124 82 2MB
Italian Pages 180 [138] Year 2018
A Chiharu, Lia, Erica per il tempo rubato
NOTA Per i nomi giapponesi si è scelta la loro forma originale in cui il cognome precede sempre il nome. Per la trascrizione in caratteri latini e la relativa pronuncia per la corretta lettura dei nomi originali segue il sistema di traslitterazione Hepburn, in cui le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che: ch è un’affricata come la c nell’italiano cesto (p.e. “Pochi” va letto “Poci”) g è sempre velare come in gatto h è sempre aspirata j è un’affricata come la g nell’italiano gioco s è sorda come in sasso sh è una fricativa come sc nell’italiano scelta w va pronunciata come una u molto rapida y è consonantico e si pronuncia come la i italiana (p.e. “Kyōichi” va letto “Chiōici”). Il segno diacritico sulle vocali indica l’allungamento delle stesse ed è stato mantenuto tranne in quelle parole entrate ormai nell’uso comune (p.e. Tokyo, Kyoto).
MATTEO BOSCAROL
PREFAZIONE Nel 2013 Miyazaki Hayao organizzava a Tokyo una conferenza stampa per annunciare al mondo, presenti molti giornalisti di testate straniere, il suo ritiro dalle scene come regista e animatore di lungometraggi animati. Si apprestava a concludersi quindi, almeno così sembrava al momento dell’annuncio, la sua carriera cominciata nel 1979 con Lupin III – Il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro, 1979). Ma i ritiri dalle scene a cui Miyazaki ci ha abituati sono sempre stati molto parziali e, un po’ come le sue opere, mai univoci. Anche se sembrava davvero un pensionamento ufficiale e definitivo quello annunciato nella conferenza stampa, l’ennesimo colpo di scena arrivò nel 2017, quando l’amico e collaboratore di una vita Suzuki Toshio dichiarò che lo Studio Ghibli sarebbe tornato ad attivarsi, dopo un periodo di sospensione delle attività, per il nuovo lungometraggio di Miyazaki. Si tratta di un film interamente realizzato in computer graphic, tecnica già impiegata con successo ed esiti artistici notevoli nel cortometraggio Il bruco Boro (Kemushi no Boro) del 2018, che dovrebbe uscire nel 2020, l’anno delle Olimpiadi di Tokyo. Nell’attesa di vedere come si svilupperà questa nuova fase della carriera di Miyazaki, ci sembrava necessaria una riflessione approfondita e variegata, anche in lingua italiana, sull’opus che il regista giapponese ha saputo creare in tutti questi anni. Esistono naturalmente nella nostra lingua, così come nel resto del mondo, parecchie monografie che analizzano l’opera di Miyazaki nel suo complesso, ci pare manchino però in italiano degli studi che provino ad approcciare dei singoli lavori, o un insieme di essi, da un punto di vista filosofico e/o religioso in senso più ampio, scritti capaci di creare cioè nuove connessioni e di individuare linee di pensiero ricorrenti. Scritti che inducano a riflessioni di più ampio respiro, liberando il potenziale fortemente filosofico dei lavori del giapponese, anche quando, se non soprattutto, le opere o alcuni spunti interni a esse, si auto-eccedono andando ben oltre i confini del Miyazaki-autore. Anche se oramai è alla fine della sua carriera, il regista giapponese continua a rimanere per il pubblico generalista il punto di entrata nel mondo del cinema nipponico e della cultura giapponese intesa in senso lato. Il fatto che molte generazioni in giro per il mondo siano cresciute formandosi prima su serie animate e poi su lungometraggi firmati Miyazaki, lo posiziona, ovvero posiziona la sua opera e la sua figura internazionale, sullo stesso scranno, fatte le debite proporzioni, che un tempo era stato di Kurosawa Akira, “I film
di Akira Kurosawa erano la porta d’ingresso nel cinema giapponese per molti non giapponesi (ruolo che è stato assunto dai film di Miyazaki e di altri animatori)”1. Il presente volume si compone di una serie di saggi, di stile e contenuto eterogeneo, che spaziano dal concetto di ucronia e quello pacifista in Miyazaki, alle presenze divine in Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) fino agli incroci filosofici presenti nei suoi lavori come mangaka. Ma anche scritti che riflettono sul significato della tecnica, sul rapporto fra natura e scienza lungo tutta la sua carriera con particolare attenzione verso quello che è il suo ultimo lungometraggio, Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013). Interessante come molti di coloro che hanno contribuito a questo progetto abbiano scelto di dedicare molto spazio, quando non tutto l’intervento, proprio a quest’ultimo lungometraggio. Una decisione dovuta non solo al fatto che, aspettando il nuovo film, si tratta del lavoro più recente e quindi ancora fresco negli occhi di chi l’ha visto, ma soprattutto che ci troviamo di fronte a un’opera che esemplifica e illumina in maniera precisa tutta la carriera di Miyazaki. Quella che avete fra le mani è un’edizione molto arricchita rispetto a quella precedente, la decisione di ritornare sulle scene da parte di Miyazaki e la realizzazione de Il bruco Boro hanno infatti dato il La e ispirato nuove indagini ed esplorazioni all’interno della sua opera. È stato così aggiunto uno scritto sulle strategie audiovisive di Hisaishi Joe nei lavori del regista giapponese, ma anche una lettura del complesso manga Nausicaä della Valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1982-1994), scritto e disegnato dallo stesso Miyazaki nel corso di dodici anni. Completano il volume le schede dei suoi lungometraggi e una riflessione sugli infiniti mondi non-umani rappresentati in Il bruco Boro.
1 M. Schilling, Memoir of Akira Kurosawa’s right-hand man reveals a history of vexed scripts, in “The Japan Times”, 15 agosto 2015.
ALBERTO BRODESCO
LA MELANCOLIA DELL’INGEGNERE. IL SOGNO TECNOSCIENTIFICO DI SI ALZA IL VENTO Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013), l’ultimo film di Miyazaki Hayao, è ispirato a due fonti eterogenee. La prima è il racconto autobiografico di un ingegnere, Horikoshi Jirō, celebre per aver costruito il formidabile aereo da combattimento Zero Fighter utilizzato nelle battaglie della Seconda guerra mondiale; la seconda il romanzo Kaze Tachinu (The Wind Has Risen) dello scrittore giapponese Hori Tatsuo, che narra con toni lirici la malattia (tubercolosi) della donna amata. Il fatto che entrambi i libri siano autobiografici getta una luce sulla natura non solo “testamentaria” ma anche particolarmente personale e sincera che lega Miyazaki al suo lavoro conclusivo. La storia di una coppia di innamorati e di una malattia e quella di un uomo appassionato di aerei: il film di Miyazaki si solleva sulla spinta di questi soffi, che il regista sceglie di combinare anche se in apparenza non hanno niente in comune. Il libro di Horikoshi Eagles of Mitsubishi. The Story of the Zero Fighter è essenzialmente l’“autobiografia di un’invenzione”. Non parla tanto della vita di Horikoshi ma del percorso che lo ha portato a progettare lo Zero Fighter. Tutto passa in secondo piano rispetto alla storia di questo geniale e temibile progetto. In Si alza il vento l’invenzione viene invece messa in dialogo con l’amore di un bambino per gli oggetti volanti. In Eagles of Mitsubishi non c’è inoltre menzione dell’ingegnere italiano Giovanni Battista Caproni, personaggio centrale di Si alza il vento, dove compare diverse volte in sogno al protagonista2. Il congedo dal cinema del regista giapponese si configura quindi anche come un omaggio a una personalità capace di “far sognare”, di entrare nei sogni per illuminarli. Non è il primo tributo di Miyazaki al genio italiano, già presente nel nome della sua casa di produzione (che deriva dall’aeroplano Caproni Ca.309 Ghibli) e in Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992) tutto impregnato della stupita fascinazione del regista per la storia italiana, il suo stile, il suo design, i suoi miti. La prima scena del film mostra infatti il porco italiano che ozia in riva al mare, dove è ormeggiato il suo idrovolante. Tiene a portata di mano un bicchiere di vino, una rivista di cinema e una radio che trasmette musica lirica. Ma l’Italia è rappresentata anche nelle sue dottrine, da quelle più tradizionali come il familismo a quelle più gloriose come l’anti-fascismo (due
battute: “Per i maiali non c’è né patria né legge”; e soprattutto la celebre: “Piuttosto che diventare un fascista meglio essere un maiale”). Gianni Caproni non è però certo un anti-eroe anarchico alla Porco Rosso ma una figura solcata dai tratti dell’ambiguità, sia per come appare in Si alza il vento sia a livello biografico. Jirō chiama Caproni “conte”, un’onorificenza – “Primo Conte di Taliedo”, essendo Taliedo il campo dove aveva sede l’aerodromo – accordatagli da Mussolini in persona. Il motto coniato da Gabriele D’Annunzio per la Caproni, “Senza cozzar dirocco” (parafrasabile come “dall’alto distruggo”), tenta di essere gagliardo e militaresco ma finisce solo per suonare codardo (una vera onta per un dannunziano). Per poter considerare Caproni un maestro e un ispiratore occorre dimenticare tutto questo e concentrarsi solo sui suoi aerei. È il tratto di feticismo che affligge Jirō e coinvolge probabilmente anche Miyazaki, la cui “passione tecnologica pura” trasuda, in Si alza il vento, nella meticolosità dell’illustrazione degli aerei, che assume tratti da disegno tecnico3. Caproni è anche la figura che permette a Jirō di verbalizzare i suoi dilemmi etici per superarli. I sogni in cui appare Caproni esprimono sempre una dimensione dubitativa rispetto ai compiti o alla vocazione del progettista. La filosofia di Caproni è piuttosto semplice e definita: i bei sogni vanno coltivati anche a prescindere dalla loro realizzazione e dall’uso che ne viene fatto. L’aviazione, in particolare, viene descritta da Caproni come un grande sogno dell’umanità purtroppo destinato a essere sfruttato a fini bellici: “Gli aerei sono sogni maledetti che attendono che il cielo li ingoi”. Il gemellaggio tra Jirō e l’ingegnere italiano si basa anche su una comunanza sociologica: tanto il Giappone quanto l’Italia – afferma Caproni nel film – sono nazioni arretrate. Del Giappone si diceva che era solo in grado di copiare (o contraffare) le tecnologie più avanzate di altri Stati. Il successo nell’innovazione viene perciò considerato uno strumento di riscatto collettivo. L’orgoglio che il vero Horikoshi nutre per la sua creazione contiene un sentimento di rivalsa nazionale. Nel suo libro scrive: “Sicuramente, in senso più largo, lo Zero è stato un prodotto degli sforzi e delle idee di tutti i giapponesi dell’epoca e non solo di quelli incaricati della progettazione”4. Da arretrato a tecnologicamente all’avanguardia: Si alza il vento racconta un primo scatto nella grande trasformazione industriale e socioculturale del Giappone, presto e solo provvisoriamente affossata dall’esito della guerra. L’ultimo incontro tra Horikoshi e Caproni, dopo che tutti gli Zero si sono schiantati a terra, è segnato da un dubbio: lo spazio-tempo in cui si incontrano è la terra dei sogni o il regno dei morti? Sogno e morte si abbracciano in un
finale amaro dove gli oggetti volanti sono ormai solo relitti incapaci al volo. Caproni, tuttavia, continua a suggerire che è stato giusto scegliere la strada dell’aviazione, del sogno e della bellezza. Per l’ingegnere italiano un mondo in cui esistono oggetti meravigliosi (fa l’esempio delle piramidi)5 è sempre preferibile a uno che ne sia sprovvisto. La bellezza giustifica in sé la sua esistenza, lenisce, si fa perdonare tutto, è una ragione di vita. Nella rappresentazione che ne dà Miyazaki, Caproni e Horikoshi hanno molte cose in comune: vivono in due Paesi che per alcuni versi si somigliano e sono entrambi idealisti, appassionati e sognatori. Ascoltando i loro discorsi, seguendo il filo dei ragionamenti onirici, Caproni e Horikoshi definiscono un tipo di scienziato, una figura di uomo di scienza che trova facile collocazione nella mappa tracciata da Roslynn D. Haynes (con particolare riferimento alla rappresentazione letteraria)6. I sei tipi individuati da Haynes sono: l’alchimista, scienziato-mago dedito a perseguire finalità arcane e maniacali; lo stupido virtuoso: vive fuori dalla realtà, gli manca coscienza delle implicazioni sociali del lavoro scientifico; lo scienziato romantico che sacrifica la vita per la scienza, vivendo recluso e rinunciando agli affetti; il coraggioso eroe-avventuriero nel mondo fisico o intellettuale; lo scienziato ostinato e riottoso, che perde il controllo delle sue scoperte, con preoccupanti effetti per tutta la comunità; e infine l’idealista sociale, sostenitore di un’utopia umanistica basata sulla scienza. Oltre al resto Caproni e Horikoshi condividono l’appartenenza alla categoria dello “stupido virtuoso”. Lo sono perché si interrogano sì sull’utilizzo dei loro aeroplani, sulle conseguenze dei loro progetti, ma risolvono la questione rifugiandosi nell’ambito dell’estetica: l’importante è fornire al mondo degli oggetti che lo rendano più bello. Evidentemente questa giustificazione non è generalizzabile e non basta a tacitare le perplessità di chi si preoccupa delle responsabilità sociali della scienza. A parità di ideali, basti ricordare altri sogni di “stupidi virtuosi” cinematografici – a lieto fine: il Flint Lockwood di Piovono polpette; oppure no: il Dottor K de L’esperimento del dottor K.7 Pur motivati dal desiderio di migliorare le condizioni di vita dell’umanità molti scienziati finiscono per compiere danni irreparabili a se stessi e al prossimo. I sogni degli scienziati si trasformano talvolta in incubi. Jirō ricade anche nella definizione di scienziato romantico: è un uomo di indole fondamentalmente solitaria che dedica tutto il suo tempo al lavoro, al punto da trascurare la moglie malata. La combinazione tra stupido virtuoso e scienziato romantico, tra la testa fra le nuvole e l’isolamento dal mondo, non rassicura affatto rispetto alla reale consapevolezza di Horikoshi del ruolo che stava giocando nel corso di una guerra. Jirō sembra davvero troppo
sprovveduto, ingenuo. I suoi ripetuti incroci con la Storia (l’incontro con l’espatriato, dissidente o forse anche spia tedesca Castorp; la polizia che lo insegue; persino la guerra) vengono percepiti come casuali. I dubbi espressi nei dialoghi tra Horikoshi e Caproni sull’opportunità del loro lavoro e sulla sua strumentalizzazione militare vengono raddoppiati dai giudizi critici suscitati da Si alza il vento all’uscita: l’innocenza con cui Jirō è rappresentato viene rimproverata a chi l’ha disegnato. Miyazaki si è trovato costretto ad affrontare una nutrita serie di critiche, mai o quasi mai legate alla narrazione, allo stile o all’estetica del film ma sempre di natura politica. A Miyazaki viene rimproverato di dare troppo poco peso all’uso militare della magnifica ossessione di Horikoshi, che diventa un potente dispositivo bellico in mano a una delle potenze dell’Asse. Questa accusa generale si può dettagliare in una serie di sottopunti:8 - il film è in sostanza un tributo a un costruttore d’armi; - il film non affronta il tema dell’uso distruttivo e autodistruttivo degli Zero, pilotati da kamikaze a partire dall’autunno del 1944. Rispetto a questo utilizzo Jirō si dimostra letteralmente incosciente; - quella degli Zero non è semplice o pura bellezza artistica ma è una bellezza tecnoscientifica, applicata, capace di distruggere e autodistruggersi9; - manca una visione d’ampio spettro della dimensione storico-politica in cui la vicenda biografica di Horikoshi si inserisce – l’invasione della Cina, l’alleanza del Giappone con le potenze dell’Asse (su cui si glissa), l’attacco a Pearl Harbor con i Mitsubishi A6M Zero (e potremmo aggiungere il fascismo del nume tutelare Caproni). La vita di Horikoshi è troppo isolata da un contesto storico che dovrebbe avere una parte da protagonista, almeno per tre ragioni: per l’influenza che ha sulle contingenze biografiche di Jirō; per il modo radicale con cui condiziona la sua professione; e infine, per guardare il vettore opposto, per l’impatto che lo stesso lavoro dell’ingegnere ha sulla guerra (soprattutto sull’aggressione agli Stati Uniti); - più in particolare, il film non accenna alle colpe (e ai milioni di morti) della politica imperialistica del Giappone in Asia; - in relazione a questo, non si fa cenno nemmeno all’utilizzo di operai-schiavi cinesi e coreani addetti alla costruzione proprio degli Zero di Horikoshi. È in questo senso che il riferimento di Caproni alla bellezza delle piramidi (il richiamo al lavoro forzato di chi le ha costruite è immediato) suona come una difesa maldestra, un parallelo offensivo, una stonatura o una gaffe vera e propria;
- ciò che passa a livello di immaginario è invece una “vittimizzazione” del Giappone, colpito dal terremoto nel 1924, dalla crisi economica nel 1929 e poi dalla guerra nel 1941: il film dà spazio alle tragedie subite dal Giappone (devastazioni urbane, carcasse di aerei…) senza far vedere quelle da esso provocate; lo mostra come parte passiva e non come agente attivo; - persino un costruttore di bombardieri viene fatto apparire come una “vittima” (delle circostanze, della Storia, della malattia che colpisce i suoi affetti…); - si riscontra infine un problema con i ruoli femminili: diversamente dagli altri film di Miyazaki dove le donne o le ragazze sono indipendenti, creative, semplicemente protagoniste, qui non solo si eclissano dietro le figure maschili ma svolgono un ruolo a tutti gli effetti sacrificale. Jirō lavora tutto il tempo, anche quando la moglie Nahoko sta morendo, ma lei commenta: “Mi piace guardarti mentre lavori”10. Sono anche queste sfumature a definire Jirō come un personaggio non totalmente simpatetico con cui Miyazaki sembra entrare troppo in sintonia. Alle obiezioni si può rispondere con una serie di “eppure”. Occorre intanto sottolineare che le perplessità politiche vanno lette tenendo bene a mente il precedente cinema di Miyazaki, e Porco Rosso in particolare, ovvero alla luce di un anti-militarismo dichiarato. Il film contiene poi delle risposte testuali alle critiche, anche se ai detrattori sembrano evanescenti o dotate un limitato spazio narrativo. Eppure Jirō dichiara più volte di voler costruire macchine volanti, non strumenti bellici, e afferma, seppur come battuta, che per far volar meglio gli aerei bisognerebbe alleggerirli delle armi. I membri della commissione della marina militare incaricati di discutere con l’ingegnere i requisiti tecnici dei nuovi aerei vengono raffigurati, inoltre, come dei subumani urlanti. Ma la risposta migliore alle critiche ideologiche si nasconde in piena vista, talmente sotto gli occhi che si finisce per non notarla. La storia che Miyazaki racconta non è infatti solo la biografia di un ingegnere e della sua invenzione geniale e temibile ma anche quella di una malattia. Le due fonti cui il film si abbevera, come abbiamo notato, non hanno niente a che vedere l’una con l’altra. Horikoshi non aveva una moglie malata di tifo; e il romanzo The Wind Has Risen di Hori Tatsuo è ambientato in un sanatorio fra le montagne (che nel film si scorge appena), alla metà degli anni Trenta, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Perché Miyazaki decide di unirne le trame? Ci sembra di poter affermare che la storia di tubercolosi serve a Miyazaki per ricondurre la biografia dell’ingegner Horikoshi all’interno della cornice
timica tracciata dal concetto di melancolia. La citazione di Paul Valéry da cui prende il titolo il romanzo e poi il film (“Le vent se lève… Il faut tenter de vivre”) definisce già perfettamente questa intenzione: Le cimetière marin è una grande composizione melancolica e quel tentare di vivere richiama come meglio non si potrebbe spleen e disagio o fatica esistenziale11. Oltre al cimitero marino e alla collocazione indubbiamente crepuscolare del romanzo di Hori Tatsuo, è il tipo stesso di malattia di Nahoko, la tisi, una distillatrice di melancolia. Come scrive Susan Sontag in Malattia come metafora, la tbc viene considerata “malattia dei sensibili” o “degli artisti”: “Il mito della tbc è il penultimo capitolo della lunga storia della malinconia”12. La morte per tbc si configura come “romantica”, estetizzante: il processo di consunzione-dissoluzione che implica e finisce per ridurre il corpo a puro spirito. Bisogna però saper riconoscere che la melancolia infonde il film non soltanto nella sua parte sentimentale, la storia triste della relazione d’amore tra Jirō e Nahoko, ma impregna profondamente anche il racconto del percorso professionale di Horikoshi. Lo studio che guida il suo progetto di macchina volante lo lascia esposto a questo vento serotino. Il carattere della melancolia non ha infatti a che fare solo con la sfera patemica ed estetica del romanticismo, ma anche con la ricerca di perfezione. Una breve citazione da E. A. Poe, che troviamo in Sontag, ci orienta in questa direzione. Nel racconto L’appuntamento si afferma a proposito di un ritratto: “un’irregolare macchia di melancolia [fitful stain of melancholy] […] sempre resterà inseparabile dalla perfezione del bello”13. Quando si parla di melancolia si tratta anche di perfezione, una categoria che riguarda da vicino lo sforzo progettuale dell’ingegnere aeronautico Horikoshi Jirō. L’utilizzo del tema della melancolia non vuole quindi solo o semplicemente portarci a ragionare sul topos della solitudine del genio isolato (artistico o scientifico cambia poco), ovvero sui tratti della personalità creatrice, ma ci aiuta a interpretare, nel quadro del rapporto tra “macchina” e “modernità”, anche la relazione tra Horikoshi e il suo tempo, tra coscienza individuale e Zeitgeist, tra tecnoscienza e ideologia. Come scrive Pierangelo Schiera, l’uomo moderno viene esplicitamente posto di fronte al dilemma fini-mezzi ed è da allora condannato a patire ogni sua scelta operativa nella duplice, bipolare, operazione dello sforzo razionale della scoperta, dell’invenzione, dell’idea geniale, da una parte, e del persistente dubbio sull’adeguatezza degli strumenti rispetto ai fini proposti, dall’altra. È il dilemma della scienza moderna che s’incarna nella moderna melancolia, impregnando di sé interamente l’attitudine al progetto, vera e propria “ideologia” della modernità.14
Un’“attitudine al progetto” impregnata di melancolia descrive nel modo più adeguato il personaggio di Horikoshi Jirō. Il percorso professionale di Horikoshi si configura infatti anche come una sfida all’abbinamento tra mezzi e fini – gli “irrealizzabili” requisiti (velocità, manovrabilità, autonomia, carico…) che secondo l’esercito deve avere l’aereo da progettare. La volontà di conquista del cielo che costringe l’uomo a credere nel progresso crea una tensione tra sogno e bisogno che a sua volta produce, a livello individuale, melancolia. Non si tratta più di svagarsi con gli aerei di carta con cui Jirō, anche da adulto, continua a giocare. La scelta si pone tra la possibilità di costruire aerei compromettendosi con la politica, le forze armate e l’industria oppure non costruirne affatto. Come quello dannunziano di Caproni, il sogno di Horikoshi deve attendere una guerra per incontrare la sua possibilità di realizzazione. Tale contrasto di fondo tra il sogno di un bambino e le necessità della storia sprofondano Jirō in una condizione di umana debolezza. Ma Jirō, solitario e perduto nel suo mondo dei sogni, è al tempo stesso un personaggio perfettamente funzionale alle esigenze politiche e militari (totalitarie) del Giappone in cui vive. Il melancolico è, tendenzialmente, rustico e solitario, cioè a-sociale. Egli è mal-contento e intollerante di ogni “conversazione”. Egli è sedizioso ed eretico e può essere ricondotto a ragione solo grazie all’unico strumento di cura che la sua dis-ragione […] conosce, che è la disciplina. Ma contemporaneamente, il distacco dal mondo sociale proprio del melancolico è la qualità più richiesta dalla politica stessa a chi si deve far carico del governo delle sorti individuali.15
La disciplina cui Jirō certo non sfugge è imposta dall’esterno (i suoi superiori aziendali, i rappresentanti dell’esercito che commissionano gli aerei, la polizia segreta…) ma è anche cercata come estremo rifugio personale, unica difesa dalla melancolia. La duplice spinta disciplinare è sintetizzata dalla figura ibrida tra privato e pubblico del futuro suocero: di fronte a Jirō che dichiara di volersi prendere cura di Nahoko, il padre di lei gli raccomanda invece: “il modo migliore per farlo è concentrarti sul lavoro”. Miyazaki ravvisa dunque tutti i rischi di cui è lastricato il cammino tecnoscientifico di Horikoshi e lo segnala assumendo assieme al suo personaggio una posa profondamente melancolica mentre racconta questa storia di aerei, collocando la vita di Jirō sotto il segno di Saturno. Un ulteriore portato melancolico deriva da un’altra fonte del film, non dichiarata nei titoli ma esplicita, La montagna incantata di Thomas Mann. Il nome del dissidente tedesco Castorp deriva da quello del protagonista del romanzo di Mann, così come una serie di altri elementi che connotano il film – il sanatorio, il tempo tra le due guerre, l’ambiguità della cultura tedesca.
Anche ne La montagna incantata è presente la figura di un mentore italiano, l’umanista Lodovico Settembrini, discepolo di Giosuè Carducci e paladino degli ideali dell’Illuminismo. Per tre volte, nel romanzo, Settembrini cita con ammirazione Prometeo, prototipo di umanista, uomo coraggioso, martire della religione della scoperta. La sua hybris che sfida gli dèi è per Castorp ciò che ci consente di distanziarci dalla natura, perché la brama di conoscenza può anche essere controproducente ma ci definisce come esseri umani. Lo stesso ethos marxista del lavoro – suggerisce Ernesto De Martino16 –, la fondazione della politica sulla classe lavoratrice, hanno a che fare con questa considerazione sull’uomo, la cui essenza è descritta dall’attività, dall’andar oltre la necessità immediata cui costringe la natura17. De Martino cita il Marx dei Manoscritti economico-filosofici, che scrive: “Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto al quale egli deve rimanere in continuo progresso per non morire”18. Miyazaki sembra avere una relazione ambigua con tale tradizione di pensiero. Nel libro che ispira il film, Horikoshi Jirō si rallegra dell’arrivo della modernità in Giappone. Si alza il vento sembra chiedersi invece quale sia l’indotto della modernità e del progresso. In un articolo scritto per la rivista dello studio Ghibli Neppu (pubblicato nel giugno 2013) il regista di Principessa Mononoke definisce così il suo Giappone ideale: una nazione “with a population of around thirty million, with an economy that has been de-nuclearized and promotes shared prosperity, grounded understanding of how goods make it from the farm, field, or factory to a consumer’s hands, and environmental sustainability”19. Questo Miyazaki “teorico della decrescita” non pare del tutto complementare con l’appassionato di motori. Le due retoriche – quella ambientalista e quella tecnofila – entrano in dissonanza. Posto di fronte a questa discrasia non solo il regista stesso, nel corso di un’intervista, ammette la contraddizione20, ma in Si alza il vento sceglie di raffigurarla, immergendo nel verde dell’erba e nell’azzurro dei cieli il suo elogio dell’invenzione e della tecnologia. Il film ruba infatti linfa e colore ai prati delle campagne attraversate dai treni o sorvolate dagli aerei. Il verde riempie in particolare lo schermo quando viene mostrato l’incontro tra Jirō e la futura moglie Nahoko nella località di villeggiatura presso Karuizawa dove l’ingegnere si reca per trascorrere un periodo di riposo. Si tratta di un luogo in cui la natura guarisce, o può forse guarire, un posto in cui tutto si semplifica, riducendosi agli elementi di base – aria, acqua, terra. Questa stilizzazione permette la nascita dei sentimenti più semplici e sinceri – l’amicizia o la confidenza con Castorp e soprattutto l’amore tra Jirō e Nahoko.
Il proclama di bellezza del paesaggio lancia un irresistibile richiamo alla rappresentazione non solo per il regista ma anche per i suoi personaggi. La voglia di fissare lo splendore dell’ambiente viene infatti diegetizzata tramite il personaggio di Nahoko, che si pianta in mezzo a quel verde con tela e pennelli per riprodurne il colore. È in questo luogo che il vento si alza energico per portare lontano il parasole di Nahoko. Lì il vento ne ha ancora la forza, è capace di alzarsi, di incitare a vivere. L’ombrello che il vento fa volare via crea l’occasione per il nuovo incontro tra Jirō e Nahoko, come se si assistesse a una sorta di concatenazione che parte dalla natura: il paesaggio crea il desiderio di raffigurarlo; e poi la raffigurazione del paesaggio produce un amore. In questo luogo di soggiorno si svolge infine un dialogo particolarmente significativo. Jirō e Nahoko si riparano dalla pioggia sotto l’ombrellone precedentemente volato via. La ragazza ne approfitta per rievocare l’episodio in cui il giovane Jirō, al tempo del terremoto, aveva portato in salvo lei e la sua tata ferita. In quel momento era apparso loro come un cavaliere su di un cavallo bianco, gli dice Nahoko. Jirō prima si fa ripetere: “Il vostro cavaliere?”, poi alza lo sguardo verso l’alto per commentare: “Quest’ombrello gocciola”. Quando vive nel mondo Jirō rimane fissato al suo punto di vista di tecnico. L’unica persona con cui riesce a esprimersi, a mettere a nudo i suoi dubbi e le sue ansie, è il personaggio onirico di Gianni Caproni. Siamo nel reame dei sogni, ovvero, è uguale, in una melancolica terra dei morti. È nel dialogo con Caproni che emerge l’umanità di Horikoshi, anche se il sogno che entrambi abitano è continuamente e pericolosamente esposto al rischio totalitario. Senza il sogno le vicende di Jirō, tanto quelle personali quanto professionali, risulterebbero intollerabili. Così come – sostiene Porco Rosso – “un maiale che non vola è solo un maiale”, un ingegnere che non sogna è solo un ingegnere.
