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Italian Pages XIV,126 [140] Year 2012
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STUDI SULL’IDENTITÀ
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IL MERCATO DEI CORPI
Politiche di contrasto e vie di fuga a cura di Anna Rita Calabrò
ISSN 1972-0807
Liguori Editore
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Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2012 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Ottobre 2012 Calabrò, Anna Rita (a cura di) : Il mercato dei corpi. Politiche di contrasto e vie di fuga/Anna Rita Calabrò (a cura di) Studi sull’identità Napoli : Liguori, 2012 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5833 - 2 1. Immigrazione e Politiche sociali
2. Sfruttamento sessuale
I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Aggiornamenti: ——————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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INDICE IX
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Prefazione Inquadramento del fenomeno di Ferdinando Buffoni Introduzione Il mercato dei corpi di Anna Rita Calabrò
15
Tratta di esseri umani e migrazioni femminili nel mondo globale di Giovanna Campani
29
Tratta e schiavitù. Le ambiguità del diritto e delle politiche pubbliche di Marco A. Quiroz Vitale
45
Il consumo del corpo nella società contemporanea di Luisa Leonini
63
L’Italia delle opportunità: la rete dei servizi dall’accoglienza all’inserimento sociale di Palma Felina
81
Le donne sfruttate sessualmente. Il caso rumeno di Francesco Carchedi
99
Nigeria-Italia: le vie della tratta di Anna Pozzi
111
Bibliografia
125
Gli autori
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PREFAZIONE INQUADRAMENTO DEL FENOMENO Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Ferdinando Buffoni
Per delimitare l’ambito dell’argomento di cui ci occuperemo, andiamo anzitutto a definire che cosa intendiamo per tratta di esseri umani e, per farlo correttamente, facciamo riferimento al nostro diritto positivo e, precisamente, al Codice Penale. L’art. 601, nella stesura definitiva dell’anno 2003, a seguito di successivi rimaneggiamenti sui quali per esigenze di sintesi dobbiamo sorvolare, definisce autore di tratta: “chiunque induce una persona, con lo scopo di ridurla in schiavitù, mediante inganno oppure la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno; oppure chi usa analoghi metodi di persuasione criminale nei confronti di chi è già indotto in schiavitù”.
La riduzione (o il mantenimento) in schiavitù consiste, ai sensi del precedente art. 600 del Codice Penale, nell’esercitare su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero nel ridurre o mantenere una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. La Corte di Cassazione, con un orientamento ormai consolidato, ha ulteriormente precisato che la riduzione in schiavitù consiste nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima è costretta a svolgere date prestazioni, senza che abbia rilievo un eventuale consenso, escludendosi a priori
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PREFAZIONE
che un soggetto che non sia affetto da particolari turbe psichiche possa prestare il consenso alla propria reificazione e, quandanche un consenso venga prestato, “non avrebbe, sul piano giuridico, alcun rilievo e certamente non sarebbe pienamente scriminante nei confronti dello ‘schiavista’, stante l’indisponibilità del bene della libertà personale, qualunque sia la cultura dei soggetti coinvolti”. La attuale configurazione della fattispecie delittuosa nel nostro ordinamento riproduce in modo pedissequo la terminologia e la sostanza di quanto a suo tempo previsto nel Protocollo addizionale della Costituzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta delle persone, sottoscritto nel corso della Conferenza di Palermo nell’anno 2000. In tale occasione, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel prendere atto che una efficace lotta alla tratta richiede un approccio internazionale globale nei paesi di origine, transito e destinazione, impegna ogni Stato parte ad adottare le misure legislative per conferire il carattere di reato alla tratta e per garantire le necessarie misure di assistenza e tutela delle vittime facilitando il rimpatrio delle stesse. Il fenomeno è in effetti di proporzioni terrificanti. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima in circa 500 mila le donne che ogni anno sono vittime di traffico, prevalentemente per lo sfruttamento sessuale, ed immesse nel mercato dell’Europa occidentale. Ma nel mondo sarebbero almeno 2,7 milioni, secondo le Nazioni Unite, le vittime di tratta, di cui l’80% è costituito da donne e minori che vengono venduti annualmente nel mondo ai fini di sfruttamento della prostituzione, di riduzione in schiavitù per lo sfruttamento lavorativo o per l’acquisto in matrimonio. In Italia, le vittime della tratta sarebbero, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, tra le 19 mila e le 26 mila, mentre, secondo i dati CARITAS, supererebbero le 30 mila. TRANSCRIME, il Centro Interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale della Università di Trento e della Cattolica di Milano conta tra le 19 e le 40 mila persone. Don Oreste Benzi, della Comunità Papa Giovanni XXIII, parla addirittura di 70/100 mila donne straniere trafficate in Italia per l’industria del sesso a pagamento per un giro di affari di alcuni miliardi di euro ogni anno. Si tratta di dati approssimativi ed incerti, atteso che siamo di fronte a un fenomeno assai complesso che per sua natura si sviluppa nell’illegalità e nella clandestinità, ma tuttavia sintomatici di una dimensione che suscita impressioni di terrore e smarrimento.
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PREFAZIONE
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1. La legislazione italiana nel contesto internazionale Il quadro normativo in materia di immigrazione è nel nostro Paese un insieme di disposizioni poco coerenti tra loro che oscillano tra posizioni severamente restrittive ed orientamenti di apertura e di favore, poiché ispirate nel tempo, in conseguenza delle diverse maggioranze politiche di governo, da coscienze di opposti orientamenti e differenti sensibilità e, spesso, dettate dall’emotività legata a fatti emergenziali o ad episodi di profondo impatto nella pubblica opinione. Sul versante della materia di cui qui ci occupiamo, il nostro legislatore ha da tempo adottato una delle normative specifiche più avanzate e complete nel panorama europeo, mostrando un notevole grado di attenzione e di maturità civile e sociale nel valutare preminente la tutela della persona umana, piuttosto che le esigenze investigative o processuali. Viene qui particolarmente in evidenza l’art. 18 del T.U. sull’immigrazione (D.Lgs 25 luglio 1998, n. 286) nel quale si esprime un orientamento protettivo delle vittime anzi che punitivo del reo, nel senso che, come è stato autorevolmente sottolineato, la protezione sociale delle persone trafficate non è un mero strumento dell’azione penale, ma anzi la tutela dei diritti delle persone coinvolte è essenziale e prioritario, di pari rango rispetto all’interesse dello Stato alla punizione di reati così gravi. In sostanza, si introduce nell’ordinamento una possibilità di accesso al permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, al fine di consentire allo straniero di uscire dai condizionamenti di un’associazione dedita alla tratta e di partecipare a programmi di assistenza ed integrazione, quando siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità. Questo istituto è stato oggetto di significativa considerazione in ambito internazionale oltre che europeo. Il Rapporto del 2007 sulla tratta, redatto dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, nell’analizzare la disciplina italiana sulla materia, richiama l’importanza dell’art. 18 del T.U. sull’immigrazione non soltanto ai fini della prevenzione e della repressione della tratta, ed ovviamente ai fini di garantire un’effettiva tutela delle vittime, ma anche ai fini di “orientamento culturale”, per promuovere cioè nell’opinione pubblica una più forte consapevolezza in ordine al fenomeno e alle necessità di cooperazione per le associazioni impegnate in questo campo. Ma soprattutto, l’indirizzo italiano ha raggiunto l’apice del successo in occasione del semestre italiano di presidenza UE, allorché il permesso di soggiorno di cui all’art. 18 ha rappresentato il paradigma cui si è ispirata
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PREFAZIONE
la direttiva 2004/81/CE sul “titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime di tratta” che ha sancito l’obbligo, in capo agli Stati membri, di introdurre nei rispettivi ordinamenti un istituto del tutto analogo a quello italiano. La Direttiva si è anche spinta oltre, affermando la necessità di prevedere il diritto per le vittime di usufruire di “un periodo di riflessione”, prima di scegliere se avvalersi o meno del titolo di soggiorno speciale; periodo in cui non può eseguirsi a nessun titolo un’eventuale espulsione della persona. Tuttavia, proprio il 18 ottobre scorso, in occasione della Giornata Europea contro la tratta di esseri umani, la Commissione ha espresso le proprie critiche sull’attuazione della direttiva ed ha lamentato “essere inaccettabile che sulle centinaia di migliaia di persone – perché queste sono le stime – ogni anno vittime della tratta verso l’UE o nel suo territorio, solo qualche migliaio riceva assistenza”. Di conseguenza, si afferma la necessità di “mobilitare ogni mezzo per rafforzare la prevenzione, l’attività di contrasto e la protezione delle vittime”. Il fermo impegno della Commissione Europea a combattere la tratta trova ulteriore riscontro anche nella nuova proposta di Direttiva presentata nello scorso marzo. La proposta contempla la sollecitazione a una maggiore incisività del diritto penale sostanziale (nel senso di una definizione comune dei reati di tratta e delle circostanze aggravanti, di una previsione di sanzioni più severe e della non applicazione di sanzioni alle vittime) ed inoltre stimola l’introduzione di garanzie migliori per l’assistenza e la protezione delle vittime, esorta infine ad esplicare maggiore impegno nell’attività di prevenzione.
2. Misure di assistenza alle vittime Come è noto il legislatore italiano, con la legge 228/2003, ha ulteriormente rafforzato l’attività di tutela e assistenza delle vittime della tratta, prevedendo l’istituzione di un fondo specifico, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per la realizzazione di programmi che garantiscano, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza per le vittime. In ottemperanza alle disposizioni di tale legge, il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, dal 2000 al 2007, ha bandito 9 avvisi per la presentazione di progetti in questo ambito e ne ha cofinanziati 490 che interessano l’intero territorio nazionale. Secondo i dati in possesso del Dipartimento, nel periodo 2000/2006 il numero di persone che sono entrate in contatto con i progetti ed hanno
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PREFAZIONE
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ricevuto una prima assistenza sono state oltre 45.000. Non tutte hanno avuto la possibilità, o hanno scelto di aderire ai programmi di protezione sociale, ma tutti hanno ricevuto, in ogni caso, un primo aiuto consistente per lo più in accompagnamenti assistiti presso strutture sanitarie, o hanno usufruito di consulenza legale. Secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno, i permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari – protezione sociale ex art.18 – sono stati complessivamente 422 nell’intero anno 2007 e 664 nel 2008. C’è chi ritiene che la legge 228 del 2003, insieme all’art. 18 del T.U. sull’immigrazione, abbiano consentito alle forze dell’ordine ed alla magistratura di intervenire in maniera efficace nelle azioni di repressione e prevenzione della tratta, garantendo per altro verso una tutela effettiva alle vittime anche e soprattutto mediante i programmi di assistenza. Noi riteniamo che, come ogni normativa, anche questa potrebbe essere oggetto di ulteriori miglioramenti e, soprattutto, che migliori risultati potrebbero realizzarsi con politiche di contrasto più diffuse e partecipate che coinvolgano anche l’orientamento culturale di quanti, più o meno consapevolmente, “usufruiscono” dello sfruttamento e, quindi, lo alimentano, o semplicemente, più o meno ipocritamente, ignorano il fenomeno.
3. Per una maggiore efficacia dell’azione di contrasto Da più parti vengono formulate proposte migliorative delle norme penali di contrasto, anche sul terreno dell’aggressione del patrimonio dei responsabili o nel senso di un ampliamento delle ipotesi di responsabilità da reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni eventualmente coinvolte nel delitto di tratta. Ulteriore ipotesi migliorativa è l’istituzione di un fondo, finanziato con la devoluzione delle sanzioni pecuniarie nonché con i proventi derivanti dalla confisca dei beni patrimoniali delle organizzazioni criminali, per promuovere iniziative e programmi di sensibilizzazione, informazione, educazione, riduzione del danno, promozione dei diritti delle vittime. Servono, dunque, politiche integrate e non ricette monodose come quelle che invocano la proibizione della prostituzione. Nel contesto italiano, interessato da processi migratori attraverso i quali agiscono traffici finalizzati allo sfruttamento, la proibizione tout court della prostituzione avrebbe come conseguenza l’entrata in clandestinità di una attività difficilmente eliminabile e verrebbero occultate e rese invisibili le persone schiave e sfruttate.
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PREFAZIONE
Il rischio esiste anche con il divieto assoluto di prostituzione in strada. La costrizione al chiuso coinvolgerebbe anche tante persone deboli e svantaggiate, che sarebbero relegate in spazi invisibili e, pertanto, rese più isolate, ricattabili, insicure, e si creerebbe maggiore difficoltà per gli operatori sociali di entrare in contatto con le vittime per offrire loro protezione e proporre la denuncia degli aguzzini. In attesa che intervengano le disposizioni normative auspicate, molto è possibile fare ottimizzando le risorse e gli strumenti già esistenti e, in particolare: – incrementando sul territorio il lavoro in rete per migliorare la collaborazione tra la magistratura, le forze dell’ordine, gli enti pubblici e del privato sociale accreditati; – organizzando momenti di formazione sulle delicate problematiche connesse al riconoscimento delle potenziali vittime di tratta, per gli operatori delle forze di polizia e quelli pubblici e privati che lavorano a stretto contatto con gli immigrati; – sviluppando il ruolo delle Prefetture, presso le quali sono incardinati organismi per il raccordo ed il coordinamento dell’ azione amministrativa generale provinciale (la conferenza permanente dei servizi), delle complesse strategie in materia di ordine e sicurezza pubblica (i comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica), delle iniziative di approfondimento e di gestione delle problematiche connesse al fenomeno immigratorio (consiglio territoriale per l’immigrazione); – dare un rinnovato impulso presso le amministrazioni locali a quei luoghi nei quali, tra il livello di governo e la vita dei cittadini, più soggetti possono trovarsi a collaborare ed aiutare l’adozione di strategie e decisioni. È necessario, infine, moltiplicare le occasioni di sensibilizzazione, di ascolto, di approfondimento culturale, di coinvolgimento di studiosi per un approccio multidisciplinare nei confronti di un fenomeno così complesso e in continua trasformazione.
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INTRODUZIONE IL MERCATO DEI CORPI Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Anna Rita Calabrò
Da quello che si legge e si dice, sembrerebbe che la maggior parte delle donne immigrate faccia o la prostituta o la badante. Due parole connotate entrambe negativamente: prostituta richiama al mestiere – che si dice ‘essere il più antico del mondo’ – di colei che, per calcolo utilitaristico, vende sesso in cambio di denaro; badante indica un nuovo mestiere, una nuova servitù: mestiere umile, senza alcuna professionalità che chiunque – se donna e quindi ‘naturalmente’ portata all’accudimento – può fare. Ovviamente non è vero. Non è vero che la prostituzione indichi una pratica sociale che si riproduce immutata nel tempo perché tale fenomeno, oggi, non solo non ha gli stessi caratteri del passato, ma indica una realtà molto variegata e complessa tanto da comprendere vere e proprie forme di inedite schiavitù. Non è vero che fare la badante (ma perché continuare ad usare questo brutto termine?) sia un lavoro dequalificato: lo è, forse, nel modo in cui è valutato sul mercato (lavoro mal pagato, lavoro nella maggior parte dei casi non tutelato), lo è spesso nelle forme che assume il rapporto tra lavoratrice e datore di lavoro (una nuova servitù, appunto), ma non lo è affatto nella sostanza delle prestazioni offerte che richiedono competenze, sensibilità, responsabilità. Non è vero comunque, perché l’immigrazione femminile, anche solo rimanendo nell’ambito del caso italiano, presenta una realtà in continua evoluzione e dai caratteri molteplici. I ruoli che sono chiamate a ricoprire le donne nel mercato del lavoro non si esauriscono certo nei lavori di cura: le immigrate sono presenti nei settori produttivi e dei servizi, nell’imprenditoria, nel commercio, nella sanità. E poi nelle scuole e nelle Università dove le
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IL MERCATO DEI CORPI
ragazze delle seconde generazioni con convinzione e certe del loro diritto, reclamano cittadinanza a tutti gli effetti. Sono ancora una minoranza, ma ci sono. Mi sembra allora doveroso, prima di affrontare un tema così doloroso come quello della tratta, richiamare brevemente il ruolo positivo e di cambiamento che le donne immigrate svolgono nella società italiana. La loro forza e il loro coraggio1. Ripeto. La cronaca, l’esperienza, le ricerche ci mostrano una realtà dinamica dove le donne immigrate si muovono in territori molteplici – l’ufficio, la fabbrica o il negozio, la moschea o la chiesa, la scuola, le associazioni, il sindacato, l’Università … i luoghi pubblici e privati della loro vita – protagoniste di un cambiamento straordinario. Testimoni di un progetto ambizioso, cambiare la propria vita e il proprio destino, sono in grado di tessere reti e relazioni che danno vita ad altri cambiamenti … Questo non vuol dire che non ci siano situazioni di passività, subordinazione e soggezione, ma che c’è comunque una realtà di emancipazione, integrazione, intercultura di cui le donne sono protagoniste. In società che si avviano ormai ad essere multietniche, quanto più gli immigrati e le loro famiglie saranno integrati nel tessuto sociale, tanto più saranno alti i benefici di cui tutti noi, autoctoni ed immigrati, potremo godere. Nel mettere in moto questo circolo virtuoso le donne immigrate giocano un ruolo strategico. In tutte le culture le donne hanno svolto e svolgono una funzione stabilizzante e di mediazione tra sfera privata – la famiglia – e sfera pubblica – la società. Tale funzione è tanto più preziosa nel caso delle emigrate. Come mogli e madri, esse non assolvono soltanto mansioni di cura ma rappresentano anche un elemento fondamentale di continuità tra ciò che si è lasciato, il proprio paese, i propri affetti e ciò che si è raggiunto, un paese nuovo ed estraneo, spesso poco amichevole nei confronti degli stranieri. Ma al di là dei ruoli e dei lavori che esse svolgono, delle differenze culturali, etiche, sociali e generazionali che le distinguono, una cosa le accomuna: il fatto di essere donne. Donne e straniere e, in quanto tali, soggetti forti e determinati e, nello stesso tempo, deboli e discriminati. Della forza si è già detto: è nei ruoli che esse ricoprono e nell’enorme importanza sociale che tali ruoli implicano. Della debolezza, poi, fanno fede le numerose ricerche che documentano sia le discriminazioni subite in quanto donne, sia quelle subite in quanto immigrate, sia quelle segnate dall’appartenenza di classe perché 1 Al 31 dicembre 2010, gli stranieri presenti in Italia erano 4.570.317 (su una popolazione complessiva di 60.626.442) di cui il 51,8% donne. (Dossier Statistico Immigrazione, 2011).
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INTRODUZIONE
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nel mercato del lavoro, nonostante spesso possano vantare titoli di studio superiori, occupano ancora posizioni inadeguate al livello di istruzione. Resta però il fatto che la banalizzazione e volgarizzazione della realtà femminile immigrata, sintetizzata nel binomio prostitute/badanti, nasconde due dati di fatto su cui vale la pena riflettere. In primo luogo, rivela un’ immagine maschilista della donna dura a morire e giocata tutta sulla contrapposizione: moglie/amante, madre/puttana. Una donna destinata dunque esclusivamente alla “cura”. Cura materna e lecita o trasgressiva e peccaminosa del corpo (maschile). In secondo luogo, occorre essere consapevoli che tra prostitute e badanti c’è, che ci piaccia o meno, una contiguità data dal fatto che sfruttamento della prostituzione e lavoro nero (che è la condizione che caratterizza la posizione giuridica della maggior parte delle donne immigrate che lavorano come colf e badanti) sono entrambe, come ben spiegherà nel suo intervento Giovanna Campani, il risultato di una stessa logica di sfruttamento che trova nelle politiche restrittive sull’immigrazione la sua espressione. In Europa cresce la domanda di lavoro di cura nei servizi e nelle famiglie e di lavoro nell’industria del divertimento e del sesso: in entrambi i casi l’offerta regolare è di gran lunga inferiore alla domanda. In tal senso le politiche restrittive messe in atto dai diversi paesi (l’Italia ne è un evidente esempio) interferiscono nella corrispondenza tra domanda e offerta, bloccano i flussi e favoriscono la tratta. La contiguità (e cioè la possibilità di scivolare da una condizione all’altra) tra prostituzione e prostituzione forzata, lavoro nero e lavoro forzato, risulta evidente se affrontiamo il tema della tratta in una prospettiva più ampia. Leggendola, cioè, alla luce delle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione nel mercato del lavoro e nel contesto delle migrazioni internazionali2. Questo volume rappresenta il punto di arrivo di una serie di iniziative frutto della collaborazione tra Caritas Ambrosiana, Caritas Pavese, Casa S. Michele di Pavia e l’Università di Pavia (nell’ambito delle attività del Centro Interdipartimentale di Studi di Genere e del Master di primo livello “Genere, immigrazione, modelli familiari e strategie di integrazione”)3. Tali iniziative si sono svolte tra novembre 2010 e tutto il 2011 con un triplice obiettivo: informare e sensibilizzare l’opinione pubblica su una que2
Come ben documenta Giovanna Campani nel presente saggio e anche in suoi precedenti lavori (2000), è in questa direzione che vanno tutte le più autorevoli analisi sulla questione, a cominciare dal rapporto TIP 2010, a cura del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. 3 Nella fattispecie raccoglie gli atti del Convegno Per comprendere e contrastare il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale, che si è svolto il 19 novembre 2010, presso l’Università degli Studi di Pavia.
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IL MERCATO DEI CORPI
stione – quella della tratta a scopo di sfruttamento sessuale – che appartiene alla nostra realtà quotidiana (si svolge nelle nostra strade, nei nostri quartieri); offrire incontri di formazione a quanti (assistenti sociali, operatori del volontariato …) hanno a che fare con le donne vittime di tratta; fare il punto sugli studi e le ricerche più recenti sulla questione in un confronto interdisciplinare tra autorevoli ricercatori italiani. Come è facile intendere, volevamo mettere a confronto prospettive e sguardi diversi (laiche e cattoliche, di studiosi e di operatori sociali, di sociologi e giuristi …) convinti dell’urgenza e della necessità di un confronto a più voci e a più livelli. Gli interventi che compongono il presente volume innanzi tutto offrono al lettore che voglia approfondire la questione, delle distinzioni concettuali indispensabili per orientarsi nella complessità del fenomeno e delle sue implicazioni. Come ci ricorda Giovanna Campani, infatti, è importante la definizione giuridica del concetto di tratta introdotta dal protocollo di Palermo4 che include nel reato di trafficking non solo lo sfruttamento sessuale di esseri umani, ma anche lo sfruttamento lavorativo, con la minaccia, la violenza e la soggezione. Una precisazione carica di conseguenze perché, come sottolinea la Campani, capire che la tratta non è solo prostituzione, dà la misura di quanto tale fenomeno risponda a logiche precise di mercato, di mercato globalizzato naturalmente, all’interno del quale trovano spazio e ruolo le organizzazioni criminali. Anche la distinzione tra trafficking e smuggling (laddove quest’ultimo indica il contrabbando di migranti e cioè, dietro pagamento degli stessi, del loro trasferimento illegale in paesi dove è forte la domanda da parte di settori di economia sommersa) indica come tali fenomeni vadano interpretati nella loro complessità e interdipendenza. Fondamentale, inoltre, la distinzione di Marco Quiroz Vitale tra politica di accoglienza e politica di soccorso. Fondamentale perché rivela le ambiguità della normativa esistente – frutto della sovrapposizione, negli anni, di interventi legislativi diversamente orientati – ma, nello stesso tempo, mostra la sensibilità del legislatore nell’intenzione di superare tali ambiguità. In sintesi, alla base dei vari articoli di legge prodotti in questi ultimi anni nel nostro paese per contrastare il fenomeno della tratta, c’è la legge n. 228 del 2003 che, se pure ben articolata nelle sue diverse declinazioni, restringe l’intervento nei confronti delle vittime di tratta solo a quei casi dove sia evidente l’inferiorità (fisica, psichica o di necessità) della vittima oppure 4
A tale protocollo, stipulato nel 2000 nell’ambito della convenzione delle Nazioni Unite, fanno riferimento tutti i saggi qui proposti perché definisce giuridicamente cosa si intende per tratta di esseri umani e indica le linee guida per contrastarla.
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INTRODUZIONE
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quando questa sia costretta alla prestazione sessuale con la violenza, l’inganno o l’abuso di autorità. In una logica che l’autore definisce di “soccorso” alle situazioni di violenza e sfruttamento più estreme. Se a ciò aggiungiamo, come denuncia Ferdinando Buffoni, che il quadro normativo italiano in materia di immigrazione è, nel nostro paese, a dir poco incoerente, il rischio è quello di considerare molte delle donne vittime di tratta solo delle immigrate clandestine da rimpatriare verso i rispettivi paesi di provenienza. Le conseguenze drammatiche di tale lettura sono facili da immaginare. A compensazione di ciò, l’articolo 18 del T.U. sull’immigrazione che, progressivamente interpretato nel corso degli anni in forma via via sempre più estesa, supera la logica del soccorso e apre all’accoglienza, prevedendo uno speciale permesso di soggiorno a carattere umanitario. Permesso che, nel caso in questione, consente alla straniera clandestina, vittima di sfruttamento, di entrare a far parte di un programma di assistenza e sostegno all’integrazione e, a fine percorso, trasformare tale permesso nel permesso lavorativo. Ciò ha consentito che prendesse forma una rete di collaborazione tra le autorità di Pubblica sicurezza (deputate a rilasciare tale permesso o a motivarne il respingimento), gli enti locali e le associazioni del privato-sociale che intervengono concretamente prima sulla strada, poi nelle strutture deputate all’accoglienza. Ne sono la prova i dati che ci offre Francesco Carchedi. Ad una prima lettura l’Italia sembrerebbe, tra i paesi europei, quello in cui sia di gran lunga più presente il commercio di esseri umani e il loro sfruttamento sessuale: si parla di circa 15.000 tra donne e bambine. In realtà questi numeri, che rimangono spaventosi per la loro entità, non ci collocano all’ultimo gradino quanto a capacità di contrastare le organizzazioni criminali che controllano i flussi, né ultimi per ciò che riguarda senso etico e responsabilità. Piuttosto confermano la nostra capacità di far emergere e affrontare una realtà che altrove rimane nascosta e spesso indicibile. Questi risultati (tra gennaio 2009 e giugno 2010 le unità di strada hanno contattato 5.572 persone costrette a prostituirsi e nello stesso periodo oltre 400 persone hanno trovato accoglienza in strutture adeguate), avverte Quiroz, non devono però far abbassare la guardia: le contraddizioni della giurisprudenza tra la logica del soccorso e la logica dell’accoglienza, rischiano di compromettere l’efficacia degli interventi. La realtà è che, mentre siamo pronti ad indignarci all’idea che, al giorno d’oggi e per effetto della globalizzazione, possano esistere anche nei paesi a lunga tradizione democratica come i nostri, persone ridotte in schiavitù, siamo molto meno attrezzati (e in tal senso lo è anche la nostra giurisprudenza) a indignarci altrettanto per tutte quelle situazioni il cui la condizione di
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schiavitù è meno evidente e l’asservimento più difficile da svelare. Situazioni che pure rappresentano la maggioranza dei casi. In questa prospettiva Quiroz introduce, riprendendo il lavoro di Ermanno Vitale (2004), un’altra importante distinzione analitica, quella tra migrazione e deportazione e quella tra la condizione del deportato e quella dell’auto deportato. Distinzione, quest’ultima, che illumina e descrive tutte quelle situazioni in cui le persone, che non possono essere definite schiave nel senso stretto del termine, hanno comunque accettato (per bisogno, povertà, inesperienza, ignoranza, calcolo …) di rinunciare alla propria libertà personale e morale ma che, non per questo, perdono il diritto ad essere aiutate e difese. Etica e ragione vorrebbero allora che non ci fosse nessuna differenza – né discriminazione dal punto di vista del diritto, né pregiudizio o stigma nell’immagine sociale che lo stesso diritto contribuisce a costruire – tra una donna che si prostituisce contro la propria volontà, perché costretta con la violenza, e quella che si consegna volontariamente nelle mani delle organizzazioni criminali per trarre maggiore profitto dall’esperienza migratoria. Ma sulla scena non ci sono solo vittime e carnefici. Ci sono anche i clienti. È Luisa Leonini che illumina, per così dire, l’altra faccia della medaglia – quella della domanda – descrivendo le condizioni socio culturali che rendono possibile tale fenomeno nella sua entità e nei suoi aspetti. Fenomeno che si nutre di elementi tra loro contraddittori, elementi che creano, insieme, effetti perversi, in una commistione tra passato, presente e futuro. È così che la cultura tradizionale patriarcale, autoritaria, sessuofobica e spesso violenta nei confronti della donna, cultura che attraversa confini geografici e temporali, si sposa con la retorica della libertà sessuale e di comportamento; che l’occidente, in virtù della globalizzazione, irrompe nel sud del mondo esibendo i propri consumi e offrendo modelli di vita inediti; che il sud del mondo, per contro, irrompe nelle società consumiste offrendo merce – uomini, donne, bambini – a buon mercato. Società, le nostre, moderne e democratiche all’interno delle quali se è vero se il corpo altrui si compra a poco prezzo, è altrettanto vero che anche il proprio si vende, magari ad un prezzo maggiore, ma sempre allo stesso mercato e secondo la stessa logica. Un mondo di corrotti e corruttori, di venditori e acquirenti, di consumatori e consumati, dove la minorenne Naomi, sponsorizzata da mamma e papà, la prostituta di strada nigeriana che si è consegnata consapevolmente ai propri sfruttatori e la ragazza dell’est rapita con l’inganno e costretta con la violenza a vendersi, condividono la stessa innocenza. Innocenti e indifese nei confronti di modelli culturali potenti e globali che impongono e rendono irresistibilmente desiderabili consumi e stili di
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vita legati al benessere e realizzabili in una logica di pura mercificazione che non risparmia persone e sentimenti. Fa impressione leggere i risultati della ricerca della Leonini sul consumo in Italia del sesso a pagamento con donne straniere: incontri e rapporti sessuali consumati nell’arco di quindici minuti senza alcuna attenzione e curiosità verso l’altro, senza neanche uno scambio di parole perché parole non ci sono; giovani ragazzi che in gruppo decidono di concludere così la serata ... Non c’è distinzione di età, classe sociale, livello culturale: al gioco, che costa poco, possono partecipare tutti, il divertimento è assicurato e l’offerta varia e abbondante. Un’offerta che sollecita le fantasie di trasgressione e di esotismo dei clienti che non sanno e non vogliono sapere che persone ci siano dietro a quei corpi. La prostituzione di donne straniere, di cui la tratta a scopo di sfruttamento sessuale ne costituisce un aspetto, è solo, è utile ripeterlo, una delle tante facce dello sfruttamento che subiscono molti di coloro che migrano. Fa bene Leonini a richiamare l’attenzione sulla responsabilità dei paesi più sviluppati nei confronti di quelli più poveri e a sottolineare la logica di dominio che sottende “la progressiva occidentalizzazione del mondo”. E se l’attenzione della Leonini è più rivolta a descrivere l’humus culturale che fa proliferare la domanda di sesso a pagamento e alimenta le organizzazioni criminali, Giovanna Campani allarga lo sguardo e colloca il fenomeno della tratta nel processo di globalizzazione economico e politico, sottolineando, a sua volta, le responsabilità dell’occidente rispetto all’enorme divario economico che divide paesi ricchi e paesi poveri. Appare allora evidente che, per capire e contrastare il fenomeno della tratta, occorre contestualizzarlo in una prospettiva più ampia che, prendendo atto del processo di femminilizzazione dei fenomeni migratori, legga insieme: globalizzazione, immigrazione, criminalità transnazionale ed economia legale ed illegale. Tale consapevolezza ha faticato ad imporsi e, seppure sia ormai opinione condivisa, appare evidente la difficoltà di scardinare un simile sistema e quanto sia lungo e complicato l’obiettivo di interrompere il traffico di esseri umani. Ma a fronte di tale situazione, e al di là di qualsiasi altra ragionevole considerazione, c’è comunque un’urgenza a cui occorre rispondere, un’emergenza a cui far fronte. Subito, adesso, letteralmente questa notte. Sono Palma Felina e Francesco Carchedi a darci conto di questa realtà. La prima, forte della sua lunga esperienza, ci conduce all’interno di questa emergenza e ci descrive come in Italia si attiva e funziona la rete costruita per rispondere alle direttive del protocollo di Palermo che obbliga gli Stati dell’Unione a mettere in atto le misure necessarie sia per proteggere le vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale, sia per favorirne e accompa-
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gnarne il reinserimento sociale. Fanno da sfondo a questa descrizione i dati puntuali riportati nel saggio di Francesco Carchedi. Un’azione articolata che vede il contributo di numerosi attori, pubblici e privati, che collaborano insieme per raggiungere tale obiettivo. Polizia e Magistratura fanno via via da interlocutori a numerosi operatori che, nell’ambito delle proprie organizzazioni, intervengono a vari livelli e nelle diverse fasi in cui si articola il disegno complessivo dell’intervento. Si parte dal primo approccio sulla strada e da lì inizia un faticoso cammino in salita che procede gradualmente e si conclude, quando si conclude, con il pieno inserimento della vittima nella vita civile. La logica che sottende tutto l’intervento nel suo complesso è la convinzione che tale percorso debba essere autodeterminato. E se pure l’autederminazione è il frutto di una lenta e sofferta presa di coscienza, questo percorso non può che sfociare nella piena autonomia della donna. Una rete che mostra di funzionare e di aver funzionato e che, proprio per tale ragione, ha prodotto un effetto perverso inducendo le organizzazioni criminali a spostare le ragazze dalla strada ai luoghi chiusi, più sicuri e controllabili, creando una situazione che, in quanto tale, richiede nuove risorse e nuove modalità di intervento per poter essere contrastata efficacemente. Due considerazioni. La prima. Tutta l’impalcatura di questo complesso edificio si poggia sull’articolo 18 del D.Lgs 286/98, articolo che, come abbiamo già visto, consente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale e che, come tale, consente di “aggirare” (la parola aggirare è dal punto di vista giuridico scorretta, ma rende bene l’idea) la logica criminalizzante che guida le norme contro l’immigrazione clandestina contenute nel pacchetto sicurezza del Governo Berlusconi. La seconda. La rete dei servizi non potrebbe funzionare senza l’apporto del volontariato cattolico e laico che del resto ha avuto un ruolo determinate nella costituzione di tale rete. Queste semplici considerazioni ci raccontano molto dell’Italia e delle sue contraddizioni. E se tutto ciò risulta inefficace a sradicare un fenomeno, che, come abbiamo visto, ha complesse ragioni d’essere e richiede interventi sostanziali di carattere transnazionale tale da mettere in discussione l’intero modello economico globalizzato, certo è che rappresenta un’ancora di salvezza concreta a disposizione delle donne intrappolate nel sistema di sfruttamento, come raccontano le testimonianze riportate da Palma Felina.
