Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica 8831768964


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Italian Pages 492 Year 1998

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Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica
 8831768964

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La vicenda umana e intellettuale di Elio

Vittorini inquadrata nella storia civile

e culturale dell’Italia dagli anni ’20 agli anni "60 e ricostruita sulla base di una

documentazione ricchissima e in larga parte inedita (dagli scritti dispersi ai carteggi con intellettuali di mezza Europa), le amicizie, i rapporti culturali, l'itinerario politico, l'impegno di militante, l’attività letteraria, il lavoro editoriale convergono a disegnare il ritratto da vicino

di un eccezionale protagonista del secolo. Dal giovanile fascismo eretico alla scoperta degli americani, dall’universale «Corona» all’antifascismo, dall’invenzione del «Politecnico» all'incidente con Sartre

e alla polemica con Togliatti, dal processo a Danilo Dolci al rifiuto del sovietico Premio internazionale della Pace, dai «Gettoni» alla stroncatura di Elsa De Giorgi, dal «caso» Gattopardo al «menabò», dal «Nuovo Politecnico» a «Gulliver», Vittorini è sempre al centro di grandi avventure, di accesi dibattiti, di scontri decisivi. E poi, analizzate una per una, le opere

del saggista e soprattutto del narratore fino agli appunti per un romanzo progettato in ospedale ci accompagnano nella scoperta di una vocazione mai prevedibile e straordinariamente innovativa.

Raffaele Crovi

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Marsilio

- ISBN 88-317-6896-4 — © 1998 BY MARSILIO EDITORI? S.P.A. in VENEZIA

INDICE

Introduzione 1908-1918. L'infanzia

Giochi di ragazzi 1919-1925. L’adolescenza

Le letture del giovane Vittorini 1925-1928. Via dalla Sicilia

Prime prove d'autore 1929. Approdo a Firenze Viaggi critici e narrativi 1930-1932. Scrivere per vivere

Strategie culturali, Piccola borghesia 1933-1934. Censure 1935-1937. Controfascismo Sardegna, Garofano, Erica 1938-1944. Svolte Conversazione, Americana, Racconti lirici

1945-1947. Triennio politecnico Uomini e no, Il Sempione 1948-1950. Da comunista a ex comunista

Le donne di Messina 1951-1958. Libertà concrete

I gettoni, La garibaldina, Diario in pubblico 1959-1966. Ultime utopie il menabò, Le due tensioni, Le città del mondo, Il romanzo di Milano Ritratto-racconto a più voci

Bibliografia

Nelle citazioni delle opere dell’autore, i testi sono codificati con le seguenti abbreviazioni: Il brigantino del Papa (BP), Piccola borghesia (PB), prefazione a Il garofano rosso (PGR), Il garofano rosso (GR), Sardegna come un'infanzia (SI), Erica e i suoi fratelli (EF), Conversazione in Sicilia (CS), Americaa (AM), Sangue a Parma (SP), Storia di Guttuso (SG), Uomini e no

(uN), Il Sempione strizza l'occhio al Frejus (SF), «Il Politecnico» (PL), «Della mia vita fino ad oggi» (DMv), Le donne di Messina (DM), «I gettoni» (GT), La garibaldina (GB), Diario in pubblico (DP), «il menabò» (MB), Le due tensioni (DT). Le citazioni testimoniali sono ricavate da: Mio fratello Elio (MFE) di Jole Vittorini, Tra Quasimodo e Vittorini (TOv) di Rosa Quasimodo e da una mia intervista inedita a Vittorini del 1953 (IN).

INTRODUZIONE

Conobbi Elio Vittorini nell’aprile 1953. Avevo diciannove anni. Ero arrivato a Milano da Reggio Emilia. Vivevo da sette mesi in un pensionato universitario. Mi preparavo ad affrontare i primi esami alla facoltà di giurisprudenza. Progettavo di diventare avvocato di piccola pretura in un paese dell’Appennino. Incontrai Vittorini per incarico di Guido Gerosa (comasco, come me di famiglia di origine contadina, mio compagno di corso, enfant prodige della critica cinematografica coccolatissimo da Luigi Chiarini e Guido Aristarco direttori di «Bianco e Nero» e di «Cinema Nuovo»): dovevo raccogliere le risposte di Vittorini a un questionario sull’impegno politico-sociale degli intellettuali (l’engagerzent era allora tema di moda) proposto da «La rassegna del film» di Fernando Di Giammatteo di cui Gerosa era redattore. Curioso e rabdomantico, Vittorini trasformò l’incontro in un'intervista: indagò sul mio disadattamento di provinciale a Milano, sul mio disadattamento di cristiano in tempi di autoritarismo pacelliano, sul mio disagio di utopista dossettiano in tempi di attivismo fanfaniano. In una sua breve autobiografia del 1949, che allora io non conoscevo, Vittorini aveva raccontato che la sua prima emozione di lettore l’aveva provata di fronte ad una edizione del Robinson Crusoe con «disegnata

sulla copertina la figura di Robinson chino ad esaminare sulla sabbia dell’isola deserta l’orma del piede di un altro uomo».

Nel nostro primo incontro avvertii che Vittorini indagava sulle mie orme: io ero per lui un Venerdì da coinvolgere in esperienze di conoscenza e convivenza. Siccome la conversazione rivelò che amavo giocare a carte,

e precisamente a scopone, Vittorini mi invitò a cena: scoprii,

frequentandolo, che viveva intense periodiche passioni; tra il 1953 e il 1965 ci furono la passione delle carte (scopa, scopone, tressette), la passione per la musica classica (orientata dal musicologo Luigi Rognoni), la passione per le gite in bicicletta, la passione per il jazz (stimolata da Roberto Leydi), la passione per la cinepresa, infine la passione per la guida dell’auto. Vittorini aveva un insaziabile appetito di esperimenti e di esperienze. Puntava «a fare il pieno della vita» ogni giorno: l'indagine sugli eventi, i progetti, i linguaggi era la sua prima «scrittura».

Dello scrittore Elio Vittorini il coetaneo Cesare Pavese nel

1949 scrisse nel diario I/ mestiere di vivere: «E stata la voce (anticipata — questo è il grande) del periodo clandestino — amori nudi e vitali, astratti furori che si incarnano, tutti in mis-

sione eroica. Ha presentito l’epoca e le ha dato il suo mito». Vittorini, dunque, secondo Pavese, come scrittore esemplare dell’Italia che vive il passaggio dal fascismo all’antifascismo e dell’Italia democratica e riformatrice del dopoguerra; certo, risultano esemplari ancora oggi la sua vitalità conoscitiva, il suo anticonformismo culturale, il suo antischematismo ideologico. L’esuberanza di Vittorini non fu, tuttavia, un’esuberanza esistenziale alla Jack London, ma un’esuberanza intellettuale alla Diderot; fu una sorta di neoilluminismo (nutrito di passione per la creatività fantastica e la creatività scientifica, per la storia e l'utopia, per la metamorfosi della realtà naturale e le trasformazioni delle istituzioni) a far convivere nella sua ricerca e

nella sua opera «la ragione letteraria, la ragione antifascista, la ragione culturale, la ragione civile e la ragione conoscitiva». I suoi principali amici del periodo giovanile 1922-29 furono l’anarchico Alfonso Failla e il letterato Alfredo Mezio; le sue attenzioni di lettore onnivoro, autodidatta, «a lume d’impulso»,

si rivolsero soprattutto a opere di storici, filosofi e politici (Vico e Hume, Amari e Tocqueville, Gibbon e Verri, Colletta e Cattaneo); il suo primo interlocutore nazionale fu Curzio Ma-

laparte nella cui rivista «La conquista dello Stato» Vittorini pubblicò (il 15 dicembre 1926) il primo articolo. Dal ribellismo anarchico, libertario e strapaesano Vittorini si spostò poi su posizioni di «fascismo di sinistra» (documentate soprattutto dagli scritti pubblicati, tra il 1931 e il 1937, nella rivista fiorentina «Il Bargello», all’inizio diretta da Alessandro Pavolini

e animata da scrittori come Bilenchi e Pratolini). In un inter-

vento (del 5 gennaio 1946) sulla sua rivista «Il Politecnico»

Vittorini chiarì che lui e altri giovani intellettuali della sua generazione avevano interpretato gli slogan demagogici fascisti di prima del 1934 (progresso, eliminazione del latifondo, socializzazione delle grandi industrie) in chiave di rivoluzionarismo antiborghese: il secondo volume del suo epistolario (il volume intitolato I libri, la città, il mondo) documenta con grande chiarezza, attraverso le lettere del periodo 1934-43, il passaggio di Vittorini dalla rivolta antiborghese al rifiuto dell’autoritarismo fascista, dalla rivolta antifascista alla militanza resi-

stenziale. La prima sera che fui ospite di Vittorini e Ginetta Varisco (sua seconda moglie, traduttrice per Einaudi di Vercors), lo scrittore abitava ancora in via Canova in una casa in cui al piano rialzato vivevano anche Albe e Lica Steiner. Albe Steiner era il grafico con cui Vittorini aveva realizzato (tra il 1945 e il 1946) «Il Politecnico» settimanale («un giornale di studi applicati alla cultura e alla prosperità sociale»), oggi considerato grande rivista culturale del Novecento italiano: spesso Vittorini scendeva in strada, batteva con le nocche sui vetri di una fi-

nestra, Albe usciva e se ne andavano a dialogare scarpinando sotto gli alberi di corso Sempione o nel vicino parco del castello Sforzesco. La sera del mio primo invito a cena a casa Vittorini ero

emozionato e arrivai in via Canova in anticipo: mi misi a pas-

seggiare davanti al palazzo incrociando un quasi coetaneo che si muoveva innanzi e indietro anche lui; infilammo il portone quasi assieme, entrammo assieme nell’ascensore, ci fermammo sullo stesso pianerottolo e, prima che Vittorini aprisse la porta, ci presentammo: il quasi coetano (lui del 1929, io del 1934)

era Goffredo Parise; resse sul quotidiano manzi; ci sentimmo tammo che arrivasse

io avevo già recensito con convinto inte«L'Ordine» di Como i suoi due primi rodi colpo a nostro agio ed euforici; aspetl’ora di cena ascoltando un concerto per

oboe di Benedetto Marcello, mentre Ginetta si muoveva tra la

cucina e le altre stanze con un grembiule ricavato da una tunica gigliata regalatale dalla costumista di Giulietta e Romeo di Renato Castellani. In quel film Vittorini (su proposta dell’amica Lou Leone Broggi, compagna dello scrittore Fabrizio Onofri e aiuto regista di Castellani) aveva interpretato Cangrande della Scala signore di Verona: una rapida apparizione che gli

aveva procurato i soldi per una vacanza in Iugoslavia spartita con gli amici. Vittorini, che era povero, era molto generoso: per difendere la propria povertà (che considerava una libertà) scartò tutta la vita le occasioni di carriera, di successo mondano e di potere politico; viveva di collaborazioni; e ogni anno accettava (o si

inventava) un lavoro in più per pagarsi (e pagare ad alcuni amici) delle vacanze-viaggio: il 1949 era stato l’anno della Svizzera e di Parigi, il 1950 era stato l’anno della rivisitazione della Sicilia, da cui erano nate le foto per l'edizione illustrata del suo Conversazione in Sicilia; il 1952 era stato l’anno del tour a piccole tappe tra Urbino e Cerveteri; il 1955 sarà l’anno di Cadaqués in Spagna; il 1956 sarà l’anno della Dalmazia; il 1959 sarà l’anno di Saint-Tropez; il 1961 sarà l’anno di Populonia e della rivisitazione delle necropoli etrusche; e così via fino

al 1964, l’anno dell’Egitto e al 1965, l’anno della Sardegna e il penultimo della sua vita. Vittorini tendeva a trasformare il gruppo degli amici quasi in un falansterio foureriano; lui, che nel 1948 aveva pubblicato Le donne di Messina (il romanzo della ricostruzione e riconciliazione postbellica, il romanzo dell'utopia fondatrice di una nuova società), nel 1951 aveva progettato di andare a costruire con gli amici una comunità nuova in Canada o in Nuova Zelanda. La volontà di cambiare il Mondo si è sempre sposata in Vittorini con l'impegno di progettare un Nuovo Mondo. In via Canova, alle cene vittoriniane della domenica sera,

incontrai per la prima volta Montale con la moglie Mosca (Drusilla Tanzi Marangoni), Luciano Della Mea con la gentile

moglie Lidia Caretti, Niccolò Castiglioni, giovane musicista di talento che lavorava a un’operina basata sul vittoriniano Uomini e no, l'architetto Giancarlo De Carlo con la moglie Giu-

liana e il piccolo Andrea (futuro autore di Treno di panna) nella sua prima esperienza cinematografica come mini-interprete

di un film a passo ridotto di Elio. Vi incontrai anche Pier Emilio Gennarini col cognato Folco Portinari: il cattolico Gennarini aveva collaborato a «Cronache sociali», la rivista che era

stata una delle mie letture formative. Vittorini, tra gli intellettuali laici italiani che ho conosciuto, è quello che ha avvertito meglio (e in anticipo sugli altri marxisants) la vitalità del dialo-

go con la cultura cattolica; in un appunto (dell’agosto 1945) per il primo numero de «Il Politecnico» si legge: «Inchiesta

sulle industrie. Mario Melloni, direttore del “Popolo”, è un tecnico industriale e da lui si possono ottenere inchieste sulle SS

industrie o articoli sulla ricostruzione industriale» (da notare che Melloni, il futuro Fortebraccio, era allora direttore del quotidiano democristiano); sulla rivista fu orchestrato un viva-

ce dibattito su «Cristianesimo e cultura» al quale parteciparono, con Vittorini e Fortini, Felice Balbo e Carlo Bo; così come

«Il Politecnico» pubblicò (nel numero 31-32), per la prima volta in Italia, un saggio di Emmanuel Mounier (l’ispiratore del personalismo cristiano). L'apertura al dialogo culturale era consustanziale con la ricerca creativa di Vittorini; Vittorini si batté contro ogni settarismo intellettuale o politico; in una lettera del 1949 a Hemingway lo scrittore dichiara «mi sono sempre rifiutato di pormi da un punto di vista ideologico». Nel 1954 Vittorini mi propose di diventare uno dei redattori einaudiani della collana di letteratura «I gettoni»; ho lavorato accanto a lui (anche come redattore della rivista «il menabò») dodici anni. «I gettoni» furono, secondo il progetto di Vittorini, una collana-rivista che sviluppò, testo dopo testo, un discorso creativo e critico, e realizzò un’organica rappresenta-

zione della mobilità della realtà sociale e della molteplicità dei linguaggi. Gettoni e Menabò erano parole che significavano prova, esperimento, sondaggio, rivelazione; scrisse Vittorini in una lettera a Calvino: «Propongo per titolo “I gettoni” per i molti sensi che la parola può avere di gettone per il telefono (e cioè di chiave per comunicare), di gettone per il gioco (e. cioè con valore che varia da un minimo a un massimo) e di gettone come pollone, germoglio». «I gettoni» vittoriniani sono stati la

pista di lancio di Lucentini e Lalla Romano, Tobino e Cassola, Calvino e Fenoglio, Arpino e Tonino Guerra, Rigoni Stern e Ottieri, Ortese e Testori, Brignetti e Bonaviri, Troisi e Zolla,

Leonetti e Sciascia: e, tra gli scrittori stranieri, della Duras e Borges, Antelme e Dylan Thomas — e anche Salinger, seppure

pubblicato in altra collana einaudiana, fu selezionato da Vittorini.

Per amore dell’altrui creatività, Vittorini arrivò spesso a tra-

scurare la propria; e come si era sempre augurato per sé «inci-

tamento e dileggio» (leggi: passione e rigore critici), sempre si

confrontò con il lavoro altrui con una vivace partecipazione

analitica: il carteggio con gli autori de «I gettoni» documenta la costanza e la vivacità dei suoi suggerimenti maieutici (di taglio,

revisione, riscrittura): uno scrittore autentico doveva, a suo giu-

dizio, vivere non di «compiacimento» ma di «inquietudini». Nella primavera del 1955 Vittorini si trasferì in viale Gorizia in un appartamento (di proprietà della moglie, ma ristrutturato secondo un suo schema), le cui finestre si affacciavano sulla darsena del Naviglio (l'ottavo porto d’Italia, lo definiva lui, ironico e festoso). Curò personalmente (con Arnaldo Bres-

san, Vito Camerano e Giuseppe Grasso) il trasloco sotto la pioggia di aprile: accese per la prima volta il camino del soggiorno per fare asciugare i vestiti che gli si erano inzuppati addosso. In viale Gorizia incontrai anche Giansiro Ferrata e Mario Spinella, Vittorio e Luisa Sereni, Carlo Bo e Marise Ferro,

Marguerite Duras e Dionys Mascolo, Michel Butor e André Frenaud, Leone Piccioni e Danilo Dolci, Juan Goytisolo con

Monique Lange, Calvino ancora scapolo con o senza Elsa De Giorgi (che si muoveva sempre al seguito di una bottiglia di champagne rosé), Paolo e Giovina Volponi, Roberto e Armanda Guiducci, Lalla Romano e Innocenzo Monti, Giangiacomo Feltrinelli prima con Nanni De Stefani (possessiva) e poi con Inge Schbenthal (protettiva). Ginetta era una cuoca miracolosa, e Vittorini (i suoi libri sono lì a dimostrarlo) amava la cul-

tura degli odori e dei sapori: lo stoccafisso alla messinese era il piatto preferito da Montale, la minestra con le fave e i cardi era il piatto preferito dal padrone di casa, della pasta con le sarde si innamorò Jeanne Moreau quando venne a Milano a girare La notte di Antonioni, la bottarga e la caponata erano festa per tutti. Vittorini passava sempre la sera con gli amici; poi al mattino si alzava verso le sette, faceva colazione con zuppette di verdura in olio d’oliva; alle otto e mezzo andava a comprare i giornali di cui scorreva subito i titoli e che leggeva dopo il pranzo prima di recarsi da Einaudi o da Mondadori; dalle nove alle tredici leggeva e scriveva, spesso in piedi accanto a una credenza con leggio (per controllare i dolori prima attribuiti ad un’artrosi e poi rivelatisi messaggeri di una malattia tumorale). Vittorini scriveva con instancabile entusiasmo, ma pubblicava poco; era un lettore interdisciplinare; i narratori italiani del Novecento che preferiva erano Svevo e Palazzeschi, Comisso e Gadda, Montale e Bilenchi. Dei suoi libri amava so-

prattutto il racconto «La mia guerra» di Piccola borghesia,

Conversazione in Sicilia, Il Sempione strizza l'occhio al Frejus («Discorso sulla morte avrei potuto chiamare il libretto o al contrario: Sull'’importanza di vivere» ha confessato l’autore), La garibaldina, Le città del mondo e il romanzo milanese che aveva incominciato a scrivere nel 1961 e di cui è stato pubblicato un frammento con il titolo Delle cinque circonvallazioni che percorrono la nostra città: questo romanzo avrebbe dovuto raccontare, attraverso vicende di adulti e di giovani a confronto, la storia di Milano politecnica, una città moderna in trasformazione tra vecchie foppe e grattacieli, tra storia e utopia. Ha scritto Calvino: «Ogni romanzo di Vittorini ha come forma mitica quella del viaggio, come forma stilistica quella del dialogo, come forma concettuale quella dell’utopia». Milano è stata per Vittorini una città mito, una città metafora: gli è apparsa, via via, avventurosa come l'Australia, ricca di stratifica-

zioni culturali e sociali come la Cina, protesa verso il futuro come New York; a Milano, già scenario di Uorzini e no e Il

Sempione, Vittorini progettava di dedicare un grande romanzo (Delle cinque circonvallazioni, appunto) con i requisiti che aveva sempre chiesto ai propri libri: una «carica informativa», una «tensione oggettivistica», una «novità formale». Vittorini, intellettuale portavoce di cambiamento e mutamento, operatore culturale modernissimo e geniale, ha scritto opere narrative trasgressive e innovative, appartenenti a una

letteratura allegorica e di grande animazione drammaturgica. Ogni testo narrativo di Vittorini è la drammatizzazione di un percorso di liberazione psicologica e sociale, la messa in scena (con effetti musicali e visivi personalissimi) di eventi che sono mutazioni insieme antropologiche e linguistiche. Quando lo incontrai per la prima volta, di lui avevo letto solo Conversazione in Sicilia; dopo vari incontri, il mio entu-

siasmo per la sua vitalità intellettuale innescò in me una grande curiosità per la sua letteratura: lessi rapidamente gli altri suoi libri e i fascicoli di «Politecnico»; di Uorzini e no, che

non ero riuscito ad acquistare in libreria, che ero andato a leggere in biblioteca, e per il quale gli confessai una franca insoddisfazione, mi regalò la copia che teneva nel suo studio, con questa dedica: «A Raphael, pan y miel, questo romanzo che non piace nemmeno a me, per giurarci sopra un'amicizia».

