangolagalli ad Arce in bicicletta. La prima persona che aveva visto, vicino alla caserma dei carabinieri, era stato un suo amico tossicodipendente e spacciatore, Fabio Torriero. Fabio era il nipote di Rita, la donna con cui Santino Tuzzi aveva una relazione. Immaginava la scena di Serena in macchina con colui che pensava le fosse amico, di una lite nata perché lui continuava a seminare tra i giovani del posto dosi di effimero piacere, portatrici di morte. Immaginava che lungo la strada potesse essere avvenuto un battibecco con il ragazzo che la sfidava ad andarlo a denunciare. Lei sarebbe entrata in quella caserma, poi tra quelle mura che avrebbero dovuto proteggerla, la ragazza avrebbe trovato la sua fine. Serena sarebbe stata colpita da qualcuno che lei considerava amico, nella sua ingenuità non si aspettava nemmeno lontanamente quella botta improvvisa. Avrebbe perso i sensi insieme a tanto sangue. Poi l’assassino si sarebbe spaventato delle conseguenze e, invece di salvarla, le avrebbe poggiato sul naso e sulla bocca lo stesso asciugamano con cui cercava di pulire il sangue. Non senza avere prima indossato un paio di guanti. Con l’aiuto della notte e di qualche complice, la ragazza, ormai senza vita, sarebbe stata preparata prima di essere allontanata dal luogo dell’omicidio, lontano da dove sarebbe stato impossibile sfuggire alla giustizia degli uomini. Un posto tranquillo, al riparo da occhi indiscreti, accessibile con l’automobile, si trovava alle spalle della caserma, era l’edificio carcerario inutilizzato, fatto di poche celle e circondato da un alto muro di cinta, un luogo dove non entrava mai nessuno. Una volta legata e incappucciata, sarebbe stata caricata su un’auto e portata nel bosco. La scelta di Fontecupa non sarebbe stata casuale.

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C’era qualcuno che, in quelle ore di spasmodiche ricerche, per mitomania, per smania di protagonismo, aveva detto di avere visto Serena che veniva strattonata vicino al bar di Chioppetelle. Quale occasione migliore per farla franca? Per far sembrare che l’omicidio fosse avvenuto nel bosco dopo una lite mai esistita? Con il favore del buio, con l’aiuto di uno o più complici, il corpo di Serena sarebbe stato portato nella radura, dove sarebbe stato facile far credere che non fosse stato notato prima, ma fosse stato sempre lì. Il modo in cui il corpo si trovava rivelava perfettamente le intenzioni dei carnefici. Serena era distesa con dei rami piegati sul corpo, con le caviglie ben visibili, davanti a lei un cassone di metallo, di quelli che hanno i Tir vicino alle ruote, a occultarne parzialmente la vista. Chi aveva studiato quella messa in scena era una persona che aveva dimestichezza con delitti o, almeno, un grande conoscitore di come vengono condotte le indagini. Era un investigatore? Un divoratore di gialli? Il corpo occultato ma non troppo serviva a far sì che venisse ritrovato, il cassone piazzato davanti era la giustificazione per gli uomini che il giorno prima del ritrovamento avevano perlustrato la zona senza notare il corpo di Serena. L’assassino doveva far credere che non era stato visto non perché vi fosse stato lasciato successivamente, ma solamente perché, pur trovandosi lì fin dalla scomparsa, il cassone metallico ne aveva impedito la vista. La mente criminale non aveva trascurato nulla, neppure il temporale che aveva investito la zona la notte della scomparsa, come faceva supporre la bottiglia di plastica vuota vicino al corpo della studentessa. Quella bottiglia conteneva l’acqua che, forse, era stata rovesciata sul corpo senza vita. Solo così si spiegava la diversa presenza di umidità sui poveri resti, i calzini di spugna asciutti, bagnati i pantaloncini, la maglietta e il maglioncino, assenti ristagni di acqua intorno al corpo. Della macabra costruzione facevano parte gli oggetti trovati sulla scena del crimine: i libri della ragazza sparsi a simulare un litigio, con tesina fuori dalla carpetta che la conteneva.

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Agli investigatori sarebbe bastato trovare quel ragazzo biondo che aveva strattonato Serena, lo stesso che poi la aveva portata nel bosco di Fontecupa, e che, al termine di una lite durante la quale i suoi libri erano volati in aria, l’aveva colpita e soffocata. Tutto ciò per far credere che l’omicidio fosse avvenuto là dove la ragazza era stata vista per l’ultima volta e non altrove, lontano dalla caserma dove era entrata la mattina del primo giugno, secondo quanto rivelava Santino Tuzzi. Nella testa del magistrato risuonava il dubbio se Belli, come aveva accertato il processo, fosse solo egocentrico e impulsivo o se avesse qualche altra finalità. Con questa ricostruzione fantasiosa, il titolare dell’inchiesta riuscì a mettere al posto giusto molti tasselli, a cominciare da quel paese diventato crocevia di loschi traffici, di camorristi e delle loro lussuose ville, di uno strano intreccio con le istituzioni e le forze dell’ordine. In questa cornice si poteva spiegare lo strano comportamento del maresciallo Mottola, che era andato a prendere degli oggetti nella camera di Serena, con una procedura poco ortodossa, che aveva fatto prelevare Guglielmo il giorno dei funerali. La presenza dell’uomo nella caserma per così tanto tempo sarebbe potuta servire a inquinare le tracce di Dna che la ragazza aveva potuto lasciare il giorno della scomparsa. Se, nel corso degli accertamenti, fosse stato trovato il Dna della vittima nella caserma, sarebbe stato attribuito a Guglielmo e non alla figlia. Nelle dichiarazioni spontanee, Tuzzi aveva parlato anche del telefonino misteriosamente ricomparso in un cassetto, e disse di averne parlato subito con Marco, il suo carissimo amico, all’indomani del funerale della studentessa. Aveva dichiarato che a metterlo lì sarebbe stato proprio un suo collega che forse aveva maneggiato il telefonino della ragazza nella ricerca di chiamate sospette. Il magistrato, che fino ad allora aveva avuto tanti tasselli sparsi sulla sua scrivania, riusciva adesso a trovare la giusta collocazione a ognuno di loro; il quadro era pressoché completo, alla luce delle parole del carabiniere, la ricostruzione dei fatti sembrava convincente, verosimile.