MARCO BELLANO
IL VENTO È CAMBIATO. LE STRATEGIE AUDIOVISIVE DI MIYAZAKI HAYAO E HISAISHI JOE IN SI ALZA IL VENTO21 Il 1° settembre 2013, durante la conferenza stampa dedicata al film Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013) presso la 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il presidente dello Studio Ghibli, Hoshino Kōji, annunciò il ritiro di Miyazaki Hayao. L’evento, in sé, non giungeva nuovo o inaspettato: Miyazaki è noto per aver ostinatamente considerato il pensionamento al termine della lavorazione di ciascuno dei suoi film, a partire da Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). Stavolta, tuttavia, la decisione sembrò più ponderata e definitiva, vista anche l’ulteriore, lunga conferenza stampa22 convocata il 6 settembre 2013 a Tokyo, dove Miyazaki in persona affermò che avrebbe smesso di dirigere lungometraggi. Non lasciò lo Studio, tuttavia, e ammise di poter ancora lavorare per il Museo d’Arte Ghibli, implicando l’eventualità di nuovi cortometraggi creati per tale istituzione, ad ampliare un repertorio di film esclusivi inaugurato nel 2001. Nel 2014, a conferma del suo allontanamento dalla produzione cinematografica, Miyazaki tornò a dedicarsi al manga, iniziando la lavorazione di un dramma storico, Teppō Samurai (Il samurai con l’archibugio), destinato alla rivista Model Graphix23; il progetto, tuttavia, è stato poi sospeso senza alcun ulteriore aggiornamento. Il ritiro di Miyazaki implicava un altro evento rilevante: la lunga e ininterrotta collaborazione tra il regista e il compositore Hisaishi Joe, iniziata nel 1984, sarebbe giunta a un punto cruciale e inedito. I due avrebbero potuto ancora creare assieme dei cortometraggi, come già era accaduto tre volte in passato; ma per quel che riguardava i lungometraggi, la loro intesa non si sarebbe più rinnovata. La circostanza sarebbe stata sfortunata per la storia dell’animazione e della musica per film; sarebbe però stato possibile, a quel punto, studiare i dieci lungometraggi firmati in coppia dai due artisti come un insieme definitivamente compiuto, iniziando un processo di oggettivazione critica e storica di tale lascito. Miyazaki, tuttavia, non ha smentito il suo consueto atteggiamento. Dopo aver affrontato per tre anni la travagliata lavorazione del suo primo cortometraggio in CGI, Il bruco Boro (Kemushi no Boro, 2018), uscito presso il Ghibli Museum il 21 marzo 2018, con un brano finale per pianoforte
composto da Hisaishi, il regista ha sentito il bisogno di confrontarsi con una rinnovata urgenza creativa. Come raccontato nel documentario Never-Ending Man: Hayao Miyazaki (Owaranai hito: Miyazaki Hayao, Arakawa Kaku, 2016), dopo aver visto il film La tartaruga rossa (La tortue rouge, Michaël Dudok De Wit, 2016), prodotto dallo stesso Studio Ghibli, Miyazaki ha capito che il lungometraggio animato avrebbe ancora potuto offrirgli ampie possibilità d’espressione. Ha così presentato a Suzuki Toshio, il suo produttore di sempre, una bozza di progetto, poi accolta. Il regista è attualmente al lavoro sul film Kimitachi wa dō ikiru ka (Come vivete voi?), titolo tratto da un romanzo di Yoshino Genzaburō del 193724. Sarà un film fantasy d’avventura e d’azione, con data d’uscita collocabile dal 2020 in poi. È probabile, ma ancora non certa, la presenza di musiche di Hisaishi. Pur in queste nuove circostanze, resta comunque rilevante esaminare i risultati audiovisivi conseguiti da Miyazaki e Hisaishi in Si alza il vento, considerando che il film nacque esplicitamente per essere opera conclusiva e di ricapitolazione artistica, come segnalato da diversi elementi narrativi e musicali. Per comprendere come ciò sia stato attuato, si proporrà qui una analisi delle strategie audiovisive dell’ultimo film e una comparazione con quelle delle nove pellicole a esso precedenti. Lo scopo sarà confermare e definire meglio in che modo tali strategie partecipino al significato dei film e quali siano le caratteristiche dello stile audiovisivo di Miyazaki e Hisaishi, che favorisce un rapporto dinamico tra musica, narrazione e animazione, intesa sia come mezzo espressivo, sia come sistema di produzione cinematografica. Il linguaggio audiovisivo che si stabilisce tra la musica e le sequenze, infatti, viene in gran parte istigato dallo stile del regista; alla sua definizione partecipano anche, tuttavia, processi produttivi tipici dell’industria giapponese dell’animazione. In primo luogo, dunque, è utile sottolineare che Miyazaki si presenta come autore dalla spiccata coerenza stilistica, con ricorrenti predilezioni per certi elementi visivi e narrativi. Anche se tali elementi hanno diversi gradi d’importanza in ciascuno dei suoi film, il loro sfruttamento conscio e costante rimane evidente. Tra di essi, si possono ricordare: una serie di character design ricorrenti e riconoscibili; sfondi dettagliati e tendenti alla resa realistica; eroine giovani e dal carattere forte; personaggi complessi; attenzione al rapporto uomo-ambiente; interesse per ambientazioni fantastiche; paesaggi europei rivisitati come scenari esotici e stranianti; metamorfosi; narrazione che favorisce sviluppi aperti e non orientati a un fine ultimo; il volo come tema narrativo e pretesto per animazioni creative di personaggi o macchinari.
Hisaishi ha risposto a tale stile stratificato enfatizzando una delle sue più tipiche attitudini artistiche: la creazione di un cospicuo numero di lunghe e memorabili melodie. Come ha notato Alexandra Roedder, “Le lunghe e trascinanti melodie di Hisaishi sono così strettamente associate al suo nome e al suo stile che […] il termine ‘Hisaishi melody’ è diventato un modo di dire in Giappone”25. In molti film di Miyazaki, è facile trovare un’abbondanza di “Hisaishi melody”, introdotte una alla volta mentre la storia si dipana. Nella maggior parte dei casi, esse non hanno una funzione di leitmotiv: ovvero, non sono regolarmente associate a precisi elementi ricorrenti della narrazione, quali un personaggio, un’emozione o un luogo. Esordiscono invece, di preferenza, quando una scena statica o descrittiva permette di ascoltarle per intero. In conseguenza di ciò alcune di tali melodie, nonostante il loro alto potenziale comunicativo, appaiono verso la fine dei film, quando si presentano opportune scene contemplative; per esempio, è questo il caso della melodia che accompagna la rivelazione della fortezza fluttuante in Laputa – Castello nel cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986), oppure, allo stesso modo, del valzer che sottolinea il volo di Haku e Chihiro in La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001). La densità melodica risultante da tale strategia può essere considerata un buon contraltare della complessità espressa da Miyazaki attraverso trame e personaggi. Le “Hisaishi melody”, tuttavia, non completano lo stile di Miyazaki solo mediante abbondanza e molteplicità, ma anche in forza di un principio drammaturgico legato alla loro ripetizione. Molti brani musicali rilevanti per i film di Miyazaki includono una costante melodica, o sono costruiti attorno a essa: un motivo di quattro note discendenti26, il cui profilo è sempre definito dalla successione di intervalli di seconda minore, seconda maggiore e ancora seconda maggiore (Figura 1).
Figura 1: una realizzazione del motivo discendente di quattro note.
Tale motivo appare di preferenza quando una sequenza ha a che fare con il volo. Il verso discendente delle quattro note sembra commentare il particolare senso che Miyazaki dà a tale atto: una condizione umana straordinaria ma temporanea, in grado di offrire una differente prospettiva sulla vita, prima di tornare al suolo, ovvero di discendere – come il motivo – verso una nuova consapevolezza di ciò che significano dovere e responsabilità. Tale è, per esempio, il destino di Kiki, la protagonista di Kiki – Consegne a domicilio (Majo no takkyūbin, 1989), il cui volo gioioso verso la città del suo
apprendistato, accompagnato da una composizione di Hisaishi (Umi no mieru machi, una città con vista sull’oceano) che racchiude in sé il motivo discendente, fa in verità da preludio ai suoi primi incontri con la vita da adulta: più avanti perderà la sua capacità di volare, per recuperarla solo una volta raggiunta una maggiore comprensione di sé in quanto giovane donna (Figura 2)27.
Figura 2: il motivo discendente (rigo inferiore) nella melodia di Umi no Mieru Machi (rigo superiore).
In modo simile, in Laputa – Castello nel cielo, il motivo, racchiuso nel brano associato alla fortezza volante, commenta l’idea intrinsecamente innaturale di un dominio aereo degli uomini sul mondo: come dice nel film Sheeta, l’eroina della storia, “Vivere distaccati dal suolo non è possibile” (Figura 3).
Figura 3: il motivo discendente (rigo inferiore) nella melodia della fortezza volante (rigo superiore).
Così, le “Hisaishi melody” sono legate allo stile di Miyazaki come ampie unità, ma anche in virtù delle loro componenti più minute. È utile sottolineare brevemente come questo fatto giustifichi l’appartenenza che Hisaishi dichiara al minimalismo musicale28, nonostante la sua fama di compositore melodico. In effetti, questi due aspetti non sono affatto in contraddizione: come il musicologo Timothy Johnson ha sostenuto nel 1994, il minimalismo è una tecnica di composizione che spesso si focalizza sull’ipnotica ripetizione di brevi frammenti, ma ciò non impedisce l’insorgenza di estesi archi melodici. Johnson ha osservato che un compositore quale John Adams, che Hisaishi tra l’altro annovera tra i suoi preferiti, “ha adottato la tecnica minimalista, ma ha trasceso l’estetica e lo stile del minimalismo attraverso l’espansione [degli aspetti riguardanti le tessiture, le armonie e i ritmi] e con il frequente impiego di ampie linee melodiche”29. La maniera in cui la relazione tra le parti e il tutto dei brani di Hisaishi è andata definendosi ha però subìto anche l’influsso di alcune consuetudini dell’industria giapponese dell’animazione. In questo contesto produttivo, ai
compositori viene spesso richiesta la composizione di un cosiddetto Image Album: un CD da pubblicare alcuni mesi prima di chiudere la produzione del film. Tale album è una collezione di musiche preliminari, basate su bozzetti, storyboard, character design, sceneggiature, parole chiave, e così via. Per Hisaishi e Miyazaki, come anche in generale, gli Image Album hanno due scopi: sono un remunerativo bene da mettere in commercio, che offre al potenziale pubblico un primo assaggio delle atmosfere sonore dell’opera in arrivo, e sono al tempo stesso un punto di riferimento per il regista, che può così ascoltare la musica mentre prosegue il suo lavoro. Comunque, Miyazaki non adatta mai i suoi storyboard alla musica degli Image Album; al contrario, è Hisaishi che deve trasformare la musica preliminare in base alla visione del regista. In seguito a ciò, le lunghe “Hisaishi melody” devono essere sottoposte a un accurato processo di riscrittura, sostanzialmente basato su tecniche di variazione. Se dunque Hisaishi ha per lungo tempo evitato di usare leitmotiv e loro variazioni nei film di Miyazaki, ha tuttavia basato il suo lavoro di composizione su processi di variazione utili a ridefinire la destinazione d’uso della musica nel passaggio dall’Image Album al film. Si potrebbe argomentare che tale processo ha rafforzato la tendenza di Hisaishi a evitare tradizionali funzioni di leitmotiv nei film di Miyazaki: infatti tali funzioni, per essere attuate, necessitano di essere pianificate in stretta osservanza della struttura del film, per poter cogliere ogni ricorrenza di elementi narrativi necessitanti una segnalazione musicale. Hisaishi ha invece preferibilmente lavorato sulla base di indizi sparsi a suggerirgli la fisionomia del futuro film, usando poi come punto di riferimento il lavoro compiuto sull’Image Album. Si alza il vento, tuttavia, non fu accompagnato da alcun Image Album; lo stesso accadde all’altro film animato al quale Hisaishi lavorò nel 2013, La storia della principessa splendente (Kaguya-hime no monogatari, 2013), di Isao Takahata. Si alza il vento è l’unico film di Miyazaki privo di Image Album. In realtà, non si trattò della prima occasione in cui Hisaishi introdusse dei cambiamenti nel suo modo di lavorare per i film di Miyazaki. Il suo approccio audiovisivo si è lentamente modificato attraverso gli anni, in risposta ad analoghe trasformazioni in corso nello stile del regista, così come nello stile musicale dello stesso Hisaishi. Tali cambiamenti possono essere approssimativamente schematizzati in tre fasi successive. La prima fase riguarda un solo film del 1984, Nausicaä della Valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984). A quel tempo, Hisaishi era interessato ai timbri dei sintetizzatori e alla musica elettronica in generale: ha ammesso di usare il film come pretesto per sperimentare, non preoccupandosi dunque particolarmente di creare strette sintonie tra la musica e le immagini o il
contenuto emotivo delle sequenze30. Tuttavia, la musica definitiva (proveniente sia dal CD denominato Soundtrack, sia dagli Image Album prodotti per la pellicola) fu attentamente adattata al film grazie alla collaborazione di Takahata Isao: ne emerse una frammentazione radicale e talvolta grezza del materiale d’origine, che tuttavia divenne efficace punteggiatura alla narrazione di Miyazaki, anche grazie a un curato gioco di relazioni tra musica, suoni e silenzi. La seconda fase comprende tutti i film da Laputa – Castello nel cielo a La città incantata inclusi. Qui, l’uso per accumulazione delle “Hisaishi melody” è rilevante, così come l’uso espressivo del motivo discendente (che era già comunque ampiamente apparso in Nausicaä). Infine, la terza fase si inaugurò con Il castello errante di Howl (Hauru no Ugoku Shiro, 2004): Hisaishi abbracciò allora uno stile di musica per film che egli stesso definì più “internazionale”31, per quel che riguardava l’orchestrazione e l’utilizzo di funzioni di leitmotiv. Il motivo di quattro note cessò di essere impiegato e le musiche si presentavano decisamente più indipendenti dagli Image Album. Per esempio, l’elemento musicale di maggior importanza in Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004) il valzer La giostra della vita (Jinsei no merry-go-round) fu composto dopo l’Image Album; lo stesso accadde al tema di Sosuke in Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008). Nonostante questo, forse a causa della lunga abitudine all’arrangiamento reiterato di medesimi brani nel passaggio dagli Image Album ai film, Hisaishi sembrò far coincidere la funzione di leitmotiv con il concetto di variazione, inteso non solo come tecnica ma anche come forma musicale. Questo è particolarmente evidente in Il castello errante di Howl: Hisaishi, infatti, ha realizzato un brano da concerto intitolato “Merry-go-round” Symphonic Variations32, il quale non è altro che un mero assemblaggio delle varie occorrenze del valzer nel film, quasi senza alcun adattamento; già nella pellicola, il valzer è concepito dunque in una forma di “tema e variazioni”, benché frammentata. L’uso del principio di variazione come ripensamento o sostituto della funzione di leitmotiv nella “terza fase” di Hisaishi e Miyazaki è ulteriormente testimoniata dal cortometraggio Pandane to Tamago-hime (Il Signor Pane e la Principessa Uovo), uscito nel 2010 per il Museo d’Arte Ghibli. In tale caso, Hisaishi costruì l’intera musica su variazioni del cosiddetto tema della Follia, un’antica melodia europea ampiamente usata come fonte di variazioni durante l’epoca barocca. L’uso della forma di tema e variazioni da parte di Hisaishi può essere forse intesa come parallelo sonoro del concetto di metamorfosi visiva e spirituale espresso da Miyazaki, e che costituisce proprio il nucleo
contenutistico più importante di Il castello errante di Howl, Ponyo sulla scogliera e Pandane to Tamago-hime. Le strategie audiovisive di Si alza il vento non contraddicono le tendenze generali della “terza fase”, visto l’uso evidente di funzioni di leitmotiv e di variazioni; tuttavia, tali strategie sembrano anche recuperare alcuni elementi della precedente maniera audiovisiva di Miyazaki e Hisaishi, quasi a rimarcare come il film costituisca un addio al termine di una lunga carriera. Dal punto di vista del solo aspetto narrativo, questo è decisamente evidente: Miyazaki riassume molti dei suoi argomenti preferiti, mescolando la biografia dell’ingegnere aeronautico Horikoshi Jirō (1903-1982) con la trama del romanzo Si alza il vento (Kaze tachinu, 1936) di Hori Tatsuo. Nonostante l’ambientazione storica e il tono serio, Miyazaki introduce alcune delle sue tipiche sequenze di fantasia, sotto forma di sogni in cui Jirō incontra l’ingegnere italiano Giovanni Battista Caproni. In uno di tali momenti, Miyazaki sembra dar voce a se stesso tramite Caproni, che dichiara: “Io, con quest’ultimo volo, me ne vado in pensione. L’arco di durata di una vita creativa è di un decennio. Sia per gli artisti, sia per i progettisti è lo stesso”. Per quel che riguarda le funzioni di leitmotiv, è possibile identificare almeno quattro melodie chiaramente intese come segnali di uno specifico personaggio. Tre di esse, in realtà, fanno da matrice per la maggior parte dei brani scritti per la pellicola: si tratta delle melodie di Jirō, di Caproni e di Nahoko, la coraggiosa e sfortunata fidanzata – e poi moglie – di Jirō. La quarta funzione di leitmotiv si basa invece su una melodia dedicata a Castorp, un misterioso straniero incontrato da Jirō presso un albergo di montagna nella località di Karuizawa. Come aveva già fatto in Ponyo sulla scogliera, Hisaishi impiega le melodie dei personaggi per sottolineare le loro reciproche relazioni narrative. Il compositore raggiunge tale risultato costruendo l’inizio di ciascuna melodia sulla base di una mutazione delle altre. La melodia che sembra essere fonte originaria delle altre tre, nel caso di Si alza il vento, è quella di Jirō (Figura 4).
Figura 4: melodia di Jirō.
Si tratta della prima musica che accoglie lo spettatore all’inizio del film, ed è inoltre un riferimento al protagonista della storia. Il primato come fonte d’ispirazione è confermato anche da una precoce apparizione di tale melodia in una composizione per pianoforte e orchestra che Hisaishi scrisse nel 2006, dal significativo titolo di Oriental Wind33. In quel caso si trattava di una melodia di transizione, nella sezione del brano che conduceva alla ripresa del gruppo di temi principale; il suo profilo era tuttavia già quasi perfettamente sovrapponibile con il futuro tema di Jirō, personaggio che con il concetto di “vento d’oriente” ha evidentemente molto a che fare. Le prime quattro note del tema di Jirō – riprese letteralmente da Oriental Wind – sono la cellula che Hisaishi usa per generare le altre melodie destinate a funzioni di leitmotiv. La successione di intervalli tra le note segue lo schema seconda maggiore, seconda maggiore, quarta giusta. A volte Hisaishi aggiunge una nota di volta, per dare maggiore enfasi, in alcune ripetizioni del motivo. Così, il motivo sila-sol-re si espande in si-do-si-la-sol-re (Figura 5).
Figura 5: il motivo di Jirō (rigo sopra) con nota di volta (rigo sotto).
Non si tratta del tipico motivo di quattro note di Hisaishi; tuttavia, anche esso è discendente. Nel film, Horikoshi Jirō vede gli areoplani come splendidi sogni: mezzi per esprimere se stesso e per superare il limite fisico della sua miopia, che non gli avrebbe mai consentito di pilotare un aereo. Le macchine volanti che costruisce, tuttavia, sono usate da altri uomini per atti di guerra. Jirō deve dunque affrontare questa contraddizione e trovare la forza di conviverci. La storia di Jirō è colma di echi della tipica visione che Miyazaki ha del volo, metafora di un’esperienza che guida verso una più piena comprensione della vita. Non è dunque forse un caso che il primo motivo della melodia di Jirō abbia proprio senso discendente. La melodia attribuita a Caproni è una marcia dal carattere baldanzoso e solenne al tempo stesso (Figura 6); il suo inizio, dopo la prima nota, si presenta come rovesciamento speculare quasi perfetto del motivo di Jirō.
Figura 6: inizio della melodia di Caproni.
La tonalità è differente (fa diesis maggiore; la melodia di Jirō era in sol maggiore), ma la successione di intervalli, tranne che per la prima nota (alterata di un semitono ascendente, poiché si tratta della sensibile di fa diesis maggiore; quindi è un mi diesis e non un mi naturale), è totalmente derivabile dal motivo di Jirō in virtù di una semplice inversione melodica, sino all’ultimo salto di quarta giusta, che qui diventa ascendente (Figura 7).
Figura 7: derivazione per inversione a specchio del primo motivo del tema di Caproni (rigo superiore) dal motivo di Jirō (rigo inferiore).
Il risultante senso di “ascesa” e “sollevamento” che trasmette la melodia di Caproni è sicuramente opportuno, visto che il personaggio è il mentore che incita Jirō a dare tutto se stesso per realizzare i suoi sogni, affrontandone però le conseguenze. Una delle battute più significative di Caproni, a questo proposito, recita: “Tu, tra un mondo con le piramidi e un mondo senza piramidi, quali dei due preferisci? […] Quello di volersi librare nel cielo è il sogno dell’umanità, ma è anche un sogno maledetto. Gli aeroplani portano il peso del destino di divenire strumenti di massacro e distruzione. Ciò nonostante, io ho scelto il mondo con le piramidi”. L’incipit della melodia di Castorp (Figura 8), carica di misteriosi presagi, è di nuovo una trasformazione del motivo di Jirō.
Figura 8: inizio della melodia di Castorp.
Hisaishi modifica la tonalità dal modo maggiore a quello minore (sol minore, qui) e altera la successione delle note: il si-la-sol-re originale diventa re-si bemolle-la-sol (Figura 9).
Figura 9: nuova dislocazione delle note provenienti dal motivo di Jirō (rigo inferiore) all’inizio del motivo di Castorp (rigo superiore).
Nonostante la sua apparizione relativamente breve, Castorp ricopre un ruolo importante, fungendo da confidente e poi da coadiuvante nel far nascere la relazione tra Jirō e Nahoko, e introducendo inoltre nel film una prospettiva pessimistica ma ragionevole sul futuro del Giappone, in vista della Seconda Guerra Mondiale. Il suo nome è lo stesso del protagonista di La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924) di Thomas Mann; per questo, la sua presenza nel film adombra anche la malattia fatale di Nahoko, visto che il romanzo di Mann era ambientato in un sanatorio per la tubercolosi – esattamente come il romanzo di Hori Si alza il vento. Il suo atteggiamento enigmatico e contraddittorio è ben restituito dalla musica: la melodia di Castorp non ascende in modo netto, ma piuttosto si “inerpica” verso l’alto. Essa è fatta di frammenti discendenti connessi da salti ascendenti. Dopo il minaccioso motivo iniziale, che anche nel suo tragico senso di immobilità (è sostenuto da un pedale di sol) potrebbe alludere alle più tristi implicazioni
legate al nome del personaggio, la musica si fa malinconica e sospinta da un’armonia più mobile. Il caso della melodia di Nahoko è più complesso. La ragazza che si sacrifica per far sì che il sogno di Jirō si realizzi, e il cui luminoso ricordo svanisce mentre Jirō sopravvive a lei e agli aeroplani splendidi e maledetti, è associata a un brano languido, che nasce ancora dal motivo di Jirō, benché nella sua variante ampliata con nota di volta (Figura 10).
Figura 10: la melodia di Nahoko.
La trasformazione è nuovamente basata su un’inversione melodica, come nel motivo di Caproni: manca, tuttavia, il salto finale di quarta giusta. Dunque, il motivo ascende: ciò ha senso, poiché Nahoko fa da positivo complemento e supporto alla vita di Jirō (Figura 11).
Figura 11: inversione della testa del motivo di Jirō con nota di volta (rigo inferiore) in un frammento motivico all’inizio della melodia di Nahoko (rigo superiore).
Anche se il suo motivo generatore è ascendente, comunque, su scala più grande la melodia di Nahoko discende. Ciò accade, per giunta, in maniera degna d’attenzione: il profilo generale dell’elemento musicale è una citazione quasi letterale della melodia che accompagna i titoli di testa di Laputa Castello nel cielo, il primo film prodotto dallo Studio Ghibli dopo la sua fondazione nel 1985. In aggiunta a ciò, quella particolare melodia è definita nel suo profilo dal motivo di quattro note discendenti che Hisaishi ha
ampiamente utilizzato nei film di Miyazaki precedenti Il castello errante di Howl (Figura 12).
Figura 12: il motivo di quattro note discendenti (terzo rigo) rintracciabile nella melodia di Nahoko (primo rigo) e in quella dei titoli di testa di Il castello nel cielo (secondo rigo).
Le possibili interpretazioni audiovisive della melodia di Nahoko sono almeno due. Per prima cosa, la musica parrebbe essere pensata per commentare i ruoli narrativi di Nahoko quale aiutante di Jirō e, al tempo stesso, compartecipe del suo destino. Si vede come il motivo che definisce l’andamento melodico del tema sia, appunto, inversione del motivo discendente di Jirō: vengono dunque chiamate in causa accezioni di significato legate a complementarietà e interdipendenza. Complessivamente, però, il profilo completo della melodia si presenta discendente, proprio come il motivo di Jirō. In effetti, l’arco narrativo che riguarda Nahoko tratteggia una protagonista contraddistinta da una strenua e generosa lotta contro i propri limiti fisici, destinata, però, a prendere infine coscienza di un’amara verità: non potrà sfuggire a lungo il proprio destino. Dovrà dunque prendere il meglio che la sua condizione può offrirle. Nahoko ha la tubercolosi; eppure, accetta comunque di sposare Jirō, sperando di guarire e di essere abbastanza forte da partecipare del sogno di Jirō. Alla fine, sceglierà di lasciare Jirō, ritenendo che il proprio ruolo sia ormai compiuto e che la miglior opzione rimastale sia risparmiare al marito il dolore di vederla consumarsi e morire. Il senso del percorso di Jirō, un funesto cammino verso un bellissimo sogno, è profondamente simile a quello che riguarda Nahoko. Nessuno dei caccia Zero di Jirō tornerà, dopo la guerra, e Nahoko scomparirà, perdendo la battaglia contro la tubercolosi. Alla fine del film, sia gli aerei, sia la ragazza, sfumano quietamente sullo sfondo del medesimo paesaggio onirico. Jirō non ha più nulla, come all’inizio della storia; questo ritorno a una condizione primigenia, carico però di nuova consapevolezza, ricorda da vicino il significato che Miyazaki ha spesso attribuito alla metafora del volo. Ecco che, dunque, potrebbe ben spiegarsi la scelta di una melodia discendente per Nahoko, da
parte di Hisaishi, in analogia a quanto fatto per le scene di volo in pellicole precedenti e per Jirō stesso in Si alza il vento. La seconda interpretazione della melodia di Nahoko si connette alla maniera audiovisiva sviluppata da Miyazaki e Hisaishi attraverso gli anni, nel suo complesso. La citazione quasi letterale del tema proveniente da Laputa – Castello nel cielo, con il suo motivo di quattro note, suona come un omaggio al pensionamento di Miyazaki: una ricapitolazione finale del “paesaggio sonoro” presente nei “classici” dall’autore, e in particolare nella prima produzione Ghibli, che tanto ha contribuito a definire lo stile di tale Studio. Inoltre, il tema è associato a Nahoko, la quale dà corpo a uno degli archetipi preferiti del regista: l’eroina giovane, forte e altruista. A causa del modo in cui Miyazaki disegna (e per via del derivato stile visivo Ghibli), il volto di Nahoko è sostanzialmente identico a quello di molte altre protagoniste di film del medesimo autore, così spesso contraddistinte, nelle loro scene di volo, dal motivo di quattro note. La citazione da Laputa – Castello nel cielo sembra allora un ultimo tentativo, da parte di Hisaishi, di rafforzare i legami tra l’itinerario autoriale di Miyazaki e la sua controparte musicale, creando un’associazione audiovisiva che è al tempo stesso un ultimo, autoreferenziale inchino al pubblico, ma anche un segno di coerenza artistica. Non tutta la musica di Si alza il vento nasce dalle quattro melodie utilizzate con funzione di leitmotiv. Un quantitativo non trascurabile di brani ha indipendenza tematica, del tutto paragonabile a quella di brani separati provenienti da un Image Album. Coerentemente con ciò, tali composizioni appaiono solo una volta, “accumulandosi” lungo la storia, pur avendo forte caratterizzazione melodica. Brani di tale tipo sono quello che viene proposto durante la scena in cui Jirō, bambino, osserva le stelle cadenti sul tetto della sua casa; o la pagina che racconta in musica il volo di prova dell’aeroplano Hayabusa. L’intera partitura conta nove di tali episodi indipendenti, su un totale di trentuno numeri. Questo sottoinsieme di composizioni crea un dialogo tra Si alza il vento e le strategie audiovisive messe in gioco da Miyazaki e Hisaishi durante la maggior parte della loro collaborazione, oltre a sottolineare un aspetto peculiare dell’impalcatura narrativa del film nello specifico. Infatti, Si alza il vento è costruito come serie cronologica di episodi nella vita di Jirō, collegati da ellissi temporali contrassegnate da un’idea visiva: i “salti” nella storia avvengono ogni volta che il protagonista viaggia su un treno. In conclusione, le principali funzioni audiovisive di Si alza il vento imbastiscono una rete di corrispondenze tra personaggi, melodie e ruoli narrativi. Ciò è in buona sintonia con le tendenze audiovisive presenti nei film
di Miyazaki e Hisaishi dopo Il castello errante di Howl34. Tuttavia, Si alza il vento si distingue anche in quanto omaggio audiovisivo alla collaborazione tra il musicista e il regista, recuperando dal passato idee melodiche e strategie, senza perdere comunque di vista le necessità contingenti del film di Miyazaki che avrebbe dovuto costituire l’ultimo atto di una carriera. La porta lasciata socchiusa da Miyazaki alla realizzazione di cortometraggi si è infine spalancata su un nuovo lungometraggio, che forse tornerà a mettere in discussione il cammino audiovisivo sin qui compiuto, oppure troverà una differente maniera poetica per congedarsi dal proprio pubblico. Come si dice spesso nei dialoghi di Si alza il vento, dunque, “il vento soffia ancora”; non è affatto caduto. Forse, piuttosto, è cambiato.