Dalla lettura delle sue opere ricavai un saggio critico di un centinaio di pagine che gli feci leggere e di cui, nell'agosto del

1953, mi scrisse mettendomi in guardia contro il rischio di una «critica celebrativa». Diceva la sua lettera: «Il suo primo abbozzo di saggio a mio riguardo mi ha molto interessato, vivamente interessato. Forse perché io lo so leggere meglio di ogni altro lettore? Ma spero che possa interessare ogni specie di lettore, malgrado l'andamento della descrizione critica che presuppone in chi legge una certa conoscenza dell’argomento. Lei sembra fare un cammino a rovescio, non dalle “cose” al

“giudizio”, ma può prendere impegnarmi a una «biografia

dal “giudizio” alle “cose”, e così il “giudizio” un aspetto di “pregiudizio”». Decisi allora di scrivere su di lui un’opera più documentata, critica»: e per decifrare gli snodi della sua vita e

della sua ricerca, nell'autunno di quell’anno lo sottoposi, per qualche giorno e molte ore, a una lunga intervista, rimasta inedita, alla quale nelle pagine di questo volume farò qualche volta riferimento. Nel 1954, diventato suo collaboratore, per discrezione e pudore miei e suoi, abbandonai il progetto del libro su Vitto-

rini: l'ho ripreso nel 1996, quando il trentennale della sua morte passò nel generale silenzio dei quotidiani, dei periodici, delle riviste e dei media radiotelevisivi. Rileggendo più volte le sue opere letterarie, ho progressivamente constatato che Vittorini, narratore utopico, fantasioso e

allegorico, ha dato un significato allegorico persino ai propri ricordi, rendendoli emblematici. Vittorini ha rimodellato in

chiave di avventura utopica itinerante e discontinua, drammatica e paradigmatica, esemplare e profetica, tutta la propria biografia umana, letteraria e intellettuale. Ecco perché questo racconto biografico-critico sarà contrappuntato da citazioni dei suoi testi testimoniali narrativi e saggistici e perché l’analisi delle sue opere inserirà la loro progressione dentro un quadro di riferimenti esistenziali e sociostorici.

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1908-1918 L'INFANZIA

Il bisnonno paterno di Elio Vittorini era di origine bolognese; colonnello della finanza, inviato a metà dell'Ottocento a Siracusa, vi si era sposato poco dopo; qui nel 1858 era nato suo

figlio Vincenzo, il nonno di Elio. Vincenzo Vittorini si era maritato con Vincenza Midolo, fi-

glia di un piccolo armatore: in dote la donna aveva avuto, tra l’altro, la proprietà di un brigantino. Vincenzo e Vincenza ebbero quattro figli, due maschi e due femmine; Sebastiano, il secondo maschio, nacque il 29 novembre 1883 in un apparta-

mento di Palazzo Bufarderi dove la famiglia Vittorini-Midolo alloggiava; poi la famiglia si trasferì in via Maestranza dove, coi soldi della vendita del brigantino di Vincenza, Vincenzo aprì un caffè all’angolo con il vicolo della chiesa dei Santi Coronati.

A dieci anni, conseguita la licenza degli studi elementari, Sebastiano venne inviato in seminario col progetto di farne un sacerdote; ma sui sedici anni, in un periodo in cui era sotto ac-

cusa come lettore dei romanzi di Dumas, il 2 febbraio 1899,

durante la celebrazione in Duomo della liturgia della Candelora, reagendo a un rimprovero del vescovo per la sua distrazione, si tolse di scatto la veste da seminarista, scappò dalla chiesa e fece ritorno in famiglia. A questo punto il padre Vincenzo, dopo aver pensato di farne un sarto o un sellaio, lo affidò al cognato Francesco perché lo addestrasse come marinaio; ma, durante i primi tre viaggi in goletta alla volta di Brindisi, Cipro e Smirne, Sebastiano si rivelò inadatto, per pigrizia e paura, alla vita di mare: venne perciò iscritto all'Istituto tecnico Archimede, perché vi prendesse un diploma, onde imboccare poi la strada della professione di geometra o ragioniere o

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la strada di un qualche concorso statale. Sebastiano, però, che

nutriva interessi umanistici e ambizioni letterarie (nel 1900 pubblicò Azuole, raccolta di poesie che risentivano del linguaggio celebrativo di Carducci e Rapisardi), conquistato il diploma, si iscrisse al Magistero dell’Università di Catania, frequentando per un biennio, mentre prendeva anche lezioni di canto con l’aspirazione di emergere come tenore di grazia (e, infatti, si esibì per anni in vari salotti, interpretando arie di Boito, Mascagni e Verdi; mentre il figlio Elio, più tardi, idealizzandolo in Conversazione in Sicilia, lo ricorderà attore: «riconobbi mio padre, il suo volto, la sua voce, i suoi occhi azzurri e il suo modo di fare, mi ritrovai un momento ragazzo ad

applaudirlo mentre lui recitava il Macbetb in una sala d’aspetto d’una piccola stazione pei ferrovieri di tutta la linea da San Cataldo a Racalmuté»). Nel 1902 Sebastiano si iscrisse al Circolo Socialista di Siracusa, dove fece amicizia con Eduardo di Giovanni (avvocato,

futuro parlamentare e sindaco di Siracusa, nel 1943 presidente del Cln siracusano e nel secondo dopoguerra deputato dell Assemblea Costituente, senatore, sottosegretario di Stato e,

alla fine, membro del Consiglio d'Europa a Strasburgo); nel 1903 avviò il sodalizio culturale e umano con Pasquale Sgandurra, detto anche Pasqualino e, in famiglia, Giusto (nato nel

1882, insegnante di disegno e scultore, nel 1913 si trasferì a Firenze come docente presso l'Accademia delle Belle Arti del capoluogo toscano; ancor oggi è ricordato, tra l’altro, per le sue sculture della Cattedrale di Montreal e della fiorentina chiesa di Santa Croce); nel 1904 pubblicò il romanzo breve Turidda (un lagrimante feuilleton). Di Pasquale Sgandurra tre anni dopo Sebastiano Vittorini diventò cognato. Gli Sgandurra abitavano al numero 154 di via Gelone (oggi 140 di via Vittorio Veneto), la Mastrarua nel cuore di Ortigia, l'isolotto che costituisce il quartiere storico

siracusano: la Mastrarua, con case popolari e palazzi aristocratici, chiese barocche e feudali, cortili spagnoleschi e mercatini, era la più favolosa delle vie di Siracusa.

Angela Orefice e Salvatore Sgandurra (di professione barbiere e, all'occorrenza, cerusico) oltre a Pasquale avevano altri

quattro figli: Antonio, detto Antonino o Nini (nato nel 1873, avvocato,

emigrato a Genova

nel 1910, acquisì notorietà sia

come legale che come botanico, pubblicando un Atlante della

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flora siracusana apprezzato da Giovanni Verga, Avventure di un botanico e L'anima delle piante; e l’Alessio del vittoriniano Garofano rosso dirà: «me ne scappavo lontano tra gli eucalipti a leggere [...] certe dispense di botanica comparata che avevo visto, altri tempi, nelle mani di zio Costantino»); Giuseppina (nata nel 1876, la zia Peppina rimasta nubile a cui Elio Vittorini fu molto affezionato); Lucia (nata nel 1879) e Maria (nata nel 1886, trasferitasi anni dopo a Benevento come sposa di Aminta Imperlini). In casa Sgandurra, ai tempi in cui Sebastiano Vittorini prese a frequentarla, vivevano anche due fratelli di Salvatore, la nubile Maria e Vincenzo, fattosi frate carmelitano col nome di padre Gioacchino: aiutavano il barbiere-ce-

rusico, rimasto vedovo, a gestire la famiglia. A Lucia Sgandurra, di cui si innamorò al primo incontro, Sebastiano Vittorini dedicò il suo romanzo breve del 1904 e,

volendola sposare presto, nel 1906, abbandonato il progetto di diventare insegnante, partecipò a un concorso delle Ferrovie dello Stato, dove risultò primo classificato, guadagnandosi l’incarico iniziale di «aiuto applicato addetto al telegrafo» nella stazione di Sant'Agata Militello, dove cominciò il lavoro il 1° ottobre di quell’anno; negli anni successivi la sua carriera si sviluppò con incarichi a Catania, Siracusa, Scicli, Terranova di Sicilia (che nel 1927 assumerà il nome di Gela), Dirillo, Butera e, infine, ancora Siracusa.

Lo stipendio fisso di Sebastiano legittimò, presso Vincenzo Vittorini e Sebastiano Sgandurra, il suo progetto di matrimonio con Lucia; le nozze furono celebrate da padre Gioacchino nella chiesa di San Pietro al Carmine il 15 giugno 1907; e il 23 luglio 1908, in casa Sgandurra, in via Gelone, nacque il loro primo figlio, Elio (che, secondo la testimonianza della sorella, «divenne il figlio di tre madri: Lucia che l’aveva messo al mondo; Maria, che più tardi doveva accoglierlo nella sua casa di Benevento; e Peppina» [MFE]). Il nome Elio fu scelto in omaggio alla passione per la cultura greca del padre Sebastiano (che scriverà anche un saggio su Eschilo e dirigerà per qualche

tempo il «Bollettino delle Rappresentazioni Classiche di Sira-

cusa»). Dalla coppia Lucia e Sebastiano nacquero poi Ugo (Vittorio Ugo all'anagrafe, in omaggio a Victor Hugo, lo scrittore francese amatissimo dal padre), il 2 febbraio 1910, Jole il 22 novembre 1912 e Aldo il 6 gennaio 1916. Nel testo del 1949 intitolato «Della mia vita fino ad oggi

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raccontata ai miei lettori stranieri» Elio Vittorini rievocherà

così quegli anni: «Siracusa è una città di marinai e di contadini costruita su un isolotto che un lungo ponte congiunge alla Sicilia. Io vi sono nato il 23 luglio 1908 in una casa da cui ho visto naufragare, quando avevo sette anni, un piroscafo carico di cinesi. C'erano bastioni a picco sugli scogli dietro casa, e da una parte, un centinaio di metri più in là, il piazzale dove i contadini del rione, tornando la sera dal lavoro dei campi, lasciavano a stanghe per aria i loro carretti. Essi si portavano le bestie in casa, chi asino, chi mulo, chi cavallo. Tornando ogni

sera tra le sette e le nove per ripartire alle tre del mattino. In ogni casa c’era un cortiletto con un chiuso di legno per le bestie e con una vasca di pietra per fare il bucato. Uomini che tornavano la sera con le bestie nella nostra casa, e donne che

lavoravano nella vasca di pietra del nostro cortile, erano miei compagni per parte di madre: zii per parte di madre, cugini per parte di madre» (DMV). Quaranta giorni dopo la nascita di Elio, il bambino e la madre raggiunsero Sebastiano a Sant'Agata Militello, ma Lucia vi contrasse la malaria e Sebastiano chiese il trasferimento, che

ottenne, a Catania dove, promosso «applicato», prese alloggio con moglie, figlio e la cognata Maria nei pressi della stazione, in via Di Palma, dove fu difficile ambientarsi perché vi abitavano anche malavitosi e prostitute e di notte vi esplodevano risse e si sparava; avevano appena cominciato ad acclimatarsi,

quando il 28 dicembre ci fu il terribile terremoto che distrusse Messina e provocò a Catania un drammatico maremoto; per settimane i Vittorini si ripararono dentro un vagone-merci. Ha

rievocato Jole Vittorini: «I treni in arrivo da Messina erano carichi di sfollati e feriti, in massima parte bambini seminudi e scalzi, salvati dalle macerie di collegi e orfanotrofi [...] Elio perdette la vista. Si disse per il latte agitato. Una popolana consigliò mia madre di passare sugli occhi del bambino il latte della sua mammella. Avvenne che, dopo aver seguito il consiglio, Elio tornò a vedere» (MFE).

Anche il 1909 fu per i Vittorini un anno di cambiamenti. Il 23 maggio morì il nonno paterno di Elio, Vincenzo; tre mesi

dopo Sebastiano ottenne il trasferimento a Siracusa e andò ad abitare con la moglie e il figlio nella casa del suocero in via Gelone: per il bambino furono mesi di coccole; e, negli anni, tutti i soggiorni nella casa del nonno materno furono per Elio

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ragione di calda compagnia e eccitata curiosità: «Io avevo amato zie, nella mia infanzia, avevo adorato, da piccolissimo, il

nonno, avevo amato parenti d’ogni genere nonno! Là sì ero stato felice. C’erano alti una via dove passavano galoppi di carrozze ma di tetti a ringhiera dai quali si scopriva misteriosa lontananza marina» (GR).

[...] Ah, la casa del balconi bianchi su e, dietro, un sistea poco a poco una

Nel 1911 Sebastiano Vittorini venne trasferito a Scicli, un centro agricolo di ventimila abitanti, interamente ricostruito,

dopo il terremoto del 1693, lungo la ferrovia Siracusa-Licata, oltre Avola, Noto e Rosolini. Fu a Scicli che il bambino Elio

scoprì la meraviglia degli eventi extrafamiliari; ed è Scicli che lo scrittore Vittorini eleggerà scenario di alcuni appassionati episodi del suo bellissimo romanzo Le città del mondo: «[Scicli] sorge all’intrico di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del tetto d’una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in

più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini. È a pochi chilometri da Modica, nell’estremità sud-orientale dell’isola; e chi vi arriva dall’interno se la trova d’un tratto ai piedi, festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scam-

panii, mentre chi arriva venendo dal non lontano litorale la scorge che si annida con diecimila finestre nere in seno a tutta l'altezza delle montagne, tra fili serpeggianti di fumo e qua e là il bagliore d’un vetro aperto o chiuso, di colpo, contro il sole» (cm). A Scicli il bambino fu incantato dalla festa della Madonna delle Milizie che vi si celebrava tutti gli anni, il sabato precedente la Domenica di Passione, dal 1391: la statua equestre della Madonna, vincitrice sui saraceni, veniva trasportata di

corsa, sulla spalla di giovani veloci e guizzanti, in mezzo alla folla acclamante e tra esplosioni di fucilate. Alessio Mainardi, il protagonista, di matrice autobiografica, del romanzo I/ garofano rosso, tirerà in ballo la Madonna a Cavallo ben due volte, nei dialoghi con la sorella Marta e la prostituta Zobeida. D’altra parte, lo scrittore Vittorini userà la propria memoria, come matrice di elementi mitografici, in tutte le sue opere. Nel 1914 Sebastiano Vittorini, promosso sottocapo, venne

trasferito da Scicli a Terranova di Sicilia, l'odierna Gela, pic-

cola città marinara con un traffico marittimo di centocinquan-

ta velieri, una sede di sottoprefettura, una tenenza dei carabi-

nieri, una pretura, un carcere giudiziario, una cava archeologi-

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ca con resti di antiche necropoli, un lido ben attrezzato, scuo-

le tecniche e ginnasiali e un liceo. Ma come primo maestro Elio ebbe il padre; scoppiata, tuttavia, la guerra, dovendosi il padre recare in missione nel nisseno e nel girgentano, il ragazzo venne ricondotto, a sette anni, a Siracusa dal nonno Salvatore dove ebbe come insegnante, dall’autunno 1915 al giugno 1917, un’amica della madre Lucia, una certa signora Barbieri,

proprietaria di un grosso mulino in prossimità del teatro greco. Terranova fu per Elio il luogo delle vacanze e delle avventure estive, giochi e letture anzitutto; la rievocherà così: «Ter-

ranova in Sicilia è una cittadina che, a cavaliere di un lungo e sinuoso colle, guarda, da una parte, la fertile piana caltagironese e, dall’altra, oltre le dune di una spiaggia quasi libica, l’africano mare della terra di Didone. Il colle corre con l’andatura di altipiano dalla prossima riva del Gela a quella, molto più lontana, del Salso e, dove gli antichi contrafforti siracusani,

spagnoli e corsaleschi lasciano ruderi, si aderge alquanto sopra i diruti fianchi e prende, improvviso, l'aspetto di una rocca. Quivi posta, come è oggigiorno, la città tiene emporio di bestiame e di cereali con i maggiori centri agricoli dell’Isola, e, con i porti d’Algeria e di Tunisia, baratta il sale, le pelli caprine, il pelo di pecora» («Memorie autunnali. Tempo di guerra», un racconto del 1928). «Avevo letto le Mz//e e una notte e tanti libri là a Terranova, di vecchie storie, di vecchi saggi, a sette e otto e nove anni, e la Sicilia era anche questo là, Mz/le e una notte e vecchi paesi, alberi, case, gente di vecchissimi tem-

pi attraverso i libri [...] E una fortuna aver letto quando si era ragazzi. E doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mi//e e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e di tutto il mondo in sé, con la propria infanzia, Persia a sette anni, Australia a otto, Canadà a nove, Messico a

dieci, e gli ebrei della Bibbia con la torre di Babilonia e Davide nell’inverno dei sei anni, califfi e sultane in un febbraio o

un settembre, d’estate le grandi guerre con Gustavo Adolfo eccetera per la Sicilia-Europa, in una Terranova, una Siracusa,

mentre ogni notte il treno porta via soldati per una grande guerra che è tutte le guerre» (CS). Nell’estate del 1916 si recò a Terranova, a visitare la fami-

glia della sorella e per il battesimo del nipotino Aldo nato in

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gennaio, Antonio Sgandurra: lo zio Nini si era portato da Genova regali per tutti; a Elio era destinata una bella edizione del Pinocchio di Collodi, ma lo zio cambiò, all’ultimo momento, il

regalo, imbarazzato dalla scoperta che Elio, benché avesse da poco compiuto otto anni, stava leggendo addirittura il Merzoriale di Sant'Elena di Napoleone. E puntualmente l’opera di Napoleone sarà citata da uno dei personaggi del romanzo I/ garofano rosso. Dal maggio 1915 l’Italia era in guerra contro l’Austria-Ungheria; c'erano state già le sei terribili battaglie dell’Isonzo e dall’agosto 1916 l’Italia era in guerra anche contro la Germania; la stazione di Terranova era stata militarizzata; giungevano notizie di scontri sul mare (il transatlantico Ancona silurato da un sommergibile austriaco davanti a Marettimo nel novembre 1915, il piroscafo Firenze attaccato durante il suo viaggio verso Alessandria d'Egitto, il piroscafo Port Said cannoneggiato a quaranta miglia da Derna): la sua eccitazione di ragazzo coinvolto nell’epica guerresca Elio Vittorini la descriverà, in chiave fantastico-paradossale, nel racconto «La mia guerra» che, benché ambientato a Gorizia (dove Vittorini soggiornerà, ospite di parenti come il suo protagonista del racconto, dodici anni dopo), presenta personaggi chiaramente ispirati dalla cugina Angelina («Emilietta») e dal fratello Ugo («Boris»), suoi compagni in molte gare (mentre un’altra compagna di giochi delle vacanze delle estati del 1916 e del 1917, Gilda, figlia del capo della tenenza dei carabinieri di Terranova, ispirerà il personaggio dell’amichetta di Adolfo nel romanzo interrotto del ’29-°30 Il ballo dei Lagrange). C'è, in ogni caso, in merito a quel periodo, un testo vittoriniano esplicitamente rievocativo, pubblicato nel quotidiano «Il Mattino» (16-17 novembre ”28), il già citato «Memorie autunnali. Tempo di guerra»: «Potevo avere sette anni quando mio padre ci leggeva ad alta voce la dolorosa cronaca dell’avanzata tedesca sopra il Belgio [...] per quanto posta all'estremo della penisola e lontanissima dal fronte, Terranova fu città quasi ispirata dal frastuono della guerra e sofferente d’ogni sacrificio, d’ogni passo fallito, d'ogni pietoso episodio. Rimasta deserta di uomini fin dalle prime chiamate alle armi, povera di vecchi e d’imboscati, vuota d’ogni virile attività, divenne in breve una vera repubblica di femmine». Completati a Siracusa gli studi delle prime due classi ele-