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Adesso doveva trovare il supporto di indizi e di prove, perché le sole parole del brigadiere non sarebbero bastate a chiedere un processo, tanto meno a far condannare qualcuno.

Santino aveva ancora l’animo sconvolto per quel passo enorme di due giorni prima, raccontando fatti che avrebbero potuto incastrare i suoi colleghi; sentiva che l’ambiente nel quale si era formato e che era una grande parte della sua vita, l’Arma, poteva diventargli ostile, avvertiva ancor più forte il bisogno di trovare risposte alla sua difficile posizione personale. Era il 9 aprile del 2008, un venerdì, lo stesso giorno della settimana in cui era morta Serena, Santino non era in servizio e uscì di casa senza divisa e, cosa che non faceva mai, portò con sé la pistola d’ordinanza. Andò a bussare alla porta di Rita, a tentare per l’ultima volta di convincerla a dare una svolta alle loro vite, andare a vivere sotto lo stesso tetto. Gli appelli disperati di Santino non fecero breccia nella donna, nemmeno quando lui le mostrò la pistola, dicendosi intenzionato a farla finita. “Vedi, ho la pistola, sai che non la porto mai...”. Di fronte all’ennesimo rifiuto, l’uomo se ne andò via sconvolto, Rita corse subito al telefono e chiamò i carabinieri. I colleghi si misero sulle sue tracce, ma non avevano idea di dove fosse diretto. L’uomo aveva fermato la sua Opel Vectra station vagon sul greto del fiume Liri, vicino alla diga di Sant’Eleuterio, in una località chiamata Campostefano, a poche centinaia di metri dal luogo del ritrovamento del corpo di Serena. Forse non aveva scelto casualmente il posto per dire addio al mondo, forse gli bruciava ancora dentro quella deposizione che non aveva fatto sette anni prima e che avrebbe potuto portare subito gli inquirenti sulle tracce dell’assassino. Vagava avanti e indietro, cercando la forza per compiere il gesto di chi non ha coraggio di affrontare la vita.

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Le sue parole di due giorni prima messe a verbale avevano compromesso il suo lavoro; la sua famiglia si era frantumata, l’amante lo aveva respinto, a Santino non restava che impugnare la pistola. Era seduto sulla sua auto, guardava l’acqua scorrere, si sentiva come una insignificante goccia di quel fiume. Si portò con l’auto più vicino alla strada, vedeva il sole a picco far brillare ogni oggetto intorno a sé, si aggiustò la Beretta calibro 9 sullo sterno, affinché fosse in corrispondenza del cuore.

Quando gli uomini del 118 arrivarono sul posto, lo trovarono in una pozza di sangue, non c’era più niente da fare, il proiettile gli aveva trapassato il cuore da parte a parte, il supertestimone dell’indagine sulla morte di Serena aveva raggiunto la ragazza nell’Aldilà. Non venne trovato, nell’auto o a casa, alcun biglietto, né alla moglie, né ai figli e neppure alla donna che aveva implorato, poco prima di morire; il suo cuore spezzato simboleggiava più di qualunque messaggio le ragioni del suo gesto. Il magistrato lavorava alacremente a mettere insieme i pezzi di un nuovo castello accusatorio quando ricevette la telefonata che la invitava a correre a Campostefano. Mentre osservava quel corpo senza vita, si sentiva come qualcuno che guarda la propria casa crollata dopo un terremoto. Si interrogava sulla scelta di rimandare il confronto tra Santino Tuzzi e il maresciallo Mottola, se non avesse fatto meglio ad anticiparlo, tutte domande inutili adesso che Santino non poteva più aggiungere altri particolari al suo racconto.

Marco, il migliore amico del brigadiere, padrino di Battesimo dei suoi figli, non credette al suicidio. Troppe volte aveva ricevuto le confidenze di Santino sull’omicidio di Serena. Quando arrivò sul luogo della tragedia riuscì a superare i controlli e a urlare:

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“L’avete ammazzato voi, sapeva troppe cose sull’omicidio di Serena, me l’aveva detto che il telefonino a casa Mollicone ce l’aveva rimesso un collega”. Con quello sfogo gridava a tutti una verità scomoda, che era stato un carabiniere a prenderlo, per controllare le ultime telefonate della ragazza, e lo aveva rimesso a posto, solo dopo aver controllato che nei numeri in entrata o in uscita quel primo giugno e nei giorni precedenti non ci fosse quello dell’assassino. Lo aveva fatto ritrovare completamente pulito da impronte digitali. Chi lo aveva sottratto, e aveva rischiato nel rimetterlo a posto, non poteva sapere che quel telefonino non aveva memoria di telefonate sospette per il semplice motivo che non funzionava. Marco venne trascinato via e interrogato dai carabinieri di Sora. Dopo le sue dichiarazioni rilasciò una intervista a Lazio Tv in cui confermò le sue convinzioni: “Gli hanno attappato la bocca, l’hanno mandato via da Arce perché sapeva troppe cose”, dichiarò con forza Marco. L’uomo era convinto che quello che si voleva far passare per un gesto estremo di un uomo disperato, fosse in realtà un omicidio. Una simulazione che serviva a chiudere la bocca per sempre a chi, dopo sette anni, aveva deciso di rompere la consegna del silenzio. Anche Guglielmo, appena appresa la notizia, parlò di finto suicidio, della seconda uccisione dopo quella di Serena; volle incontrare i familiari del carabiniere, abbracciò a lungo Maria, la figlia del brigadiere, con la complicità di chi sa cosa vuol dire perdere una persona cara. “Penso che mio padre”, gli confidò la ragazza, “durante le indagini sulla morte di tua figlia abbia assistito a qualcosa, abbia saputo qualcosa, e gli sia stato detto di non rivelare niente. Mio padre non è riuscito a tenersi tutto dentro e ha deciso, forse, di chiudere la sua vita in questo modo. Forse era stato minacciato, forse dalla stessa persona che gli aveva chiesto di non dire niente. Forse le minacce erano anche nei nostri confronti, poteva succederci qualcosa. Forse per proteggerci ha deciso di suicidarsi”. 

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La porta che Santino Tuzzi aveva aperto con le sue dichiarazioni si era drammaticamente richiusa.