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Ma chi sono le donne coinvolte nel nostro paese nel fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale? Da dove vengono, quali sono le rotte e le circostanze che le hanno portate in Italia? Francesco Carchedi e Anna Pozzi rispondono a questa domanda e illuminano due realtà, quella delle donne rumene e quella delle donne nigeriane. Donne che, pur così lontane sia a livello culturale che geografico, condividono, nel nostro paese, clienti, sofferenze, sfruttamento, paura, speranza. La scelta di prendere in esame queste due realtà – rumena e nigeriana – non è casuale. Come riporta Carchedi, tra la primavera 2008 e la primavera 2009, il 41% delle donne coinvolte nella prostituzione coatta di strada risultava di nazionalità nigeriana, il 25,8% rumena (un dato che comunque sopravanza quello nigeriano per la maggior incidenza, proporzionalmente, di minorenni). Di gran lunga inferiore la percentuale di donne appartenenti ad altre nazionalità. È all’inizio degli anni novanta che le rumene prendono sul mercato, il posto che fino a quel momento era stato delle albanesi. Interessanti le motivazioni di questo cambio della guardia: la ribellione di molte donne albanesi alla ferocia dei loro sfruttatori, un’inedita alleanza tra la criminalità albanese e quella rumena, un’accresciuta volontà di emigrare da parte delle donne rumene. Quest’ultimo punto conferma quanto detto dalla Campani: all’epoca la Romania non era ancora membro UE e affidarsi per l’espatrio alle organizzazioni criminali era gioco forza. Fatalmente spesso ciò significava rimanere prigioniere nel mercato del sesso. Nel corso degli anni il fenomeno ha cambiato i suoi caratteri: si è abbassata l’età e il livello di istruzione delle donne coinvolte che, sempre più spesso, appartengono alle fasce più deboli e meno protette della popolazione femminile rumena; in molti casi l’avvio alla prostituzione avviene già in Romania, principalmente intorno alle città di Bucarest e Timisoara. Inoltre, e questo è un aspetto che va sottolineato, appaiono in netta crescita quei casi che Carchedi definisce di “servitù volontaria”. Un termine che descrive la situazione di quelle donne che volontariamente si affidano ad un organizzazione criminale consapevoli di ciò che le aspetta e sulla base di un patto – sfruttata, sfruttatore – di reciproca convenienza. In realtà, anche se tale condizione differisce da quella di coloro – e sono comunque ancora la maggioranza – che sono costrette con la violenza e la minaccia a prostituirsi contro la propria volontà, siamo comunque all’interno di un rapporto fortemente squilibrato in termini di potere tant’è che giuridicamente, come abbiamo visto, la condizione di sottomissione della donna nei due casi è a tutti gli effetti equiparata. Una pratica, osserva Carchedi, tanto più pericolosa, quanto più appartenente “pulita”: basata sul consenso, negoziata, spesso gestita attraverso
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agenzie di viaggio specializzate che organizzano veri e propri tour di sesso a pagamento. Un rapporto stipulato in molti casi sulla base di un contratto a termine, magari di carattere stagionale, che non necessita, perché venga rispettato, del ricorso alla violenza fisica. Tanto più che spesso la prostituzione viene presentata come la porta per accedere a carriere più promettenti nel mondo dello spettacolo. Insomma, una trappola ben congegnata in cui – soprattutto per chi già vive in strada e non ha più legami familiari stretti – è facile cadere. Una trappola, però, che non sempre lascia libera la sua preda nei tempi pattuiti. Ovviamente diverso il percorso delle donne nigeriane. Il loro viaggio è molto più lungo e altrettanto considerevole la distanza culturale che le separa dall’Europa. È vero, come dicono Giovanna Campani e Luisa Leonini, che i modelli di consumo imposti dall’economia globale sono gli stessi e che sono tali modelli che, creando nuovi bisogni, contribuiscono alla decisione di intraprendere il viaggio. Ma il racconto di Anna Pozzi, che questa realtà ha più volte descritto e fotografato, ci mostra, nel caso delle nigeriane, una singolare commistione di passato e futuro. Miseria dura, riti magici per legare e controllare le ragazze, l’idea di un occidente opulento dove la ricchezza è alla portata di tutti, un paese corrotto, una criminalità transazionale ben organizzata in grado di riciclare i proventi illegali in attività legali, famiglie compiacenti, costituiscono le condizioni che alimentano il traffico. Com’è noto, la forma di schiavitù a cui le donne nigeriane sono sottoposte consiste in un doppio legame con l’organizzazione che le sfrutta. Legame di tipo economico: il debito contratto con chi organizza l’espatrio, fornisce vitto e alloggio una volta arrivate a destinazione, organizza e gestisce le prestazioni; un debito che in realtà è molto difficile saldare poiché ai guadagni giornalieri (per le nigeriane, le paria del mercato, in media 10/15 euro a prestazione, ma sembrerebbe che la concorrenza spietata stia facendo abbassare i prezzi fino a 5 euro) vanno sottratte le spese di mantenimento e i soldi da mandare a casa. Legame di tipo psicologico: cerimonie magico-tribali che si praticano anche in Italia, la paura di rivalse sulle famiglie rimaste in Nigeria. E punizioni esemplari per chi vuole lasciare il giro. Un sistema ben oliato, un’organizzazione efficiente, sorvegliata a livello locale dalla madame: la prostituta che ha fatto carriera e che da sfruttata è diventata sfruttatrice. Un’organizzazione che può contare su ingenti introiti (si calcola che il volume di affari sia secondo solo al traffico di droga e armi) parte dei quali vanno in Nigeria. Nel 2009 un’analisi condotta da Bankitalia sulle rimesse attraverso il circuito dei money transfer ha calcolato che, in un
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arco di tempo di tre mesi, 13,3 milioni di euro sono stati trasferiti dall’Italia alla Nigeria. Di questi il 20% proveniva dall’area compresa tra Caserta e Napoli. Ed è appunto nella zona intorno a Castelvolturno che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni calcola che lavorino più di 500 prostitute nigeriane5. Il più grande bordello del mondo a cielo aperto, lo ha definito qualcuno. In conclusione. Le cifre sono spaventose: solo nell’Unione Europea si calcola che siano circa 500.000 le donne coinvolte nel fenomeno della tratta. Per l’Italia l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni parla di un numero che oscilla dalle 19mila alle 26mila vittime: un giro di affari che supera il cinque miliardi annui e coinvolge circa nove milioni di clienti. Sono ovviamente stime approssimative. L’ultimo Dossier Tratta a cura di Save the Children (Agosto 2011) stima tra le 19mila e le 24mila le persone che si prostituiscono in strada di cui il 10% minori. Numero che andrebbe triplicato nel caso si considerasse anche la prostituzione indoor. Sarebbero poi 14.689 le vittime di tratta6 inserite nei progetti art. 18 fra il 2000 e il 2008, di cui 986 minori; 5.666 gli indagati fra il 2004 e il 2010 per l’articolo 600 c.p. (riduzione e mantenimento in schiavitù) art. 601 c.p. (tratta di persone) e art. 602 c.p. (alienazione e acquisto di schiavi). A fronte di ciò il quadro che si va disegnare è davvero preoccupante. È preoccupante: l’entità numerica del problema, la consapevolezza che a ogni donna prostituta contro la propria volontà corrisponde un rilevante numero di clienti inconsapevolmente consapevoli del ruolo svolto, il patto tra organizzazioni criminali dei paesi d’origine e dei paesi di destinazione per il commercio di esseri umani, le forme spesso violente e crudeli che tale commercio assume, la consapevolezza che tale situazione trova la sua ragione di esistenza nelle logiche che guidano il mercato globale … È vero che accanto a tutto questo si rivela una rete di aiuto e di solidarietà che lentamente si è andata tessendo intorno alle vittime; una giurisprudenza che, se pure non senza ambiguità, è intervenuta in soccorso a chi voleva sottrarsi alle organizzazioni criminali; politiche pubbliche che, se pure non senza contraddizioni, si sono mostrate sensibili al tema dell’accoglienza, ma quest’ultimo periodo ha rappresentato una battuta d’arresto alla lotta alla tratta e alle politiche di soccorso e accoglienza per le vittime. Una battuta d’arresto gravida di conseguenze. 5
Questi dati sono riportati in un articolo pubblicato su la Repubblica di venerdì 17 febbraio 2012 6 Tratta a scopo di sfruttamento sia lavorativo che sessuale.
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Il Dossier Caritas-Migrantes 2011 parla chiaro: molte postazioni locali del numero verde antitratta sono state chiuse, i permessi di soggiorno rilasciati ai sensi dell’articolo 18 sono passati dagli 810 del 2009, ai 527 del 2010 e non certo perché ci sia stata una riduzione del numero delle donne vittime di tratta, ma perché le organizzazioni che fanno parte della rete di aiuto e accoglienza hanno dovuto ridurre i loro interventi a fronte di una diminuzione delle risorse disponibili. Insomma, l’obiettivo – sconfiggere la schiavitù – ammesso che ciò sia possibile, è ancora molto lontano da raggiungere e occorrono ancora molti sforzi e molte risorse per contrastare efficacemente il fenomeno: la lotta contro la tratta di esseri umani rischia infatti di essere persa in partenza se non si modifica il quadro strutturale di fondo. Sarà una battaglia inutile fino a quando le politiche migratorie messe in atto dai paesi dell’Unione Europea saranno di tipo restrittivo perché, come denuncia il Trafficking in persons Report, pubblicato nel 2010 dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, tali politiche, criminalizzando l’immigrazione clandestina, di fatto ostacolano un’adeguata protezione ed assistenza alle vittime della tratta. Ma non solo. Sarà una battaglia inutile fino a quando non si considererà il traffico di esseri umani come un aspetto del mercato del lavoro globale ad esso funzionale: l’economia globale ufficiale ha bisogno di un’economia illegale alimentata dal traffico che fornisce manodopera a basso costo, facilmente ricattabile e priva di garanzie. Sono gli studi più attendibili sul fenomeno a confermare queste conclusioni: politiche migratorie restrittive, economia globale che impone nei paesi poveri modelli di consumo occidentali per creare nuovi bisogni e nuovi mercati, una domanda troppo forte rispetto all’offerta debole nel mercato legale, organizzazioni criminali transazionali, creano una congiuntura tale che sarebbe illusorio pensare che si possa combattere efficacemente la tratta senza mettere in discussione l’intero sistema. Ed è facile capire come le donne siano le vittime predestinate di tale sistema. Vittime di chi approfitta del loro desiderio di emigrare, della legittima aspirazione a una vita migliore, dell’impossibilità, per molte, di farlo legalmente e della crescente domanda di lavoro femminile soprattutto nel settore dei servizi alla persona e nell’industria del sesso e del divertimento. Inoltre la rete di intervento, come sottolineano gli operatori a cui dà voce Palma Felina, rischia di naufragare se non si realizzano alcune condizioni. Innanzi tutto occorre, per quanto possibile, uniformare l’iter necessario per l’ottenimento del permesso di soggiorno e la sua tempistica; a questo
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proposito la difformità rilevata tra le varie Procure è tale da risultare incomprensibile, destabilizzante e ingiusta. È necessario poi razionalizzare il sistema dei finanziamenti e dargli continuità, perché tale continuità è garanzia della continuità stessa dei servizi. Tagli indiscriminati, come quelli che si sono verificati in questi ultimi anni, oltre che compromettere il lavoro della rete e danneggiare le donne, rischiano di tramutarsi in costi sociali ben più onerosi dei risparmi ottenuti. Infine, è indispensabile che il permesso di soggiorno a scopo di protezione possa davvero trasformarsi in permesso di soggiorno per lavoro. Obiettivo non facile da realizzare in tempi di crisi economica e che richiede dunque corridoi privilegiati che possano favorire l’inserimento lavorativo delle donne vittime di tratta. Se ciò non accade tutto il resto diventa inutile. Ferdinando Buffoni insiste, a tale proposito, sull’urgenza di mettere in atto politiche integrate escludendo interventi di tipo repressivo: proibire per esempio la prostituzione su strada, come hanno tentato di fare alcune amministrazioni locali, sarebbe disastroso perché significherebbe consegnare definitivamente le vittime nelle mani dei loro carnefici. Occorre poi rafforzare la rete di collaborazione tra gli enti pubblici e le organizzazioni del privato sociale, offrire risorse ai servizi territoriali, promuovere una capillare campagna di informazione e sensibilizzazione. E investire su tali obiettivi anche i beni confiscati alle organizzazioni criminali. Ma c’è un’altra condizione che deve verificarsi e che precede e consegue quanto fin qui detto. Ben la indica Quiroz Vitale quando condiziona il successo delle politiche di accoglienza alla capacità degli organi dello Stato, della società civile, degli operatori del privato sociale e dei servizi territoriali, di tutti gli attori della rete, insomma, di costruire, o forse ricostruire, un legame fiduciario con le vittime. Nessuno si illude che uscire dalla condizione di schiavitù e di asservimento sia cosa facile. Le difficoltà legate alla realizzazione del progetto, le insidie che ne minacciano il buon esito, gli ostacoli che operatori e vittime incontrano sono evidenti. Primo fra tutti quello che l’autore indica come deuteragonismo sociale descrivendo in tal modo la situazione congiunturale e conflittuale in cui si trova la vittima: vittima dei propri aguzzini, vittima di un sistema giudiziario fondato su principi universalistici e dunque cieco alle differenze e al particolarismo, vittima di un meccanismo che la etichetta e ne costruisce oggettivamente e soggettivamente l’immagine deviante, vittima della povertà economica e della marginalità sociale, vittima del pregiudizio – degli altri nei suoi confronti e suoi nei confronti degli altri – che la rende vulnerabile e diffidente. Donna, prostituta, immigrata, clandestina, povera … Chi si può fidare di lei, e lei di chi si può fidare?
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IL MERCATO DEI CORPI
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Così come è di cruciale importanza, avverte Carchedi, continuare a fare ricerca su un fenomeno che costantemente si trasforma. Cambiano modi e luoghi, così come cambiano le modalità organizzative, le rotte, le alleanze e le strategie delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Appare allora evidente, e su questo punto tutti sono d’accordo, come sia importante non abbassare mai la guardia, pensando che sia sufficiente ciò che si sta facendo per contrastare una realtà che invade la nostra quotidianità. L’asservimento di essere umani, oggi, adesso, in Italia, è sotto gli occhi di tutti e ormai nessuno, quando si parla di schiavitù, può far finta di non sapere.
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TRATTA DI ESSERI UMANI E MIGRAZIONI FEMMINILI NEL MONDO GLOBALE
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Giovanna Campani
Introduzione Da almeno vent’anni, la tratta di esseri umani (in inglese “trafficking”)1 è al centro dell’agenda politica a livello mondiale: perché mina gli sforzi internazionali per produrre ordinati flussi migratori (Salt, Stein, 1997); perché implica pratiche brutali di coercizione che violano i diritti umani; perché favorisce la criminalità organizzata, costituendo una minaccia alla sicurezza degli Stati. Le prime risposte sono state l’introduzione di nuove misure legali repressive in molti paesi del mondo e l’implementazione d’azioni di contrasto e protezione delle vittime. L’efficacia di questi interventi è, però, dubbia: uno dei rapporti più recenti e rilevanti sul tema, il 2010 Trafficking in Persons Report (TIP 2010), pubblicato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ammette, fondando le sue conclusioni su approfondite ricerche e sull’opinione d’esperti, che non è stata data una risposta globale al fenomeno; anzi, la tratta continua a crescere anche a causa delle politiche sbagliate dei paesi occidentali. Questa considerazione vale, in particolare, per le politiche migratorie restrittive in vigore negli stati membri dell’Unione Europea, che finiscono per produrre degli effetti perversi sulla tratta: “Il rigido controllo dell’immigrazione, sviluppato e realizzato senza tener conto delle norme anti-traffico e delle responsabilità d’assistenza alle vittime, costituisce una risposta aggressiva che ignora i principi fondamentali della protezione delle vittime” 2. 1
Anche se la corretta traduzione italiana del termine “trafficking” è tratta nel corso dell’articolo, uso talvolta il termine “traffico”. 2 “Immigration enforcement, developed and implemented without taking into account anti-trafficking standards and victim care responsibilities, is an aggressive response that ignores basic tenets of victim protection.” (TIP, 2010, pag. 24)
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IL MERCATO DEI CORPI
La critiche del rapporto TIP 2010 alle politiche dei paesi europei, che pretendono di lottare contro la tratta mantenendo un regime migratorio estremamente restrittivo, sono condivise da diverse ONG (ad esempio, Amnesty International, 2004), e associazioni attive sul campo, come On the Road, La Strada International, ACCEM e ALC3. Queste critiche trovano un supporto nell’analisi scientifica del fenomeno: il quadro teorico, che è stato elaborato negli ultimi anni, a partire da numerose ricerche, ha messo pienamente in luce la complessità del fenomeno della tratta, al bivio tra migrazione, genere e criminalità organizzata, nel contesto della globalizzazione. Questo nuovo quadro concettuale ha superato l’approccio normativo, che privilegiava gli aspetti criminali della tratta, e che era stato inizialmente elaborato dalle organizzazioni internazionali e le ONG, (ONU, UE, OSCE, Consiglio d’Europa, IOM4, GAATW5) prevalentemente interessate dalla regolamentazione del fenomeno attraverso l’intervento delle autorità istituzionali (Monzini et al., 2002). Oggi, queste stesse organizzazioni si orientano verso un altro approccio. Per esempio, la GAATW parla della necessità di una comprensione “olistica” della tratta, nell’ambito delle migrazioni e nei contesti lavorativi femminili, condividendo l’analisi del Rapporto TIP 2010, che afferma: “la tratta è un fenomeno fluido che risponde alle richieste del mercato, alla debolezza delle leggi e delle sanzioni, ed alle disparità economiche e di sviluppo” 6. Il presente articolo analizza la costruzione del “trafficking” come problema globale e ripercorre le concettualizzazioni che l’hanno accompagnata: le prime conferenze e convenzioni internazionali che hanno portato ad un superamento dell’idea novecentesca che collegava strettamente tratta e prostituzione; le definizioni e le linee guida per contrastare la tratta, prodotte dalle organizzazioni internazionali; la riflessione del mondo accademico, estremamente critica nei confronti delle politiche dei governi; la formazione di un nuovo approccio al fenomeno da parte delle ONG e le organizzazioni internazionali, di cui è espressione il Rapporto TIP 2010. La concentrazione sulla dimensione criminale e la rigida dicotomia tra criminali e vittime, trafficanti e prostitute, non possono spiegare né le cause e le dinamiche del fenomeno, né le traiettorie collettive e individuali, che s’in3
Vedi: http://www.e-notes-observatory.org/wp-content/uploads/E-notes-report_Adobe-61.pdf 4 IOM, fondata nell 1951, è la principale organizzazione inter-governativa sulle migrazioni. 5 La Global Alliance Against Traffic in Women (GAATW) è un’ alleanza di 105 organizzazioni non governative provenienti dall’Africa (9), Asia (46), Europa (20), LAC (23) e Nord America (7). Il Segretariato Internazionale della GAATW ha sede a Bangkok, Thailandia. 6 “Trafficking is a fluid phenomenon responding to market demands, weakness in laws and penalties, and economic and development disparities”.
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TRATTA DI ESSERI UMANI E MIGRAZIONI FEMMINILI NEL MONDO GLOBALE
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seriscono in uno specifico contesto migratorio, caratterizzato dalla complessa intersezione tra diversi fattori: femminilizzazione della migrazione, politiche migratorie restrittive, possibilità occupazionali in mercati del lavoro al tempo stesso globali e diversificati, reti migratorie, e, infine, organizzazioni criminali.
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1. Il “trafficking” come questione globale da Vienna a Palermo Nei primi anni Novanta, numerose istituzioni nazionali, organizzazioni internazionali (IOM, UNICEF, UNICRI, UIL), associazioni transnazionali (Medici senza frontiere, Médecins du monde, SAVE THE CHILDREN) ed organizzazioni non governative (ONG), attive sia nell’ambito della migrazione che della prostituzione (CARITAS, TEMPEP), hanno portato l’attenzione mondiale sul tema della tratta degli esseri umani, prima in Asia, e successivamente, in Europa e in America. Ricordiamo brevemente il contesto europeo dell’epoca: dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, a causa della transizione economica in Europa orientale e dei conflitti nei Balcani, i flussi migratori verso l’Europa aumentarono in maniera rapida, e, per via dei regimi migratori restrittivi, avvennero in gran parte attraverso canali non regolamentati (visti turistici, pellegrinaggi, passaggio illegale delle frontiere). Una piccola parte di questi flussi irregolari cominciò ad essere canalizzata dai trafficanti verso mercati informali o illegali (prostituzione, accattonaggio, ecc …). Nel 1996, il Commissario europeo alla Direzione Generale alla Giustizia ed alla Sicurezza, la svedese Anita Gradin organizzò una Conferenza internazionale sul tema a Vienna; altre iniziative – europee e internazionali – seguirono, di cui, la più importante, fu la Convenzione delle Nazioni Unite del 2000 contro la criminalità organizzata a Palermo, che elaborò la definizione giuridica della tratta d’esseri umani e le linee guida per un approccio globale al fenomeno attraverso due protocolli: il Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone (trafficking), in particolare donne e bambini, e il Protocollo contro il contrabbando (smuggling) di migranti via terra, via mare e via aria7. La definizione di tratta, di cui all’articolo 3 del primo protocollo di Palermo suona: “Per «tratta di persone» si intende il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme 7 United Nations – General Assembly (2000) Convention against Transnational Organised Crime, A/RES/55/25, Palermo, Italy.
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IL MERCATO DEI CORPI
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di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra persona, al fine di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende: lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro forzato o servizi, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo o di organi”.
La definizione del Protocollo di Palermo allarga la precedente prospettiva delle Nazioni Unite, che collegava tratta e prostituzione, come indicato nel preambolo della Convenzione del 1949 per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione altrui: “La prostituzione e il male che accompagna il traffico di persone a scopo di prostituzione, sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana e mettono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.” 8. In contrasto con l’approccio novecentesco, ancora influenzato dall’idea della “Tratta delle bianche” (White Slave Trade)9, il concetto di base del Protocollo di Palermo nella definizione di tratta è quello di sfruttamento, sia sessuale (prostituzione forzata) che lavorativo (lavoro forzato, schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù). Per quanto riguarda lo sfruttamento sessuale, il Protocollo riconosce l’esistenza della prostituzione volontaria e della prostituzione forzata e stabilisce che solamente la prostituzione forzata costituisce tratta, autorizzando espressamente gli Stati a concentrarsi su di essa e su altri crimini che implicano la forza o la coercizione. Il concetto di “smuggling” fissa la distinzione tra la tratta d’esseri umani ed il “contrabbando” per l’immigrazione irregolare, definito in un protocollo separato. La tratta è definita come un’attività criminale volta a sfruttare le vittime, i crimini commessi (frodi, ricatti, intimidazioni, falsificazione di documenti, ecc.) durante il trasferimento sono passi verso lo sfruttamento illegale (lavoro forzato, industria del sesso, accattonaggio, pornografia). Queste caratteristiche ne fanno una moderna forma di schiavitù. Lo “smuggling” di migranti, invece, è un tipo di trasporto illegale dal paese d’origine a quello di destinazione (o copre una sola porzione del per8 Il primo accordo internazionale contro la tratta risale al maggio 1904: è l’accordo internazionale per la repressione del traffico delle schiave bianche, seguita dalla Convenzione internazionale del 4 maggio 1910 e dalla Convenzione internazionale del 30 settembre 1921 per la repressione del traffico di donne e bambini, poi modificato dal protocollo approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 ottobre 1947. 9 Questo termine si riferisce, tra le altre cose, alle donne bianche rapite per gli harem musulmani, tema che causava notevole preoccupazione in Europa e negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo. Più in generale, il termine White Slavery era sinonimo di prostituzione basata sulla coercizione e la frode.
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corso). Il rapporto tra il contrabbandiere e le persone che pagano il servizio termina una volta che la destinazione è raggiunta, anche se, in pratica, non è sempre facile distinguere la tratta ed il contrabbando. La Convenzione di Palermo fissa anche le linee guida per una risposta adeguata al problema della tratta: il paradigma delle 3P: prevenzione, perseguimento penale e protezione delle vittime. Nella fase che apre, all’inizio del nuovo Millennio, il quadro giuridico e concettuale per intervenire sul fenomeno è solidamente costituito, con molti elementi di novità (la separazione tra tratta e prostituzione, la divisione tra “trafficking” e “smuggling”, la centralità dello sfruttamento, l’attenzione ai diritti umani) ed alcuni limiti, come l’approccio prevalentemente criminologico, che insiste sulle diverse azioni illegali connesse alla tratta, ma non tiene conto del contesto (per esempio le enormi differenze economiche tra i paesi di partenza e d’arrivo).
2. Le definizioni: “trafficking”, “smuggling”, tratta per sfruttamento sessuale e per sfruttamento lavorativo Dall’inizio del Millennio, le organizzazioni internazionali, le ONG ed i governi hanno come punto di riferimento le definizioni e le linee guida fissate a Palermo. Per esempio, l’IOM, Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che si occupa di mobilità internazionale, organizza il suo intervento sulle vittime di tratta stabilendo una netta distinzione tra tratta e “smuggling”. La tratta esiste soltanto quando: “un migrante é coinvolto in modo illecito (rapito, venduto o semplicemente reclutato) e/o trasportato sia all’interno del paese che in un altro paese. I trafficanti traggono vantaggio da ciò, economicamente o in altro modo, con la frode, la coercizione, e/o alter forme di sfruttamento, in condizioni che violano i diritti fondamentali dei migranti.” (IOM, 2002). Le linee guida di Palermo suggeriscono ai governi un chiaro percorso d’azione attraverso le 3P, i tre paradigmi, il paradigma delle 3P ciascuna delle quali dovrebbe avere la stessa importanza. Il margine d’autonomia degli stati è, però, ampio: i paesi europei, infatti, optano decisamente per il secondo paradigma, ovvero il perseguimento penale, trascurando gli altri due. Così, la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 19 luglio 2002 non prende in considerazioni le ragioni per cui gli immigrati diventano vittime della tratta ed insiste sul potenziamento del perseguimento penale dei trafficanti, incoraggiando la creazione di nuove leggi penali negli Stati membri, che sono invitati a punire ogni forma di reclutamento, trasporto, trasferimento, ospitalità nei confronti di una persona che è stata
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privata dei suoi diritti fondamentali, anche se consenziente, ovvero a prescindere dal consenso della vittima. Abbiamo visto che, a Palermo, il tema della tratta è stato connesso allo sfruttamento ed alla riduzione in schiavitù, superando il collegamento tra tratta e prostituzione. Tuttavia, nell’introduzione di misure di contrasto, i governi europei prestano maggiore attenzione alla tratta per sfruttamento sessuale – più mediatizzata – che a quella per sfruttamento lavorativo. In questa direzione, essi sono peraltro seguiti da alcune ONG e organizzazioni internazionali come la GAATW (Global Alliance Against Traffico di Donne), che, avendo un approccio di genere, insiste sulla schiavitù e servitù di cui sono vittime le donne, principalmente nella prostituzione: “Tutti gli atti ed i tentati atti impliciti nel reclutamento, trasporto all’interno ed all’esterno delle frontiere, acquisto, vendita, trasferimento, nascondimento di una persona (a) con l’uso d’inganno, coercizione (incluso l’uso di minacce o forza o abuso d’autorità) o attraverso il debito (b) allo scopo di collocare o mantenere questa persona in servitù involontaria (domestica, sessuale o riproduttiva), in lavoro forzato o costretto o in condizioni simili alla schiavitù, in una comunità diversa da quella in cui viveva al tempo dell’inganno, coercizione o legame di debito”.10
L’International Labour Organization (ILO, 2001), invece, si concentra soprattutto sulla tratta a scopo di lavoro forzato e definisce il modo per individuarla attraverso due indicatori fondamentali: il servizio è preteso sotto minaccia e viene intrapreso involontariamente. Questi due elementi costituiscono una varia gamma di condizioni / situazioni che vanno dal rapimento fisico alla vendita di una persona, dalla detenzione fisica nel luogo di lavoro alla costrizione psicologica, da una credibile minaccia di sanzione a false promesse e inganni, dal mancato pagamento del salario alla conservazione dei documenti di identità o altri beni preziosi personali. La minaccia di una sanzione (il mezzo di mantenere qualcuno in lavoro forzato) è definita dalla presenza, effettiva, di una credibile minaccia di violenza fisica nei confronti dei lavoratori o della sua famiglia, di violenza sessuale, (o minaccia di), di rappresaglia soprannaturale (rituali magici), di detenzione fisica o altre costrizioni. Grazie al lavoro dell’ILO, l’attenzione dei media e della politica, che, inizialmente concentrata principalmente sulla tratta per sfruttamento 10
“All acts and attempted acts involved in the recruitment, transportation within or across borders, purchase, sale, transfer, receipt or harbouring of a person (a) involving the use of deception, coercion (including the use or threat of force or the abuse of authority) or debt bondage (b) for the purpose of placing or holding such person, whether for pay or not, in involuntary servitude (domestic, sexual or reproductive), in forced or bonded labour, or in slavery-like conditions, in a community other than the one in which such person lived at the time of the original deception, coercion or debt bondage”.
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sessuale, si rivolge progressivamente anche alla tratta a scopo di lavoro forzato. Recenti stime dell’ILO (2008) sostengono che almeno 12,3 milioni d’adulti e bambini in tutto il mondo sono intrappolati nel lavoro semischiavo e nella prostituzione forzata: il 56% delle vittime sono donne e ragazze. Le vittime di tratta sono 2,4 milioni: il 43% lo sono a scopo di prostituzione, il 32% per sfruttamento lavorativo e il 25% per una miscela di entrambi. La tratta genera 32 miliardi di dollari di profitti annuali. Si stima anche che metà delle vittime abbiano meno di 18 anni11. Lim (2010), ricercatrice dell’ILO, sostiene che l’attenzione sulla tratta per sfruttamento sessuale e sulle donne vittime di tratta finisce per nascondere la vera dimensione del fenomeno stesso. Secondo Lim, il numero di persone che sono vittime di tratta per lavoro forzato è quasi equivalente, se non superiore, alle vittime di tratta per prostituzione, ed anche gli uomini sono largamente presenti tra le persone trafficate per lavoro. La presa in considerazione della tratta per sfruttamento lavorativo contribuisce a chiarire le complesse dinamiche nascoste dietro il fenomeno, le quali non possono essere colte dalla opposizione dicotomica tra criminali e vittime. La tratta si configura come un percorso complesso, nel corso del quale la coercizione e lo sfruttamento colpiscono spesso persone che si erano rivolte ai trafficanti perché, volontariamente, volevano migrare. Quanto ai criminali, essi sono parte di un sistema economico in cui i confini tra attività legali e illegali si confondono (possono eventualmente svolgere attività rispettabili nel paese d’origine). Infine, le politiche migratorie restrittive in vigore obbligano le persone che vogliono lasciare il loro paese a prendere decisioni rischiose. In conclusione, come sostengono i rapporti dell’ILO, il fenomeno della tratta è all’incrocio tra migrazione irregolare, economia e strutture lavorative.
3. Tratta, globalizzazione ed economia illegale Nella prima metà degli anni Novanta, la maggior parte delle ricerche sulla tratta hanno privilegiato il tema dello sfruttamento sessuale, interessandosi alla condizione di vita delle vittime, descritta grazie al metodo biografico, alle reti criminali, alle attività delle ONG ed alle buone pratiche di protezione. Va anche detto che molte pubblicazioni sono caratterizzate da 11 Vedi:http://www.ilo.org/global/About_the_ILO/Media_and_public_information/Feature_stories/lang--en/WCMS. (Dati riferiti al marzo 2008)
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un approccio giornalistico, particolarmente attento agli aspetti spettacolari, come la riduzione in schiavitù delle donne e la violenza dei criminali. A partire dalla metà degli anni Novanta, invece, diversi ricercatori cominciano ad affrontare il tema della tratta in una prospettiva più ampia, inserendola nelle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione sul mercato del lavoro e sul contesto migratorio internazionali: il nuovo ruolo delle organizzazioni criminali nell’economia globale, il contrasto tra circolazione di messaggi, stili di vita, capitali e politiche migratorie restrittive, la femminilizzazione della migrazione, in corrispondenza anche di una forte richiesta di servizi alla persona (e di lavoro di cura, il care work). Secondo Ruggiero (1997), la globalizzazione e l’apertura dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali hanno agevolato l’espansione della criminalità transfrontaliera organizzata, che ha trovato un nuova fonte di guadagno nella tratta. Sulla base della sua ricerca sulla criminalità, Ruggiero afferma che l’industria del traffico rappresenta un’area crescente d’economia illecita in termini di profitti generati, di cui beneficiano tutti i livelli di criminalità coinvolti nel settore, da individui isolati e piccoli gruppi di criminali fino alle grandi organizzazioni di tipo mafioso. Nella tratta esistono diversi livelli di cooperazione tra agenti, trasportatori, reclutatori, guardie, acquirenti, proprietari, falsari, clienti. John Salt e Jeremy Stein (1997) concepiscono tratta e “smuggling” come parti intermedie o fasi del business migratorio globale, che facilita il movimento delle persone tra i paesi di origine e quelli di destinazione. Il percorso è diviso in tre fasi: la mobilitazione ed il reclutamento dei migranti, il loro spostamento ed il loro inserimento e integrazione nel mercato del lavoro e nella società dei paesi di destinazione. Il business globale della migrazione internazionale presenta lati legittimi ed illegittimi. La tratta è al centro del business illegittimo. In uno studio sul traffico come una specifica forma di migrazione internazionale, Aronowitz sostiene che esso non avrebbe raggiunto l’attuale dimensione, se non fosse sostenuto da potenti forze del mercato (Aronowitz 2001: 171): il traffico può essere considerato un mercato “parallelo”, come il mercato della droga ed il mercato delle armi, ma sarebbe sbagliato vederlo separato dal mercato ufficiale o regolare. Al contrario, il mercato ufficiale o regolare beneficia chiaramente da questo settore, come da altri settori informali. Sulla stessa linea, Schloenhardt (1999) suggerisce che nel mercato mondiale globale, vi sia una continuità tra alcuni settori dell’economia formale, da un lato, dell’economia informale e criminale, dall’altro. Le stesse reti nazionali e transnazionali che organizzano il traffico non sempre agiscono al di fuori della “società normale”. Coloro che ne fanno parte possono anche godere
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di rispetto e considerazione nella società da cui provengono gli immigrati ed essere anche conosciuto personalmente dai migranti. Sulla base di quest’analisi, sia Ruggiero che Schloenhardt considerano inadeguata la strategia repressiva contro il traffico, anche se combinata con la prevenzione (attraverso campagne di informazione) e la protezione delle vittime. Ruggiero e Schloenhardt affermano chiaramente che il traffico è alimentato dalla contraddizione tra i mercati globali del consumismo e dei servizi, da un lato, e, dall’altro, una forza lavoro che è ancora bloccata, circoscritta da politiche migratorie restrittive attuate dai paesi ricchi a danno dei migranti dai paesi poveri. Politiche migratorie meno restrittive ridurrebbero il traffico. Cambiare le politiche migratorie è il primo passo da prendere in considerazione, al fine di risolvere il problema. Questo punto di vista è condiviso anche da David Kyle e Rey Koslowski (2006). Nella loro analisi, gli studiosi collocano la crescita del traffico all’incrocio tra globalizzazione, immigrazione e criminalità transnazionale. Analizzano poi la costruzione giuridica delle donne vittime di tratta in schiavitù, la costruzione sociale degli immigrati clandestini come minacce per l’ordine sociale, e le sanzioni inflitte per l’occupazione non autorizzata d’immigrati clandestini. Strategie fondate su questo tipo di costruzione giuridica e basate sulla dicotomia criminali / vittime non sono affatto efficaci contro la tratta, ma peggiorano la situazione dei migranti. Nel primo decennio del XXI secolo, sono sempre più numerosi gli studiosi del fenomeno che criticano le politiche migratorie restrittive, la criminalizzazione dei migranti irregolari e le strategie di lotta contro la tratta orientate sul delitto-punizione (e, in subordinata, sulla protezione della vittima, presa individualmente). Munck (2002) è critico sulla possibilità di gestire i flussi migratori, in un mondo così profondamente diviso tra paesi molto ricchi e molto poveri. Munck riconosce il valore della prospettiva internazionale dei diritti umani, sostenuta dalle Nazioni Unite, ma ne vede i limiti nella prospettiva individuale dei diritti, che non mette in discussione la logica economica e politica della globalizzazione, al cui centro v’è l’economia. Peraltro, la prospettiva dei diritti umani internazionali ignora un chiaro diritto umano come la libertà di circolazione. Al contrario, l’immigrazione irregolare è divenuta una delle principali preoccupazioni politiche sia a livello europeo che internazionale, ignorando i rischi enormi che i migranti incorrono nel loro tentativo di partire. L’approccio politico prevalente si concentra quasi esclusivamente sulla prevenzione della migrazione irregolare. Van Liempt (2005) critica le forme che la lotta contro la tratta ha assunto in Europa, sia in termini di leggi che di misure di protezione delle vittime. La criminalizzazione dei migranti irregolari va evitata, ma anche un
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sostegno alle vittime caso per caso, individualizzato, che finisce per interessare un numero molto limitato di persone, non può essere una risposta alla complessità della questione e contrastare efficacemente gli interessi in gioco. Van Liempt (2005) rileva che l’approccio centrato sulla vittimizzazione delle persone trafficate, che é spesso utilizzato dalle ONG, può perfino giustificare la deportazione, in nome del salvataggio delle vittime dai trafficanti. La prospettiva da sviluppare per un contrasto efficace deve invece considerare il traffico come parte “normale” dell’economia globale e del contesto migratorio ed abbandonare le politiche migratorie restrittive. Anche Gargi Bhattacharyya (2005) analizza la costruzione del “trafficking”, identificato dai paesi sviluppati come la principale minaccia per l’ordine internazionale, perché, irregolarmente, porta persone non volute nelle nicchie delle società ricche. In realtà, l’economia globale ufficiale ha, infatti, bisogno di un’economia illegale, come il traffico, senza la quale non vi sarebbe accesso ad una manodopera a basso costo, penetrazione in nuovi mercati, ed espansione in aree povere e disastrate. Il “trafficking” favorisce dunque l’espansione economica globale.