mentari, nell’autunno 1917 Elio venne iscritto a Terranova ai

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DA ca pa hear ade

Lettera a Italo Calvino, iniziata il 20 dicembre ’63 e finita il

3 gennaio ’64, sul tema «letteratura nell’età dello sviluppo scientifico-tecnico»: «Caro Italo, continuo a pensare ad alcune delle tue “sortite” nella conversazione di martedì sera. Così è meglio che ci pensi scrivendotene. Per questo ti scrivo. Tu hai detto cose che anch'io condivido (e che anche Leonetti o Crovi condividono in fondo): che siamo storicisti; che siamo interessati allo

storico-sociale; che presupponiamo a ogni ricerca l’esistenza di un mondo oggettivo e di una verità oggettiva pur se non posseduti, ecc. ecc. Ma ci sono molti modi di essere storicisti, molti modi di essere interessati allo storico-sociale, molti modi

di presupporre l’esistenza dell’oggettivo ecc. ecc. E tu ti sei espresso al riguardo di queste cose e altre in un modo per cui, ripensandoci, mi pare che tu sia sotto l'influenza di una preoccupazione che per un lato chiamerei rimpianto e per un altro terrore. Pet il primo lato: sembrerebbe che tu rimpianga il tempo in cui si poteva stare a nostro agio nella libertà (apparente) e genericità (sostanziale) di un’attività letteraria dove anche il discorso impegnato non comportava le sofferenze della responsabilità culturale perché condotto nel linguaggio non impegnativo e generico del saggismo letterario italiano che da classico è diventato romantico e da romantico moderno (gramscia-marxisticamente moderno) senza quasi alcuna soluzione di continuità. Già. C’è stata, e tuttora è a nostra portata

di mano, invitantissima nello spettacolo dei molti spensierati che tuttora ne fruiscono, e ne traggono godimento, c’è stata e c'è intorno a noi una possibilità simile di tenere disimpegnativamente (per la facile virtù di un linguaggio generico) un discorso che risulti più o meno impegnato. È una possibilità privilegiata grazie a cui si lavora con la soddisfazione suprema di essere nella mischia e non pigliarsi mai una legnata, essere nella pioggia e non bagnarsi, ecc. ecc. Solo che sorge al limite dell’attuale malattia della letteratura per via della quale la letteratura non costituisce più una frontiera della cultura e non

procede più di pari passo col procedere della cultura. Vuoi che ricapitoliamo? Certo che altri tempi (direi fino alle soglie

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dell'Ottocento, almeno per alcuni paesi) il discorso letterario ha potuto elaborare dei valori culturali suoi propri che corrispondevano ed equivalevano a quelli elaborati più o meno contemporaneamente dalle scienze e dalle tecniche. Poi è cominciato (e direi proprio a partire dai grandi romanzieri classici del Gran Secolo) un decalage che non ha fatto che accrescersi tra validità culturale della letteratura e validità culturale di scienze e tecniche. La cultura oggi, dico come insieme di scienze e tecniche, è andata ben oltre il grado di sviluppo toccato al momento in cui (al principio Ottocento) si è avuta la più recente corrispondenza di sviluppo tra letteratura e cultura in genere. La letteratura no. È rimasta più o meno ferma a quel grado — (per esempio col suo modo di riferirsi all’esperienza sensibile che venne giusto allora investito d'importanza culturale ma senza poi che le fosse mantenuta) — o è andata oltre quel grado di così poco e così episodicamente (così fuori dal suo insieme) che oggi sembra aver vita (come insieme) non già nel mondo stesso in cui agiscono scienze e tecniche, ma in una specie di Riserva Indiana, di Parco Nazionale, di Luogo

Conservativo dei sentimenti e dei rapporti e dei processi conoscitivi passati. Comunque il meno che si possa dire è che il discorso letterario risulta culturalmente ingerzo a paragone di

quello che scienze e tecniche conducono. Si svolge attraverso

strutture ormai ingenue, su un terreno di conoscenza ingenua,

e se per caso si appropria e si vale di nozioni in sé non-ingenue che sono state elaborate altrove, in altro campo, lo fa ade-

guandole alla sua condizione di attività ingenua, depotenziandole. Il discorso letterario rende ingenuo tutto ciò che tocca, come se addirittura fosse col rendere ingenuo ch’esso si manifesta per specificamente letterario. Ora è da un pezzo che lo scrittore cerca di lottare (forse dal primo momento stesso in cui ci si trova) contro questa condizione minorata della letteratura. Cerca, dico. In effetti è lacerato tra l’inclinazione e

conservarla e perpetuarla da un lato (per il modo facile di essere scrittore che gliene viene) e quella a romperla e modifi-

carla da un altro (per l’irrilevante operatività culturale che gliene viene). La storia della letteratura contemporanea è la storia del dissidio intimo tra queste due inclinazioni nonché del dissidio epico (ma mai molto chiaro, molto netto) tra le

opposte correnti che via via si formano in funzione di queste due inclinazioni: ed è una storia complessa che qui non avrei

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modo nemmeno di riassumere. In questi ultimi anni (tre ultimi, quattro ultimi), noi ci siamo persuasi, a ogni buon conto,

che anche l’impegno storico-sociale, lo storicismo, l’ideologismo ecc. ecc. cui ci eravamo applicati da poco prima della guerra non servono minimamente a rompere e modificare la condizione minorata della letteratura e anzi radicalizzano il carattere culturalmente subalterno di essa se li assurziamio (da fuori, e così come sono fuori) entro le nostre invariate strutture ingenue aggravando la nostra ingenuità di tutto l’ingenuo senso .

col quale e nel quale li prendiamo. Certo si è potuto giungere, in questa assunzione ingenua dello storico-sociale, a punti di poesia culturalmente avanzati e significativi, ma l’insistervi è a poco a poco diventato un disastro, ha prodotto creature ripugnanti, e ha portato all’equivoco attuale di tanti che, considerando restrittivamente l’impegno storico-sociale come causa di ogni malanno, hanno unilateralmente rifiutato questo impegno (prima pieni di vergogna di rifiutarlo, e dissimulandolo, come Cassola nella Ragazza di Bube, poi col sollievo malinconico di chi si è liberato di un incubo, come ancora Cassola nel

Cuore arido) e si sono di colpo ritrovati indietro di decenni. Assunzione. Rifiuto. Si potrebbe tornare all'infinito ad assumere e a rifiutare senza che nulla cambi se non in peggio: e sempre più addentro nell’ingenuità, sempre più confinati nel Parco Nazionale, sempre più fuori dal mondo. Il guaio non deriva dall’interesse storico-sociale in sé ma dal modo fasullo in cui è stato assunto, né può esservi salvezza nel tornare ad

assumerlo se non salviamo le strutture stesse del discorso letterario dall’ingenuità che le depotenzia e non le rendiamo capaci di elaborare, a livello con le scienze e le tecniche oggi più avanzate, un senso anche storico-sociale che risulti struttural-

mente suo proprio. Questo è il punto: la ristrutturazione culturale (o correlativamente culturale) del discorso letterario, possibilità creative comprese, immaginazione compresa; € questo è che postula “Menabò” con la sua polemica pur nell’impertinenza o relativa pertinenza dei suoi assaggi. Tu hai anche scritto racconti (es. La speculazione edilizia), e non solo

detto cose, che ti mostrano consapevole della necessità di un rinnovamento nella direzione radicale che postuliamo in “Menabò”. Ma hai insieme continue “sortite”, come quelle della riunione di martedì scorso, con le quali sembri “rimpiangere” la condizione ingenuamente felice della Riserva Indiana che

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t’accorgi di esserti lasciata alle spalle. È poi vero rimpianto? Io non credo che il ricordo di quella Riserva abbia da solo un vero fascino su di te. E qui vengo all’altro aspetto della tua preoccupazione che ho chiamato “terrore”. Io credo che tu sei portato a rimpiangere la spensieratezza della “vita in Riserva” dalla pressione “terroristica” che ti senti esercitare intorno attraverso le manifestazioni lukacciane (e lukaccianamente rigorose e coerenti) dell'ambiente in cui vivi. Tu non sei lukacciano (o non avresti mai scritto come scrivi) ma hai tanta stima del rigore e della coerenza formali dei lukacciani tra i quali ti muovi a Torino o a Roma che soffri di far cose per le quali sai di non poter avere la stima che vorresti avere da loro. La cosa finora, con la tensione cui ti sottopone, non ti ha danneggiato negli scritti; anzi ha reso più efficaci, per virtù di controllo e di forza moderatrice, i tuoi ultimi saggi; ma c’è il pericolo che alla lunga possa avere effetto paralizzante; ed è per metterti in guardia contro il pericolo di un effetto simile ch'io ho creduto di dover cercare di parlartene, una volta, con applicazione. Perché il lukaccismo non vuole che la letteratura si tiri fuori dall’ingenuità. La concepisce, bisogna dire, come dimensione ingenua dello storico-sociale, visione ingenua della storia che valga di rinfresco ristoratore nell’ardua fatica dei mutamenti storici cui tutti siamo razionalmente impegnati. Ti ricordo, in proposito, la presunta “ingenuità” epica (la quale ingenuità non è però, storicamente, più ingenua di quella delle scienze e della tecnica greche: è pari a quella di esse) che Lukacs esalta, parlando dell’arte greca, come essenziale appunto dell’arte, e il valore funzionalmente di tipo “greco”, oggettivante “alla greca”, che egli attribuisce, più tardi, al suo caro romanzo ottocentesco. Oppure, più sintomaticamente, che razza di esempio tira in ballo Cases nella sua introduzione a Peter Szondi in contrapposizione ai prodotti del nouveau roman: nientemeno che les petits enfants du siecle della Rochefort; confessando co-

sì in modo definitivo come per un lukacciano la letteratura può permettersi di entrare nel merito di un nuovo problema solo se lo fa trattandone al livello ingenuo (e ben risaputo) del-

l’aneddoto — ciò che equivale a non entrare nel merito affatto

e ad ignorare ogni problematica anche sul piano tematico oltre che sul formale. Oggi il lukaccismo, dopo le pessime prove ultime della ingenuità letteraria in fatto di storico-sociale, non insiste più nelle pretese dei suoi primi tempi. Ha lasciato per-

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dere persino il nazional-popolare che s’era annesso da Gramsci, come formula riassuntiva delle proprie proposte letterarie (anziché di analisi critica). Ma sul punto dell’ingenuità non intende mollare. Il lukaccismo ormai concede alla letteratura anche di essere evasiva e irresponsabile purché lo sia nell’ambito dell’ingenuità. Perciò tollera, e addirittura include nel suo sistema, le istanze rappresentate criticamente da Citati o, artisticamente, da Cassola, da Bassani ecc. ecc. Quello che non tol-

lera è che la letteratura voglia essere adulta, che voglia aver senso operativo, che voglia strutturarsi culturalmente, che voglia giustificarsi da sé. La letteratura, per il lukaccismo, o è ingenua o non è: o accetta di vivere nel confino, nella libertà confinata del bel Parco Nazionale ch’esso lukaccismo le assegna, o non vive. E invece io credo che anche la letteratura, co-

me ogni cosa, oggi ha la sua possibilità di essere in quanto sappia non essere più ingenua e non vivere più a livello di Riserva Indiana, a livello di sopravvivenza [...] Resta da vedere, si capisce, il “come” della ristrutturazione. Ma questo non si può prefigurarlo intellettualmente. Se no sarebbe un gioco catechistico, e in quanto tale ancora “ingenuo”. Infatti non vi è nulla di letterariamente più ingenuo del culturalismo poetico, tipo Fortini per esempio. Io perciò mi sono limitato a citare, nel

Menabò 4, i tentativi del nouveau roman. Ho finito per aspettare il tuo ritorno da Parigi e Londra prima di spedire la lettera. Oggi è il 3 gennaio [1964]». «Scrittori francesi, tedeschi e italiani manifestano qui attraverso quaranta scritti originali e concordati di riflessione e di ricerca, su fatti o problemi generali o specifici, i loro punti di consenso e di dissenso, nel promuovere insieme un nuovo discorso intellettuale, politico e letterario»: con questa didascalia veniva presentato nel marzo 1964 il «numero zero» (rimasto «numero unico») di «Gulliver», nella veste de «il menabò

7» («canguro che porta un canguro» lo definì Vittorini); nel «menabò-Gulliver» Vittorini firmò la nota introduttiva e i tre

articoli «Scuola è politica», «La lettura attiva» e «L'uomo è

stato contadino». Lo stesso anno, nel numero di marzo-giugno di «Nuovi Argomenti», apparve un’articolata risposta di Vit-

torini a 10 domande sul tema «Neocapitalismo e letteratura». Scelgo di dare un campione della sesta risposta: «Non so in base a quale criterio si possa stabilire chi goda e chi no, in letteratura o in altre arti, della simpatia neo-capitalistica. Quello

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delle vendite? Allora il caso del Gattopardo ha mostrato (e non solo in Italia) di che genere siano le opere che il neo-capitalismo prediligerebbe. A parte tale indicazione, io non vedo nulla che mi illumini sulle effettive simpatie artistiche del pubblico neo-capitalista. Se esso accetta da un lato il “materico” Gadda, accetta anche, da un altro lato, l’esplicito Moravia, e

affolla i teatri in cui si danno i drammi di Brecht o I/ diavolo e il buon Dio di Sartre. Se compra quadri informali ne compra anche di Guttuso o di Bacon [...] Indubbiamente la letteratura materica, la pittura informale, la musica elettronica non met-

tono paura a nessuno. Ma possiamo dire per questo che siano conniventi del neo-capitalismo e ne costituiscano la espressione artistica? Oggi anche l’arte di esplicita denuncia non mette paura a nessuno, anche Brecht non mette paura, anche Guttuso non mette paura. Mentre vi sono stati tempi in cui anche la più lieve innovazione formale dava scandalo, e insomma metteva paura. Il fatto è dunque che l’arte di per se stessa, proprio in quanto è arte, e non in quanto è la tale o talaltra specie di arte, è giunta al punto di non più meravigliare, non più dare scandalo, non più mettere paura». Sul finire della primavera del ’64 Vittorini si recò in Sardegna, per organizzarvi una più lunga vacanza da fare nel ’65, e per raccogliere impressioni per la nota introduttiva alle edizioni francesi e tedesche di Sardegna come un'infanzia realizzate dalle Editions Rencontre di Losanna, con l’integrazione di un testo documentario sull’isola di E. Turri; nella nota Vittorini

scrisse: «La civiltà è piena di frontiere, e lo stesso la ragione: frontiere che le limitano e spezzettano con oscillazioni continue, lo sappiamo; ma frontiere che sono anche ambigue, anche cariche di seduzione poetica, anche capaci di isterilire la nostra tensione razionale e paralizzarci, perché ci si presentano coi colori dell'infanzia e può quindi sembrarci che contengano un residuo di verità naturale, uno stralcio ultimo di paradiso perduto. Ogni paese, in questo senso che riguarda il tempo, la storia, è un paese di frontiera, compiaciuto di esserlo e insieme pervaso dal moto generale a diventare altro; ma qualche paese qua e là, piccolo o grande, lo è di più, in quanto è uscito dal moto generale, e ormai fa frontiera, immobilmente,

anche nello spazio. E d’un viaggio in un paese così ch’io qui racconto, la Sardegna, e del fascino ch’essa può avere agli occhi di chi vi viaggia per essere stata così quasi sempre, sul mar-

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DE

gine del mondo fenicio, e del romano, del bizantino, del’italia-

no medioevale, dello spagnolo, ecc. ecc., con l’eccezione forse di un’epoca preistorica in cui i suoi abitanti impararono per loro conto ad allevare le pecore e a coltivare la terra. Alcuni anni che sono passati tra il momento del viaggio ed oggi non hanno modificato in nulla il carattere di fondo del paese. Poco prima di questa pubblicazione che vuol essere la definitiva del racconto ricavato dai ricordi di quel viaggio, io sono tornato in Sardegna per vedere se non vi si fosse introdotto qualche nuovo elemento che cambiava il significato della sua fisionomia. E vi ho trovato, in effetti, delle novità, ma tutte che riguardano unicamente il turismo e il turista, installazioni nuove

per vacanze, qualche nuovo albergo, qualche nuovo ristorante, qualche nuovo bar, e un po’ di nuovo asfalto sulle vecchie strade. Nessuna novità vi ho trovato invece che riguardi chi vi nasce e vi muore. Non nei rapporti familiari, non nei rapporti sociali in genere, non nei rapporti con la natura, non nei rap-

porti di lavoro o nel lavoro stesso. In questo che è l’essenziale, tutto risponde ancora esattamente all'immagine arcaica fissatasi nella mia memoria dalla prima volta, sicché non ho avuto bisogno di correggerla che in pochissimi particolari di superficie. Ma non c'è da rallegrarsi che un paese non cambi. E io non vorrei che il lettore prendesse il mio testo come un semplice invito al viaggio e ai suoi piaceri. Un viaggio può non essere che un vizio. Può non essere che un’evasione. Mentre l’invito ch’io rivolgo nel mio testo è anche un'esperienza interiore. Sardegna come un'infanzia è il suo titolo italiano, e il suo ritornello. Il che equivale a ricordare che non siamo nati per restare bambini». Nel settembre ’64 prese avvio, presso la Mondadori, la collana diretta da Vittorini «Nuovi scrittori stranieri» [in cui pubblicò opere di Kawabata, Ginsberg, Kluge, Perec, Plath e

storie a fumetti di Hart e Copil] e in ottobre uscì finalmente da

Bompiani l’edizione definitiva di Le donne di Messina. Il ’64 fu anche l’anno dello storico viaggio (il primo di un papa cattolico) di Paolo vI in Palestina; l’anno della morte (a

Yalta) di Palmiro Togliatti; l’anno della pubblicazione di Apocalittici e integrati di Umberto Eco, di L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse e di Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli (che Vittorini segnalò caldamente ai colleghi della giuria del Premio Pozzale con lettera del 27 luglio 1964, che

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tornò a raccomandare, inutilmente, con lettera del 16 luglio

1965 e poi con lettera del 25 agosto 1965: «Caro Antonielli, siccome non posso partecipare alle riunioni del Premio Pozzale (sono in clinica) segnalo a te, come ho fatto già con Guarnieri, il mio giudizio di merito favorevolissimo su Hi/arotragoedia di Giorgio Manganelli. Il libro mi sembra davvero l’unica opera prima degna di rilievo pubblicata in Italia in questi ultimi due anni. Non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione di dare al Pozzale il merito di averla premiata»; l’occasione non venne colta, e Vittorini mi disse: «con le giurie dei premi ho chiuso»). A cavallo tra novembre e dicembre del ’64 scrisse, a proposito della sua malattia, che aveva ripreso a progredire, una lettera a Maurice Blanchot; autografa, scritta in francese (la tra-

duzione è mia): «Caro Maurice, è dall’anno scorso che ho dentro la voglia di scrivervi e non arrivavo mai a farlo. La difficoltà che ho sempre provato a scrivere lettere (soprattutto a scriverle in una lingua diversa da quella con la quale parlo con me stesso) è diventata quasi un’impossibilità quando è cominciata questa malattia che mi ha tenuto a letto tutta l'estate dello scorso anno. Una malattia come questa è un’esperienza che non lascia le cose al punto in cui le ha trovate. Produce una regressione. Preciso: una regressione dell’intelligenza; che è una regressione “storica”, una regressione ad uno stato d’intelligenza che, come quello del sogno, non appartiene all’età storica, alla cultura nella quale vivo abitualmente, ma ad una molto più antica. La nostra psicologia può regredire di secoli quando siamo malati. Così seriamente malati. O seriamente colpiti, in ogni caso, da qualcosa di grave, che ti butta a terra. E sono sempre stato consapevole durante la mia malattia che avveniva in me una regressione fino a questo

stadio della mia psicologia, a questo modo di pensare e di sentire che Auerbach ha chiamato creaturale (creaturlich) nelle sue analisi della letteratura del medio evo, e che certamente esiste ancora in tutti noi, barriere represse ed inerti, detriti inerti in mezzo a tutti i detriti inerti dei vari “momenti storici”, delle