Quello che il presunto suicida aveva messo a verbale non era sufficiente a trovare l’assassino, i pubblici ministeri dovevano ricominciare a tessere la trama che li avrebbe portati a stanare il carnefice di Serena. Ripresero tutti gli elementi che avevano in mano, ripartirono dai frammenti che l’omicida e chi lo aveva aiutato avevano lasciato sui poveri resti della ragazza. Gli esperti nel corso delle indagini, utilizzando apparecchiature sempre più sofisticate, isolarono sul nastro adesivo alcuni frammenti di impronte digitali, sul pantalone e sul maglioncino della studentessa particelle di sudore e sangue, quindici tracce biologiche, con il Dna di diverse persone. Quando mancavano pochi giorni all’undicesimo anniversario della morte della diciottenne, sulla base dei nuovi elementi di laboratorio, si svolse l’incidente probatorio davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cassino, Valerio Lanna. Al termine, vennero individuati due profili misti di Dna maschile sui vestiti indossati da Serena. Il perito incaricato dalla Procura, il professor Giuseppe Novelli, disse che si erano trovati di fronte a: “Una chiara firma involontaria dell’assassino”.

La perizia aveva rivelato anche un altro importante elemento per ricostruire quello che era avvenuto il primo giugno del 2001. Sui vestiti di Serena erano stati trovati dei licheni, funghi che non crescono a Fontecupa, dove il cadavere era stato ritrovato. Una ulteriore conferma che la ragazza era stata uccisa da un’altra parte e il suo cadavere trasportato nel bosco per occultarlo. Anzi, per farlo ritrovare proprio in quel luogo.

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Un caso di omicidio rimasto insoluto per oltre dieci anni aveva bisogno di una svolta, forse era arrivata. I magistrati presero di nuovo in considerazione le tre piste di maggiore interesse. Gli scenari privilegiati erano quello della droga, di cui Serena voleva denunciare il traffico, quello dell’approccio sessuale respinto, e quello che coinvolgeva Michele Fioretti, che aveva cominciato ad avere dubbi sulla fedeltà della fidanzata, come aveva confidato a due amiche. Il procuratore capo di Cassino, Mario Mercone e il pm Maria Beatrice Siravo, iscrissero nel registro degli indagati per omicidio volontario e occultamento di cadavere l’ex fidanzato di Serena, Michele Fioretti, che ormai aveva 38 anni e sua madre, Rosina Partigianone; l’allora maresciallo dei carabinieri, Franco Mottola, il figlio Marco, la moglie del maresciallo, Maria, e un altro carabiniere, Francesco Suprano, anche lui all’epoca dei fatti in forza alla caserma di Arce. A tutti gli indagati vennero prese le impronte dattiloscopiche e fu prelevato il Dna. La procura della Repubblica di Cassino voleva accertare sia la corrispondenza delle loro impronte digitali con i frammenti rilevati sul nastro adesivo, sia la compatibilità dei loro profili genetici con quelli ricavati dagli indumenti indossati dalla vittima. Gli stessi accertamenti furono condotti sui profili genetici del brigadiere Tuzzi, la sua auto venne analizzata palmo a palmo con i più moderni strumenti scientifici. Le analisi servivano inoltre a stabilire se Serena, il giorno della scomparsa, si fosse recata o meno alla stazione dei carabinieri di Arce, un luogo frequentato a lungo, anche forzatamente, da suo padre Guglielmo.

Guglielmo accolse la notizia di questo nuovo impulso alle indagini come una sorta di liberazione, quando le speranze sembravano sgretolarsi di fronte a un muro di gomma. “La mia ostinatezza”, commentò a caldo con i giornalisti che

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lo chiamarono, “viene ripagata oggi da un’indagine scrupolosa. Cominciamo a vedere i primi importanti risultati per scoprire chi ha ucciso Serena. Sono anni che faccio i nomi di chi ha ucciso mia figlia e nessuno mai mi ha denunciato. Come mai? Se fossero stati innocenti mi avrebbero massacrato”.

Nel gennaio del 2013 l’omicidio di Serena Mollicone sembrò tornare a essere un giallo senza fine, le speranze del padre di dare un volto a chi gli aveva ucciso la figlia si frantumarono di nuovo. Prima l’esame del Dna, poi quello delle impronte digitali rilevate sui sei indagati, risultarono negativi. L’ex fidanzato Michele Fioretti e la madre Rosina Partigianoni, l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, sua moglie Maria e il figlio Marco, l’altro carabiniere, Francesco Suprano, erano stati scagionati dall’ipotesi di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Il burocratico comunicato della procura dichiarava che: “I profili genetici e l’impronta dattiloscopica, a suo tempo rilevata sui nastri, non appartengono a nessuno degli attuali indagati. È emersa la necessità di ulteriori accertamenti genetici e dattiloscopici di tipo comparativo a più ampio raggio”. Si era tornati a una sorta di punto zero, con il rischio che la macchina che si muoveva sulle tracce dell’assassino si fermasse. Ma la partita alla ricerca del killer non era affatto finita.

Uscite di scena le sei persone indagate per mesi, la Procura ripartiva con una nuova pista, considerando le tecniche di legatura del corpo della diciottenne tipica di esperti in botanica, utilizzando le risultanze scientifiche che non si avevano dodici anni prima, analizzando i licheni trovati sugli indumenti della studentessa. Lo confermarono le parole del procuratore capo di Cassino, Mario Mercone: “Le nostre attenzioni si concentrano sulle frequentazioni di Se-

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rena. Abbiamo dei dati certi sui quali fare accertamenti, per cui le indagini devono proseguire”. Nuovi sopralluoghi vennero disposti nel bosco di Fontecupa e all’ex carcere vicino alla caserma dei carabinieri, mai entrato in funzione, per prelevare tracce vegetali sotto la direzione della professoressa Antonella Canini, ordinaria di Botanica all’Università di Tor Vergata e consulente della Procura di Cassino. Come aveva intuito il suo collega, il professor Novelli, l’individuazione della provenienza di questi organismi simbiotici era di fondamentale importanza, perché tipici di ambienti aridi, al contrario della zona dove era stato ritrovato il cadavere, un ambiente umido, a ridosso del fiume. Durante l’estate del 2013 ci fu una sorta di processione con un centinaio di indagati chiamati al comando provinciale dei carabinieri di Frosinone per le analisi papillari e genetiche. La caccia al killer era ancora aperta.