2 La passione di Miyazaki per Caproni è stata coltivata e certamente rinvigorita, fino a giungere all’aperta dedica di Si alza il vento, dal costante interesse di un erede di Gianni Caproni, Italo Caproni, che dall’uscita di Porco Rosso ha nutrito l’immaginazione di Miyazaki fornendogli materiali originali e pubblicazioni. Si legga l’intervista < http://www.animeclick.it/news/40190-sialza-il-vento-intervista-ad-italo-capronimiyazaki-e-laeronautica > (pubblicato il 15 settembre 2014, ultima visita: 1 aprile 2015). 3 Come ben ricostruito nell’articolo della redazione di AnimeClick.it Ghibli: dal vento, all’aeroplano, allo Studio… Da Kaze Tachinu, dialoghi sparsi intorno a passioni e creazioni di Miyazaki Hayao (< http://www.animeclick.it/InfoExtra.php?nome=Ghibli%20Intervista%20Cannarsi >, pubblicato il 15 settembre 2014, ultima visita 1 aprile 2015), il soggetto di Si alza il vento nasce dal breve manga omonimo, appartenente al genere dei Mōsō nōto (“Appunti Trasognati”), che Miyazaki pubblica saltuariamente sulla rivista di modellismo giapponese “Model Graphix”. Questi fumetti, composti di tavole in grande formato acquerellate dallo stesso Miyazaki, raffigurano mezzi bellici – in primis, naturalmente, aeroplani. 4 J. Horikoshi, Eagles of Mitsubishi. The Story of the Zero Fighter, Orbis Publishing, London 1982, p. X. 5 Il riferimento alle piramidi, un po’ enigmatico e fuori contesto, contiene alcune implicazioni su cui torneremo tra poco. 6 R. D. Haynes, From Faust to Strangelove: Representations of the Scientist in Western Literature, The John Hopkins University Press, Baltimore and London 1994. 7 L’esperimento del dottor K (The Fly), Kurt Neumann, 1958; Piovono polpette (Cloudy with a Chance of Meatballs), Chris Miller e Phil Lord, 2009. Sulla costruzione della figura cinematografica dello scienziato rimandiamo a A. Brodesco, Una voce nel disastro. L’immagine dello scienziato nel cinema dell’emergenza, Meltemi, Roma 2008, pp. 11-21. 8
Che riassumono le controversie ritrovabili nella rassegna stampa in < http://www.Nausicaä.net/wiki/The_Wind_Rises_%28impressions%29 >; e negli articoli < http://thedissolve.com/news/242-miyazaki-controversy > (pubblicato il 14 agosto 2013, ultima visita 1 aprile 2015); e < http://www.npr.org/blogs/parallels/2013/11/16/245068512/animated-film-on-thekamikaze-plane-hits-a-nerve-in-asia > (pubblicato il 16 novembre 2013, ultima visita 1 aprile 2015). Una critica ideologica particolarmente feroce è contenuta nell’articolo di Inkoo Kang, The Trouble with The Wind Rises. Hayao Miyazaki ends a brilliant career on a shameful note (< www.villagevoice.com/2013-12-11/film/the-trouble-with-the-wind-rises >, pubblicato l’11 dicembre 2013, ultima visita 1 aprile 2015).
9 Ricordiamo che è su questa impossibile distanza tra la teoria scientifica e il suo esercizio (o anche tra scienza e società) che insiste il termine tecnoscienza, il quale interviene a sottolineare l’inestricabilità tra ricerca/sapere e applicazione/azione. Si veda M. Bucchi, Scegliere il mondo che vogliamo: cittadini, politica, tecnoscienza, Il Mulino, Bologna 2006, p. 9. 10 Aggiungiamo in nota la più bizzarra delle contestazioni al film: il fatto che Jirō fumi mentre è in stanza con una malata di tubercolosi è valso a Miyazaki le lettere di protesta di associazioni antitabagiste giapponesi (si legga Yoree Koh, Miyazaki Film Gets Bad Health Bill From Anti-Smoking Doctors, < http://blogs.wsj.com/japanrealtime/2013/08/16/miyazaki-film-gets-bad-health-bill-fromanti-smoking-doctors >, pubblicato il 16 agosto 2013, ultima visita 1 aprile 2015). 11 Valéry racconta così la genesi della poesia: “Une mélancolique insomnie a enfanté le premier mot; un robinet qui coulait à fait naître le second” (cit. in P. Pieltain, Le Cimetière Marin de Paul Valéry, Palais des Académies, Bruxelles 1975, p. 19). 12 S. Sontag, Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia, Einaudi, Torino 1979, p. 27.
13 E. A. Poe, I racconti del terrore, Rizzoli, Milano 1990 (traduzione modificata). 14 P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, Il Mulino, Bologna 1999, p. 286. 15 Ivi, pp. 125-126. 16 E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, p. 433. 17 Per qualche approfondimento cfr. A. Brodesco, “Nobody came, nobody settled, nobody shopped”. When the world ends in a mall: Dawn of the Dead, The Wild Blue Yonder, WALL-E, in C. Meiner e K. Veel (a cura), The Cultural Life of Catastrophes and Crisis, De Gruyter, Berlin 2012, pp. 288290. 18 E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 433. 19 Cit. in D. Cavallaro, The Late Works of Hayao Miyazaki: A Critical Study, 2004-2013, McFarland & Co, Jefferson 2015, p. 173. 20 Alla domanda “You are anti-war, and yet, you are deeply in love with the Zero, which was essentially a weapon of war. You see an inconsistency there, don’t you?”, Miyazaki risponde: “I am a bundle of contradictions. The love of weaponry is often a manifestation of infantile traits in an adult” (Hiroyuki Ota, Hayao Miyazaki: Newest Ghibli film humanizes designer of fabled Zero, < http://ajw.asahi.com/article/cool_japan/movies/AJ201308040009 >, pubblicato il 4 agosto 2013, ultima visita 1 aprile 2015). 21 Una prima versione di questo saggio è stata presentata, in inglese, come relazione per il 27° Convegno Annuale della SAS – Society for Animation Studies – “Beyond the Frame”, Canterbury Christ Church University, Regno Unito, 13-16 luglio 2015. Il contributo, originariamente intitolato The Wind Has Changed. An Update on Hayao Miyazaki and Joe Hisaishi’s Audiovisual Strategies for Animated Films, è qui edito per la prima volta. 22 Il video dell’intera conferenza stampa è disponibile nel secondo Blu-Ray Disc bonus del cofanetto Miyazaki Hayao Complete Box/Works, pubblicato da Tokuma Crown il 2 luglio 2014 (catalogo: VWBS-1531); è disponibile anche, con sottotitoli in inglese, nell’edizione britannica del medesimo cofanetto, The Hayao Miyazaki Complete Collection, edito da Studiocanal l’8 dicembre 2014 (catalogo: 3223949). 23 What Was Mr. Miyazaki Doing After the Retirement?, in (consultato il 26 aprile 2018).
Modelkasten.com.
24 Ghibli’s Hayao Miyazaki Reveals His ‘Final’ Film’s Title, Release Window, Anime New Network https://www.animenewsnetwork.com/news/2017-10-28/ghibli-hayao-miyazaki-reveals-his-finalfilm-title-release-window/.123343 (consultato il 26 aprile 2018). 25 “Hisaishi’s long sweeping melodies are so closely associated with his name and style that […] the term ‘Hisaishi melody’ has become common parlance in Japan”. A. Roedder, The Localization of “Kiki’s Delivery Service”, in “Mechademia”, vol. 9, 2014, p. 258 (pp. 254-267). [Traduzione mia]. 26 Per una trattazione più ampia di tale motivo si rimanda a Marco Bellano, The Parts and the Whole. Audiovisual Strategies in the Films of Hayao Miyazaki and Joe Hisaishi, in “Animation Journal”, n. 18, 2010, pp. 4-54. 27 Le citazioni di brani sono mie trascrizioni. 28 F. Ferrone, L’incontro con Joe Hisaishi al Far East Film Festival 2015, in Loudvision.it, 24 aprile 2015
(consultato il 28 aprile 2018).
29 “[Adams] has adopted the minimalist technique, but he has transcended the minimalist aesthetic and style through his expansion of [the textural, harmonic and rhythmic aspects of minimalism] and through his frequent use of extended melodic lines”. T.A. Johnson, Minimalism: Aesthetic, Style, or Technique?, in “The Musical Quarterly”, vol. 78, n. 4, Winter 1994, p. 752 (pp. 742-773). [Traduzione mia]. 30 V. Brawley, N. Thompson, Interview with Joe Hisaishi, in “Scorelogue”, anno sconosciuto, non più disponibile, precedentemente in rete (2009) all’indirizzo http://www.joehisaishi.net/interviews/inter6.htm. 31 J. Hisaishi, Le Mécano de la General, libretto per l’edizione DVD francese del film di Buster Keaton e Clyde Bruckman Come vinsi la guerra (The General, 1927), MK2 Éditions, Paris 2004, p. 4. 32 Traccia 2 del CD Works III, Universal, UPCI-1027, 27 luglio 2005. 33 Traccia 5 del CD Freedom: Piano Stories 4, Universal, UPCI-1014, 13 dicembre 2006. 34 Hisaishi non ha mai sviluppato funzioni di leitmotiv tanto minuziose quanto quelle riscontrabili in Si alza il vento, dopo il debutto del suo cosiddetto stile “internazionale” tra il 2001 e il 2004; per esempio, niente del genere è presente in La storia della principessa splendente (che tuttavia ha costituito un caso speciale, visto che Hisaishi si è unito alla produzione quando l’animazione era già stata conclusa) e nei suoi più recenti successi nell’ambito dei film dal vivo, quali il noir Villain (Akunin, L. Sang-il, 2010). La lunga consuetudine di Hisaishi con i film di Miyazaki ha sicuramente facilitato la sua comprensione profonda delle strategie narrative del regista, potendo dunque cimentarsi senza rischi con la pianificazione accurata di un’inedita trama di funzioni leitmotiviche.
MARCELLO GHILARDI
TEMPO, TECNICA, ESISTENZA NELL’ULTIMO MIYAZAKI Se fai accadere quello che c’è in te quello che c’è in te ti salverà. Vangelo apocrifo copto, II secolo
“Chi avrà mai visto il vento? Né io né tu lo vediamo. Eppure se le foglie di quest’albero sono fatte vibrare, il vento le sta attraversando”. Miyazaki lascia trasparire uno dei motivi ispiratori di tutto il suo cinema in queste parole di Jirō, protagonista di Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013), interrogandosi su ciò che transita nelle infinite forme del vivere senza mai lasciarsi afferrare o trattenere. La presenza invisibile eppure viva ed efficace del vento è anche una potente idea cinematografica che Miyazaki si porta dietro da tempo – l’intera sua opera è intessuta d’aria, di velivoli, di brezze, di una “leggerezza” che è tutto il contrario di ogni frivolo divertimento cartoonesco. L’ultimo film di Miyazaki – ultimo in senso cronologico, ma forse anche in senso definitivo se il regista manterrà la volontà di non realizzarne altri – appare dunque come una condensazione della sua poetica incentrata sul librarsi nel vento; questa volta l’occasione è data nella forma inedita di una storia che si basa sulla vita di un individuo storico, Horikoshi Jirō (1903-1982), creatore del famoso aereo Mitsubishi A6M Zero. In un’epoca in cui tutto sembra crollare, dalle speranze di progresso civile alla possibilità di costruzione di una società, dai sogni giovanili ai desideri di vivere un lungo e sereno rapporto d’amore, la dimensione del sogno assume una valenza fondamentale, al tempo stesso ricompositiva e critica. Jirō non sogna per fuggire dalla realtà, ma piuttosto per integrarla e costruire in essa qualcosa di importante per sé e per gli altri. Non si abbandona alla dimensione onirica per trovare in essa un luogo isolato, che per qualche istante almeno lo conforti dai dolori del mondo. Il sogno è piuttosto un ritrovarsi, un sapersi insieme nel tempo e fuori dal tempo; è un incontro con se stesso, con la propria voce interiore e con il proprio desiderio, che assume il volto e lo stile del progettista italiano Giovanni Battista Caproni (18861957). Nel confronto a distanza con l’ingegnere italiano Jirō si sente implicato in una passione e in una tradizione che lo precede e lo avvolge, e a cui desidera essere iniziato. Fin da piccolo coltiva la passione del volo e degli aerei, contempla e studia riviste di aviazione anche in lingua straniera; presagisce che la vera iniziazione a una tradizione di ricerca e di lavoro
coincide con l’aderire al proprio desiderio e alla propria verità. Caproni è la figura dell’Altro, del Maestro che indica la strada, il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri. Il progettista italiano svela a Jirō l’essenza profonda della sua vocazione – non pilotare, ma progettare aerei. La formazione di Jirō si compie attraverso l’incontro immaginario con Caproni, vedendo in lui una figura ideale di Maestro che costituisce tanto l’essenza del lavoro a cui ci si dedica quanto l’immagine di sé che si cerca di plasmare. Per questo motivo nella dimensione onirica passato e futuro si intrecciano e convergono; le esperienze e i collaudi talvolta rocamboleschi di Caproni si alternano a premonizioni agghiaccianti, legate alle vicende belliche che si profilano all’orizzonte. Il ritmo delle epoche, delle stagioni della vita, intreccia le vicende esistenziali, le aspirazioni e le paure delle persone, il farsi della Storia come progresso. Da Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) a quest’ultimo lungometraggio, passando attraverso la serie televisiva Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), Miyazaki ha messo più volte in scena il rapporto tra aspetti positivi e negativi della tecnica, elemento di emancipazione dell’essere umano ma anche forma prometeica che ne mina l’umanità e distrugge il vincolo equilibrato con l’ecosistema. La bellezza del volo ha un suo tragico pendant nella distruzione che i velivoli porteranno durante la guerra; la passione per la progettazione di aerei trova un esito infausto nel loro diventare strumenti bellici, al servizio di scelte imperialiste e cieche strategie militari. L’urgenza del vivere La scena iniziale del film contiene già in nuce i temi fondamentali che verranno poi sviluppati nella diegesi. Un respiro, un sogno: il lieve inspirare ed espirare di Jirō bambino, mentre dorme, rimanda all’aria sottile in cui si librano gli aerei e la mente svincolata dalla realtà quotidiana. Quel respiro, quel vento sono entrambi manifestazioni di una medesima energia vitale, il ki, l’atmosfera, il soffio che anima tutte le cose, che si concentra in esse o si disperde, che genera la vita e infine la riassorbe nel processo naturale di crescita ed estinzione. L’incipit onirico e la colonna sonora che lo accompagna conferiscono alle prime sequenze un’aura vagamente felliniana e imprimono nello spettatore la sensazione che la continua intersezione dei piani di realtà – tra la vita concreta, l’immaginazione e il sogno – non sia affatto un pretesto narrativo ma esprima un aspetto fondamentale dell’esistenza.
I protagonisti delle storie raccontate da Miyazaki sono in genere figure d’azione, personaggi operativi più che contemplativi. Con la figura di Jirō assistiamo invece allo sviluppo di un carattere che trova l’azione nel pensiero, nell’arte di progettare, nella creazione di un futuro possibile attraverso il disegno di velivoli innovativi. La miopia che impedisce a Jirō di volare diviene, da difetto e svantaggio, l’occasione per trovare la propria strada. Da quella mancanza, dall’impossibilità di essere un pilota, saprà trarre la propria vocazione; proprio in virtù del difetto degli occhi saprà affinare un altro tipo di sguardo, una vista ulteriore, una sensibilità per ciò che esiste ancora soltanto in potenza. Il non veder bene con gli occhi diviene l’opportunità per apprendere a vedere “oltre”. Durante il sogno con cui si apre il film è presente già un accenno all’altra dimensione fondamentale della vita di Jirō: quando il suo aereo va in pezzi e inizia la caduta si vede in basso, sullo sfondo, un treno: presenza discreta del mezzo di locomozione su cui Jirō farà l’altro incontro decisivo della sua vita, quello con la giovane Nahoko. La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso. Jirō e Caproni si ritrovano spesso e volentieri in sogno, entrano l’uno nel sogno dell’altro, ma senza invaderlo; ciò che conta per entrambi è la possibilità – che a loro, progettisti e non piloti, accade solo in sogno – di osservare la terra da quella posizione del tutto particolare offerta dall’aereo in volo, quando ci si stacca dalla propria ombra. È come se il pensiero di Miyazaki sul volo, un pensiero coltivato fin dall’infanzia, trovasse sulle tracce di Jirō un nuovo grado di limpidezza e di forza: nella scia di un aereo, nella curva di un profilo alare, si dà la possibilità di vedere meglio questo mondo, così contraddittorio e agitato. Solo nella distanza è dato di accedere al cuore dell’esistere, solo sollevandosi dalla terra essa si dona allo sguardo; il librarsi della fantasia, lo scorrere nel vento, sono preludio alla capacità di rimettere poi piede a terra con un cuore rinnovato. Non solo: in questo paradossale rapporto di prossimità e distanza con le cose del mondo si scopre un intreccio esistenziale che lega il volo all’infanzia. Innalzandosi tra le nuvole anche un adulto riesce a ritrovare insieme la semplicità e la profondità dello sguardo che un bambino sa posare sul mondo e sulla vita, mantenendo però la consapevolezza che la maturità reca con sé.
Forse, ancor più che all’infanzia, il riferimento è a quella stagione indefinita della vita che si colloca tra infanzia e adolescenza, quando nella personalità e nell’immaginazione di un essere umano si concentrano potenzialità indefinite e molteplici, quando insieme alla capacità di concentrazione resiste uno sguardo incantato, innamorato delle cose. Quell’età è indefinita, è una soglia impercettibile, come l’istante del decollo in cui un aereo, non più vettura che accelera sulla terra, non è si ancora librato del tutto. Tra la pesantezza che riporta al suolo e la capacità di staccarsi da terra si gioca l’esistenza umana e si snoda la vicenda di Jirō e di ogni essere umano. Talvolta il confine che distingue e insieme collega realtà e sogno tende a sfumarsi, a invertire le parti, a sparigliare le carte: “Questo mondo è un sogno”, dice Caproni in una delle sequenze oniriche del film. Ma sta parlando del mondo sognato o del mondo supposto reale, nel quale i sogni accadono? Quale mondo ha più influenza e contribuisce a determinare una vocazione spirituale? Ed è sempre lo stesso Caproni che, in un altro scorcio premonitore, indica a Jirō centinaia di aerei da guerra in volo tra le nubi: “Non ne tornerà neppure una metà: vanno a incenerire città nemiche. Però la guerra presto finirà”. Ecco di nuovo apparire la poetica dolente, eppure aperta alla speranza di un futuro positivo, che Miyazaki ha esposto nei già citati Conan il ragazzo del futuro e Nausicaä della valle del vento, o in Laputa – Castello nel cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986) e in Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992). Il dualismo tra la positività e la negatività della tecnica si ripropone con una incisività ancor più drammatica nella storia di Jirō, ambientata in una ben precisa epoca del Giappone. Il fascino del volo e la bellezza delle forme disegnate dai progettisti incorrono letteralmente in una catastrofe, un rovesciamento totale della loro iniziale destinazione. La bellezza e la funzionalità dei velivoli si traducono in efficacia distruttiva; il genio di Jirō – che migliora le caratteristiche aerodinamiche di quello che diverrà il modello Mitsubishi A6M Zero, realizzando un aereo in grado di volare più velocemente e di coprire maggiori distanze – viene sfruttato dall’industria militare nipponica. Che distanza tra lo stupore creativo provato di fronte a una spina di sgombro, che richiama la curvatura di un profilo alare, e la triste realtà produttiva e bellica…! Un simile contrasto troverà un’altra tragica testimonianza nella Germania visitata da Jirō, quando la delegazione giapponese prenderà atto di come grandi personalità dedite alla ricerca coesistano con militari meschini e sospettosi. È sempre la voce di Caproni a ricordare l’ideale a cui è legato, in verità, chi consacra la propria vita alla costruzione di aerei: “Gli aeroplani non sono né degli strumenti di guerra né un mezzo di profitto commerciale. Gli aeroplani sono uno splendido sogno! Il progettista è colui che conferisce forma al sogno”.
Dare forma ai sogni: questa è la missione di chi disegna, inventa, conferisce corpo all’immaginazione. Nella voce di Caproni non risuona forse quella di Miyazaki? La visione interiore di Jirō coincide con la vocazione di chi ha dedicato la vita ad animare figure disegnate, intessendole di suoni e parole. In quella voce risuona anche un’urgenza, una necessità interiore da cui dipende tutto il senso dell’esistere, di ciò che in esso reclama attenzione. La dinamica che attraversa il personaggio di Jirō ricorda quella che Gilles Deleuze riscontra in alcuni personaggi dei romanzi di Dostoevskij o dei film di Kurosawa: In Dostoevskij i personaggi sono eternamente nell’urgenza, ma mentre sono presi dall’urgenza, in questioni di vita o di morte, sanno anche che c’è una questione ancora più urgente, ma non sanno quale sia. Ed è questo che li ferma. Come se anche nella massima urgenza – “C’è un incendio, devo andarmene” – dicessero: “No, c’è qualcosa di più urgente. E non mi muoverò finché non lo saprò”. […] I personaggi di Kurosawa si trovano in situazioni impossibili, ma, attenzione, c’è un problema più urgente. E debbono capire qual è.35
Questo problema più urgente, con cui gli artisti sono sempre alle prese – perché non è un problema che può essere liquidato, ma si mantiene lungo tutto l’arco di una vita artistica – è simbolizzato in Jirō dalla sua capacità di concentrarsi sul proprio obiettivo. Diversi sono i momenti, nel corso della narrazione, in cui il protagonista resta immerso nei pensieri anche se il mondo che lo circonda prosegue nel suo movimento vorticoso. Anche dopo aver accompagnato a casa la giovanissima Nahoko – appena conosciuta sul treno per Tokyo – dopo le devastanti scosse di terremoto che squassano la regione del Kantō nel 1923, Jirō non si ferma, ma corre all’università. La sua mente è rivolta al luogo in cui sta imparando il mestiere, sta coltivando il suo dono. È un primo momento di grave difficoltà. La fatica e il dubbio si fanno strada nell’intimo, e ancora una volta trovano espressione nella calda voce di Caproni: “Il vento soffia ancora, ragazzo giapponese?”. Avversità esterne e difficoltà interiori sono sempre presenti durante lo snodarsi di un percorso di crescita esistenziale; molte sono le trappole in cui si può cadere, i motivi o le occasioni di sconforto. Jirō tuttavia sa che non sono le probabilità di successo a contare davvero, ma il fine che muove l’intenzione. Ciò che importa è la capacità di mantenere vivo il soffio del vento, la forza vitale che traccia un cammino e che trasforma un destino in carattere. Miyazaki rende il suo personaggio – come già aveva fatto con la figura solare di Ashitaka, in Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) – una incarnazione di ciò che in giapponese si definisce attraverso il termine makoto. Tradotto in genere con “sincerità” o “lealtà”, questo ideogramma indica la dedizione sincera a un ideale, la purezza dell’intenzione. Quando tutto sembra crollare e non si trova nulla a cui appoggiarsi, nessuna stampella a cui aggrapparsi, è la capacità di mantenere intatta la propria purezza interiore a custodire una radura luminosa
da cui ripartire, un fondo di energia e di sicurezza da cui attingere nuova linfa. È da lì che riprende a spirare il vento che rimette in moto, come testimoniano le parole convinte di Jirō al suo superiore Kurokawa, dopo il fallito collaudo del prototipo Hayabusa: “Sento come se davanti ai miei occhi si fosse dischiusa una strada interminabile”. Vivere e sognare nell’epoca della tecnica Il vento arriva, il vento se ne va. Trascorre e passa; poi si leva ancora, inatteso. C’è un soffio intimo che accelera o rallenta i passi; e c’è anche un vento della Storia, che talvolta accompagna quel soffio sottile e talvolta invece lo ostacola, insegnando che si deve anche procedere contro vento. Le scelte di Jirō non possono prescindere dal contesto, non sono mai sganciate dalla realtà che lo circonda né ambiscono a esserlo. Anche Nahoko incarna un ideale di fermezza e di adesione al proprio desiderio, pur nella fragilità del suo corpo malato. Entrambi i protagonisti, ciascuno a partire dalla propria posizione, esprimono al meglio il carattere makoto; entrambi si donano alla vita e al desiderio senza ritrarsi di fronte agli aspetti dolorosi dell’esistere. Il Giappone delle epoche Taishō (1912-1925) e Shōwa (1926-1989) è un paese in fermento, che sperimenta una trasformazione senza precedenti. L’introduzione della cultura occidentale, in special modo della scienza e della tecnologia, produce trasformazioni a livello non solo industriale e produttivo, ma anche politico e sociale. L’epoca Meiji (1868-1912) aveva fatto uscire il Giappone dal suo auto-isolamento forzato e l’aveva proiettato nell’orizzonte della modernità; i primi due decenni dell’era Shōwa stanno tracciando il solco in cui modernità, tecnica e politica si innestano l’una sull’altra formando una miscela esplosiva e tragica. Della “tecnica occidentale” (yōsai) tanto declamata fin dall’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, il Giappone fa emergere alcuni dei risvolti sociali e psicologici più contraddittori. In Giappone è forse mancata, in quegli anni, una voce chiara e distinta in grado di mostrare come l’essenza della tecnica non sia affatto qualcosa di tecnico, bensì una forma di “produzione” dell’umano – cioè una dimensione politica, che produce determinate modalità di vita in comune. La tecnica nel suo complesso, nel suo essere un “progetto” dell’uomo – nel duplice senso del genitivo, soggettivo e oggettivo – non è soltanto un prodotto, ma anche un fattore che produce l’umano. Quest’ultimo è sempre al tempo stesso l’origine e l’esito dei suoi artefatti, dei modi con i quali abita il mondo e lo manipola. L’illusione che al progresso tecnico corrisponda un cammino razionale in grado di far aderire tutti gli esseri umani a una capacità di coesistenza nella società inibisce spesso la lucidità essenziale per comprendere la necessità di un’educazione in senso lato politica, per fare i conti con l’ambiguità della
tecnica stessa, con i movimenti e le sterzate che imprime alla Storia. Può essere che al Giappone in cui vivono, sognano, desiderano Jirō e Nahoko mancasse in quegli anni un pensiero in grado di pensare la tecnica e di pensare la Storia – tanto che addirittura diversi monaci e maestri Zen imbracciarono le armi, in quelle decadi funeste, per dare libero corso alle velleità di potenza dell’Impero nipponico36. La risposta indiretta di Jirō e Nahoko al militarismo e allo scientismo tecnocratico degli anni Trenta passa attraverso l’adesione matura al proprio progetto esistenziale. Si traduce nel tentativo di proteggere anche nel mezzo della frenesia pre-bellica alcune forme di vita, di abnegazione e di impegno sincero, con valori diversi da quelli nazionalistici per cui vivere – senza per questo rinunciare a farsi interpreti della realtà di quell’epoca, senza cioè ritrarsi in una sorta di cieco isolamento. Honjo, il collega e amico di Jirō, lamenta in più occasioni l’arretratezza tecnologica dell’ingegneria e dell’industria giapponesi: “Noi non abbiamo i fondamenti tecnologici”, afferma con amarezza e sconforto. Durante il viaggio di studio e di ricerca in Germania, constata il divario che sussiste tra le ultime realizzazioni aeronautiche tedesche e i prototipi giapponesi: “Noialtri siamo indietro di vent’anni”. L’inseguimento e la conseguente utopia del raggiungimento del potere tecnico, economico e militare del mondo occidentale avevano determinato la diffusione di alcuni motti fin dall’epoca Meiji: Tōyō dōtoku, Seiyō gijutsu (“moralità giapponese, tecnica occidentale”), oppure wakon yōsai (“spirito giapponese, tecnica occidentale”). Dall’Europa e dagli Stati Uniti, si pensava, dovevano essere tratte le qualità legate alla scienza e alla tecnica: le specificità dello “spirito” giapponese, considerate superiori e comunque imprescindibili, avrebbero dovuto invece mantenersi integre, incontaminate. Negli stessi anni in cui il vero Horikoshi Jirō metteva a punto il modello Mitsubishi A6M Zero, il filosofo Nishida Kitarō (1870-1945) rifletteva sull’intersecarsi di produzione tecnologica e di prassi etica mostrandone l’intima corrispondenza e interdipendenza: “Non c’è assolutamente alcuna poiesis che non sia praxis, e nessuna praxis che non sia poiesis. Praxis non è semplicemente un’attività conscia, ma accade grazie alla tecnica della poiesis. Poiesis diviene tale per mezzo di una praxis, altrimenti essa potrebbe accadere per mero caso”37. La tecnologia non si dispone come un semplice strato su una base umana “naturale” che resta ad essa impermeabile; l’umano è costitutivamente un essere culturale, la sua natura è proprio quella di essere “tecnico”. Per questo motivo la tecnica informa la vita nel suo complesso, la trasforma radicalmente anche nella dimensione corporea:
Il nostro corpo biologico è già qualcosa di tecnico (gijutsuteki) per il fatto di appartenere alla vita storica. Come dice Aristotele, lo sviluppo del corpo è la poiesis della natura; ma è nella nostra vita sociale che esso diviene davvero tecnico. I nostri corpi possono essere intesi come incarnazioni storiche. Da questo punto di vista si potrebbe dire che la nostra vita storica è in tutto e per tutto tecnica.38
La tecnica si trova in una “continuità discontinua” con la natura. È un prolungamento dell’umano, una sua produzione; e insieme è ciò che rischia di ritorcerglisi contro. La sensibilità giapponese, tradizionalmente molto attenta alla dimensione sacrale dell’ambiente e dei cicli naturali, è rimasta fortemente influenzata nel suo inseguimento continuo del primato tecnologico rispetto all’Occidente, arrivando talvolta a esiti quasi schizofrenici. Spesso l’elaborazione di questa schizofrenia o della fatica di una composizione tra progresso e tradizione, fra sensibilità naturale e istanze della tecnica, è stata implicitamente affidata alla cultura popolare: non è un caso se l’idea del reciproco innervarsi di naturale e artificiale, di umano e tecnologico, ha rivestito un’importanza cruciale in molte opere dell’animazione giapponese dalla seconda metà del Novecento in poi. Nel film, il vento della Storia e la trasformazione del progresso tecnico si intramano con le vicende personali dei protagonisti, ne condizionano le esistenze, e la regia compone in modo sapiente i diversi piani dell’azione. Nell’estate del 1932, durante una villeggiatura in montagna, accade il secondo e decisivo incontro di Jirō con Nahoko, che diventerà sua moglie. In quei giorni Jirō conosce anche un distinto e affabile signore tedesco, che porta il nome evocativo di Hans Castorp – lo stesso del protagonista del romanzo di Thomas Mann, La montagna incantata. Castorp, che sostituisce temporaneamente Caproni nel ruolo di deuteragonista, dà voce ai tristi presentimenti di Jirō nel corso di una conversazione serale: “Il Giappone scoppierà, e anche la Germania scoppierà. Bisognerà fermarla”, dice in tono grave. Miyazaki ha la sensibilità di mostrare attraverso la figura positiva e simpatica di un personaggio tedesco il senso di pericolo, la preoccupazione, la consapevolezza dell’imminente conflitto mondiale. Tutte le vite dei singoli individui sono trascinate loro malgrado nel vortice di una Storia che non vorrebbero incontrare, ma da cui non possono evadere. Come accade per tutti, anche per Castorp, per Jirō e Nahoko il soffio singolare dell’esistere non può sottrarsi alle correnti impetuose della Storia. Il tempo del vivere personale si innesta su quello più ampio e spesso incontrollabile delle epoche e delle nazioni. Nel corso di quei giorni di vacanza, mentre pian piano sboccia un sentimento nuovo e profondo, Jirō costruisce per la gioia di Nahoko piccoli aeroplani di carta o di balsa. Li fa librare in aria, insieme alla sua amata ne
osserva le traiettorie, come fossero i moti imprevedibili del cuore. In quegli istanti si interroga con parole che sembrano racchiudere il significato profondo della sua vicenda esistenziale: “Chi avrà mai visto il vento? Né io né tu lo vediamo. Eppure se le foglie di quest’albero sono fatte vibrare, il vento le sta attraversando”. Il vento non è un oggetto, non è qualcosa che si possa afferrare o trattenere. È un transito, è un passaggio. La sua natura è di essere movimento impermanente, di trasportare, di produrre effetti pur restando invisibile. Solo i risultati del suo trascorrere sono percepibili, solo ciò che dal vento è mosso può essere colto dai sensi. Durante un altro sogno Jirō è accolto con entusiasmo da Caproni, che ha organizzato una grande festa aerea per il proprio pensionamento. Nonostante le difficoltà di quegli anni, Jirō è nel pieno del suo fervore creativo; Caproni se ne accorge e lo incoraggia con ammirazione e affetto: “Il vento soffia ancora eh?”. Lo spirare della forza viva che anima le speranze e i sogni è la cifra che orienta i moti del cuore e dà forma all’impegno nel vivere. Ogni volta che Jirō immagina o sogna di volare un vento lo scuote e gli scompiglia i capelli – è il ki che circola rapido, che pulsa nel corpo e nell’anima, e lo connette a quel “grande vento” (taifū) richiamato in due calligrafie che vengono inquadrate con discrezione: la prima è presente nella sala riunioni della Mitsubishi, l’altra è appesa vicino all’ingresso della casa del signor Kurokawa. È riportato il verso di una poesia del monaco Ryōkan: Tenjō taifū, “Sopra il cielo il grande vento”, oppure “Grande vento nell’alto dei cieli”. In quel vento infinito, che spira nell’immensità, confluirà la giovane vita di Nahoko: “una persona che era come uno splendido vento…”, come dice Caproni a Jirō in un ultimo sogno. Anche a distanza, durante il collaudo del modello AM5, Jirō aveva percepito lo spegnersi della vita fisica, concreta e materiale di Nahoko. Di nuovo, è rapito da una raffica di vento. Il vento dona, il vento sottrae – tutto fluisce nel vento, transita in esso e con esso. In questo transito è decisivo non smarrirsi, non lasciar scorrere il tempo invano. In quel fluire bisogna cercare di vivere. Esistere nel presente, resistere nel tempo Sulla morte di Nahoko, già invisibile, divenuta vento sottile, e sull’ultimo dialogo tra Jirō e Caproni si chiude la diegesi e si levano le note della canzone di Matsutoya Yumi, Hikōkigumo (Scia di un aereo). Composto nel 1973 per la morte di un’amica, il brano articola versi struggenti che sembrano fare un ritratto della bella Nahoko con la delicatezza nipponica per tutto ciò che è impermanente. Sora o kakete yuku / ano ko no inochi wa hikōkigumo, “Sfreccia in cielo / la vita di quella fanciulla, come la scia di un aereo”. L’esistenza è fugace, si dà e si sottrae. L’adesione all’apparire e allo sparire
delle cose del mondo è stata elaborata nella cultura giapponese in una poetica e in una estetica ben riassunta nell’espressione mono no aware. Si tratta di una sensibilità per tutte le cose, poiché tutte sfuggono; è l’afflato venato da una certa malinconia per la bellezza di ciò che passa, è anche l’amore e il ricordo di ogni sensazione transeunte, la capacità di accogliere il fluire del tempo come ciò che costituisce l’intima essenza del vivere39. In mono no aware è racchiusa anche la nostalgia per un tempo irrimediabilmente trascorso, per le epoche che scorrono e per le vite che in esse crescono, si sviluppano e terminano. Se da un lato l’entusiasmo di Caproni sembra preludere a un mondo nuovo, che sta appena iniziando, dall’altro Castorp incarna l’impressione di vivere in un’epoca al tramonto, è testimone di una fase della Storia che va scomparendo. Jirō è tra i due: condivide le speranze del primo, capisce la malinconia del secondo. Questa è la situazione del Giappone in quegli anni: teso ad accogliere le novità portate dall’Occidente, e rivolto al proprio passato che non vuole perdere del tutto. Il vento è come la grande respirazione della natura, con il suo ritmico levarsi e placarsi. Esprime simbolicamente la ciclicità e la processualità del reale, la sua mutevolezza, ma anche la sua durata – la “continuità discontinua” che rende l’esistenza insieme di tanti frammenti e al contempo sfondo inoggettivabile che li raccoglie in unità. È anche il correlato oggettivo dell’impalpabile ispirazione creativa, che secondo Caproni non si snoda lungo tutta una vita ma dispiega il suo massimo d’intensità nell’arco di un decennio. “Vivi il tuo decennio dando fondo alle tue forze” è il consiglio che dà a Jirō affinché non disperda il suo talento, non rimandi a un altro tempo ciò che può fare nella fase più energica della vita, quando il vento soffia con maggiore intensità. Poi non è che altre età della vita siano meno importanti o interessanti: il soffio più impetuoso è un ottimo soffio da seguire, tanto quanto il soffio che si assottiglia e diviene impercettibile fino a scomparire, riassorbito nello sfondo che accoglie tutti gli esistenti. Citando i versi de Il cimitero marino di Paul Valéry, pronunciati più volte nel film, Miyazaki dà voce a una sorta di viatico, di testamento morale. Le vent se lève!… Il faut tenter de vivre! dicono i versi nell’originale francese; kaze tachinu, iza ikimeyamo è la loro versione giapponese. L’esperienza narrata nel film è una meditazione sul mistero della vita, che eccede ogni concetto che pretenda di fissarla. Jirō e Nahoko sono testimonianze vibranti di un impegno etico a vivere appieno il presente, ad essere nel proprio tempo fino in fondo senza però identificarsi del tutto con esso, senza appiattirsi su di esso. Invitano a non passare accanto alla vita, a non lasciarsi sfuggire ciò che di essenziale si dispiega in essa, nelle sue pieghe, nei suoi ritmi. Non è che si
debba resistere al tempo in cui si vive: sarebbe uno sforzo inutile e insensato. Si tratta piuttosto di resistere nel tempo, imparando nella quotidianità a esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, a essere in comunione con ciò che accade. Nel ritmo dell’esperienza si dà il tempo, si dispiega ciò che gli esseri umani misurano e chiamano tempo. Corrispondendo alla propria vocazione, alla chiamata a divenire se stessi, si dischiude il movimento, il soffio della vita; si accede propriamente all’ek-sistere, si rompe cioè ogni ripiegamento o chiusura che inibisce lo sviluppo di sé e ci si apre, si esce (ek-) dalla privatezza dell’individualità e ci si confronta con il mondo – con le ferite che esso provoca, ma anche con le scoperte preziose che esso consente. Questa apertura è una forma d’arte, di cui tutte le arti particolari sono espressioni. E l’arte – alla cui chiamata sa corrispondere Jirō, così come ha saputo corrispondervi Miyazaki con il suo cinema – non è dunque soltanto un fatto estetico. È opera di costruzione di sé, è atto di resistenza al caotico affastellarsi di azioni sconclusionate, di aneliti di potenza, di epoche che sembrano travolgere gli istanti felici delle persone. “L’arte è ciò che resiste, anche se non è la sola cosa che resiste”:40 nel suo accadere e anche nel suo cadere, segna il ritmico respirare di una vita, il suo prodursi nel tempo, il farsi e il disfarsi dei suoi giorni.