4. Tratta, migrazioni e genere Un certo numero di studiosi hanno introdotto la prospettiva di genere nell’analisi della tratta. El Cherkeh (2004), nella sua ricerca innovativa sulle donne vittime di tratta provenienti dall’Est Europeo, sostiene che la femminilizzazione della migrazione è al centro della questione “trafficking”, che è il risultato dell’intreccio tra offerta e domanda “lavorativa” all’origine del processo migratorio. La femminilizzazione della migrazione va analizzata su due livelli: in primo luogo, vanno individuate le motivazioni delle donne ad emigrare, individuando il peso crescente di motivazioni, che non sono correlati al ricongiungimento familiare; in secondo luogo, va compreso il contesto dei paesi della UE in cui un crescente numero di donne straniere vengono impiegate. In questa doppia prospettiva, la migrazione femminile può essere analizzata in termini economici generali, come incontro tra offerta e domanda (El-Cherkeh, 2004): il potenziale migratorio nel mondo post-comunista è rappresentato principalmente da donne, mentre in Europa cresce la domanda di lavoro di cura e “sex-work” (lavoro nell’industria del sesso). Le politiche migratorie restrittive interferiscono nella corrispondenza tra domanda e offerta, bloccando il flussi e favorendo la tratta. Guillemaut (2004) si concentra sulla discriminazione di genere: le disuguaglianze di fronte al lavoro pongono le donne in una posizione di su-
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bordinazione strutturale in tutti i settori economici. Le politiche migratorie restrittive creano un mercato particolarmente favorevole per i trafficanti che approfittano della volontà delle donne di emigrare e della richiesta di lavoro femminile nei paesi europei. Invece di considerare quest’insieme di fattori, i media producono stereotipi che stigmatizzano le donne migranti, mettendole nella posizione delle vittime ingenue, a cui è negata qualsiasi “agency” – autonomia d’azione. El Cherkeh e Guillemaut insistono sulla femminilizzazione della migrazione, sul ruolo delle donne nel mantenimento delle famiglie nei paese d’origine, in particolare in Europa dell’Est, nei quali esse sono state espulsi dal mercato del lavoro. La discriminazione di genere, la femminilizzazione delle migrazioni, l’etnicizzazione di alcuni settori del mercato del lavoro (in particolare il lavoro domestico e il lavoro nell’industria del sesso) e l’intersezionalità (intersectionality) tra genere/razza e classe sono le categorie di analisi che possono consentire un’analisi più completa del fenomeno della tratta, come mostrano anche i lavori di Kempadoo (2005), Doezema (2007) e Pajnik (2008). Queste studiose evitano di inserire il tema della tratta in quello sulla prostituzione, che è una questione controversa, anche a causa delle differenze nello statuto dell’attività stessa (lavoro “normale” o pratica da tenere sotto controllo e, eventualmente, da ridurre fino alla sua eliminazione) tra i diversi paesi europei. L’aspetto interessante di questi lavori è l’importanza dell’“agency” – dell’azione autonoma delle donne che decidono di partire: esse non possono essere considerate soltanto delle vittime, in quanto hanno un ruolo di attori della migrazione. La prospettiva di genere di questi lavori rivela un altro punto importante: la riduzione in schiavitù non dipende soltanto dal fenomeno della tratta, ma è una diretta conseguenza delle condizioni di lavoro, che si verificano spesso nel lavoro domestico o nel lavoro del sesso, ossia in lavori tipicamente svolti da donne. Critiche all’approccio seguito dai paesi d’immigrazione, nei confronti delle migrazioni femminili ed in particolare delle vittime di tratta provengono non soltanto dalle studiose, ma anche dalle organizzazioni internazionali. La Guide on Gender-Sensitive Labour Migration Policies (Guida delle Politiche Migratorie e lavorative sensibili al genere), pubblicata dall’ OCSE nel 2009, sottolinea come la mancanza di una prospettiva di genere e di politiche migratorie specifiche per soddisfare le esigenze dei lavoratori di sesso femminile, faccia sì che le donne siano particolarmente vulnerabili allo sfruttamento, e, nel caso peggiore, cadano vittime della tratta. Pertanto, mentre la migrazione offre nuove opportunità per le donne e provoca benefici alle economie nazionali, essa può anche costituire una minaccia specifica alla sicurezza ed ai diritti umani dei migranti (OCSE, 2009) La guida afferma
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che le lavoratrici migranti sperimentano spesso svantaggi diversi rispetto agli uomini in tutte le fasi del processo migratorio, a causa del loro status, per la natura del mondo del lavoro, il tipo di requisiti d’istruzione, i ruoli stereotipati maschili e femminili. L’OCSE insiste sul fatto che sia i paesi d’origine che quelli di destinazione devono adottare politiche e programmi specifici per le donne migranti (OCSE, 2009: II).
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5. L’urgenza di un nuovo approccio alla tratta e la deriva populista La mancanza di politiche migratorie adeguate, nei confronti delle donne denunciata dall’OCSE, si riflette anche nella protezione delle vittime di tratta, che non seguono le linee guide, teoricamente mirate all’“empowerment”, come denunciano l’“E-notes monitoring exercise”12, uno studio condotto per conto dell’Unione Europea per monitorare gli interventi sulla tratta, e il già citato TIP Report 2010. Secondo il Rapporto e-notes, l’introduzione di misure legali più severe per punire i trafficanti non è stata accompagnata da un’adeguata protezione delle persone trafficate, sulle quali, tra l’altro, i governi hanno pochissime informazioni. Per esempio, in termini d’identificazione formale, solo 11 dei 27 Stati membri hanno una singola agenzia del governo o una struttura responsabile di fare un’identificazione formale di chi è presumibilmente stato/a vittima di tratta. Il TIP 2010 esprime conclusioni molto negative sulle politiche e le misure attuate dagli Stati membri dell’Unione Europea in materia di tratta: essi sono passati dal paradigma delle 3P (prevenzione, perseguimento penale e protezione delle vittime) per quello delle 3D (detenzione, deportazione e dis-em-powerment). Il Rapporto mette sotto accusa il modo in cui i governi europei si rapportano alla migrazione irregolare, una vera e propria ossessione da risolvere eliminando e non distinguendo, al suo interno, i diversi flussi. Senza negare il fatto che i paesi europei, come molti paesi in tutto il mondo, devono affrontare sfide apparentemente insormontabili nel fronteggiare l’immigrazione irregolare, il rapporto critica la scelta dei governi che deportano sommariamente i migranti irregolari, senza esaminare attentamente il fatto se siano bisognosi di protezione o senza fare lo screening degli gli indicatori di sfruttamento e di tratta. A monte di quest’atteggiamento indiscriminato, 12 Vedi: http://www.e-notes-observatory.org/wp-content/uploads/E-notes-report_Adobe-61.pdf
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vi è il contesto politico in Europa, dove i governi sono sfidati dalla crescita di forze populiste, dalla Lega Nord in Italia al Partito della Libertà in Olanda, che utilizzano l’ostilità verso gli immigrati come principale argomento elettorale. La tratta è una forma di migrazione irregolare, su cui i governi possono mostrare all’opinione pubblica tutta la loro durezza. Il rapporto TIP 2010 analizza anche le politiche di controllo delle frontiere che circondano la “Fortezza Europa”, criticando esplicitamente l’accordo italolibico del 2009, sulla base del quale l’Italia intercettava migliaia di migranti sub-sahariani in rotta verso l’Europa e li restituiva alla custodia delle autorità libiche. Il TIP 2010 critica anche il governo spagnolo: a Ceuta, migliaia di migranti intercettati nel tentativo di arrivare sul suolo spagnolo dopo viaggi attraverso il Sahara e il Nord Africa, vengono espulsi regolarmente verso il Marocco senza che le autorità spagnole determinino se sono vittime di tratta o richiedenti d’asilo (pag. 24). Queste politiche, oltre ad ignorare i diritti umani, rendendo impossibile la protezione delle vittime, hanno come conseguenza la moltiplicazione dei casi di tratta. I migranti, che non sono ancora in situazioni di traffico, sono più vulnerabili al lavoro forzato ed alla prostituzione forzata perché gli sfruttatori possono utilizzare efficacemente la minaccia della detenzione e della deportazione – senza la possibilità di ricorso ai tribunale. I migranti espulsi verso paesi terzi senza protezione e senza documenti, diventano particolarmente vulnerabili alla tratta. Per questo, il TIP 2010 invita i governi a rispettare i principi e le linee guida sulla protezione delle vittime di tratta sviluppate nelle diverse conferenze internazionali.
Conclusioni Abbiamo visto che, nel corso degli anni, l’approccio alla tratta come una questione essenzialmente criminale ha lasciato il posto ad una visione “olistica”, che inserisce la tratta nel contesto migratorio internazionale, nelle relazioni tra paesi ricchi e paesi poveri, nelle discriminazioni di genere. Questa nuova visione è sostenuta tanto dal mondo accademico come dalle principali organizzazioni internazionali, ONG e perfino dal Dipartimento di Stato degli USA. Le analisi, le ricerche ed i rapporti mostrano che le politiche migratorie restrittive in vigore in diversi paesi, in particolare in Europa, che esprimono l’ossessione per l’immigrazione clandestina, non tengono sufficientemente conto dei diritti umani, costituiscono un ostacolo per la tutela delle vittime e finiscono, finalmente, per favorire la tratta. Per questi motivi, i principali osservatori del fenomeno tratta, tanto nel mondo accademico come nelle organizzazioni internazionali, sostengono
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che è urgente elaborare, a livello di Unione Europea, politiche migratorie che aprano i canali ufficiali di immigrazione, abbandonando l’ossessione della migrazione irregolare. I potenziali migranti non saranno così costretti a ricorrere ai trafficanti per venire in Europa. La stessa urgenza riguarda la formulazione di politiche di tutela delle vittime di tratta, basate sul rispetto e la responsabilizzazione, tenendo conto della prospettiva di genere.
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TRATTA E SCHIAVITÙ. LE AMBIGUITÀ DEL DIRITTO E DELLE POLITICHE PUBBLICHE
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Marco A. Quiroz Vitale
1. Le contraddizioni della produzione normativa: le due politiche La normativa italiana ha carattere alluvionale, il paesaggio che si offre allo sguardo dei giuristi è frutto di una progressiva deposizione di sedimenti legislativi trasportati da molteplici correnti di produzione normativa. Un emblematico esempio di questa situazione è costituito dal reato di “tratta” che è divenuto progressivamente un termine polisemico: il medesimo significante, per progressive estensioni metaforiche, ha finito per assumere significati via via diversi, a tal segno che ancor prima di iniziare ad affrontare il problema della tratta di esseri umani è necessario accordarsi sul senso che si voglia attribuire al tema. Fino all’inizio del secolo era possibile tentare una sorta di reductio ad unum grazie al discorso giuridico fondato sull’art. 18 del TU sull’immigrazione che, contrapponendosi all’art. 12, costituiva fondamento unico del diritto umanitario a favore degli immigrati ed unificava, attraverso un rinvio per relationem a tutti i reati di tratta, schiavitù e commercio di schiavi, il quadro giuridico rispetto al quale era possibile individuare i soggetti vittime di reati così gravi da imporre un intervento umanitario in loro favore. Oggi credo che ciò non sia più possibile e si siano delineate, a partire dal 2000, due linee normative divergenti che sostengono due diverse policies.
1.1 La politica di “soccorso” e le nuove schiavitù Da un lato, a livello sovranazionale, le Nazioni Unite han promosso la formulazione di due fondamentali Protocolli addizionali alla Convezione di
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Palermo1 che incrociano trasversalmente sia le azioni di lotta alla schiavitù2 sia quelle contro lo sfruttamento della prostituzione3. Il Legislatore italiano, seguendo l’indicazione della Conferenza di Palermo, con la Legge n. 228 del 2003 “Misure contro la tratta di persone”, ha modificato il codice penale per riformulare il reato di riduzione in schiavitù di derivazione ottocentesca, che, pur permanendo nel corpus del codice, non dava luogo a significative applicazioni pratiche. Il nuovo art. 600 c.p. stabilisce, come due secoli addietro, che è in condizione di schiavitù colui che subisce altrui poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ma si discosta dalla tradizione giuridica più risalente nella misura in cui definisce lo stato di “servitù”, frutto dei processi di globalizzazione, come lo stato in cui viene a trovarsi chi è in “soggezione continuativa”, costretto “a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento” (Giammarinaro 2000). Tuttavia la norma penale, comprensibilmente, circoscrive in termini precisi la condotta punita – peraltro, molto severamente, con una pena da otto a vent’anni – di chi riduca altri in schiavitù: “La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” (art. 600 c.p.); la giurisprudenza della Suprema Corte ha ulteriormente chiarito che: “La previsione di cui all’art. 600 cod. pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. Quest’ultima fattispecie configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima è costretta a svolgere date prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente alternativamente, tra l’altro, mediante violenza, minaccia, inganno, 1
Tali Protocolli sono entrati in vigore il 25 dicembre 2003 a seguito del procedimento avviato con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, adottata nella Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000. 2 Convenzione di Ginevra relativa alla schiavitù (R.D. 26 Aprile 1298, n. 1723) e Convenzione supplementare relativa all’abolizione della schiavitù della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù, (L. 20 dicembre 1957, n. 1304). 3 Convenzione di New York per la repressione della tratta di esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione (L. 23 novembre 1966, n. 1173).
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abuso di autorità ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Ne deriva che, perché sussista la costrizione a prestazioni (nella specie sessuali) – in presenza dello stato di necessità che è un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e che deve essere inteso come situazione di debolezza o mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della persona – è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore; mentre la costrizione alla prestazione deve essere esercitata con violenza o minaccia, inganno o abuso di autorità nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità”. (Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 4012 del 15-12-2005)
Nel caso riportato, la Cassazione ha giudicato corretta ed ha, quindi, confermato la decisione della Corte d’Assise di Appello di Milano che – in riforma della decisione della Corte d’Assise – aveva ritenuto la sussistenza del delitto di “riduzione in schiavitù” perché le vittime erano state acquistate – previa ispezione del corpo – per dieci milioni di lire, reclutate in Moldavia, introdotte clandestinamente in Italia, private della libertà di movimento, segregate in appartamenti, assoggettate nei luoghi pubblici a costante sorveglianza ed, infine, indotte a praticare la prostituzione consegnando ai trafficanti i proventi del meretricio; la sentenza citata chiarisce che in simili circostanze non è necessario che le vittime siano costrette ad esercitare la prostituzione con metodi ulteriormente coercitivi (cioè con violenza o minaccia). Orbene, non v’è chi non veda come questa interpretazione dell’art. 600, sebbene meno restrittiva di quella originariamente data dalla Corte d’Assise di Milano, si riferisca, in ogni caso, a situazioni limite, in cui il potere dell’uomo sull’uomo si esplica in forme di inaudita violenza attraverso umiliazioni e trattamenti che causano orrore e ripulsa ai membri di una società civile. A seguito della ratifica della Convenzione di Varsavia4 il Legislatore ha ulteriormente modificato gli articoli 600 e ss. del codice penale ed introdotto l’art. 602 ter, che persegue, tuttavia, la medesima politica anticrimine sopra abbozzata5. 4 L. 02-07-2010, n. 108, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani”, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005, nonché “norme di adeguamento dell’ordinamento interno”, pubblicata nella Gazz. Uff. 15 luglio 2010, n. 163. 5 “Art. 602-ter (Circostanze aggravanti). – La pena per i reati previsti dagli articoli 600, 601 e 602 è aumentata da un terzo alla metà: a) se la persona offesa è minore degli anni diciotto; b) se i fatti sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi; c) se dal fatto deriva un grave pericolo per la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa. Se i fatti previsti dal titolo VII, capo III, del presente libro sono commessi al fine di realizzare od agevolare i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, le pene ivi previste sono aumentate da un terzo alla metà”.
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Questi interventi normativi, che si sono sviluppati a partire dal 2000, sono accomunati, è bene sottolinearlo, a livello internazionale – e più limitatamente anche nel nostro Paese – per la caratteristica di riconoscere lo status di vittima, straniera e quindi meritevole di un intervento di natura assistenziale da parte degli organi degli Stati di “destinazione”, solo a quegli individui che siano stati oggetto di forme così umilianti di sfruttamento o trattamento tali da integrare un reato come quello previsto dall’art. 600 del codice penale. Ogni altra situazione, che non raggiunga simili livelli di abnorme violenza, dovrebbe essere coerentemente esclusa dagli obiettivi di messa in opera di questa politica pubblica – che ha una precipua funzione di “soccorso” – e lasciata alle determinazioni di politica migratoria dei singoli Stati, i quali sono, in linea di massima, obbligati a respingere gli stranieri alla frontiera e rimpatriarli verso i rispettivi Paesi di provenienza.
1.2 La politica dell’accoglienza e le vittime della tratta Come si è ampliamente argomentato altrove (Quiroz Vitale 2010a), contrariamente a questa apparente linearità, la legislazione italiana presenta proprio le caratteristiche alluvionali di cui si è detto; infatti la nuova “schiavitù” ed il suo commercio, così come riformulata nel 2003 dalla legge sulla tratta, si è aggiunta, senza abrogarlo, al vecchio reato di “tratta delle prostitute” previsto dalla fondamentale legge Merlin6; nel settore dello “sfruttamento sessuale” delle donne straniere abbiamo, pertanto, almeno due distinti reati denominati “tratta” che concorrono, a loro volta, con le norme penali dettate dal T.U. sull’immigrazione, che puniscono gli ingressi di clandestini destinati ad essere avviati allo sfruttamento della prostituzione7; inoltre, gli studi empirici (Quiroz Vitale, 2002a) hanno mostrato che, nel corso delle indagini e dei processi, tutti questi reati ricorrono, statisticamente, con forte frequenza in concorso coi reati contro la vita, l’incolumità e la libertà della persona (come, ad esempio, l’omicidio o il sequestro di persona), la prostituzione e la pornografia minorile, il turismo sessuale, la rapina, l’estorsione, il traffico d’armi, il traffico di sostanze stupefacenti, l’associazione a delinquere semplice e di stampo mafioso; tutte queste ulteriori fattispecie vanno a comporre la rete delle condizioni di 6
L. n. 75 del 1958, “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”. 7 Art. 12, c. 3 bis del D.Lgs. n. 286 del 1998, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, pubblicato nella Gazz. Uff. 18 agosto 1998, n. 191.
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asservimento utilizzate da parte dei trafficanti di esseri umani per piegare ai propri fini la volontà delle vittime. Questo è, senza dubbio, il motivo per il quale, nel nostro Paese, la politica pubblica di “soccorso” che offre un primo sostegno alle vittime-schiave non possa porsi come l’unica forma di attuazione del diritto umanitario a favore delle donne straniere clandestine. Attualmente, infatti, il panorama normativo trova un elemento di forte discontinuità nella disciplina di tipo umanitario, costituita dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione – introdotto originariamente nel nostro ordinamento giuridico dalla Legge “Turco-Napolitano”. Tale disciplina costituisce, ancor oggi, la base normativa per la implementazione di una ben diversa politica pubblica volta alla accoglienza delle vittime. É dunque nel quadro di questa policy che avviene – come vedremo in seguito – la costruzione sociale della vittima della tratta (Quiroz Vitale, 2002b) rendendo evidente, più che altrove, come sia il diritto vivente a porsi quale fonte principale dei rapporti giuridici, ben oltre le astratte proposizioni giuridiche. L’art. 18 opera, infatti, su un piano diverso da quello della politica criminale e delinea uno specifico procedimento per la concessione di uno speciale permesso di soggiorno a carattere umanitario. Un simile procedimento amministrativo sorregge, a sua volta, una politica pubblica, orientata all’accoglienza, che si compone di molteplici altri interventi riconducibili all’attività di Ministri, Questori, Magistrati ed Enti locali oltre che a realtà del privato sociale convenzionato con il pubblico (Quiroz Vitale, 2002). Dispone, infatti, l’art. 18 che il Questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il suo parere favorevole, rilasci uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale. Il permesso di soggiorno ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno, o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia, consente l’accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché l’iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato, fatti salvi i requisiti minimi di età. Alla scadenza, può essere altresì convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di studio, dando luogo ad una permanenza stabile e potenzialmente illimitata sul territorio dello Stato italiano. Il punto essenziale è, tuttavia, stabilire quando ed entro quali limiti l’art. 18 trovi concreta applicazione: da ciò dipende infatti non solo l’ampiezza potenziale della politica dell’accoglienza ma, soprattutto, la differenza rispetto alla politica di “soccorso” che, come abbiamo anticipato, è limitata ai casi concettualmente estremi e rarissimi di riduzione in schiavitù o situazioni di asservimento.
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A seguito di un ampio scontro, in seno alla cultura giuridica interna, sono emerse alcune stabili linee di interpretazione che hanno esteso in forma molto ampia il ricorso al permesso di soggiorno a fini umanitari. Da un lato la giurisprudenza, che ha dovuto dirimere il conflitto interpretativo, ne ha escluso il carattere “premiale” cioè che tale permesso dovesse essere concesso solo alle vittime utilizzabili come fonti o testimoni nelle indagini penali. Così ad esempio il Consiglio di Stato ha stabilito che: “L’autorizzazione alla permanenza in Italia per le ragioni di cui all’art. 18, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 non si può considerare avente valore premiale del contributo reso al corso delle indagini di polizia giudiziaria proseguite in sede penale; essa, infatti, persegue l’esigenza sul piano sociale di assicurare immediata protezione alla parte considerata debole, ossia lo straniero vittima di violenza o di grave sfruttamento, per dargli la possibilità di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti di organizzazioni criminali e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale”. (Sez. VI, sent. n. 6023 del 10-10-2006)
D’altro lato sempre la giurisprudenza ha accolto le tesi, vigorosamente sostenute dagli enti del privato-sociale secondo cui: “l’art. 18, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, stabilisce che il permesso di soggiorno per le ragioni di protezione sociale deve essere rilasciato dal Questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica o con il parere favorevole della stessa autorità: in assenza, quindi, della suddetta proposta, grava sull’Autorità di Pubblica Sicurezza l’obbligo di esternare le ragioni ostative al rilascio del permesso di soggiorno per i motivi di cui al suddetto art. 18 con autonoma valutazione dei fatti e circostanze indicate dallo straniero istante”. (Sez. VI, sent. n. 6023 del 10-10-2006)
Ciò ha significato concretamente che la politica dell’accoglienza sia del tutto indipendente dalle scelte di politica criminale e che gli accertamenti volti al riconoscimento di status della vittima ai sensi e per gli effetti dell’art. 18 del T.U. non siano dipendenti dalla celebrazione dei processi penali, potendo provenire dal lavoro degli Enti locali o del privato sociale convenzionato.
1.3 Le due politiche A questo punto è possibile delineare chiaramente la distinzione tra le due politiche: quella di “soccorso” ex art. 12 della L. 11-8-2003 n. 228 “Misure contro la tratta di persone” e quella di “accoglienza” ex art. 18 del T.U. sull’immigrazione.
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Da un lato, infatti, la riduzione in schiavitù e la tratta degli schiavi danno luogo a circoscritti casi, statisticamente molto limitati, di difficile persecuzione penale e che comportano un impegno probatorio enorme; la correlativa politica di soccorso basata su “programmi di assistenza e di integrazione sociale in favore delle vittime” si pone come una limitata eccezione alla regola generale che impone il respingimento, l’espulsione ed il rimpatrio forzato di tutti i clandestini, anche di quelli che siano stati oggetto di trattamento e pratiche disumane, approfittamenti, violenze e angherie da parte dei trafficanti di esseri umani e degli sfruttatori appartenenti agli Stati di destinazione. L’art. 18, come espressione del diritto umanitario, non richiede, necessariamente, una “riduzione in schiavitù” ma consente di implementare politiche dell’accoglienza verso tutte le persone che nel corso di operazioni di polizia, di indagini, di processi o nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali siano riconosciute vittime di uno dei delitti di cui alla legge Merlin (principalmente lo sfruttamento della prostituzione), o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale (cioè tutti i più gravi reati contro la persona). Gli unici presupposti per l’avvio della politica dell’accoglienza sono, dunque, l’accertamento di situazioni di “violenza” o di “grave sfruttamento” nei confronti di uno straniero, ed il fatto che emergano concreti pericoli per la incolumità dello straniero per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio. È evidente che anche questi presupposti si riferiscono a terribili condizioni di vita e ad esperienze umane sconvolgenti, ma la possibilità di pratica applicazione della normativa umanitaria è notevolmente più ampia. Nella sola Lombardia, ad esempio, nel periodo compreso tra il gennaio 2009 ed il giugno 2010 le “unità di strada”, cioè i gruppi di operatori sociali operanti sulle strade luogo di prostituzione, hanno contattato 5.572 persone: quasi tutte donne costrette a prostituirsi, salvo un 4% di uomini prostituti (travestiti e transessuli). Nello stesso periodo le comunità accreditate hanno accolto oltre 400 persone, nella quasi totalità donne clandestine, che si sono volute sottrarre agli sfruttatori (Beratto e a. 2010). La compresenza di due distinte policies e l’occulta competizione tra le stesse è per lo più ignorata o sottovalutata in quanto attualmente il coordinamento delle politiche e la gestione dei relativi fondi avviene grazie all’attività dello stesso Dicastero e la messa in opera è realizzata per intervento dei medesimi operatori sociali. Nel quadro ambiguo del nostro diritto, che alimenta la polisemia del termine “tratta”, le due politiche si intrecciano, si sovrappongono e si confondono consentendo il ricorso ai fondi ex art. 18
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o ex art. 12, quasi indifferentemente; tuttavia la logica e le finalità sottese ai due interventi giuridici e sociali che abbiamo delineato sono, nel lungo periodo, divergenti e, a parere di chi scrive, le contraddizioni non tarderanno a manifestarsi.
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2. La vittima straniera tra schiavitù e stigmatizzazione Il diritto non è solo uno strumento per realizzare politiche pubbliche ma, nelle nostre società, ha anche un profondo significato simbolico e la figura estrema della vittima nell’era della globalizzazione è proprio lo schiavo (Bales, 2000; Arlacchi, 1999). La legge L. 11-8-2003 n. 228 “Misure contro la tratta di persone”, a mio avviso, ha riscosso un unanime consenso proprio perché se ne è ignorato il riflesso sulla definizione delle politiche pubbliche e se ne è, al contrario, enfatizzato il carattere simbolico, cioè la capacità di trasferire il disvalore sociale della schiavitù al fenomeno della prostituzione non volontaria, soprattutto quella esercitata nelle strade e nei luoghi pubblici. Inoltre, vogliamo sottolineare il fatto che, oltre alle funzioni palesi e dichiarate, le norme giuridiche sono capaci di svolgere funzioni occulte che, come in questo caso, finiscono con l’alterarne lo stesso significato, nell’ambito di un contesto giuridico tutt’altro che univoco.
2.1 Il significato simbolico del reato di riduzione in schiavitù La modifica del codice penale operata nel 2003 e, soprattutto, l’operazione culturale che ha sostenuto il mutamento giuridico che abbiamo descritto non è stata, in realtà, né semplice né indolore; non possiamo sottovalutare, infatti, che le “condizioni” e le “istituzioni” di asservimento o di schiavitù nell’epoca contemporanea costituiscono elementi di contraddizione che continuano a generare dilemmi morali e politici. Simon Roberts-Thompson, a questo proposito, ha scritto: “L’istituzione della schiavitù così costituisce una severa minaccia al rispetto di sé e in particolare al rispetto di sé consapevole di coloro che sono schiavizzati. L’istituzione della schiavitù esprime l’idea che le vite di coloro che sono schiavi siano di minor valore rispetto alle vite di coloro che sono liberi” 8. 8 The institution of slavery thus constitutes a severe threat to the self respect and in particular to the recognition self respect, of those who are enslaved. The institution of slavery
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Un’istituzione giuridica o economica che attribuisca sistematicamente più valore alle vite di alcuni uomini rispetto a quella di altri contrasta con i valori su cui si basano le moderne democrazie ed in particolare scuote alle fondamenta le convinzioni condivise su cui si basano gli Stati democratici di diritto; ecco perché le nuove forme di schiavitù si sviluppano ormai quasi esclusivamente nel quadro dei processi migratori della globalizzazione di cui sono una delle più visibili manifestazioni (Ambrosini, 2005; Abbatecola, 2005). Il migrante, che in tali corsi d’azione viene “ridotto a cosa”, subisce, però, uno specifico processo di stigmatizzazione sociale nel senso chiarito da Goffman (2007), in quanto viene a trovarsi proprio nella scomoda situazione condivisa da tutte le persone che portano nelle loro carni un marchio sociale. Accade, cioè, che gli altri esseri umani che interagiscono con lo schiavo dell’era della globalizzazione non gli accordino quel rispetto e quella considerazione che le coordinate intatte della sua identità sociale, prima della riduzione in schiavitù, gli avevano offerto e che lui aveva, in precedenza, creduto di poter ricevere. L’avvio di questo processo sociale è possibile, rebus sic stantibus, quasi esclusivamente rispetto a quelle situazioni sociali, come le migrazioni clandestine, in cui i valori e le regole degli stati democratici di diritto sono sostenute più timidamente o con crescente incertezza dai principali attori sociali o politici. La riduzione in schiavitù e la correlativa condizione dello schiavo moderno9 è caratterizzata dal fatto che, come è stato giustamente osservato, per qualunque schiavo è assai arduo, se rifiuta la condizione di asservimento e tenta di affermare la propria autonomia morale, sentirsi “a proprio agio” nell’ambiente sociale in cui si trova a vivere; d’altro canto, qualora lo schiavo abbia interiorizzato il sistema di valori schiavista sino al punto di sentirsi a proprio agio in tale condizione, non potrebbe al contempo conservare rispetto per se stesso, in quanto il proprio valore di essere umano, a differenza degli uomini liberi, dipende dal valore di mercato che questi rappresenta per la società. In virtù di tale argomento logico, Roberts-Thompson giunge alla condivisibile conclusione che la schiavitù è un’istituzione ingiusta nella misura in cui “it makes it impossible for slaves to realize their fundamental interests, in particular their interests in self respect and in being at home in the world” (Roberts-Thompson, 2008: 81). Ciò che intendo sostenere è che, probabilmente, proprio per questo motivo, le moderne società globalizzate non sono state ancora in grado di express the idea that the lives of those who are slaves are less valuable than the lives of those who are free. (Roberts-Thompson 2008: 74). 9 Per un utile confronto con forme classiche di schiavitù, immigrazione e deportazione vedi Schirollo (1979) e Barbero (2006).
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“metabolizzare” anche il traffico di esseri umani sebbene siano riuscite ad assimilare concetti ostici come la “guerra umanitaria” e malgrado abbiano velocemente rinunciato alle antichissime tradizioni di ospitalità per assecondare le esigenze di conservazione degli equilibri economici e politici internazionali, oppure siano persino riuscite ad accettare scandalosi compromessi con i propri valori etici10 in base a mere considerazioni di mercato.
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2.2 La schiavitù volontaria e l’(auto)deportazione Il diritto ha giocato, dunque, un ruolo essenziale per colpire con la massima riprovazione morale lo sfruttamento della prostituzione non volontaria attuata con le forme di privazione della libertà o di violenza che abbiamo tracciato. Tuttavia lo spostamento di attenzione sulle nuove schiavitù conduce anche ad altre conseguenze latenti di non minore importanza: in primis porta ad isolare le vittime della tratta dai problemi e dai temi delle migrazioni. Ciò non significa solo che sono indirettamente legittimate le politiche criminali, basate sui respingimenti ed i rimpatri forzosi per tutti i casi diversi da quelli estremi di schiavismo, ma che la stessa tratta delle persone destinate allo sfruttamento della prostituzione non potrebbe essere considerata una forma di migrazione ma un’espressione del diverso fenomeno sociale della deportazione. Un’interessante riflessione in proposito è stata svolta da Ermanno Vitale che finemente distingue tra il significato centrale del termine “migrazione” e la sua forma archetipica, cioè la “deportazione”. Secondo Vitale: “Un’altra figura di migrante, tipicamente e tragicamente novecentesca, perché connessa a doppio filo con il fenomeno del totalitarismo, è quella del deportato. Anche a questo proposito qualcuno potrebbe dire, pensando alle innumerevoli tratte degli schiavi, nihil sub sole novi … Il fenomeno della deportazione va poi tenuto analiticamente distinto perché, a differenza delle altre forme di migrazione, risulta totalmente privo, per definizione, di un pur pallido elemento di scelta, di assenso, da parte dei soggetti deportati”. (Vitale, 2004: 92).
Tuttavia, sempre secondo Vitale, tra l’estremo della deportazione ed il significato centrale del termine “migrazione”, che presuppone la presenza 10
Nessuno, tra coloro che giustificano, ad esempio, la chiusura delle frontiere con la difesa della cristianità ricordano la scena evangelica del giudizio finale (Matteo, 25) là dove Gesù avverte che colui che accoglie il forestiero accoglie Lui stesso: “Ero forestiero e mi avete ospitato (…). Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
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dell’elemento della scelta o del progetto individuale voluto, anche se sulla spinta di circostanze cogenti, può essere delineata una dimensione intermedia che originalmente denomina “deportazione volontaria” o “autodeportazione”. Orbene, se l’(auto)deportato è il soggetto che, con determinazione originariamente volontaria e quindi libera, rende se stesso oggetto disponibile alla perdita della propria dignità di essere umano – con tutte le conseguenze di tale gesto, ivi compresa la deportazione e quindi il passaggio, come merce, attraverso le frontiere statuali – allora tale idealtipo sembra particolarmente utile per interpretare quelle realtà di vittimizzazione che, pur non traducendosi in vera e propria riduzione in schiavitù, danno luogo ad una forte compressione della libertà personale e morale delle persone offese coinvolte. La condizione dell’(auto)deportato consisterebbe, dunque, nell’accettazione di considerare se stessi come soggetti disponibili alla perdita della propria dignità di essere umano con tutto ciò che un simile gesto comporta, cioè l’ultima espressione di autonomia morale dei migranti clandestini: “consisterebbe proprio nell’alienarla nel privarsene, decidendo di affrontare e subire le condizioni di vita proprie del deportato, sia per quanto concerne il viaggio sia soprattutto per quanto concerne una probabile situazione di asservimento al suo termine. In cambio, c’è solo, forse, un’indeterminata speranza, spesso pagata a caro prezzo e poi tradita, di maggiori chances di sopravvivenza, con le stesse probabilità di riuscita di un viaggio in bottiglia”. (Vitale, 2004: 92-93).