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Alla parete della stanza c’è un orologio a cui Jacopo tiene molto, non ha numeri, ma immagini di uccelli. Ogni sessanta minuti un richiamo diverso annuncia lo scoccare delle ore. Il cronista sente il verso del merlo e capisce che sono le otto del mattino; ha divorato quella lettura, non è riuscito a staccare gli occhi dai fogli nemmeno per un attimo. Adesso conosce la storia in tutti i particolari, prova ammirazione per quella donna che, senza chiedere garanzie o contropartite, gli ha affidato un manoscritto inedito. Un gesto inconsueto, segno di grande fiducia, in una società nella quale non sono rari i casi di persone che hanno copiato e saccheggiato opere di altri. Gli è piaciuta quella lettura, ha capito molte cose, anche se il finale del libro è aperto, non è il classico giallo che si chiude con il nome dell’assassino. Si ripromette di parlarne al più presto con l’autrice, nonostante sia turbato da una inaspettata sensazione. Non riesce a capire bene fino a che punto a spingerlo sulla strada della Ciociaria sia il solo caso di Serena o abbia un ruolo anche la voglia di approfondire la recente conoscenza con Lucrezia. Non si tratta di un sentimento, di una passione, ma di semplice curiosità, voglia di stare vicino a una persona gradevole, che lo spinge a cercare occasioni per incontrare, per la prima volta dopo tanto tempo, una donna. Jacopo esce da una convivenza di alcuni anni, dopo una intensa storia d’amore che si era infranta sulle incomprensioni e le paure, aveva promesso a se stesso di non ricaderci più per un bel pezzo. Rimugina il dubbio sul perché Lucrezia non abbia voluto rivelare la sua identità. È tentato di compiere un gesto

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scortese, ma che potrebbe salvarlo da un potenziale pericolo: rispedire il manoscritto al mittente con un biglietto di ringraziamenti e finire lì la collaborazione. Certo, così facendo il progetto di realizzare una trascrizione teatrale della vicenda di Serena, il motivo per cui sta approfondendo questo caso, subirebbe una battuta d’arresto. Alcuni mesi prima, Jacopo aveva assistito a uno spettacolo di teatro civile, la rappresentazione di un omicidio politico degli anni Settanta, gli anni di piombo. Era rimasto talmente colpito da quel lavoro che si era precipitato nei camerini e aveva voluto conoscere Fabrizio, autore e interprete del testo. Avevano cominciato a frequentarsi e il giornalista si era appassionato al mondo del palcoscenico, un mondo che conosceva poco, fino a quando Fabrizio gli aveva proposto di scrivere e mettere in scena la trasposizione di un fatto di cronaca. Avevano parlato di tanti fatti dell’Italia del dopoguerra: omicidi, stragi, misteri senza soluzione e casi risolti brillantemente. Poi la scelta dell’omicidio di Serena li aveva messi d’accordo, pesava sulla coscienza di entrambi l’idea che un assassino avesse potuto cancellare la vita di una giovane studentessa, avesse coinvolto altre persone per riuscire a farla franca e che fossero tutti ancora in libertà. Per Jacopo e Fabrizio tutto ciò era semplicemente inaccettabile. Decisero di scrivere una storia di cui non si conosceva il finale, non un bel noir dove tutti gli elementi sono noti, ma una rappresentazione teatrale che fosse anche un manifesto di protesta, una sorta di denuncia permanente dei criminali, un lavoro di impegno civile. Per di più l’omicidio di Serena apparve ai due meritevole di attenzione, perché maturato in un contesto di provincia, dove un forte intreccio di poteri aveva permesso l’impunità dei responsabili. Strane coincidenze legavano i colpevoli e coloro che avrebbero dovuto condurre le indagini, i luoghi dove si doveva trovare protezione forse erano diventati la scena del crimine, i potenti assessori

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locali andavano a braccetto con altri uomini delle istituzioni e tutti insieme controllavano il territorio come un feudo loro assegnato da un improbabile principe. Contro questo potere tanto impenetrabile c’era l’ostinazione di un maestro, la semplice tenacia di un padre.

Jacopo torna alla fine del libro, al settembre del 2013, alle nuove indagini non ancora concluse. Il giornalista è di corta, non deve andare al lavoro, richiude il manoscritto, lascia da parte ogni dubbio e dà seguito al primo impulso che lo assale, chiamare Lucrezia. “Bello il tuo testo, ma il finale?”. “Già l’hai finito? Il seguito è molto complicato, il caso è ancora aperto, ma una svolta potrebbe arrivare in qualsiasi momento”. “Quando possiamo parlarne?”.

Jacopo trova che il grande lavoro fatto da Lucrezia meriti una forma di riconoscenza; arriva all’appuntamento con le idee molto chiare, di chi vuole sdebitarsi e lo vuole far sapere. I suoi pensieri si offuscano un po’ quando si accorge che le gambe di Lucrezia, non più avvolte nei leggins ma scoperte da una audace minigonna, sono più seducenti di quanto potesse immaginare. Si stupisce di quella strana sensazione che gli provoca la vicinanza della donna, non crede di essere pronto per nuovi incontri, non con una persona che conosce da pochi giorni e di cui non sa nulla. Non ora. Forse è proprio questo che lo intriga, forse è quell’aura di mistero che circonda la nuova amica a dargli delle rinnovate emozioni, forse è solo una reazione istintiva a una prolungata astinenza affettiva. “Che ne dici se andiamo a casa mia? L’ultima volta ci hanno quasi cacciato dal locale”, esordisce Lucrezia.

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“Ottimo! Mi sembra una bella idea”, risponde Jacopo, non capendo se l’entusiasmo che lo pervade sia dovuto al fatto di poter lavorare in un luogo che lui ama, la casa, piuttosto che di scoprire qualcosa di più su quella recente conoscenza. Arrivano in una elegante palazzina di tre piani poco distante dai giardini pubblici di Sora, una aiuola ben curata e un acquario nell’androne testimoniano il livello di vita di chi vi abita. Saliti all’attico, Jacopo viene introdotto in una abitazione ben arredata, dove alcuni mobili moderni di design si mescolano sapientemente a pezzi di antiquariato: una antica credenza, una madia, la ruota di un pozzo riadattata a portariviste, un lavandino di marmo come portapiante. La cucina molto grande, il salone che si affaccia sul terrazzo, lo studio di Lucrezia pieno di carte, dvd, fotografie che a Jacopo danno la sensazione che regni una sorta di disordine ordinato, di confusione organizzata, dove la padrona di casa trovi agevolmente ogni cosa, proprio come capita a lui nel suo studio. Poi la zona letto celata da una porta scorrevole. “Ci mettiamo fuori, con questo caldo. Vuoi qualcosa da bere?”, chiede la donna mentre scompare facendo scorrere alle sue spalle, non completamente, la porta della cucina. “No, grazie. Non avevamo detto che ordinavamo delle pizze? Chiediamo anche della birra fresca”, risponde Jacopo. Pochi minuti dopo Lucrezia lo raggiunge sul terrazzo, tenendo un vassoio con due flut e qualche vaschetta piena di quelle che la donna presenta con un vezzeggiativo: “Dobbiamo brindare al nostro incontro, ho portato un po’ di schifezzine, perché siamo a stomaco vuoto”.