“varie storicità” , di cui è composta la parte inattuale, non contemporanea, o altrimenti detta (da “Paris-Match”, per esempio)

eterna, di questo mosaico continuo-discontinuo della nostra personalità. Si prova un gran disgusto quando ci si accorge di

tutto questo: riscoprire la pietà per se stessi, l’impietosirsi come

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creatura, come figlio di Dio, immagine mortale del Cristo immortale sulla sua Croce. Posso anzi dire che ho capito d’essere seriamente malato proprio nello scoprirmi immerso in questo stato arcaico dell’intelligenza. Ma ne ho avuto subito disgusto. E la voglia nello stesso tempo di parlarne con i miei amici, come se soltanto mediante questo io potessi sperare di non restarne

posseduto. Ma mi sono accorto che non potevo parlarne con uno qualsiasi dei miei amici. Con uno c’era pudore, con l’altro c’era sospetto o troppa ambiguità. (E difatti ho potuto parlarne solo un poco con Dionys). Tutto il tempo ho pensato a voi come la persona ideale alla quale avrei potuto dire quello che provavo. Come vedete, era davvero profonda la voglia che ho avuto di scrivervi per tutto un anno, e se oggi non vi scrivo che di questo, è perché sono ancora ossessionato dalle mie difficoltà e impossibilità. O era solo l’imbarazzo di fronte all'atto meccanico dello scrivere provocato dalla necessità di esprimermi in francese con gli amici più cari? Ginetta, partita da qui ieri, ora è a Parigi, e io sono un po’ con lei. Voglio dire che vorrò avere l'impressione, quando lei sarà rientratata a Milano, d’avere un po’ vissuto io stesso insieme a voi tutti. Ma non avremo parlato

della rivista [«Gulliver»]. E io proprio come voi e come Dionys, sento sempre di più che è indispensabile farlo. Dopo il numero di prova internazionale, non ho potuto preparare nessun altro numero di “Menabò”. Non ho potuto neppure più intervenire nelle discussioni letterarie italiane. In realtà mi sembra quasi privo di senso ormai entrare in un discorso che non si inquadri nella ricerca internazionale. Ma Einaudi è diventato un po’ troppo prudente. Si defila. Dice che vuole aspettare un momen-

to più adatto. D'altra parte, temo che siamo poco numerosi nel

sentire la necessità della cosa. Bisognerà fare ancora parecchi sforzi». Nell'estate del 1965 (l’anno del viaggio di Paolo vi a New York per il discorso alla sede dell'Onu, l’anno del primo suc-

cesso in Francia di Frangois Mitterand — De Gaulle ottenne la conferma alla presidenza, solo dopo un faticato ballottaggio con lui), Vittorini fece il suo ultimo viaggio, in Sardegna, in luglio; al rientro dalla Sardegna passò qualche giorno nella casa del fratello Ugo alla Quercianella di Livorno; poi fu ricoverato, per cure cobaltoterapiche, nella clinica Sant Ambrogio di via Faravelli, dove continuavano ad arrivare gli echi dell’intervista sulle «due culture» che aveva concesso il 5 febbraio a

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«Paese Sera»; ne riferisco una lapidaria affermazione: «La classe politica è oggi in tutto il mondo impregnata di umanesimo tradizionale. Tutti i suoi difetti di settarismo o di moderatismo, di rigorismo o di lassismo, e tutte le sue efferatezze sia in senso di intransigenza ideologica che in senso di compromesso sedicente realistico, come anche il suo moralismo nei due sensi, non sono che dei pregiudizi, anzi dei preconcetti

umanistici [...)] Gli scienziati hanno fatto la bomba H e l’hanno data in mano ai generali, che sono degli umanisti». In clinica usava, per continuare il viaggio nella vita, il lavoro svolto con la mia collaborazione (gli portavo pratiche e ne registravo opinioni e suggerimenti) e il telefono; il concerto telefonico tra la sua voce e le voci altrui (tutte le voci degli altri quasi coagulate in una Voce) gli suggerì l’idea di un nuovo romanzo orchestrato su un dialogo a distanza, di cui sono rimasti alcuni appunti; ne trascrivo due:

1. «Io quasi non so se parlo o se soltanto penso, e se è che parlo con altri, magari al telefono, o se invece non parli che, per un magnetofono, con me stesso. Voglio dire, io nella solitudine mi ci butto dentro, scavo e mi ci butto, e anche me ne ricopro, e così sono in una stanza, in una febbre, in un letto di ferro, ma odio di trovarmici, di sentirmela addosso. Io odio di

non avere che da mugugnare. Lo odio, lo odio. Quello che mi piace è il contrario: in cantiere, oppure discutere quando eravamo in cinque o sei anche da arrabbiarci. Un ponte che costruivamo su barche prima che il giorno spuntasse, un treno che portavamo oltre il ponte». 2. «Finalmente ti raggiungo dopo che ti ho fuggito. Pronto? Pronto? Ma sì che sono io [...] E volevo dire che ho quello che ormai mi occorreva: un luogo remoto da te in cui esserti vicino, ed esservi solo con te senza che tu vi sia. Sono oscuro?

È questo luogo che è oscuro, senza nulla che io ne veda, o ne senta, tranne l'apparecchio da cui ti parlo, che è stato lungo da trovare e anche poteva non esserci. Perché fino ad ora non c’era che letto a sinistra e a destra, la sua superficie, la sua su-

perficie e d'improvviso lo scoscendimento, e vuoto, in su e in giù, comunque il braccio si allargasse, e tubature in ferro intorno a cui salire e discendere col dito. Sì, tubature. O meglio sbarre; se vuoi, una specie di canneto che abbia intorno, di

ferro. Dov'è allora che sono?» In clinica continuò a leggere a scegliere testi (di antropologia,

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st

filosofia, estetica, politica, semiologia) per la collana einaudiana «Nuovo Politecnico» (nella quale, tra il ’65 e il ’66, uscirono opere di Jan Myrdal, Robert Havemann, C.S. Silberman, Walter Benjamin, C.P. Snow, Josuè de Castro e Roland Barthes); per

convincere Barthes ad accettare di pubblicarvi i suoi Elementi di semiologia, Vittorini, il 19 dicembre, scrisse una lettera all’a-

mico francese: «so che vi opponete alla pubblicazione in Italia di Elements de serziologie nella versione apparsa in “Communications” 4. Lo so dalla casa editrice Einaudi che desiderava e ancora desidera molto pubblicarlo. Non entro nel merito della vostra decisione. Ma mi permetto d’insistere. In questo senso: l’opera sarebbe inserita in una collana non accademica [...] una specie di rivista per volumi. Vi sarei molto riconoscente se voi potreste cambiare la vostra decisione [...] mi occupo molto da vicino di questa collana». Barthes si convinse: e volle dedicare l’edizione italiana del libro a Vittorini. i Vittorini non morì in clinica, morì nell’abitazione di viale Gorizia 22, il 12 febbraio 1966, tre giorni dopo aver sposato, per un desiderio coltivato a lungo, Ginetta Varisco. I funerali si svolsero in forma civile, ma sul carro funebre Ginetta volle che

fosse ricollocata la croce che il fratello Ugo aveva rimosso. Fu sepolto al Cimitero Monumentale, nella cappella della famiglia Merz, per affettuosa disponibilità del nipote Roberto. Ginetta gli sopravvisse fino al 1978; venne sepolta a Concorezzo, vicino

a Monza, nella tomba della famiglia Varisco e (per decisione presa da anni da Elio e Ginetta assieme) le spoglie dello scrittore furono trasferite accanto alle sue. La zia Peppina Sgandurra venne a mancare nel ’69, il padre Sebastiano morì ottantanovenne il 16 febbraio del ’72. La villa con gruppo di case di contadini, acquistata a Valdiperga nel ’61, fu venduta dal fratello Ugo e dagli eredi nel ’67. Il fratello Ugo morì nel ’71; dei suoi tre figli: Lucia (alla quale Elio e Ginetta avevano regalato il vestito delle nozze) è morta nel 1980; Jano (Sebastiano), geologo, ricercatore del Cnr, insegna all’Università di Pisa; Ettore, giornalista, coordina la reda-

zione fiorentina del «Corriere della Sera». Albe Steiner, l’amico e il grafico del «Politecnico», è morto durante una vacanza in Sicilia, a Raffadali (il paese di Salvato-

re Di Benedetto), nel 1974. Aldrovando Aldrovandi, il diretto-

re della libreria Einaudi milanese che per anni fu il luogo degli incontri preserali di Vittorini, è morto nel 1988. Vito Camera-

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no, moschettiere dei «Gettoni» e curatore dell’edizione postuma di Le città del mondo, è morto a Milano nel maggio 1989. Simona Mastrocinque, moglie di Giusto, ha sposato in seconde nozze il pittore Robert Carroll; il figlio di Giusto e Simona, Tommaso Vittorini, compositore e direttore d’orche-

stra, vive tra l’Italia e gli Usa. La sorella Jole vive ancora a Siracusa e il fratello Aldo vive ancora a Barletta. La prima moglie di Elio, Rosa Quasimodo, vive a Messina.

Il secondo figlio di Rosa e Elio, Demetrio (Mitia), laureato in lingua e letteratura inglese, traduttore dall’inglese e dal russo,

dopo aver insegnato in varie università (in Irlanda, nel Galles e in California), vive ora a Lugano. Le carte del «fondo Vittorini» sono state date da Demetrio «in affido» all'amico di suo padre Carlo Bo, rettore magnifico dell’Università di Urbino, e presso l’università sono cominciati da poco il loro riordino e la loro catalogazione.

Il funerale di Vittorini venne rievocato da Carlo Bo nel finale di un articolo del «Corriere della Sera» (12 febbraio 1986): «Vittorini aveva una sua religione tutta umana ma pura, piena

di fede nel miglioramento, nel progresso spirituale, insomma in qualcosa che non fosse soltanto prestigio o convenienza. Dava alla vita un’altra luce. Risento il suo dolore e il suo smarrimento al ritorno dai funerali civili di una sua cognata. Vittorini si ribellava all’idea che tutto potesse essere consumato in un puro atto meccanico di ragioneria. Lo ricordo e l’ho ricordato poi quando in quella gelida e nebbiosa mattina di febbraio lo abbiamo accompagnato al Monumentale: erano gli stessi funerali anonimi, lo stesso sgomento. Il furgone correva e dietro di lui lo seguivano a fatica le macchine degli amici, era una sequenza degna di Charlot o di René Clair. Così correva via dalla sua casa di viale Gorizia uno degli scrittori che più erano stati amati e discussi negli ultimi trent’anni, uno scrittore da leggere come “la grande eccezione”, uno scrittore vivo e preoccupato della vita di tutti». «Sono poco credente» aveva scritto Vittorini a Piccioni nella

lettera del 20 dicembre ’54, che ho già trascritto, «ma sempre più mi persuado che quello che mi aiuta in ogni circostanza sia semplicemente cristianesimo». E a me confessò: «Non posso dirmi credente, ma neppure ateo; l’ateo è un “positivista volgare” che ignora Cristo (che è storia, cultura e cambiamento del

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mondo), che ignora Francesco d’Assisi (che è autentica fraternità, vissuta non a livello familiare ma sociale), che ignora Dani-

lo Dolci (che combatte la sopraffazione d’ogni potere con la non violenza cristiana). Io ho accusato, quand’era necessario, la

Chiesa istituzionale di avere giustificato, o addirittura praticato, l’autoritarismo, la prevaricazione e la discriminazione; ma non potrei dirmi anticlericale, e questo per rispetto dei vescovi e dei preti che si sono battuti in difesa degli oppressi, degli emarginati, dei paria. Bisogna giudicare e vivere in base a verità concrete, a libertà concrete, a speranze concrete, a fraternità concrete» (IN). In un numero di «Politecnico» (il 13-14 del 22-29 dicembre ’45) Vittorini celebrò il Natale, come festa della nascita di Cristo, ma anche come festa della rinascita dell’uomo, come fe-

sta dell’utopia fraterna; nell’articolo di fondo dichiarò, con slancio testimoniale indubbiamente «religioso»: «la nascita di Cristo e del Cristianesimo ha, di fronte alle rivoluzioni che sono venute dopo, la superiorità di un valore simbolico veramente valido fra tutti gli uomini [...] Questo io vedo nella nascita del Cristianesimo, questo vedo nel Natale: l’unità simbolica delle rivoluzioni [...] Il Natale è l’unico giorno che gli uomini di buona volontà hanno in comune con gli uomini di cattiva volontà. E avere pace e comunione, per un giorno, anche con le più nere caro-

gne della società umana, significa credere in un tempo in cui vi sarà comunione senza che più vi siano carogne». Della simbolicità del Natale cristiano e della propria affezione per quella festa, Vittorini discusse spesso con i suoi amici francesi «atei» e «anticlericali»; in una lettera a Dionys Mascolo del 21 dicembre °49 ribadì: «mi piace il Natale con le feste che seguono in quello che hanno di vero come tentativo degli uomini a farsi compagnia, e ti scrivo per mandarvi i miei auguri, a Marguerite, a te, al piccolo, agli amici (a Robert soprattutto) con il piacere di mandarveli, né mi importa nulla della smorfia con la quale tu potrai riceverli. È menzogna? È vita nella menzogna? Non lo credo affatto».

Ha testimoniato il servita padre Camillo De Piaz, in un'intervista a cura di Spectator (pseudonimo del francescano Nazareno Fabbretti), pubblicata in «L'Europeo» del 23 gennaio 78: «Di Vittorini sono stato prima di tutto un lettore. Conversazione

in Sicilia, per me, come per tanti altri della mia generazione, fu una profezia, uno stimolo, un'illuminazione in definitiva anche politica. E già prima di conoscerlo mi legava a lui, oltre che la

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lettura, il fatto d’avere in comune alcuni interlocutori e amici determinanti, come Curiel. Sulla morte di Curiel, Vittorini scrisse su “l'Unità” clandestina, un articolo indimenticabile. Duran-

te la Resistenza, al Fronte della gioventù si collaborava spesso, ma senza conoscerci: era una regola e una misura di prudenza.

Altro interlocutore comune fu Felice Balbo, che però non lavo-

rava a Milano. Talvolta ci veniva per portare di persona a Vittorini qualche suo articolo per “Politecnico”: lo leggevamo prima insieme. Vittorini accostò in quegli anni anche i “cattolici comunisti” di cui Balbo era una delle intelligenze più rappresentative. Erano gli anni dell’“Uomo”, la rivista ospitata, anzi nata nel no-

stro convento di San Carlo, dove poi avrebbe avuto spazio e vita la Corsia dei Servi. C'erano Romanò, Bontadini, Apollonio, Santucci, Turoldo, e qualche volta anche Mazzolari [...] Quan-

do gli si ammalò gravemente Giusto, il figliolo maggiore, Vittorini mi telefonò. Vittorini fu sempre attentissimo e di una rigorosa onestà nei confonti del problema religioso e dei cattolici. A questo rispetto totale corrispondeva, però, da parte dell’uomo di cultura, una critica radicale nei confronti della Chiesa. Fu per rispetto a suo figlio che Vittorini mi chiamò, proprio come prete. Sensibilissimo, la malattia accentuò, maturò e fece esplodere in Giusto una tensione religiosa profondissima. Dal padre aveva avuto l’estrema serietà d’ascolto e di partecipazione nei confronti della libertà e della coscienza altrui. Giusto procedeva nella ricerca religiosa, oltre che per una straordinaria sensibilità psicologica, soprattutto per risolvere il problema del battesimo del bambino avuto da Simona. Era giusto battezzarlo o no? Ma

che battesimo sarebbe stato, e cosa significava per un bambino che sarebbe cresciuto con un padre agnostico? Aveva finito per farlo battezzare, e questa decisione aveva accentuato ulterior-

mente in lui il problema della fede. Così, quando Vittorini mi chiamò, trovai un uomo che nel battesimo del figlio era completamente coinvolto per un sommovimento totale di natura religiosa. Questo proprio mentre, con lucidità e serenità grandi,

stava già facendo i conti con la morte [...] Tra padre e figlio c’era un estremo pudore, molti silenzi, una tenerezza virile di cui raramente ho visto l’eguale. La stessa, per intenderci, che si stabilì sostanzialmente tra Giusto e me: Vittorini ci era sempre totalmente vicino, partecipava in silenzio, ma con un'attenzione

qualche volta addirittura struggente. È stato in quel periodo, accanto al letto di Giusto, che mi sono convinto di ciò che avevo

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sempre intuito: che Vittorini era, sostanzialmente, un grande

spirito religioso. Il suo discorso sul Natale «cosa di tutti», pubblicato sul “Politecnico”, ne fu una prova. Varrebbe la pena di riandare a leggere quella riflessione natalizia del laico Vittorini. Accanto al letto di Giusto, e anche dopo in casa sua, ho avuto

di lui un'immagine molto diversa da quella dell’uomo pubblico conosciuto dai più. Un ragazzo, ecco che cos'era a tu per tu; un ragazzo pensoso e festoso insieme, sempre proteso verso gli altri, senza preclusioni. Un vero cristiano, dunque, se si può dirlo

al di fuori di qualsiasi intento apologetico e annessionistico. Del resto, anche la sua condizione e funzione di demiurgo culturale lo conferma: lui ha sempre cercato di scavare e tirare fuori dal futuro ciò che deve venire, ciò che deve nascere. Viveva, a ogni livello, per gli altri, al di là della fede precisa ed ecclesiastica. Il suo era sempre un “esser per”. E colpiva soprattutto la sua trasparenza, sia che discorresse di cultura, sia che accettasse, con

risate memorabili e abbandoni appunto da ragazzo, di fare una rimpatriata con gli amici. Lui che aveva addirittura i crampi allo stomaco se doveva parlare in pubblico, in quei momenti d’abbandono andava a ruota libera. Anche in una serata di festa tra amici era sempre lo stesso, capace di spendersi tutto per gli altri. E poi la sua discreta, ma appassionata e incuriosita solidarietà con noi preti e cattolici, alla Corsia dei Servi, nel 1957, durante la “missione di Milano” voluta dall’arcivescovo Montini. C'erano Mazzolari, Turoldo, Balducci, e certe sere ci si ritrovava

alla Corsia a tentare il bilancio d’un esperimento pastorale che in quegli anni ci dava speranza. Nemmeno in quei giorni Vitto-

rini era entrato in chiesa ma durante quelle sere partecipava alla nostra euforia come uno di noi. E una sera, ricordi? Fu con noi

per le strade di Milano, con un fiasco in mano, a ridere e bere tutti come ragazzi matti. Quella sua allegria è sempre stata per me la spia dei suoi interessi più profondi, di quelli magari più coinvolgenti e taciuti [...] Ma non posso dimenticare i suoi incontri con la morte, e la sua pienezza umana in quei momenti.