La difficoltà dell’inquadramento della deportazione e della (auto)deportazione risiede, dal nostro punto di vista, in ciò che siamo costretti a ridefinire la sfuggente linea di demarcazione tra la rassicurante non volontarietà e la scandalosa volontarietà della servitù. Ma v’è di più! Sotto l’apparenza compare una ancor maggiore difficoltà, perché dobbiamo prendere coscienza che proprio negli Stati democratici di diritto ad una crescente offerta di schiavitù delle organizzazioni criminali corrisponde una domanda consapevole, o ipocritamente tollerata, di prestazioni servili (Vitale, 2004: 98). Il punto di vista, allora, cambia se osserviamo il tema della tratta nella prospettiva dei valori irrinunciabili delle società civili; senza più alibi o ipocrisie il ragionamento sin qui condotto ci impone di considerare il disvalore della riduzione in schiavitù – nel caso in cui le vittime sono state deportate dai trafficanti cioè trasferite contro la loro volontà da uno Stato all’altro per essere sfruttate – ed il disvalore di situazioni di grave sfruttamento di vittime clandestine – nel diverso caso in cui esse si siano volontariamente consegnate ai trafficanti – perfettamente equivalenti. Ciò è vero anche nel caso in cui, per assurdo, le stesse vittime condividano la visione utilitarista dei loro sfruttatori e siano consce che il loro sfrutta-
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mento sia il modo più efficiente per raggiungere gli obiettivi economici che si sono prefisse. È questo il caso – affrontato da Simon Robert-Thompson (2008: 77) – dello schiavo utilitarista che condivide la medesima visione utilitaristica fatta propria dagli schiavisti ed è conscio del fatto che solo la sua soggezione è in grado di massimizzare l’utilità che si possa trarre dalla propria attività. Questa che sembra una esercitazione teorica, permette, al contrario, di comprendere i dilemmi morali in cui si dibattono molte donne che possono intuire quale sciagura, per se stesse, possa rappresentare la decisione di affidarsi all’opera dei trafficanti di esseri umani che prospettano loro la possibilità di lavorare in Europa chiarendo, talvolta, che l’attività da svolgere sarà il meretricio. Tali donne ritengono necessario realizzare forti ed immediati guadagni per sé stesse o per i genitori o i figli che rimangono nel paese di origine e sono altresì consce del fatto che nessun altra attività o nessun altro canale migratorio consentirebbe loro di massimizzare i profitti della loro impresa. Orbene, il problema che poniamo non è tanto la valutazione morale della loro decisione – quella che Ermanno Vitale considera l’ultima espressione della propria autonomia morale – ma la valutazione morale e sociale della condizione in cui vengono a trovarsi le vittime del traffico e l’azione dei loro sfruttatori. Ancora una volta è utile la riflessione di Robert-Thompson: “Lo schiavo utilitarista è incapace di pensare a sé stesso come uguale in un senso che sia più forte di quello utilitaristico. Che l’utilitarismo gli richieda di diventare uno schiavo, cioè qualcuno che è privo della maggior parte se non della totalità dei diritti di cui gli altri godono e che è proprietà di altri e vive a loro piacimento significa che lo schiavo utilitaristico non può percepire sé stesso come possessore di un uguale diritto alla vita o di un uguale diritto alla realizzazione del proprio progetto di vita o anzi un uguale diritto a qualsiasi cosa di significativo a parte il diritto ad essere conteggiato equamente in calcoli di utilità. Egli non può percepire sé stesso in questo modo perché l’istituzione della schiavitù afferma che egli è privo di qualunque di questi diritti, e così al fine di sentirsi a proprio agio nel mondo lo schiavo deve considerare che l’istituzione abbia ragione a questo proposito” 11. 11 “the utilitarian slave is unable to think of himself as an equal in any sense that is stronger than the utilitarian one. That utilitarianism requires him to become a slave, that is, someone who lacks most, if not all, of the rights that others enjoy, and who is owned by another and lives at their pleasure, means that the utilitarian slave cannot see himself as having an equal right to life, or an equal right to realize his life plan, or indeed the equal right to anything significant aside from the right to be counted equally in calculations of utility. He cannot see himself in this way because the institution of slavery asserts that he lacks any of these rights, and so in order to be at home in the world the slave must see the institution as correct in this respect” (Robert-Thompson, 2007: 77).
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TRATTA E SCHIAVITÙ. LE AMBIGUITÀ DEL DIRITTO E DELLE POLITICHE PUBBLICHE
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Anche, dunque, la schiavitù volontaria o l’asservimento di chi abbia consegnato consapevolmente se stesso ai propri sfruttatori, per massimizzare il profitto dell’esperienza migratoria, sono condizioni sociali che non si sottraggono al giudizio di ingiustizia espresso da una società civile rispettosa dei diritti umani; tale radicale ingiustizia impone alle istituzioni di ogni Stato democratico di diritto non solo di contrastare i trafficanti di esseri umani ma anche di sostenere, con le proprie norme di diritto umanitario, le loro vittime per riaffermare, innanzi tutto, i principi fondamentali su cui le società civili si fondano e cioè l’eguaglianza formale e sostanziale di tutti gli esseri umani ed il doveroso rispetto riconosciuti a tutti gli esseri umani in quanto tali.
3. Le misure di risocializzazione e la condizione sociale delle vittime: il deuteragonismo sociale Se l’uscita dalla condizione sociale di schiavitù o di asservimento è, in primo luogo, una esigenza della nostra società, il percorso che attende le vittime non è mai istantaneo o semplice (Segre, 2000). Non sembra realistico, alla luce delle riflessioni svolte nelle pagine precedenti, l’approccio giuridico o criminologico secondo cui sarebbe sufficiente il coinvolgimento nel rito del processo per «libera[re] le vittime dalla loro condizione di inferiorità e sottomissione» e collocarle “in una posizione di parità con l’aggressore” (Bouchard, Mierolo, 2005: 119 e ss.). Anche nella migliore delle ipotesi, il sistema giudiziario se non tende ad amplificare le ineguaglianze sociali, generalmente finisce col riprodurle e, quindi, poco o punto è lo spazio lasciato alle esigenze delle vittime ed all’esercizio dei loro diritti. La posizione di minorità sociale e strutturale delle vittime, nel sistema sociale così come in quello giudiziario, può essere metaforicamente descritta in termini di deuteragonismo proprio per sottolinearne la debolezza strutturale e sociale rispetto al conflitto che contrappone il reo, protagonista del processo e delle sfide all’ordine giuridico, al suo antagonista necessario: la pubblica accusa e le forze dell’ordine. Solo il recupero delle più alte aspettative di giustizia, dei legami sociali forti e della fiducia nelle istituzioni può condurre le vittime – formalmente liberate dalla schiavitù e dall’asservimento – all’uscita anche dal proprio destino di eterno deuteragonismo sociale. Il deuteragonismo è quella forma di minorità sociale, di cui il diritto è mero riflesso, che fa spesso dire alle vittime che per avere attenzione dallo Stato o dalla società avrebbero dovuto non già subire, bensì commettere, un reato efferato. In queste affermazioni paradossali, ma non infrequenti sulla bocca di vittime, anche illustri, del terrorismo o della mafia, si nasconde, come in ogni paradosso, una verità.
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IL MERCATO DEI CORPI
Abbiamo proposto questo nuovo concetto (Quiroz Vitale 2010a) ritenendolo euristicamente utile nella ricerca sociale in quanto consente di distinguere la condizione di vulnerabilità propria dell’essere vittima da concomitanti processi sociali che coinvolgono alcune vittime piuttosto che altre. Mi riferisco, ovviamente, alla emarginazione sociale (Tomeo 1981) e all’etichettamento dei devianti (Ghezzi, 1996; Pitch, 1982) ed alla puperizzazione. Nel caso della tratta di esseri umani il processo di vittimizzazione si innesta su quello di etichettamento e l’uno e l’altro allignano in gravi situazioni di marginalità e povertà economica che rendono alcuni soggetti, per le loro caratteristiche originarie e ascritte (donne, povere, straniere, immigrate), candidati ideali all’assunzione del ruolo di vittima. Secondo la nostra prospettiva ciò che caratterizza la vittimizzazione è non solo l’uso ma anche il grado estremo di violenza che vulnera oltre che gli interessi economici e materiali degli esseri umani, anche e soprattutto la loro stessa identità. La principale funzione svolta dalle politiche dell’accoglienza è dunque questa cioè intervenire, una volta rimosso il giogo degli sfruttatori, nella riduzione degli svantaggi sociali delle vittime: liberazione dal bisogno economico immediato grazie alla accoglienza in una comunità, affrancamento dallo stigma sociale con la concessione di un permesso di soggiorno che non rinvia alle modalità dello sfruttamento e, sempre grazie al permesso di soggiorno, l’uscita dalla clandestinità che era la situazione più grave di marginalità sociale. Tuttavia la caratteristica più interessante delle politiche pubbliche ispirate dall’art. 18 è quella di non limitarsi a incidere sui processi sociali intrecciati con la vittimizzazione ma di tendere, attraverso la ri-socializzazione, ad invertire il processo sociale che ha condotto alla condizione di deuteragonismo. Le gravissime violazioni della dignità umana, come la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato o lo sfruttamento sessuale determinano infatti una tale compromissione della libertà della persona che necessariamente intaccano molto più profondamente la sfera spirituale e psicologica che quella economica della vittima. L’utilità di una simile distinzione è strettamente legata alla configurazione delle politiche che possano riparare o ridurre il danno cagionato dal processo di vittimizzazione e, se possibile, invertirlo. É possibile ipotizzare, infatti, che non sempre il risarcimento “per equivalente”, pur previsto dalle principali Convenzioni internazionali, sia né l’unica né la migliore forma di intervento sociale o assistenziale a favore delle vittime. L’ipotesi che formuliamo è che il successo delle politiche dell’accoglienza sino ad oggi ottenuto, consiste nella capacità mostrata dal privato sociale e dai servizi sociali territoriali di
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TRATTA E SCHIAVITÙ. LE AMBIGUITÀ DEL DIRITTO E DELLE POLITICHE PUBBLICHE
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ricostruire o creare ex novo un legame fiduciario tra le vittime e le istituzioni statuali e sociali. L’ipotesi si basa sulla considerazione che un effettivo processo di ricostruzione dei legami sociali fiduciari passa non solo, o non tanto, attraverso l’operato formale degli organi dello Stato, quanto piuttosto grazie alle formazioni sociali espressione della società civile, e quindi del privato sociale, che operano quali agenti di emancipazione (Ambrosini, 1999), proponendosi di rendere i processi sociali di vittimizzazione esperienze temporanee e reversibili. Il volontariato, la cooperazione sociale e le nuove associazioni di promozione sociale, cioè le formazioni sociali intermedie a carattere solidaristico e mutualistico, si sono mostrate in grado di promuovere, nel quadro delle politiche dell’accoglienza, l’aiuto diretto verso i più svantaggiati ed, al contempo, hanno manifestato il loro concreto impegno a difendere i diritti di cittadinanza, mirando alla valorizzazione del protagonismo e dell’autonomia delle persone aiutate; cosa di cui le vittime, più di chiunque altro, hanno bisogno. Il forte impatto simbolico della legge n. 228 del 2003, “Misure contro la tratta di persone”, ha posto con forza, da un lato, il problema giuridico ed etico del diffondersi di pratiche schiavistiche nei paesi occidentali, dall’altro ha posto in evidenza l’insufficienza della definizione giuridica di “schiavitù” che ne coglie il significato centrale ma non riesce a mettere a fuoco il più vasto fenomeno della (auto)deportazione; d’altro lato, la tendenziale identificazione fra tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù o asservimento rischia di innescare un processo culturale e sociale di isolamento delle vittime che può finire – nel lungo periodo – con l’ostacolarne la ri-socializzazione; infatti, la “tratta”, in un simile quadro culturale, tende ad essere percepita come un fenomeno abnorme che non ha nulla a che vedere con le migrazioni e coinvolge soggetti diversi dai normali immigrati. Le politiche dell’accoglienza, ispirate dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione, mostrano che, al contrario, le vittime della tratta sono persone comuni, che si sono scontrate con la banalità del male, e che possono tornare a far parte attiva della società d’origine o integrarsi in quella dei Paesi di destinazione, sol che vengano nuovamente trattate col dovuto rispetto umano e siano aiutate a tornare protagoniste della propria vita.
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IL CONSUMO DEL CORPO NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
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Luisa Leonini
1. Postromanticismo e sex business È ormai più di dieci anni, da quando è stata pubblicata una ricerca sui clienti della prostituzione (Leonini, 1999), che periodicamente vengo invitata a presentare relazioni e a parlare su temi connessi alla prostituzione in Italia, in particolare mi viene chiesto di contribuire analizzando il mercato del sesso a pagamento non solo dal lato dell’offerta, (omosessuale, transessuale e femminile) ma anche e soprattutto ponendo attenzione al lato della domanda dei consumatori di sesso a pagamento, spesso denominati semplicemente “clienti”. Se infatti grazie a numerose ricerche e interventi sociali sul terreno si conosce qualcosa attorno al mondo di chi offre sesso in cambio di denaro, molto più oscuro ed omertoso è il mondo dei clienti, pur essendo molto più numeroso di quello di chi si prostituisce (un rapporto di 1 a 10 secondo le stime degli esperti). Negli ultimi vent’anni si è potuta osservare una diversificazione dal lato della domanda con l’arrivo e la presenza nel nostro paese di un numero consistente e etnicamente vario di persone che vendono sesso a pagamento: da un mercato fondamentalmente autoctono fino agli anni 70, si è passati successivamente alla presenza di giovani tossicodipendenti, sempre italiani, che si prostituivano alla ricerca di soldi per acquistare la droga, per passare poi alla presenza di ragazze e donne albanesi che dominavano parte del mercato nei primi anni novanta, e che, successivamente, hanno lasciato il posto alle Rumene, alle Bulgare, ed altre ragazze provenienti dall’Est Europa. E se le Nigeriane costituiscono una presenza costante degli ultimi due decenni, nel nuovo millennio le ragazze e le donne cinesi si prostituiscono non più solo all’interno della loro comunità etnica ma anche all’esterno
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IL MERCATO DEI CORPI
(come ben sappiamo avendo assistito alla proliferazione di centri orientali di massaggio e simili). Le Latino Americane presenti dagli anni novanta, sono concentrate soprattutto in alcune regioni mentre i Latino Americani, soprattutto Brasiliani, si sono specializzati nell’offerta transessuale. La presenza di un numero consistente di persone straniere che si prostituisce, ha profondamente modificato un mercato che fino agli anni ottanta del novecento era caratterizzato quasi unicamente da Italiane. Questa differenziazione ha portato anche a cambiamenti nei comportamenti e nelle aspettative di chi acquista. È sufficiente pensare alle diverse lingue che caratterizzano sempre più spesso la contrattazione tra domanda e offerta (rendendo, ammesso che lo si desideri, impossibile un dialogo che vada oltre poche frasi per stabilire i termini dello scambio tra prestazione e denaro) per comprendere come oggi, la gran parte delle prestazioni si limita ad alcuni minuti, mediamente una quindicina, senza una vera interazione tra i soggetti dello scambio. I processi e le trasformazioni connessi con la globalizzazione economica e sociale, con i movimenti di popolazione dal sud del mondo verso l’Occidente, hanno, insieme a molte altre cose, modificato profondamente il mercato del sesso a pagamento offrendo nuovi ed esotici prodotti a clienti sempre più curiosi ed in cerca di nuove sensazioni. In questo senso si può dire che la varietà e la disponibilità di un’ampia offerta risponde alle esigenze di un mercato in cui consumatori, che appartengono ad ogni strato sociale e professionale, possono decidere come soddisfare le proprie esigenze e i propri gusti estetici tra una pluralità di offerte differenti. A partire dalla fine degli anni 80, parallelamente all’aumento ed alla maggior visibilità delle persone che si prostituiscono, è cresciuta in Italia, da parte di alcune istituzioni ed associazioni, la consapevolezza dello sfruttamento di queste persone che vivono senza permesso di soggiorno in una condizione di clandestinità e di ricattabilità costante, in un regime talvolta di reale schiavitù, violenza e coercizione, con sottrazione dei documenti personali e controllo costante dei movimenti da parte dei loro sfruttatori. Si pensi alle attività di Caritas, del Parsec, del Naga, del Gruppo Abele, e di molte altre associazioni che hanno svolto un ruolo fondamentale negli ultimi decenni per combattere i fenomeni della tratta di esseri umani e la loro riduzione in schiavitù. Le associazioni si sono impegnate per far emergere il fenomeno, denunciarne la diffusione e individuare percorsi per far uscire le persone da queste situazioni di coercizione e violenza. Accanto a questa sensibilità nei confronti di chi subisce queste condizioni di sfruttamento, ad una crescita di consapevolezza sul fenomeno del sesso a pagamento in una parte importante della società civile è cresciuta, in altri
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IL CONSUMO DEL CORPO NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
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settori della popolazione e tra alcune forze politiche, una reazione di ostilità nei confronti di chi si prostituisce sulle strade, di fastidio e disprezzo per lo spettacolo che viene offerto nelle nostre città e nei nostri paesi. La prostituzione su strada viene vista in questa prospettiva come uno degli aspetti più deteriori dell’immigrazione clandestina che, in quanto tale, va contrastata. Dalla consapevolezza dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù sono nate e si sono sviluppate iniziative importanti per cercare di ridurre i danni alla salute fisica e psichica di chi si prostituisce e per cercare di far uscire dal racket della prostituzione gestita dalla criminalità organizzata, tutti coloro che lo desiderano (su questo si vedano gli altri contributi del volume). Dall’ostilità nei confronti delle prostitute e dal fastidio prodotto dalla loro visibilità, nascono invece le ordinanze dei sindaci che multano prostitute e clienti e le varie proposte di legge che chiedono di tornare a forme di regolamentazione del sesso a pagamento, pre legge Merlin, riaprendo case di tolleranza o quartieri a luci rosse, ecc. (Danna, 2000a) La risposta della società italiana di fronte alla diffusione della prostituzione che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni è stata quindi duplice: da un lato troviamo organizzazioni prevalentemente di volontariato e non profit che, insieme ad alcune amministrazioni locali e provinciali, e ad alcune preture si sono impegnate nella lotta contro la tratta e la riduzione in schiavitù per ridare dignità alle persone, per toglierle dalle condizioni di sfruttamento esistente; dall’altro lato troviamo operazioni di repressione dell’anello più debole, cioè la prostituzione di strada, e la richiesta di regolamentazione del sesso a pagamento in luoghi definiti e circoscritti. Chi è impegnato nel soccorso e nell’aiuto di chi vende sesso a pagamento, sottolinea le difficoltà di approccio quando dalla strada le prostitute vengono spostate in luoghi chiusi, dove molto più complicato diventa entrare in contatto, spiegare i rischi connessi alla salute fisica, mentale e alla violenza che caratterizzano questa attività, e dove diventa quasi impossibile pubblicizzare le varie possibilità di uscita, ecc.; chi invece è disturbato dalla loro presenza sulle strade è ben contento della diffusione del sex business in luoghi chiusi, purchè lontano da dove abita, perché, ovviamente, la presenza di luoghi preposti alla prostituzione viene vissuto minacciosamente da chi risiede nella zona che subirebbe una svalutazione e un processo di stigmatizzazione urbana. Estremizzando si può dire che la strategia di rendere invisibile il fenomeno della prostituzione viene proposto come una soluzione ottimale perché ciò che non si vede non viene percepito come degno di attenzione e dunque non esiste come problema sociale. Non a caso possiamo paragonare le azione volte alla repressione della prostituzione di strada, e al suo trasferimento in luoghi chiusi, all’analogo processo di rimozione
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che riguarda il problema dei rifiuti: se ne parla sui giornali o sui mezzi di comunicazione di massa solo ed esclusivamente quando coprono le strade e quindi essendo visibili creano un problema: quando vengono raccolti, non importa se in discariche abusive, inquinanti, ecc., cessano di esistere e il problema si dissolve. Lo stesso può essere detto al riguardo della prostituzione che entra nel dibattito pubblico solo quando particolari eventi aumentano la sua visibilità sociale – in genere atti di violenza o connessi all’immigrazione clandestina. Vi sono paesi quali la Svezia (Danna, 2000b) dove da anni esiste una normativa che punisce i clienti del sesso a pagamento ritenendo l’acquisto di sesso una forma di dominio e di sfruttamento dell’altro indipendentemente dal fatto che le persone che si prostituiscono siano consenzienti o meno. In Italia, nell’ultimo periodo, si è invece a mio avviso andati in una direzione opposta: assistiamo ad una normalizzazione della prostituzione intesa come scambi di favori sessuali per denaro o altri benefits, purchè lo scambio non abbia le caratteristiche deteriori e visibili della prostituzione di strada, l’unica effettivamente perseguita attraverso le ordinanze dei sindaci per la difesa del decoro pubblico. In questo modo viene colpito l’anello più debole del mercato della prostituzione, le persone più ricattabili, straniere, senza permesso di soggiorno e spesso vittime del racket. Va inoltre notato che questo processo di normalizzazione ha riguardato fondamentalmente la prostituzione femminile, non ancora quella maschile o transessuale. A questo proposito è sufficiente riferirsi al trattamento subito da Marrazzo, la cui figura pubblica è stata compromessa non tanto perché coinvolto in una storia di sesso a pagamento, quanto perché la persona remunerata era un transessuale, rispetto a tutte le storie di cronaca riguardanti le escort e i palazzi del potere romano e di Arcore. Questo doppio registro è comprensibile in un contesto socioculturale patriarcale dove il dominio dell’uomo sulla donna è il modo tradizionalmente normale di agire e di relazionarsi all’altro, dove l’esuberanza sessuale maschile è associata positivamente alla virilità, virilità che è invece messa in pericolo da rapporti omosessuali o transessuali.
2. La normalizzazione del sex business Oggi il processo di normalizzazione della prostituzione femminile come fenomeno sociale, non riguarda più solamente i clienti, né viene giustificato esclusivamente per le donne che si trovano in condizioni di povertà e prive di alternative di inserimento sociale, ma viene talvolta considerato un’opportunità per incrementare il reddito, per fare carriera più velocemente, per soddisfare desideri materiali, consumi, stili di vita, ecc., ed è valutato come
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una strategia possibile tra più alternative per perseguire i propri obiettivi. Si potrebbero leggere in questa chiave le trasformazioni sociali e culturali prodotte dalla diffusione della logica dell’economia di mercato e di consumo che vede nel successo materiale ad ogni costo l’obiettivo prioritario da perseguire. Le contraddizioni di una logica fortemente tradizionalista e patriarcale, che vede le donne come oggetto e non soggetto, e contemporaneamente la diffusione di un modo di pensare che si fonda sulla logica del successo ad ogni costo, in un contesto quale quello della società contemporanea caratterizzata da forme di individualismo esasperato, producono una sorta di legittimazione dell’uso del corpo per ottenere vantaggi. Il corpo come oggetto manipolabile, modificabile (si pensi allo sviluppo della chirurgia plastica, alla diffusione dei tatuaggi, delle diete, del fitness, il corpo come strumento di lavoro, di seduzione, di piacere, il corpo come risorsa economica da sfruttare, da capitalizzare da far rendere. Non a caso Catherine Hakim (2010) parla di “capitale erotico” rispetto al quale sociologia ed economia sono state cieche malgrado la grande importanza di questo capitale in tutte le sfere della vita sociale. La diffusione e la rilevanza di comportamenti sessuali disgiunti dall’affettività ha contribuito ad aumentare l’importanza del capitale erotico nel ventunesimo secolo. Secondo la studiosa inglese, il capitale erotico è tanto importante quanto quelli economico, sociale e culturale per spiegare la mobilità sociale e le interazioni nelle società contemporanee che sono società fortemente sessualizzate. Capitale erotico che diventa sempre più importante nella creazione di valore sia per gli uomini sia per le donne. La ricerca di un benessere materiale ad ogni costo, di partecipare anche se con un ruolo assolutamente marginale al mondo della televisione, mondo costruito sul bisogno ontologico dell’apparire per esistere socialmente, o forse più correttamente mediaticamente, di potersi permettere consumi fortemente desiderati ma che sono al di fuori delle proprie possibilità economiche, diventano le nuove mete a cui si aspira in una società, quale quella italiana, caratterizzata da un basso livello culturale e dall’assorbimento acritico di una cultura materialistica che ha contribuito a rielaborare e riadattare i valori e i ruoli sociali tradizionali. Queste trasformazioni dei significati sociali, delle definizioni di cosa è importante, delle priorità e delle scelte personali, hanno prodotto, insieme a molte altre cose, la percezione che favori sessuali in cambio di denaro costituiscano una modalità “normale” e possibile insieme ad altre, per perseguire obiettivi personali. Ovviamente in questo caso non si parla di prostituzione ma nuove parole vengono coniate per descrivere il nuovo scenario e il nuovo contesto, la nuova cornice di significati all’interno della quale si costruisce una gerarchia semantica del mestiere che si riflette nel linguaggio: parlare
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IL MERCATO DEI CORPI
di escort è diverso dal parlare di prostitute, dal parlare di squillo, ecc.; attraverso il linguaggio viene costruita una struttura gerarchica che rende manifeste e rappresenta le differenze sociali, etniche e razziali di chi si offre sul mercato del sesso. È importante notare che un processo simmetrico e parallelo avrebbe potuto coinvolgere anche chi acquista sesso, ma ciò non è avvenuto: resta il generico nome di cliente senza una gerarchia linguistica dei clienti a seconda del tipo di consumo, l’unica stigmatizzazione che resta è quella relativa alla transessualità e all’omosessualità. Questa asimmetria linguistica dovrebbe far riflettere sull’asimmetria sociale tra prostitute e clienti, tra chi vende e chi compra. Il denaro è potenzialità allo stato puro e non compromette chi lo possiede, è potere di detenere le regole del gioco e l’attribuzione dei significati (Simmel, 1900). Questo clima culturale di mercificazione dilagante che rompe i confini del lecito e dell’illecito, del morale e dell’immorale potrebbe apparire in contraddizione con la concezione tradizionale classica dei rapporti di genere nella nostra cultura caratterizzata dal dualismo della doppia morale: donne per bene (mogli, madri e sorelle) e donne per male (quelle disponibili e leggere); in realtà più che di contraddizione si potrebbe parlare di una sorta di rielaborazione della logica patriarcale del potere dell’uomo sulla donna, del forte sul debole che produce una scarsa auto stima e una svalutazione del proprio sè di chi si trova in una posizione di subordinazione, una oggettivazione delle relazioni interpersonali che, insieme alla logica del consumo e del successo ad ogni costo, rendono possibile pensare al proprio corpo come disgiunto dal proprio sé, come ad uno strumento di successo o come risorsa economica in generale da far fruttare.
3. Il corpo come valore di scambio Nelle descrizioni e nelle narrazioni dei clienti intervistati (Leonini, 1999) emerge una chiara distinzione tra ciò che sono considerati atteggiamenti, comportamenti e mentalità delle donne “normali” e atteggiamenti, comportamenti e modalità da prostituta. Con le prostitute, secondo i clienti intervistati, è possibile fare ciò che non si potrebbe mai pretendere di fare con le proprie compagne perché le prostitute non sono semplici donne ma bensì “professioniste” del sesso. Non c’è nessuna concorrenza diretta, nessuna comparazione possibile, una cosa è avere rapporti di amore con le proprie compagne e un’altra fare sesso con una prostituta. In quest’ultimo caso ciò che maggiormente eccita è la trasgressione, la completa disponibilità della donna, la sensazione di onnipotenza, di completo dominio che consente di
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ordinare qualsiasi cosa sapendo di essere immediatamente e silenziosamente obbediti. Il rapporto con una prostituta consente il soddisfacimento di un puro piacere egoistico; è possibile disinteressarsi completamente dell’impegno a soddisfare e a prestare attenzione alla propria partner. Il rapporto mercificato viene in questo caso vissuto come “liberatorio”: un momento in cui è possibile concentrarsi sul semplice appagamento del proprio desiderio e del proprio piacere, liberi da ogni preoccupazione legata al fornire una prestazione che sia piacevole e soddisfacente anche per la propria compagna. In molti casi emerge una sorta di risentimento verso un universo femminile fattosi maggiormente esigente, che richiede attenzioni sempre maggiori e mette in discussione la centralità del maschio, per lo meno nel rapporto fisico amoroso. La prostituta rappresenta la femmina sempre disponibile, la donna che non chiede, completamente assoggettata ai desideri del maschio-padrone; è una femmina silente che deve solo esaudire i desideri del maschio. Il rapporto con la prostituta, descritto nelle interviste con i clienti, è un rapporto semplice, chiaro: non c’è nessuna disputa perché è immediatamente evidente e incontestabile chi tra i due sia il detentore unico del potere di comandare e di decidere. La mediazione del denaro consente, in questo caso, l’acquisto non solo di un corpo in grado di soddisfare un’esigenza fisiologica, ma la rassicurazione di essere ancora gli unici detentori del potere, la riconferma della propria posizione di dominio, la garanzia di poter essere capaci di una prestazione sessuale “indiscussa”. Con la prostituta non c’è alcuna “perdita di tempo”. Non è necessario alcun coinvolgimento affettivo e nessun investimento iniziale per la conquista. Il rapporto è chiaro e semplice: io pago e tu sei a mia disposizione. Non c’è rischio di rifiuto; non è necessario dimostrarsi attenti e premurosi; non ci si espone a richieste o aspettative da parte dell’altro che si rischia di non saper appagare. Per una parte dei clienti, la prostituta non è altro che un oggetto sessuale, una merce in vendita, la pura riduzione a corpo disponibile. Il piacere legato al rapporto con una prostituta è connesso al consumo, al gioco, alla manipolazione di un oggetto piuttosto che alla relazione con un altro essere umano. La prostituta soddisfacente è, in questo caso, un automa, un essere che accetta di divenire una efficiente ed efficace “macchina da sesso”. La prostituta più piacevole è quella che fa il proprio lavoro con passione e con professionalità; è quella che rispetta il “contratto” e, una volta vendutasi, non fa storie e non lavora in modo svogliato. Di fronte alla prostituta “macchina da sesso” non c’è nessuna curiosità, il lato umano è assolutamente indifferente, ciò che conta è la capacità, la
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IL MERCATO DEI CORPI
professionalità e la passione con cui la donna si dedica al completo soddisfacimento del cliente. La metafora del mercato viene in questo caso applicata in modo completo: la prostituta è una professionista dotata di competenza, offre un servizio specifico e accetta di vendere per denaro le proprie prestazioni nell’ottica di un completo soddisfacimento del suo cliente. Quello della prostituta è un lavoro come un altro, improntato a uno scambio chiaro di prestazioni sessuali in cambio di denaro e orientato al profitto e alla soddisfazione del cliente. Gli aspetti affettivi e relazionali devono rimanere all’esterno di questa transazione commerciale; non devono riportare sul piano del rapporto amoroso ciò che nasce e vuole rimanere una semplice prestazione sessuale. Si delinea una netta demarcazione tra amore ed erotismo, tra amore romantico e rapporto carnale. La prostituta soddisfa, in modo distaccato e professionale, l’esigenza di piacere erotico e l’appagamento delle necessità fisiologiche senza interferire nella sfera relazionale ed emotiva. Si riproduce una netta distinzione tra mondo delle mogli-madri con cui si hanno relazioni prevalentemente affettive e mondo delle amanti-prostitute con cui si hanno relazioni prevalentemente sessuali. La distinzione tra i due mondi è netta, le aspettative ben differenziate: non è possibile confondere ciò che si fa e si può fare con la propria compagna con ciò che si fa e si può fare con una prostituta. Anche le prostitute da noi intervistate mostrano un atteggiamento speculare ed opposto a quello dei clienti. Il rapporto prostituta-cliente si è rivelato non facile da indagare. Le prostitute non amano molto parlare dei loro clienti, o meglio sembra che abbiano veramente poco da dire su di loro. Il cliente è il co-protagonista dell’incontro, ma nella maggior parte dei racconti non è altro che una fuggevole presenza. Nei confronti del cliente sembra esserci un totale disinteresse: è considerato unicamente come qualcuno che, per una cifra pattuita, ha accesso ad alcune prestazioni sessuali, ben definite durante la contrattazione che precede il consumo. Le interazioni si limitano alla contrattazione e alla veloce consumazione del rapporto. Al cliente non interessa sapere alcunchè della donna che ha di fronte, non ne conosce il nome, la provenienza e tantomeno l’età, ma è interessato esclusivamente alle sue doti fisiche e alla capacità di soddisfare le sue richieste. Ugualmente, le ragazze che si prostituiscono sono del tutto disinteressate al cliente, con il quale avviene uno scambio che coinvolge il corpo senza creare intimità. L’aspetto economico sembra essere l’unico fattore che domina la transazione. L’immagine e i vissuti riguardanti i clienti che si delineano nei discorsi delle donne che lavorano sulla strada non sono omogenei. Nonostante
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l’accesso non immediato all’argomento, sono emerse alcune differenze nella loro descrizione, dovute sicuramente alle esperienze personali ma in cui è possibile rilevare alcune corrispondenze legate alla provenienza geografica. Gli stessi clienti, così come le prostitute, sono molto diversi l’uno dall’altro, così come le loro storie. Si differenziano per età, condizione sociale e motivazioni che li spingono alla ricerca di un rapporto a pagamento. Vengono citati i timidi, gli arroganti, i violenti, i complessati, quelli che desiderano trasgredire o sperimentare altre forme di piacere, quelli insicuri che pensano di non potere avere altre possibilità. I più giovani, talvolta, cercano verifiche della propria “normalità” e un aiuto ad iniziare una vita sessuale scontata a parole ma temuta nei fatti. A volte si pensa che chi cerca il sesso a pagamento desideri prestazioni particolarmente “ardite”, che altrove, forse, non si possono chiedere. Ma dai racconti delle donne intervistate questa fantasia viene generalmente smentita: quasi sempre la richiesta è di normali rapporti sessuali, spesso orali, che si consumano in un lasso di tempo velocissimo. Forse la tipologia della prestazione sessuale non è l’elemento più significativo. Può avere maggior valore il contesto, la fantasia della richiesta e la modalità di chiedere, intesa come libertà di esplicitare il proprio desiderio sessuale senza mediazioni, giocando con la volgarità e l’esercizio del potere. Anche l’ideale romantico della prostituta come donna esperta che aiuta a risolvere paure, superare blocchi, che soddisfa desideri segreti o accoglie confidenze, con cui si instaurano misteriose complicità, non rispecchia la realtà della strada. Quando i clienti cercano un dialogo con le ragazze, vivendole come consulenti a cui chiedere consigli, o possibili confidenti a cui raccontare le difficoltà quotidiane lavorative o affettive, spesso non trovano un grande riscontro. Nei colloqui sulla strada emerge talvolta il fastidio nel gestire questi momenti che vengono vissuti come una perdita di tempo che non viene remunerato ma piuttosto tolto alla possibilità di ricerca di un nuovo incontro e quindi di ulteriori guadagni. Altrettanto poco gradita è la prospettiva di sobbarcarsi un ulteriore carico emotivo: “a volte si mettono a raccontarmi dei loro problemi, ma io ho già i miei, pensa se voglio ascoltare i loro” (Leonini, 1999). La prostituzione rimane un ambito in cui il maschio contemporaneo si rifugia per sfuggire al peso dei vincoli e delle responsabilità richieste dalla formazione e dal mantenimento dei legami di coppia. Trova nella prostituta una donna disponibile, non solo e non tanto sul piano sessuale, quanto su quello relazionale: una donna disponibile, sottomessa, che non avanza richieste e pretese personali. Una donna disposta a “essere al servizio” del maschio, a cedere alla sua volontà nonché gratificarlo, rassicurarlo, senza ascoltarlo.