35 G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, tr. it., Cronopio, Napoli 2010, p. 15. 36 Su questo tema cfr. B. Victoria, Lo Zen alla guerra, tr. it., Sensibili alle foglie, Roma 2001. 37 K. Nishida, Nishida Kitarō Zenshū [Opere complete di Nishida Kitarō], Iwanami, Tokyo 1965, vol. X, p. 152. 38 K. Nishida, Nishida Kitarō Zenshū, cit., vol. IX, p. 222. 39 Cfr. I. Morris, Il mondo del principe splendente, tr. it., Adelphi, Milano 1984. 40 G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, cit., p. 22.
ANDREA FONTANA
IL PACIFISMO UTOPICO DI MIYAZAKI Una premessa storico-politica Per riflettere su come il desiderio pacifista sia alla base della poetica di Miyazaki Hayao è necessario fare un passo indietro e, come quasi sempre, guardare alla Storia, al contesto sociale e politico di un Paese dalle interconnessioni storico-politiche molto fitte e intriganti. In particolare è necessario guardare al passato, a come esso si intersechi con le altre variabili che vanno a comporre la struttura ossea di una società. Dopo una chiusura durata secoli, il Giappone a metà del XIX secolo ha conosciuto un periodo di apertura forzata al mondo che lo ha reso al centro di strategie commerciali, politiche e militari per un periodo piuttosto lungo. Da mito esotico a territorio di passaggio, il Giappone ha dovuto far fronte a questa apertura generando al suo interno una compattezza che si sarebbe trasformata ben presto in una forma estrema di nazionalismo. Una forma di nazionalismo che si legò facilmente con l’idea di sottomissione che è alla base dello shintō. Jean-Marie Bouissou, studioso attento della Storia giapponese e dei flussi culturali più importanti (in primis il manga) ha spiegato in maniera illuminante questo dettaglio che ha avuto conseguenze macroscopiche per il Sol Levante41. Bouissou ha definito lo shintō come una forma di ideologia della sottomissione, amplificata dalla sanguinosa repressione della rivolta contadina del XVI secolo e rinsaldata dalla repressione e dal programmatico indottrinamento dell’epoca Tokugawa, che anticipa l’apertura dell’era Meiji. Tutte queste componenti hanno contribuito a generare nel popolo giapponese una sorta di doveroso rispetto nei confronti dell’autorità e dei vari diktat imperiali, tanto che il fascismo giapponese, naturale sbocco dell’imperialismo, è qualcosa di anomalo persino rispetto ai contemporanei e ideologicamente simili fascismi tedesco e italiano. Il fascismo giapponese prese corpo sotto un’insistita pressione militare, in particolare dell’esercito, che con gli anni acquisì sempre più campo in ambito politico, tanto da formare veri e propri governi extraparlamentari. Come nel caso italiano e tedesco, il fascismo giapponese era intrinsecamente militarizzato e con ovvie mire espansionistiche e coloniali. Tutto questo estremismo, come si sa, portò a una delle più grandi tragedie che il genere umano ricordi, le due atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Un mirato attacco al cuore del Giappone e alla sua popolazione civile, un atto disumano e giustificato unicamente da ragioni prettamente politiche. Da
Hiroshima e Nagasaki ha inizio un nuovo periodo storico: in quell’evento, che sancì la fine della Seconda guerra mondiale, si posero le basi per un nuovo ordine mondiale e per una nuova, diversa guerra, quella strategica fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Una simile tragedia è rimasta impressa fisicamente e psicologicamente nella coscienza collettiva del Giappone, segnandone in maniera radicale l’immaginario42. Ne seguì un periodo di occupazione statunitense e la creazione di una nuova Costituzione che sottraeva in maniera assoluta ogni forma di potere decisionale all’imperatore e rendeva il Paese una democrazia di stampo pacifista. L’elemento pacifista viene sancito nell’articolo 9 della Costituzione che dichiara: Aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra, in quanto diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per regolare i conflitti internazionali. Per raggiungere lo scopo fissato dal paragrafo precedente, non saranno mai mantenute forze terrestri, navali ed aeree o altro potenziale bellico. Il diritto di belligeranza dello stato non sarà riconosciuto.
Paradossalmente sarà proprio la guerra ad arricchire un Giappone in ginocchio nell’immediato dopoguerra, in particolare la guerra di Corea, in cui la produzione industriale aumentò in misura notevole, riassorbendo i livelli di disoccupazione e di malcontento sociale che avevano strutturalmente caratterizzato quel particolare periodo. È l’inizio di una ripresa economica senza eguali che avrebbe continuato, fra alti e bassi, fino alla fine degli anni Ottanta. Il pacifismo sancito a livello costituzionale si evolve sino a diventare vero e proprio elemento fondante di un movimento che troverà il naturale sbocco nelle proteste di fine anni Cinquanta e soprattutto in quelle del Sessantotto, ai quali Miyazaki e l’amico Takahata Isao hanno partecipato con fervore. La lotta studentesca assume direttive ideologiche varie e stratificate (dall’affermazione del ruolo delle donne alla pretesa del rispetto ecologico), quel che ci interessa in questa sede riguarda in particolare la più sentita, ossia l’antimilitarismo. Gli Stati Uniti sono nel pieno della guerra in Vietnam, le truppe americane partono dalle basi militari presenti nell’arcipelago senza praticamente consultare il governo giapponese, inoltre è ancora sentita la questione riguardante la presenza di basi militari americane a Okinawa. Ma le proteste, particolarmente in Giappone, si trasformarono ben presto in vero e proprio terrorismo. Le contestazioni con il tempo si fecero sempre più violente, tradendo quindi il senso stesso dei movimenti di lotta studentesca, veri e propri protagonisti di questo periodo travagliato. Un’occasione mancata, insomma, che tutto il Giappone vive con profonda delusione. Eppure il pacifismo diventa un’ideologia radicata nell’immaginario collettivo
nipponico, un’ideologia che, per i protagonisti di questa stagione storica, diverrà la colonna portante di vere e proprie poetiche artistiche che, nel nostro caso, hanno attraversato le carriere di Miyazaki e Takahata. Tra alti e bassi, nel corso degli anni, il pacifismo giapponese ha subito più di uno scossone. Tra quelli che, di fatto, hanno posto le basi per un suo annullamento costituzionale, vi è certamente l’evento dell’11 settembre 2001, quando dopo l’attacco al World Trade Center e al Pentagono gli Stati Uniti optarono per una politica militare aggressiva nei confronti dei potenziali “nemici dell’Occidente” e dei suoi ideali. La guerra in Afghanistan e soprattutto quella in Iraq, che ha suscitato proteste antimilitariste in tutto il mondo come non capitava dai tempi del Vietnam, ha spinto il Giappone a rivedere la propria posizione. In realtà le motivazioni erano altre: la continua ascesa in ambito economico e politico della Cina, nemico giurato del Giappone, le minacce provenienti dalla Corea del Nord, una Russia sempre più putincentrica hanno portato lentamente all’emergere di forze politiche fortemente nazionaliste e con ideologie improntate all’autodifesa. L’appoggio del Giappone alla guerra in Iraq, concretizzatosi con l’entrata nella coalizione a favore di un intervento, ha segnato l’inizio di un progressivo abbandono della linea pacifista in favore di un “adeguamento” militare in relazione alla situazione internazionale. La giustificazione politica, quindi, è stata quella di munirsi degli strumenti militari e politici adatti a far fronte alle continue e sempre insistenti minacce che il Giappone percepiva provenire da più fronti: la Cina, la Russia, la Corea del Nord, il Medio Oriente. Il principale esponente di questa politica è sicuramente Abe Shinzō, attuale primo ministro e leader del partito di destra LDP (Partito Liberal Democratico – JiyūMinshutō). Abe è di fatto il più convinto sostenitore dell’ala conservatrice e nazionalista del partito e le sue idee si sono trasformate immediatamente in atti politici e istituzionali all’indomani della sua elezione. Vero e proprio delfino dell’ex premier Koizumi Junichirō, Abe e il suo partito hanno saputo sfruttare con intelligenza l’empasse del Partito Democratico di fronte alla tragedia di Fukushima. I risultati dell’attuale politica di Abe hanno avuto effetti stravolgenti nei confronti del normale assetto del Paese. Uno degli aspetti più discussi è proprio quello della militarizzazione del Giappone, trasformatasi in concreta possibilità dopo la morte del contractor Yukawa Haruna e del reporter freelance Gotō Kenji per mano dei terroristi jihadisti dell’ISIS. L’eliminazione dell’articolo 9 dalla Costituzione nipponica porrebbe le basi per un definitivo abbandono della linea pacifista per cui la generazione cresciuta nel dopoguerra e che ha vissuto gli orrori della conflitto militare ha lottato tanto per sottolinearne l’importanza in termini assoluti.
Questa, in breve, è la situazione della posizione militarista e pacifista del Giappone. Ma qual è il punto di vista di un intellettuale illuminato come Miyazaki Hayao? In che modo la necessità di argomentare le valide ragioni antimilitariste si sono intersecate con le direttrici della poetica autoriale del principale autore/regista dello Studio Ghibli nonché tra i più importanti del cinema contemporaneo? Sognare un pacifismo animato Se è vero che l’intero corpus filmico di Miyazaki è attraversato da una vibrante passione per il volo, inteso come forma di libertà dall’opprimente peso dell’esistenza, è altrettanto vero che il suo cinema è una personale e originale riflessione sull’inutilità della guerra e sulla necessaria presenza di una pace universale. Facciamo un passo indietro: Conan è un ragazzo che vive con il nonno in un’isola deserta. Il suo entusiasmo è quello tipico della sua età, non ha confini, tutto è una meraviglia e la speranza nel futuro è profonda. Eppure Conan vive in un mondo post-apocalittico, nel 2028, dopo che le bombe elettromagnetiche hanno distrutto e inabissato buona parte dei continenti. Il nonno di Conan è uno strenuo sostenitore della pace, avendo vissuto gli orrori di una distruzione globale. Tralasciando per un attimo l’utopismo ribelle di Lupin, Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978, 26 episodi) è il primo, intimo lavoro di Miyazaki in cui un personaggio diviene icona radicale dell’ideologia del suo creatore. Si tratta del primo titolo, strutturato in una serie liberamente ispirata a The Incredible Tide di Alexader Key, in cui l’autore può finalmente elaborare in chiave del tutto personale i suoi principali nuclei tematici: dall’ambientalismo all’antimilitarismo, dal volo all’amore come chiave per una vita di totale serenità. Conan il ragazzo del futuro è, in effetti, una riflessione sulla Seconda guerra mondiale, l’orrore dell’atomica, le strutture ideologiche da cui ricominciare. Quello che Miyazaki racconta in forma fantascientifica è il dopoguerra nipponico, Conan e Lana due moderni Adamo ed Eva pronti a ricostruire il mondo in base a nuove prospettive. Una Storia alternativa, un monito, una speranza. Che si tratti di utopica speranza? Miyazaki aveva partecipato alle contestazioni di fine anni Sessanta e credeva in una nuova generazione in grado di imparare dagli errori di chi l’aveva preceduta. Nel raccontare di utopiche visioni futuriste che inneggiano alla pace universale si insinua un’ovvia riflessione nichilista sull’uomo e la scienza. Tutto il cinema di Miyazaki, anche quando non narra di guerra e di pace, è teso verso una significante dualità che spiega buona parte dei suoi propositi filantropi. Il bene e il male si scontrano e in questa dicotomia si nasconde molto su quanto, per Miyazaki, sia
fondamentale l’innocenza dei bambini, il loro rapporto con la Natura, dal discorso pacifista emerge con chiarezza quanto sia necessaria la possibilità per i bambini (che, non dimentichiamolo, iconizzano il futuro) di sognare, di essere ingenui, di intravedere la luce anche quando tutto appare buio. La trasparenza con cui il regista/autore nato a Tokyo propone il proprio ottimismo è indice di quanto il suo cinema voglia assumere il ruolo di catarsi nei confronti di uno spettatore ormai ingrigito dalle vicende quotidiane nazionali e internazionali. Ma l’influsso non è diretto solo all’adulto, anche il singolo bimbo può, per mezzo delle visioni estatiche miyazakiane, cambiare il proprio se stesso e con questo cambiamento, nella più banale forma della filosofia gandhiana, contribuire al cambiamento nel mondo. Ora facciamo un passo avanti: anno, 2013. Esce nei cinema giapponesi Si alza il vento (Kaze tachinu), ultimo, intenso capolavoro di Miyazaki Hayao, il film che ha richiesto ben cinque anni di lavorazione nonché quello con cui il maestro ha deciso di concludere il proprio percorso artistico. È la storia di Horikoshi Jirō, progettista e inventore del famoso Mitsubishi A5M e del successivo Mitsubishi A6M Zero, noto soprattutto per essere diventato lo strumento di morte dei kamikaze durante il secondo conflitto mondiale. Un ingegnere, un pragmatico, un eterno sognatore. Si alza il vento è Miyazaki allo stato puro, contiene tutte le direttive poetiche del suo cinema, ma al tempo stesso se ne allontana, dipingendo un ritratto che diventa icona universale di un pensiero specifico. Jirō ha un difetto di vista che non gli permette di realizzare il suo sogno: volare nei cieli. Ma il suo desiderio è talmente forte da prendere forma dapprima in una dimensione onirica e, successivamente, anche nella realtà. Miyazaki struttura così il film tramite una dualità che vede da una parte il sogno, un ambiente in cui tutto è possibile (persino incontrarsi con Caproni, l’ingegnere italiano che Jirō stima oltre ogni modo) ma dove l’io si confronta con i propri recessi più reconditi, dall’altra la realtà, in cui la crudezza del dolore, della tristezza, della delusione porta con sé un sapore amaro ma inevitabile. Ma la verità sta nel sogno, poiché superare i propri limiti e sviare le difficoltà con astuzia sono proprio gli strumenti con cui Jirō tenta di raggiungere il personale obiettivo con tutte le forze. La verità, infine, è che nella realizzazione di un sogno “magnifico ma pericoloso” sta il dolore di vedere il proprio lavoro mutato e strumentalizzato per fini militari. La morte e la tragedia diventano parte integrante della vita di Jirō, che assisterà al dolore più grande: il suo aereo, per cui ha sottratto tempo prezioso con l’amata Nahoko, sarà utilizzato come arma di distruzione dai kamikaze senza alternativa. Nel finale del film un gigantesco cimitero di aerei giace ai piedi di Jirō, mentre l’incontro con Nahoko smorza un poco la tristezza negli occhi del protagonista. Da Conan il ragazzo del futuro a Si alza il vento le
convinzioni di Miyazaki sono rimaste le stesse: la pace deve necessariamente trionfare su tutto, poiché da essa dipende l’equilibrio del mondo. Ma da un’opera all’altra sono mutate le prospettive, l’amarezza e un pizzico di nostalgia hanno preso il sopravvento, divenendo così parti integranti di una visione che da utopica si è fatta leggermente più incrinata nella sua sublime ingenuità. In entrambi i casi le condizioni che contribuiscono al conflitto dipendono da fattori altri che vanno a loro volta a influenzare le altre tematiche chiave della poetica miyazakiana. Il male nasce da un egoismo dell’uomo che non è mai assoluto in Miyazaki ma che è portato dall’avidità di potere, la cui conseguenza più immediata è il totale disinteresse per l’ambiente, per la Natura che, al contrario, simboleggia il bene, in quanto icona di purezza e perfetto equilibrio. Da questo punto di vista il film preghibliano (ma che si inserisce di netto nella filmografia ascrivibile allo Studio) Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) è particolarmente significativo nel riassumere questo tipo di pensiero. L’acceso impegno ecologista si sposa perfettamente con il desiderio pacifista in questa storia in cui la protagonista Nausicaä vive in un mondo post-apocalittico in cui sta per scoppiare una terribile guerra fra il regno di Tolmechia e gli insetti giganti che vivono nella foresta tossica. In particolare i tolmechiani vorrebbero utilizzare una delle armi che hanno contribuito alla distruzione globale mille anni prima, un’arma dal potere straordinario, una sorta di robot gigante in grado di spazzare tutto e tutti. Non c’è dubbio sul fatto che Nausicaä della valle del vento sia una personale riflessione di Miyazaki sulla tragedia atomica che ha segnato in maniera indelebile il Giappone e, sicuramente, contiene un fil rouge che lo collega al precedente Conan il ragazzo del futuro e al successivo Laputa – Castello nel cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986), i quali formano una vera e propria trilogia sull’amore come arma per combattere le derive estreme del militarismo. L’atto sommo della protagonista (il sacrificio in nome della pace) è probabilmente il momento di massima espressione ideologica di Miyazaki, quello in cui l’annullamento del sé diventa l’unico modo per imporre una visione estrema ma necessaria. Come Nausicaä, anche i piccoli protagonisti di Castello nel cielo sono pronti a sacrificare se stessi in nome della pace e come segno di contrarietà alla cecità che porta il potere assoluto. In questo caso Sheeta e Pazu si ritrovano a lottare contro Muska, un folle assetato di potere che, come Sheeta, è discendente nonché erede al trono del regno di Laputa, la famosa fortezza volante colma di gioielli e soprattutto di armi dall’impressionante potenziale bellico. La stupidità e l’ottusità dell’universo militare sono ben rappresentate dal generale che guida le truppe sull’isola volante di Laputa. Una volta giunti nel luogo tanto agognato, anziché godere della meraviglia di un luogo
ancestrale in cui un’antica civiltà ha vissuto in epoche dimenticate (esattamente come fanno Sheeta e Pazu), i soldati si avventano sui tesori e le ricchezze abbandonati su Laputa con un’avidità che è il corrispettivo oggettivo della loro cecità morale. Anche in questo caso la guerra è vista come strumento di morte e distruzione: nella straziante sequenza in cui il risveglio del robot porta alla liberazione di Sheeta dalle celle di Muska emerge con forza un’idea, l’idea che non c’è nulla di costruttivo nella guerra e la morte, la solitudine che essa comporta sono le uniche componenti di un’azione senza senso. Miyazaki trasmette con forza quest’idea anche attraverso l’elemento cromatico: in quella sequenza tutto diventa rosso sangue, il cielo cambia colore mentre le fiamme avvolgono tutto. Con un equilibrio sorprendente, Miyazaki in Laputa – Castello nel cielo mescola la fiaba con la più potente delle morali, aggregando alla componente favolistica, che diventerà centrale nell’opera successiva Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988), anche una forte presa di posizione radicalmente ideologica che, come si è detto, è parte integrante e complementare della poetica di Miyazaki. Tra Laputa – Castello nel cielo e Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992) Miyazaki realizza Il mio vicino Totoro e Kiki – Consegne a domicilio (Majo no takkyūbin, 1989), un dittico dalla forte impronta fiabesca, in cui il tema classico che tocca trasversalmente tutto il cinema miyazakiano (il passaggio all’età adulta, il doloroso abbandono dell’universo magico e innocente dell’infanzia) prende corpo intersecandosi con le sue ossessioni più note: il volo, il fantastico come chiave di lettura esistenziale, la natura come ambiente ideale di crescita. In queste due opere il pacifismo è accantonato per poi essere ripreso in maniera diversa seppur con vigore in quelle successive: il citato Porco Rosso e Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). I due film contengono le medesime coordinate poetiche ma offrono altresì un approccio e un tono concretamente antitetici. La poesia si libra con leggerezza e la brezza culla il peso di un’esistenza segnata in Porco Rosso, insieme a Si alza il vento, la pellicola più densa di contenuti-mondi nella filmografia miyazakiana. I presupposti, come nei precedenti casi, sono chiaramente fiabeschi: Marco Pagot nell’Italia del primo dopoguerra decide di rinunciare alla sua forma umana in favore di quella di un maiale, divenendo così Porco Rosso. Le sue doti di pilota unite al suo attuale lavoro (si guadagna da vivere riscuotendo le taglie sui pirati del cielo) lo rendono la minaccia più temuta dell’Adriatico. Il suo cinismo e il suo disinteresse nei confronti della vita, causati dall’orrore vissuto in guerra e in particolare dalla perdita di un suo caro amico, lo portano ad allontanarsi da
Gina, una donna bellissima che aspira a coronare il suo sogno d’amore proprio con Marco. La passione per la vita e per il volo dimostrata da Fio, giovane meccanica che ha aiutato Porco a rimettere in sesto il suo idrovolante, contribuirà allo scuotimento psicologico di Marco. La guerra, quando messa in scena, è disarmante. Nel momento in cui Porco ricorda la morte dell’amico in guerra, Miyazaki ricorre alla poesia: gli aerei, come stelle cadenti, cadono giù, la morte colora di sangue il cielo. Poi, Marco si ritrova a osservare un vero e proprio fiume di aerei che, insieme, compiono il loro percorso verso la fine. Per lui non è ancora giunto il momento ed è per questo che Porco vive in completa solitudine, allontanando tutto e tutti, come se non si sentisse degno di questo privilegio. La guerra è anche questo: impoverire l’uomo di ogni sua componente di vita. Quello che sarebbe dovuto essere il testamento artistico di Miyazaki – ma la morte del presunto erede dello Studio Ghibli (Kondō Yoshifumi) ne ha reso l’addio impossibile – è anche e soprattutto un grido disperato in difesa degli ideali che da sempre popolano il cinema del maestro: Principessa Mononoke è sì l’atto definitivo di un artista vero, il gesto poetico più radicale poiché lo sguardo torna indietro (un Giappone medievale in cui la magia è ancora un elemento decisivo nella vita quotidiana) ma è anche l’occasione per sfoggiare con drammaticità tutte le urgenze estetico-contenutistiche del suo autore. Colpito da una maledizione, il giovane Ashitaka abbandona il suo villaggio alla ricerca della causa del suo stato. Si troverà nel mezzo di una guerra fra gli uomini, capitanati da Eboshi, e gli animali della foresta, tra cui spicca il gruppo di lupi la cui sorellastra adottata è una donna di nome San. Il viaggio di Ashitaka alla ricerca di se stesso è un percorso di formazione che porta all’elevazione tutti i personaggi del film che, più di altri, propone una formula da sempre presente nelle opere di Miyazaki ma che qui diviene regola: quella di non strutturare la tensione interna alla pellicola in un banale scontro tra Bene e Male. Questi concetti, così assoluti, in Principessa Mononoke sono totalmente contaminati, tanto da confonderli in maniera impressionante. In particolare il villaggio di Eboshi contro cui si scagliano gli animali è icona di quanto possa essere cieco l’essere umano ma al tempo stesso ricco di pietà. Chi abita quel villaggio, sotto la guida di Eboshi, sfrutta la terra per ricavare armi con cui uccidere e conquistare. “La città del ferro” provoca disboscamenti, distruzione e, come in Pom Poko (Heisei tanuki gassen Ponpoko, 1994) di Takahata Isao43, la mancanza della terra e la macchia nella purezza della natura generano unicamente odio e scontri. In questo senso la proposta di un pacifismo sensato si lega inestricabilmente all’idea di una vita in perfetto equilibrio con la natura circostante. Un panteismo pacifista che potrebbe apparire come un unicum nella filmografia miyazakiana ma che in
realtà è un tema che tocca delicatamente ogni opera del maestro. Tanto che lo stesso Il mio vicino Totoro si potrebbe pensare come un manifesto che suggerisce una pacificazione tramite la congiunzione con la natura. Se si esclude La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001), opera assoluta che ha contribuito in maniera determinante (sebbene solo temporaneamente) a un’affermazione degli anime su un piano intellettuale e critico, il film che torna a riflettere sul pacifismo come regola di vita è sicuramente Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004). Nel raccontare la storia di Sophie, colpita da un incantesimo che l’ha resa vecchia, e del suo incontro con il mago Howl, Miyazaki dipinge al tempo stesso una favola visionaria e una parabola etica, raggiungendo vette di epicità che sono quasi uniche nella filmografia del regista. Ciò che ci interessa del film, al di là della sua pura bellezza estetica, capace di offrire all’occhio perle di poesia visiva di raro splendore, è il tema della guerra e come esso sia stato rappresentato in un’ambientazione fortemente influenzata dalla tradizione favolistica europea. Addirittura l’elemento bellico è qualcosa di completamente inventato rispetto all’origine cartacea a cui l’opera si ispira, l’omonimo romanzo di Diana Wynne Jones del 1986. La guerra, ne Il castello errante di Howl, è rappresentata con crudo realismo, insolito rispetto ai canoni di Miyazaki, fattore che tornerà nella magnifica chiusa dell’autore, Si alza il vento. Il bombardamento della città su cui interviene nel finale Howl stesso è un ovvio riferimento ai bombardamenti a tappeto con bombe incendiarie che hanno raso al suolo parte del Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale. Ancora una volta, come in Una tomba per le lucciole (Hotaru no haka, 1988) di Takahata Isao, il fuoco avvolge tutto e il rosso (abbinato al nero del fumo e delle ombre) diventa l’elemento cromatico che contraddistingue la distruzione. E da quest’orrore, da questa disperazione, da questo nulla che si genera dal fuoco e dalla morte, solo l’amore emerge come una luce salvifica, solo l’amore diviene strumento con cui combattere recrudescenze militariste. Conclusioni In un periodo in cui il Giappone, ultimo bastione di un pacifismo strutturale e conscio, che ben si integra con le dinamiche spirituali e le filosofie che hanno contraddistinto la sua storia, sembra lasciarsi tentare da aspirazioni militariste, appare un faro la militanza pacifista di un autore radicalmente coerente come Miyazaki. Con il suo cinema, sin dagli esordi, ha portato all’attenzione del mondo una sua urgenza personale, proiettandola su un piano universale e pubblico. Diversamente da un altro grande autore di animazione giapponese, Oshii Mamoru44, il quale riflette sulla necessità di una pace
universale in termini strettamente filosofico-politici, Miyazaki guarda a un simile argomento con gli occhi innocenti di un bambino. Da testimone diretto degli orrori della guerra e da contestatore ideologico, Miyazaki ha portato la sua visione del mondo su una dimensione immaginifica, radicandone il senso e rinsaldando le coordinate delle sue convinzioni, apportando forza alle sue idee per mezzo delle immagini in movimento. E, naturalmente, del potere metaforico della poesia e della bellezza.