I cartoni della pizza e le bottiglie di birra sono in cucina, il tavolo su cui lavorano è pieno di appunti, articoli di giornali, copie di sentenze e interrogatori, tutti materiali che vengono dallo studio di Lucrezia. Dalla strada non arrivano più le voci e i rumori del sabato sera; l’orologio della chiesa comincia a battere le ore, al terzo rintocco il rumore di una chiave alla porta attira l’attenzione di Jacopo.

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“Lei è Ilaria, lui è quel giornalista di cui ti ho parlato”, dice Lucrezia introducendo la ragazzina identica alla madre. Jacopo saluta la nuova venuta alzando il braccio, rivelando un po’ d’imbarazzo per quella scena inaspettata. “Mamma mi ha detto che riaprite il caso di Serena”. “Non è proprio che lo riapriamo, cerchiamo di capirci qualcosa, sperando che si risolva presto”, risponde Jacopo. “Io ero piccola quando è successo, andavo alle elementari, ma ne ho sentito parlare tanto. I processi, i giornali, la televisione, anche tra noi ogni tanto qualcuno tira fuori una battuta, qualcun altro conosce i protagonisti, c’è chi racconta una sua versione e chi si dice sicuro di sapere come è andata esattamente”. “Beh, se hai qualche dritta da darci, noi siamo qui”, commenta, abbozzando un sorriso, il giornalista. La figlia di Lucrezia saluta e scompare dietro la porta della sua camera. Avrà più o meno l’età che aveva Serena quando è stata ammazzata, Jacopo non riesce neppure a immaginare quale dolore possa provocare la perdita di una figlia di diciotto anni . Pensa sia inconcepibile, semplicemente inconcepibile. Lucrezia non sa cosa passa per la mente del giornalista, vede solo che è un po’ turbato; per un attimo ha la sensazione di cogliere i suoi pensieri e il solo immaginare l’inimmaginabile le fa orrore. “Tu hai conosciuto Guglielmo?”, chiede Lucrezia per spezzare quell’atmosfera diventata all’improvviso pesante. “Mi ero ripromesso di farlo appena avessi conosciuto meglio la storia”, risponde Jacopo come risvegliato bruscamente, “adesso mi sento pronto. Tu lo conosci bene?”. “Diciamo che c’è stato un periodo in cui ci vedevamo tutte le settimane”. Jacopo continua a coltivare ogni sorta di dubbio, ma tiene fede alla consegna di non fare domande personali: “Allora incontriamolo presto”. La serata è stata molto piacevole per entrambi, sono un po’ dispiaciuti che sia arrivato il momento di lasciarsi, ma sanno che non passerà molto tempo prima che si rincontrino.

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Lucrezia accompagna Jacopo alla porta, si salutano baciandosi sulle guance e con l’impegno che lei cercherà il padre di Serena già da il giorno dopo. L’appuntamento è davanti alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo, alla fine del corso di Arce alle sei del pomeriggio. Jacopo attraversa con l’auto la strada principale, tutta in salita; pochi ragazzi parlano appoggiati a un muretto, tre avventori annoiati ai tavolini di un bar, la sensazione di una vita di paese che si trascina monotona e tranquilla. Guglielmo li aspetta al negozio distante cento metri dalla chiesa. Appena Jacopo mette piede nella cartolibreria, rimane colpito dalla grande quantità di cose che occupano ogni spazio fin sul soffitto. Sulla vetrina e sui muri i manifesti di molte iniziative, convegni, concerti, tornei sportivi, intitolati a Serena. Dietro al piccolo bancone Guglielmo, stretto tra un computer portatile e il registratore di cassa, li accoglie calorosamente. Ha i capelli bianchi e lunghi, reminiscenza di chi ha vissuto la beat generation, non indossa una camicia a fiori, ma ha tutta l’aria di chi conosce la parola contestazione. È felice di rivedere Lucrezia e i suoi occhi lo fanno capire, è interessato a quella visita del giornalista e lo testimoniano le sue parole: “So che si sta occupando del caso di mia figlia, la ringrazio. In questi anni non ho mai smesso di cercare la verità e non smetterò fino a che quelli che mi hanno portato via Serena non saranno scoperti e condannati”. “Non è meglio se ci diamo del tu? Sono io che ti ringrazio per, non so come dire, l’insegnamento civile di chi non ha scelto il silenzio, di chi non si è fatto vincere dalla paura; non deve essere facile continuare a combattere restando in paese, accusando gli assassini”. Scelgono di restare nel negozio, in piedi in mezzo alle cataste di libri e di gadget, di tanto in tanto qualche cliente si affaccia e si rivolge a Guglielmo con grande cordialità. Entra anche la moglie del nuovo comandante della stazione dei carabinieri di Arce e Guglielmo ci tiene a presentarla, aggiungendo che da quando c’è lui in paese, si è fatta finalmente pulizia di tante illegalità, di tanti soprusi.