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4. Un mercato globalizzato Se già nel sud del mondo la logica patriarcale di dominio delle donne e dei bambini e l’aspirazione generale ad un maggior benessere sociale hanno prodotto e sviluppato un mercato sessuale globale, con lo sviluppo dei paradisi del turismo sessuale, con l’esportazione di ragazze e bambini per il mercato sessuale nel nord del mondo, ecc., possiamo oggi osservare come questa stessa logica, ovviamente in un contesto generale differente, si sia comunque diffusa anche nel nostro paese. Fino agli anni 70 del novecento, la prostituzione in Italia era costituita prevalentemente da donne italiane, spesso provenienti da altre regioni, che principalmente per gravi necessità economiche, o per percorsi di emarginazione ed esclusione sociale, entravano in questa professione. Nei decenni seguenti i processi di globalizzazione che hanno portato a ingenti fenomeni migratori hanno avuto importanti ricadute sul mercato del sesso a pagamento che si è arricchito notevolmente con donne, trans e minori provenienti da altre parti del mondo. Le donne italiane sparivano contemporaneamente dalle strade per esercitare in luoghi chiusi e probabilmente, secondo le stime disponibili (IOM, 1996) sono anche diminuite. Negli ultimi anni si nota, anche in altri paesi occidentali (è interessante l’attività di recupero e di denuncia sociale attuate dall’associazione francese Le Nid), un fenomeno in controtendenza con la ricomparsa di donne e ragazze autoctone disponibili ad entrare ed uscire periodicamente dal mercato del sesso a pagamento. Non sono esclusivamente persone costrette da ristrettezze economiche, sono giovani che desiderano un certo stile di consumo e di vita, sono ragazze che utilizzano in modo disinvolto il loro capitale erotico per degli scopi precisi. Sono inserite socialmente, hanno legami e relazioni interpersonali anche stabili, pensano di poter gestire con disinvoltura e sicurezza questa loro attività temporanea e flessibile. Un’ attività sporadica che consente di soddisfare desideri altrimenti irraggiungibili, di ottenere merci e beni di lusso. È proprio per queste ragioni che l’articolo tratto da Repubblica del 7 marzo 2011, “L’avvento delle mamme-maitresse così finisce la sacra famiglia italiana”di Francesco Merlo”, non deve stupirci ma interrogarci su alcune recenti trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società: “Le “lupe di Arcore” avanguardia del nuovo degrado. La madre di Noemi: “Una bambina che ho allevato nella luce del Vangelo e del Signore. Lo chiama Papi perché l’abbiamo educata nel culto di Silvio”. (…) La grande novità storica sono le mamme istigatrici e complici. Non le lupe di Arcore, ma queste mammemaitresse che investono e lucrano sul sesso delle figlie, mamme che rompono la gabbia, all’apparenza inespugnabile, dell’identità italiana, della mamma chioc-
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cia, del “son tutte belle le mamme del mondo”, della sacra famiglia, vetrina dei valori della tradizione: il matrimonio possibilmente d’amore, la maternità, la dignità. (…) Ma chissà come avremmo reagito noi fratelli, padri e fidanzati dinanzi alla madre di Elisa che contabilizza con ingordigia: “Seimila euro, hai capito, sono dodici milioni delle vecchie lire!”. È una mamma che predispone strategie quando la figlia le racconta che “lui mi vedrebbe bene a lavorare in Pubblitalia”. È una mamma realista e pratica: “Se poi va male, pazienza, tanto va bene anche cosi”. E forse Elisa un poco lo subisce, ma certamente alla sua mamma Berlusconi non basta mai: “Vi ha detto quando vi potrà rivedere?”. Non c’è nulla di speciale nelle lupe di Arcore, nelle escort, nelle professioniste del sesso e meno che mai nelle loro baruffe, negli insulti e nelle rivalità con le gote accese – “si ammazzerebbero tra loro” confessa Iris Berardi – che sono un classico della farsa scollacciata, un topos dei teatri di periferia dove picchiandosi, tirandosi per i capelli e contendendosi i danari del caprone, le Filumena Marturano hanno sempre fatto sghignazzare i Lele Mora e gli Emilio Fede di turno. Ma sono al contrario specialissime le madri di Elisa, di Sara, di Noemi e di molte altre, sono mamme-mezzane che dinanzi alla prostrazione psico-fisica, che sempre accompagna i più rozzi e pesanti sapori della vita (“sono in condizione pietose”), senza pudore minimizzano (“e che sarà mai”) ed esaltano solo il valore del compenso “seimila euro, hai detto niente”. Qui ci sono mamme che somigliano alle “parrine”, quelle che lenivano i corpi abusati nel cambio della quindicina, le acide ma benevole streghe che preparavano gli impacchi e dosavano e alternavano le tisane e il riposo allo snervamento, e intanto legavano i rotoloni di soldi con lo spago. E i padri, che una volta erano il braccio armato dell’educazione, ora, come i fratelli, sembrano assistenti ruffiani. E c’è il signor Faggioli che istruisce la sua Barbara nell’arte d’amare: “Tu in questo momento devi fargli vedere che gli sei vicino”. Ed è papà che invita Barbara Guerra a dire a Berlusconi che “mio padre, per il grande rispetto che ha nei suoi confronti” è pronto a mettere una cimice nella sede dei finiani: “digli che io ci ho le chiavi”. Anche i fidanzati, che un tempo erano gelosi, oggi sono azionisti di minoranza degli amplessi altrui, come Ale che pretende che la sua Imma si guadagni ‘i vestiti’, cioè i soldi: “... io penso che non mi dà niente”. “No? Perché no, scusa? Mi incazzo! Oh!”. “Eh amore, ma che ne so. Io non faccio niente con lui …”. “Eh, ma sei scema?”. Vendute dalle madri, dai padri, dai fratelli e dai fidanzati le lupe di Arcore non sono le vittime ma l’avanguardia di un degrado familiare che non esiste in nessuna parte del mondo civilizzato ed è addirittura inaudito in Italia, che è la terra della mamma Madonna, della natalità, la patria del presepe. Non c’erano mai state, nel pur vasto catalogo nazionale, queste povere mamme sfiorite che cercano un riscatto nel corpo delle figlie offrendolo al cliente ricco e vecchio e, allo stesso tempo, al bisturi del chirurgo estetico. Non c’era ancora, nel mito mediterraneo e matriarcale della mamma italiana, la signora Anna Palumbo che incassa ventimila euro dal ragioniere di Berlusconi: “La mia Noemi – ha dichiarato ai giornali – è una bambina che ho allevato nella luce del Vangelo e del Signore”. Sul viso di Noemi “ci sono almeno 17 mila euro solo di lifting”, ha scritto Famiglia Cristiana: ritocchi, contraffazioni, un accanimento sull’adolescenza della
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figlia, sulla sua apparenza, un’educazione familiare che cerca il riscatto nella creazione di un’antropologia chirurgica, un’idea del successo fondata sui trucchi estetici e sulle foto con Berlusconi pubblicate dal manipolatore Signorini, tutti a brindare con sugar daddy, con papi, che è al tempo stesso Gozzano e Freud, la tenerezza e la pedofilia. “Mio marito frequenta minorenni” disse la signora Veronica Lario e sul settimanale “Chi?” i Letizia divennero una famiglia-escort, finto fidanzato tronista, mamma allena e papà benedice: “Mia figlia lo chiama papi perché la abbiamo educata nel culto di Silvio”. (…) Ma forse per capire il degrado e la corruzione della famiglia italiana bisogna per contrasto aver visto in tv quell’intervista rubata al papà di Ruby, al venditore ambulante marocchino e musulmano. Sdentato, malvestito, povero ma non corrotto come i padri e le madri delle lupe italiane, ha tentato di cacciare i giornalisti urlando in dialetto sicilian-marocchino: “Itivinni, itivinni”. E quando gli hanno detto che Ruby lo accusava di averla picchiata perché era diventata cattolica: “Ma quali botte. Ma quale cattolica. Quella di televisione si era ammalata”.
Ho voluto citare estesamente questo articolo perché credo che in modo efficace e chiaro metta in luce alcune caratteristiche della società italiana contemporanea e ponga in modo immediato e diretto il tema del dominio del denaro sulla vita e sulla soggettività delle persone, dove anche ciò che siamo abituati a considerare come antropologicamente “sacro” possa essere piegato alla logica economica non in caso di povertà, di estremo bisogno, di costrizione, di degrado, ma in condizioni di vita medie, tra persone normali. La “normalità” di queste storie è ciò che più ci stupisce e ci spaventa, normali sono gli uomini che comprano e del tutto normali appaiono le persone che vendono, è la normalità di una transazione economica, di un dare e prendere dove l’oggetto è l’utilizzo di un corpo per il proprio piacere. Più il corpo è giovane, bello, attraente, più ha valore, maggiore il prezzo. Il corpo diventa quindi anche oggetto di investimento, per renderlo di maggior valore. Il denaro, con il potere di stabilire equivalenti tra cose e persone domina le relazioni interpersonali e, per dirla con Simmel, oggettivizza e disumanizza gli scambi tra persone, si sostituisce ai valori non monetari, diventa l’aspirazione massima, la potenzialità in sé, per l’appunto il potere. È proprio questo dilagare di una cultura di massa, alimentata dai personaggi prodotti dai media e soprattutto dalla televisione, ancora così importante nel nostro paese per forgiare immaginari e miti, cultura tutta concentrata sul consumo, sull’avere, in un deserto di riferimenti istituzionali e culturali differenti, che spiega come il consumismo abbia potuto diffondersi incontrastato nella società italiana, tra tante persone che trascorrono gran parte del loro tempo vivendo vicariamente le esperienze dei protagonisti degli spettacoli della cultura di massa. In questo contesto sociale e culturale perché stupirsi che mamme, papà, fratelli e fidanzati colgano con favore
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l’opportunità e gestiscano le risorse della figlia, sorella, fidanzata? Non si tratta di emancipazione, di libertà ma di gestione familiare, di condivisione dei benefici. Spesso quando si parla e si scrive di prostituzione, sesso a pagamento, ecc., si parla di un NOI e un LORO ma la separazione è più sottile di quanto si sia propensi a pensare e la distanza tra noi e loro è spesso molto labile e si sta restringendo. Le distinzioni tradizionali della morale tra donne per bene e donne per male (Giddens, 1992) si rarefanno avvicinandosi ad una concezione simile a quella degli uomini che sono valutati per bene anche se clienti, purchè di donne, perché in questo modo non viene messo in pericolo il concetto di mascolinità. Diversa è invece la distinzione tra Noi e Loro quando ci si riferisce alle donne e ai minori costretti ad entrare nel mondo del sesso a pagamento. Le condizioni di vita e le esperienze di chi è stato forzato nel mercato del sesso sono incredibilmente peggiori e tragiche rispetto a chi crede di sceglierlo, o chi semplicemente entra quasi per gioco in questo meccanismo salvo poi, spesso, trovarvisi intrappolato. Basta pensare al racket e alle organizzazioni criminali che controllano la vita di queste persone e che utilizzano la violenza fisica e morale e il ricatto per mantenere tale controllo. L’elemento in comune è il denaro che con la sua logica della quantità e del quanto vale pervade questo business, ma in questo caso a beneficiarne sono soprattutto gli sfruttatori. Nel caso delle escort e delle ragazze italiane sono loro stesse o i loro familiari a beneficiarne, nel caso delle prostitute immigrate vi è un lungo periodo di tempo in cui i beneficiari sono solo i controllori e gli sfruttatori. L’unicità invece appare chiaramente quando ci si riferisce ai clienti, uomini normalissimi interessati ad ottenere scambi sessuali in cambio di denaro, favori ecc. Sono clienti, spesso gli stessi clienti, quelli delle escort così come quelli delle prostitute nigeriane, le più economiche, che si offrono ai lati delle strade periferiche delle nostre città, o come quelli del ragazzo omosessuale intervistato che ci racconta del suo prostituirsi come equivalente all’andare al bancomat.
5. Un nuovo rapporto tra offerta e domanda di sesso a pagamento I cambiamenti avvenuti nell’offerta hanno senza dubbio avuto ripercussioni e provocato cambiamenti anche per quanto riguarda i clienti. È ovvio che se non vi fosse domanda di sesso a pagamento anche l’offerta sarebbe ridimensionata. Dalle poche ricerche disponibili sull’argomento, il sex business, in tutte le sue componenti, risulta essere un mercato in forte espansione che non conosce crisi. Come abbiamo già detto la presenza sul mercato di donne
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provenienti da altre parti del mondo ha certamente stimolato la domanda di sesso a pagamento, fornendo nuove esperienze e nuove gratificazioni di tipo estetico, aumentando la scelta, riducendo d’altro canto l’aspetto comunicativo verbale (molto spesso le donne non parlano la lingua locale), ma rendendo estremamente rapida e essenziale la contrattazione e lasciando ampio spazio al soddisfacimento delle fantasie e dei desideri dei consumatori. Del resto dalla ricerca che abbiamo effettuato sui clienti delle prostitute, l’elemento fantastico, l’immaginario connesso all’avventura, il godimento estetico/visivo connesso alla scelta dell’oggetto di consumo, risultano essere per la maggior parte dei clienti gli aspetti più gratificanti dell’intero atto di consumo che dura mediamente non più di 15 minuti. I clienti non risultano per nulla interessati alle condizioni di vita delle persone da cui acquistano una prestazione, né sono interessati a loro come persone, non chiedono il nome, la provenienza, l’età. Il rapporto cliente/prostituta si configura come rapporto di consumo, di acquisto di un prodotto, e il fatto che oggi si disponga di una merce più varia non fa che aumentare le possibilità di scelta e di gratificazione. È un consumo narcisistico, autoreferenziale, non è una relazione tra due persone ma l’acquisto di un diritto temporaneo all’utilizzo di parte del corpo di un’altro per il proprio godimento secondo regole precisate nella contrattazione. La relativa abbondanza di donne sulle strade italiane, così come di molti altri paesi europei e più in generale del mondo occidentale, ha fatto notevolmente abbassare i prezzi delle prestazioni aprendo il mercato anche a consumatori con scarsi mezzi economici o dando la possibiltà di consumare più frequentemente. Clienti sono uomini di ogni classe sociale, istruiti o scarsamente alfabetizzati, sposati o celibi, giovani, di mezza età ma anche anziani. A seconda dell’età cambiano le motivazioni e le modalità con cui si consuma – prevalentemente di gruppo se si è giovani, in solitudine man mano che si va avanti con l’età – e, per ragioni sia relative alla domanda, sia connesse al racket della prostituzione, diminuiscono molto i clienti fissi. Chi controlla il mercato della prostituzione teme infatti che i clienti fissi possano stabilire una relazione significativa con le ragazze con il rischio di farle uscire dal giro; i clienti, d’altro canto, sono soprattutto interessati a cambiare, a fare nuove esperienze estetiche, a provare continuamente nuovi prodotti. La logica del consumo contemporaneo e quella del racket convergono per ragioni diverse nell’obiettivo comune di un rapido turnover della merce: le ragazze vengono spostate periodicamente da una zona all’altra, da una provincia o regione ad un’altra. Mi sembra importante sottolineare le differenze del consumo di sesso a pagamento oggi rispetto solo a vent’anni fa quando il mercato era costituito pressochè esclusivamente da donne autoctone con le quali si poteva stabilire
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un rapporto di conoscenza, di confidenza, di dialogo. Il cliente fisso, ben si coniuga con questo tipo di offerta di sesso a pagamento, oggi certamente presente in forma minoritaria rispetto a quella della prostituzione di strada costituita prevalentemente da donne straniere. La diffusione di fenomeni quali quello del turismo sessuale, della pornografia in rete, in stampa e in filmati, dei siti erotici, ecc., sono indicatori della diffusione del consumo di sesso al di fuori di relazioni interpersonali sentimentali e affettive nel mondo occidentale contemporaneo, mondo che più di tutti gli altri, garantisce libertà di comportamento, anche sessuale, a uomini e donne. D’altro canto atteggiamenti di questo tipo sono in netta sintonia con altri aspetti e tendenze culturali delle nostre società dove l’interesse al soddisfacimento dei bisogni e dei desideri individuali e narcisistici è predominante e dove la globalizzazione dei mercati e la flessibilità si estendono anche agli ambiti e alle sfere più private e intime della vita delle persone riducendo ad un rapporto di consumo anche lo scambio sessuale. Lavoro temporaneo, relazioni temporanee, vivere nella dimensione del presente senza impegni o progetti per il futuro, senza interesse per il passato. (Sennet, 1999) L’emancipazione e la conquista di diritti uguali agli uomini da parte delle donne nel mondo occidentale si accompagna, in questi ultimi anni, ad uno sfruttamento delle donne e dei bambini che provengono da altre parti del mondo dove l’uguaglianza di genere non è neppure immaginata e dove inferiorità e subordinazione costituiscono elementi fondamentali della visione del mondo delle donne, dei poveri, dei bambini. Un uso delle donne e dei bambini regolato e controllato prevalentemente da uomini, dove la logica patriarcale di molti paesi del sud del mondo bene si coniuga con l’atteggiamento consumistico delle società del benessere economico. Su queste contraddizioni culturali e economiche fiorisce il mercato sessuale globale che contraddistingue e caratterizza le esperienze contemporanee degli uomini e delle donne e che trova nel sacrificio delle donne, dei bambini e dei poveri del Sud del mondo il materiale umano con cui si alimenta.
6. Una nuova forma di dominio Non è possibile ignorare che la maggioranza delle prostitute che attualmente lavorano sulle strade dei paesi occidentali proviene da aree caratterizzate da povertà e scarso sviluppo socio-economico. Questo introduce elementi nuovi sia per quanto concerne il rafforzamento della dimensione del “con-
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sumo” legato alla prostituzione, sia per le nuove relazioni di dominio che si vengono a profilare tra Occidente e resto del mondo. La prostituta non è più un “membro” della comunità, non rappresenta più la diversità “interna”, colei che tutti conoscono e che occupa una posizione marginale ma precisa all’interno del gruppo, ma diviene un oggetto contemporaneamente esotico, nuovo e continuamente ricambiabile. La prostituta che proviene dai paesi dell’Est o dal Sud-America corrisponde ai canoni di bellezza occidentale, appaga il gusto estetico oltre che quello sessuale e consente di sperimentare la novità, l’esperienza mai provata ma continuamente desiderata perché conforme a un immaginario collettivo che vuole la donna fisicamente attraente e sempre giovane. La prostituta africana rappresenta nello stereotipo la fantasia di capacità sessuali particolari e richiama il fascino dell’esotico. La “distanza” e la “diversità” della straniera contribuiscono alla sua oggettivazione, la donna diviene semplice oggetto di piacere, possibilità di godere della novità, pura prestazione sessuale da consumare. Questo sempre più diffuso atteggiamento di consumo nei riguardi della prostituzione è sottolineato dal fatto che difficilmente si instaurano rapporti duraturi e continuativi con la medesima prostituta, ma si ricerca continuamente la novità. Le ragazze straniere cambiano frequentemente “piazza”, rimanendo solo brevi periodi nella medesima zona o nella medesima città. Il contenuto di novità introdotto dalle prostitute straniere si esaurisce infatti rapidamente riducendo il numero di clienti. Sempre più il rapporto con la prostituta diviene simile al rapporto che si instaura con i beni di consumo: sono capaci di provocare un desiderio immediato di possesso ma questo desiderio si esaurisce rapidamente con l’esaurirsi della novità. Il fatto che le prostitute di strada quasi esclusivamente straniere segnala anche un processo più generale che va al di là della semplice relazione istaurata tra cliente e prostituta per investire responsabilità politiche e culturali più diffuse e generali. La progressiva “occidentalizzazione del mondo” propone un modello di benessere planetario basato su stili di consumo sfrenato e sul sistema di mercato occidentale. Nel tentativo di partecipare a questo modello di vita, una delle possibili risposte delle culture economicamente più deboli è quella di una progressiva deculturizzazione che passa attraverso la valorizzazione di tutto ciò che consente di poter partecipare anche marginalmente a questo stile di vita. Si può così arrivare a un generale processo di prostituzione culturale che vede le persone appartenenti a paesi “economicamente svantaggiati” disponibili ad accettare qualsiasi tipo di lavoro che sia in grado di portare compensi attraverso il soddisfacimento dei desideri delle persone che appartengono ai paesi “più sviluppati”. La prostituzione di strada, in questo scenario, non è che una delle attività
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marginali o illecite praticabili per poter godere di alcune briciole del benessere occidentale. Il tema della prostituzione viene così immesso in un discorso più generale che richiama le responsabilità occidentali rispetto ai possibili scenari futuri di convivenza planetaria costringendo a rivedere in maniera critica non solo il persistere dello sfruttamento delle donne ma, più in generale, il problema di un nuovo modello di convivenza in un mondo caratterizzato da disparità e dal sistematico sfruttamento delle persone più deboli. Occorrerebbe, in altri termini, ritrovare, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’Occidente, un nucleo duro e irrinunciabile di imperativi capaci di contrastare efficacemente il progredire crescente della mercificazione. Si incontrano qui problemi delicati e impopolari che prima o poi occorrerà affrontare: dalla vendita del corpo a quella degli organi, delle armi, dell’immagine e della notizia, nulla sembra più resistere alla mercificazione universale. Anche la scienza sembra non riconoscere vincoli al proprio sviluppo, e più di una volta accade di ascoltare discorsi sull’impossibilità di porre un limite al “progresso scientifico” e alla sperimentazione. Il tema della prostituzione viene così inserito in una questione più generale che rimette in discussione i nostri modelli culturali. Anche in questa prospettiva, la prostituzione non è qualcosa che riguarda una parte marginale, deviante o malata della nostra società ma un tema che ci interroga collettivamente, che richiede un’assunzione di responsabilità e la capacità di assumere una distanza critica al riguardo del nostro modo di vivere le relazioni quotidiane più intime e personali ma anche, più in generale, il senso e le implicazioni future dei nostri modelli attuali di vita. (Leonini, 1999) Diverso è il discorso quando analizziamo le nuove forme di prostituzione che coinvolgono ragazze e donne italiane e non gli immigrati coinvolti nei fenomeni di tratta o di immigrazione clandestina. Quando consideriamo fenomeni quali quelli delle escort, che hanno dominato le pagine dei nostri quotidiani e di altri media a scorsa estate, appare ancora più evidente la diffusione della logica del mercato e del dominio del denaro nelle relazioni interpersonali. Non solo per quanto si è detto sulla prostituzione di donne uomini e bambini stranieri, che purtroppo continuano ad essere presenti nel mercato sessuale globale, sfruttati e utilizzati come beni di consumo ma per come la logica del denaro abbia pervaso e domini in generale le relazioni interpersonali nel modo occidentale contemporaneo. Dal romanticismo che coniugava affettività a sessualità, soprattutto per le donne, si è giunti ad un post romanticismo che vede la sessualità separata dall’affettività e utilizzata come risorsa di socialità, economica, ecc. per soddisfare bisogni e desideri. L’emancipazione femminile che ha caratte-
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rizzato e caratterizza il modo occidentale sembra seguire un modello di sessualità tradizionalmente connesso al genere maschile, contraddistinto dalla separazione della sessualità dall’affettività e caratterizzato dalla ricerca di soddisfazione erotica, indipendentemente dalla relazione con l’altro. I modelli proposti dai media di massa, dalle star della cultura di massa, dalle serie televisive di maggior successo, Sex and the city per fare un esempio, mostrano donne in grado di giocare con la propria sessualità, in grado di entrare in relazioni erotiche temporanee, flessibili, definite dall’episodicità e non dalla durata. Il giudizio morale su queste donne prescinde dal loro comportamento sessuale e, come è stato tradizionalmente per gli uomini, si fonda su altri comportamenti della sfera pubblica. La compresenza di sessualità e affettività, che aveva caratterizzato la concezione romantica dell’amore, concezione anch’essa prodotta dalla cultura occidentale e del tutto estranea a quella diffusa nella maggior parte del pianeta, lascia il posto alla separazione e a una visione differente e disimpegnata delle relazioni sessuali e erotiche nelle società occidentali contemporanee (Giddens, 1992; Castells, 1997) dalle quali diventa plausibile ottenere anche un ritorno di tipo economico. Forse il modo migliore per spiegare queste trasformazioni e cambiamenti è considerare quanto la logica del consumo abbia permeato e influito sulle relazioni interpersonali riportandole ad un processo di mercificazione dal quale nessuna attività viene esclusa, e nel quale il corpo assume un ruolo centrale. Le risposte a bisogni, necessità e desideri vengono ricercate nei prodotti, nei servizi e nelle rappresentazioni che pensiamo possano soddisfarli. In questo senso la logica del mercato e del denaro, che caratterizza anche il mercato del sesso a pagamento, caratterizza ogni ambito della nostra vita facendoci considerare tutto ciò assolutamente normale. La stigmatizzazione e il giudizio negativo toccano solo l’anello più debole della catena, chi si prostituisce per strada e quindi disturba, dà fastidio, crea imbarazzo, il problema quindi si risolve evitando la strada e riaprendo spazi al chiuso.
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L’ITALIA DELLE OPPORTUNITÀ1: LA RETE DEI SERVIZI DALL’ACCOGLIENZA ALL’INSERIMENTO SOCIALE Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Palma Felina
1. Gli inizi Alla fine degli anni 80 sulle strada italiane appaiono donne straniere dedite al lavoro “più antico del mondo”. Rapidamente questo nuovo fenomeno acquista visibilità, con presenze sempre più rilevanti di donne provenienti da paesi diversi (Est Europa, Russia e paesi ex-Urss, Nigeria, Sud America), tutte sulle strada a prostituirsi. All’inizio poco si conosce della drammatica realtà che esso nasconde, ma già dalla prima metà degli anni 90 le associazioni del privato sociale (laico o cattolico) incontrano queste donne e cominciano a rispondere in modo spontaneo alle richieste che alcune di loro avanzano. Si offre ospitalità presso strutture religiose o case rifugio dedicate alla donne che subiscono violenza e si offrono servizi sanitari da parte di unità di strada che lavorano già con i tossicodipendenti per la riduzione del danno2 e la prevenzione HIV. Da questi primi contatti, dalle prime storie raccolte, emerge che non si tratta solo di sfruttamento della prostituzione perché tale fenomeno assume forme inedite rispetto al passato: poggia sulla violenza, la coercizione e l’inganno, prefigurando una vera e propria violazione dei diritti umani, una lesione della dignità della donne, una reale forma di schiavitù. Si comincia a parlare di “tratta di esseri umani”.
1
Il titolo del presente contributo è tratto da Da Pra, Pocchiesa (1999). Si intende per riduzione del danno gli interventi sanitari mirati alla modifica di comportamenti e stili di vita rischiosi per la salute personale. 2
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Una delle prime definizioni viene data in una risoluzione del Parlamento Europeo del 1996:
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“Si intende per tratta l’atto illegale di chi direttamente o indirettamente favorisce l’entrata, il soggiorno di un cittadino proveniente da un paese terzo ai fine del suo sfruttamento, utilizzando l’inganno o qualsiasi altra forma di costrizione abusando di una situazione di vulnerabilità o incertezza amministrativa”.
Nella stessa risoluzione si invitano gli Stati membri a porre in atto sistemi di protezione delle vittime, nonché azioni di informazione nei paesi di origine. Diverse sono state le motivazioni che hanno spinto i primi gruppi a intervenire su tale fenomeno: chi in nome della liberazione delle donne, chi della riduzione del danno, chi per offrire una diversa possibilità di vita. Tutti prevedevano un’offerta concreta di aiuto alle vittime della tratta, offerta che spaziava dalla semplice informazione sui servizi sanitari, alla promozione di pratiche per salvaguardarne la salute, all’accoglienza in case segrete per sottrarle alle reti criminali che le sfruttavano. Queste azioni di aiuto alle donne hanno consentito, fin dagli inizi, di conoscere i caratteri del fenomeno, la violenza fisica e psicologica che le vittime subivano, la loro situazione di estrema vulnerabilità in quanto straniere e spesso senza documenti. Da tale conoscenza è derivata una decisa attività di sensibilizzazione e di denuncia nei confronti dell’opinione pubblica, della società civile, ma soprattutto delle istituzioni per ottenere leggi che proteggessero le vittime della tratta e riconoscessero loro diritti di cittadinanza. Enti di diversa appartenenza, privati e pubblici, hanno lavorato in sinergia per far conoscere il fenomeno e sopratutto per sollecitare politiche che fossero rispettose dei diritti umani e garantissero reali percorsi di cittadinanza alle donne coinvolte in questo sporco traffico. In attuazione delle raccomandazioni emerse in sede europea e in risposta alle sollecitazioni delle associazioni maggiormente attive nel settore, il Governo Italiano, riconoscendo che queste donne erano vittime di abusi e di violazione di diritti umani, all’interno del D.Lgs 286/98 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione) ha introdotto l’art. 18 “Soggiorno per motivi di protezione sociale”, rispondendo in maniera efficace al crescente allarme costituito dal traffico di persone3. 3
Art. 18: Soggiorno per motivi di protezione sociale. 1. Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti
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L’art. 18 prevede il rilascio di tale permesso di soggiorno per consentire alle vittime di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti delle organizzazioni criminali. L’art. 18 è stato riconosciuto a livello nazionale e internazionale come un’efficace normativa di contrasto al traffico. Inoltre rappresenta un forte elemento innovativo in quanto offre alla donna, riconosciuta vittima locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il Questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale. 2. Con la proposta o il parere di cui al comma 1, sono comunicati al Questore gli elementi da cui risulti la sussistenza delle condizioni ivi indicate, con particolare riferimento alla gravità ed attualità del pericolo ed alla rilevanza del contributo offerto dallo straniero per l’efficace contrasto dell’organizzazione criminale, ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili dei delitti indicati nello stesso comma. Le modalità di partecipazione al programma di assistenza ed integrazione sociale sono comunicate al Sindaco. 3. Con il regolamento di attuazione sono stabilite le disposizioni occorrenti per l’affidamento della realizzazione del programma a soggetti diversi da quelli istituzionalmente preposti ai servizi sociali dell’ente locale, e per l’espletamento dei relativi controlli. Con lo stesso regolamento sono individuati i requisiti idonei a garantire la competenza e la capacità di favorire l’assistenza e l’integrazione sociale, nonchè la disponibilità di adeguate strutture organizzative dei soggetti predetti. 4. Il permesso di soggiorno rilasciato a norma del presente articolo ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno, o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia. Esso è revocato in caso di interruzione del programma o di condotta incompatibile con le finalità dello stesso, segnalate dal Procuratore della Repubblica o, per quanto di competenza, dal servizio sociale dell’ente locale, o comunque accertate dal Questore, ovvero quando vengono meno le altre condizioni che ne hanno giustificato il rilascio. 5. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo consente l’accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonchè l’iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato, fatti salvi i requisiti minimi di età. Qualora, alla scadenza del permesso di soggiorno, l’interessato risulti avere in corso un rapporto di lavoro, il permesso può essere ulteriormente prorogato o rinnovato per la durata del rapporto medesimo o, se questo è a tempo indeterminato, con le modalità stabilite per tale motivo di soggiorno. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì convertito in permesso di soggiorno per motivi di studio qualora il titolare sia iscritto ad un corso regolare di studi. 6. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì rilasciato, all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena, anche su proposta del Procuratore della Repubblica o del Giudice di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni, allo straniero che ha terminato l’espiazione di una pena detentiva, inflitta per reati commessi durante la minore età, e ha dato prova concreta di partecipazione a un programma di assistenza e integrazione sociale. 6-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche ai cittadini di Stati membri dell’Unione Europea che si trovano in una situazione di gravità ed attualità di pericolo. 7. L’onere derivante dal presente articolo è valutato in lire 5 miliardi per l’anno 1997 e in lire 10 miliardi annui a decorrere dall’anno 1998.
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di diritti lesi, un doppio percorso che le dà la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno in virtù del fatto di essere una donna che ha subito sfruttamento e violenza, indipendentemente dall’eventuale denuncia degli sfruttatori e dal contributo reale offerto alle indagini di polizia. L’art. 18 è stato ulterirmente declinato all’interno del Regolamento di attuazione DPR 349/99 art. 274 che prevede un doppio percorso di aiuto alla donna: quello denominato “giudiziale“, a seguito di denuncia, o quello “sociale”, in assenza di denuncia; in questa sua doppia declinazione si differenzia dagli altri dispositivi di aiuto nel panorama legislativo europeo che prevede sempre e comunque la collaborazione della donna nella denuncia ai trafficanti.
2. Dopo l’art. 18: la rete dei servizi Gli anni 1998 e 1999 rappresentano una significativa svolta nell’ aiuto concreto non solo alle donne ma anche gli enti che si occupano del problema. Enti che possono ottenere un riconoscimento nazionale che li abilita a lavorare in
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Art. 27: Rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale 1. Quando ricorrono le circostanze di cui all’articolo 18 del testo unico, la proposta per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale è effettuata: a) dai servizi sociali degli enti locali, o dalle associazioni, enti ed altri organismi iscritti al registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera c), convenzionati con l’ente locale, che abbiano rilevato situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti dello straniero; b) dal Procuratore della Repubblica nei casi in cui sia iniziato un procedimento penale relativamente a fatti di violenza o di grave sfruttamento di cui alla lettera a), nel corso del quale lo straniero abbia reso dichiarazioni. 2. Ricevuta la proposta di cui al comma 1 e verificata la sussistenza delle condizioni previste dal testo unico, il Questore provvede al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valido per le attività di cui all’articolo 18, comma 5, del testo unico, acquisiti: a) il parere del procuratore della Repubblica quando ricorrono le circostanze di cui al comma 1, lettera b), ed il Procuratore abbia omesso di formulare la proposta o questa non dia indicazioni circa la gravità ed attualità del pericolo; b) il programma di assistenza ed integrazione sociale relativo allo straniero, conforme alle prescrizioni della Commissione interministeriale di cui all’articolo 25; c) l’adesione dello straniero al medesimo programma, previa avvertenza delle conseguenze previste dal testo unico in caso di interruzione del programma o di condotta incompatibile con le finalità dello stesso; d) l’accettazione degli impegni connessi al programma da parte del responsabile della struttura presso cui il programma deve essere realizzato. 3. Quando la proposta è effettuata a norma del comma 1, lettera a), il Questore valuta la gravità ed attualità del pericolo anche sulla base degli elementi in essa contenuti.
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questo settore (art. 52 Dpr. 394/995) e accedere così ai finanziamenti previsti dallo Stato (Dipartimento Pari Opportunità) per realizzare programmi di assistenza e integrazione sociale a favore delle donne vittime di tratta6. Nel 1999 viene pubblicato un opuscolo edito dal Gruppo Abele di Torino intitolato “L’Italia delle opportunità. Prostituzione/Tratta delle Persone”, in cui si tenta un censimento delle diverse associazioni laiche e religiose e degli enti pubblici e privati che all’epoca offrivano informazione, formazione, sostegno ed accoglienza. L’elenco ne comprendeva un centinaio: “È un’Italia laica e cattolica, un’Italia del volontariato e del privato sociale, dei servizi pubblici. Un’Italia che offre unità di strada, accoglienza residenziale, corsi di lingua, formazione professionale. Un’Italia fatta di realtà che si sentono sole e di altre che lavorano già in rete. La mappa delle risorse vuole essere un contributo per mettere in circolo saperi ed esperienze”7.
La rete dei servizi di aiuto alle donne si consolida nei primi anni del 2000 e si estende su tutto il territorio nazionale: nel 2009, risultano essere
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Art. 52: (Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati) 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari sociali, è istituito il registro delle associazioni, degli enti e degli altri organismi privati che svolgono le attività a favore degli stranieri immigrati previste dal testo unico. Il registro è diviso in tre sezioni: a) nella prima sezione sono iscritti associazioni, enti e altri organismi privati che svolgono attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri, ai sensi dell’art. 42 del testo unico; b) nella seconda sono iscritti associazioni ed enti che possono essere ammessi a prestare garanzia per l’ingresso degli stranieri per il loro l’inserimento nel mercato del lavoro, ai sensi dell’art. 23 del testo unico; c) nella terza sezione sono iscritti associazioni, enti ed altri organismi privati abilitati alla realizzazione dei programmi di assistenza e protezione sociale degli stranieri di cui all’art. 18 del testo unico. 2. L’iscrizione al registro di cui al comma 1, lettera a), è condizione necessaria per accedere direttamente o attraverso convenzioni con gli enti locali o con le amministrazioni statali, al contributo del Fondo nazionale per l’integrazione di cui all’articolo 45 del testo unico. 3. Non possono essere iscritti nel registro le associazioni, enti o altri organismi privati il cui rappresentante legale o uno o più componenti degli organi di amministrazione e di controllo, siano sottoposti a procedimenti per l’applicazione di una misura di prevenzione o a procedimenti penali per uno dei reati previsti dal testo unico o risultino essere stati sottoposti a misure di prevenzione o condannati, ancorché con sentenza non definitiva, per uno dei delitti di cui agli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, salvo che i relativi procedimenti si siano conclusi con un provvedimento che esclude il reato o la responsabilità dell’interessato, e salvi in ogni caso gli effetti della riabilitazione. 6 Il primo progetto di sostegno agli Enti sia pubblici che privati verrà approvato dal Dipartimento delle Pari Opportunità nel 1999. Ogni anno viene pubblicato un bando per finanziare i programmi di assistenza e integrazione sociale, a cui gli enti accreditati possono accedervi. 7 Dalla quarta di copertina.
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159 gli enti privati accreditati al Ministero del Lavoro e della Solidarietà Sociale, sebbene nel 2007, all’interno del progetto europeo “Osservatorio e Centro Risorse sul Traffico di Esseri Umani”, coordinato dall’Associazione On the road, ne fossero stati censiti 287 (Prina, 2007). Tale rete si articola in Interventi e Servizi che si rifanno essenzialmente a due grandi tipologie: servizi di contatto, aggancio, emersione del fenomeno; servizi di accoglienza e realizzazione dei progetti di protezione, assistenza e integrazione sociale.
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3. Servizi di contatto, di aggancio, di emersione del fenomeno Questa area comprende essenzialmente tre tipi di servizi: le Unità di Strada/Unità di aggancio, il servizio del Numero Verde e i Servizi a bassa soglia. Hanno fondamentalmente due funzioni: favorire l’emersione e l’uscita tramite il contatto diretto con le donne e monitorare il fenomeno nel suo evolversi per una maggior conoscenza dello stesso.