41 J.-M. Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2003. 42 A riguardo mi permetto di citare un mio volume, A. Fontana, La bomba e l’onda. Storia dell’animazione giapponese da Hiroshima a Fukushima, Bietti, Milano 2013. 43 Pom Poko è di certo tra le opere più esplicitamente politiche e ideologiche del maestro Takahata, tanto da diventare quasi elemento riflettente dei caldi anni delle contestazioni. 44 Oshii Mamoru è considerato fra i più alti rappresentanti del cinema animato giapponese. Grazie a opere quali Patlabor 2 the movie (Kidō keisatsu Patlabor 2 the Movie, 1993), Ghost in the shell (Kōkaku Kidōtai, 1995) e The Sky Crawler (Sukai Kurora, 2008) ha affermato la propria poetica autoriale improntata su una profonda riflessione del presente attraverso le lenti distorte dell’immagine in movimento.
MARCO CASOLINO
SCIENZA, TECNOLOGIA E NATURA IN MIYAZAKI Il fascino delle opere di Miyazaki e dello Studio Ghibli risiede non solo in una precisione certosina dell’animazione unita a una realizzazione tecnica impeccabile, ma anche in storie complesse, strutturate su più piani in cui è spesso difficile distinguere tra bene e male. L’Autore ripropone vari temi a lui particolarmente a cuore: tra questi l’ecologia e i danni causati dall’uomo al nostro pianeta. Tuttavia la visione di Miyazaki è troppo complessa e profonda per essere semplificata in un mero rifiuto della tecnologia, e si articola in posizioni spesso contraddittorie che contribuiscono a rafforzare e a rendere credibili e realistici i personaggi e le vicende in cui sono coinvolti. Fantascienza ecologica L’ambientazione fantascientifica delle sue prime opere, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 permette a Miyazaki di sviluppare liberamente le sue idee senza però sminuire il giudizio negativo sull’impatto degli errori che l’uomo sta compiendo al giorno d’oggi. In Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan) serie televisiva del 197845, Miyazaki affronta il problema della relazione tra uomo, natura e tecnologia. La contrapposizione tra bene e male è netta e si articola su almeno due livelli. Da un lato vi è la lotta tra il protagonista Conan e l’antagonista Repka, mentre su scala più ampia si assiste alla contrapposizione tra la vita bucolica di High Harbor, dove la popolazione vive in armonia con la natura, e quella di Industria, l’ultima torre-fortezza, depositaria del sapere tecnologico che ha distrutto l’ecosistema terrestre46. Con Industria periscono anche i “vecchi scienziati” che – rifiutando di essere salvati – si assumono la responsabilità della distruzione del mondo. Gli scienziati in Conan sono in realtà armati da buone intenzioni e tentano di salvare il mondo per porre rimedio ai loro precedenti errori, ma sono ingenui come bambini. Chiusi nella torre (d’avorio) di Industria, non si rendono conto dei soprusi che il dittatore-politico sta compiendo, instaurando una società fortemente gerarchica, divisa in caste. Già in questa occasione viene posta la questione sul ruolo, l’impegno e le responsabilità dello scienziato-ingegnere. Può il Sapiente limitarsi alla pura ricerca senza curarsi dell’influenza che questa ha sul mondo circostante? Sino a che punto è possibile opporsi al fluire del progresso scientifico e tecnologico? In Conan, l’esempio di ciò che
l’Autore considera “scienziato attivo” è il dottor Rao, nonno della coprotagonista Lana. Nella narrazione, Rao si rifiuta di ripristinare l’energia solare che fu causa della distruzione del mondo scegliendo piuttosto di dedicarsi al recupero di una nave che possa salvare tutti gli abitanti di Industria. La torre, infatti, è destinata a sprofondare nel mare a causa dei movimenti tettonici iniziati con la guerra che distrusse il mondo decenni prima. Il finale di Conan è positivo: le ultime vestigia della civiltà tecnologica e guerrafondaia sprofondano nel mare. La cesura con il passato porta i due protagonisti a una vita bucolica e di ricolonizzazione di quel che resta del pianeta, ma la domanda sul ruolo e sulla responsabilità della scienza resterà insoluta. Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) nasce sotto forma di manga (1982) e viene trasposto in animazione nel 1984. Qui la visione del futuro è ancora più cupa: mille anni prima delle vicende del film il mondo è stato distrutto dagli Dei soldati giganti47, immensi golem biomeccanici che hanno dato il colpo di grazia alla devastazione ambientale causata dall’inquinamento del nostro pianeta da parte dell’uomo. I giganti muoiono dopo i “Sette giorni di fuoco”, ma l’inquinamento ambientale permane per secoli e secoli, producendo trasformazioni irreversibili nell’ecologia del nostro pianeta48. Col passare del tempo, la Terra si è evoluta in un pianeta ostile, che ospita una miriade di forme di vita incompatibili con quella umana e dove i pochi insediamenti abitati sono continuamente minacciati dall’avanzare della giungla tossica e letale. La poca tecnologia superstite, i cui principi di funzionamento sono andati perduti da tempo, è usata solo per scopi bellici. In Nausicaä il crollo della civiltà viene accelerato dallo scontro secolare di due imperi, che non si fanno scrupolo di sfruttare le spore e gli immensi Ohmu49 della foresta come armi non convenzionali contro città e villaggi nemici, con il solo risultato di precipitare la loro stessa rovina. Anche in Nausicaä il vero nemico è quindi l’uomo, non la giungla tossica, che peraltro – come si scoprirà nel corso del film – sta purificando il pianeta da millenni di inquinamento. Il lungometraggio ha un chiaro messaggio ecologico50 e ci lascia con la speranza della rinascita di forme di vita compatibili con la vita umana. Nel manga, invece, le vicende si articolano in maniera più lunga e complessa, giungendo a un finale aperto e più controverso. L’epònima eroina distrugge la cripta che racchiude le ultime vestigia della scienza degli antichi. Con essa perisce anche una casta sacerdotale chiusa in sé stessa e avvinghiata morbosamente a una non-vita. Discendenti regrediti degli scienziati antichi, questi uomini non sono in grado e non vogliono offrire alcuna via d’uscita al
genere umano. Da loro Nausicaä apprende, però, che lei e tutti gli uomini sono comunque irrimediabilmente contaminati da centinaia di anni di vita sulla terra inquinata: il nuovo Eden che la natura sta creando non sarà per loro. Il tema della Caduta e della tecnologia perduta sono centrali anche successivo Laputa – Castello del cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986). Nel prologo viene narrata l’evoluzione di una società che sviluppa il volo con l’aiuto di fantastiche pietre volanti51 grazie alle quali giungono a erigere maestosi castelli volanti e cittadelle celesti. Da pinnacolo della scienza e della tecnologia, queste roccaforti si tramutano in luoghi di oppressione da cui controllare i popoli della terra. Come nella Caduta di una novella Atlantide, tutte le fortezze vengono distrutte sino a che, secoli dopo, una sola rimane: Laputa, chiamata così in onore del romanzo di Swift, I viaggi di Gulliver (1726). Se in Nausicaä il ruolo del MacGuffin hitchcockiano era svolto dal cuore del gigante, in Laputa è la pietra in possesso della coprotagonista Sheeta ad avere questa funzione52, in quanto necessaria per controllare il castello del cielo. La tecnologia e le armi presenti nel castello fanno gola ai militari e soprattutto a Muska, discendente come Sheeta della dinastia un tempo dominante nel castello celeste. Il finale di Laputa è positivo: Muska e i militari vengono sconfitti e i protagonisti si salvano. Tuttavia, pur senza la spada di Damocle dell’immanente catastrofe ecologica di Nausicaä, anche il mondo di Laputa è crepuscolare. Oltre alla perdita delle conoscenze scientifiche e tecnologiche si sono esauriti anche le risorse naturali e i mezzi per poter sostentare il villaggio del protagonista Pazu53. È emblematico come l’uomo non riesca mai a raggiungere le stelle: Conan e Nausicaä sono accomunati dalla presenza di scheletri di navi spaziali. Nel prologo di Conan, un razzo cerca senza successo di lasciare la terra per sfuggire alla distruzione, ma, danneggiato, ricade sul nostro pianeta54. Il paradiso non è nelle stelle: spetterà a Conan e ai suoi compagni realizzarlo sulla terra. Anche in Nausicaä rottami di navi spaziali fanno una fugace comparsa fungendo da rifugio per i profughi, relegate a mera scenografia che rimarca la tecnologia perduta del passato. Per Miyazaki la natura umana sembra pertanto incompatibile con la Salvezza, anche se paradossalmente le sue sub-creazioni si rivelano più sagge e pacifiche. I robot di Laputa, seppur progettati e costruiti dall’uomo come macchine belliche, hanno un’indole positiva: cercano di proteggere e
difendere Sheeta, e – lasciati liberi – si prendono cura di flora e fauna del Castello del cielo, creando un immenso e splendido giardino in cui la natura ha avuto il sopravvento. Libera dalla malvagità dell’uomo cui è costretta a obbedire, l’Intelligenza Artificiale riesce quindi ad avere successo proprio dove l’uomo ha fallito. Laputa, infatti, non viene completamente distrutta ma è salvata da un gigantesco albero che intrappola la pietra volante tra le sue radici. Subisce una metamorfosi e liberatasi delle ultime sovrastrutture umane torna a una purezza in cui natura e robot, ma non l’uomo, convivono in armonia55. Anche Ohma, l’ultimo dei soldati giganti di Nausicaä, attivato dopo millenni con uno scopo di distruzione, è solo un bambino spaurito e non è di per sé malvagio: cerca, infatti, in Nausicaä l’affetto di una madre. Paradossalmente, è proprio la protagonista del manga che è costretta a doverlo utilizzare come arma finale per distruggere la cripta contenente le ultime conoscenze degli Antichi. Con esse, Nausicaä uccide scientemente le uova di una nuova razza umana, pura e non contaminata dalla malvagità, destinate a schiudersi quando la giungla tossica avrà completato il suo corso. Neanche la protagonista riesce pertanto a liberarsi dalla maledizione dell’uomo e ripercorre lo stesso cammino distruttivo e di sfruttamento della tecnologia che aveva portato alla distruzione il mondo dei suoi avi. Tecnologia medievale Da questo primo trittico fantascientifico emerge il pessimismo di Miyazaki: scienza e tecnologia sembrano portare l’uomo alla rovina, non essendo esso in grado di gestire i mutamenti sociali e culturali che porta il progresso. Tuttavia anche il passato è ricco di rivoluzioni scientifiche e soprattutto di innovazioni tecnologiche a carattere bellico con dirette ripercussioni sull’ipersfruttamento del territorio. Ad esempio, Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997)56, ci mostra il rapporto conflittuale uomo-natura nel Giappone dell’epoca Muromachi (1337-1573). Assistiamo infatti allo scontro tra Eboshi, la donna a capo del villaggio-fornace57, e San, ragazza abbandonata dai suoi genitori e allevata dai lupi. Negli scontri contro gli animali e le divinità che cercano di difendere la foresta, Nago, uno spirito-cinghiale, viene ferito da una palla dei fucili di Eboshi. In preda al dolore e all’odio si trasforma in un dio della rabbia (Tatarigami) e minaccia l’ultimo villaggio del popolo degli Emishi, sino a essere ucciso dal principe Ashitaka. In punto di morte Nago trasferisce la sua maledizione su Ashitaka. Anche la maledizione stessa può essere interpretata
come una metafora dell’abuso del progresso scientifico: dona infatti al protagonista forze e capacità sovrumane, condannandolo, però, a morte certa. La scelta di far appartenere il protagonista all’etnia Emishi non è casuale: ancora avvolta nel mistero, questa popolazione – presumibilmente di origine caucasica e antenata degli Ainu – viveva nelle isole giapponesi da prima delle migrazioni dell’attuale razza giapponese. Nei secoli gli scontri con queste nuove popolazioni relegarono gli Emishi a vivere in regioni sempre più ridotte e inaccessibili, sino a che non occuparono nell’epoca Muromachi alcune valli del Tōhoku. Gli Ainu, loro discendenti furono invece costretti a spostarsi sempre più a nord sino a stabilirsi nell’isola dell’Hokkaido. Pur facendo parte del mondo degli uomini, Ashitaka è quindi più vicino agli yōkai e agli spiriti della foresta: fa, infatti, parte di una cultura e di un popolo che sarà destinato di lì a pochi anni a soccombere lasciando solo poche e frammentarie tracce. Nonostante il suo coraggio, Ashitaka è per lo più spettatore e vittima della battaglia tra progresso e mantenimento dello status quo, di una grande rivoluzione tecnologica guidata – come è quasi sempre avvenuto nella storia dell’uomo – da motivazioni belliche. Per quanto assomigli a una Industria medievale, il villaggio-fucina di Eboshi, è molto diverso dalla torre di Conan. La giovane donna a capo del villaggio accoglie infatti donne, diseredati, lebbrosi che altrimenti sarebbero stati uccisi o resi schiavi, ambendo a una indipendenza dai signorotti feudali della zona con cui si scontra ferocemente. Eboshi, però, distrugge le foreste per procurarsi il ferro e le materie prime necessarie ad alimentare le sue fornaci e produrre fucili sempre più avanzati58 in una rivoluzione industriale ante litteram. Anche in Mononoke la battaglia tra uomo e natura avviene su un altro livello: vi sono infatti emissari inviati dall’imperatore per uccidere lo Shishigami59, una creatura fatata che incarna il continuo ciclo di vita e morte della terra. L’uomo ambisce a colpire il dio della natura per divenire immortale lui stesso, ma per far questo ha bisogno di una dispensa imperiale e quindi a sua volta divina, seppur di natura terrena e non spiritica. Con la morte dello Shishigami, la foresta è distrutta e – seppur rigenerata – non sarà più la stessa. Ashitaka e San si rendono conto che il ciclo prosegue ma è ormai irrimediabilmente mutato. Per contrasto gli stessi protagonisti non riescono a venir meno alla loro natura e decidono di continuare a vivere l’una nei boschi e l’altro nella ricostruenda Tatara (abbandonando così il suo retaggio e i suoi compatrioti Emishi). Anche in chiusura del film se un singolo kodama60 del bosco fa la sua comparsa, richiamando idealmente la
pianta che germoglia nella foresta cristallizzata alla fine di Nausicaä, lo sviluppo tecnologico è ormai inesorabile e proseguirà inarrestato sino ai giorni nostri. Cementificazione contemporanea Nel Giappone contemporaneo lo scontro tra tecnologia e natura si è ormai banalizzato in una urbanizzazione non per questo meno devastante: in Pom Poko (Heisei tanuki gassen Ponpoko, 1994)61, diretto da Takahata ma prodotto da Miyazaki, si assiste allo scontro tra il popolo fatato dei tanuki62 e quello degli uomini. Nel mondo odierno è rimasto ben poco della antica forza degli spiriti delle foreste: gli animali sono in grado di operare semplici magie illusorie e mutare forma. Come i cinghiali e gli spiriti di Mononoke, i tanuki cercano disperatamente di difendere il proprio habitat dalla crescente cementificazione della regione di Tokyo. Il loro canto del cigno, una onirica manifestazione di magia e illusione, non è compreso dagli uomini che lo considerano una mera trovata pubblicitaria di un circo. L’epilogo è per lo più tragico, la maggior parte dei tanuki soccombe allo scontro e solo una parte di essi riesce ad assumere sembianze umane e a vivere mimetizzato nel mondo degli uomini. Chi non è in grado di trasformarsi è confinato nei parchi e giardini della valle del fiume Tama63. A questo filone appartengono Only Yesterday (Omohide poro poro, 1991), in cui la protagonista dovrà scegliere tra la vita campestre e cittadina e I sospiri del mio cuore (Mimi o sumaseba, 1995)64, in cui un primo adattamento della canzone Take me Home, Country roads canta l’avanzare del cemento nelle metropoli giapponesi a scapito della campagna65. L’interazione tra mondo umano e dei kami può avvenire senza conflitti solo da bambini, come accade per le sorelline Mei e Satsuki ne Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988) o per Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008). Al contrario, ne La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001), il contatto con il mondo degli spiriti è, invece, deleterio. Cibatisi a un banchetto per gli dèi, i genitori di Chihiro, la protagonista, vengono puniti per la loro ghiottoneria e tramutati in maiali. Chihiro lavora in un Oofuro, enorme bagno pubblico, posseduto dalla potente maga Yubaba. Yubaba vincola Chihiro a lavorare per lei amputando il suo nome in Sen. La protagonista si trova quindi a dover mondare gli spiriti dalla sporcizia e dall’inquinamento causato dagli uomini. Anche la città incantata66 e i suoi abitanti, dèi, spiriti e yōkai non sono infatti immuni ai sentimenti negativi che caratterizzano il mondo umano, quali rabbia e cupidigia, e solo Sen-Chihiro riesce a non farsi allettare dall’effimero, riuscendo a salvare i propri genitori e a tornare così nel mondo degli uomini.
Arte e ingegneria aeronautica L’autore ha più volte espresso l’ammirazione per i pionieri dell’aviazione, riconoscendo apertamente l’implicita contraddizione insita tra perfezione tecnica e artistica prodotte dal genio dei progettisti e l’uso mortale che i piloti dovevano fare di questi strumenti. Ai tempi di Porco Rosso (1992), ambientato in Italia nel 1929, la progettazione e realizzazione di un aereo richiede uguali dosi di doti artistiche e di ingegneria aeronautica. Arte e tecnologia sono indissolubilmente legate, ed è quando questo legame viene reciso che l’uomo si incammina più velocemente verso l’autodistruzione. La coprotagonista, Fio Piccolo, progettista delle nuove ali dell’aereo di Marco Pagot, alias Porco Rosso, è la vera controparte di Horikoshi di Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013). Analogamente, pilotare un aereo richiede abilità tecnica e passione: per Porco la caratteristica principale di un pilota è l’ispirazione. Per quanto formidabile e imbattibile sia la coppia Fio-Porco, la posizione di quest’ultimo è chiara: ha visto troppi compagni e nemici morire nel primo conflitto mondiale ed è troppo disilluso e disgustato dagli uomini persino per mantenere le sue fattezze umane. Meno che mai vuole essere coinvolto dal nuovo corso degli eventi e avere alcun ruolo nella crescente follia nazifascista. La frase “Meglio maiale che fascista”, riassume non solo la posizione politica del Porco (e di Miyazaki), ma soprattutto ne ribadisce l’allontanamento dal mondo umano, in un percorso speculare a quanto avviene ai tanuki di Pom Poko. La fantastica era delle macchine volanti e il mondo di Porco Rosso terminano con le aggressioni naziste e la Seconda guerra mondiale. L’uomo ha ancora una volta scelto la strada più violenta e le applicazioni più brutali e distruttive dell’aeronautica. Nel suo ultimo film, Si alza il vento, Miyazaki affronta questo tema e sembra trasporre molti dei suoi dubbi nel protagonista, Horikoshi Jirō (19031982), disegnatore del formidabile caccia A6M Zero e altri aerei che diedero notevole filo da torcere alle forze alleate nella guerra del Pacifico. In Si alza il vento sono mostrati i tre punti di vista dei progettisti del Patto tripartito: Giovanni Caproni (1886–1957), Hugo Junkers (1859-1935) e lo stesso Horikoshi Jirō. Ciascuno dei tre fornisce la sua personale risposta alla questione se sia possibile o lecito opporsi alla creazione di macchine belliche per seguire gli ordini di un governo dittatoriale e aggressivo. Junkers, di natura pacifista, si era già dimostrato scettico allo sviluppo dei caccia nella Prima guerra mondiale e sopporta ancora peggio il governo del caporale boemo. Viene costretto a cedere la sua ditta e i suoi brevetti al Reich,
finendo comunque agli arresti domiciliari nel 1933, dove morirà due anni dopo. Caproni è quello che si sforza di concretizzare il sogno di uno sfruttamento civile dell’aviazione, avvicinandosi più di tutti ai mondi fantastici di Miyazaki. Nel film, Jirō dialoga oniricamente con Caproni, che gli mostra i suoi più recenti e audaci velivoli67 e ispira immensi idrovolanti e aeroplani lussuosi che avrebbero condotto l’era di Porco Rosso verso la pacifica evoluzione mostrata ne Le immaginarie macchine volanti. È lui a ispirare la parte più artistica del progettista giapponese. Nonostante gli enormi progressi compiuti dalla restaurazione Meiji68, sul finire degli anni ’20 l’industria aeronautica giapponese stentava ancora a raggiungere il livello delle potenze occidentali. Jirō si reca quindi nel 1929 in Germania da Junkers per apprendere tecniche e tecnologie che possano permettere al Giappone di raggiungere e superare le altre superpotenze. Nel 1940 riesce quindi a completare il caccia “Zero”69, protagonista dell’attacco a Pearl Harbor e di tutta la guerra del Pacifico. In Si alza il vento, Miyazaki non forza Jirō a risolvere questa contrapposizione. Del resto, nella realtà, l’ingegnere giapponese ha avuto un ruolo tutt’altro che secondario nel conflitto, dovendo cercare di assicurare una produzione di velivoli in assenza di materie prime e in un territorio sempre più devastato dai continui bombardamenti degli americani. Jirō sopravvive alle devastazioni e ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale70, riuscendo a narrare le sue incredibili vicende in Zero, saggio scritto con Okumiya Masatake, ammiraglio della flotta imperiale. In Zero vengono descritte in dettaglio le operazioni navali dell’Impero del Sol Levante, dai primi fulminanti successi di Pearl Harbor e nel Sud-est asiatico, alla prima sconfitta nella battaglia di Midway, sino alla lenta e inevitabile agonia in uno scontro impari per mezzi e forze. Il libro è una miniera d’oro anche per i non addetti ai lavori e sfata molti dei miti tagliati con l’accetta, tra cui quello dei piloti suicidi degli attacchi speciali71. Tecnologia, Magia e Potere La tecnologia non corrompe l’uomo ma ne evidenzia la sua natura peggiore, permettendo di realizzare i desideri di conquista bramati dalla parte più meschina e gretta della sua specie. Nelle opere di Miyazaki, scienza e tecnologia non sono causa o effetto del conflitto, ma semplice mezzo con cui si declina la Caduta. Ne è riprova il ruolo della magia che – nelle opere di caratterizzazione fantastica – fa le veci della tecnologia. Ad esempio, ne Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004) le arti magiche sono
impiegate con scopi militari: maghi, streghe e lo stesso co-protagonista Howl sono richiamati in servizio per essere utilizzati come armi non convenzionali nello scontro tra le due nazioni. L’abuso della magia porta i suoi adepti a un allontanamento progressivo dal mondo umano, perdendo così – anche se involontariamente – la propria natura. Anche Haku, il drago divinità del fiume de La Città incantata, rischia di incorrere in questo destino: verrà salvato da Sen che – restituendogli il nome completo – lo libererà dal giogo lessicale di Yubaba72 che – come per la protagonista del film – gli aveva rubato il nome. Animazione tecnologica e manuale Una chiave di lettura per comprendere il ruolo di scienza e tecnologia nel mondo di Miyazaki ci viene osservando la realizzazione delle sue opere. È infatti nel microcosmo dello Studio Ghibli che Miyazaki riesce a realizzare le sue idee di convivenza armonica tra arte e scienza, disegno animato ed effetti speciali realizzati con il computer. Infatti, Ghibli e Miyazaki sono sempre stati all’avanguardia nella produzione di anime con l’aiuto del computer, a patto che questo non snaturasse l’effetto e l’aspetto generale dei film. Il passaggio a un workflow che utilizza il computer si ebbe già nel 1997 con Principessa Mononoke. Per l’occasione, Ghibli adottò un software italiano, Toonz73, all’inizio limitandosi alla sola colorazione digitale delle cel. Completato Mononoke, ebbi l’occasione di visitare lo studio con i programmatori di Digital Video per una serie di incontri volti a migliorare il software e venire incontro alle esigenze della produzione giapponese74. L’animazione è sempre rimasta di tipo tradizionale: ciascun disegno e fondale è realizzato a mano e poi acquisito con uno scanner. Il software consente di gestire la colorazione digitale, i movimenti dei piani e della macchina da presa e la possibilità di aggiungere vari effetti speciali. È nelle fasi successive che il ruolo del calcolatore diventa essenziale per ridurre i costi di produzione e creare effetti altrimenti irrealizzabili. L’effetto complessivo deve essere comunque armonico: gli effetti speciali sono invisibili allo spettatore e agiscono sullo sfondo, diventando parte integrante e non distruttiva del processo artistico di creazione dell’animazione. Non tutti gli studi hanno però la stessa cura nel dosare l’utilizzo del computer, con il risultato che l’animazione è stata rivoluzionata e per molti versi stravolta dall’avvento del PC, che – nel bene e nel male – facilita e incoraggia produzioni con budget ridotto. Un problema analogo si sta osservando nelle serie di supereroi dal vivo, come Kamen Rider, Super Sentai (in Occidente adattati come Power Rangers), Ultraman, ecc. In questo caso se l’abilità degli stuntman è rimasta invariata, si stanno perdendo molte
delle tecniche di riprese speciali (tokusatsu) che hanno caratterizzato cinquant’anni di fantascienza giapponese. Per evitare che questa mole di conoscenze e competenze andasse persa e dispersa per sempre, nel 2012 fu realizzata, su direzione di Hideaki Anno, una mostra che ricordava e celebrava gli effetti speciali dei vecchi tokusatsu creati dal genio di Tsuburaya75. La mostra Tokusatsu – Special Effects Museum aveva l’intento di mostrare gli incredibili sforzi e il tempo necessari per realizzare modellini, costumi e oggetti di scena che apparissero quanto più possibile realistici e vivi. Al Museo di arte contemporanea di Tokyo è stato quindi possibile ammirare molti dei modellini, dei bozzetti e dei progetti esecutivi che hanno fatto la storia della fantascienza giapponese del dopoguerra, dai sottomarini di Latitudine Zero e Atragon alle astronavi di Guerra spaziale e Gli eredi di King Kong (Destroy all monsters), sino ai costumi di Ultraman, serie creata proprio da Tsuburaya. Pezzo forte della mostra era un cortometraggio di Studio Ghibli La comparsa a Tokyo dell’armata degli Dei soldato giganti (Kyoshin-hei Tōkyō ni arawaru)76. Il film, prequel di Nausicaä, è realizzato – caso unico per una produzione Ghibli – con miniature e tecniche di ripresa diretta, senza neanche un frame animato a mano o al computer (con l’unica eccezione dei raggi del mostro e delle lance in alcune sequenze). Lo scopo era di mostrare l’attualità e la validità di queste tecniche, o quanto meno rendere loro omaggio prima che anch’esse svanissero per sempre, definitivamente rimpiazzate dal computer. Il risultato è impressionante: la vividezza dei colori, l’uso delle prospettive e la scala dei modelli rendono completa giustizia sia alla maestosità dei giganti di Miyazaki che alle tecniche di ripresa con miniature, ricreando perfettamente quella sensazione di maestosità e potenza che Tsuburaya riusciva a conferire alle sue creazioni. Arte, Nucleare e Politica L’artista, così come lo scienziato, non può però rimanere muto di fronte agli eventi: è questa la colpa degli scienziati di Conan e dei sapienti nella cripta di Nausicaä. Le sfumate e complesse opinioni di Miyazaki mal si adattano però a semplici e strumentali contesti politici, con il risultato che Si alza il vento è stato criticato sia dalla sinistra del paese, che ne legge una celebrazione della guerra, che dalla destra, soprattutto quella ultranazionalistica che preferisce una narrazione più edulcorata e nazional-nostalgica come quella di The Eternal Zero (Eien no zero, 2013)77. Su altri temi la posizione del regista è più netta: già contrario all’energia nucleare da prima dell’incidente di Fukushima del 2011, Miyazaki ha poi