Prima di tutto quando morì Giusto. Sul suo letto di morte io ne avevo benedetto le nozze con Simona. E Vittorini non ci abbandonava mai. Ricordo che un giorno, all'improvviso, arrivò l’arcivescovo Montini e si gettò in ginocchio accanto al letto a confortare il moribondo. Quando alla fine Giusto perse conoscenza, Vittorini mi abbracciò, piangendo a lungo, piano. Ma nemmeno allora vinse il pudore che copriva i suoi interrogativi

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sulla morte e sulla fede. Poi, purtroppo, toccò a lui. Io intanto ero già stato trasferito a Madonna di Tirano, dopo la chiusura momentanea della Corsia dei Servi. Sapevo che Vittorini non

stava bene; poi seppi che aveva un tumore anche lui e che sarebbe durato poco. Lo trovai disfatto, giallo, cadaverico. S'illu-

minò, mi fece la festa di sempre. In me, lo aveva dimostrato in molti modi, non sentiva il clericale, si era sempre trovato a suo agio. Proprio per questo fra noi c'era sempre sottintesa una par-

te di vita che non aveva bisogno di discorsi. Per questo, anche in quei momenti, non mi disse nemmeno una parola, e io neppure, sulla fede. Trascorremmo molte ore, in quei giorni dolorosi, senza mai osare una parola esplicita. D'altronde verso la fine non era più in grado di parlare o reagire in qualche modo. Devo sentire rimorso d’avere taciuto sino all'ultimo, tenendo nella

mia la mano dell’amico che si stava spegnendo? La sua morte è stata per me, uomo e prete, la prova più efficace di come si possa vivere in amicizia anche l’attesa della morte. Tutto il resto,

anche per me, era davvero sottinteso. Non dimenticherò, pochi giorni prima che morisse, la scena della cassata. Era una grande cassata che gli avevano mandato dalla Sicilia, ma lui non poteva neanche assaggiarla. Allora volle che la mangiassi tutta io. Era una cassata enorme, e per Vittorini fu un godimento vedermela mangiare tutta, come in una specie d’immedesimazione. Quasi un simbolo di quella che era stata la sua vita, cioè la costante ca-

pacità di travasarsi totalmente negli altri». Per completare la testimonianza di Camillo De Piaz, riproduco qui il brevissimo capitolo 119 del mio libro Le parole del padre: «Prima di morire, Elio, con commossa cautela, chiese a De Piaz se voleva confessarlo: Camillo non cedette alla tentazione;

si limitò a benedirlo. De Piaz, come scrisse a Ginetta dopo il funerale, era convinto che fosse più importante vivere (che morire) da cristiano; e a suo giudizio, Elio, che aveva rispettato sem-

pre l’amore e la libertà, era vissuto da cristiano».

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IL MENABÒ, LE DUE TENSIONI, LE CITTA DEL MONDO, IL ROMANZO DI MILANO

Nei suoi 10 numeri (pubblicati tra il ’59 e il 67) «il menabò di letteratura» («abbozzo, prova, schema di impaginazione»,

richiamava il titolo, e subito suggeriva l’immagine di un discorso culturale da sottoporre a continua verifica) ha costruito un dibattito progressivamente provocatorio sulla crisi e la rifondazione dei progetti culturali a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta. Nell’intervista guidata da Roberto De Monticelli (la stessa dell’opinione già riferita su I/ gattopardo), il 24 febbraio ’59 (su «Il Giorno»), così Vittorini inquadrava, anti-

cipandone il percorso, il lavoro della rivista-collana (collana, perché intendeva presentare anche testi narrativi, poetici e saggistici che potevano fare corpo a sé e, in prospettiva, diven-

tare libri): «Con Einaudi per editore. Con Calvino per condirettore. E sarà un po’ speciale. Di testi letterari (narrativi, poe-

tici o teatrali) tutti piuttosto lunghi, che possano dare un’idea completa della personalità (al momento) di chi li ha scritti. Un paio di testi per numero. È accanto a ogni testo un saggio critico (concertato in sede di direzione) che tratti non già del testo stesso ma del problema o della tendenza che il testo coinvolge. Più qualche nota redazionale. E vorremmo riuscire a trovare il rapporto con la storia e ripristinarne insieme uno con la natura: dei testi capaci anche di ricordare che il primo

dovere degli uomini è di essere felici. (Questo non per se stes-

si, naturalmente. Ma nella storia e di fronte ad essa, di fronte al genere cui apparteniamo. Come il sole, per esempio, ha il

dovere di splendere e produrre calore. Mica è per sé, nel risultato. È per gli altri). Se poi non riusciremo a trovarne, di testi in questo senso, avremo almeno documentato l'impossibilità attuale di averne».

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I testi narrativi esemplari del debutto furono:I/calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi (numero 1): «Mastronardi è il Balzac d’un mondo di calzolai, che si affannano [...] o meglio ne è il Gogol, tanta è la forza e la spietatezza della sua allegria caricaturale»; rappresentazione di un mondo alienato, «di pura economicità», il romanzo di Mastronardi introduceva al tema «industria e letteratura» che sarà analizzato nel numero 3;

I giorni della fera di Stefano D'Arrigo («epopea di pescatori messinesi alle prese coi delfini»), il romanzo-matrice del celebrato e discusso Horcynus Orca che uscirà nel ”75 (sul testo menaboiano la Mondadori, detentrice dei diritti dell’opus magnum di D'Arrigo in fase di iniziale gestazione, svolse le tratta-

tive anticipate della cessione dei diritti internazionali): «Quan-

to ora pubblichiamo di lui» scrisse Vittorini, presentando D'Arrigo (nel numero 3) «non è opera compiuta [...] ritengo

possa essere soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio [...] che Gadda e Pasolini ci abbiano dato opere di primordine (e che questo D'Arrigo stia fabbricando un’opera forse pur essa di primordine) con una materia linguistica fondata su dei dialetti meridionali [...] non toglie che i dialetti meridionali siano di per sé poco raccomandabili [...] essi sono tutti legati (dal passo della Futa in giù) a una civiltà di base contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica»; così Vittorini riprendeva il tema di «Parlato e metafora» (su dialetto e lingua) del numero 1, innestandolo sul discorso della «lingua nuova» e dell’«etica nuova», con cui affrontare l’analisi del «nuovo mondo materiale» prodotto dalla civiltà scientifico-tecnica («storia nuova» diventata «natura nuova»), e sarà il discorso dei numeri 4, 5, 6, 8. Ma anche i testi in versi del numero 2 (La raccolta del fieno di Ro-

berto Roversi, L’Appennino contadino di Paolo Volponi, La ragazza Carla di Elio Pagliarani) mettevano in scena il confronto-scontro tra civiltà contadina e civiltà industriale, per introdurre l’analisi del passaggio (non sempre traumatico) dall’una all’altra civiltà. E il saggio di Calvino nel numero 1, «Il mare dell’oggettività», è il primo segnale d’allerta sui rischi di «reificazione» prodotti dall’«innovazione». Non è l’ottimismo ad

oltranza verso i processi di modernizzazione quello che muoveva la ricerca de «il menabò»; da una parte Vittorini stigmatizzava nel saggio «Industria e letteratura» (del numero 4), la

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PRORE PRATT to

«sfiducia “umanistica” verso le cose nuove», dall’altra, però,

avvertiva che il «mondo industriale, che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello “naturale”, è ancora un mondo che non possediamo e ci possiede»: nel numero 4, in ogni caso, il testo narrativo di Ottiero Ottieri (Taccuino industriale) e i testi in versi di Vittorio Sereni (il poemetto Una visita in fabbrica) e di Giovanni Giudici (la raccolta di poesie Se sia opportuno trasferirsi in campagna) suggerivano, più che cautele, terapie del pessimismo; Ottieri: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente»; Sereni, trasfor-

mando il suono della sirena della fabbrica in metafora del rapporto tra presente e futuro: «Riecheggia nell'ora di oggi / quel rigoglio ruggente dei padroni: / sul secolo giovane, / ingordo

di futuro dentro il suono in ascesa / la guglia del loro ardi-

mento... / ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante / stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi, / di sordo malumore che s’inquieta ogni giorno». Nel numero 5, del luglio ’62, «il menabò» avviava il confronto con la neoavanguardia italiana che, allevata nella rivista «Il Verri» di Luciano Anceschi, stava per istituzionalizzarsi,

durante il convegno palermitano dell’anno dopo, in Gruppo "63: il confronto (l’incontro-scontro) iniziò con tre saggi di Francesco Leonetti («Un supplemento di società»), di Calvino («La sfida al labirinto»)

e Umberto Eco («Il modo di forma-

re») e con due note di Vittorini («Comunicazione a Formen-

tar») e del sottoscritto («La trasformazione di realtà»), che in-

corniciavano i testi in versi e in prosa di Edoardo Sanguineti

(l'oratorio Purgatorio de l'inferno e ventidue capitoletti del romanzo Capriccio italiano, che sarà pubblicato da Feltrinelli nel 63 — nella presentazione dei testi di Sanguineti a firma Eco si leggeva: «A chi accusava la sua poesia di essere testimonianza di un esaurimento nervoso, Sanguineti ha risposto che essa testimoniava piuttosto un esaurimento storico»); dalla nota di Vittorini: «La letteratura ha sempre più bisogno di spostarsi

dal piano della consolazione, dal piano della direzione di coscienza, dal piano della religione, su cui oggi ancora agisce

purtroppo per tanta sua parte, a quello opposto delle verifiche, delle approssimazioni determinanti, delle contestazioni feconde, delle illuminazioni operative, e insomma della scien-

za. E le opere della cosiddetta bella letteratura, le opere che

non hanno altro valore che quello di abbellire la nostra vita e

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di cullare i nostri dolori, sono appunto opere che intrattengono la letteratura sul piano rituale, celebrativo, o tutt'al più

consolatorio, della religione»; dalla mia nota: «L'avanguardia letteraria di oggi (quella dei ripetitori del “nouveau roman”,

quella dei poeti e narratori cosiddetti “informali”) non svolge quella funzione di rappresentazione spettrale della realtà che è

stata la grande scoperta di Kafka: questa funzione è svolta, semmai, dalla letteratura fantascientifica (da Orwell a Golding, da Huxley a Szilard) che appunto riassorbe la paura e l'angoscia, coi loro residui irrazionalistici, in una prospettiva utopica o allegorica. E i “cent milliers de poèmes” di Queneau, i libri “mobiles” vagheggiati da Butor, il “tachisme linguistico” di Arno Schmidt sono intelligenti, ma sembrano per lo più gratuite bizzarrie [...] Per questa strada l'avanguardia corre, anzi, il rischio di giungere a portare sulla scena la farsa, immaginata da Hebbel, della “virgola che si mette in frac”». Il dibattito su «letteratura e industria», che altro non era che lo sviluppo del dibattito su «letteratura e realtà», con analisi del senso della realtà e della sua negazione («la poesia del “negativo” è necessaria ad una progettazione positiva del mondo» annotò Vittorini) proseguì, poi, nel «menabò 6» con uno scambio di lettere tra Calvino e Angelo Guglielmi, con il saggio «Il

male invisibile» di Pietro Citati, il saggio di Guido Guglielmi «La contestazione di Alain Robbe-Grillet» e il saggio «La negazione in letteratura» (esame dell’opera di Maurice Blanchot) di Francesco Leonetti; questo saggio di Leonetti fece da ponte al numero 7 della rivista-collana, dedicato (come s’è già ricostruito) al progetto «Gulliver» (in cui autorevoli scrittori europei, tentarono, mettendo «in comune la loro solitudine intellettuale, i loro dubbi, le loro domande», come ha chiarito An-

na Panicali, una meditazione «sul “potere senza potere” del

linguaggio»). Il confronto con la neoavanguardia proseguì col numero 8 orchestrato su due saggi di Leonetti e Mario Spinella, ma soprattutto su un nutrito gruppo di testi di Volponi, Sanguineti, Carla Vasio, Manganelli, Pagliarani, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Enrico Filippini, Alice Ceresa, Valerio

Fantinel; nella presentazione Vittorini scrisse: «Paolo Volponi, nel confronto con tutti gli altri, sembra appartenere ancora al momento di quando c’era solo “Officina” che contrastava [...] il tripudio restauratorio culminato nel Gattopardo. [Ma] l’avanguardia non è per noi un incontro che sospenda ogni altro

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tentativo (o residuo) di discorso». Il discorso del numero 9 (dedicato alla letteratura tedesca) non era fuori del percorso

esplorato fin lì; nel saggio di presentazione («Letteratura come storiografia») Enzensberger annotava: «la storia tedesca è diventata loquace nei particolari. Atti, memorie, testimonianze oculari, protocolli, fotografie, statistiche, interviste, films, inchieste, perizie, nastri registrati, reportages annotano questi

particolari [...] la fiducia nel documento è cieca; scambia l’autenticità per la verità [...] Gli scrittori partecipano di questo dubbio e lo rendono produttivo. Devono misurarsi con la storia tedesca, ormai priva di linguaggio». Il problema restava: interpretare la storia attraverso il linguaggio, scoprire le realtà attraverso il linguaggio, reinventare le realtà attraverso le metafore. Il numero 10 avrebbe dovuto riprendere l'esplorazione del «mare dell’oggettività» e del «mare dell’immaginazione» attraverso un gruppo di testi teatrali (di Testa, Balestrini, Giuliani, Lombardi, Spatola, Gozzi, Scabia ecc.), in parte già rac-

colti: la scrittura teatrale era una delle scritture con cui Vittorini si era più volte cimentato; l’affascinavano le sue risorse di drammatizzazione. Ma Vittorini morì e «il menabò 10» venne dedicato, in memoria, al suo percorso di scrittore e di intellettuale.

AI primo libro di Vittorini pubblicato postumo fu dato il titolo Le due tensioni. Il testo autografo fu trascritto, con puntigliosa acribia, da Vito Camerano e il volume fu curato, con scrupolo filologico, da Dante Isella. Il volume apparve nella collana «La cultura» (saggi di arte e letteratura) de Il Saggiatore nel novembre del ‘67. Nell’«avvertenza» Isella scrisse: «Titolo e sottotitolo di questo libro non sono dell’autore, anche se ricavati alla lettera da uno dei capitoli più centrali, topograficamente il primo, della sua riflessione; e vorrebbero indicare,

per metafora, la tensione dialettica sottesa ad ogni pagina, il ritmo stesso del suo pensiero, subordinatamente la finalità ultima verso cui punta: la quale, non importa l’occasione donde si parta (il compasso degli interessi, come sempre in Vittorini, sembra descrivere un angolo giro: dalle arti alle scienze, privi-

legiate la linguistica e la sociologia, e dalla filosofia alla politica), è la sfera 0, meglio, il pensiero e la passione dominante della letteratura, anche dove, forse soprattutto, dalla denun-

ciata condizione di crisi del rapporto che essa intrattiene con

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la società in sviluppo se ne pronostica o se ne sconta già pros-

sima la fine. Valore non metaforico invece, né accezione squisitamente letteraria, ha il termine “appunti”, che definisce in senso meramente archivistico lo stato delle carte: non opera organica, dunque, s'intende nella sua struttura fisica, né libro

concepito come tale, ma documenti superstiti di una medita-

zione ininterrotta, ora fissata per accenni ora perseguita, con

correzioni e riprese, in graduali approssimazioni all’oggetto della propria indagine: sempre, però, come risulta evidente dai manoscritti, pagine cresciute l’una sull’altra, circa gli anni 1961-1965, al di fuori di ogni preordinato piano di lavoro, tanto più di una prospettiva editoriale immediata. Unica linea la spirale della stessa ricerca, mossa da un innato, inappagabile bisogno di rimetteré tutto quanto in forse, di ripartire senza pigrizie [...] Queste carte [...] non esauriscono a nostro avviso

il loro significato in un ambito strettamente personale; benché, trattandosi di uno dei più animosi e animanti protagonisti della cultura letteraria italiana del nostro tempo, basterebbe anche solo tale aspetto a fornirci una giustificazione più che sufficiente [...] più che del monologo, sia pure con larghe implicazioni generali, questo libro tiene del dialogo appassionato, del colloquio aperto, non diversamente da quello condotto in altri anni dai fogli del “Politecnico”». Il sottotitolo del volume fu «appunti per una ideologia della letteratura»; nel manoscritto vittoriniano la dicitura sul foglio 1 era «schema teorico 2 (per una ideologia della letteratura)»; la messa in parentesi credo valesse per Vittorini come sospensione interrogativa; lui, che si definì narratore antideologico ed intellettuale critico verso le ideologie, alla parola «ideologia» era alquanto allergico; forse avrebbe suggerito un sottotiolo tipo «discorso autoritario e discorso congetturale» (altra dicitura del manoscritto), perché le sue due «tensioni» erano innanzitutto contro l’autoritarismo e a favore della congetturalità. Ma certo questo dizionario tematico, questo zibaldone di idee sulla letteratura, l’arte, la cultura, la politica, i processi

d’evoluzione della civiltà e le linee di sviluppo delle società civili che è Le due tensioni non sarebbe dispiaciuto al suo autore; andò a segno Italo Calvino quando scrisse: «Un libro graficamente così insolito [frammentario, asistematico, con frecce,

sottolineature, cerchiature, rimandi a piè di pagina, eccetera] è certo diverso dal libro che l’autore avrebbe pubblicato se

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avesse potuto portarlo a termine; eppure, coloro che conobbero Vittorini e il suo gusto per tutto ciò che anche nella forma testimonia di un processo di conoscenza, pensano che queste pagine accidentate non gli sarebbero dispiaciute, che vi si sarebbe riconosciuto». E escluso che l’autore volesse ricavare da questo brogliaccio un trattato sulla letteratura; ed è improbabile che l’elenco tematico, in una versione da lui curata, sarebbe rimasto quello

documentato dal volume (anche perché molti «appunti», ad un’attenta lettura, risultano matrici di interventi poi pubblicati su «il menabò» e «Gulliver» o di interviste apparse in quotidiani e periodici, quando non furono «tracce» per lettere, ad esempio di quella a Calvino del 20 dicembre ’63 o di quella a Blanchot del novembre-dicembre ’64 che abbiamo riprodotto). Certo il regesto resta un affascinante repertorio di meditazioni critiche, che documentano che Vittorini fu un grande «critico testuale» (geniale nel giudicare romanzi, quadri, film, architetture), ma un teorico debole: e fu, credo, questa debolezza-incertezza teorica a renderlo eccessivamente autocritico

(se non addirittura intimidatorio) nei confronti della propria narrativa. Ma è arrivato il momento di fornire un breve campionario delle «voci» di Le due tensioni e dei testi che le identificano. «Voci»: natura, cultura, autoritarietà, dialettica, avanguardia, alienazione, industria, pubblico, paradiso terrestre, realismo, storicismo, retorica, oggettività, popolo, lingua, Dio, ec-

cetera. Testi: 1. «il rapporto nuovo, qualitativo, con la realtà mutata [...] si verifica (quasi soltanto) in fase di tensione razionale [...] non avviene un mutamento del rapporto letteratura-realtà attraverso una tensione espressivo-affettiva — questa anche nella letteratura, come nella lingua (e malgrado le diversità profonde tra le spinte linguistiche e le spinte letterarie) è in genere un’espansione frondosa del tronco che è la tensione razionale». 2. «da almeno Flaubert in poi (per tutta l'Europa, compresi i grandi russi) la letteratura si espande in senso solo espressivo-affettivo (un’espansione che mangia se stessa) senza più rinnovare nulla in senso di tensione razionale». 3. «la manifestazione (e la riuscita), l’esplicitazione della tensione razionale è nella novità tecnica ch’essa produce — la

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trasposizione letteraria della nuova fisica, la nuova biologia, la

nuova psicologia ecc. non avviene, per es. nel sett.[ecento], a

livello di contenuto: nelle cose narrate, nelle ideologie in esse

contenute, nel discorso storico-sociale o nel filosofico in esse contenuto — ma nella tecnica, nel sistema di relazioni, nella novità di descrizione, di azione, di dialogo ecc. dal punto di vista

tecnico ch’essa mette in opera. Per il sistema ch’è ancora l’attuale, l’innov. tecnica comincia da certi spagnoli, da Cervantes per esempio e va su su per Defoe, e inglesi varii fino a un Goethe a un Balzac e a un Stendhal». 4. «oggi il concetto di spazio è un concetto di relazioni tra corpi (sono queste relazioni a costituire lo spazio, non lo spazio a determinare le relazioni), la pittura ha adottato (già da Cézanne) il nuovo concetto di spazio prima ancora ch’esso fosse formulato (c’è stata una forte tensione razionale nella pittura) — la letteratura si gingilla ancora con l’astratto spazio vuoto (determinante di relazioni) della fisica di Newton o Kant». 5. «a) l’uomo nasce macchina come l’animale e come la natura — b) l’uomo tende a liberarsi attraverso la macchina dei suoi compiti, delle sue attività naturali, di macchina — l’anima-

le resta una macchina — è finito in sé come macchina - l’uomo tende a scaricarsi della sua animzalità e meccanicità (animalità come reccanicità) passandola alla macchina». 6. «in questo soggettivismo, in questa letteratura dove l’io epico coincide col protagonista — in fondo c’è una specie di Dio incarnato — il personaggio che dice io è una reincarnazione del Cristo sempre più sofferente e peccatore — reincarnazione

anche nel vizio e comunque nel peccato — una incarnazione creaturale del Dio creatore — (della coscienza universale della creazione)».