3.1 Unità di strada Sono nate nella seconda metà degli anni 90, spesso su base volontaristica; alcune ex novo, altre hanno ampliato le loro attività, lavorando già sulla strada con le persone tossicodipendenti per la prevenzione dell’Hiv. Le Unità di strada sono diffuse su tutto il territorio nazionale, anche se a volte con una presenza discontinua nel tempo soprattutto a causa della riduzione (se non il taglio) dei finanziamenti, tagli che incidono soprattutto su quelle organizzazioni che prevedono personale dipendente. Le equipe a cui è assegnato il controllo di un determinato territorio, sono costituite da educatori, operatori e volontari che regolarmente escono di giorno e/o di notte per avviare un contatto con le donne che lavorano sulla strada. L’obiettivo è creare una relazione personale per poter dare e ricevere informazioni. L’aggancio con le donne avviene soprattutto attraverso una proposta di informazione sanitaria e di orientamento ai servizi sanitari del territorio, offrendo loro anche la possibilità di essere accompagnate a tali servizi. Un modo, questo, per rafforzare il legame appena allacciato. È fondamentale per le unità di strada intervenire sugli aspetti sanitari, sensibilizzare le donne sui rischi di malattie e sostenerle nella cura e nell’attenzione al proprio corpo.
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Durante l’incontro è generalmente prevista la distribuzione di materiale informativo e contraccettivo, soprattutto per le Unità di strada che operano per la “riduzione del danno”. Nello specifico, l’Unità di strada dà informazioni sui diritti e sulle leggi che in Italia possono essere d’aiuto a uscire dalla rete di sfruttamento. Queste informazioni acquistano importanza quando il rapporto con la donna si protrae nel tempo e la relazione personale acquista sempre più una valenza educativa. Alcune Unità di strada, tenuto conto del cambiamento che il fenomeno ha assunto nel corso degli anni spostandosi in maniera consistente dalla strada agli appartamenti, hanno sperimentato nuove tipologie di intervento creando le “Unità di aggancio”, servizi che cercano di raggiungere le donne direttamente negli appartamenti. È un lavoro che ha richiesto un cambiamento delle modalità di contatto in cui il telefono è l’elemento essenziale. Gli operatori, dopo una attenta selezione dei giornali e dei siti internet che offrono massaggi e incontri, telefonano direttamente, presentandosi e offrendo alle donne l’informazione sanitaria e l’accompagnamento ai servizi. È un lavoro che richiede molta attenzione e numerosi contatti telefonici preliminari anche se poi sono pochi gli incontri personali che effettivamente si riescono a realizzare. Il lavoro è faticoso, ma permette di avere conoscenza su questo spaccato del fenomeno, definito “prostituzione invisibile o prostituzione indoor”. Nella prostituzione indoor, lo sfruttamento è meno violento e più negoziale, per questo è più difficile per la donna riconoscersi “sfruttata”. L’attività legata all’emersione delle condizione di vittima richiede continuamente una rimodulazione delle strategie di azione per trovare le soluzioni più adeguate di risposta ai bisogni espressi dalle donne.
3.2 Numero verde Il Servizio del Numero verde nazionale (800.290290) viene finanziato e organizzato all’interno delle azioni di sistema, previste dal dipartimento delle Pari Opportunità a partire dal 2000. All’inizio tale servizio comprendeva una postazione centrale con la presenza di operatori e mediatori culturali, e 14 postazioni locali a valenza regionale e interregionale. Il Numero Verde offre informazioni sulle leggi, i diritti, le possibili forme di aiuto alle donne, ed è rivolto ai cittadini, alle associazione e alle donne stesse. L’operatore ha la possibilità, dopo una breve valutazione, di intervenire tempestivamente, attivando l’accoglienza in una struttura di Pronto Intervento il più vicino possibile al luogo da cui la donna telefona.
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Al momento dell’attivazione di tale servizio sono state organizzate campagne di informazione anche tramite spot televisivi, per raggiungere il maggior numero di persone. Dal 2000 al 2006, le telefonate ricevute sono state circa 160.000. Tuttavia nel corso degli anni il servizio è stato sempre meno sostenuto e attualmente esiste solo la postazione centrale, a cui fa riferimento la rete dei servizi ormai consolidata su tutto il territorio nazionale.
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Quando si decide di interrompere. La storia di Becky. Becky è nigeriana, ha 19 anni, proviene da un villaggio vicino a Benin City; ha nove fratelli e due genitori anziani. A 17 anni, terminata la scuola superiore, Becky non può continuare gli studi perché la sua famiglia è povera e lei non riesce a trovare un lavoro. Un’amica le fa conoscere Elisabeth che vive già in Italia e che le propone di seguirla per lavorare come baby-sitter o cameriera. Becky ne parla a sua madre che però è preoccupata e non vuole; Becky, invece, è felice perché pensa di poter aiutare la sua famiglia. Così, senza avvisare la mamma, scappa ed Elisabeth la porta a casa sua. Per garantirsi la sua fedeltà la porta da uno “stregone” che, attraverso riti woodoo, le fa promettere obbedienza. Dopo il rito Becky parte insieme ad Elisabeth per Lagos. Là le viene procurato un passaporto con false generalità e arrivata a Parigi prende un treno per l’Italia dove Elisabeth le dice che il lavoro promesso non c’è perché non ha i documenti per poter essere assunta: le rimane solo il lavoro come prostituta sulla strada con il quale dovrà pagare il debito di € 40.000 contratto per le spese sostenute per il passaporto e il viaggio. Inoltre dovrà pagare 200 euro per l’affitto mensile, 30 euro alla settimana per il vitto e 300 euro per il joint (il tratto di strada dove lavorerà). Becky si rifiuta, così viene picchiata e obbligata a prostituirsi; ogni volta che guadagna poco viene minacciata e maltrattata. Per due anni Becky vive con la madame. Poche volte telefona alla famiglia sempre in presenza della madame, così che non può dire loro la verità. Stanca di questa vita, scappa e cerca ospitalità presso un’amica. Dopo alcuni mesi, telefonando alla madre, Becky viene a sapere che la famiglia ha subito minacce e il fratello è stata picchiato dalla famiglia della madame. Torna quindi sulla strada e ricomincia a lavorare per pagare il debito. Sulla strada conosce gli operatori di una Unità di strada; Becky ha problemi di salute e dopo un ricovero ospedaliero, troppo stanca per continuare la vita da prostituta, supera la paura e chiede aiuto agli operatori. Dopo un colloquio di orientamento accetta il progetto e viene accolta in una casa protetta ad indirizzo segreto. Oggi Becky ha un lavoro come operaia, è sposata e ha potuto ritornare in Nigeria ad abbracciare i suoi parenti e amici.
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3.3 I servizi a bassa soglia Sono dei servizi organizzati all’interno delle sedi delle associazioni, che possono avere diverse denominazioni: “Drop in Center” o “Sportelli informativi”, o “Centri d’Ascolto”. Sono luoghi deputati all’ascolto e rappresentano il passo immediatamente successivo alla strada; le donne, inviate dalle Unità di Strada, dal Numero Verde, dai clienti e dalle associazioni, possono essere ascoltate, informate e orientate a prendere decisioni per il proprio futuro. Questi servizi svolgono anche funzioni di tipo informativo e di orientamento rivolto a cittadini, clienti, associazioni che chiedono maggiori dettagli (per poter a loro volta prestare aiuto) ma il compito prioritario è quello di incontrare le donne in una atmosfera tranquilla e rassicurante, cominciare a raccoglierne la storia e spiegare loro, presentando il progetto e le leggi, in quale modo possono essere aiutate. Le donne, quando arrivano ai servizi, sono spesso ancora diffidenti, raccontano parzialmente la loro storia, non vogliono svelarsi totalmente, quindi è importante tranquillizzarle, rassicurarle che nulla di quanto comunicato sarà trasmesso ad altri senza il loro consenso; l’operatore deve essere chiaro, condividere le paure della donna e sopratutto spiegare quale aiuto può offrire coinvolgendola in un processo di responsabilizzazione nei confronti della propria vita. È un momento delicato che può rappresentare un percorso di fuoriuscita dalla strada e l’ inizio di una nuova vita. Per tale ragione è determinante l’intervento dell’operatore che deve essere in grado di individuare e prospettare alla donna tutte le possibili strategie che possano consentirle di cambiare la sua situazione. Spesso non è sufficiente un colloquio, ma bisogna avere la capacità di saper rispettare i tempi della donna nella maturazione della scelta e, quando la scelta è avvenuta, verificare con lei la sussistenza delle condizioni (sfruttamento, violenza inganno, paura) che possono permetterle di ottenere il permesso di soggiorno. A questo punto inizia il percorso in accoglienza secondo criteri e fasi ormai consolidate negli anni. La difficoltà di fidarsi. La Storia di Jessica. Jessica, nigeriana, si presenta in ufficio inviata da un Centro d’ascolto. Due anni prima era scappata dalla sua madame (la donna che la sfruttava) e così racconta la sua storia al primo colloquio: “Dopo essere scappata da un matrimonio di violenza, una sacerdotessa mi fa conoscere un uomo che mi può aiutare a venire in Europa. L’uomo mi mette sulla nave e arrivo a Genova, senza documenti. Piango e un uomo italiano per
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aiutarmi mi dice che devo andare a Torino per fare la richiesta d’asilo. Vado a Torino in Questura, faccio la domanda di asilo, poi non so dove andare. Incontro una donna nigeriana che mi aiuta e mi porta a casa sua. Poi mi dice che non avendo documenti devo andare a prostituirmi per mantenermi e dare i soldi a lei. Io non voglio, ma lei mi obbliga.” Già ci sono contraddizioni nella storia, le chiedo quanto doveva pagare alla donna e perché è fuggita, risponde: “Dovevo darle 50.000 euro (elemento utile ai fine della prova dello sfruttamento) ed ero stanca di essere picchiata dalla donna. Un giorno che la madame ha dovuto ritornare a Torino, sono scappata e sono arrivata a Milano.” Dico a Jessica che ci sono gli elementi per poterla aiutare, ma sono poco convinta della storia relativa al suo viaggio. Le chiedo di pensare a quanto ci siamo dette e le fisso un altro appuntamento. Al secondo colloquio Jessica racconta il suo viaggio: “Il signore che mi ha aiutato a venire in Europa, mi ha procurato i documenti e mi ha accompagnato in aereo a Parigi e poi in treno fino a Torino. A Torino mi presenta la mia madame che subito mi ha obbligato a prostituirmi per ripagare viaggio e documenti. È stata la stessa madame che mi ha consigliato di fare la domanda di asilo…” La storia così era più chiara e aveva tutti i presupposti per poter inoltrare la richiesta di permesso di soggiorno. Jessica ha ottenuto il permesso, attualmente lavora e condivide una casa con un’altra ragazza nigeriana.
4. Servizi di accoglienza e realizzazione dei progetti di assistenza e integrazione sociale I progetti si realizzano soprattutto in strutture residenziali. Si articolano in tre fasi che si svolgono in strutture diverse, ciò consente di mettere a punto e portare a termine il progetto individuale che spazia dalla protezione e messa in sicurezza, all’ottenimento dei documenti, all’acquisizione di competenze linguistiche e professionali, al rinforzo dell’autostima e all’avvio di un’autonomia lavorativa e abitativa. Gli obbiettivi del progetto, pur coniugato e realizzato con modalità diverse a seconda degli Enti, tende all’inserimento sociale delle donne e ad un accompagnamento verso l’autonomia personale. Esistono 3 tipi di strutture di ospitalità: Pronto Intervento, Prima accoglienza, Seconda accoglienza.
4.1 Pronto intervento/Casa di Fuga È il primo servizio che la donna incontra: sono spesso strutture di piccole dimensione (4/5 posti) in cui le donne accedono sia in emergenza che a
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seguito di colloqui realizzati nei servizi a bassa soglia. Offrono una protezione immediata e sono l’occasione per conoscere meglio la donna, verificarne le intenzioni, chiarire le offerte di aiuto che possono essere date e aiutarla a prendere una decisione. In questa fase, oltre all’attivazione di visite mediche, c’è un approfondimento della storia personale ed un eventuale accompagnamento alla denuncia. È importante poter attuare questa prima fase di accoglienza utile a: acquisire conoscenze e dati più precisi sulla persona; approfondirne la motivazione; cercare, per quanto possibile, la struttura più idonea ai suoi bisogni; prepararne l’entrata nella comunità prescelta. Tutto ciò anche per evitare di rendere nota l’ubicazione della struttura a ragazze che potrebbero decidere di tornare sulla strada. La permanenza è di breve durata (30/40 giorni) e il risultato è l’abbandono del progetto o l’inizio di un percorso di autonomia. Questa fase del progetto è stata ulteriormente rinforzata dalla Legge 228/2003, “Misure contro la tratta di persone”, all’interno della quale l’art. 13 prevede per persone vittime di tratta, non solo per sfruttamento sessuale, un programma di assistenza che garantisca adeguate condizioni di alloggio, vitto e di assistenza sanitaria per la durata di 3 mesi 8.
8 Art. 13: Istituzione di uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale. 1. Fuori dei casi previsti dall’articolo 16-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale, come sostituiti, rispettivamente, dagli articoli 1 e 2 della presente legge, è istituito, nei limiti delle risorse di cui al comma 3, uno speciale programma di assistenza che garantisce, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria. Il programma è definito con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per le Pari Opportunità di concerto con il Ministro dell’Interno e con il Ministro della Giustizia. 2. Qualora la vittima del reato di cui ai citati articoli 600 e 601 del codice penale sia persona straniera restano comunque salve le disposizioni dell’articolo 18 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998. 3. All’onere derivante dall’attuazione del presente articolo, determinato in 2,5 milioni di euro annui a decorrere dal 2003, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2003-2005, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente “Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’anno 2003, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo allo stesso Ministero. 4. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
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4.2 Case di prima accoglienza Sono il fulcro dell’attività del progetto e l’inizio di un percorso finalizzato all’inserimento sociale delle donne. Spesso sono case a indirizzo segreto, con una presenza a tempo pieno degli operatori. Anche questi servizi, pur con modalità organizzative diverse da Ente a Ente, offrono alle donne reali opportunità di cambiamento di vita. La casa è il luogo in cui la donna, in una situazione di sicurezza e protezione, può raccontare di sè, della sua storia, della sua famiglia; è sostenuta ed aiutata, sia individualmente che in gruppo, inizia a prendere le distanze dall’esperienza precedente, a riappropriarsi della propria vita e a riprogettare il futuro. La casa è il luogo in cui le ragazze possono sperimentare fiducia, e quindi possono fidarsi e affidarsi (percorso a volte difficile a causa della storia personale). Obbiettivi del centro (e tappe fondamentali del percorso delle ospiti) sono: garantire protezione e sicurezza, offrire sostegno nel percorso di denuncia, incoraggiarne la cura di sé e del proprio corpo. Inoltre far sì che gli ospiti possano: recuperare lo status di cittadinanza attraverso l’ottenimento del permesso di soggiorno e dei documenti di identità, individuare e promuovere le proprie potenzialità personali, costruire relazioni positive dentro e fuori la comunità, riprogettare il proprio futuro in Italia o nel paese d’origine.9 La donna viene dunque considerata nella sua globalità: la si accompagna nella cura della sua salute, sia fisica che psicologica, aiutandola a riprendere un normale ritmo di vita. Si riallacciano anche i contatti con la famiglia d’origine, che riveste un ruolo importante nel futuro della donna. Le donne spesso non rivelano la verità ai genitori e la prostituzione rimane un segreto condiviso solo con la sorella o il fratello maggiore; a volte, invece, la famiglia sa ed è complice di quanto è successo, anche se è difficile ammetterlo. Passato il primo periodo, si inizia a lavorare sulle competenze linguistiche e professionali, aiutando la donna a definire meglio il proprio progetto migratorio. L’intervento è caratterizzato da una presa in carico relazionale “forte”; la giornata è organizzata e scandita dal tempo dedicato al lavoro pratico 9 In realtà poche sono le donne che richiedono di tornare al proprio paese. Sono previsti dei progetti rimpatrio assistito realizzato dall’ O.I.M. (Organizzazione Mondiale delle Migrazione). Dal luglio 2000 al 2006 sono stati realizzati 160 rimpatri assistiti, mentre dal 1998 al 2009 sono stati rilasciati 5136 permessi per motivi umanitari.
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e a quello per sé; viene attribuita molta importanza alla condivisione di valori quali il rispetto della diversità, l’educazione alla convivenza multietnica, la condivisione delle regole che definiscono i rapporti all’interno e con l’esterno. Il percorso verso l’autonomia si articola in tre fasi: Osservazione, Costruzione del Progetto, Preparazione. Nella prima fase, si lavora sulla conoscenza della donna, si dà avvio alle pratiche per l’ottenimento dei documenti e s’incoraggia l’apprendimento della lingua italiana; nella seconda fase, la donna comincia a uscire più frequentemente all’esterno, frequentando corsi di lingua italiana e corsi professionalizzanti, inizia a svolgere alcune attività lavorative e tirocini anche finalizzati all’assunzione. Infine, nella terza fase, si insiste molto sulla ricerca attiva di un lavoro e si prepara la donna all’uscita dalla casa verso una situazione di semi autonomia. La metodologia di intervento, rispettosa delle diversità culturali e personali, si basa sul processo di autodeterminazione delle donne e sul rispetto delle loro scelte rendendole comunque consapevoli dei vincoli e delle risorse che la nostra società offre. Il lavoro educativo richiede una relazione forte che sappia adattarsi ai diversi bisogni espressi dalle ospiti. È necessario lavorare con mediatrici culturali che sappiano spiegare loro il progetto e aiutare gli operatori a meglio capire alcuni “incidenti culturali” che accadono all’interno della casa di accoglienza. Con l’ottenimento dei documenti e l’acquisizione di nuove competenze, la donna può iniziare a guardare al futuro con un po’ di fiducia. La permanenza nella case di prima accoglienza può variare dai 6 ai 10 mesi, più a lungo per le più giovani. La permanenza, comunque, non può prolungarsi troppo, proprio per stimolare le donne a farsi carico di loro stesse in maniera più autonoma; per questo è previsto una ulteriore tappa del percorso offrendo alle donne un passaggio in case di seconda accoglienza. L’uscita dalla comunità. La storia di Giorgia. Giorgia ha 22 anni. I genitori sono separati e lei vive con il padre e un fratello più piccolo in un paesino non lontano dalla capitale della Repubblica Moldava. La madre e un altro fratello si sono trasferiti a Mosca e Giorgia non ha contatti con loro da diversi anni. Riesce a terminare gli studi all’università ma non trova lavoro; il padre non gode di buona salute e non riesce più a mantenere la famiglia. Un’amica le fa conoscere Rudy, un uomo che può aiutarla ad andare in Italia per lavorare nei ristoranti e nei locali come spogliarellista, e se vuole anche come prostituta. Giorgia accetta e l’uomo le procura i documenti per l’espatrio. La sorella dell’amica, Tatiana, rientrata al paese, la rassicura e insieme partono in macchina
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con l’uomo. Il viaggio verso l’Italia è difficile: alla frontiera viene fermata e rimandata indietro. Le viene procurato un altro passaporto e riparte di nuovo. Attraversa l’Ucraina, l’Ungheria, l’Austria su un pulmino con altre otto persone. In Italia il lavoro promesso non c’è; Tatiana le presenta il suo fidanzato albanese che le dice che dovrà prostituirsi sulla strada e che tutto il guadagno dovrà darlo direttamente a lui o a Tatiana. Le spiega tutto quello che deve fare e le dà un cellulare che può utilizzare solo per chiamare lui. Giorgia conosce un cliente che vorrebbe aiutarla, ingenuamente gli dà il numero di cellulare. Quando l’albanese se ne accorge la picchia, le rompe il cellulare, intimandole di non fare più un cosa simile. La vita sulla strada diventa un vero inferno; Giorgia è obbligata a prostituirsi con la pioggia, con il freddo e non può intrattenersi con nessun cliente più del minimo indispensabile, altrimenti viene picchiata. Una sera la polizia la ferma e la porta in Questura. Giorgia non ce la fa più e racconta tutta la sua storia ai poliziotti che, dopo aver raccolto la denuncia, l’accompagnano in una comunità di pronto intervento dove inizia una nuova vita. Inizialmente Giorgia è diffidente: vorrebbe poter vivere con un amico, ma a poco a poco capisce che deve costruirsi prima una sua autonomia per non dipendere sempre e solo dagli altri. All’uscita dalla comunità si congeda con queste parole: “Quando sono arrivata qui pensavo solo al fatto di volermene andare, ma invece mi dispiace perché qui è come una grande famiglia. Qui ho trovato delle persone che mi sono entrate nel cuore e spero che anche io sono entrata nel cuore di tutti voi, anzi, sono sicura che mi volete bene e che tutte le cose che mi avete detto, le avete dette per il mio bene; sono riuscita a cambiare la mia vita: è una cosa che mi rende orgogliosa perché non è stato facile, è stato faticoso, pieno di problemi. Ma la vita è così; spero che anche voi siate orgogliosi di me.”
4.3 Case di seconda accoglienza/case di autonomia Sono costituite da appartamenti in cui alcune donne vivono insieme per sperimentare una maggior autonomia nella gestione della vita quotidiana e migliorare il processo di inserimento sociale. Durante tale periodo viene ancora garantito loro l’accompagnamento socio-educativo, strumento fondamentale perché possano rafforzare le loro potenzialità, valorizzare le loro risorse e riconoscere i loro limiti. Condizioni indispensabili per il raggiungimento di una reale autonomia lavorativa e abitativa. Gli obiettivi perseguiti sono: acquisizione di una maggiore conoscenza di loro stesse e delle loro modalità relazionali; acquisizione del rispetto delle regole di convivenza (sia all’interno che all’esterno della casa); acquisizione di una maggiore conoscenza della realtà sociale italiana in tutti i suoi aspetti.
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L’ITALIA DELLE OPPORTUNITÀ
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In tutto il periodo di permanenza, della durata di 12/14 mesi, gli operatori socio-educativi seguono la donna sostenendola con colloqui individuali, orientandola ai servizi socio-sanitari del territorio e aiutandola nella ricerca attiva di un lavoro (quando necessario) e di una autonomia abitativa.
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5. Il lavoro di rete e i servizi complementari indispensabile alla costruzione dell’intero progetto Per realizzare i progetti di assistenza e integrazione sociale previsti dall’art.18, occorre necessariamente un lavoro di rete con servizi di vario genere: sanitari, anagrafici, legali, consolari, giudiziari, scolastici e professionalizzanti. Il lavorare in rete è fondamentale per meglio attuare il progetto d’ inserimento. Sono tutti importanti ma rivestono rilevanza particolare i servizi per l’inclusione lavorativa e i servizi giudiziari (Magistratura e Questura).
5.1 I servizi di inclusioni lavorativa Possono essere realizzati dallo stesso Ente che realizza progetti di protezione umanitaria, ma più frequentemente sono realizzati da servizi esterni, che hanno particolare competenze nel settore. Servizi in grado di attivare esperienze professionalizzanti, sia attraverso corsi di breve durata in quelle aree del mercato del lavoro in cui le donne possono più facilmente inserirsi (ristorazione, pulizie, acconciature ecc.), sia attraverso stage e tirocini lavorativi finalizzati ad una possibile assunzione. Accanto alla professionalizzazione, si realizza un’attività di orientamento alla ricerca attiva del lavoro, mettendo a punto il curriculum e preparando le donne a sostenere eventuali colloqui di lavoro. Queste attività risultano molto importanti soprattutto in considerazione del fatto che le donne, spesso, non hanno esperienze lavorative pregresse o le attività lavorative precedentemente svolte non sono spendibili nel nostro paese. Inoltre, la situazione attuale del mercato del lavoro e il persistere dei pregiudizi nei confronti delle immigrate (specie quelle che provengono dai paesi africani), rendono più difficili gli inserimenti lavorativi. Gli stage e i tirocini, quindi, non solo danno competenze alle donne ma permettono alle aziende di conoscerle in una fase di apprendimento del lavoro e questo facilita un’eventuale assunzione. Infine, il fatto di sperimentarsi nel mondo del lavoro aumenta l’autostima delle donne, fondamentale per concludere il progetto in modo positivo.
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5.2 I servizi giudiziari Sono servizi essenziali e indispensabili che accompagnano la donna durante tutte le fasi del progetto, la cui collaborazione è obbligatoria perchè sono i principali attori che determinano la durata del progetto stesso. Le Forze dell’Ordine e la Magistratura intervengono per accogliere la denuncia, aprire le indagini, rilasciare il nulla-osta e avviare successivamente il procedimento giudiziario a carico dei denunciati. Gli Uffici Immigrazione delle Questure sono invece deputati a rilasciare il permesso di soggiorno, documento indispensabile per realizzare un concreto progetto di inserimento sociale. Il contrasto e la repressione delle reti criminali vedono come protagoniste le stesse donne vittime di questi traffici che, quando decidono di denunciare i loro sfruttatori, diventano tanto più collaborative, quanto più si sentono sicure e protette. È necessario quindi che le Forze dell’Ordine, per poter avere informazioni e dettagli precisi utili all’apertura di un procedimento giudiziario, sappiano comprendere e rispettare i tempi della donna, creando un rapporto di fiducia reciproca. Il passo successivo è il rilascio del nulla-osta da parte del magistrato competente, nulla osta che le Questure ritengono indispensabile per il rilascio del permesso di soggiorno. I tempi del rilascio sono diversi da Procura a Procura. Sicuramente la credibilità della denuncia gioca un ruolo importante, ma altre variabili ne determinano tempi: l’interesse che la denuncia riveste; le risorse, in termini di persone e tempo, da dedicare alle indagini; la consapevolezza che la donna sia realmente vittima di traffico e sicuramente altri motivi non noti agli operatori. Di fatto il nulla-osta può essere rilasciato entro 1 mese, entro 6 mesi, mai. A volte, anche a seguito di denuncia, si deve richiedere il permesso di soggiorno per protezione sociale, altrimenti non si può procedere nella realizzazione del progetto. Anche il rilascio del permesso di soggiorno secondo il percorso sociale non è un fatto acquisito in ugual modo sul territorio nazionale: oggi, a 13 anni dell’approvazione del Dlgs. 286/98, la situazione si presenta ancora a macchia di leopardo. Parecchie Questure non lo rilasciano mai, alcune solo in casi eccezionali, altre, dopo una valutazione dei requisiti, applicano la legge in modo corretto. Come si può evincere da quanto detto sopra, la durata del progetto delle donne è fortemente condizionata dal rilascio del permesso di soggiorno che è la base per permettere loro di sperimentarsi concretamente nel mondo scolastico e professionale al di fuori della case di accoglienza. La durata
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di 2 anni può essere considerata, oggi, il tempo minimo necessario per trasformare il permesso di soggiorno umanitario in permesso di soggiorno per lavoro.
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Conclusioni. Punti di forza e di debolezza dell’attuale sistema dei servizi e le nuove sfide Il lavoro di rete, nella varietà e la diversificazione dei servizi coinvolti, rappresenta un punto di forza importante. I servizi offerti dai diversi Enti, realizzano l’intero percorso della donna “dalla strada all’autonomia”. Un Ente offre l’ospitalità in Pronto Intervento, un altro offre l’accoglienza in un territorio contiguo o, se necessario, in altra regione, un terzo mette a disposizione le case di seconda accoglienza. È un sistema di servizi che si è professionalizzato nel corso degli anni, che conta su operatori competenti, che è sempre attento ad adeguare o creare nuovi progetti per favorire l’incontro con le donne e rispondere meglio ai bisogni delle stesse, mostrando flessibilità, vitalità e cercando sempre nuovi modi di collaborare. A fronte di queste potenzialità, un punto di debolezza è sempre stato rappresentato dalle modalità di finanziamento per sostenere i servizi. Dal 1999, ogni anno viene bandito, dal Dipartimento dei Diritti e delle Pari Opportunità, un avviso per finanziare i progetti; anzi, dal 2005, a seguito della legge 228/2003, ogni anno vengono pubblicati due bandi di finanziamento per attività similari. Questo ha reso difficile programmazioni di medio/lungo periodo perché ogni anno gli Enti, soprattutto quelli del privato sociale, dipendono dall’accettazione del finanziamento e dall’entità dello stesso. Per questo le associazioni di piccola dimensione riescono a garantire il progetto solo a seguito di finanziamento, creando, a volte, discontinuità nelle attività stesse. Questa incertezza si è riacutizzata negli ultimi anni a causa dei tagli alla spesa sociale, tagli che hanno coinvolto anche il settore tratta. Se poi si considera che anche gli Enti Locali, cofinanziatori obbligati per la presentazione dei progetti al Dipartimento10, a causa delle attuali difficoltà economiche non stanno più sostenendo la rete dei servizi per le donne vittime di tratta, si capisce bene quanto sia a rischio la sopravvivenza dell’intero sistema. Negli ultimi anni più difficoltoso è stato il dialogo e il confronto con il Dipartimento dei Diritti e delle Pari Opportunità, nonostante le commissio10 Per la presentazione dei progetti art. 18 è necessario avere un co-finanziamento degli enti locali del 30% e per la presentazione dei progetti art. 13 del 20%
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ni e i comitati istituti per meglio affrontare in modo unitario i problemi e trovare soluzioni per sostenere gli interventi e i servizi che si occupano di tratta dal momento dell’ emersione all’inclusione sociale. Oggi sono in atto sfide diverse. Innanzitutto, c’è la riorganizzazione del settore che prevedrebbe, a partire da 2012, l’accorpamento dei “bandi” e finanziamenti diversificati rispettivamente per le attività di emersione (uds, aggancio, numero verde, servizi bassa soglia) e per le attività legate all’inserimento sociale (strutture residenziali, servizi di orientamento professionale, scolastico ecc.). Questo favorirebbe una maggior governance del sistema tratta e renderebbe meno dispersivo il lavoro degli Enti nelle attività di progettazione. Il mondo della tratta, in questi ultimi anni, si è fortemente diversificato; altre tratte sono presenti sul territorio nazionale: per sfruttamento lavorativo, attività illegali, accattonaggio. È necessario porre l’attenzione a questi fenomeni, forse meno eclatanti e visibili rispetto allo sfruttamento sessuale. Bisogna attrezzarsi, conoscere, approfondire, far emergere tali fenomeni, evidenziandone i problemi, attivando gli aiuti necessari e attrezzandosi per dare risposte, come già è avvenuto per la tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Ma un’altra sfida è ancora più pressante e grave: come riuscire a portare a termine i progetti individuali di inclusione sociale in un momento di crisi occupazionale ed economica come quella attuale? Una crisi che miete vittime soprattutto fra le persone più fragili. Un’operatrice di una struttura di seconda accoglienza qualche giorno fa mi ha detto: “Non mi era mai successo di dover terminare i progetti di protezione umanitaria con un permesso per ricerca lavoro” e concludeva “se un lavoro regolare anche a part-time non si trovasse, quale potrà essere il destino di questa ragazza?” Le istituzioni devono porre seria attenzione a questo problema e attivare percorsi che favoriscano l’inserimento lavorativo delle donne, consapevoli che questo è un punto essenziale per ridare loro dignità e cittadinanza.
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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Francesco Carchedi
1. Un universo difficile da quantificare. I dati ufficiali a livello europeo Il traffico di esseri umani è ri-diventato un fenomeno globale. Dopo i processi di indipendenza di molti paesi africani, asiatici e latino-americani a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, si è pensato “per un breve scorcio di tempo” che le forme di schiavitù sessuale, lavorativa e domestica (compresi i matrimoni combinati e spesso caratterizzati dall’acquisto della donna e dunque dalla compravendita di donne, soprattutto minori) fossero in forte declino e che probabilmente si sarebbero ben presto arrestate. Non è stato così, purtroppo. Negli ultimi venti anni, all’incirca, in tutto il mondo, sono riemerse in modo evidente forme di schiavitù che si pensavano, appunto, sparite con la tragica esperienza della “tratta degli schiavi” (dei secoli passati)1. La ripresa degli studi al riguardo ha posto, oltre agli aspetti qualitativi del fenomeno, anche quelli di carattere quantitativo, seppur in maniera minore. L’Onu stima in circa 4 milioni le donne (tra cui bambine e minorenni) comprate e vendute ogni anno nel mondo. Secondo Bales (2000), invece, l’ammontare delle donne sfruttate in diverse maniera – e dunque non solo sessualmente – sono circa il 6,7% dei 27 milioni di schiavi complessivi che egli stesso stima. Le stime di Bales sono quindi poco meno della metà di quelle Onu. L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro (2005), dal canto suo, propone stime, dichiaratamente caute, che fanno ammontare il fenomeno complessivo tra i 9,8 e i 14,8 milioni (con una media quindi di 1 Sulla tratta dei secoli passati ci sono molti testi. Ma per avere anche una riflessione sulle stime cfr. Olivier Pètrè-Grenouilleau, 2004, pp. 164 e 168.
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12.300.000 unità). Queste ultime persone sono sfruttate in maniera diversa: il 63,5% per le condizioni lavorative forzate (7.810.000 unità), il 20,2% per le condizioni forzate derivanti dall’oppressione esercitata da stati totalitari (2.490.000 unità), l’11,3% assoggettate da forme di sfruttamento sessuale (1.390.000 unità) ed infine il restante 5% per modalità para-schiavistiche multiple (610.000 unità). Nell’Unione Europea – sulla stime elaborate dall’Onu (nel 2000) e accettate dalla Commissione – le donne avviate alla prostituzione in condizione di forte assoggettamento ammonterebbero a circa 500.000 unità2. Nella Tab. 1 sono riportati, invece, i dati registrati ufficialmente dalle autorità nazionali dei diversi paesi europei (in senso geografico) in riferimento al periodo 2003-2006 e in qualche caso anche al 2008 o 2009, limitatamente allo sfruttamento sessuale. Tab. 1 – Stati europei e donne trafficate per sfruttamento sessuale
Paese Albania Austria Belgio Bosnia H. Bulgaria Croazia Cipro Rep. Ceca Danimarca Estonia Finlandia Francia Germania Grecia Gran Bretagna Ungheria
Anni 2003-2006-07 Minori Donne adulte F 96 75 232 (a) 446 43 103 33 943 162 38 12 136 240 39 (a) 323 (b) 31 11 3.930 191 3.980 333 497 7 687 43 16
Totale M 26 1 3 6 7
v.a 197 232 489 137 1.105 53 136 240 39 323 42 4.127 4.313 504 687 66
% 0,4 0,5 1,1 0,3 2,4 0,1 0,3 0,5 0,1 0,7 0,1 9,0 9,4 1,1 1,5 0,1
2
Cfr. Commissione per i diritti della donna e le pari opportunità – Relazione Patsy Sorensen (A5-0127/2000), Lotta contro la tratta, Strasburgo, 15-19 maggio, 2000. La stima di 500.000 unità è stata proposta dall’Onu nel 2000 e fu ripresa dalla Sorensen nella relazione citata. La stima non distingue di fatto ciò che invece propone il Protocollo di Palermo, ossia una distinzione tra prostituzione e tratta a scopo di grave sfruttamento (cfr. art. 3).
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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Paese Italia Lettonia Lituania Malta Montenegro Olanda Norvegia Polonia Portogallo Romania Serbia Kossovo Slovacchia Slovenia Spagna Svizzera Macedonia Turchia Totale
Anni 2003-2006-07 Minori Donne adulte F 13.617 (e) 1.181 40 7 45 5 18 26 1 1.569 95 86 695 (c) 48 132 40 3.740 (d) 870 91 57 213 126 9 103 14 8.381 21 432 60 125 30 1.150 46 42.257 3.367 (91,8) (7,3)
Totale M 120 4 129 6 302 (0,7)
v.a 14.918 47 50 18 31 1.664 86 743 172 4.739 154 213 135 117 8.402 492 155 1.196 46.022 (100,0)
% 32,4 0,1 0,1 0,1 0,1 3,6 0,2 1,6 0,4 10,3 0,3 0,5 0,3 0,3 18,4 1,1 0,3 2,3 100,0
Fonte: ns. elaborazione su dati Unodc (anno 2009). I dati di Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Svezia non sono pervenuti; (a) dato al 2007; (b) dato al 2008; (c) dato al 2008 e (d); 207 casi sono stati classificati come tratta interna; (e) dato al 2009.