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“Vedendo oggi questo paese, devo dire che la morte di Serena è servita a qualcosa, lo ha ripulito di tutto il marciume che regnava quando lei è stata uccisa. Sapere che il suo sacrificio non è stato vano, che ha salvato altre giovani vite, è di grande conforto”. Jacopo racconta del suo progetto teatrale, Lucrezia consegna una copia del manoscritto a Guglielmo affinché le dia un parere. L’uomo lo prende, maneggiandolo con cura, come se fosse di vetro: “Questo l’hai scritto durante il processo?”. “L’ho scritto subito dopo, non ce la facevo a tenermi dentro questa storia che non aveva trovato un colpevole”, risponde Lucrezia, alzando lo sguardo verso Jacopo. Il cronista la guarda con aria interrogativa, scuote il capo, lei risponde ruotando l’indice della mano su se stesso, il gesto di chi rimanda a dopo ogni spiegazione. Jacopo annuisce. “A che punto sono i confronti del Dna e delle impronte digitali?”, chiede Jacopo cambiando discorso, quasi a sottolineare che la novità appresa casualmente non lo ha colpito più di tanto. “So che adesso hanno allargato i prelievi a più di duecento persone, ho saputo che hanno preso i campioni a persone di Teano, il paese di cui era originario il maresciallo Mottola”. “Secondo te come sono andate le cose?”, chiede diretto Jacopo. “Secondo quello che io vado ripetendo da anni, facendo nomi e cognomi, se nessuno mi ha denunciato è perché dico la verità. Serena sapeva che in paese c’era un grosso giro di droga, conosceva gli spacciatori, qualcuno lo frequentava anche. Quella maledetta mattina si trovava in macchina con uno di loro, forse più di uno, sono passati al bar della Valle, chi li ha visti aveva visto giusto, ma poi per paura, quando ha saputo che c’erano di mezzo i carabinieri, ha ritrattato. Quella donna, quella Simonetta, ha riconosciuto nelle foto proprio il figlio del maresciallo”. “Ha fatto un riconoscimento?”, domanda il cronista. “Gli agenti sono andati da lei, le hanno mostrato le foto dei ragazzi che erano intorno alla bara di Serena il giorno del funerale, lei non ha avuto dubbi e ha indicato uno di loro come l’accompagnatore di mia figlia quel venerdì mattina, il giorno della scom-

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parsa. Solo che, davanti al magistrato, dopo che ha saputo chi era il padre di quel biondino, ha ritrattato tutto e addio riconoscimento. Lungo la strada Serena avrà avuto un battibecco con Marco, il figlio del comandante della stazione o con qualcun altro, io non posso sapere chi c’era in quella macchina. Lei era indignata dal fatto che in paese girassero sostanze mortali, forse aveva paura che volessero darle anche al fidanzato, fare di lui un tossico”. “Ti risulta che avvenissero cose simili?”, domanda Lucrezia. “In quel giro c’erano state altre volte delle liti, perché qualche spacciatore voleva avviare all’uso di droghe pesanti qualche ragazzo i cui parenti e amici si erano opposti, se ne è parlato anche al processo”. “Quindi una discussione nata in macchina, una lite pesante,” cerca di riassumere Jacopo attento a non perdere il filo del discorso, “con Serena che minacciava di andare a dire tutto ai carabinieri?”. “Sì. E l’altro, forte di qualche protezione altolocata, potrebbe averla sfidata, arrivando a proporle di portarcela lui stesso alla caserma dei carabinieri”. “Proprio come aveva detto Santino Tuzzi, che quella mattina la aveva vista arrivare in caserma, dalla quale però non la aveva vista più uscire”, aggiunge Lucrezia. “Mia figlia è stata inghiottita da quelle mura dove era andata per chiedere protezione, cercava giustizia, ha trovato una banda di assassini”. “Allora chi potrebbe averla uccisa?”, incalza Jacopo. “La dinamica non è del tutto chiara, i soggetti sospettati di aver colpito mia figlia sono più di uno. Certo qualcuno che si muoveva in quella caserma con piena agibilità, qualcuno che ci viveva o ci lavorava, o qualcuno protetto da chi ci viveva o lavorava. Io ho in mente quella che potrebbe essere una ricostruzione realistica: Serena dichiara le sue intenzioni di denunciare chi spaccia droga, l’interlocutore la colpisce con un attrezzo che si trova lì vicino, come un arnese per camino, un attizzatoio. Oppure viene colpita e cade sbattendo la testa, forse contro una porta. Lo sapevate che nella caserma manca una porta? E che a terra, davanti alla porta sparita, è stata trovata una grande macchia di

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acido, come hanno rilevato gli uomini del Ris? Come se avessero pulito a fondo quel pezzo di pavimento”. “E quindi qualcuno che abbia pulito con l’acido il sangue sul pavimento, poi abbia tolto la porta, perché il legno, a differenza delle mattonelle, poteva aver assorbito il sangue, e non ci sarebbe stata la certezza che con il Luminol non si sarebbe evidenziato?”. “Certo. Il resto”, conclude Guglielmo, “lo ha confermato chi ha fatto l’autopsia. Dal sopracciglio di Serena zampilla sangue, lei perde i sensi. È qui che io non riesco a darmi pace, perché mia figlia poteva ancora essere salvata, ha vissuto una lenta agonia”. “Perché non l’hanno fatto?”, interviene Lucrezia. “Perché avrebbero dovuto rivelare i motivi per cui Serena era andata lì, oppure lo avrebbe fatto lei una volta ripresasi dal trauma. L’hanno soffocata, non hanno avuto pietà di una ragazzina”. È ancora ferito il maestro, carico di rabbia, ma fermo e deciso come chi sa che non si darà pace fino a che non avrà trovato il carnefice di sua figlia. Jacopo e Lucrezia si scambiano con gli occhi un dialogo muto, con lui che sembra interrogarsi sulla necessità di andare avanti e lei che lo tranquillizza facendogli capire che quelle parole sono anche liberatorie. “Poi c’è stata la farsa del ritrovamento del corpo”, prosegue il papà, “bisognava allontanare i sospetti dal luogo dell’omicidio, e quale occasione migliore del carrozziere che dice di averla vista la mattina, mentre un ragazzo la strattonava al bar della Valle? Infatti è lì vicino che viene ritrovato il corpo. Della caserma non si parla, a Santino è stato detto di non parlarne”. “Bisognava far credere”, aggiunge Jacopo, “che Serena fosse morta lì dove era stata trovata”. “Secondo una messa in scena”, replica Guglielmo, “ma lei è rimasta sempre nella caserma, agonizzante per ore. Hanno avuto tutto il tempo e la tranquillità di confezionare il cadavere con il nastro, il fil di ferro e la busta di plastica, probabilmente a pochi metri da dove era morta, quasi sicuramente nell’edificio che ospita le celle in disuso, circondato da alte mura e accessibile con l’auto-