fortemente manifestato contro la TEPCO e la disastrosa gestione successiva all’incidente, tra l’altro compiendo il gesto simbolico di far cambiare allo Studio Ghibli il “provider” di energia elettrica a favore di uno “ecologico”. Più recenti sono le sue forti critiche contro le modifiche alla costituzione che l’attuale governo Abe sta attuando (2014) e la nomina a co-presidente del comitato che si oppone alla rilocazione di una base USA nell’isola di Okinawa (2015). L’impatto maggiore dell’artista resta quello delle sue opere: i suoi messaggi pacifisti e rivolti a un uso razionale e misurato di quanto la scienza può offrirci sono quelli con maggiore presa sul pubblico. Meno evidenti ma altrettanto importanti sono le sfumature e le contraddizioni dei suoi personaggi sia positivi che negativi, a dimostrare che non vi può essere una chiara demarcazione tra bene e male. La visione cosmologica è però complessivamente negativa: l’uomo abusa in tutte le epoche dei doni che la natura gli offre, sia direttamente come frutto della terra, che indirettamente utilizzando le scoperte scientifiche per costruire nuove armi o più banalmente per violentare il territorio. La natura – e con essa il mondo degli spiriti che la rappresentano – sono quindi destinati a scomparire o a ribellarsi selvaggiamente come in Nausicaä. La saggezza di Miyazaki risiede anche nell’evidenziare il problema senza voler offrire soluzioni forzate. La visione utopistica sarebbe di un ritorno alla natura, come ad esempio in Conan, ma questo difficilmente potrà avvenire nel mondo reale. La Caduta di Ghibli Nel 2014, dopo l’uscita di Quando c’era Marnie (Omoide no Mānī, 2014), lo Studio Ghibli ha comunicato che non avrebbe prodotto più animazione, almeno temporaneamente. Per quanto sconvolgente, a posteriori la notizia non giunge inaspettata. Incassi alla mano, se un film ha la regia di Miyazaki incassa intorno ai 140M$ (a fronte di un budget di 30M$), se è di Takahaha 25M$ (recuperando al botteghino metà delle spese, pari a 50M$)78. La collina dei papaveri (Kokuriko-zaka kara 2011) del figlio di Miyazaki incassò poco meno di 70M$ (budget 22M$) mentre lo stesso Marnie di Yonebayashi appena 30M$ (budget 10M$). Inoltre come si è visto agli Oscar 2015 un film di Miyazaki può ottenere un Academy Award, uno di Takahata, per quanto splendido e rivoluzionario nelle tecniche di animazione, no. In questo contesto è quindi molto difficile mantenere il modello d’impresa di Ghibli, in cui la maggior parte dello staff era impiegata full time per
consentire continuità e un trasferimento di conoscenze artistiche e tecnologiche tra i dipendenti. Viceversa la maggior parte degli studios di animazione giapponesi utilizza personale freelance, impiegato a tempo determinato per una specifica produzione. Con il venir meno di nuove produzioni a Ghibli i dipendenti (e gli stessi Miyazaki Gorō e Yonebayashi) si sono ridistribuiti negli altri studios, portando con loro tutte le conoscenze e competenze acquisite nello studio. Per quanto l’impostazione di Miyazaki e Takahata non sia andata perduta e abbia consentito decine di magnifiche produzioni, la sensazione è che negli anni a venire si parlerà dell’era di Ghibli come quella in cui tecnologia, scienza ed arte si univano per produrre risultati irraggiungibili. 45 Basato sul romanzo di Alexader Key, The Incredible Tide (1970). 46 Questa contrapposizione di culture appare già in Heidi (Arupusu no shōjo Haiji, 1974), diretto da Takahata e in cui Miyazaki collaborò alla stesura della sceneggiatura e del design delle scene. Qui la città di Francoforte è in antitesi con le Alpi svizzere, che – ancora incontaminate – riusciranno anche a contribuire alla guarigione dell’amica Clara. 47 Lett. gigante dio soldato. In Nausicaä Miyazaki crea molti termini originali componendo gli ideogrammi giapponesi e donando ulteriore profondità alla storia. 48 Fonte di ispirazione per la foresta tossica di Nausicaä fu il terribile incidente della baia di Minamata, in cui la Chisso Corporation versò dal 1932 al 1968 scarichi industriali, soprattutto contenenti mercurio. Tra malformazioni, danni neurologici e morti, il numero di vittime giuridicamente accertate fu di circa 3000, ma è più vicino ai 10000. Alla tragedia umana si somma la devastazione ecologica della zona, con piante e animali irrimediabilmente contaminati e che si sono adattati a vivere in questo ambiente corrotto, non dissimile dalla giungla tossica di Nausicaä. 49 Gli insetti della foresta vengono chiamati mushi (insetto) nell’edizione originale. Tuttavia l’ideogramma che Miyazaki usa non è quello comune di insetto, ma uno meno utilizzato in cui il carattere è ripetuto più volte, ad accrescerne la forza. Gli Ohmu, enormi vermi della foresta, devono il loro nome alla traslitterazione di worm inglese, in omaggio ai vermi delle sabbie di Dune, ma sono traslitterati in Ohmu (re-insetto) che ne rafforza il significato mantenendo la pronuncia fonetica. 50 Il film è stato raccomandato dal WWF. 51 Aspetti degli albori di questa società sono anche riscontrabili in un corto visibile al Museo dello Studio Ghibli, Le immaginarie macchine volanti (Kūsō no sora tobu kikaitachi, 2002), di Anno Hideaki. Anche il successivo Castello errante di Howl mostra elementi di aerei e macchine volanti che potrebbero richiamare i primordi della civiltà di Laputa. Tuttavia va ricordato che – salvo rarissime eccezioni – i film di Miyazaki sono tutti slegati tra di loro e appartengono a universi distinti. 52 Evoluzione della cavorite di H.G. Wells ne I primi uomini sulla Luna (1901), la pietra antigravitazionale qui detta volucite sarà usata e abusata più volte nel mondo dell’animazione giapponese e non negli anni a venire. Citiamo Il mistero della pietra azzurra (Fushigi no umi no Nadia, 1990), serie televisiva diretta da Anno Hideaki, che riprende molti dei temi di Laputa. Trasposizione anime di Ventimila leghe sotto i mari e altri romanzi di J. Verne, questa serie si basa su una idea originale di Miyazaki e mantiene molti degli elementi di Laputa (ragazza/principessa, pietra con superpoteri, antica tecnologia, Atlantide ecc.), ma è sviluppata con lo stile proprio del
regista di Evangelion. Tra le opere più recenti citiamo Last Exile (Lasuto eguzairu, 2003), opera che spicca in un desolante panorama di cloni senza alcuno spessore narrativo. Qui ritroviamo la pietra antigravitazionale (“Claudia”) utilizzata per sostenere macchine volanti da guerra in un mondo retrofuturistico. In questo caso il ruolo di Laputa è svolto dall’Exile, nave spaziale utilizzata secoli prima per colonizzare uno strano mondo composto da un sistema binario di due pianeti molto vicini tra loro. 53 Per l’ambientazione di una civiltà post-rivoluzione vittoriana ormai in declino, Miyazaki afferma di essersi ispirato ai minatori del Galles da lui visitato al tempo degli scioperi del 1984-86. 54 Tra i passeggeri si trovano i genitori del protagonista che moriranno nei primi anni seguenti la catastrofe. 55 Cfr. Silent Running, D. Trumbull, 1972. 56 Lett. la Principessa degli spiriti/spettri. 57 Il villaggio è infatti chiamato Tatara, antica fornace in cui si forgiava l’acciaio per produrre le spade e successivamente le armi da fuoco. 58 L’evoluzione dei fucili è emblematica dei mutamenti sociali in Giappone. Quelli mostrati nel film sono di due tipi: uno di origine cinese, posto in cima a un bastone e a canna corta, e uno apparentemente sviluppato nella Tatara di Eboshi, più simile ai nostri moschetti e con grillettomiccia. L’introduzione dei fucili occidentali, da parte di commercianti portoghesi, ebbe inizio nel 1543 nell’isola di Tanegashima (oggi ospita la base di lancio dei razzi della JAXA, l’agenzia spaziale Giapponese). Sita a sud del Giappone, l’isola faceva parte di una rotta commerciale che collegava Sakai, vicino Osaka, a Ningbo, in Cina. Nonostante l’iniziale relativa inefficienza se comparata agli arcieri dell’epoca, l’introduzione delle armi da fuoco rivoluzionò gradualmente tecniche di combattimento e assetti politici nell’isola. 59 Lo Shishigami si tramuta di notte in un Deidarabocchi, o Daidarabocchi, gigantesco yōkai che – secondo la leggenda – prese in mano il monte Fuji e il monte Tsukuba per stabilire quale pesasse di più. 60 Può essere scritto sia come albero-spirito o albero-anima, in questo caso rispettando la pronuncia fonetica. 61 Lett. Cronache della guerra dei tanuki nell’era Heisei Pom Poko. L’era Heisei, corrisponde al regno dell’attuale imperatore del Giappone Akihito e ha avuto inizio l’8 gennaio 1989. 62 Cane procione giapponese, Nyctereutes procyonoides. 63 Le vicende si svolgono nella regione di Tama, che prende il nome dall’omonimo fiume che scorre dalle montagne a ovest di Tokyo sino a sfociare nella baia della metropoli. Dopo la Seconda guerra mondiale la crescente urbanizzazione della città ha trovato sbocco naturale in questa ampia valle, con il risultato di distruggere e spazzar via la maggior parte delle zone rurali esistenti. I tanuki popolano ancora l’area metropolitana di Tokyo, grazie ai molti parchi e zone boscose che sono state preservate. 64 Mimi o sumaseba, lett. “ascoltando con attenzione”, unico lungometraggio diretto da Kondō Yoshifumi (1950-1998) su sceneggiatura di Miyazaki. Kondō aveva collaborato con Miyazaki e Takahata in opere come Conan, Una tomba per le lucciole, ed è stato – tra l’altro – supervising animator per Mononoke. Il brillante e promettente disegnatore e regista morì nel gennaio ’98 per un aneurisma. 65 Il primo adattamento è di Miyazaki, ma il testo finale della canzone, usato nella colonna sonora del film è invece della nipote del produttore Suzuki e riprende il tema centrale del film, mostrando come
sia necessario per i protagonisti rendersi conto dell’ineluttabilità del crescere e dell’impossibilità di poter tornare alla vita spensierata da bambini. 66 La città incantata del film esiste realmente: Miyazaki si è ispirato agli edifici dell’Edo-Tokyo open air architectural museum, in Higashi Koganei, Tokyo, che ospita e salvaguarda antichi edifici in legno e muratura dal periodo dello Shōgun a dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 2015 il museo ha ospitato una mostra di modellini di edifici della Città incantata di Miyazaki. 67 Il gigantesco aereo del film esiste realmente, è il Ca.60 Transaereo, triplano pensato per trasportare su rotte transatlantiche più di cento passeggeri. L’aereo viene però irrimediabilmente danneggiato nel secondo volo di prova e Caproni è costretto a percorrere la strada delle forniture militari, continuando a produrre velivoli e macchine per tutto il corso della guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 viene arrestato dai partigiani e accusato di collaborazionismo (il direttore della fabbrica è fucilato per questo motivo). Processato, viene assolto dalle accuse e riesce a mantenere in piedi la sua fabbrica sino agli anni ’50. 68 Con la caduta dello Shōgun e la restaurazione Meiji, il Giappone colmò in pochi anni un divario scientifico e tecnologico di vari secoli, ripercorrendo rapidamente tutte le fasi della rivoluzione industriale. Anche in questo caso al progresso tecnologico non segue una analoga maturazione politica e sociale. O meglio, gli esponenti più liberali e pacifisti della politica giapponese dei primi anni del ’900 soccombono in una serie di attentati, omicidi e tentativi di colpi di stato alle frange più estremiste e guerrafondaie vicine e appartenenti ai militari. La schiacciante vittoria sulla flotta russa nella battaglia di Tsushima del 1905 stupisce le potenze occidentali e imbaldanzisce i militari giapponesi. La loro flotta viene costruendo le più grandi e potenti corazzate dell’epoca, la Yamato e la Musashi. La potenza e la gittata dei cannoni sono proporzionali alla grandezza della nave: tuttavia per quanto ancora valida negli scontri nell’Atlantico tra inglesi e nazisti, questa equazione si rivelerà inapplicabile nello scenario del Pacifico, dominato, da Pearl Harbor a Nagasaki, da caccia e bombardieri con gittata enormemente maggiore dei cannoni delle supercorazzate nipponiche. 69 Solo catturando un esemplare intatto l’esercito USA riuscì a comprendere la rivoluzionaria concezione dell’aereo, mettendo a punto dei caccia in grado di contrastarlo con maggiore efficacia. 70 Parte delle devastazioni dei bombardamenti a tappeto sono mostrati in Una tomba per le lucciole diretto da Takahata nel 1988. 71 Come noto i giapponesi non usano mai il termine kamikaze, definendo gli attacchi suicidi sia aerei che marini come “attacco speciale” (tokkō). In Zero sono altrettanto interessanti le discussioni e i contrasti tra i piloti sempre più esausti e con ranghi evanescenti e i loro comandanti che erano costretti a mandarli in attacchi continui. Questo tipo di confronto sarebbe stato impensabile nell’esercito, dove vigeva una rigidissima disciplina e una ferrea struttura gerarchica. 72 Il ruolo della magia e del rapporto con la natura umana è anche alla base de I racconti di Terramare (Gedo senki, 2006), opera prima di Miyazaki Gorō e trasposizione animata del mondo di Terramare (Earthsea) narrato nei libri di Ursula Le Guin. È possibile che Miyazaki senior abbia tratto ispirazione per il dominio che Yubaba in Chihiro ha sulle persone appropriandosi del loro nome. 73 Toonz è realizzato dalla Digital Video, azienda romana con esperienza ventennale nello sviluppo di programmi e algoritmi per coadiuvare la produzione di animazione tradizionale. 74 Citiamo ad esempio la necessità di gestire scene estremamente complesse, con centinaia di parti in movimento (allora animate a mano) e che utilizzavano altrettanti colori nella stessa inquadratura. Anche in fase di scannerizzazione dei disegni è fortemente necessario tener conto dei diversi colori delle matite che vengono utilizzati per definire le zone di chiaro e scuro. 75 Eiji Tsuburaya (1901-1970), responsabile della maggior parte degli effetti speciali della Toho e – tra l’altro – co-creatore di Godzilla.
76 Diretto da Higuchi Shinji, su sceneggiatura di Anno e prodotto da Suzuki Toshio. Il Soldato gigante dei sette giorni di fuoco fu animato negli anni ’80 da Anno. I mostri che distrussero la terra in Nausicaä fanno qui la loro comparsa in carne e ossa, distruggendo in poco tempo la metropoli giapponese. 77 Diretto da Yamazaki Takashi e basato su un romanzo di Hyakuta Naoki. 78 La storia della principessa splendente (Kaguya hime no monogatari, 2013) narra una delle storie più antiche del Giappone, la prima conservata per iscritto. Le vicende, per quanto raccontate con commovente delicatezza e impressionante bellezza, sono quindi perfettamente note al pubblico giapponese. Va anche aggiunto che i film di Takahata hanno il triste record di non aver mai recuperato l’investimento iniziale al botteghino.
LUIGI ABIUSI
GEOGRAFIE E GRADI DELL’UCRONIA-MIYAZAKI a Michelangelo
La natura postmoderna del cinema di Miyazaki, stratificazione di un immaginario come galleggiante, apparentemente senza tempo, si rivela indicativamente proprio in un dato storico, nel radicamento capillare della televisione negli anni Settanta e nel proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra (che è il contesto del suo apprendistato) si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti. Ed era certo nel sovraccarico e nella simultaneità dell’offerta tardo capitalista79 di visioni, che certo postmodernismo (in qualche modo preservato anche da Jameson) si autogenerava e autoalimentava sfuggendo alla semplice, ludica ostensione dei significanti, e sviluppandosi anche nelle profondità psichiche (a volte anche mistiche) dell’emotività di quelle sagome vibranti: nudi, scoperti dispositivi di percezione che anziché vanificare la prospettiva umanistica nell’autoreferenzialità linguistica, la intensificavano dentro il particolare ritorno all’uomo (simulato nei tratti dei disegni, appunto sagomato) e alla storia, ricontestualizzata attraverso le dinamiche della finzione. Il vibrare dei personaggi, in varie sfumature e polarità, si svolgeva nel senso di un’estroflessione spinta, esasperata della sensibilità dei soggetti simulati, come ad esempio in Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978) e Anna dai capelli rossi (Akage no An, 1979), entrambi realizzati con vari apporti di Miyazaki (tra disegni e regia), fino a serie come Lady Oscar (Berusaiyu no bara, 1979) e Georgie (Lady Georgie, 1983), in cui questa sentimentalità, scadendo o elevandosi al genere, si caricava di un particolare, ingenuo erotismo e allo stesso tempo di una morbosità tipici della visione fanciullesca. È il concetto di amore che, anche nelle serie più politicizzate come Capitan Harlock (Uchū kaizoku kyaputen Hārokku, 1978) e il capolavoro Galaxy Express 999 (Ginga tetsudō Three-Nine, 1978-81), si sedimentava nell’epidermide di spettri di carta80 e nel particolare movimento in superficie, animazione appunto, di queste icone di ventura, arrivando a stratificarsi, nei migliori dei casi, non solo nella profondità della storia (in un senso tutto dialettico e non filologico), ma anche in quella più astratta e aporetica del cosmo, verso referenti esterni (al contingente linguistico), coincidenti con il senso dell’uomo come conduttore di impulsi, il più delle
volte mancanti nei prodotti postmoderni. In questa chiave alcuni dei cartoni animati realizzati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta (soprattutto nella forma della serialità) costituiscono una deroga all’ingiunzione jamesoniana sul postmodernismo, nella misura di un’animazione, di un’impulsività eccedente, para-romantica, che intesse storie d’amore inventate nella storia, racconti intrisi del senso della storia, quelli che Bloomenberg chiama concetti-in-storie, avvalorando l’efficacia delle narrazioni contro la metanarrazione81 costituita, in questo caso, dalla filosofia della storia. Del resto anche Deleuze l’aveva contestata e permutata con la filosofia delle storie, una pragmatica della verità temporale ricercata non nell’anamnesi, quindi nella complessione a priori delle cose e nella sua comprensione in sintesi, ma nei vuoti e negli strappi della realtà, cioè ovunque ci sia narrazione:82 l’apertura temporale, l’incidentalità (fortemente significativa) dell’immanenza sono il terreno del tuberoso e tumultuoso sostanziarsi di sezioni di senso (narrazioni appunto) a elevato, estremo grado di intensità attraverso cui passa non una verità già da sempre raccontata, ma la verità da raccontare sempre di nuovo83. È questa verità che Hayao Miyazaki ripresenta ogni volta, racconta sempre di nuovo, incarnandola nei suoi spettri di cartone frementi e permutanti per via dei propri simili caratteri che sono la loro carne – perciò Haku, mago proteiforme, alato, trapassa in Howl, Chihiro in Sofi, Clarissa in Sheeta, la madre di Satsuki, tubercolotica, in Nahoko, i pirati dell’aria capeggiati da Dola in quella della “Mamma aiuto” e così via – capaci di un’emotività più straripante, proprio nietzschianamente, di qualsiasi corpo di carne, come Fio che nel rifugio di Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), in preda a innamoramento, comincia a tremare e dice mentre le lacrimano gli occhi: “è che il cuore mi batte così forte che mi sento soffocare”, prima di spogliarsi e tuffarsi nell’acqua della cala, provocando il rossore sul volto di Porco. Il che si associa ai continui riferimenti precorsi alle natiche di Fio (più o meno grandi rispetto all’abitacolo dell’aereo) e alla sua precoce bellezza, che rappresentano un senso dell’eros innocente e pure infantilmente morboso: è l’eccitazione del coreografico, dell’esserci pulsionale dentro sagome a disposizione nello spazio (che si universalizza e astrae nello spazio stellato percorso dal Galaxy Express o dall’Arcadia); della linea tracciata a racchiudere, riempire il seno di Fujiko, quello di Toki (sempre scollata in modalità di erotismo rurale) in Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997), o d’altra parte, la schiena nuda fino al coccige di Howl mentre Sofi l’aiuta a salire le scale ne Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004): è il tratto di formazione, di creazione estatica (quello che per Nietzsche è nichilismo attivo o, appunto, estatico), linea di straripamento o svuotamento
feticistico di densità, sostanza che magari resta (sostanza di risulta) sul pavimento, a dare significato allo spazio in quanto reliquia84. Un meccanismo di s-formazione, sintetizzato, ad esempio, dall’animazione dei tuberi sferici, elastici come sacche, scroti, che gemmano sugli alberi all’inizio di Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984); sono pieni, gravidi di materia, poi sbottano sgonfiandosi, emettendo spore che vagano nell’aria: un episteme della secrezione di quelle forme erotiche riempite dal disegno, a cui è complementare quello della deiezione feticistica, come in Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata, 2001) in cui a un tratto compare nelle terme il dio del fiume scambiato per lo spirito del cattivo odore, che viene sturato da Sen, così da scaricare fuori dal suo corpo l’enorme congestione di melma e ciarpame; o nel caso della desquamazione, dello smottamento del castello di Howl alla fine del film, che resta come cumulo di rovine dopo il suo collasso. Questa plasticità, le forme comprese tra armonia e mostruosità, le forze85 tra riempimento, secrezione e deiezione, anima le narrazioni di Miyazaki intese soprattutto come ucronie86 (e tese ossimoricamente tra atemporalità e storia): ambientazione para-storica, riconoscibile vagamente nella sua morfologia (plastica appunto), magari come affioramento freudiano del rimosso, entro cui si sviluppano racconti di fantasia, di avventura, di magia, e che mantengono una loro verità temporale non nella consecuzione filologica dei fatti, ma in quella dialettica, intrinseca agli scenari. Si tratta della corrispondenza a quelle “convinzioni narrative” di cui parla Linda Hutcheon87, su cui sarebbe fondata anche la Storia proprio in quanto testo (benché riferito a fatti realmente accaduti), narrazione essa stessa; quindi corrispondenza alla storicità in quanto testura, narrazione degli avvenimenti storici. L’indeterminatezza, la vaghezza del dato, quello che Jameson chiama la “trentezza” degli anni Trenta o la “cinquantezza” degli anni Cinquanta, secondo la Hutcheon problematizzano il tempo storico anziché tradirlo, convogliando la “passatezza” del passato (un’impressione istantanea di un dato tempo storico) mediante le caratteristiche di lucentezza dell’immagine. Nelle ucronie di Miyazaki è la dimensione spaziale a esorbitare, sviluppandosi in una data temperie genericamente storicizzata: quella cifra geografica di cui parla De Gaetano (una geografia del cinema in contrapposizione alla storia del cinema), evidenziando l’effettualità diretta delle superfici, la pregnanza sincronica dei territori cinematografici, e i vuoti, gli scarti tra di essi, a delineare e frastagliare l’orografia di una narrazione evenemenziale per quanto topica. È la questione del senso sottratta a condizionamenti di tipo storico e trascendentale e inquadrata in un’ottica spaziale, tale che il senso sia inteso quale effetto di superficie, e la superficie
come l’unica dimensione da cui si aprono le profondità88. Il che suona come una legittimazione di certe narrazioni postmoderne (fuori dalla sanzione jamesoniana), e, in questo caso, come definizione dei film di Miyazaki proprio in quanto profonda effettualità (impulsività) delle superfici e delle sagome. Tralasciando le serie – tra cui Conan il ragazzo del futuro sarebbe sintomatica, nella misura in cui mostra un futuro postapocalittico connotato in maniera “passatista”, come del resto Nausicaä – già Lupin III – Il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro, 1979) è intessuto di motivi ucronici, ambientato in una contemporaneità inventata, in cui sono protagonisti personaggi (in)verosimili come Lupin e i suoi compagni, il conte Cagliostro (che peraltro rimanda a un medioevo di falsari, inscritto icasticamente nell’antiquaria architettura del castello), una Fujiko guerresca e l’ispettore Zenigata, specie di addentellato con un’attualità vagamente riconoscibile, nella quale figurano organismi come l’Interpol e le stesse nazioni, Giappone, Italia, Francia, Germania eccettera, riunite (coi loro rappresentanti) in consesso per scongiurare scandali monetari: una verosimiglianza che pur dentro una quasi-storia problematizza il contemporaneo, dandone un’idea dialettica, in quanto società di capitali. Dunque un film di carattere postmodernista Il castello di Cagliostro che, come una specie di manifesto, svela le dinamiche tardo-capitalistiche del postmoderno e umanizza l’impianto tutto linguistico, endogamico del postmodernismo, opponendogli principi sentimentali, cioè, in questo caso, la dimensione infantile, ingenua di Clarissa. Simili meccanismi di compensazione tra cifra testuale, intertestuale (propria dei prodotti postmoderni) e gamma sensibile, impulsionale (affidata a simulacri altamente senzienti e semoventi), sono alla base delle traiettorie di questo cinema geografico teso tra interni ed esterni, territori e sconfinamenti, una verticalità (percorrimento dei piani cinematografici, dal basso verso l’alto e viceversa) tendenzialmente funzionale alla pura invenzione fantastica e all’anamorfosi (di strane creature a comporre un bestiario variopinto, e di luoghi che così sconfinano nell’antinatura) e, d’altra parte, l’orizzontalità tanto maggiore quanto più esteso è il tratto di mondo storicizzato in cui i personaggi si muovono. Su questa via è possibile ricercare dentro l’opera sfaccettata e complessa di Miyazaki una sinossi basata, al limite, su un coefficiente di corrispondenza storica (o pseudostorica) e realistica (laddove il realismo cresce proporzionalmente al dato storico), e classificare così la sua ucronia attraverso un elemento nucleare del suo cinema, che indica esemplarmente l’incidenza del tempo sulle cose, proprio sulle forme animate:
è il castello, nella sua struttura di reliquia, rovina89, costruzione su cui è impressa l’opera anticante ed estetizzante del tempo. Partendo dal Castello di Cagliostro, passando per il Castello nel cielo, arrivando al Castello errante di Howl, si segue il graduale incremento di caratteri fantastici, che corrisponde via via a una passatezza sempre meno saldata allo storiografico. Nell’ucronia di primo grado, cui eponimo è appunto il Castello di Cagliostro, entro il cui orizzonte si può far rientrare anche Principessa Mononoke e Porco rosso (nei quali non manca certa efferatezza propria delle cronistorie di battaglie, guerre), la passatezza è fissata – come lo è il castello, tradizionale, radicato al terreno – all’interno di un determinato periodo storico, confermato dalla presenza spiccata di oggetti, scenari, costumi d’epoca perfettamente documentali sia pure interpolati con elementi di invenzione (magie, incantesimi, sortilegi): qui l’animazione si dispone secondo una maggiore mondializzazione, un itinerario che segue la direttrice terrestre rispetto all’appiombo del fantastico. Elemento implementato nel secondo grado d’ucronia, quello inaugurato dal Castello nel cielo (a cui si può assimilare anche la fantascienza anacronistica di Nausicaä), che manca del dato storico, restando però intriso di una diffusa aria passatista, nelle architetture, nei diroccamenti, nell’organizzazione antropica urbana (murature, binari, ciminiere), crescendo di pari passo, appunto, l’anamorfosi (figure innaturali), con la comparsa dei robot dinoccolati, custodi di Laputa, e la motilità del castello ancora poggiato al terreno, ma ora, lo strato di terra e radici d’albero, vagante nel cielo sotto forma di isola volante. Cosa che fa anche Il castello errante di Howl nel terzo grado d’ucronia, oramai dotato di una sua precisa, irreale, astorica forza motrice, al di là del terreno di riferimento (con i suoi arti, le sue ali e il cuore propulsivo di Calcifer), e al di là quindi dell’affioramento del passato, che ora è una traccia generale (nel palinsesto quasi tutto fantastico) legata ai costumi, alle divise, a certo eloquio arcaico parlato da Markl, il bambino apprendista mago, e alla presenza della guerra, un’affannosa per quanto distruttiva manovalanza d’uomini che s’intreccia alle (im)possibilità della magia (un limite che riporta sempre Miyazaki alla realtà): qui il movimento nello spazio non è estensivo, sulle coordinate di una cartografia, è piuttosto intensivo e procede per accumulo (di gente, oggetti antiquari, ecc.) in sezioni di spazio-tempo sospese, per ritorno congestionante sui propri passi; una frammentazione che crea salti istantanei da posto a posto e come un accavallamento di scenari, di brevi segmenti (stanziali). Ora l’orizzontalità del primo livello d’ucronia (anche di un film come Porco rosso, che, benché in aria, seguiva traiettorie terrestri, tracciate sulla mappa dell’Adriatico) ha lasciato spazio a una dinamica di tipo verticale, e ciò già nel secondo stadio ucronico.