7. «la questione dell’obiettività può sembrare poco importante, poiché dopotutto, in arte, sarà sempre una questione di rappresentazione dell’obiettività, finzione dell’obiettività, e si potrebbe dire che poco importa se, fingendola, rappresentandola, la si assume come un punto di vista generale che coincide con gli occhi dello scrittore (il quale è dato per uno che tutto sappia dell’interno e dell’esterno, del detto e del non detto, dell'avvenuto e del non avvenuto) oppure se la si fa risultare come un incontro di differenti punti di vista personali, una messa a fuoco di elementi pluripersonali integrantisi l’un l’altro e relativi l’uno all’altro — e invece, proprio per il fatto che

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si tratta in arte di rappresentarla, e ch’essa ha luogo non in quanto sia provata e dimostrabile ma in quanto sia rappresentata, è di grandissima importanza proprio e solo il modo di rappresentarla». 8. «la pittura di Cézanne è una tensione che procura solo tensione, sforzo razionale, senza alcun conforto nemmeno ac-

cessorio di piacere, di edonismo, di godimento estetico — piglia chi guarda e lo porta al centro di una operazione — fa di chi guarda un operatore scientifico — immedesima chi guarda con la sgradevole, non distendente, non tranquillante posizione di chi compie una ricerca — ron con la posizione implicante sentimenti di soddisfazione di chi ha compiuto una ricerca e ne ha ottenuto un risultato, ma con quella asciuttamente e impassibilmente tesa di chi la ricerca stia compiendo senza ancora essere in vista di risultati». 9. «Lukacs come teorico dell’arte nel senso del gusto contemporaneo allo stalinismo — (non teorico dello stalinismo in arte — tanto meno del marxismo in arte) — egli ha teorizzato, in un contesto di marxismo generico, (o non generico, poco im-

porta la differenza), il gusto ufficiale dei comunisti e della

classe operaia (come subalterna dei burocrati comunisti) nel

tempo di Stalin e post-Stalin». 10. «la separazione tra le due culture (l’umanistica e la scientifica) non nasce in effeti dalla crescente specializzazione (tensione separatistica per creduta necessità di studio) della seconda — essa nasce molto prima che la seconda abbia cominciato a suddividersi in campi specializzati — a/ mzomzento in cui la seconda ha rifiutato l’antica visione del mondo, criticando-

la, confutandola, fino a postularne una nuova in divenire con-

tinuo». 11. «certo siamo pieni (per curiosità, per inquietudine, per

insoddisfazione, cioè per desiderio di felicità e correlata consapevolezza d’infelicità) di inclinazione a cambiare ma siamo anche pieni di timore verso le possibilità stesse dei cambiamenti = (timore di essere — a causa di ricordi anche ancestrali della nostra storia — più infelici di quanto non siano) — così succede che finiamo per cercare il cambiamento in tutte le questioni e tutti i campi in cui esso non ci espone al pericolo di accrescere la nostra infelicità dovunque esso (il cambiamen-

to) non ha molte e profonde conseguenze, e non comporta un

cambiamento di tutta la nostra condizione — dov'esso non è se-

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rio — mentre invece aborriamo da ogni specie di radicale — lo cerchiamo nel frivolo e nel fittizio nel sostanziale — cambiamo dove non importa cambi, dove non ha nessun effetto profondo che 12. «i segni non sono soltanto indicazioni di

cambiamento e lo evitiamo molto che si si cambi». cose, rappre-

sentazioni di cose, riferimenti a cose, ma soro anche cose —

molto nasce ed esiste perché dei segni di altri lo fanno nascere ed esistere — ciò oltre al fatto che i segni rendono sociali (e cioè trasformano) le cose esistenti — sono essi a fondare le relazioni tra uomini e cose, cose e cose, uomini e uomini».

13. «è un fatto che la critica letteraria paleomarxista (potremmo dir meglio: della stampa comunista di partito e di molta stampa socialista) è sempre favorevole (appena giudichi fuori dal quadro dei suoi aderenti e soutene[u]rs acritici) ai

prodotti conservatori di struttura tradizionale (ottocentesca) anche se di significato ideologicamente reazionario, e sempre contraria ai prodotti di ricerca e di sperimentazione anche se di significato ideologicamente rivoluzionario. Si può tracciare una storia molto istruttiva di questo fenomeno che si verifica soprattutto dalla guerra in poi ma che era potenziale già prima, già ai tempi della guerra di Spagna, ai tempi pur felici in cui Picasso dipingeva Guernica — E in Italia poi: coi Cases (le cui preferenze vanno alla Morante e al Gattopardo o al Dernier des justes) coi Fortini coi Salinari (che poi sono anche crociani e gentiliani) ecc. ecc.»

In fase di trascrizione degli appunti di Le due tensioni, Vito Camerano, ipotizzando un montaggio dei materiali tematici di significato progressivo, avanzò l’idea che lo zibaldone vittoriniano potesse chiudersi con l’appunto intitolato «la negazione come progressiva conquista storica»; è un’idea che faccio mia, riproducendo qui quel breve testo: «è per incapacità di negazione che l’uomo primitivo (nei suoi stadi più arcaici) deifica,

personalizza in potenze divine, ogni forza, sia maligna che benigna, della natura — non sa rifiutare nulla che gli si presenti come più forte di lui e accetta ogni forza fino a dedicare un culto speciale ad ogni forza — per negare, o anche per ridurre, per limitare una forza, egli non sa ancora far altro che ricorrere a un’altra forza e contrapporgliela — tutto avveniva, nella storia primitiva, in funzione consacratrice e sulla base di un

unico potere umano, il potere consacratore — la conoscenza era consacrazione — non si riusciva in effetti a conoscere qual-

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cosa (la morte, la malattia, la follia) se non rendendole sacre,

attribuendo loro carattere sacro — è molto tardi che entra nella storia umana l’altro potere, il dissacratore — il potere che toglie alle cose quello che l’uomo vi ha aggiunto mistificandole — il diaframma che ha posto tra sé e la durezza delle cose (trasformabile solo a patto che quel diaframma sia eliminato) [...] - forse la più grande svolta nella storia dell’uomo è quando egli riesce a concepire (coi greci già tardi, già aggravati da molti secoli di mitologia) il niente, il meno, il vuoto, il contrario, l’antitesi, il no».

Del romanzo Le città del mondo furono anticipati in rivista due frammenti nel ’52 («Veduta di Sperlinga», «La città non visitata»), quattro frammenti nel ’53 («Storia di un uomo e di suo figlio che viaggiavano a piedi per la Sicilia», «Le città del mondo. Frammento di romanzo», «Le città del mondo. I diritti dell’uomo», «I contadini si muovono»), tre frammenti nel ’54

(«La moscacieca», «Viaggio di nozze in Sicilia», «Le meretrici»), un frammento nel ’55 («Allegra, Michela»), un frammento nel ’57 («La signora delle Madonie») e un frammento nel ’59

(«Ritratto dal basso in alto»). La pubblicazione (numero di maggio-giugno) nella rivista torinese «Galleria di Arti e Lette-

re» di uno dei frammenti del ’53, venne introdotta da questa nota anonima, ma di evidente stesura vittoriniana: «Da più di un anno Elio Vittorini sta lavorando ad un nuovo libro. Con questo romanzo, che ha per titolo provvisorio Le città del mondo e che forse finirà per intitolarsi I diritti dell’uomo, l’autore di

Uomini e no ritorna alla sua Sicilia, ma ad una Sicilia in cui i

paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, zolfatari e campieri, sono come vie piazze angoli di una medesima città, e nello stesso tempo è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l’universo, poiché tutto ciò che nel libro viene citato come estraneo all’isola è ancora come se fosse Sicilia. Così i Pirenei, così Gerusalemme e Samarcanda e Tucumàn

e Ur dei Caldei. Ed un episodio della Bibbia è anche un fatto accaduto in Sicilia, proprio come un parlamento di Siciliani radunatosi in un vallone, diciamo delle Madonie e dei monti

Erei, per far festa o cospirare. Una Sicilia che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di oggi, la Sicilia di sempre,

fertile e desolata, isola felice e terra di fame. Così non sarà nelle

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preoccupazioni dell’autore specificare dietro quale bandiera muova l’esercito di pastori e zolfatari, così come non gli importerà il movimento separatista e non lo preoccuperà affatto il fascismo fra le due guerre». E in una lettera a Giuseppe Cintioli del 22 agosto ’53 Vittorini chiariva: «il brano intitolato Le città del mondo, Lei avrà capito, viene prima della Storia [pubblicata] in “Comunità”; ma è un semplice passaggio nella storia

stessa, nei due personaggi di padre e figlio che cercano il posto più adatto a separarsi, ad abbandonarsi — la Storia di “Comunità” è lo scioglimento del loro rapporto — per dar luogo a un altro rapporto — tra il piccolo Nardo e il giovane Rosario. Ma i motivi sono una folla nel libro e non potrei accennarglieli tutti. C'è il rapporto tra Rosario e suo padre, quello tra Nardo e suo padre, poi quello tra Rosario e Nardo, e tre o quattro altri da singolo a singolo che confluiscono in un intreccio di sentimenti generali ora oppressi dalla paura e ora rilanciati dalla curiosità, dall’ardore e dal coraggio. Verso qual esito, quale significato, non saprei dirLe. Il mio interesse è in un senso dialettico tra semplice istinto di sopravvivenza da un lato (comunque adattandosi, comunque subendo) e delle aspirazioni veramente positive (coscienti o no) da un altro lato. Ma confesso che ho certa tendenza a mostrare che l’amore della bellezza è amore della libertà e che insomma libertà e bellezza si identificano. Inclino

infatti a chiamare il libro I diritti dell’uomo, pur non trattandovi d’altro che di conflitti tra uomini che vogliono essere felici e uomini che hanno paura di volerlo essere, e cioè tra l’intrepida ingenuità dei primi e l’avvilente consapevolezza atavica dei secondi (siano oppressi che oppressori)».

Le città del mondo è un romanzo ariostesco con vicende che s'intrecciano in un lungo andirivieni per la Sicilia ed insieme un romanzo cervantesiano, perché incentrato su una serie di

coppie che incarnano il realismo e la fantasia, l’illusione e la disillusione, l’istinto di sopravvivenza e il coraggio di affrontare l’imprevisto, la voglia di essere felici e la paura di esserlo. Le

coppie sono formate da Rosario e il padre pastore, dal fabbricante di pupi Matteo e suo figlio Nardo, dai giovani sposi Gioacchino e Michela, dalla meretrice Odeida e l’aspirante meretrice Rea Silvia, dalla signora delle Madonie e il cannocchiale con cui controlla imovimenti e gli eventi, dal signore del palazzo che non vuol essere chiamato barone e sua figlia Manilla

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(ma poi Manilla farà coppia con la signora delle Madonie): attorno a loro mercantesse, camionisti, contadini, lavandaie.

A questo romanzo antropologico Vittorini lavorò dal 52 al °59, realizzandone due diverse stesure, una narrativa e una

scenica; la stesura narrativa fu pubblicata postuma, a cura di Vito Camerano, nel ’69; sempre postuma fu pubblicata nel °75, a cura di Nelo Risi, la stesura scenica; e va subito detto

che le due stesure, pur avendo vari personaggi ed eventi in comune, sono assolutamente autonome, non solo nella rappresentazione dei comportamenti ma addirittura nelle proiezioni dei sentimenti. Vittorini lavorò alla stesura narrativa di Le città del mondo con discontinuità, perché sottratto al lavoro da eventi privati (come l’arresto del fratello, la morte del figlio Giusto e la propria malattia) o pubblici (come il xx congresso del Pcus o la rivolta anticomunista d'Ungheria); e ci fu un momento che, disaffezionato del «grande romanzo», pensò di smembrare l’ampia narrazione corale in tre narrazioni concentrate sulla storia di Rosario e Nardo e i loro padri, sulla storia di Odeida e Rea Silvia e sulla storia di Gioacchino e Michela; ma il testo

proposto da Vito Camerano presenta il felice mosaico iniziale di quaranta capitoli di compatta tessitura; più un’appendice

con capitoli non numerati (e non definitivamente elaborati dall'autore), tra cui uno (quello de «I camionisti») a mio giudizio assai convincente; più vari frammenti. Il mosaico dei quaranta capitoli elaborati dall’autore definitivamente è un te-

sto compatto, armonioso, bellissimo: uno dei capolavori della narrativa europea del Novecento. Negli anni Sessanta, intenzionato a inquadrare la propria ricerca nel nuovo umanesimo della civiltà della scienza e della tecnica, attratto come nel dopoguerra dall’utopia metropolitana, Vittorini arrivò, con violenza autocritica, ad abbandonare il testo, definendolo «neoclassico». Ha raccontato Bilenchi:

«era estate. Cominciammo a parlare del romanzo che stava scrivendo, Le città del mondo [...] Mi disse che aveva smesso

di lavorarci, che non gli piaceva più, che era un romanzo superato, “manzoniano” e fece il gesto di suonare il violino. Ne avevo lette alcune pagine [...] Gli dissi che quelle parti erano molto belle, forse più belle di Conversazione in Sicilia». Quando venne pubblicato postumo, il giudizio dei critici fu unanimemente favorevole; valga per tutte, l'opinione di Geno Pam-

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paloni: «ritengo (in buona compagnia: con Romano Bilenchi) che si tratti del suo [di Vittorini] libro più bello». Il quadro, il tema, i movimenti di Le città del mondo sono stati efficacemente descritti da' Italo Calvino: «nelle Città del mondo un parlamento di contadini si riunisce misteriosamente tra i monti della Sicilia, tutti uomini a cavallo dai lunghi mantelli, con trombe e tamburi e stendardi, e misteriosamente si

scioglie, senza che mai si sappia cos’abbiano fatto o deliberato, ma la cui sola evocazione basta a riempire di paura i palazzi dell’isola, come un'affermazione di libertà invincibile perché non si identifica con parole o con istituzioni, immagine mitica d’una democrazia diretta rivoluzionaria. La Sicilia delle Città del mondo è una mobile rete di persone e luoghi visibili e persone e luoghi invisibili: i contadini hanno abbandonato i capi e non si sa dove si sono ritirati a parlamento, i personaggi

del romanzo vagano intorno alle mura delle città reali senza entrarvi e intanto parlano di città sognate del passato e del futuro, della Bibbia e di Erodoto e delle Mille e una Notte, città

della bellezza e della giustizia, mentre un movimento come di corrente marina sembra trascinare tutta la Sicilia verso la civiltà metropolitana». La mappa dei movimenti a raggiera dei personaggi è stata così descritta da Paolo Orvieto: «La linea del viaggio percorso da Rosario e il padre (Scicli — deserto dell’altipiano dell’Irmerio — Contessa Entellina — Ragusa — Monte di Chiaromonte Gulfi — Mirabella Imbaccari — Aidone — Agira) forma con la linea percorsa da Nardo e il padre (Contessa Entellina —- Nicosia — Troina — Sperlinga — Nicosia — valle di Salso — Agira) una retta che interseca perpendicolarmente la Sicilia da nord a sud. Un’altra retta che interseca la prima nel comune punto d’incontro Agira (approssimativamente al centro dell'intera regione) attraversa da levante a ponente la Sicilia: da levante prende aire “la ragazza del carrubo” [Rea Silvia], da ponente Gioacchino e Michela». Il movimento si prepara ad essere sommovimento, la migrazione verso la città d’utopia (verso l’Avvento dei diritti dell’uomo) non esclude la rivolta. Rosario cerca luoghi che siano belli, il padre ne ha timore; Matteo vuole abbandonare Nardo in un luogo ideale («il

luogo in cui ti condurrò questa volta sarà molto più bello di quello dell’altra volta, e anzi sarai tu che lo sceglierai su cento e anche mille che ti farò visitare [cM]); il viaggio di nozze di Gioacchino Mancuso e Michela Spicuglia (con continuo ab-

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bandono notturno di alberghi e locande) non si sa se sia una

luna di miele o una ricerca in fuga; la signora delle Madonie spia con il suo cannocchiale l’ardimento e l’esitazione di tutti, soprattutto osserva affascinata le schiere di contadini che stanno muovendosi verso un misterioso ritrovo; persi i padri (o lasciati da loro?) Rosario e Nardo incontrano nella campagna del palazzo dalle rosse mura Manilla e le lavandaie che li sottopongono, scatenate baccanti, all’iniziazione (al passaggio tra adolescenza e gioventù); “la ragazza del carrubo”, nomade da un luogo all’altro, incontrata Odeida si rivela per Rea Silvia che vuole perdere la propria verginità (ma la meretrice Odeida fa di tutto perché la conservi). I loro movimenti (concentrici o stellari) mostrano, alla fine, che tutti, per usare le parole

dell’autore, «vogliono essere felici» ma hanno anche «paura di volerlo essere». Le città del mondo sono imperfette, grazie a Dio sono umane; i diritti dell’uomo vanno verificati e conquistati di continuo. La stesura scenica di Le città del mondo impegnò Vittorini per tutto il primo semestre del ’59: Vittorini puntava a realizzare un vero e proprio «romanzo sceneggiato»; i titoli del film che ne avrebbe dovuto ricavare Nelo Risi erano così ipotizzati: «Le città del mondo, da un “romanzo sceneggiato” di Elio Vittorini, adattato per il cinema da Nelo Risi e Fabio Carpi». Lettera di Vittorini a Risi del 9 febbraio: «I dialoghi, voi dite! Ma io come posso pensare delle battute in astratto senza che sotto il tessuto sia preciso, concreto, armonico, finito. Io non posso

assolutamente lavorare così. Appiccicare dei cartigli per aria mi sembrerebbe. Evidentemente non è lavoro per me. E così mi tocca rifare tutto. Cercare di precisare tutto, di concretare tutto, di armonizzare tutto». Lettera a Risi e Carpi del 24 marzo: «Per voi si tratta solo di arrivare ad un certo film e ad un certo modo di realizzarlo, per me invece c’è anche la necessità e l’assillo di non annegare nel film la materia del mio romanzo e di riuscire a recuperarla in qualcosa di scritto che faccia libro [...] ho voluto ridare uno spessore anche psicologico a tutti quanti i perso-

naggi, e riportare un minimo di non scontato, di non usuale, di

non prevedibile, e comunque di più mio, anche negli episodi che per Voi avrebbero dovuto essere di puro contorno. Vi direi: lasciate che continui e concluda per questa strada, lasciate che io mi salvi un libro mio (sia pure “sceneggiato” anziché “narrato” [...] Io non pretendo che la sceneggiatura definitiva su cui

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poi verrà costruito il film coincida con questo mio libro sceneggiato. Voi potrete tornare anche per la Federica e Palma alla situazione che preferite [...] Anzi sarà meglio per me che esista un divario tra le vicende del libro stampato e quelle del film».