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mobile. Nella giornata di sabato, mentre tutti cercavano mia figlia, hanno ascoltato le parole di Carmine Belli, e hanno scelto il bosco di Fontecupa. La notte tra il sabato e la domenica sono andati sul posto, forse con due automobili, perché c’era bisogno di un basista, di qualcuno che si assicurasse che non ci fossero occhi indiscreti durante la preparazione della messa in scena dentro la radura”. “Se una macchina avesse avuto i lampeggianti sarebbe stato pure meglio”, commenta Lucrezia. “Ci sono troppe stranezze”, prosegue Guglielmo, “secondo voi è normale che al processo non sia stato ascoltato il carabiniere che in un primo momento aveva condotto le indagini, il capitano Gianluca Trombetti, comandante della stazione di Pontecorvo? Alla prima convocazione non si presentò e fornì un certificato di malattia; il processo finì senza che lui avesse deposto”. “E cosa avrebbe potuto aggiungere?”, domanda Jacopo. “Tante cose che non tornano. A cominciare da quella sensazione che hanno avuto tutti quelli che sono arrivati sul posto, appena Serena è stata trovata. Un corpo adagiato con cura in fondo allo spiazzo, con i rami piegati sopra, ma con le caviglie ben scoperte, il cassone spostato per fornire un alibi a chi il giorno prima non l’aveva vista, il cadavere bagnato a macchia di leopardo per far credere che fosse lì già ventiquattro ore prima, la bottiglia d’acqua vicino al corpo...”. “Descrivi una scena come l’avessi vista”, nota il giornalista. “Io non ero mai stato lì, avevo parlato con chi ci era stato, avevo visto le foto e i filmati al processo. La prima volta che sono entrato nella radura è stato pochi mesi fa, con una troupe della tv e con una sensitiva, Emanuela. Io a certe cose ci credo, e quando la veggente è arrivata, è andata diretta verso dove hanno lasciato Serena, pur non essendoci mai stata prima. Arrivata davanti agli ultimi alberi, prima che si entri in quella che una volta era una specie di discarica, si è bloccata, non ce l’ha fatta a proseguire. È rimasta sconvolta, si è sentita male. Poi siamo andati nel vecchio carcere dietro la caserma, lei lo ha descritto così com’era, prima di vederlo, ha parlato di una porta stretta che era proprio come quella che c’è dietro l’edificio. Appena siamo arrivati davanti alla piccola entrata, la donna ha avuto la visione di più persone che

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trasportavano Serena, si è fermata di nuovo ripetendo che era tutto troppo crudele”. Jacopo è colpito da questo racconto e dalla suggestione che riesce a dargli Guglielmo, gli sorge spontaneo, forse un po’ ingenuamente, chiedere perché finora non si è arrivati agli assassini. “Dovevi vedere cos’era in quegli anni Arce, cos’era questa zona, con il giro della droga, la caserma dei carabinieri in cui entravano ragazze minorenni, assessori che avevano intestate centinaia di schede telefoniche per organizzare chissà quali traffici, camorristi che sceglievano il paese per venire a viverci. In quegli anni un capocamorra acquistò una villa a Colle Olivo, ci organizzava feste all’americana, con vassoi di ostriche e champagne. Conosco un vecchio che abitava lì vicino e che mi raccontò di una volta in cui era stato invitato nella villa, ed era quasi fuggito via quando aveva visto tutto quel lusso, tutta quella ostentazione di soldi. Mi disse che lì aveva visto il sindaco, gli assessori, i carabinieri, persino il parroco”.

Arriva l’ora di chiusura del negozio, Guglielmo invita i due ospiti a Rocca d’Arce, dove si è trasferito dopo la morte della figlia, la vecchia casa in paese, piena di ricordi non era un luogo dove potesse stare. Raggiungono una moderna costruzione indipendente, immersa nel verde, popolata di animali; prima di entrare in casa, Guglielmo mostra il locale dedicato agli uccellini, dove sono stipate decine di gabbiette. “Io non avevo mai pensato di allevare uccellini, ho cominciato a raccogliere qualche passerotto ferito, il mio intento era di proteggerli, non tenerli prigionieri. Quando c’era Bernarda ne avevo un centinaio, dopo la sua morte avevo abbandonato l’allevamento, regalando tutti gli esemplari agli amici. Quando Serena se ne è andata, ho ripreso questa passione, mi aiuta molto”. Ad accogliere il terzetto sulla porta di casa, c’è una ragazza minuta, molto somigliante a Serena, che appena incrocia i loro occhi abbassa i suoi, rivelando una grande timidezza. Consuelo vive lì da quando ha ottenuto l’insegnamento vici-

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no al suo paese di origine, invita gli ospiti a entrare, offre loro da bere. In una stanza e nel giardino gironzolano alcuni cani, quelli che Serena amava tanto. Di quella famiglia di quattro persone, ne restano soltanto due, entrambe senza stabili legami sentimentali. Guglielmo in questi anni ha cercato una nuova compagna, se è rimasto solo è perché trovare una persona con le qualità di Bernarda non è stato facile. Dopo la scomparsa della moglie, donne a fianco Guglielmo ne ha avute, ma con nessuna ha instaurato un rapporto duraturo. I tre parlano ancora un po’, si è fatta l’ora di cena, si salutano affettuosamente con l’impegno di risentirsi presto. Il corso di Sora è affollato, si cammina a stento, i tavolini dei bar sono pieni, capannelli di persone intasano le strade, il sabato sera tutti vogliono approfittare di questo scampolo di estate, prima che il grigiore dell’autunno inghiotta la bella stagione. Forse Jacopo e Lucrezia vorrebbero godersi il fresco della sera dopo l’ennesima giornata afosa, vorrebbero parlare della loro vita, delle loro paure, dei loro sogni. In fondo sono due sconosciuti, anche se sentono che il motivo per cui si sono incontrati non è la cosa più forte che li lega. Jacopo, tornato single, non sa neppure se l’amica ha un legame, di certo ha una figlia di diciott’anni, di sicuro è bella e starebbe a parlare con lei ore e ore. “Sì Jacopo, non ti ho detto che sono stata giudice popolare al processo contro Belli. Avrei preferito che questa cosa rimanesse fuori, per non darti la sensazione che io agisca per un coinvolgimento personale”. “Non ti preoccupare, questa notizia non cambia nulla”. “Ho vissuto tutti i mesi del processo, la proiezione dei filmati, autopsia compresa, il corpo legato perfettamente, abbandonato in quello squallido posto, la sfilata dei testimoni, le reticenze, i non ricordo, le paure, con la verità che è rimasta fuori dall’aula del tribunale”. “Non deve essere stata una esperienza facile”.