Infatti in Laputa – Castello nel cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986), dove non c’è referenzialità, benché sia forte la passatezza, predominavano precipitazioni da velivoli, da piattaforme, dallo stesso acrocoro volante di Laputa; discese in mondi ctoni, minerari, o innalzamenti (anche solo degli sguardi) indirizzati verso il castello nel cielo. Stessa cosa, in una forma più claustrofobica, accadeva nel film più fantastico di Miyazaki (e meno, anzi per nulla inquadrato in un tempo storico, se non una contemporaneità anodina), la favola postmoderna della Città incantata (ampliamento architettonico del castello e, in ipotesi, quarto stadio d’ucronia per totale assenza di passato), in cui, tra mostri e spiriti di ogni forma (un’antinatura spinta, sradicata dalla crosta terrestre), proliferavano i saliscendi di Sen dalla cima delle terme (la residenza di Yubaba) fino al loro fondo, le caldaie e il fondaco di combustibile e fuliggini. Da questa architettura si dipanava all’improvviso una pausa nella concitazione dell’azione verticale: l’interregno orizzontale, astratto e pacificato delle rotaie appena sommerse dall’acqua, attraverso cui si arrivava alla casa di Zeniba, luogo di una ritrovata domesticità e familiarità, simile strumentalmente al castello di Howl, interno a chiusura stagna e basculante, a isolare per un poco dall’affollamento inquietante della fantasia. E a ben guardare queste oasi domestiche sono l’incunabolo di quelle, ben più estese, costituite da Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988), Kiki – Consegne a domicilio (Majo no takkyūbin, 1989) e di Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008), specie di riparo pseudorealistico (laddove lo pseudo testimonia l’avvento del soprannaturale salvifico), rifugio dagli sgomenti fantastici, distorsivi della natura (la congerie di mostri che ora lascia il posto a creature tenere e amichevoli); e rappresentano, insieme all’ucronia, nei suoi tre o quattro gradi, e quindi alla favola postmoderna, un altro comparto del cinema di Miyazaki e la conferma di quella volontà di vita hic et nunc (quindi anche in senso nietzschiano, nonostante la sua terribilità) dentro una realtà percorsa dalla costante possibilità (anzi, ingiunzione) interpretativa, creativa del mondo: è la vita, nella sua sostanzialità, nel suo peso specifico (e come prosecuzione della purezza dell’infanzia, quella di Clarissa, di Howl, di Chihiro, come luogo delle prime accensioni amorose), l’agnizione, anzi l’abreazione di questo cinema, confermata proprio dallo strato mitopoietico che anziché rifiutarla e sovrascriverla, la fa emergere, risaltare, come una calcificazione tratta fuori dal mare di nuvole immaginale, da cui riaffiora Marco Pagot, per tornare al mondo, ma ormai segnato, in volto, da quell’esperienza trascendente e umanissima che è l’immaginazione; così come fuori dalla città incantata, dalla facciata posticcia di un parco dei divertimenti che aveva aperto poi il serraglio di una moltitudine di spiriti, mostri fagocitanti, bambini giganti, riprendono
corpo e densità semantica i genitori di Chihiro, e lei stessa sottratta alla coartazione delle terme e forte del vissuto appena concluso, e il sentiero tra l’intrico della vegetazione che li riporta alla civiltà. Fuori da lì c’è il mondo brulicante nella sua aseità, da accogliere senza riserve per il solo fatto che esso è, ed è, in questo modo, cioè essendo, necessario, urgente pur nella malattia, nella violenza che lo segnano; inalienabile nella sua endemica fragilità, che è la fragilità della madre di Satsuki in Totoro (e di Miyazaki bambino) la quale ritorna a essere Nahoko, malata di tubercolosi, in Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013), ultimo atto e capolavoro testamentario di una parabola cinematografica che adesso contempla il film storico e completa quell’orizzontalità e mondializzazione dell’immagine, del disegno animato, che era già dell’ucronia di primo grado e ora si esprime sulla scorta di una puntuale, aderente referenzialità storica (è il periodo tra le due guerre mondiali, lo stesso di Porco rosso) e dell’assenza dell’anamorfosi, che sia anche solo un volto mutato da un sortilegio. Commutazione (dall’anamorfosi alla mimesi) di cui è schema la scena in cui due bambini aspettano desolatamente i genitori a una notturna fermata d’autobus, traduzione drammaticamente realistica di una scena simile di Totoro, in cui faceva irruzione il fantastico, con l’apparizione di un gatto-bus rampante nelle vie di campagna. Mentre ora predominano così mimeticamente i tratti aspri di treni affollati, profughi in cammino alla ricerca di riparo, terremoti che smuovono un Giappone povero e laborioso (di cui resteranno alla fine, dopo le esplosioni e i fuochi diffusi all’orizzonte, solo i pezzi, i rottami), la Germania degli aerei Junkers, che pure diviene il luogo in cui rifiorisce la struggente Storia d’amore tra Jirō e Nahoko, cronaca amorosa dentro un periodo storico ora nettamente documentato. E qui, in questo scenario naturalistico, il vento a tratti percorre la terra rendendola lieve, una volta tanto, al di là delle sue asprezze e del suo peso, e sposta cappelli, ombrelli, aerei di carta verso l’orizzonte; una poesia del galleggiamento in aria che è tutt’uno con il sogno (di volare, di creare aerei a costo di stenti, solitudini, malinconie: Jirō in giro per il mondo che sta per esplodere), con l’immaginazione (dentro il prato divenuto leggero e volatile) come tentativo di vivere, prolungamento di vita, anche di Nahoko che dice a Jirō, mentre s’alza il vento per l’ultima volta: “Mio caro, vivi. Vivi!”.
79 Si tratta della riduzione delle opere postmoderne a prodotti del capitale, per lo più “superficiali”, “anaffettive”, assunta da Fredric Jameson ne Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989. Questo e altri testi su postmoderno e postmodernismo sono ampiamente risaputi: li cito come premessa e addentellato al discorso sulla particolare gnoseologia di Miyazaki. 80 È l’ontologia del cinema in quanto spettralità e incarnazione/disincarnazione dei personaggi (dentro il corpo attoriale) secondo Derrida (J. Derrida, Spettri di Marx, Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994). 81 J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991. 82 J. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001. 83 S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz, Einaudi, Torino 2005. 84 Peraltro sono molti i punti del cinema di Miyazaki in cui si svolge una compiaciuta ostensione delle antiche architetture occidentali, e particolarmente degli ammattonati irregolari, i diroccamenti, le rovine: elementi la cui profonda significazione ed estetica sono date dall’azione del tempo sulla materia: allora alle costruzioni murarie si aggiunge la varia oggettistica antiquaria, tra cianfrusaglie, gioielli, pentacoli. Per quanto riguarda questa vasta estetica cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999 e F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 2015. 85 A proposito di questa dialettica tra forme e forze cinematografiche cfr. R. De Gaetano, Il visibile cinematografico, Bulzoni Editore, Roma 2002. 86 Un testo significativo a riguardo è A. Autelitano, Cronosismi. Il tempo nel cinema postmoderno, Campanotto Editore, Udine 2006. 87 Cfr. L. Hutcheon, Poetics of Postmodernism, New York-London, Routledge, 1988 e Id., Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Armando Editore, Roma 2011. 88 R. De Gaetano, Passaggi. Figure del tempo nel cinema contemporaneo, Bulzoni, Roma 1996. 89 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit.
ROBERTO TERROSI
IL DIO DELLA FORESTA – UNA LETTURA DI MONONOKE-HIME Natura amica e natura nemica Nel 1965 Luigi Nono compose uno dei suoi lavori più importanti. Lo volle intitolare A floresta é jovem e cheja de vida90. L’idea gli venne dalla frase pronunciata da uno dei combattenti per la liberazione dell’Angola, che ebbe a dichiarare: “Vogliono incendiare la foresta e farci uscire allo scoperto, ma non possono distruggerla perché la foresta è giovane e piena di vita”. Non si trattava allora solo di appoggiare la rivolta dei “dannati della terra” contro le potenze imperialiste che li schiacciavano, ma anche di farsi portavoce di una diversa concezione della terra, che non è solo materia inerte, oggetto di sfruttamento politico, economico o tecnologico, ma è terra viva, vita. Questa è una concezione che gli occidentali hanno quasi completamente dimenticato. Pochi infatti sono i riferimenti a questa concezione nell’Europa moderna e cristiana che ha rescisso i suoi legami con la natura viva, che ha perso come diceva Schiller lo sguardo “ingenuo” verso la natura, quello sguardo che ancora i classici, sebbene in forma molto civilizzata ed artefatta, comunque manifestavano nella poesia elegiaca, idilliaca, bucolica e infine nel “vivi nascosto” dei saggi epicurei. Questa rivalutazione già manifestava una cesura e una forma di idealizzazione tipica di chi è ormai inserito in una vita urbana, ma questi poeti mantenevano ancora comunque una tenue continuità con la religione dei boschi sacri che ci ha ricordato Frazer nel Ramo d’oro, e che costituiva uno degli assi portanti della religiosità italico-romana. Il mondo cristiano, il neoplatonismo e lo gnosticismo avevano fatto della natura il regno del male, della materia inerte, della trasformazione, dell’effimero, del transeunte e della morte. Sono poche le eccezioni all’interno di questi sistemi di pensiero che invece la rivalutano. Francesco d’Assisi la recupera in una prospettiva divina come natura “sorella”. Il neoplatonismo rinascimentale la rivaluta come luogo simbolico animato dall’anima mundi. Rousseau la riscopre in una sorta di ebbrezza mistica in cui urla “Natura! Natura! Natura!”. Poi è la volta dei romantici. I romantici riscoprono la natura, al prezzo però della chiara consapevolezza dell’irrimediabile distacco, che si è ormai consumato rispetto ad essa, nel passaggio dalla cultura classica a quella cristiana. Tale distacco viene variamente interpretato come passaggio dal mondo oggettivo a quello soggettivo, dal mondo ingenuo a quello sentimentale, da quello classico a
quello romantico. Allora il romanticismo non è il ricongiungimento della coscienza occidentale con la natura, ma lo struggente desiderio di un ricongiungimento che si sa impossibile, per via di una condizione ormai storicamente irreversibile e che ci strappa dall’oggettività della natura come la coscienza adulta ci strappa per sempre dai sogni dell’infanzia. Allora questo interesse per la natura ha il sapore di un rimpianto per un mondo di incanto perduto a cui ci si deve comunque rassegnare, riducendosi così allo squallore del pensiero calcolante, tutt’al più ammorbidito da quel mezzo incanto un po’ dolce e un po’ amaro che sta nella poesia, nella musica e nelle arti in genere. L’uomo moderno è quell’uomo che canta la natura come “bella”, che inventa il paesaggio, il panorama, la veduta, ma che limita il suo apprezzamento solo ai momenti di svago, perché quando bisogna ragionare seriamente, allora la natura è solo “risorsa”, fondo da sfruttare. Questa visione riduttiva e cieca della natura è quella che Heidegger rimprovera alla tecnica moderna, quando diventa tecnica industriale che concepisce la natura solo come fondo per l’estrazione di energia. La natura viene così ridotta a scarto, a involucro usato e ormai da buttare. Questa è la natura “usa e getta”, che fa problema solo perché non si sa dove e come farla sparire una volta che è ridotta a spazzatura. La società occidentale non si è però accontentata di devastare la natura dell’Occidente, riempiendo fin dalla prima industrializzazione l’aria di fumi, i fiumi di detriti oleosi, la terra di polveri venefiche. Con il colonialismo intere nazioni vengono pensate come semplici serbatoi di materie prime e forza lavoro a basso costo e quindi diventano anche degli immensi immondezzai per un’Europa che ora ha scoperto l’esigenza di avere un ambiente più sano, ma solo per se stessa. Così popoli e terre vengono distrutti in nome dello “sviluppo”. In molti casi questi popoli avevano maturato una cultura di integrazione e di equilibrio con la natura. Questo rapporto di simbolizzazione della natura e di simbiosi è alla base di ciò che Lévi-Strauss chiamava il “pensiero selvaggio”, che a sua volta è alla base delle stesse civiltà complesse. Però il problema è che queste civiltà, una volta diventate complesse, cominciano a seguire un diverso trend (sebbene per Lévi-Strauss lo seguano fin dall’inizio), e cioè un trend di contrapposizione tra natura e cultura, in cui il pensiero, divenuto civile, cerca di contenere, arginare e respingere il “selvaggio”, percepito ora come pericoloso, istintuale, ferino e bestiale. Non sono solo i moderni, ovvero i sentimentali, a parlare con disprezzo di barbari e selvaggi, perché questa rottura comincia a manifestarsi già nelle società antiche. Il pensiero filosofico classico, in materia di etica, insiste sempre sulla separazione della parte bestiale dell’uomo da quella spirituale. La celebre metafora platonica
dell’auriga indica proprio questo. Lo spirito-ragione deve, se non altro, dominare la passione e l’istinto bestiale. La natura allora non è più un luogo in cui vivere, ma diviene il luogo per eccellenza dell’alterità. In questa alterità, però, si nasconde ancora una potenza, e cioè il numinoso, per cui la natura è comunque rispettata e temuta. È per questo motivo che la cultura classica, per quanto urbanizzata e platonizzata, ancora non ha rotto il suo legame sacro con la natura. È la secolarizzazione della natura e più ancora la sua scientifizzazione, che la spoglia di ogni potere simbolico e la riduce a mero oggetto. È così che la natura può essere consumata, secondo gli economisti, “illimitatamente”, per soddisfare le esigenze di crescita altrettanto illimitate del sistema economico capitalista. Il ruolo del buddismo Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) ci parla appunto di questo dissidio millenario, che oggi sta divenendo esiziale, nel momento in cui la crisi climatica può innescare una crisi ecologica irreversibile, che può compromettere lo stesso futuro della razza umana insieme a quello di tanti altri esseri viventi. Questo anime parla di questa hybris umana che non distrugge solo dall’esterno la natura, ma la distrugge anche dall’interno, in quanto “natura” umana, trasformando l’uomo in postumano. Allora questo anime, come un mito, racconta in forma essenziale, concentrata e simbolica un passo fondamentale di questo dramma ecologico e antropologico e lo fa dal punto di vista della cultura giapponese. Noi siamo abituati a pensare al cristianesimo come alla religione dell’uomo occidentale che esce dalla fanciullezza del politeismo e dell’animismo. Rispetto al cristianesimo, religioni come il buddismo ci appaiono molto rispettose della natura e molto più spiritualmente compenetrate con essa. Questo non è del tutto errato, perché il buddismo mantiene un legame più forte con gli equivalenti asiatici della cultura classica. Tuttavia è una religione che fa riferimento al rifiuto degli istinti e dei desideri, ma soprattutto è una religione che introduce un distacco tra il soggetto e il mondo, dipingendolo allo stesso modo del platonismo e del cristianesimo come illusorio, tanto che si è soliti paragonare alcuni aspetti della teoria buddista all’idealismo filosofico europeo. Il buddismo può sembrare molto più classico a un cristiano, ma esso può apparire molto più affine al cristianesimo se guardato invece dal punto di vista di un culto panteistico o animistico.
Non a caso il buddismo, come il cristianesimo o lo zoroastrismo, è una religione che non deriva spontaneamente dalla tradizione ancestrale del popolo, ma è una religione introdotta da un individuo storicamente determinato. Nel caso del cristianesimo questo individuo è Gesù di Nazareth, nel caso dello zoroastrismo è Zarathustra, nel caso del buddismo è Siddhārtha Gautama. Prima di questi fondatori di religioni, le religioni non avevano motivo di essere chiamate tali. Non c’era un nome per il politeismo classico, non c’era un nome per l’induismo e non c’era un nome, nel caso del Giappone, per lo scintoismo. I nomi di questi culti tradizionali e millenari verranno coniati solo all’apparire di nuove religioni e saranno inventati in alcuni casi dai praticanti stessi per distinguersi o in altri dalle nuove religioni, per squalificarli. Ad esempio, il termine “pagani” (che significa “cafoni”, “villani” o “zotici”) è stato coniato come termine spregiativo dai cristiani, quando ormai nelle città avevano conquistato tutti alla nuova religione. I “zoroastriani” introdussero invece il concetto di “infedele” con cui poi anche gli islamici etichettarono più tardi i politeisti o gli stessi cristiani. Invece, nel caso di una religione da questo punto di vista meno aggressiva quale in buddismo, il nome “shintō” è stato scelto dai sacerdoti stessi della vecchia religione per distinguerla da quella buddista, al suo arrivo in Giappone tra il VI e il VII secolo. La parola “shintō” è il composto di due ideogrammi, uno è “shin” che può essere letto anche kami e l’altro è “tō” che significa “via” (michi) come nel cinese “dao” (da cui daoismo). Quindi esso significa letteralmente la “via dei kami”. Resta il però il problema di stabilire che cosa significhi “kami” che è un termine intraducibile del giapponese. “Kami” non ha equivalente, perché noi distinguiamo in modo molto netto gli spiriti dagli dèi. Così gli spiriti quando non appartengono ai defunti sono delle potenze sovrannaturali impersonali, mentre gli dèi sono entità personali o personaggi divini dotati di un’identità sovrumana chiaramente riconoscibile. Diversamente la parola “kami” indica un continuum tra varie forme di entità sovrannaturali che vanno dallo spirito indeterminato al dio dotato di una propria identità personale. Non a caso anche il dio dei cristiani in giapponese è stato tradotto con “Kamisama” (dove “sama” è un onorifico che significa “Signore”) che così diventa letteralmente “Signore Iddio”. Però tutti i kami in Giappone sono kami-sama, anche gli spiriti degli alberi o delle rocce. Se poi vogliamo considerare la divinità in senso panteistico la parola non cambia, ma resta sempre Kamisama.
Il buddismo per parte sua, pur riconoscendo molte forze e potenze sovrannaturali, rappresentate anche in forma antropomorfa, non adora dei veri e propri dèi come fa invece l’induismo e non crede a un dio unico come fa il cristianesimo. Da questo punto di vista potrebbe essere detto che il buddismo si presenta con l’apparenza di una qualunque religione, ma nasconde al suo nocciolo una pura filosofia. Il buddismo quindi arriva in Giappone dopo già un millennio e più di storia di questa dottrina, in cui essa si è già divisa in molte scuole e in due grandi correnti, una maggioritaria e una minoritaria. Esso però è compatto nel presentarsi come religione complessivamente unitaria e si presta perciò, com’è già avvenuto in passato in alcuni stati della natia India, in Corea e altrove, a essere posta come religione di Stato. La tradizione infatti vuole che il buddismo non sia arrivato in Giappone con il comune proselitismo, ma sia stata calato dall’alto e cioè dalla corte imperiale già come religione di Stato, dietro consiglio del re di Corea. La sua imposizione però provocò la reazione delle famiglie nobili collegate ai sacerdoti scintoisti e si arrivò anche a scontri armati, dopo i quali venne imposto un regime di convivenza che perdura (sebbene con fasi alterne al suo interno) fino ai nostri giorni. I buddisti in Giappone, essendo entrati dalla corte imperiale ed essendo quindi direttamente al fianco dei poteri più alti, furono spesso tentati di intromettersi nelle vicende politiche dell’impero, cercando di influire sull’imperatore, o in un caso, addirittura di prendere direttamente il potere per trasformare il Giappone in una sorta di teocrazia. Un monaco buddista infatti aveva un’influenza così forte su un’imperatrice di epoca Nara che era quasi riuscito a convincerla a consegnargli il potere ufficialmente. Lei però, forse sotto le pressioni di altri notabili della corte, disse che lo avrebbe fatto solo se avesse ricevuto un responso positivo da una sorta di oracolo, che si trovava in un antico santuario scintoista del Kyūshū. Inutile dire che il responso fu negativo e che quindi i buddisti dovettero rinunciare al trono del Giappone. Ciò però non impedirà loro in altre occasioni di giungere più volte a imbracciare le armi per combattere i poteri a loro avversi e di prendere parte attiva in vari conflitti politici, tanto che furono anche fondamentali nello sbarrare la strada ai missionari cristiani nel Sol Levante, fino a invocare misure decise, come quelle che portarono alla crocifissione dei cosiddetti 26 martiri giapponesi. Le insistenze dei tanti monaci buddisti furono una delle principali ragioni dello spostamento della capitale da Nara a Kyoto. Ma a Kyoto poi si ripeté lo stesso copione, tanto che il potente condottiero Toyotomi Hideyoshi per
fermare la traboccante influenza del monaco zen Sen no Rikyū fu costretto a ingiungergli di fare il seppuku (o harakiri). Nel periodo Edo poi il buddismo tornò a essere la religione principale al fianco dello shogunato. Ma la situazione si rovesciò drammaticamente con la restaurazione Meiji che, per la prima volta, decretò lo scintoismo “religione di Stato” in senso stretto e cioè per legge, e per converso perseguitò il buddismo, fino ad arrivare alla distruzione di alcuni templi. Nel fare ciò però lo shintō fu trasformato in una religione con un’ideologia nazionalista e militarista, che non aveva mai avuto in passato. Perciò dalla restaurazione Meiji fino alla caduta dell’impero giapponese anche il buddismo ha assunto talvolta toni pacifisti e antimilitaristi che non aveva mai avuto in passato, essendo stato prima la religione dei guerrieri (bushi). Tutto questo per spiegare che il buddismo in Giappone è visto come una religione del sistema in contrapposizione allo scintoismo, che è visto come religione popolare, anche se tra la fine dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale le parti sono state temporaneamente invertite. Questo fa sì che si possano trovare valutazioni molto difformi tra i giapponesi sul ruolo del buddismo e dello shintō, a seconda anche del periodo storico a cui si fa riferimento. In tempi recenti comunque si è assistito a una rivalutazione dello shintō come religione spontanea della natura, contro le perversioni della civiltà incarnate qui in Giappone dal moralismo ipocrita del buddismo compromesso con il potere. Il buddismo era infatti la religione dei nobili e dei ricchi, di quelli che avevano studiato, anche perché ha un corpus teorico complicatissimo che esige l’accesso allo studio. Solo se si tengono presenti tutti questi aspetti si può comprendere il ruolo così segnatamente negativo che ha il monaco buddista nella Principessa Mononoke. Questo ruolo negativo è ribadito anche da un’altra circostanza, che evita qualsiasi fraintendimento in senso nazionalista delle simpatie shintō implicite in questo anime e che riguarda proprio la scarsa simpatia di certi monaci buddisti per la natura. Il film si apre con una visione bucolica della vita di un tranquillo villaggio Emishi, in cui la gente vive seguendo i valori della tradizione. Ma chi sono gli Emishi? Gli Emishi
La popolazione giapponese si compone di diverse etnie che con il tempo si sono amalgamate tra loro (sebbene con alcune eccezioni). Anche la lingua giapponese riflette questa composizione eclettica. Vi troviamo elementi in comune con gli altri arcipelaghi del Pacifico e altri elementi in comune con il Coreano e con il Mongolo. Dal punto di vista etnico poi troviamo anche legami con il Sud-est asiatico e quindi con l’Indocina fino al Vietnam. Tra tutti questi numerosi influssi, però, i principali apporti che hanno inciso sulla formazione della cultura giapponese si riducono a due. Infatti, dal punto di vista archeologico troviamo in età preistorica una cultura cosiddetta Jōmon (dall’uso di imprimere le corde sulla creta dei vasi), che è una cultura primitiva di caccia e raccolta, seguita poi da una cultura detta Yayoi, che invece è quella che introduce l’agricoltura e l’uso del bronzo. La prima viene dalle steppe del nord della Russia e la seconda invece da sud e cioè dall’attuale Corea. Gli usi e costumi ancestrali dei giapponesi, così come i loro miti, deriverebbero dall’incontro e dall’assimilazione di queste due culture tra loro. Non tutti i Jōmon però si mescolarono agli Yayoi. Questo incontro interessò il centro-sud del Giappone ma a nord dell’attuale Tokyo, le popolazioni Jōmon continuarono la loro vita di cacciatori-raccoglitori. Nel VI secolo le differenze tra questi due gruppi erano ormai irrimediabili. A sud era fiorita una civiltà complessa che si stava rapidamente adeguando agli standard coreani e cinesi, e che quindi usava la scrittura, promulgava leggi, batteva moneta e intratteneva rapporti diplomatici con i paesi vicini. A nord questi popoli continuavano a vivere come avevano sempre vissuto. Con l’edificazione della prima capitale stabile a Nara e la formazione di un impero che cominciava ad assumere l’aspetto di un vero e proprio Stato, le forze imperiali divisero il territorio in regioni e organizzarono un primo sistema di governo, che doveva estendersi a quasi tutto l’Honshu (cioè l’isola maggiore). Mandarono così le truppe a prendere possesso del selvaggio Nordest, dove intendevano costruire dei capoluoghi con dei presidii fortificati. Il più lontano fu costruito a Taga nei pressi dell’attuale Sendai (oggi Taga-jō). Lì praticamente c’era il limes dell’impero Yamato oltre il quale non avevano la forza organizzativa di spingersi. Le truppe furono affiancate anche da monaci buddisti che provarono a costruire in quelle terre dei templi e a convertire la popolazione per trasformare tutti in fedeli sudditi dell’imperatore. Ma le popolazioni locali ingaggiarono un’incessante e accanita guerriglia di liberazione, che durò per due secoli, fino al ritiro delle truppe imperiali, che si concluse con l’uccisione del vicario imperiale e la distruzione del castello di Taga (“Taga-jō” appunto)91. Questi popoli erano
chiamati Emishi dai giapponesi ed erano considerati dei barbari pericolosi, anche se un tempo questi afferivano al comune ceppo dei Jōmon92. Gli Emishi avevano dei culti animisti molto simili allo shintō, con cui avevano radici comuni e probabilmente avevano degli sciamani o delle sciamane che facevano anche da guaritori. Si capisce bene allora come nell’ottica degli Emishi gli imperiali fossero degli invasori e i sacerdoti buddisti fossero degli odiosi colonizzatori al loro servizio, più o meno come lo erano i missionari cattolici al fianco dei conquistadores nelle Americhe. Alla fine poi gli Emishi vennero comunque assimilati dagli imperiali attraverso i rapporti commerciali, fino alla nascita della vicina Sendai come centro completamente nipponizzato, che entrerà a pieno titolo tra i maggiori centri dell’impero dalla fine del XVI secolo. I popoli ancora discendenti dei Jōmon e non assimilati dalla cultura nipponica rimasero confinati nella regione fredda di Hokkaido dove poterono continuare i loro usi fino all’invasione seguita alla modernizzazione del paese, quando i Giapponesi fondarono la moderna città di Sapporo. Fu allora che le popolazioni locali, chiamate all’epoca e anche oggi Ainu, furono costrette ad assimilare la cultura giapponese, a studiarne la lingua e la scrittura, perdendo la loro tradizione. Rispetto a quest’opera di acculturazione non sono mancate delle resistenze, che sono potute però venire allo scoperto solo dopo la caduta del regime nazionalista, quando la democrazia ha ridato dignità alle realtà etniche locali. A tutt’oggi però gli Ainu tradizionalisti continuano a essere critici verso la nipponizzazione, che sta cancellando la loro tradizione e la loro lingua e perciò hanno rifiutato la trascrizione dell’Ainu in caratteri giapponesi, preferendovi l’alfabeto. Così in Giappone oggi c’è una lingua che si scrive con l’alfabeto romano e questa è l’Ainu. Quindi possiamo affermare che Emishi e Ainu sono in sostanza la stessa cosa oppure gruppi diversi dello stesso popolo come accadeva in America per gli Apache e i Sioux. La vita di questi popoli si svolgeva sostanzialmente in un rapporto di osmosi con la vita della foresta. Possiamo dire che, pur essendo una vita dura, era perfettamente integrata nell’ecosistema. Tuttavia Miyazaki non vuole proporci un vero romanzo storico e a rimarcare il carattere fantastico e leggendario della narrazione ci presenta un ragazzo a cavallo di un enorme stambecco, seguito poi dalla comparsa di un mostro ripugnante che esce appunto dalla foresta. Il mostro, che contamina e distrugge tutto ciò che incontra, poi si rivelerà essere un gigantesco cinghiale, ferito da una pallottola e il mostruoso verminaio che emette non è altro che l’esternazione del suo spirito malato e
morente, che si scaglia con furia disperata contro tutto e tutti per il male che lo affligge. Fatto sta che però tale verminaio tocca anche il braccio del ragazzo contaminandolo e costringendolo a lasciare il villaggio in cerca di una spiegazione che, risalendo alla causa del male, riesca a sottrarlo alla sua sorte letale. La signora degli animali È in questo cammino che incontra l’infido bonzo buddista, che cerca di servirsi del ragazzo per giungere al dio della foresta, in modo da poterlo catturare e uccidere. Ora, le tradizioni buddiste medievali sono ricche di un bestiario di mostri terribili, con cui incutevano timore nei fedeli come i cristiani facevano con i diavoli dell’inferno. Secondo una lettura forse un po’ new age, oggi vari tendono a credere che questi mostri non siano che il frutto della demonizzazione buddista di alcuni kami della natura appartenenti ai culti locali che volevano scalzare, un po’ come secondo Hillman93 il diavolo non sarebbe altro che la demonizzazione del dio Pan della cultura classica, usato in funzione anti-pagana. Questa tesi la ritroviamo affermata più esplicitamente in un altro anime, che però non è di Miyazaki, né dello Studio Ghibli, intitolato Legend of Millennium Dragon (Onigamiden, 2011)94 e che vi invitiamo a vedere per avere una chiara idea di questo dibattito culturale sulle tradizioni del Giappone. Ma a un certo punto il nostro giovane eroe fa un altro incontro ed è quello con la principessa Mononoke. Mononoke significa “spiriti maligni”. La voce è stata variamente tradotta con “spiriti vendicativi”, “spiriti-mostri”, “demoni”. Letteralmente se scomponiamo la parola, essa è composta da mono+no+ke ovvero “cosa di mistero” o “essere misterioso”, ma con una chiara connotazione negativa. Perciò si allude a uno spirito, a un mostro, a una creatura demoniaca. Chi ha tradotto con “spiriti della vendetta” lo ha fatto tenendo conto più della storia che del dizionario, perché in effetti il carattere spaventoso di questi spiriti è dovuto al male subito. Da questo punto di vista tali spiriti sono paragonabili alle Erinni del mito greco. Lei è quindi la principessa delle Erinni, delle furie, delle potenze della natura, degli spiriti inferociti della foresta, e per questo si mostra con una sorta di warmask. Anche la principessa è a suo modo una dea. Dobbiamo ricordarci innanzitutto che la figura dominante del pantheon shintō è una divinità femminile che si chiama Amaterasu. Amaterasu è nota però come la divinità
del sole o la sposa del sole, mentre in questo caso abbiamo a che fare con una figura diversa che ci ricorda molto il sistema religioso minoico. A Creta infatti nel III-II millennio a.C. non esistevano templi, ma solo boschi sacri in cui si celebravano riti con danze di donne. Questo non significa che non esistesse anche una dimensione sacrale maschile che verosimilmente era però legata al potere, alla forza e all’immagine del toro. Comunque la natura selvaggia, col suo potere di morte e rinascita era incarnata da una figura femminile che vediamo rappresentata in una celebre statuetta. La stessa iconografia ricorre anche nella Grecia arcaica e nel Vicino Oriente dove la vediamo circondata di animali e che per questo viene chiamata potnia theron (Πότνια Θηρῶν) ovvero “signora degli animali”. Da questo punto di vista allora Mononoke-hime sembra essere proprio una potnia theron. La potnia theron poi è all’origine di una diversificazione che ha portato alla nascita di figure divine diverse come Cybele, Afrodite, Diana, e Athena che è anche quella che governa le Erinni e che ha sul suo petto il terribile volto della medusa, che funziona un po’ come la maschera da guerra della principessa Mononoke. Il dio della foresta Così come c’era una divinità femminile degli animali, ce ne era anche una maschile che non di rado veniva rappresentata con delle corna in quanto le corna sono simbolo di potere. Gli antropologi e gli antichisti come Walter Burkert parlano in Occidente di un “signore degli animali”, ma anche di un capo mitico, un po’ sciamano, che avrebbe potuto indossare pelli di toro (come facevano anche gli indiani d’America). In Giappone però esiste una tradizione diversa in cui l’animale sacro della foresta non è il toro, bensì il cervo. Ancora oggi vediamo branchi di cervi in importanti località religiose giapponesi come a Nara, a Miyajima o a Kashima. Il cervo oggi in Giappone è considerato uno spirito messaggero che emerge dagli anfratti e si manifesta come in un’apparizione numinosa. Il mito vuole infatti che proprio da Kashima sia giunto a Nara come messaggero divino uno splendido cervo bianco. Il cervo allora da messaggero diviene egli stesso nella storia di Miyazaki il dio della foresta. Ma che cosa si intende qui con “dio della foresta”? La foresta è un ecosistema che, attraverso l’intersezione dei vari cicli di vita delle creature animali e vegetali e finanche microscopiche di cui si compone, stabilisce un equilibrio che tende omeostaticamente a conservare. Esso cioè diviene più che una semplice somma di organismi viventi, una sorta di metaorganismo vivente. Questo sistema, anche se attaccato o menomato da agenti
esterni come l’azione umana di depredazione, fino a un certo punto riesce a riprendersi (resilienza) permettendo la vita di tutte le creature al suo interno, ma se i danni vanno oltre un certo limite tutto il sistema collassa e in un certo senso “muore”. Non permettendo più la vita che si basava sull’intreccio virtuoso dei cicli vitali, l’habitat viene compromesso e nessuna creatura vi trova più le stesse condizioni di vita che vi trovava prima. Infatti i cambiamenti, una volta rotto l’equilibrio, seguono un effetto domino in cui una cosa ne compromette l’altra e così via, stravolgendo tutto. Per questo non è così strano pensare che la foresta abbia un’anima in quanto insieme vivente e perciò animato. Una foresta viva è pulita e profumata perché gli animali mangiano le piante infestanti e il ciclo di decomposizione crea il compost senza accumulo di escrementi che rende sempre fertile il terreno e permette la nascita di nuove piante. Una foresta malata o morta è soffocata dalle erbacce e dalle edere che soffocano gli alberi ed è disabitata se non dagli insetti che vi pullulano. Il cervo è proprio un simbolo di questa foresta viva ed esso è qui considerato un dio non perché il cervo in se stesso abbia particolari poteri ma perché esso è l’immagine stessa della foresta intera e di tutta la sua vita. D’altronde questo è il dio anche nella cultura arcaica occidentale. Il dio è il sistema che per questo sovrasta gli individui e gli uomini e si pone implicitamente come sovrumano. Il dio-cervo è molto difficile da vedere e da trovare, la sua presenza è numinosa e perciò anche pericolosa. Verso la fine del film, Miyazaki ci mostra una chiara contrapposizione. Da una parte ci fa vedere un’umanità incattivita verso la natura che si rifugia nella tecnica per colmare le sue paure senza accorgersi della distruzione che porta. Dall’altra mostra, quando il bonzo con astuzia riesce ad attentare alla vita del Dio-cervo, il dio nella sua natura finalmente estrinseca di dio-foresta. Infatti l’anima della foresta che era concentrata e custodita nel corpo del cervo divino ora si libra e si manifesta come creatura a se stante prima di perdersi e svanire del tutto. Il risultato è una creatura che sembra uscita da un quadro di Alberto Savinio che non a caso era un pittore a suo modo “politeista”. Ma fortunatamente questo avvio verso il disfacimento dello spirito della foresta e della sua riduzione a materia inerte viene avventurosamente fermato dal nostro eroe in combutta con la principessa Mononoke. Riusciremo anche noi a salvare il mondo dalla perdita della sua anima? Dalla sua riduzione a un sasso disabitato come tanti altri nell’universo? Non lo sappiamo, ma il film di Miyazaki non è solo un messaggio di speranza come tante volte se ne fanno in giro per il mondo con un po’ di buone
intenzioni e tanta retorica. Il film di Miyazaki con la sua onestà d’animo e la sua ingenuità è riuscito a fare quello che a tanti poeti non è riuscito mai e cioè realizzare non solo una storia soggettivamente espressiva ma un “mito” universale per l’età della crisi ecologica. Informazioni bibliografiche Per quanto riguarda le informazioni sulla storia della cultura giapponese non possiamo offrire qui una bibliografia completa dei testi letti, ci limitiamo però a suggerire qualche libro che può essere utile al lettore per eventuali approfondimenti. Relativamente alla storia del Giappone suggeriamo: R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Roma, Laterza 2004. Riguardo allo scintoismo (o shintō), in lingua italiana non esistono monografie accreditate (le monografie in circolazione hanno un taglio turistico), ma solo parti di enciclopedie, in particolare la parte dedicata allo scintoismo nella Storia delle Religioni diretta da Puech. In inglese invece consigliamo la lettura di Sokyo Ono, Shintō the Kami Way (Tuttle, Boston, 1962), che non segue un approccio antropologico e storico-religioso, ma in compenso è un autorevole documento scritto da un professore shintoista dell’Università shintoista di Tokyo. Sempre in inglese segnaliamo un libro collettaneo curato da John Breen e Mark Teeuwen, Shintō in History: Ways of the Kami, (Routledge, N.Y. 2000). Allo stesso modo per la storia del buddismo giapponese non conosco monografie in italiano accreditate (e cioè che seguono una rigorosa analisi di tipo storico religioso) e anche in questo caso invece esiste un testo in inglese scritto da uno storico del buddismo che, come nel caso dello scintoismo, non segue un approccio storico-critico, ma esprime un autorevole punto di vista da parte di uno storico buddista. Si tratta di Kenji Matsuo, A History of Japanese Buddhism (Global Oriental, Kent 2007). Infine per approfondire la questione del rapporto tra Impero del periodo Nara ed Emishi si veda Bruce L. Batten, To the Ends of Japan: Premodern Frontiers, Boundaries, and Interactions, University of Hawaii Press, 2002 (qualche cenno si trova anche nella parte iniziale di Brett L. Walker, The Conquest of Ainu Lands: Ecology and Culture in Japanese Expansion, 15901800, University of California Press, L.A. 2001). Per quanto riguarda altri aspetti discussi nell’intervento, su Luigi Nono: Gianmario Borio, Giovanni Morelli, Veniero Rizzardi, La nuova ricerca sull’opera di Luigi Nono, Olschki, Firenze 1999; sulla potnia theron si veda soprattutto Walter Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977 (trad. it., La religione greca di epoca
arcaica e classica, prefazione di Giampiera Arrigoni, Jaca Book, Milano 2003); e Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Berkeley 1979 (trad. it., Mito e rituale in Grecia. Struttura e storia, Laterza, Roma-Bari 1987). Sui rapporti tra religione e natura si veda Roger Bastide, Il sacro selvaggio e altri scritti, Jaca Book, Milano 1977; su tecnica e natura: Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976. Infine rispetto alla questione della vita degli ecosistemi, e della foresta in particolare, in rapporto con l’invasività della tecnologia andrebbe considerata l’opera del biologo marxista americano Richard Levins che è alla base delle moderne teorie sulla valutazione di impatto ambientale. Levins, pur avendo esercitato un’influenza decisiva sull’ecologia scientifica contemporanea, non è tradotto in italiano, la sua opera più nota è forse The dialectical biologist scritta insieme a un altro illustre biologo, Richard Lewontin (Harward University Press, 1985). Tra le pubblicazioni in italiano su questi argomenti segnaliamo in particolare il testo di Vittorio Ingegnoli, Bionomia del paesaggio. L’ecologia del paesaggio biologico-integrata per la formazione di un “medico” dei sistemi ecologici, Springer, Milano 2011; e il volume collettaneo di Piermaria Corona, Anna Barbati, Barbara Ferrari, Luigi Portoghesi, Pianificazione ecologica dei sistemi forestali, Compagnia delle Foreste, Arezzo 2011.