Lettera a Carpi del 29 marzo: «Io vedo dalla tua lettera che il tuo lavoro tu ci tieni a portarlo a fondo. Tu preferisci che la sceneggiatura del film sia la collettiva dove tu hai avuto parte. E io non dovrei volere che qualcosa si salvi in libro, in libro mio, del mio lavoro personale ed esclusivo di otto anni? [...] Proporrei, a metà strada tra la mia formula e la tua, la formula seguente: soggetto e sceneggiatura di Fabio Carpi, Nelo Risi e Elio Vittorini, da Le città del mondo, romanzo sceneggiato di Elio Vittorini, e se vi sembra che “romanzo sceneggiato” debba significare sceneggiatura, mettiamo “romanzo scenico” [...] o “romanzo teatrale” o “commedia” o “tragicommedia”, ma mettiamo comunque un riferimento al libro, senza la pubblicazione del quale (e in anticipo sul film sia pure di un solo giorno) io non mi sento proprio di consentire a che il film sia fatto». Lettera a Risi del 4 aprile: «spedisco a parte quello che manca dall’inizio alla scena del paese degli odori, e dalla fine della scena della zolfara alla scena 16 [quella di Matteo e Nardo che osservano una cavalcata di uomini in mantello e cappuccio, con Matteo che dice

«Non mi meraviglierei ch’essi tornassero dall’aver deciso di mandare in esilio l’intero consiglio della repubblica»]». Lettera a Carpi del 23 aprile: «Riguardo all’episodio del comizio [...] osservo che [serve] per legare la scena dei carabinieri (con rilascio di M[atteo] e N[ardo] all’episodio dello sciopero a rovescio [...] A parte questo io nel “romanzo scenico” finirò per tenerlo, l'episodio del comizio [...] Perché, pur se notorio, e se

sfruttato (ma come?) riguarda un fatto che fa “storia” per la Sicilia d'oggi». Nel dicembre ’59 Vittorini (come si è già raccontato) guidò Risi nei sopralluoghi in Sicilia per le ambientazioni del film; ma la produzione entrò, nella primavera del ’60, in cri-

si; anche gli attori contattati (Simone Signoret per la parte della vedova e Francisco Rabal per la parte di Matteo) vennero sciolti dall'impegno contrattuale. Lettera di Vittorini a Risi del 23 agosto ‘60: «mi dispiace di quello che mi racconti [...] La storia di Nardo e Matteo ti resta riservata, e farò in modo di rimanda-

re la pubblicazione in volume». Il produttore Martara cedette i diritti sulla sceneggiatura di Carpi e Risi, dal quale fu ricavato un strano film francese ambientato in Corsica anziché in Sicilia.

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4 %

El

;

Nelo Risi riuscì a realizzare la storia di Matteo e Nardo («storia di un padre e di un figlio che viaggiavano a piedi per la Sicilia») come film per la Tv (prodotto dalla Rai), con Francisco Rabal

come protagonista, nel ‘75 e nello stesso anno Einaudi pubblicò la «tragicommedia» vittoriniana Le città del mondo con il sottotitolo «una sceneggiatura», anziché «un romanzo scenico»

come avrebbe dovuto essere. La versione scenica di Le città del mondo è un testo sostanzialmente autonomo; vi prendono rilievo le vicende di Matteo e Nardo, quasi scompaiono le vicende del pastore e di suo figlio Rosario (che sono il cuore della versione narrativa), cambiano di nome e di rilievo i personaggi di Odeida e Rea Silvia (nel romanzo scenico chiamate Federica e Palma, con la pre-

senza della prima ridimensionata), vi fa una sua vivace comparsa il soldatino di La garibaldina, sono assenti Gioacchino e Michela, occupa un vivace spazio la bazariota, non vi hanno

spazio ne Manilla né la signora delle Madonie; sono in ogni

caso centrali le scene totalmente nuove degli zolfatari con i loro carusi e le scene del comizio. I dialoghi sono costruiti con ammiccante ironia di intonazione sapienzal-popolaresca; le didascalie descrittive sono molto efficaci nell’inquadrare figurativamente gli eventi che risultano ben drammatizzati. Non è

solo un testo autonomo, questo «romanzo scenico», ma anche

un testo ben strutturato, non abbastanza studiato dalla critica

(ma è, più in generale, tutto il Vittorini degli esperimenti drammaturgici ad essere in attesa di un attento esegeta).

Nel ’61, durante la vacanza a Populonia (Grosseto), Vittori-

ni cominciò a scrivere un romanzo metropolitano, un roman-

zo ambientato a Milano, progettato come brulicante di persone (giovani soprattutto), di fatti, di gesti, di voci, per mettere in scena il movimento verso il nuovo, l’allegro della vita nella città, la resistenza ad ogni forma di alienazione prodotta dalla

civiltà urbana: avrebbe, anzi, dovuto essere il romanzo della

modernizzazione senza alienazione. Dell’inizio del romanzo (di cui esiste una redazione manoscritta assieme a quella di altri frammenti e appunti) Vittorini curò una trascrizione dattiloscritta di 28 fogli. Questo romanzo (la cui stesura fu prima rallentata dall'impegno vittoriniano per «il menabò» e «Gulliver» e poi interrotta dalla progressiva manifestazione della malattia che si rivelò mortale) è stato classificato inizialmente

451

come «manoscritto di Populonia» e poi, con una denominazione suggerita dal suo incipit, come Delle cinque circonvallazioni che percorrono la nostra città, con questo titolo venne pubblicato,

nel ’72, nel volume

mondadoriano

Nozze

e

lagrime. To lo chiamerò «il romanzo di Milano». È un testo di grande freschezza immaginativa e verbale. Ecco il suo inizio: «Delle cinque circonvallazioni che percorrono la nostra città, a una distanza radiale dal centro di circa settecento metri la più antica e di una decina di chilometri la più recente, la seconda e la terza hanno avuto un tempo in cui si può dire che formassero un’unica cerchia. In quel tempo che giunge, per un’ultima parte del loro tragitto, fino al 1945, non c’erano a

dividerle che i terrapieni con platani austriaci e panchine napoleoniche dei bastioni innalzati quattrocento anni prima dagli spagnoli. I due giri di strade passavano, uno lungo la base interna e uno lungo l’esterna dei terrapieni, ciascuna con una fila sua propria di platani o tigli e con una sua fronte di case dai cui piani più elevati si aveva modo di guardare sia sugli spalti dei bastioni che sulle persone affacciate alle finestre di oltre i bastioni come dalle case di un lungofiume si ha modo di guardare non solo sulle acque del fiume ma anche sui gerani e i luccichii di vetri e i sussulti di braccia e capelli delle case di oltre il fiume. Poi i bastioni, che avevano una larghezza media di un centinaio di metri, sono stati spianati, parte già intorno al 1930 e il rimanente nell’estate e l'autunno del ’46, per lasciar venir su al loro posto degli edifici a sei, sette, otto, nove e dieci o più piani, i primi ancora con facciate di marmo con le sedi delle Banche e delle Compagnie di Assicurazione, gli ultimi in vetro e metallo com'è a New York il palazzo delle Nazioni Unite, i quali hanno a poco a poco isolato i due ambienti e scisso il carattere misto di signorile e popolare che avevano tutti e due, portando il più interno a prendere un aspetto ch’è ormai (salvo il continuo fluire delle automobili) decisamente residenziale, e il più esterno invece a svilupparsi in un senso che lo rende sempre più fitto di vetrine, di edicole e di bancarelle, sempre più animato di folla che va dentro e fuori dai negozi e bar, negozi e cinematografi, negozi e dancing, negozi e sale da giochi, sempre più sfavillante la sera (e i giorni invernali di nebbia) di luci al neon, sempre più strepitante, giorno e sera, di juke-boxes, di motorette, di camion che lanciano urli

di clacson per ottenere un po’ di spazio dove fermarsi un mo-

452

f

mento, di tranvai che pestano martellate sui binari per aprirsi un varco nello sciamare di giovani da cui si trovano attraversato il cammino, sotto i secoli dei platani, quasi di continuo». La mappa delle città, le cerchie urbane da lei inquadrate e i quartieri e le strade di queste cerchie con le loro storie di cui un personaggio (lo scrittore stesso) doveva essere prima testimone e poi protagonista, costituivano il fitto reticolo della narrazione. Nella narrazione (il cui inizio nella versione a stampa è di 27 pagine) lo scrittore, osservatore e già attore, entra in scena così: «alle cinque e quarantuno, un uomo che ha infilato un pull-over sul pigiama e se ne tira giù l’orlo a coprirsi il più possibile l’addome, sbircia fuori da una finestra di terzo piano proprio mentre l’auto appare nella carreggiata di faccia fra un tronco e un altro dei platani. L'uomo si preme una mano sull’addome, e si china, aderisce con entrambi gli avam-

bracci al davanzale. Un telefono squilla di nuovo e di nuovo da una stanza più sopra o più sotto o più a sinistra o più a destra o forse alle spalle stesse dell’uomo, ma egli è occupato solo a guardare, e a guardare gli spazi da tronco di platano a tronco di platano per i quali transita con bagliori il corpo dell’auto». Due brevi annotazioni: «l’uomo che si preme una mano sull’addome» si tasta il corpo lì dove qualche volta sente

male e via via nel romanzo avrebbe acquistato coscienza di

avere iniziato un percorso verso la morte; ma la sua capacità di guardare e ascoltare si sarebbe trasformata in un ultimo godimento della vita, senza turbamenti e nostalgie. Nel testo che ci

viene offerto in lettura, l’uomo alla finestra sente, a un certo punto, una specie di «invocazione», che poi individua come il «ciao» di una ragazzina; e il romanzo prende a svilupparsi co-

me la storia di una ragazzina impertinente trascinata verso la festa della vita da altre ragazzine impertinenti. Sono fans del cantante Paul Anka o dell'attore Anthony Perkins, ragazzine che ridono, straparlano e «vanno in oca», ragazzine un po’ «balenghe», «sgrinfie» voraci di novità: ho annotato le tre espressioni gergali, perché il romanzo prometteva di nutrirsi anche di nuova gergalità, di registrare il «parlato» della vita pur puntando a farsi «metafora» della vita. Non sappiamo come Vittorini avrebbe testimoniato-narrato nel romanzo la tensione industriale che stava calamitando il suo interesse; ci resta, del romanzo, solo l’inizio, un frammento di grande estro

visivo e musicale, un «racconto» godibilissimo.

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SCATTO

RITRATTO-RACCONTO A PIU VOCI

ENRICO FALQUI

«Di Elio Vittorini vorremmo saper descrivere i primi incontri, in anni lontani, quando, giunto a Roma dalla Sicilia,

di prima mattina, con l’aspetto quasi di un fuggiasco, scarruffato e spiegazzato, ma ilare negli occhi pungenti, col solo bagaglio di una borsa da studente, correva a bussare alla porta di casa nostra. Eppoi la volta che, più fuggiasco che mai, si presentò in compagnia della sua donna. Se mal non ricordiamo, l'aveva rapita o giù di lì e l'accoglienza fu più festosa di sempre, nuziale» (Col “fuggiasco” Vittorini alla ricerca di scrittori nuovi). MARIO RIGONI STERN

«Jo ero solamente un povero soldato Sveik in congedo, un manovale disoccupato con dentro qualche curiosità. Un giotno lessi quasi casualmente Conversazione in Sicilia, cercai

qualche libro di Pavese, Americana, Montale, lessi la prefa-

zione per la ristampa del Garofano e il Garofano e Faulkner, Hemingway. Andavo per i boschi a far legna masticando ra-

moscelli di larice; vestito con i resti delle divise degli eserciti che avevano scorazzato l'Europa, con un libro nello zaino

della naia. Un giorno, siccome sapevo di roccia, mi chiamarono per ricuperare il corpo di un partigiano che si era precipitato nella Valsugana per non arrendersi ai tedeschi; mentre

manovravo le corde mi ricordai di quanto avevo brevemente

scritto sulle mie vicende in Russia e mi vennero delle consi-

derazioni che m’incupirono per settimane. In quel periodo

venne da Milano lo scultore Paganin, anche lui aveva fatto la fame, ed era ammalato. Ci incontrammo, e mi parlava del

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gruppo di “Corrente”, del “Politecnico”, e, di conseguenza, di narrativa, poesia, politica, arte figurativa, cinema, teatro. La mia ignoranza era immensa e mi sforzavo di cercare nella vita di questo Sveik in congedo che ero, quanto, della mia esperienza, poteva essere vivo e utile anche per gli altri. Per quasi un mese Paganin fu costretto a letto e nei pomeriggi andavo a trovarlo; gli raccontavo di boschi, di legna, di recuperanti; di quello che era fuori la vita del paese. E di guerra anche: Russia, Albania, campi di concentramento tedeschi. Fu così che lessi a lui, per la prima volta, quanto avevo scritto sulle mie vicende. Alla fine mi disse che quando sarebbe ritornato a Milano avrebbe portato a Vittorini quei fogli. Che li scrivessi a macchina. Restai senza parole e confuso, e dopo mi veniva dd pensare: “Come potrà Vittorini trovare il tempo e l’interesse per leggere queste cose?” Eravamo, forse, nel 1948 e nel 1951 Vittorini scrisse a Paganin per sapere se

la casa editrice mi aveva scritto per quel libro di ricordi sulla campagna di Russia. Nel testo, diceva, c'erano anche dei difetti e consigliava come si dovesse rivederlo. Ripresi il manoscritto, comperai un vocabolario e una grammatica e riscrissi tutto dalla prima parola; ma con più fatica della prima volta. Intanto ero diventato avventizio di 3° categoria al catasto e dalle 13 alle 14, per due mesi, ricopiai a macchina due pagine al giorno. Passarono altri mesi, non pensai più a quel mio lavoro di scrivere e, nei giorni liberi, andavo dai contadini

per la fienagione o nei boschi a far legna per l’inverno. Leggevo poco, facevo esercizi di bella calligrafia: ero diventato lo Sveik impiegato al catasto. Fino al giorno che Vittorini mi scrisse di andare da lui, a Milano. Era sul finire dell’inverno del 1952, abitava al n. 42 di via Canova e vi arrivai a piedi

dalla stazione chiedendo ogni tanto la strada ai venditori di marroni. Feci le scale di quella casa come la prima volta che scalai la Grivola: con timore ed entusiasmo. Era nel suo studio, mi venne incontro tendendomi la mano e mi fece sedere

in una poltrona. Le prime parole che fece fu per scusarsi del caldo dei radiatori, ma né lui né io sapevamo trovare le paro-

le per incominciare. Con un cenno mi chiamò a sedere acco-

sto al tavolo: aveva davanti il dattiloscritto del Sergente e in-

cominciò a leggere: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato...” Ogni tanto faceva un segno, metteva una virgola, mi chiedeva perché aves-

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si usato quell’aggettivo o quel verbo, o perché cambiavo così spesso i tempi, il significato di una parola dialettale che poi scoprivo avere nella lingua altro concetto di quello che intendevo. Continuammo così forse per un paio d’ore; ogni qual tratto accendeva una sigaretta macedonia: le mie erano troppo forti. Quando arrivammo al punto dove incontro i soldati russi nell’isba, stette silenzioso per lungo tratto. All’ultima pagina guardammo fuori dalla finestra e ci accorgemmo che una neve leggera scendeva tra gli spazi delle case. Mi sembrava d’essere ancora in Russia, finché disse: “Nel

vostro paese accenderete ancora la legna nelle stufe...” Il libro uscì nei Gettoni, gli aveva trovato il titolo, aveva fatto il risguardo... Un giorno ritornai a Milano e gli parlai di montagne, di boschi, della vita del paese; mi ascoltava assorto. Espresse il desiderio di venire qualche giorno a casa mia: “Ho anche altri amici nel Veneto e verrò appena avrò due giorni liberi...” Invece a casa mia, nell’inverno del 1953, ca-

pitò con l’autostop suo figlio Mitia, un ragazzo allora, e andammo a sciare per i boschi. Incominciò una amicizia che andava aldilà dell’interesse letterario; ogni tanto gli mandavo un gallo di monte o una dozzina di tordi e mi scriveva della

sua golosità, ma anche chiedeva del mio lavoro e dei miei lunghi silenzi. Quando nel 1957 uscì il Diario gli scrissi il mio entusiasmo e gli mandai una dozzina di cesene «le cesene erano ottime: le abbiamo mangiate ieri. Ma più grato le sono per quello che mi scrive per il diario. Mi fa proprio contento sapere che le piace [...] Io aspetto sempre notizie del suo lavoro personale. La ricordiamo tutti: mia moglie, Mitia, e anche gli amici che ha conosciuto a casa mia” [...] Ogni volta che andavo a Milano, tre o quattro volte all'anno, ci incontravamo nella solita libreria della Galleria di Via Manzoni e qualche volta mi portava a casa sua. Lungo la strada si parlava della vita di città e della vita di paese: “Non lasciare il tuo lavoro di impiegato al catasto” mi raccoman-

dava “per la professione di scrittore. Se uno è fatto per scri-

vere, scrive in qualsiasi maniera la vita lo costringa a vivere.

Anzi, è tra la gente comune, nella vita di tutti i giorni, che si

deve cercare la verità... Se uno viene preso dal successo, dai

contratti, dagli allettamenti della cultura industrializzata come una catena di montaggio, va a finire che come scrittore

muore... Non importa scrivere tanti libri, è importante dire

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agli uomini qualcosa che valga la pena di essere ascoltato”.

Una sera, prima di cena, ci fermammo in uno di quei bar-tabaccheria di Porta Ticinese. Voleva ancora sapere di emigranti, di come si viveva in montagna, dei contadini; e perché i montanari del Veneto se ne andavano in Canada o in Australia e non a Milano. Camminando lungo il Naviglio mi domandò se ero disposto ad andare in Canada a lavorare. Non a scrivere, a lavorare. Che cosa sapessi fare. L’imbianchino, risposi, il boscaiolo, coltivare orti, mungere le vacche. Io, disse lui, ho fatto l’assistente edile, lo sai. In tanti anni di

lavoro culturale ho messo da parte qualcosa, poco. Facciamo un gruppo di amici, ci prendiamo le nostre donne e i nostri figli, e andiamo in Canada. Prendiamo una concessione e facciamo una Cormune: ognuno porta tutto quello che ha e dà quanto è capace di lavoro... Non andammo in Canada, fu solo un desiderio fatto una sera alla periferia di Milano, e quando seppi che era ammalato non mandai più selvaggina, né gli scrissi, né andai a salutarlo una volta che passai da Milano. Non andai nemmeno ai funerali. Piantai degli alberi, quel giorno. Perché è vivo come quella sera che mi parlò della Comune e pensava una fattoria con campi di frumento e alberi di mele, e mandrie; e lui a volte irruente, a volte timido, a lavorare Canada). ROMANO

per

tutti e con

tutti» (Non

andammo

in

BILENCHI

«Nel sogno — e anche questo sogno non lo dimenticherò mai — abitavo dove vivo oggi, all’inizio di via Brunetto Latini. Ma mi scorgevo dormire molto più in alto di un terzo piano,

su un letto quasi sospeso nel cielo, e le pareti che davano sulla strada erano di vetro talmente trasparente, come se non esistessero. La città e la mia strada erano rumorose, piene di folla, opache. A un tratto la strada divenne deserta, silenziosa, per metà illuminata da un sole chiaro e lucente come nelle mattine di primavera. Quando i tetti delle case ebbero segnato una linea netta fra luce e ombra, dall’angolo opposto al lato dove abito apparve Vittorini. Era magro, con il volto serio e rattristato, portava il basco turchino, lo stesso cappotto grigio di stoffa diagonale, la stessa sciarpa di quando lo avevo conosciuto la prima volta nel 1930. Tenendo le mani in tasca come quella sera, fece, un po’ curvo in avanti, alcuni

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passi fino al cancello di casa mia. Alzò la testa. Stette lì qualche minuto in silenzio con una espressione di melanconia e di stupore nello sguardo. Poi scomparve dietro l’angolo dal quale era venuto. Mi svegliai pieno di tenerezza verso le persone, la casa, gli alberi, gli amici, la città, il mondo» (Vittori

ni a Firenze). MARIO LUZI

«L'empito di simpatia umana, il fascino di un’energia intellettuale senza incrinatura, adolescenziale anche in età matura: questo è rimasto anche a me di Vittorini... Vittorini era

l’uomo più innocente del mondo, ma come toccato da un rimorso, un rimorso che non saprei definire, forse biblico è la

parola... A un uomo così lontano dalla soddisfazione e dalla rassegnazione si presentavano necessariamente due possibili destini: essere il capro espiatorio della cultura nazionale o esserne il leader, dal momento — va aggiunto — che tanto il rimorso quando la sua generosa frenetica compensazione dovevano, ancora biblicamente, essere pubblici ed esemplari.