I dati riportati sono stati pubblicati dall’United Nations Office on Drug and Crime (UNODC) nel 20093. Dalla tabella salta subito agli occhi il dato sull’Italia (leggermente diverso di quello che si riporta nella successiva Tab. 2 poiché si riferiscono ad anni diversi) in quanto ammonta a circa 13.600 unità. È un dato molto alto se comparato agli altri paesi, come la Spagna che segue con circa 8.500 unità, la Romania con 4.700 unità, la Francia con 4.100 e la Germania con 4.300. Tale discrepanza, a nostro parere, riflette soltanto una maggior efficacia dei servizi territoriali costruiti nell’ultimo decennio nel nostro paese rispetto agli altri e alla particolare (e più estesa) procedura di 3
Cfr., UNODC, Global Report on Trafficking in Persons. Human trafficking a crime that shames us all, Pubblicazione interna, Vienna, 2009 (www.unodc.org). Le schede dei paesi europei elaborate vanno da p. 232 a p. 262.
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intercettazione/identificazione delle vittime, ovverosia quale effetto del c.d. “doppio percorso” previsto dalla normativa corrente (La Rocca, 2008). Si ricorda che in Italia – fino a circa tre anni addietro (2008) – erano operativi su tutto il territorio nazionale circa 250 gruppi di intervento specializzato sulla tratta di esseri umani (Prina, 2007)4, un numero altamente superiore a quello dei servizi similari dislocati negli altri citati. Questa rete nel nostro paese, attualmente, si è ridotta di molto, e dunque di gran lunga è diventata molto meno efficace sul piano della protezione sociale. L’altro dato importante – anche se limitato soltanto ad alcuni paesi – è la proporzione che emerge tra le persone sfruttate sessualmente in età adulta e quella in età inferiore ai diciotto anni. In riferimento al totale di 46.022 vittime accertate, le adulte rappresentano il 92% (all’incirca) e le minorenni l’8% (di cui lo 0,7 sono minori maschi). Anche in questo caso, il dato più alto relativo ai minorenni sfruttati sessualmente si ritrova nel nostro paese, seguito soltanto dalla Romania con 870 unità. Occorre dire che, nel dato italiano, la nazionalità maggiormente coinvolta è quella romena, seguita da quella nigeriana (come si vedrà meglio nel paragrafo successivo). Questa divaricazione si ripercuote anche nel gruppo più ampio delle donne adulte.
2. Il livello nazionale. I dati del Dipartimento per le Pari Opportunità 2.1 Le vittime prese in carico dai servizi sociali In Italia, i dati ufficiali maggiormente completi sul numero delle vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, nonostante alcune carenze strutturali, sono raccolti ed elaborati dal Dipartimento delle Pari Opportunità (presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri) sin dal 1998 sulla base delle disposizioni normative previste dal T.U. sull’immigrazione e dal suo regolamento attuativo (emanato con il DPR n. 394/1999 del 31 agosto). I dati che il Dipartimento raccoglie provengono dai servivi territoriali che egli stesso contribuisce a co-finanziare (insieme alle Regioni e agli Enti locali). Cosicchè i dati che i servizi territoriali acquisiscono nella loro azione di protezione sociale delle vittime di sfruttamento sessuale vengono rimandati al Dipartimento per la loro rielaborazione e diffusione5. 4
La ricerca ha censito 287 enti tra pubblici e del privato sociale coinvolti nella lotta contro il traffico di esseri umani e per la protezione degli stessi. Cfr. pp. 20-23. 5 Una critica al Dipartimento per le Pari Opportunità va comunque fatta, poiché i dati
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
Questa procedura, pur tuttavia, non è continua nel tempo e pertanto rimane non semplice – in assenza di serie statistiche costanti – poter interpretare il fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di grave sfruttamento sessuale e da qualche anno anche lavorativo, nonché quello derivante da questua forzata. Infatti, da almeno due/tre anni, è difficile avere i dati dal Dipartimento. Al riguardo era stata affidata (nel 2009) una indagine a Transcrime (una struttura di ricerca dell’Università di Trento) per la messa a punto del quadro statistico relativo ai dati in questione, ma i risultati non sono stati resi pubblici. Per tali ragioni, i dati più organici in nostro possesso sono fermi al 2007 e sono quelli sintetizzati nella Tab. 2, mentre quelli relativi al 2011 (più parziali), sono riportai nella Tab. 3. La prima tabella sintetizza l’andamento delle utenze dal 2000 al 2007 (dal 2008 è iniziata una nuova procedura di raccolta dati, come si evince dalla tabella 2). Il gruppo di vittime provenienti dalla Romania, come emerge dalla lettura dei dati, raggiunge il secondo posto per ammontare numerico dietro alla componente nigeriana. In base a questi dati disponibili le annate di maggior affluenza delle utenze romene ai servizi sono quelli a cavallo tra il primo e il secondo quinquennio del Duemila, cioè dal 2005 al 2006. Tab. 2 – Nazionalità delle vittime di tratta in età adulta prese in carico nei programmi di protezione sociale (periodo 2000-2007) Avviso Avviso Avviso Avviso Avviso Avviso Aree 6 5 4 3 2 1 geografiche e (2000-01) (2001-02) (2002-03) (2003-04) (2004-05 (2005-06) paesi v.a v.a. v.a. v.a. v.a. v.a. 1.517 665 690 716 807 Africa, di cui: 652(m) Nigeria (1.440) (639) (665) (588) (642) (706) Marocco (77) (6) (15) Altri paesi (20)(c) (10)(f ) (64) (101) 15 7 3 48 64 Asia, di cui: 27 (h) Cina (8) (7) (3) (6) (18) Filippine (7) Pakistan/India Altri paesi (27) (42) 46 (n)
Avviso 7 (2006-07) v.a. 834 (735) (99) 52 (36) (10) (6)
Totale v.a. 5.767 (5.415) (98) (294) 216 (78) 7 (10) (121)
che raccoglie non sono elaborati sistematicamente anno dopo anno e dunque non sono di facile consultazione. Occorrerebbe, come da anni viene proposto, costruire un Osservatorio o Sistema integrato per la rilevazione, il monitoraggio e l’intervento sul fenomeno, con uno staff di esperti per facilitare il trattamento statistico e l‘interpretazione sociologica dei dati e delle informazioni pertinenti.
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86 Europa dell’Est, di cui: Albania Bulgaria Moldavia Romania Ucraina Ex Yugoslavia Altri paesi Ex U. Sovietica, di cui: Russia Altri paesi Sud America, di cui: Brasile Colombia Altri paesi Altre nazioni Totale
IL MERCATO DEI CORPI
1.089
987
908
1.026(l)
1.002
866
736
6.604
(566) (89) (134) (127) (141) (22) (10)(a)
(236) (21) (269) (221) (191) (17) (32)(d)
(145) (24) (164) (383) (142) (-) (40)(g)
(129) (45) (141) (485) (138) (88)
(131) (35) (141) (552) (78) (64)
(87) (26) (91) (574) (55) (11) (22)
(91) (18) (77) (461) (65) (11) (13)
(1.385) (258) (1.017) (2.803) (810) (61) (269)
61
77
102
84
69
53
53
499
(54) (7)
(61) (16)(e)
(75) (27)
(84) -
(60) (9)
(53) (p.)
(49) (4)
(436) (63)
62
15
34
49 (i)
66
83
84
393
(10) (52) -
(9) (7) -
(20) (14) -
-
(30) (18) (18)
– – –
(69) (91) (66)
41 (b)
5
-
15
-
5 (o)
24
84
2.785
1.756
1.727
1.853
1.901
1.878
1.783
13.563
Fonte: ns. elaborazione su dati del Dipartimento dei Diritti e delle Pari opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri; a. Lettonia, Bielorussia, Lituania, Estonia; b. Italiane; c. Malawi, Camerum, Egitto, Costa D’Avorio; d. Lettonia, Bosnia, Bielorussia, Lituania; e. Kazakistan, Uzbekistan; f. Costa D’Avorio, Camerum; g. Lettonia, Lituania, Estonia, Bielorussia; h. Filippine, Cina, Georgia, Pakistan, Kazakistan, Uzbekistan, Turchia e Iran/Iraq; i. Brasile, Colonia, Ecuador, Perù, Cuba, Santo Domingo; l. Lettonia, Lituania; m. (m) Marocco, Ghana, Senegal, Congo, Benin, Camerun, Togo; n. Kirghistan, Kazakistan, Uzbekistan e Azerbegian; o. Turchia; p. Sia per l’Avviso 5, 6 e 7 il dato si riferisce alle vittime russe e bielorusse.
In questi anni il numero delle donne romene coinvolte nei programmi di protezione oscillano tra le 500 e le 600 unità. Nel complesso, le donne romene che hanno avuto accesso ai servizi raggiungono cifre più alte di tutte le altre utenze provenienti dagli altri paesi dell’Est europeo. Ciò dipende dall’alto numero di donne romene in generale immesse nei circuiti prostituzionali dai gruppi criminali di sfruttamento. Nella tabella successiva sono riportate – oltre al numero delle vittime – anche la forma di sfruttamento subita. Sul totale dei casi registrati (959) la forma di sfruttamento principale è quella sessuale in strada, mentre un altro 7,8% riguarda le donne che sono sfruttate nel chiuso delle case e degli
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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appartamenti privati. L’altra forma maggioritaria è data dallo sfruttamento lavorativo, pari a circa il 15% delle utenze registrate. Altre vittime sono state sfruttate costringendole a praticare l’accattonaggio e a compiere atti illegali per l’arricchimento altrui. Lo sfruttamento sessuale rimane quello maggiormente intercettabile dalle forze di polizia e dai servizi territoriali, mentre – al contrario – l’intercettazione di quello lavorativo resta al momento ancora molto difficoltoso e complesso. Tab. 3 – Vittime di tratta prese in carico dai progetti, di cui all’art. 18 D.gs 286/98 e art. 13 Legge 228/2003. Periodo gennaio-novembre 2011
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Forme di sfruttamento rilevate Accattonaggio, per conto famiglia Accattonaggio, per conto terzi/racket Attività illegali, commercio per conto terzi Attività illegali, furti per conto terzi Attività illegali, spaccio di droga per conto terzi Sfruttamento lavorativo Sfruttamento lavorativo, servitù domestica Sfruttamento sessuale, indoor Sfruttamento sessuale, outdoor Sfruttamento sessuale, night clubs Altre forme di sfruttamento Totale
Numero vittime v.a. % 8 0,8 9 0,9 6 0,6 25 2,6 11 1,2 140 14,6 24 2,5 75 7,8 561 58,5 21 2,2 79 8,2 959, di cui 44 100,0 minori
Fonte: Dati del Dipartimento delle pari Opportunità, gennaio-novembre 2011
2.2 I gruppi minorili coinvolti Complessivamente, per tutto il periodo all’esame (2000-2007), il numero delle rumene entrate nei programmi di protezione sociale ammonta a circa 2.800 unità, di cui circa un quinto minorenni (520 unità). Il gruppo nigeriano, come mostra la Tab. 4, ammonta complessivamente a quasi il doppio di quello romeno, ma registra, invece – in relazione alla componente minorile – un numero inferiore di circa un terzo. La componente romena si caratterizza, dunque, anche per una forte presenza di vittime in età inferiore ai 18 anni (pari a circa il 22% dell’intero collettivo di utenza registrata nel corso di circa sette anni). L’incidenza delle minori romene sulle utenze complessive è quella più alta rispetto a tutti gli altri gruppi nazionali, soprattutto in termini assoluti.
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IL MERCATO DEI CORPI
Tab. 4 – Raffronto tra le aree e paesi di provenienza delle vittime adulte e minori coinvolte nei programmi di protezione sociale (Periodo 2001/02-2006/07, Avviso 1-7) Aree geografiche
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Africa, di cui: Nigeria Marocco Altri paesi Europa dell’Est, di cui: Albania Romania Altri paesi Altre nazionalità, di cui: Cina Brasile Colombia Russia Italia Altri paesi Totale
Età dell’utenza Adulti Minori v.a. v.a. 5.544 223 (5.251) (164) (80) (18) (250) (40)
Totale
Incidenza Minori su adulti (%)
5.767 (5.415) (98) (294)
4,0 (3,1 (22,5) (16,0)
5.911
693
6.604
11,7
(1.285) (2.284) (2.335)
(100) (520) (80)
(1.385) (2.804) (2.415)
(7,8) (22,8) (3,4)
1.149
43
1.192
3,7
(77) (65) (88) (430) (41) (489) 12.604
(1) (4) (3) (6) (29) 959
78 (69) (91) (436) (41) (518) 13.563
(1,2) (6,2) (3,4) (1,3) (-) (5,9) 7,6
Fonte: ns. elaborazione su dati del Dipartimento dei Diritti e delle Pari opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Questi dati, seppur riferibili al 2007, mostrano la drammaticità di un fenomeno di sfruttamento schiavistico senza precedenti non solo per il nostro paese ma anche per la Romania. E non solo perché coinvolge persone adulte, ma anche perché coinvolge minori. Degli ultimi anni – 2008-2011 – non conosciamo in modo puntuale l’andamento del fenomeno, ma recenti indagini empiriche affermano che la componente rumena da un lato e quella nigeriana dall’altro (sia adulta che minore) non registrano riduzioni delle corrispondenti consistenze numeriche (Unicri–Parsec, 2008; Dolente, Baldoni, 2001; Stoian, 2001). Secondo dati del Dipartimento delle Pari Opportunità, tra gennaio e novembre 2011, sono stati intercettati e identificati 44 minori.
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
2.3 I dati di stima. Il caso romeno Per cercare di rendere l’universo più conoscibile – come noto – si ricorre a stime estrapolate da valutazioni che offrono gli esperti (Carchedi, Tola, 2008). Le principali nazionalità coinvolte nella prostituzione coatta di strada sull’intero territorio italiano e il loro andamento numerico stimato nel corso dell’ultimo decennio sono sintetizzate nella Tab. 5.
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Tab. 5 – Stime dei gruppi nazionali maggiormente coinvolti nella prostituzione coatta di strada (% e valori minimi e massimi, periodo 2000-2009)
Paesi Nigeria Marocco Albania Moldavia Romania Ucraina Russia Altri paesi Totale
Stime sulle singole Nazionalità (2000/01)
Stime sulle singole Stime sulle singole nazionalità (primavera nazionalità (2004/05) 2008/primavera 2009)
% 50,6 2,7 20,9 5,2 4,9 4,9 1,9 8,9 100,0
% 30,9 3,6 6,9 7,5 27,8 7,0 4,4 11,9 100,0
Min Max 5.288 6.451 282 344 2.185 2.665 543 663 512 625 512 625 198 242 930 1.135 10.450 12.750
Min Max 5.469 7.091 637 826 1.221 1.583 1.327 1.721 4.920 6.380 1.239 1.606 778 1.009 2.109 2.734 17.700 22.950
% 41,2 5,1 4,3 25,8 3,6 3,1 16,9 100,0
Min Max 8.116 10.176 1.006 1.260 847 1.062 5.028 6.295 709 890 610 765 3.330 4..174 19.700 24.700
Fonte: Comune di Roma – Parsec, Ricerca ed Interventi sociali (2006); Unicri-Parsec, Ricerca ed interventi sociali (2009).
Dalla tabella si registra – per il gruppo romeno – un incremento significativo nel corso dell’intero decennio: dalle 500/600 presenze stimate nel 2000 si passa alle 5.000/6000 stimate della metà del Duemila. Tali stime – in base alle ricerche empiriche citate – non sembrerebbero discostarsi di molto. Il fenomeno, pur modificandosi dal punto di vista qualitativo, sembrerebbe pressoché costante da quello quantitativo. Ciò vuol dire, in altre parole, che i flussi prostituzionali (in ingresso ed in uscita dai circuiti dello sfruttamento) si ripetono e si riproducono con le stesse modalità, restando così sostanzialmente stabili dal punto di vista numerico. Anche in riferimento alle stime, il gruppo romeno segue quello nigeriano per numero complessivo delle donne coinvolte nella prostituzione, ma – come già accennato in precedenza – il gruppo romeno sopravanza in proporzione anche quello nigeriano sull’incidenza delle minorenni.
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IL MERCATO DEI CORPI
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3. Le modalità di contatto con le vittime della tratta Le modalità di contatto con le vittime della tratta avvengono in diversi modi, alcuni dei quali – senz’altro quelli principali – sono sintetizzati nella Tab. 6 e fanno riferimento a sei avvisi (i dati relativi agli altri, attualmente arrivati a undici, come accennato, non sono reperibili). Ciò che emerge dai dati in possesso è il significativo ruolo che continuano ad avere le Unità di strada, nonostante si rilevi un andamento percentuale dei contatti che sale in maniera significativa tra il 2000 e il 2002 (dal 66 al 75%), per poi discendere nel periodo successivo (dal 66% al 58% nel 2004) e riemergere con forza nel 2006 (posizionandosi di nuovo oltre il 60% dei contatti con l’Avviso 6). Un ruolo di rilievo al riguardo lo svolgono (ovviamente) anche le Forze dell’ordine (Polizia e Carabinieri, soprattutto). Il loro apporto all’invio ai servizi delle donne trafficate a scopo di sfruttamento sessuale cresce negli anni: si attesta sul 7% nel 2001-02 e arriva a raddoppiarsi nel 2004, raggiungendo circa 17% del totale. Dopo il 2004 il loro apporto sembra flettersi, toccando la soglia del 10% nel 2006. È interessante notare che l’andamento dei contatti e degli invii ai servizi territoriali delle Forze dell’ordine tende nel 2003-04 a salire, mentre nello stesso biennio – come abbiamo detto poc’anzi – quello delle Unità di strada diminuisce (anche se relativamente). Al contrario, nel biennio (2005-06), l’andamento dei contatti attivati dalle Forze dell’ordine tende a diminuire e quello delle Unità di strada ad aumentare. Tab. 6 – Modalità di contatto con le donne vittime di tratta ed Enti/persone inviati ai Servizi sociali territoriali e numero di contatti avviati Modalità di contatto Unità di Strada Numero verde Istituzioni/Enti locali Enti privato sociale Forze dell’ordine Clienti/amici delle vittime Colleghi/e delle vittime Autonomamente Altra modalità Totale
Avviso 1 Avviso 2 Avviso 3 Avviso 4 Avviso 5 Avviso 6 Totale (2000-01) (2001-02) (2002-03) (2003-4) (2004-05 (2005-06 v.a. v.a. v.a. v.a. v.a. v.a. v.a. 8.906 7.809 5.010 5.313 3.143 4.664 34.845 750 326 214 192 237 258 1.977 450
261
264
261
280
286
1.802
504 950
304 776
447 522
376 1.502
378 891
407 758
2.416 3.422
750
246
186
391
340
219
2.132
490
70
146
187
44
97
1.308
350 302 13.452
139 476 10.407
244 1.072 8.105
394 429 9.045
377 525* 6.215
117 638** 7.444
1.621 4.568 54.091
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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Modalità di contatto Unità di Strada Numero verde Istituzioni/Enti locali Enti privato sociale Forze dell’ordine Clienti/amici delle vittime Colleghi/e delle vittime Autonomamente Altra modalità Totale
Avviso 1 % 66,2 5,6
Avviso 2 % 75,0 3,1
Avviso 3 Avviso 4 Avviso 5 Avviso 6 % % % %. 61,8 58,7 50,6 62,6 2,6 2,1 3,8 3,5
Totale % 64,4 3,6
3,3
2,6
3,3
2,9
4,5
3,8
3,3
3,7 7,1
2,9 7,5
5,5 6,4
4,2 16,6
6,1 14,3
5,5 10,2
4,5 6,3
5,5
2,3
2,2
4,3
5,5
2,9
3,9
3,6
0,6
1,8
2,2
0,7
1,3
2,4
2,6 2,3 100,0
1,3 4,6 100,0
3,2 13,2 100,0
4,3 4,7 100,0
6,1 8,4 100,0
1,6 8,6 100,0
3,0 8,6 100,0
Fonte: ns. elaborazione su dati del Dipartimento dei Diritti e delle Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Negli anni successivi, però, questo sistema è stato profondamente modificato e questo, a nostro parere, è anche il motivo per cui a partire dal 2007 i dati in possesso del Dipartimento delle Pari Opportunità perdono di prestigio e accuratezza6. Restando ai dati all’esame, le altre modalità di contatto raggiungono, a seconda degli anni, una percentuale che oscilla, mediamente, tra il 20 e il 30% dei rispettivi totali. La modalità più importante – che segue a significativa distanza quelle prima citate – è quella praticata dai “clienti/ amici” delle vittime. Questa modalità si attesta nelle diverse annate tra il 5 e il 4%, mantenendo un andamento pressoché in equilibrio. Leggermente diverse appaiono le altre modalità: alcune registrano percentuali più alte nel 2000-01 e più basse nel 2003-04; altre, viceversa, registrano percentuali più basse all’inizio del Duemila e ancora più alte in seguito. Tra le prime va segnalato il Numero verde, poichè attraverso questo canale le modalità di contatto utili passano dal 5,6 al 2,1% (tra il 2002 e il 2004), per poi riprendere a risalire seppur modestamente. Tra le modalità di contatto vanno anche segnalate quelle che le donne coinvolte nella pro-
6
Infatti, la riduzione drastica delle Unità di strada ha procurato un grave danno alla lotta alla tratta, poiché rappresentavano la linea di contatto maggiore con le vittime insieme al lavoro svolto dalle volanti della Polizia e carabinieri, seppur nel distinguo delle competenze. Inoltre, si è privato di un “osservatorio di strada” per la formulazione di stime e acquisizione di informazioni preziose per monitorare l’intero fenomeno.
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IL MERCATO DEI CORPI
stituzione attivano autonomamente: queste passano dal 2,6% (percentuale registrata nel 2001) al 4,3% nel 2004 e al 6% nel 2005 con l’Avviso 5 per poi riscendere di molto l’anno successivo con l’Avviso 6. Questo andamento non è facilmente spiegabile: da una parte si potrebbe azzardare che l’aumento delle richieste autonome di fuoriuscire dal meccanismo prostituzionale dipendono direttamente dal grado di sfruttamento che subisce la donna e pertanto tanto questo è maggiore quanto più diffusa è la reazione a sganciarsi dall’assoggettamento subito; dall’altra, potrebbe dipendere da un clima sociale di maggior attenzione alla problematica e quindi essere di stimolo per le donne coinvolte ad emergere dalla condizione para-schiavistica. Ne conseguirebbe che la propensione ad usare le risorse istituzionali è strettamente correlabile alla diffusione delle opportunità offerte dall’art. 18 e la praticabilità delle procedure necessarie a conseguirle7.
4. Alcune caratteristiche di base. I luoghi di partenza e di arrivo La prostituzione romena, sia quella volontaria che quella involontaria, inizia a svilupparsi in Italia agli inizi degli anni Novanta. L’arrivo delle donne romene che entrano nel mercato della prostituzione – volenti o nolenti – tende a crescere in maniera significativa contemporaneamente alla decrescita numerica di quelle albanesi. Tale processo è dipeso da tre meccanismi interconnessi. Il primo, l’implosione della prostituzione albanese in quanto basata specificamente sulla violenza e quindi alla lunga insopportabile per le donne coinvolte. Motivo per cui molte di esse hanno iniziato a denunciare i propri sfruttatori, sovente fidanzati e mariti. Il secondo, la riconversione delle organizzazioni albanesi sul territorio romeno e dunque una estensione delle loro aree di reclutamento, in collaborazione con organizzazioni romene (a cui hanno trasmesso progressivamente le loro esperienze criminali al riguardo). Il terzo, l’apprendimento e la messa in opera da parte di gruppi malavitosi e criminali romeni delle modalità di attivazione del ciclo completo della tratta: reclutamento (soprattutto su false promesse, e molto meno sul rapimento/ sequestro di persona), il viaggio e il trasferimento, attraversamento della frontiera e l’arrivo/insediamento nelle diverse regioni italiane. Lo sviluppo di queste competenze criminali è avvenuto in parallelo a una accresciuta domanda per l’espatrio da parte di settori della popolazione femminile, so7
Da queste considerazioni è facile comprendere quanto fosse efficace l’intero sistema di intercettazione/identificazione delle vittime e il conseguente ingresso – per quante lo volevano – nei circuiti della protezione sociale.
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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prattutto giovane e finanche minorile. Essendo tali organizzazioni le uniche che potevano garantire l’ingresso in Italia (prima del Patto di pre-adesione all’UE), seppur in modo irregolare, gruppi di migranti – e tra essi donne e minori – si sono affidati ad esse, con i rischi connessi; rischi che per una parte di queste donne, una volta insediatesi nei contesti territoriali italiani, si sono trasformati in vere e proprie forme di assoggettamento prostituzionale (e in parte anche anche lavorativo). Queste pratiche – una volta violente ed aggressive – sono state adattate, nella sostanza, alle caratteristiche socio-demografiche e culturali delle donne rumene, abbastanza diverse, ad esempio, dalle donne albanesi della fine degli anni Novanta. Tra le donne rumene che accettano o sono costrette ad entrare nel mercato della prostituzione sono presenti componenti (seppur minoritarie) in possesso di una scolarizzazione media e medio-alta. Si tratta di componenti precedentemente occupati nella pubblica amministrazione – si ha notizia di casi occupati nell’esercito e nella polizia – e nei settori manifatturieri, anche se non mancano gruppi provenienti dal mondo rurale e contadino e dunque con scolarità medio-bassa o assente. Inoltre, sono presenti gruppi che nei primi anni del Duemila avevano una età mediamente più alta di quella che avevano le donne albanesi quando entravano nei circuiti prostituzionali e pertanto maggiormente in grado di negoziare condizioni migliori e più attinenti agli obiettivi che esse stesse si possono prefissare. Nella seconda parte degli anni Duemila, invece, l’età tende mediamente ad abbassarsi, sia rispetto a quella albanese che rispetto a quella nigeriana. Arrivano giovani donne orfane, sovente già vivono in strada. Inoltre, giovani donne con problemi familiari molto accentuati e spesso con familiari emigrati, magari in altri paesi europei (come la Spagna o la Germania). Donne – spesso minori – che hanno perduto i loro punti di riferimento materiali e soprattutto affettivo-familiari (Stoian, 2009). Essendo ormai chiare le aree di formazione dei flussi migratori romeni verso l’Italia, si evidenzia una quasi completa sovrapposizione tra quelle da cui scaturiscono componenti con progetto migratorio lavorativo e quelle da cui scaturiscono componenti che vengono coinvolte nella prostituzione. Il coinvolgimento di queste ultime componenti, pur tuttavia, può avvenire già nell’area di origine, durante il percorso intrapreso per arrivare a destinazione oppure una volta arrivate sul territorio italiano. Da questa prospettiva, quindi, la tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale può suddividersi in estera (quando inizia fuori dei confini del paese di arrivo, in questo caso l’Italia) ed interna (quando inizia nell’area di arrivo/insediamento). Negli ultimi anni si evidenziano forme di grave sfruttamento tutto interno alla Romania, in particolar modo nelle grandi città (Bucarest e Timisoara, in primis).
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IL MERCATO DEI CORPI
Le aree principali di esodo dalla Romania, infatti, sono quelle agricolorurali tutto intorno alle città di Timisoara e Giurgiu da una parte e di Galati, Bacau, Iashi e Botosani (lungo il confine orientale che si collega alla Repubblica Moldova), dall’altra. Area di particolare esodo è quella di Bucarest (soprattutto i dintorni della capitale), in quanto area di maggior sottosviluppo e declino socio-economico. Bucarest, anche per il significativo ruolo che svolge come capitale, è luogo di attrazione di flussi immigratori – derivanti da processi di urbanizzazione – e quindi luogo di insediamento, ma anche luogo di transito verso altre destinazioni, tra cui il territorio italiano. Le aree di arrivo/insediamento italiane, laddove in genere si pratica o si è costretti a praticare la prostituzione, sono le grandi città 8. Una maggior distribuzione geografica sul territorio italiano è iniziata all’indomani dell’ingresso della Romania nell’Unione Europea e con l’acquisizione del diritto alla libera circolazione. Infatti, fino ad allora (gennaio 2007) si verificava un accentramento delle donne romene nelle regioni del Nord-est per la facilità che avevano di tornare in Romania ogni tre mesi per il rinnovo del visto. Caduto questo vincolo le donne romene sono state costrette, dai loro sfruttatori, a scendere verso Sud e ad istallarsi anche in Calabria e in Sicilia (Gareffa, Candia, 2011).
5. I diversi tipi di pratica prostituzionale e di sfruttamento sessuale Attualmente i diversi tipi di pratica prostituzionale sembrerebbero tre: la prima, è quella che possiamo definire volontaria. È una pratica minoritaria (dal punto di vista numerico), ma ben presente; tale pratica emerge dai racconti che vengono acquisiti dagli operatori del settore (Forze di polizia e servizi sociali). La seconda, è quella che possiamo definire involontaria, poiché si manifestano resistenze attive da parte delle donne coinvolte e dunque per domare tali resistenze vengono praticate forme inusuali di violenze e minacce, anche ai parenti delle vittime. È la pratica coercitiva di stampo schiavistico (resta quella di gran lunga maggioritaria). La terza, infine, è quella che possiamo definire negoziata, in quanto tra lo sfruttatore/magnaccia e la donna coinvolta viene concordato un patto di reciproco interesse, basato su poche regole da condividere. 8 Le città italiane dove maggiormente sono soggiogate presenti donne romene sono: Roma, Milano soprattutto, e poi Torino, Venezia-Mestre, Firenze/Prato, Bologna/Modena, Roma/Latina. Seguono ancora, Napoli/Caserta, Foggia/Bari, Cosenza/Crotone e Catania/ Siracusa.
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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In questo ultimo caso siamo davanti alla fattispecie di “servitù volontaria”, poiché delle donne si affidano ad un magnaccia per farsi sfruttare. Di per sé sembrerebbe un paradosso, poiché appare inconcepibile razionalmente una servitù (intesa come uno stato di assenza della libertà personale) a carattere volontario (ovvero la manifestazione libera della propria autonomia). Di fatto è possibile, poiché l’auto-affidamento consapevole della donna al magnaccia che la sfrutterà è strumentale. E dunque si tratta di una forma di auto-affidamento che essa già prevede limitato, almeno nelle intenzioni. Questa modalità – che appare in crescita poiché è a basso contenuto di violenza fisica e dunque quasi non conflittuale – sottende, pur tuttavia, un’alta dipendenze psicologica da parte della donna e di converso una supremazia degli sfruttatori. Il nostro ordinamento sanziona, a ragione, la “servitù volontaria” al pari della servitù coercitiva. Nella prima pratica o modello prostituzionale, quella volontaria, lo sfruttamento, in teoria, è assente e riguarda una piccola minoranza; nella seconda, quella involontaria, è molto duro e continuativo e si configura come pratica di violenza tout court. Nella terza, infine, quella definita negoziata, la violenza fisica è sopita e quasi neutralizzata all’interno di un modus vivendi reciprocamente strumentale spesso a tempo determinato o della durata di una stagione (o di poche settimane). Sono “contratti di sfruttamento” a scadenza definita e ravvicinata. Questo particolare sistema si basa prevalentemente sull’accettazione di un percorso di sfruttamento/auto-sfruttamento breve, anche se – essendo consensuale – la durata può modificarsi e divenire a ciclo medio o lungo. Tali modificazioni possono avvenire in considerazione del tipo di contrattazione che viene sottoscritta tra le parti e ai loro “rapporti di forza” che possono a loro volta modificarsi in corso d’opera. È una pratica apparentemente indolore, ma sostanzialmente molto più pericolosa delle altre forme. Implica un rapporto di fiducia tra le parti e spesso il magnaccia è un marito o un fidanzato (come nel modello albanese tipico di qualche anno addietro).
6. Ancora sulla prostituzione negoziata Questa pratica, in aggiunta, assume da qualche anno una caratterizzazione particolare, poiché tende a manifestarsi già nella fase di reclutamento basato su modalità che implicano il consenso, mediante contratti con “agenzie di viaggio” che offrono due livelli di servizi: quelli regolari propri di un’agenzia di viaggi e quelli irregolari dove – oltre all’organizzazione del viaggio – vengono organizzati dei veri e propri tour prostituzionali. Non secondaria
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IL MERCATO DEI CORPI
è la forma di reclutamento/auto-reclutamento condiviso di gruppi giovani emarginati (maschi e femmine) che decidono di emigrare e praticare forme variegate di economie illegali, tra cui la prostituzione delle componenti femminili del gruppo. Sono in genere giovani che vivono già in strada e che sono espulsi, o si auto-espellono, oppure si allontanano in maniera precoce dalle rispettive famiglie. La destinazione di questi specifici gruppi migranti sovente è la prostituzione di strada o l’ingresso nei circuiti della prostituzione al chiuso, a seconda della vocazione e dell’interesse espresso dalle donne coinvolte e delle capacità organizzative e del potenziale criminale che i giovani componenti del gruppo di pari possono esprimere. I circuiti della prostituzione al chiuso – spesso appannaggio di organizzazioni di sfruttamento più collaudate – possono essere delle trappole per certi gruppi femminili, poiché possono essere presentati come un pre-ingresso nel mondo dello spettacolo: pochi mesi di prostituzione di alto livello (con lo status di escort di lusso) e poi il salto nel cinema, nella televisione, etc. Si tratta di una zona grigia dove la prostituzione, ambiguamente, viene concepita come una modalità che permette di percorrere la strada che porta dritta dritta al successo in poco tempo. “Reciterai in teatro” o “in un film importante”, oppure “potrai danzare in televisione”, etc. In questi casi gli spostamenti da una città all’altra vengono organizzati in precedenza, in quanto la donna coinvolta – o meglio le donne coinvolte – sono messe in grado di conoscere sin da prima della partenza l’itinerario che percorreranno. È in effetti una strategia di marketing, una modalità di rendere trasparente e individuabile (geograficamente) il tour, un modo cioè di tranquillizzare le donne e dare loro l’immagine che si sono affidate ad una organizzazione capillare e seria. Anche se le sorprese negative sono alquanto diffuse e possono manifestarsi già al momento della partenza, al momento dell’attraversamento degli altri paesi di transito o al momento dell’arrivo nel nostro paese oppure al momento della partenza per il paese di origine dopo il periodo caratterizzato dalla pratica prostituzionale. Come, invece, tutto può andare al meglio, come prefigurato e pertanto le donne possono rimanere tutto sommato soddisfatte. Il sistema si basa – come accennato in precedenza – prevalentemente sul ciclo breve (a carattere stagionale), ma anche a ciclo medio o lungo, a seconda del tipo di contrattazione che viene sottoscritta tra le parti e a seconda delle trasformazioni che può avere il contratto in corso d’opera, soprattutto da parte degli organizzatori/trafficanti. Il raggiro e la truffa sono all’ordine del giorno, anche se l’organizzazione/agenzia faranno di tutto per non mettere in cattiva luce l’intera operazione – in quanto si tratta di attività
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LE DONNE SFRUTTATE SESSUALMENTE. IL CASO RUMENO
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imprenditoriale – allo scopo di non interdire, di non precludere la perpetuazione del sistema e quindi i successivi lauti guadagni. Le donne che restano, oltre la scadenza del “contratto stagionale”, possono restare invischiate in meccanismi di sfruttamento diversi da quelli in qualche modo sottoscritti con l’agenzia turistica che ha permesso il primo ingresso. Queste donne, insomma, una volta caduta la copertura imprenditoriale data dall’agenzia, possono concordare il prosieguo dell’esperienza prostituzionale con altri “protettori” (allo scopo di aumentare i guadagni già acquisiti prima di tornare in patria) e negoziare un nuovo contratto che può apportare vantaggi ulteriori. Oppure, caduta la copertura dell’agenzia, queste donne possono ritrovarsi in balia di sfruttatori pericolosi e pertanto passare da forme di sfruttamento concordate e regolate da patti informali a modalità di sfruttamento configurabile come para-schiavistico. Il loro percorso di auto-sfruttamento prostituzionale si modifica in forma di sfruttamento eterodiretto, che viene imposto cioè da terze persone e da organizzazioni criminali che tenderanno a coinvolgerla a pratiche di asservimento sessuale passivo. Accettare la pratica prostituzionale di tipo stagionale o di ciclo breve può apparire, per una piccola parte delle donne che accettano tale auto-imposizione, paradossalmente, anche una forma di auto-difesa: finita l’esperienza – con la durata programmata – si torna a casa con quanto guadagnato.