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“È stata durissima, Ilaria era ancora una bambina, immaginavo che se fosse capitato a me, sarei impazzita”. “Certo Guglielmo ne ha di forza”. “Io credo di capire cosa lo sostenga, la molla che lo spinge ad andare avanti è la ricerca degli assassini, guardarli in faccia, vederli condannati. Quella è diventata la sua ragione di vita”. “Insieme al desiderio di restare vicino a Consuelo, lei che non è riuscita a costruirsi una famiglia e che ha nel legame con il padre il sentimento più forte”. “Il padre mi ha raccontato di alcune esperienze sfortunate della figlia con gli uomini e della sua paura, il giorno in cui lui non dovesse esserci più, di non sapere come reagirebbe Consuelo“. “Guglielmo è ancora giovane, ce ne vorrà...”, Jacopo vorrebbe domandare a Lucrezia della sua famiglia, del padre di Ilaria, del perché non lo ha mai incontrato e perché lei non ne abbia mai parlato. Avrebbe tante domande personali da fare, ma non considera quello il contesto giusto. Data l’ora, decidono di andare a cena in un locale verso Isola del Liri, uno dei meno affollati della zona. Durante la cena non smettono mai di parlare; quando escono, si fermano davanti alle cascate del fiume al centro del paese, con la luna all’ultimo quarto e il cielo pieno di stelle, il rumore dell’acqua in sottofondo. Quel suggestivo scorcio ha un grande fascino su entrambi, Jacopo a volte sembra estraniarsi da quei discorsi di perizie e testimoni, di rilievi e retroscena, carabinieri e poliziotti, Arce, Fontecupa, Sora, Serena, Guglielmo, Carmine il carrozziere, Michele il fidanzato, Fabio il tossico, il maresciallo Franco e suo figlio Marco. Si sente confuso, forse non sono quelle le parole che vuole sentire e che vuole dire, ma altre parole non escono dalla sua bocca, perché ha una grande paura di rovinare tutto. È tardi, si salutano come al solito con un bacio sulla guancia, poi ognuno a casa sua, con un carico di rimpianti e la segreta speranza di rivedersi ancora.

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La stesura di questo libro è stata condotta grazie alla collaborazione di molte persone, a cominciare da Guglielmo Mollicone, sempre disponibile a parlare della sua drammatica vicenda. Molto utili sono stati gli incontri con l’avvocato Dario De Santis, l’ex sovrintendente della polizia Giuseppe Pizzo, il criminologo Carmelo Lavorino e l’inviato di “Chi l’ha visto?” Enrico Compagnoni. Un importante contributo è venuto da Suzanne Hayes, impegnata da tempo alla ricerca della verità sulla morte di Serena. Alla revisione del testo si sono dedicati con impegno Cynthia Canti, Angelo e Franca Nazio, Marcello Gallo e Lorena Piras. A ognuno di loro va il mio sentito ringraziamento, sottolineando che ogni errore presente nel libro, ancorché involontario, è da attribuire esclusivamente al sottoscritto. Il ringraziamento più grande va alla famiglia, alla mia compagna Serena e mamma di mio figlio Guglielmo, che hanno sopportato gli inevitabili inconvenienti dovuti alla realizzazione di questo lavoro. Pino Nazio

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NELLE NOSTRE EDIZIONI DELLO STESSO AUTORE

Il bambino che sognava i cavalli. 779 giorni ostaggio dei corleonesi Una terribile storia. Una storia che non doveva essere scritta perché non doveva esistere. Ma non è andata così. I fatti e personaggi sono tutti veri e ogni riferimento alla realtà non è casuale. Questo libro contiene un capitolo chiuso, che può essere saltato senza perdere nessun elemento della narrazione. È chiuso perché arrivati lì si possa essere liberi di decidere di non scendere i gradini che portano in un abisso, in un inferno che spaventa e innoridisce perché inesorabilmente vicino a noi. pp.400 2010

Il segreto di Emanuela Orlandi. Papa Wojtyla, la tomba del boss e la banda della magliana Lunedì 14 maggio 2012, la lapide che copre il sarcofago di Enrico De Pedis viene alzata. I resti del capo della banda della Magliana sono lì da 20 anni, in molti pensano che siano vicini a quelli di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno del 1983. La ragazzina, figlia di un commesso del Papa e cittadina vaticana, sparì misteriosamente tra i vicoli del centro di Roma. Indagini, rivelazioni, depistaggi e decine di ipotesi: intrigo internazionale o ricatto interno al Vaticano, festini sessuali o maniaco isolato? Una vicenda ambigua, oscura ma che, se si mettono in relazione alcuni fatti salienti, rivela un chiaro disegno. L’analisi oggettiva di quanto è accaduto in questi 30 anni è servita all’autore - che ha incontrato decine dei protagonisti, visitato tutti i luoghi, raccolto testimonianze inedite - per proporre una ricostruzione che permette di leggere questo libro come la trama di un romanzo e la documentazione di un saggio. Dalla prima all’ultima pagina. pp.176 2012

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IL MISTERO DEL BOSCO

Pino Nazio (Roma, 1958) è sociologo, giornalista e autore televisivo. Dal 1992 è stato inviato del programma di Raitre “Chi l'ha visto?”, ha diretto per sette anni i canali satellitari di UnireTv, ha ideato e realizzato per la tv oltre mille servizi, spot, documentari e reportage, in Italia e all’estero. Ha scritto saggi sulla comunicazione: Le parole della tv, Il manuale del giornalista televisivo e Chi è della tv. Nelle nostre Edizioni ha pubblicato Il bambino che sognava i cavalli - 779 giorni ostaggio dei Corleonesi (2010), Il segreto di Emanuela Orlandi – Papa Wojtyla, la tomba del boss e la banda della Magliana (2012).

Pino Nazio

Serena Mollicone scompare da Isola Liri il primo giugno del 2001. Due giorni dopo, una squadra della protezione civile trova il corpo della studentessa nel boschetto di Fontecupa. Ha le mani e i piedi legati, un sacchetto di plastica le avvolge la testa, e una ferita vicino all’occhio provocata da un colpo violento che non può averla uccisa. Serena è morta dopo una lenta agonia ed è stata portata nel bosco poche ore prima del ritrovamento. La caccia all’assassino e ai suoi complici è ancora aperta.

Pino Nazio

Il mistero del bosco L'incredibile storia del delitto di Arce

SOVERA

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