Con spontanea autorità Vittorini abolì quell’“o” e lo sostituì con un “e”. Cercò insomma di proporre le sue irritazioni problematiche come tesi di una palingenesi comune. Il titolo del suo diario è appunto Diario in pubblico» (L'immagine di Vittorini). GENO

PAMPALONI

«Sappiamo tutti che, all'incirca, nell’atteggiamento politico di Elio Vittorini si possono distinguere quattro periodi: 1)

quello giovanile che da un iniziale “fascismo di sinistra” lo

portò, in concomitanza con la guerra di Spagna, su posizioni

di resistenza al fascismo; 2) quello dell'impegno comunista,

dalla Resistenza alla fine del “Politecnico”; 3) quello utopisti-

co-radicale, dopo l’uscita dal Pci, sino al Diario in pubblico incluso... 4) quello degli ultimi anni, del “Menabò” e degli appunti delle Due tensioni, che si può definire libertario-scientista, e che avvicinando con nuovo vigore i due poli del radicali-

smo e del comunismo, lo rese sensibilmente affine alla conte-

stazione culturale dei giovani [...] “Riformatori e non riformisti” era una significativa autodefinizione degli intellettuali olivettiani... Mi arrischio a dire [che se Vittorini] avesse cono-

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sciuto il nostro slogan, probabilmente l’avrebbe rovesciato, e

avrebbe detto: “dalle riforme all’utopia” [...] Qual era il senso del suo voler essere “più uomo”? L'Utopia, sentita come no-

vità permanente, ricerca inesauribile, immagine della giovinezza riconquistata dopo l’età adulta. Negli anni Cinquanta, e con maggiore intensità nella prima metà degli anni Cinquanta, egli ha messo a fuoco, in concomitanza con un movimento

suggestivo della cultura italiana, il tema della “città”, che rispondeva a una esigenza profonda di “riformatore” e ha dato mano a un libro poematico, Le città del mondo, ove figure di romanzo, paesaggi dell'anima, echi della classicità più grandiosa, biblica, sono trascinati in un potente e solenne fluire verso i regni di Utopia» (Dalle riforme all’Utopia). CARLO BO

«In un mondo che aveva la tendenza ad accumulare, a tesaurizzare le conquiste visibili, Vittorini preferiva vivere senza capitali: ed è rimasto sino all'ultimo senza aprire un conto in banca. Ma la sua ricchezza era così diversa, non era calcolabile: potremmo dire che nel giuoco delle sue reazioni era per natura spostato in avanti e in questo senso l’idea del fare, di quello che restava da fare, aveva il sopravvento sul “fatto”, sul già ottenuto [...] Non ci sono dubbi: se Vittorini ha continuato fino all’ultimo a spostare in avanti i confini della ricerca, in realtà non tradiva la sua più antica vocazione, accesa nel nome dell’amore per la vita, al contrario la accresceva, la approfondiva [...] Ecco perché — alla fine — la sua storia si risolve in un’unica immagi-

ne, stupenda e indimenticabile per chi l’ha conosciuto in vita! L'immagine della libertà, legata alla prima pronuncia della verità umana» (Una sola tensione). FRANCO FORTINI

«Credeva alla gioventù come a una giustizia. Non volle mal sentirsi ingiusto. Invecchiare gli fu difficile» (Questioni di frontiera). VITTORIO

SERENI

«Pensavo, niente di peggio di una cosa scritta che abbia lo scrivente per eroe, [dico lo scrivente come tale,

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e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.

Non c'è indizio più chiaro di prossima vergogna:

uno osservante sé mentre si scrive

e poi scrivente di questo suo osservarsi. Sempre l’ho detto e qualche volta scritto: segno, mi domandavo, che la riserva è agli ultimi, che non resta, o non c’era, proprio altro? Che fosse e sia un passaggio obbligato? [Mi darebbe coraggio. Guardo la flottiglia riparare nel fiume spinta dal fortunale. S’infrascavano un tempo qui i pittori

oggi scomparsi con parte dei canneti: i tempi hanno ripiegato i cavalletti gettato i pennelli fatto [le tele a pezzi. Sarei io dunque il superstite voyeur, uno scalpore represso tra le rive, una metastasi fluviale? uno che sforna copie di ore lungo il fiume, di stasi e turbolenze del mare? Viene uno, con modi e accenti di truppa da sbarco mi si fa davanti avvolto nell’improbabile di chi, stato a lungo in un luogo in un diverso tempo e ripudiatolo, si riaffaccia per caso, per un’ora: ‘Che ci fai ancora qui in questa bagnarola?” ‘Elio!’ riavvampo ‘Elio. Ma l’hai amato anche tu questo posto se dicevi: una grande cucina, o una grande sartoria bruegheliana...’. Ci pensa [un poco su: ‘Una cucina, ho detto?”. ‘Una cucina’.

‘Con cuochi e fantesche? bruegheliana?”. ‘Bruegheliana’. ‘Ah’, dice ‘e anche sartoria? con gente che taglia e cuce?”. ‘Con gente che taglia e cuce’. ‘Ma’ dice ‘dove ce le [vedi adesso?”. ‘Eh’, dico eludendo ‘anche oggi ci pescano, al rezzaglio”. ‘Ma tu’ insiste ‘tu che ci fai in questa bagnarola?”. ‘Ho un lungo conto aperto’ gli rispondo. ‘Un conto aperto? di parole?”. “Spero non di sole parole”. Oracolare ironico gentile sento che sta per sparire. Salta fossi fora siepi scavalca muri e dai belvederi ventosi

non mi risparmia, già lontano, l’irrisione di paesi gridati come in sonno, irraggiungibili.

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Ne echeggia in fondo, nel grigiore, | l’ora del tempo la non più dolce stagione» (Un posto di vacanza). GIOVANNI RABONI

«In una delle poesie più belle di Vittorio Sereni, Ur posto di vacanza, Vittorini compare come personaggio di un sogno.

Lo stesso avviene in una poesia di Franco Fortini. Lo stesso

in una pagina di Romano Bilenchi... Le coincidenze sono troppe, e di qualità troppo alta, per essere insignificanti. Per i migliori fra i suoi coetanei o quasi coetanei (ma anche, vorrei aggiungere, per non pochi delle generazioni successive, per chi era giovanissimo o addirittura ragazzo negli anni in cui Vittorini affrontava la straordinaria e rischiosa avventura politico-culturale del “Politecnico”) l’autore di Conversazione in Sicilia è stato, dunque, qualcosa di diverso, e di più, di un “grande amico” o di un maestro; è stato un protagonista

vero e insostituibile della vita, un’incarnazione — irripetibile per grazia e vigore — della libertà intellettuale intesa come parte inscindibile della libertà della coscienza e dell’esistenza [...] Sì, l’eccezionalità, il fascino di Vittorini — dell’uomo co-

me dello scrittore — stavano in un tasso insolitamente alto di incorruttibilità e di slancio vitale: come se fosse toccato a lui più che a chiunque altro, in quegli anni, di rappresentare nella realtà, con gesti sempre tempestivi e felici e quasi spavaldi, quella continuità, quella non frattura tra letteratura e vita, tra fede nella scrittura e fede nel presente e nel futuro

dell’uomo, che è così facile e comodo negare o addirittura irridere quando non se ne avverta né il bisogno né il rimorso, quando non si sa cosa sia, quando si sia capaci di fare, o cercare di fare solo una cosa alla volta [...] L'energia intellettuale di Vittorini, la sua lungimiranza critica, il suo “coraggio mentale” (prendo l’espressione da un articolo di Franco Fortini) non sono scindibili dalla sua scrittura, dal suo progetto di organizzazione ritmica e figurale del mondo. Figuralità e ritmo non sono incrostazioni, abbellimenti o fronzoli, ma l'essenza stessa — l’essenza “originaria” — e, infine, la vera,

specifica grandezza della sua pagina e dei suoi libri. Conversazione in Sicilia — questo “nero meteorite psichico” (ancora

Fortini), questo “unico testo esemplare che la generazione dei padri ha lasciato [...] alla nostra generazione letteraria”

462

»

come scriveva vent'anni fa Edoardo Sanguineti — non è un abbozzo gracile e sbilenco, ma una compiutissima partitura: una partitura nella quale (per insistere nella metafora musicale, e storicizzarla) la dura “percussione” del reale si fonde con emozionante esattezza agli “archi” striduli o soavi della trasposizione analogica e all’arcana, solenne “celesta” dell’affabulazione mitica» (La scrittura di Vittorini). ITALO CALVINO

«Ogni romanzo di Vittorini ha come forma mitica quella del viaggio, come forma stilistica quella del dialogo, come forma concettuale quella dell’utopia. I motivi del racconto critico d’un viaggio d’iniziazione rituale — ritorno dell’eroe alle origini, incontri con guide e donatori magici, superamenti di prove, discese agli inferi, conquista di poteri che permettono d’uscire da una condizione di mancanza e appropriarsi delle qualità che definiscono l’uomo — sono stati rintracciati in Conversazione in Sicilia dalla critica che utilizza gli strumenti dell’analisi morfologica di Vladimir Propp [...] Si può dire lo stesso d’altre sue opere? Certo il tema del viaggio in treno domina anche in altri libri (Le donne di Messina, La garibaldina) carico com'è per Vittorini di motivi au-

tobiografici (le fughe in treno nella fanciullezza del figlio del capostazione siciliano) e di motivi simbolici: percorso d’iniziazione compiuto attraverso incontri inaspettati e dialoghi distaccati da ogni proposito pratico immediato, processo conoscitivo così come Vittorini intendeva l’atto dello scrivere. In una famosa pagina iniziale delle Donne di Messina la quéte ferroviaria diventa una necessità collettiva, l’Italia è vista come un paese in cui non si può vivere se non spostandosi con-

tinuamente da un punto all’altro della lunga penisola. Le città del mondo (o I diritti dell’uomo, il vasto romanzo a cui

Vittorini lavorò lungamente negli anni Cinquanta ma che lasciò incompiuto e inedito ed è stato poi pubblicato postumo) è pure un viaggio in Sicilia, anzi una rete di viaggi simultanei attraverso l’isola. Ma non più in treno: a piedi (pastori che conducono greggi, un padre che conduce lontano il figlio minore per abbandonarlo, una ragazza che scappa), ma an-

che prostitute vagabonde su carri, contadini a cavallo (è l’inizio d’una rivolta?), camionisti, ragazze in automobile. Il viag-

gio è simultaneità di viaggi, itinerario non verso luoghi deter-

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minati ma intorno a luoghi che forse non esistono ancora,

quéte di un nuovo mondo, ipostasi di città perfette attraverso

dialoghi evocatori. D’ogni quéte vittoriniana l'elemento statico, il dialogo, ha importanza non minore dell’elemento dina-

mico, il viaggio. Il dialogo in Vittorini è statico anche in quanto non porta in una direzione o in un’altra, le domande e le risposte non mirano a stabilire o comunicare una verità determinata ma tendono a realizzare una comunicazione assoluta, una convivenza umana ideale. Potremmo definirlo una forma musicale: da ciò le iterazioni, le pause, la cadenza

da litania [...] Il termine “conversazione” che Vittorini scelse per il suo titolo più famoso richiama le “sacre conversazioni”, i quadri religiosi rinascimentali le cui figure silenziosamente evocano con la loro solenne armonia uno scambio di parole universali. Potremmo dire allora che il modello della conversazione vittoriniana è pittorico, visuale, allegorico [...] La Sicilia delle Città del mondo è una mobile rete di persone e luoghi visibili e persone e luoghi invisibili: i contadini hanno abbandonato i campi e non si sa dove si sono ritirati a parlamento, i personaggi del romanzo vagano intorno alle mura delle città reali senza entrarvi e intanto parlano di città sognate del passato e del futuro, della Bibbia e di Erodoto e delle Mille e una notte, città della bellezza e della giustizia, mentre un movimento come di corrente marina sembra trascinare tutta la Sicilia verso la civiltà metropolitana europea [...] Il “ritorno alle madri” della Sicilia s’alternava sempre in lui con l'aspirazione al romanzo metropolitano, che per lui prendeva l’immagine d’una sua Milano, città circolare e incrocio di civiltà europee, fumosa e traversata da canali. Questa presenza topografica e atmosferica di Milano resta la cosa più bella di Uorzizi e no, il romanzo che porta in ogni sua pagina la data del terribile 1944 dell'Europa occupata; e il Sempione voleva essere il libro d’una Milano operaia vista dall'esterno, dalla periferia. La città resta, in ogni suo libro,

da conquistare, anzi da fondare. È sempre una città futura, utopia» (Viaggio, dialogo, utopia). VALENTINO

BOMPIANI

«Diversamente dai meridionali, Vittorini ha gesti sobri, un lieve muovere le dita che plasmano il discorso: quando si

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si

corregge, le parole cadono e lui non le raccoglie» (Dizloghi a distanza). MARIA CORTI

«L'opera di Vittorini sfugge con moto anguillare a chi tenti di immobilizzarla sul proprio tavolo entro un giudizio critico; scrittore per il quale non esistono confini, bensì pieghevoli tramezze, fra attività creativa, critica, socio-politica; ma-

gari romanziere nell’atto di fare storia della letteratura americana, grande stilista come traduttore, politico in un testo creativo, scrittore in uno politico. Eppure, davanti a qualsiasi sua pagina, per diversa che sia dalle altre, si dovrà per forza concludere: è sempre lui [...] Fra le costanti a livello di forma del contenuto, ruolo reale spetta al tema del viaggio, come già la critica ha suggerito e di recente ha rilevato Calvino in un breve articolo su “Ponte” (numero dedicato a Vittorini del luglio-agosto 1973). Dal Brigantino del papa fino alle Città del mondo il tema del viaggio si configura costante simbolica che, assimilata e integrata in diversi contesti, sviluppa le proprie varianti significative, atte a caricarla di connotazioni specifiche; processo a sua volta simbolico dell’atto dello scrivere, che è esso stesso un lungo percorso dinamico conoscitivo: ci sono viaggi in mare o per terra, verso la scoperta

del reale e di sé (Viaggio in Sardegna, Il garofano rosso), dentro la storia (Le donne di Messina), verso le Origini e la Verità (Conversazione in Sicilia) o verso la morte (I/ Serzpione)

o verso l'utopia (Le città del mondo); il modello si incarna e il destino artistico, come ogni destino che si rispetti, non rifugge mai dal rendere la singola incarnazione irripetibile. E si aggiungano la connotazione pionieristica di marca americana, per cui nelle Città del mondo il viaggio ha per meta in qualche modo un nuovo Ovest, e quella indigena, cavalleresca (non va dimenticato che nel ’50 Vittorini curò per Einaudi una edizione dell’Orlando Furioso); suggestiva sarebbe a questo punto un’analisi differenziale che operi sul tema classico (Ulisse, per intenderci) e il moderno» (Prefazione a «Le opere narrative» di Elio Vittorini). FRANCESCO

LEONETTI

«Lalla Romano ha poco fa giustamente ridato un senso

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positivo alla definizione “maestro di dubbi” che gli era stata indirizzata polemicamente; non c’è miglior maestro di colui che insegna a dubitare, socraticamente: e l'intervento di Vittorini con la sua idea di letteratura come scoperta ebbe veramente per gli altri scrittori una funzione maieutica, di scioglimento per ricercare la propria verità, e di pazienza nel ricercare, prima di riferire. Per noi che lo frequentavamo (intellettualmente e umanamente, perché le due presenze non potevano essere staccate) la sua fatica a conversare dapprima dava un senso di panico; ma poi mi è accaduto di accorgermi, lentamente, come tale stento avesse in lui una motivazio-

ne decisiva. In realtà che cosa gli accadeva? Gli accadeva che la ragione gli costava; cioè la ragione per lui era un punto di arrivo, non era un facile discorso. Quello che odiava, in ve-

rità, era il discorso che si partorisce continuamente da se stesso come discorso (anche nella cultura di sinistra del dopoguerra). Vittorini elaborava una quantità di piccoli dati e riferimenti, della sua giornata, della sua memoria (per quanto volesse negarla in se stesso), del suo genio di contraddizione; e quando giungeva alla razionalità trovava un punto d’arrivo [...] Quando guidava (gli piaceva moltissimo: dapprima guidava la macchina come un selvaggio che finalmente realizza la sua più recente passione tecnologica) conversava senza fine; oppure passeggiando, salendo sul tram, o quando si camminava per le vie di altre città. Il movimento, la messa in moto, la rottura delle consuetudini e delle distinzioni, gli

dava la passione del discorso; quello che egli odiava dello scrittore era il fatto che è un uomo che scrive a tavolino, in una stanza chiusa; è vero che è una stanza chiusa soltanto

per l’intimità della concentrazione, ma siccome l’immagine è questa, c'era qualcosa della confessione privata, secondo lui, c'era qualcosa dell’interiorizzazione, che gli dava orrore. E

così avrebbe voluto conversare sempre camminando, ogni tanto fermandosi in un bar per un caffè, per un gelato, inter-

rompendosi per salutare un amico, accomiatandosi per riprendere il giorno dopo» (Le conversazioni con Vittorini).

466

O

ica

BIBLIOGRAFIA

Senza le ricerche, sotto indicate, di Alba Andreini, Esposito, Giovanni Falaschi, Gian Carlo Ferretti, Grillo, Lorenzo Greco, Giovanna Gronda, Anselmo du, Carlo Minoia, Anna Panicali, Sergio Pautasso,

Edoardo Massimo MadedRaffaella

Rodondi e Marina Zancan questo libro non avrebbe potuto essere scritto.

Nell’organizzare la stesura del volume ho tenuto presente i vari articoli da me dedicati, negli anni, all'opera di Vittorini; li ricordo: Vittorini, l'America e la giovane letteratura italiana, «Galleria», dicembre 1954; I gettoni, «Galleria», aprile 1956;

Erica e î suoi fratelli. La garibaldina. Gli equivoci della critica, «Il Popolo di Milano», 22 dicembre 1956; Vittorini cavalca la tigre, «Stato democratico», 5 novembre 1957; (con lo pseudonimo di Mario Solmi) Una polemica su Elio Vittorini, «Stato democratico», 5 febbraio 1958; “Il Politecnico”, «Bollettino del Sindacato Nazionale Scrittori», ottobre 1963; Le donne di Messina, «Almanacco letterario Bompiani», 1965; risvolto per il volume di Elio Vittorini, Norze e lagrime, Mondadori, Milano 1972; Ricognizione su Vittorini, «Il Giorno», 29 settembre 1965; Elio Vittorini, febbre di vivere, «Il Giorno», 24 febbraio 1986; Elio Vittorini, passione e rigore, «Il Messaggero», 8 aprile 1986; Vittorini, libertino-illuminista, «autografo 22», Gior-

gio Mondadori, Milano 1991.

Dell’epistolario di Vittorini, le lettere fino al 1932 sono inedite e saranno pubblicate in un volume einaudiano a cura di Carlo Minoia e Aldo Mastropasqua, le lettere del 1933-1943 sono state pubblicate a cura di Carlo Minoia nel volume inti-

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tolato I libri, le città, il mondo (Einaudi, Torino 1985), le lette-

re del periodo 1945-1951 sono state pubblicate a cura di Car-

lo Minoia nel volume G% anni del “Politecnico” (Einaudi, Torino 1977), e le lettere del periodo 1952-1965 sono inedite e saranno pubblicate in uno o due volumi cinaudiani a cura di

Edoardo Esposito e Carlo Minoia.

Gli articoli, gli interventi e i saggi di Elio Vittorini sono raccolti in due volumi, a cura di Raffaella Rodondi, dal titolo generale Letteratura arte società; il primo (relativo al periodo 19261937) è già stato pubblicato (Einaudi, Torino 1997); del secondo (relativo al periodo 1938-1965) è imminente l'edizione. Note e bibliografie sull’opera di Vittorini sono contenute nei due volumi (a cura di Raffaella Rodondi) delle Opere narrative di Elio Vittorini (Mondadori, Milano 1974), in I/ progetto “Politecnico” di Marina Zancan (Marsilio, Venezia 1984), in L’editore Vittorini di Gian Carlo Ferretti (Einaudi, Torino 1992) e in Elio Vittorini di Anna Panicali (Mursia, Milano 1994). AA.VV., Bo, Petroni, Piccioni, Spender su Elio Vittorini, «La

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