Brevi considerazioni conclusive Il fenomeno della tratta investe molti paesi europei e molti altri paesi del mondo. È un fenomeno planetario e dunque il contrasto non può che essere di tale entità. Non è facile, ovviamente, ma sforzi in questa direzione debbono essere fatti e portati avanti con determinazione. Come vanno portati avanti con determinazione a livello europeo e a livelli dei singoli paesi. In Italia la crisi degli ultimi anni – e degli ultimi mesi, in particolare – ha sfiancato ancora di più la rete dei servizi territoriali in generale esistenti, con un evidente sofferenza anche di quelli mirati alla protezione sociale delle vittime dello sfruttamento sessuale. È una situazione comunque pericolosa, poiché si rischia di abbandonare persone gravemente sfruttate al loro tragico destino. Non può essere così. Si riprenda il discorso del National Referrall System (Sistema nazionale di governo del fenomeno) e lo si faccia razionalizzando le risorse del Dipartimento delle Pari Opportunità. Si rafforzino i servizi territoriali, razionalizzando le reti locali di interfaccia con le potenziali vittime e i loro sistemi di offerta e di protezione sociale e coinvolgendo direttamente le
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organizzazioni che hanno maturato alte esperienze professionale al riguardo. Si tenga presente che i target che necessitano di protezione sociale non sono soltanto le donne adulte – anche se restano il gruppo di gran lunga maggioritario – ma anche quelle in età inferiore ai 18 anni, così come le transessuali (generalmente emarginate). Si rifaccia ricerca sociale, poiché i caratteri del fenomeno come attualmente si presenta, a quanto affermano le indagini citate, tendono a modificarsi, come tendono a modificarsi le strategie di sfruttamento delle organizzazioni criminali. Il rischio è quello di perdere le conoscenze acquisite, se non avviene l’innesto di quelle nuove e più puntuali, poiché hanno compreso i mutamenti profondi del fenomeno. Togliere le vittime dai circuiti prostituzionali – potenziando dunque i servizi territoriali – vuol dire anche togliere alle bande criminali i potenziali proventi economici che queste acquisiscono mediante il loro stesso sfruttamento.
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NIGERIA – ITALIA: LE VIE DELLA TRATTA
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Anna Pozzi
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, comincia a manifestarsi nel nostro Paese un fenomeno nuovo e per molti versi difficile da decifrare. Soprattutto nella zona di Napoli e del Casertano, cominciano ad apparire, lungo le strade o nei pressi della base navale americana, le prime prostitute africane. Sono in gran parte nigeriane (Baldascino, Casale, 2005; Bernadotti, Carchedi, Ferone, 2005). “A metà degli anni Ottanta, tuttavia, il fenomeno è ancora contenuto. A quei tempi, si trasferiscono da Roma a Caserta gruppi di studenti ghanesi e nigeriani, tra i quali vi sono le prime prostitute nigeriane, che cominciano a lavorare in strada, mentre sino a quel momento la loro presenza era più invisibile, perché confinata negli appartamenti. Altre donne nigeriane arrivano, sempre in quegli anni, come braccianti per la raccolta stagionale di pomodori; ma a causa delle difficoltà di regolarizzazione della loro posizione, diventano stanziali e allo stesso tempo irregolari. Anch’esse contribuiscono ad alimentare il vasto bacino di manodopera sfruttata nel lavoro nero e a far sviluppare il traffico di migranti irregolari e progressivamente la tratta di donne, costrette a prostituirsi secondo il meccanismo del debt bondage, ovvero della restituzione del debito. Infine, la vicinanza della base militare statunitense di Napoli può aver influenzato la domanda di prostituzione anglofona”. (Bonetti, Pozzi, 2010, p. 19)
Oggi, il loro numero è aumentato esponenzialmente e il loro sfruttamento si lega alle dinamiche della camorra locale, che agisce a supporto o in combutta con la mafia nigeriana. Insieme gestiscono anche il traffico e lo sfruttamento di migranti africani per il lavoro nero e il traffico di stupefacenti.
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“La vita dei migranti di Castel Volturno si inserisce in un contesto molto complesso. Le grandi speculazioni edilizie e la forte presenza di reti delle criminalità organizzata fanno da sfondo a una popolazione che vive senza servizi e tutele. Alcuni immigrati (specialmente nigeriani, ndr) sono diventati collaboratori o vittime di reti criminali che li usano come corrieri e spacciatori di sostanze stupefacenti. Nel tempo però i migranti si sono affrancati alle organizzazioni criminali locali, al punto che attualmente alcune organizzazioni straniere godono di ampi margini di autonomia nel traffico degli stupefacenti e soprattutto nella tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale. Castel Volturno è infatti uno dei principali luoghi di residenza delle madam, cittadine nigeriane che controllano il business dello sfruttamento sessuale, anche quando le vittime di tale mercato operano in altre zone d’Italia”. (OIM, 2010, pp. 2-3)
Attualmente, solo nell’area di Castel Volturno, in provincia di Caserta, ci sarebbero almeno cinquecento ragazze nigeriane costrette a prostituirsi. In base ad alcune verifiche fatte da Bankitalia nel 2009 sulle rimesse inviate in Nigeria attraverso il circuito dei money transfer, in soli tre mesi sono stati inviati in Nigeria 13.3 milioni di euro. Il 20 per cento proveniva dalla Campania e in particolare dai comuni di in cui, secondo il rapporto, “si concentra il traffico di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione di matrice nigeriana”. Ovvero, l’area tra Caserta e Napoli e in particolare Castel Volturno, che da solo rappresenta circa la metà del totale. Nel frattempo, però, il fenomeno si è diffuso in tutta Italia. Giovani nigeriane sono apparse anche in altre regioni, specialmente a Torino e a Milano e poi, via via, nelle principali città nel nostro Paese. Ci si rende conto, un po’ alla volta, che non si tratta semplicemente di “prostitute”. Anzi, il loro essere lì, sulle strade del nostro Paese, è frutto di un processo lungo, spesso drammatico, quasi sempre non volontario, che le ha sradicate dal loro Paese per ridurle a corpi-merce da vendere e comprare sul mercato del sesso italiano. Oggi le nigeriane in Italia sono tra le 15 e le 30 mila. Quasi tutte vittime di tratta e costrette a prostituirsi per ripagare un “debito” enorme. “Le chiamano prostitute, ma sarebbe meglio dire prostituite, costrette a vendere il proprio corpo per pagare un debito assurdo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono vittime di un traffico vergognoso che dalla Nigeria all’Italia si snoda lungo le rotte di una delle peggiori schiavitù contemporanee” (Pozzi, 2008, p. 3). Insieme a migliaia di altre ragazze dell’Europa dell’Est, dell’America Latina, della Cina e di altre parti del mondo sono le nuove schiave del XXI secolo.
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1. Il contesto: la Nigeria La Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa, con circa 150 milioni di abitanti, destinati a diventare oltre 290 milioni nel giro di vent’anni; un dato demografico molto importante che colloca questo Paese ai primi posti tra quelli più densamente popolati al mondo. Ma la Nigeria è anche uno dei Paesi potenzialmente più ricchi dell’Africa. È infatti il primo produttore di petrolio del continente, il settimo-ottavo a livello mondiale. Ciononostante, più del 70 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e l’aspettativa di vita supera di poco i 47 anni. Le forti disuguaglianze interne sono all’origine di continui scioperi, tensioni e scontri, specialmente nella regione del Delta del Niger, la più ricca di petrolio e una delle più povere del Paese. L’estrazione dell’oro nero, in particolare, continua a essere condotta in un clima di ingiustizia, privazioni e violenze. Sotto accusa, il legame tra istituzioni locali e multinazionali, nonché le politiche del governo – sia livello federale che locale – che non garantiscono i diritti basilari alla popolazione, ma tutelano prioritariamente gli interessi propri e delle industrie petrolifere. Ma anche gli Stati del Nord della Nigeria sono tutt’altro che pacifici: da una decina d’anni si susseguono scontri e violenze con matrice politica ed etnico-religiosa. Negli ultimi tempi, è particolarmente attiva la setta islamista Boko Haram, che ha moltiplicato gli attentati, provocando centinaia di morti e decine di migliaia di sfollati. A ciò vanno aggiunti tutti i limiti di una democrazia fragile, che si sta costruendo faticosamente negli ultimi anni, dopo un susseguirsi di colpi di Stato militari, e dopo l’orribile guerra del Biafra che dal 1967 al 1970 ha provocato circa due milioni di morti. Oggi, il Paese continua ad avere problemi enormi e complessi. Quello dell’iniqua distribuzione della ricchezza è uno dei più drammatici ed evidenti, accompagnato spesso a quello della corruzione. Le statistiche internazionali pongono regolarmente la Nigeria in testa alle classifiche dei Paesi più corrotti al mondo: un sistema che pervade le istituzioni e la società a tutti i livelli e che crea tra la gente un enorme malcontento, a rischio di esplodere in ogni momento. All’interno di queste situazioni di povertà, disagio e ingiustizia si sviluppano anche le condizioni per i fenomeni di tratta di esseri umani, specialmente di donne e minorenni. È da questi contesti, infatti, che provengono – o meglio fuggono – molte ragazze nigeriane che poi si ritrovano sulle strade italiane, ridotte a schiave nel mercato del sesso a pagamento. Spesso sono molto giovani e poco
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istruite, si lasciano facilmente ingannare da trafficanti senza scrupoli che promettono soldi e benessere per loro e le loro famiglie e una vita migliore in Europa. Hanno un sogno e sono disposte a partire a ogni costo, accettano viaggi lunghissimi e spesso drammatici e finiscono col subire, una volta giunte a destinazione, condizioni di sfruttamento inumane.
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2. Paradisi illusori Ma se da un lato c’è il desiderio impellente di fuggire dalla miseria e dal degrado, dall’altro c’è anche la fortissima attrazione verso paradisi illusori. Questo fatto gioca un ruolo importante nell’immaginario delle ragazze che finiscono vittime dei trafficanti. Principali “complici” sono i media che veicolano immagini allettanti, ma spesso fuorvianti e stereotipate, di un Occidente opulento, dove ogni cosa è accessibile, il denaro è facile e tutto si può comprare. Anche i racconti di molti migranti, che riportano in patria storie (spesso non vere) di successo, fanno sognare molte ragazze che anelano a una vita migliore. Accanto a tutto questo, però, c’è anche una crescente domanda nel mondo occidentale di manodopera a basso costo da inserire in settori informali spesso sommersi e non regolamentati, in cui specialmente le donne finiscono col subire pratiche di sfruttamento che le riducono in condizioni di schiavitù. Molte donne, inoltre – e questo vale specialmente per le nigeriane – partono senza un vero e proprio progetto migratorio e finiscono facilmente nelle maglie di una criminalità che invece è molto ben articolata e organizzata. In Italia, come in diversi altri Paesi di destinazione, esistono vaste zone d’ombra, dove si sviluppano sacche di sommerso e di clandestinità, entro le quali si creano le condizioni per lo sfruttamento lavorativo e sessuale di migranti e donne trafficate. “Anche se la tratta di esseri umani è stata definita dalle Nazioni Unite un “crimine contro l’umanità”, l’ignobile commercio di uomini, donne e bambini ha proliferato sino a diventare un vero e proprio business mondiale, che produce un fatturato annuale di circa 32 miliardi di dollari. Gran parte di questa cifra è costituita dai proventi della prostituzione. Non che quest’ultimo sia un fenomeno nuovo; ciò che è nuovo è che abbia assunto dimensioni globali. Nessun Paese quindi può considerarsi estraneo a tale meccanismo, che nasconde ingenti interessi e che per sua natura approfitta sempre delle situazioni di massima vulnerabilità”. (Bonetti, Pozzi, 2012, p. 51)
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Tutto ciò, tuttavia, non sarebbe “sostenibile” se non esistesse anche una domanda di sesso a pagamento che sta crescendo in maniera esponenziale. Oggi in Italia si parla a ragion veduta di nove-dieci milioni di clienti al mese, ovvero l’altra faccia del problema, che dovrebbe interpellare dal di dentro e profondamente anche la nostra società. I clienti sono “maschi normali”. Le persone di alto rango sociale e i marginali estremi sono solo raramente clienti delle prostitute; normalmente, questi sono persone della classe media, con una posizione sociale stabile e una famiglia alle spalle. La “normalità” dei clienti non consente di risolvere semplicisticamente il tema della prostituzione come un problema di “patologia”, “disagio” o “marginalità”, ma lo inserisce nel più ampio contesto delle relazioni tra i sessi e della molteplicità di rappresentazioni e di significati che nel mondo moderno occidentale, assumono la sessualità, il rapporto con il proprio corpo, la riproduzione, l’erotismo, la concezione e la costruzione della propria identità sessuale. (Leonini, 1999, p. 40, Pozzi, 2008, p. 21).
3. Perché Benin City Molte delle ragazze nigeriane trafficate in Italia provengono da Benin City, capitale dell’Edo State, o dalle zone limitrofe. È questa la città dove tutto è cominciato e dove il traffico continua nella totale impunità. È questo anche un luogo-simbolo di un’Africa che cresce sempre più rapidamente e in maniera caotica e incontrollata. “Un’Africa dove restano forti alcuni riferimenti tradizionali – la famiglia, il villaggio, valori e norme di comportamento, ma anche superstizioni e stregoneria – ma dove sempre più si impongono stili di vita e modelli culturali di tipo occidentale, spesso legati a logiche consumistiche e materialistiche. Il connubio talvolta è un ibrido inquietante. Come a Benin City, centro dei traffici di ragazze verso l’Europa e specialmente l’Italia”. (Leonini, 1999, p. 40)
Difficile dire il perché. Anche andando sul posto, non è facile trovare spiegazioni esaustive circa l’origine di un fenomeno che è partito e si è consolidato proprio in questa parte della Nigeria. Difficile dire anche il grado di consapevolezza delle ragazze circa la loro destinazione e il tipo di “lavoro” a cui saranno costrette. Benin City, capitale di un antico e potentissimo regno, vive ancora oggi in bilico tra l’orgoglio per un passato grandioso e un presente fatto di povertà, decadenza e mancanza di speranza. La sua popolazione – e specialmente i giovani che sono moltissimi ma che non hanno alcuna prospettiva di futuro – vogliono
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costruirsi ad ogni costo una vita migliore. Anche le ragazze. Probabilmente quelle che vivono in città hanno un minimo di consapevolezza del tipo di “lavoro” che andranno a fare. Molte, però, pensano che quello che è successo alle altre non potrà mai accadere a loro: e così finiscono in una trappola da cui faticano poi a liberarsi. Ma che, probabilmente, appare come un’opzione migliore della lotta quotidiana che devono affrontare ogni giorno per sopravvivere. Tuttavia, non è solo guardando al “basso” che vanno ricercate le cause e le responsabilità della loro fuga. Esse vanno piuttosto individuate ad un livello più alto: quello delle istituzioni e dei governi – locali, federali, internazionali – corrotti e inetti; o quello delle politiche internazionali ingiuste e discriminatorie, che non fanno altro che ampliare la frattura tra ricchi e poveri e alimentano le sperequazioni e l’ingiustizia distributiva che condanna tanta gente a vivere una vita indegna. Perché anche a Benin City, accanto alla miseria, al disordine e alla decadenza, ci sono ville milionarie e campi da golf impeccabili, gli ultimi modelli di suv americani e altri simboli esibiti di potere e ricchezza. Essa stessa, questa città, è un po’ l’archetipo di un mondo che viaggia a velocità diverse, che corre sulle autostrade di uno sviluppo accessibile a pochi e lascia indietro grosse fette della popolazione mondiale, abbandonate alle periferie di una globalizzazione che non è poi così globale. E le ragazze di Benin City – trafficate, sfruttate, abusate – sono un po’ il simbolo di questo scandalo e di questa ingiustizia e sono la testimonianza vivente che ancora oggi, nel XXI secolo, esistono forme gravi di sfruttamento e schiavitù.
4. Mafia nigeriana Col passare degli anni le mafie nigeriane hanno consolidato le loro strutture, affinando gli aspetti manageriali e organizzativi, pur continuando a fondarsi su forti legami tradizionali, familiari, etnici e religiosi. Oggi queste mafie si caratterizzano per una grande capacità di adattamento al territorio e alle situazioni contingenti e di elaborazione di risposte efficaci e flessibili. L’organizzazione si serve di un’ampia rete di referenti, sia nei Paesi di origine che in quelli transito e destinazione, che gestiscono tutte le fasi della tratta: dal reclutamento al viaggio sino allo sfruttamento delle ragazze. Il tutto spesso si accompagna al traffico di droga e documenti falsi. In questi ultimi anni, sono comparse anche nuove figure maschili.
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“Si registra, infatti, l’introduzione di purè boys o black boys, ovvero figure maschili (si tratta generalmente di fidanzati e mariti della maman ai vertici dell’organizzazione) a cui viene affidato il mandato di sorvegliare le donne sfruttate, sorveglianza che si estrinseca anche attraverso l’uso di forme di violenza un tempo raramente utilizzate, nonché di investire parte dei profitti in altre attività legali (phone centre, agenzie di money transfer, negozi di vendita al dettaglio) ed illegali (traffico di sostanze stupefacenti), spesso in collaborazione con organizzazioni criminali italiane”. (Carchedi, Orfano, 2007, p. 35)
In Italia, i gruppi criminali nigeriani hanno consolidato nel tempo due punti di riferimento, che rappresentano altrettanti luoghi di approdo, smistamento e “avviamento al lavoro” delle ragazze trafficate: si tratta della zona del Casertano – e in particolare di Castel Volturno – e della città di Torino, con importanti ramificazioni nel Nord-Est (specialmente Milano), in Liguria, Emilia-Romagna e Lazio (soprattutto Roma). Nell’area napoletana e casertana, in particolare, i criminali nigeriani operano in accordo con la camorra locale sia per quanto riguarda il traffico di droga che per la gestione della prostituzione, pagando, ad esempio, l’“affitto” del marciapiede o del territorio su cui vengono dislocate le ragazze. Quasi sempre le nigeriane vengono fatte viaggiare sole o in piccoli gruppi per non destare troppi sospetti, ad eccezione di quando arrivano alle sponde del Mediterraneo, attraverso il deserto del Sahara o lungo le rotte dell’Africa Occidentale, insieme ad altri gruppi di migranti. Lo stesso vale per il traffico di droga, che avviene principalmente attraverso molte persone che trasportano piccole quantità (sempre più spesso ovuli) su rotte diverse. La mafia nigeriana si contraddistingue inoltre per una grande abilità nel riciclaggio di denaro sporco, reinvestito non solo nel traffico di stupefacenti, ma anche nel settore immobiliare, commerciale e terziario.
5. Ju ju e debt bondage Una delle forme più potenti usate dalla mafia nigeriana per asservire le vittime di tratta è il ju ju, versione nigeriana dei riti voodoo. Si tratta di una forma di assoggettamento potentissima, attuata attraverso pratiche magicoreligiose, diffuse in molte parti dell’Africa Occidentale: un insieme di magia e stregoneria, riti di guarigione e superstizioni, che permea e condiziona pesantemente la vita di queste ragazze. Tutte le nigeriane trafficate in Italia passano attraverso il ju ju prima di partire. In genere vengono portate in luoghi “sacri”, i sanctuary (o case del ju ju), dove viene chiesto loro di consegnare alcuni indumenti intimi e
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parti del loro corpo (unghie, capelli, peli pubici e delle ascelle) che vengono mischiati con fluidi corporei (normalmente alcune gocce di sangue mestruale). Il babalau – lo stregone – esegue un rito e fa bere loro delle pozioni magiche, che incutono paura. Il ju ju ha un grande potere sulle vittime e rappresenta un forte vincolo, una catena psicologica, di cui i trafficanti si servono per controllare le ragazze, minacciandole di ripercussioni su di sé e le loro famiglie. Ma il ju ju rappresenta anche una barriera difficilissima da superare per tutti coloro – gruppi, associazioni, Caritas, congregazioni religiose… – che cercano di toglierle dalla strada e di offrire loro nuove opportunità di vita. Fondato sull’inganno e sulle “catene” dell’occulto, il sistema di sfruttamento nigeriano si regge poi, molto più pragmaticamente, sul cosiddetto debt bondage, ovvero sulla restituzione di un “debito” che le donne devono rimborsare all’organizzazione attraverso le madam. Negli ultimi anni, la maggiore complessità e ramificazione dell’organizzazione nigeriana ha fatto sì che la cifra media del debito che le vittime devono restituire si sia alzata notevolmente. Se un tempo, infatti, si aggirava attorno ai 30/40 mila euro, oggi può facilmente essere anche il doppio. Si va infatti dai 50 ai 70/80 mila euro. La gestione delle ragazze sfruttate e, conseguentemente, il recupero del debito è affidata alle maman o madam, molte delle quali erano state a loro volta sfruttate e dopo svariati anni di marciapiede non hanno trovato altra alternativa che di trasformarsi a loro volta in sfruttatrici. Le madam avviano le nuove ragazze che hanno “acquistato” al lavoro di strada, le ospitano, assegnano loro il pezzo di marciapiede che sarà la loro postazione e raccolgono i proventi del loro guadagno. Con la complicità dei loro uomini o di altri membri dell’organizzazione criminale, le controllano e le puniscono in caso di ribellione. A volte praticano loro stesse, qui in Italia, cerimonie voodoo, esercitando sulle vittime una vera e propria violenza psicologica. Le ragazze sfruttate, oltre a rimborsare il debito, devono anche pagare l’affitto, il cibo, i vestiti, il joint (il luogo in cui sono costrette a prostituirsi), e qualsiasi altra spesa sostenuta dalla madam per loro. Oltre a mandare saltuariamente dei soldi alla famiglia rimasta in Nigeria. Per una ragazza nigeriana questo significa lunghi anni passati su una strada e migliaia di prestazioni. Anche all’interno del mercato del sesso a pagamento esistono forme di discriminazione sulla base del colore della pelle; e allora le nigeriane sono costrette a prostituirsi lungo le strade più periferiche, buie, isolate e pericolose. E per una normale prestazione consumata in macchina le africane non chiedono più di 10/15 euro. Il che significa che, per saldare il debito, una ragazza africana è costretta a sottoporsi a non meno di quattromila prestazioni sessuali. Con tutto quello che ne consegue.
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6. Politiche di contrasto
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Purtroppo, in Italia, nonostante esista una buona legge, le politiche di contrasto finiscono spesso per accanirsi contro le donne, trattandole non da vittime ma da mere clandestine, in quanto prive di documenti in regola. Eppure, anche recenti disposizioni dell’Unione Europea invitano in modo pressante ad affrontare il fenomeno partendo dal rispetto dei diritti umani. “Un approccio fondato sui diritti umani si rivela in opposizione alla strumentalizzazione delle persone trafficate. Il diritto alla protezione, all’assistenza e al risarcimento delle persone trafficate, in quanto vittime di una grave violazione dei diritti umani, è considerato di per sé un diritto sancito dalla normativa internazionale e non deve essere condizionato dalla volontà o capacità della persona trafficata di cooperare nei procedimenti giudiziari e/o fornire prova e testimonianza. Questo riconoscimento implica l’identificazione di standard minimi di protezione e assistenza ai quali tutte le persone trafficate hanno titolo”. (Costella, Orfano, Rosi, 2005, p. 113)
Gli stessi esperti dell’Unione Europea raccomandano inoltre la: “necessità di assicurare che le misure di prevenzione non inibiscano le possibilità di migrazione, la libertà di viaggiare e la mobilità di carattere legale e che non diminuiscano la protezione fornita, in base alla normativa internazionale, a richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Lo Stato di diritto e i diritti umani riconosciuti internazionalmente devono essere rispettati in tutti gli aspetti della prevenzione della tratta di esseri umani”. (Costella, Orfano, Rosi, 2005, p. 61)
Per quanto riguarda la Nigeria, non si può dire che le azioni di prevenzione e contrasto siano efficaci e rispettose dei diritti della persona. Tutt’altro. Ma anche qui qualcosa si sta facendo. Nel dicembre del 2004, grazie alla collaborazione del governo italiano e di quello statunitense, è stato aperto a Lagos un centro di accoglienza per ragazze e minori vittime di tratta. È gestito dalla National Agency for the Prohibition of Traffic in Persons and Other Related Matters (Naptip), l’agenzia del governo nigeriano che opera contro il traffico di persone interno ed esterno al Paese, con sei dipartimenti a Lagos, Benin City, Enugu, Sokoto e Abuja. Le intenzioni sono buone. La pratica un po’ meno. Lo scopo dell’agenzia è quello, appunto, di prevenire e contrastare il traffico di donne e minori – in Nigeria ci sono molti bambini trafficati, ad esempio, dal vicino Benin – all’in-
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terno del Paese e verso l’Europa. Inoltre, è preposta ad accogliere, reintegrare e riabilitare le vittime rimpatriate in appositi centri, che dovrebbero garantire anche l’assistenza legale e realizzare un lavoro di sensibilizzazione della popolazione sul problema. Infine, la Naptip dovrebbe collaborare con le forze dell’ordine per perseguire i trafficanti. Ma il condizionale è d’obbligo. Già il centro di accoglienza di Lagos mostra tutti i limiti di questa agenzia e del suo operato. Sia perché assomiglia di più a un carcere – o a un nostro Centro di identificazione ed espulsione (Cie) – sia perché gli stessi responsabili ammettono le difficoltà che incontrano nel tentativo di contrastare un fenomeno estremamente complesso. Le ragioni sono molteplici: inadeguatezza delle risorse umane ed economiche, mancanza di collaborazione e coordinamento tra i soggetti che sono interessati – governi, forze dell’ordine, uffici immigrazione – e un altissimo livello di corruzione presente in questo ambito. Il centro di Lagos può ospitare sino a 120 persone, che non possono uscire né ricevere visite, perché in passato si sono presentati trafficanti o madam, spacciandosi per parenti e portandosele via. Le stesse ragazze considerano quella “detenzione” come una forma di tutela. Hanno il terrore di essere avvelenate: sanno che i loro “protettori” temono di essere denunciati e che sono capaci di tutto. Oppure hanno paura di essere di nuovo catturate e reinserite nei circuiti della prostituzione. Ma le ragazze non si fidano neppure del governo nigeriano né di qualsiasi altra istituzione ad esso collegata. E, dunque, anche la vita e la gestione di questo centro sono alquanto complesse e problematiche. Nel maggio del 2011, la Naptip ha pubblicato un rapporto che denuncia la presenza di migliaia di giovani donne nigeriane che vivono in condizioni di schiavitù in diversi Paesi dell’Africa Occidentale. Secondo la commissione d’inchiesta esisterebbero dei veri e propri campi di schiavi popolati da ragazze nigeriane in Mali, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Niger. E ne esisterebbero di analoghi in Libia, Marocco e Capo Verde. La Naptip ha scoperto molte case di tolleranza a Bamako, Mopti e Kayes, in Mali, in particolare presso i campi di estrazione mineraria, dove le ragazze nigeriane vittime della tratta vengono costrette a prostituirsi dalle loro madam, che controllano i loro movimenti, i luoghi in cui lavorano, quando lavorano e quanto guadagnano. L’agenzia si è rivolta alla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) affinché promuova meccanismi interni e strategie di contrasto alla tratta delle donne, sulla base dell’accordo firmato da tutti gli Stati membri della regione nel 2006, ma evidentemente non adeguatamente applicato (Bonetti, Pozzi, 2012, p. 51).
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7. Tentativi di accoglienza Nel 2007, a Benin City, è stato aperto un centro di accoglienza gestito dal Committee for the Support of the Dignity of Women (Comitato di supporto alla dignità della donna, Cosudow). Creato dalle congregazioni religiose femminili della Nigeria, il Cosudow svolge, innanzitutto, un importante lavoro di sensibilizzazione affinché le ragazze siano maggiormente consapevoli dei rischi cui vanno incontro quando si lasciano coinvolgere in progetti migratori poco chiari, finalizzati al loro sfruttamento sessuale all’estero. Il Comitato ha inoltre realizzato un opuscolo da distribuire nelle scuole medie superiori della Nigeria per arrivare a un pubblico molto vasto di giovani e informarli adeguatamente sul traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale e sulle sue conseguenze. E, inoltre, gestisce la casa di accoglienza di Benin City, l’unica nel suo genere in Nigeria, dove le ragazze – rimpatriate volontariamente o espulse dall’Europa e specialmente dall’Italia – possono tornare e vengono accolte temporaneamente. E mentre loro ritrovano un equilibrio psicologico, imparano un mestiere e avviano una piccola attività commerciale che possa renderle autonome, le religiose e i loro collaboratori preparano adeguatamente il ritorno in famiglia. La struttura prevede l’ospitalità per un numero massimo di 18 ragazze, per cercare di garantire il più possibile un clima di famiglia e per poter seguire meglio ciascuna ragazza. Molte di loro, infatti, hanno bisogno di attenzioni specifiche e di tanto lavoro, sia su di loro che sulle famiglie. Questa iniziativa è stata realizzata grazie alla collaborazione creata tra Italia e Nigeria dall’Ufficio “Tratta donne e minori” dell’Unione superiore maggiore d’Italia (Usmi), diretto da suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata. Un lavoro di rete che ha permesso, negli ultimi dieci anni, di togliere migliaia di ragazze nigeriane dalle strade italiane, di ottenere oltre quattromila passaporti nigeriani, di reinserirle nel tessuto sociale italiano o di accompagnarle, in alcuni casi, nella loro terra d’origine. “Le Congregazioni religiose femminili, insieme alle Caritas e a diverse associazioni di volontariato, sono state le prime in Italia a leggere e intercettare il fenomeno del traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale. Pur incontrando grosse difficoltà, dovute innanzitutto alla complessità del fenomeno e alla poca conoscenza che se ne aveva, diverse congregazioni religiose hanno iniziato ad accogliere nelle proprie case donne che tentavano di lasciare la strada, offrendo in primo luogo aiuto e protezione e cercando poi di avviare un cammino di integrazione sociale. Anche l’Usmi, nel settembre del 1994, ha sollecitato la formazione di un comitato per approfondire il problema. In quell’occasione abbiamo fatto appello a
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IL MERCATO DEI CORPI
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tutte le comunità religiose: la cosa più urgente da fare era preparare personale competente per far fronte al dramma di queste donne. Varie congregazioni hanno risposto immediatamente, aprendo subito una trentina di case-famiglia per l’ospitalità temporanea delle donne, case che si sono moltiplicate negli anni successivi, sull’intero territorio italiano, in particolare durante l’anno santo del 2000”. (Bonetti, Pozzi, 2010, p. 92)
Attualmente l’Ufficio “Tratta donne e minore”, creato nel 2000 nell’ambito dell’Usmi, coordina il prezioso e difficile servizio di circa 250 religiose, appartenenti a 80 diverse Congregazioni, che lavorano in più di cento progetti in Italia, spesso in collaborazione con le Caritas, con altri enti pubblici o privati, con volontari e associazioni. Migliaia di vittime, provenienti da vari Paesi, sono state accolte e vivono tuttora in queste case – famiglia, dove sono accompagnate nella ricostruzione delle loro vite spezzate. Questo servizio si realizza in diversi ambiti: le “unità di strada” insieme a gruppi parrocchiali come primo contatto con le vittime; i centri di ascolto, predisposti per accogliere i problemi delle donne in cerca di aiuto; le comunità di accoglienza o case-famiglia per progetti di reintegrazione sociale; l’aiuto spirituale per una riscoperta della propria fede e cultura per recuperare l’autostima e a guarire le profonde ferite causate dall’esperienza vissuta; la preparazione professionale con corsi di lingua e formazione lavorativa; l’assistenza legale, per permettere di reperire tutta la documentazione necessaria per uscire dalla clandestinità e avere un regolare permesso di soggiorno; la collaborazione con le ambasciate per ottenere documenti di identificazione; la partecipazione a incontri nazionali e internazionali per essere voce di chi non ha diritto di parola e per creare reti sovranazionali. Nonostante le difficoltà, si tratta di segnali positivi e incoraggianti che dicono che qualcosa si può e si deve fare per spezzare le catene di questa nuova schiavitù.
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GLI AUTORI Ferdinando Buffoni comincia nel 1974 la carriera prefettizia e, dopo una breve esperienza presso la Prefettura di Savona, svolge la propria attività, sino al 1980, presso quella di Sassari. È Capo di Gabinetto per dieci anni e Vice Prefetto Vicario per cinque, presso la Prefettura di Genova. Dal 1995 al 1998, è Vice Commissario del Governo per la Regione Liguria e dal 1998 al 2000 è Vice Prefetto Vicario ad Alessandria. Il 6 aprile 2006 è nominato Prefetto ed assegnato alla Prefettura di Macerata. Dal 6 agosto 2007 al giugno 2011, è Prefetto di Pavia. Giovanna Campani, è docente di “Pedagogia Interculturale” presso l’Università degli Studi di Firenze. Il suo interesse per il tema delle migrazioni si combina con le problematiche educative nella ricerca e nell’insegnamento della pedagogia interculturale. Ha condotto ricerche nell’ambito di diverse organizzazioni internazionali e pubblicato numerosi volumi ed articoli in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Genere e globalizzazione, 2010, ETS, Pisa; Dalle minoranze agli immigrati, Unicopli, Milano, 2008; Perché siamo mussulmane, Guerini, Milano, 2003; I saperi dell’interculturalità, Liguori, Napoli, 2002; Genere, etnia e classe, ETS, Pisa, 2000. Francesco Carchedi è responsabile del settore ricerca di Parsec Consortium di Roma e Docente presso la Facoltà di Sociologia-Stess dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Studioso dei processi migratori, delle politiche sociali rivolte agli immigrati, del traffico di esseri umani a scopo di grave sfruttamento sessuale e lavorativo. Ha pubblicato su temi della tratta di donne e minori stranieri e su temi inerenti al lavoro servile e alle nuove schiavitù. Tra le sue pubblicazioni: Piccoli schiavi senza frontiere. Il traffico dei minori stranieri in Italia, Ediesse, Roma, 2004; I colori della notte. Migrazioni, sfruttamento sessuale, esperienze di intervento sociale, Franco Angeli, Milano, 2000. Palma Felina, assistente sociale, dal 1995 lavora per conto di Caritas Ambrosiana nell’ambito del maltrattamento intrafamiliare e delle donne vittima della tratta, accompagnando l’apertura di due case di accoglienza e organizzando momenti informativi e formativi sul tema del maltrattamento e della tratta. Dal 1999 è responsabile, per conto della Cooperativa Farsi Prossimo di Milano, dei servizi legati al settore tratta-prostituzione, in particolare Unità di Strada, servizi di segretariato sociale e comunità di accoglienza. Svolge attività formativa per volontari e opera-
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GLI AUTORI
tori sociali sulle tematiche dei servizi e delle metodologie di accoglienza per donne vittime della tratta.
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Luisa Leonini, insegna “Sociologia dei consumi” all’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi Sociali e Politici. È Direttrice del Centro Donne e disuguaglianze di genere. I suoi temi di ricerca recente riguardano: la sociologia dei consumi, le tematiche relative al mercato sessuale globale, giovani e seconde generazioni. Tra le sue pubblicazioni: Sesso in acquisto, Unicopli, Milano, 1999; Andar di notte. L’altro volto di Milano, Unicopli, Milano, 1998; L’identità smarrita. Il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 1988. Anna Pozzi, giornalista, dal 2007 segue un progetto dedicato alla tratta di donne nigeriane per lo sfruttamento sessuale che si svolge tra l’Africa, le strade della prostituzione italiana e le comunità di accoglienza. Tale progetto si è concretizzato in diverse pubblicazioni e in una mostra fotografica itinerante. Tra i suoi lavori: Spezzare le catene, Rizzoli, Milano, 2012; Schiave, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2010; Mai più schiave, Emi, Bologna, 2008. Marco A. Quiroz Vitale, avvocato cassazionista, insegna “Deontologia delle nuove professioni” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano. È autore di numerose pubblicazioni e contributi sul tema della prostituzione non volontaria e delle nuove schiavitù ed è consulente della Caritas Ambrosiana sul tema della tratta di esseri umani. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Alla ricerca di uno status: prostitute, devianti e vittime straniere tra socializzazione e istituzioni italiane, Franco Angeli, Milano, 2002; Tratta di donne e minori e politiche pubbliche dell’accoglienza degli stranieri in Italia, Giappichelli, Torino, 2002.
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Studi sull’identità
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M. Graziosi, La donna e la Storia. Identità di genere e identità collettiva nell’Italia liberale e fascista Maternità, identità, scelte. Percorsi dell’emancipazione femminile nel Mezzogiorno, a c. di A. Oppo, S. Piccone Stella, A. Signorelli Proprietarie. Avere, non avere, ereditare, industriarsi, a c. di A. Arru, L. Di Michele, M. Stella Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, a c. di G. Fanara e F. Giovannelli Il mercato dei corpi. Politiche di contrasto e vie di fuga, a c. di A. R. Calabrò
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