90 In portoghese sarebbe cheia, ma l’errore è dello stesso Nono. 91 La situazione è più articolata perché alcune popolazioni Emishi si erano sottomesse pagando i tributi mentre altre invece attaccavano gli avamposti Yamato; ma in questa sede non possiamo scendere nei dettagli. 92 La questione dell’origine degli Emishi è ancora dibattuta e perciò quella che ho riportato qui è l’idea che io mi sono fatto in proposito. In realtà esistono almeno due tendenze diverse e cioè una che, come abbiamo detto qui, riconosce una continuità tra Emishi e Ainu e un’altra che invece sostiene che gli Emishi siano una popolazione autoctona indipendente tanto dagli Ainu quanto da popolazioni Yayoi. Sulla questione si veda Kazuro Hanihara, Emishi, Ezo and Ainu: An Anthropological Perspective, in “Japan Review”, 1990, 1, pp. 35-48. 93 Cfr. J. Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, Milano 1977. 94 K. Hirotsugu, Legend of the Millennium Dragon, 2011, tratto da un racconto di Takafumi Takada.
MASSIMO SOUMARÉ
IL PRINCIPE CANE: ELEMENTI DELLA FILOSOFIA E DELLA POETICA DI MIYAZAKI HAYAO IN UNA FIABA TIBETANA Un ragazzo dagli abiti logori e con un vecchio fucile a tracolla libera una graziosa giovane imprigionata da un collare di ferro saldato a una catena, mentre al suo fianco una bambina osserva la scena. È questa la copertina di uno dei manga più importanti di Miyazaki Hayao, che ha rappresentato un lavoro fondamentale sia per la sua filosofia che per la sua poetica. Shuna no tabi (lett. “Il viaggio di Shuna”) risulta, infatti, essere una pietra fondamentale che racchiude elementi che saranno presenti in diversi lavori cinematografici del regista/mangaka, divenendo un “humus” da cui attingerà più volte a piene mani nel corso della sua carriera. Si tratta di un volumetto di centoquarantasette pagine tutte a colori – e già questa per il panorama del manga nipponico è una caratteristica che attrae subito l’attenzione – edito per la prima volta nel mese di giugno del 1983 nella collana Animage Bunko. La storia consiste in una rielaborazione di una fiaba popolare tibetana di cui il regista è venuto a conoscenza attraverso il racconto Inu ni natta ōji (lett. “Il principe diventato cane”), tradotto in giapponese da Kimishima Hisako95. La trama della favola originale si può riassumere, in breve, nell’avventura di un principe di un regno povero che, al termine di un duro viaggio, riesce a sottrarre al re drago dei chicchi di grano, ma che per punizione è costretto ad assumere le sembianze di un cane. Infine salvato dall’amore di una fanciulla, riesce a far ritorno nella propria patria portando con sé anche il grano tanto faticosamente conquistato. Come ammesso dallo stesso Miyazaki nella postfazione al volume, suo sogno era, fin da quando lo aveva letto più di una decina di anni prima, riuscire a trarne una trasposizione animata, ma al momento della pubblicazione riteneva che data la situazione del Giappone del tempo fosse impossibile realizzare un prodotto del genere; il tema era un po’ troppo semplice e forse un paese come la Cina sarebbe stato più adatto per quel progetto. Solo l’incoraggiamento dei dipendenti della casa editrice Tokuma lo spinse a pensare di dargli vita in una forma diversa da quella del mezzo cinematografico.
Il fumetto di Shuna no tabi nacque, pertanto, come una soluzione di ripiego, pur avendo avuto un lungo periodo di gestazione ed evoluzione all’interno del regista. Il racconto della fiaba tibetana è semplice, possedendo, tuttavia, quella saggia ingenuità che è la grande forza della favola/mito. Shuna perciò rientra a buon diritto in quella schiera di eroi leggendari benefattori dell’umanità che in Occidente annovera figure come quella di Prometeo. Lo sfondo è quello del rapporto uomo-natura, dove quest’ultima può essere madre generosa o spietata con i suoi figli. E ben s’innesta anche con le pulsioni animistiche e la credenza tipica dello shintoismo che in ogni essere vivente e oggetto dimorino degli spiriti. Riguardo questo punto, è interessante notare la seguente citazione tratta dal Kojiki (lett. “Vecchie cose scritte”, 712 d.C., compilato nel 712 d.C. da Ō no Yasumaro, ?-723, è il più antico testo sia scritto che storico nipponico): Al tempo dell’inizio del cielo e della terra i nomi degli dei generatisi nella Taka-ma-no-hara furono Ame-no-mi-naka-nushi-no-kami (la divinizzazione del pensiero centrale dell’Universo), poi Taka-mimu-su-bi-no-kami (la divinizzazione del pensiero creatore), poi Kami-mu-su-bi-no-kami (è anch’egli la divinizzazione del pensiero creatore). Questi tre pilastri (era il termine utilizzato per enumerare le divinità; deriva dall’uso nello shintoismo primitivo, quando ancora non erano stati costruiti templi, di contare gli alberi ritenuti abitati da kami (dei) con il termine hashira, pilastro/colonna) di dei furono generati singoli e nascosero il corpo (il senso dell’espressione “nascondere il corpo” non è chiaro. Forse è da intendersi “si fusero con il cielo e la terra”).96
Il medesimo binomio alberi/natura e divinità che, con l’aggiunta anche dell’agricoltura, diventa un trinomio che riveste tanta importanza nella filosofia di Miyazaki. Lo troviamo presente in suoi diversi lavori: in Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984), in Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) o, limitato però al binomio natura/agricoltura, in Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), embrione ancora più vecchio di tale filosofia. Quindi un qualcosa di sicuramente elaborato e raffinato in modo originale e personale dal regista, ma che ha fatto risuonare in lui echi di un passato lontano del suo popolo, andando a toccare le corde più profonde del suo animo, che ha sempre avuto un particolare legame con la natura e un interesse alla definizione del rapporto divinità-uomo, questo ben evidente nel lungometraggio Principessa Mononoke. Tant’è che le somiglianze tra Shuna e Ashitaka, a partire dalle loro cavalcature fino a giungere anche al modo di pensare e di affrontare l’esistenza, sono assai strette. Entrambi, a un certo punto della loro vicenda, divengono dei marebito (lett. “persone venute da altri luoghi”/“ospiti che giungono raramente”)97. I giapponesi, nel corso del processo d’assimilazione della cultura proveniente dall’esterno hanno apprezzato la forza immaginifica originaria
dei paesi esteri. Circondati dal mare, sin dall’antichità – se si esclude il Periodo Edo (1603-1868) in cui l’isolamento forzato del Giappone mise in ombra questa particolarità della popolazione autoctona – gli abitanti dell’arcipelago hanno sempre mostrato, ben più di quanto si tenda normalmente a credere, la tendenza ad accogliere positivamente naufraghi e viaggiatori in quanto persone dotate di una qualche essenza divina. Ciò era dovuto anche al desiderio di uno scambio culturale e di apprendere nuove visioni del mondo. I marebito nelle opere di Miyazaki sono una costante che ritorna spesso. Per esempio, in Nausicaä della valle del vento c’è la principessa Kushana e nel recente Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013) compare Giovanni Battista Caproni, il quale, in un certo senso, ricopre tale ruolo. Queste figure rappresentano il cambiamento e una catarsi per il protagonista che si trova a dover mutare il suo ruolo da quello iniziale, meno consapevole, a uno nuovo in cui raggiunge una forma di “satori” (illuminazione spirituale) tramite il quale, sebbene possa rifiutare in parte i valori costituiti dal nuovo, da un altro lato è costretto ad accettarne l’esistenza e, comunque, a raggiungere un punto di compromesso tra il prima e il dopo. Le stesse didascalie di Shuna no tabi contribuiscono a sottolineare l’idea dell’aspetto mitico della vicenda. A parte pochissimi balloon, la stragrande maggioranza dei testi è direttamente inserita all’interno delle vignette innestandosi sulla rappresentazione grafica o, eventualmente, negli spazi lasciati appositamente bianchi. Il risultato, se in parte ricorda vecchi fumetti come il Principe Valiant (Prince Valiant, 1937) creato dal fumettista canadese poi naturalizzato americano Hal Foster, che consentivano un’epicità nello sviluppo della storia e una grande poetica, d’altro canto lo rende molto simile a un libro illustrato. In questa maniera, Miyazaki ha perfettamente utilizzato nella narrativa l’antico concetto nipponico di kotodama (lett. “spirito insito nelle parole”; “koto” = parola, “tama/dama” = spirito), unendolo a un’eccellente espressione visiva ottenuta attraverso colorazioni ad acquerello. Il kotodama, per l’appunto, trova origine nell’idea che nei vocaboli stessi dimori il tama. Le parole possiedono la capacità di creare racconti dai numerosi “spiriti”. Riguardo poi l’agricoltura e la coltivazione, non va dimenticato il ruolo delle sciamane, le cosiddette miko98, nella società nipponica antica, dove le donne con una profonda conoscenza erano spesso a capo delle comunità e occupavano una posizione correlata a una funzione di mediazione tra gli dèi dell’agricoltura e della natura e la gente del popolo. Figure femminili che
ricompaiono spesso nella sua cinematografia in qualità di comprimarie, se non addirittura come protagoniste o coprotagoniste, come nei casi di Nausicaä o di Tea di Shuna no tabi, che alla fine della narrazione si rivela la chiave essenziale per guarire Shuna, il quale, nella versione di Miyazaki, invece di essere stato trasformato in un cane semplicemente perde il senno. L’unione tra arte visiva e narrazione si fonde in un tutt’uno che genera una compenetrazione profonda con il lettore. Miyazaki ha potuto, e voluto, esprimere se stesso in totale libertà. La paura che lo attanagliava nella realizzazione di un lungometraggio, possiamo dedurre dalle parole da lui espresse, era dovuta al fatto che non gli avrebbe consentito di essere così sganciato da un’esigenza, per quanto prodotto d’autore, più commerciale e che quindi gli avrebbe richiesto di rendere maggiormente intrigante la trama perdendo però la potenza insita nella storia del principe cane, qui svanita. Da lì la riflessione che gli animatori cinesi, o anche russi, sarebbero riusciti a realizzare meglio un simile lavoro? Certo Miyazaki, profondo ammiratore di capolavori dell’animazione sovietica come La regina delle nevi (Снежная королева, 1957) diretto da Lev Atamanov, era consapevole della forza di questi paesi comunisti, allora meno interessati a un mero discorso di business e più attenti alla forma dell’arte, e deve aver percepito che la produzione di un lungometraggio simile nel Sol Levante capitalista se non improponibile era altamente difficile. Perciò ha continuato ad accarezzare il suo sogno senza riuscire a realizzarlo. Una situazione frustrante per qualsiasi creativo, che la stesura del manga deve avergli permesso in parte di mitigare e anche di metabolizzare, cosicché negli anni seguenti in modo parziale, ma continuo, è riuscito a inserire parti di Shuna no tabi nei suoi film. Oppure, analizzando la situazione da una prospettiva differente, possiamo affermare che questo fumetto è divenuto una specie di canovaccio o di “suggeritore”, cui Miyazaki – ma non solo lui; è bene ricordare che I racconti di Terramare (Gedo senki, 2006), diretto da Miyazaki Gorō, è basato in parte sui romanzi del Ciclo di Earthsea di Ursula K. Le Guin e in parte proprio su Shuna no tabi, come anche riportato nei titoli di coda, in un’operazione, tuttavia, discutibile – ha fatto più volte con piacere ricorso. Tra tutti, i lungometraggi animati che più si avvicinano alla storia di Shuna sono, senza dubbio, Nausicaä nella valle del vento e Principessa Mononoke. Per il primo, è facile ipotizzare che, essendo uscito nel 1984, appena un anno dopo la pubblicazione del fumetto, parte del materiale abbia una certa
provenienza comune. Difficile non notare le forti somiglianze tra le valli che compaiono nei due lavori. Sia Nausicaä che Shuna provengono da una classe aristocratica, essendo dei principi, e sono molto legati alla natura, Shuna ha degli abiti tanto simili a quelli degli abitanti del mondo di Nausicaä, che potrebbe essere preso di peso e trasportato lì senza alcun problema. Apparentemente differenti invece sono le motivazioni che li portano ad allontanarsi dalla valle. Nel caso di Nausicaä, ciò avviene a causa di Kushana, principessa di Tolmekia, e dell’invasione operata dalle truppe di quest’ultima, mentre per Shuna dall’arrivo di un viaggiatore morente che gli rivela l’esistenza del prezioso grano, due altre figure che ben incarnano il modello del marebito e che fungono da messa in moto delle vicende. Ma, marebito è anche Eboshi Gozen, non per nulla, ha molto in comune con la principessa Kushana. Principessa Mononoke esce molto più tardi, nel 1997; sembra quasi che Miyazaki qui mischi il suo vecchio progetto con uno nuovo e dalla storia più complessa. Ashitaka è una versione più sfaccettata di Shuna. Uguali sono le loro cavalcature, Yakkuru e quella montata da Shuna sono lo stesso identico animale, la sola differenza è che nel primo caso “yakkuru” ne designa il nome proprio, mentre per Shuna indica il nome generico della specie. In ogni caso, si tratta di una creatura di pura fantasia. Simile anche la popolazione da cui provengono gli usi e i costumi, prima di partire, entrambi discutono con gli anziani, segno distintivo di molte vecchie tribù degli abitanti dell’Asia. Gli elementi di complessità sono invece generati dall’inserimento delle tematiche sulla popolazione degli Emishi, termine che in origine indicava un gruppo etnico che viveva anticamente nell’area tra la parte centrale del Giappone e l’isola settentrionale di Hokkaido e che si oppose fieramente alla supremazia della dinastia di Yamato, all’origine dell’attuale famiglia imperiale giapponese, o sui tatara, le fornaci tradizionali giapponesi e luoghi in cui si lavorava l’acciaio nel medioevo. Come ho già scritto altrove99, Miyazaki ha eseguito una profonda ricerca del materiale esistente, arrivando anche a creare un passato dei vari personaggi non narrato nella pellicola, come nel caso di Eboshi Gozen (venduta come schiava dopo la distruzione della sua casa e poi sposata con un capo pirata che uccide portando via con sé il tesoro accumulato), e che comunque gli sono serviti per creare un immenso background, cosicché sostenere in modo valido una narrazione maggiormente complessa e sfaccettata in grado di soddisfare il palato più esigente del pubblico contemporaneo e di donare maggiore profondità alla storia.
C’è da notare come sia in Principessa Mononoke che in Nausicaä della valle del vento e in Shuna no tabi sia sottointesa una preferenza non per il racconto scritto, ma per quella tradizione orale che a lungo è stata l’elemento portante della trasmissione del sapere e che è molto più emozionale della semplice scrittura, perché le storie sono narrate con la partecipazione delle sensazioni del parlante. Le culture Emishi e Ainu erano prive di una letteratura scritta. Nella sigla iniziale di Nausicaä, addirittura, la storia della distruzione del mondo e quella concernente un futuro “salvatore” è raccontata semplicemente tramite l’ausilio di quelli che paiono arazzi e della musica. Pare esserci un legame, seppure alla lontana, con le vecchie tecniche di narrazione con la voce unite al disegno che ancora, in anni non così distanti, hanno trovato espressione in Giappone in una forma di teatro ambulante, il kamishibai (lett. “teatro di carta”), che ha conosciuto un notevole successo tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del secolo scorso. Per di più, in Shuna no tabi non è forse il sistema d’inserimento delle didascalie, come già accennato privo di balloon, una soluzione elegante per conferire anche alla scrittura un tipo di comunicazione che più si avvicina a quella della tradizione orale? Nelle due opere, inoltre, ritroviamo la medesima concezione della presenza di figure divine rigenerative il cui compito sembra quello di fungere da bilanciamento di un ordine antico e armonico, sebbene il bizzarro monolito presente in Shuna no tabi sia assai più inquietante del dio dal corpo di animale e dal volto umano che troviamo in Principessa Mononoke. C’è qualcosa di sinistro emanato dalla costruzione misteriosa la quale, chiaramente, rappresenta la morte e la vita, ma anche qualcosa di tanto mostruoso da sconvolgere la mente del protagonista. In ciò troviamo una somiglianza con il grande visionario della letteratura americana, il gentiluomo di Providence, quel H. P. Lovecraft (1890-1937) la cui mitologia dei miti di Cthulhu con le sue divinità aliene capaci di far perdere il senno al genere umano è pienamente riecheggiata. Questo è uno dei punti in cui Miyazaki sembra abbandonare del tutto la trama della fiaba tibetana per inserire la sua filosofia originale. Infatti, del re drago presente nel racconto tibetano non vi è alcuna traccia. Tra l’altro, a ben guardare, né Shuna, né Ashitaka né Nausicaä, così come i protagonisti anche di altri suoi film, sono figure prettamente pensate per i bambini piccoli. Sono giovani adolescenti ormai pronti a compiere l’ultimo passo per entrare nell’età adulta e le loro vicende descrivono proprio quest’ultimo passaggio.
Sono quasi la descrizione di un rito d’iniziazione per divenire esseri umani indipendenti, e Miyazaki non addolcisce per nulla questo processo. Si tratta di un momento lacerante sia fisicamente che spiritualmente per i protagonisti, ma necessario. Un momento con cui ogni uomo e donna ha dovuto confrontarsi nel corso della sua vita, indipendentemente dal risultato ottenuto. In ciò è definita quella differenza con altre storie di mangaka e registi d’animazione dove tutto spesso è più attenuato. Ciò ci aiuta anche a comprendere le affermazioni da lui fatte a più riprese negli ultimi anni contro l’invadenza del moe100, con le sue ragazze graziose, spesso prosperose, e la presenza di personaggi il cui carattere è assai di frequente bambinesco; character più pensati per soddisfare i desideri degli otaku101 – il cui sostegno all’economia nipponica, comprando numerosi prodotti, è tutt’altro che trascurabile. Anzi, i commenti fatti dal regista verso questi prodotti si sono fatti via via più inviperiti e pungenti. Ma, dopotutto, non c’è di che stupirsi, si tratta di due filosofie del concetto d’intrattenimento ormai su binari completamente differenti. Alcuni temi quali la schiavitù, il cannibalismo, l’abbruttimento dell’essere umano, la solitudine e la discriminazione si trovano più difficilmente narrati con schiettezza nelle opere dei mangaka nipponici contemporanei, complici da una parte anche l’aumento della censura e della costrizione della libertà d’espressione degli autori, sempre più corrosa da una deriva a destra del paese, e dall’altra un inasprimento delle limitazioni dei temi su cui è possibile creare delle storie; un caso clamoroso, per esempio, è stato l’ottimo manga Koe no katachi (A Silent Voice) di Ōima Yoshitoki, storia di una ragazza sordomuta vittima di bullismo che per un certo periodo è stato osteggiato per l’argomento che trattava da associazioni di non udenti, giungendo persino a dover trovare una soluzione per vie legali. Di sicuro ci sono mangaka, soprattutto chi realizza opere più simili a ciò che noi definiamo fumetto d’autore, che pubblicano storie che affrontano con attenzione i suddetti temi, tuttavia in molti fumetti popolari presso il grande pubblico essi non sono trattati con una profondità tale come in Shuna no tabi. Divengono quasi meri elementi di contorno il cui compito è più quello di far compenetrare meccanicamente lo spettatore/lettore con i sentimenti di un determinato personaggio che di indurlo a una riflessione. Tuttavia, Shuna non è un eroe privo di macchie e ombre, piuttosto incarna la figura di un antieroe. Sa bene che a volte occorre combattere e, presa una decisione, se ne assume la responsabilità fino in fondo, come quando attacca il carro degli schiavi uccidendo sistematicamente e con freddezza tutti le guardie usando la stessa tecnica impiegata per la caccia ai leopardi delle nevi. La medesima scena,
data la sua forte valenza, è stata usata per I racconti di Terramare. Shuna è ben consapevole del valore della vita umana, così come in lui si percepisce anche il rispetto per ogni creatura, ma una volta deciso di salvare la ragazza quello diviene il suo obiettivo, qualunque sia il prezzo da pagare. Così come il giovane principe è consapevole degli aspetti antitetici della natura: bellezza e orrore, abbondanza e aridità. Lo ha già imparato nel suo villaggio, dove strappare il cibo alla terra è una fatica considerevole. È perfettamente conscio che per sopravvivere bisogna anche saper uccidere e lottare con le unghie e con i denti, l’unico momento di vera debolezza lo ha forse quando, per un attimo, pensa di vendere il suo fucile in cambio della libertà di Tea e della sua sorellina – una bambina rimasta scioccata dal fatto che il suo villaggio sia stato bruciato e che nella vicenda ricopre un ruolo di poco peso –, ma è proprio Tea a dissuaderlo rammentandogli, con fermezza, che cedendo l’arma anche lui rischierebbe di finire per essere ridotto in schiavitù non potendo più difendersi. Tea non è, almeno apparentemente, una guerriera come Nausicaä o come San, ma è costruita della stessa fibra d’acciaio delle sue “sorelle”, cui inoltre unisce un’intelligenza pronta e una maggiore saggezza, divenendo uno fra i personaggi femminili più interessanti e completi tra quelli creati da Miyazaki, sebbene meno conosciuto rispetto agli altri. In lei s’incarna a pieno la Yamato nadeshiko (lett: “garofano selvatico del Giappone”), un termine che indica la bellezza femminile giapponese. Non un individuo passivo e sottomesso, ma una donna affascinante, volitiva e in grado di passare all’azione nel momento più opportuno. Questa visione è confermata dalle ultime tavole in cui vediamo Tea combattere a fianco di Shuna e degli uomini del villaggio dove risiedono temporaneamente. Nella pagina finale, entrambi armati di fucile, camminano a fianco a fianco, raggiungendo in tal modo una vera parità, assai più equilibrata di quella delle coppie di altre opere di Miyazaki, se si escludono Conan e Lana/Deis e Monsley di Conan il ragazzo del futuro, serie animata però antecedente, essendo stata trasmessa in televisione nel 1978, e in cui né la sceneggiatura né il soggetto sono del regista. In fondo, Nausicaä, nonostante la presenza di Asbel che evidentemente nutre dei sentimenti nei suoi confronti, resta per tutto il tempo una vergine guerriera ammantata da un’aura mistica che la colloca in una posizione particolare – ricorda molto una Giovanna d’Arco futuristica dal destino però non così tragico, ma con un uguale carico di sofferenza tramite cui passa l’espiazione dell’umanità –, mentre il rapporto tra Ashitaka e San è più fumoso e difficilmente definibile, in ciò quasi moderno nell’esistenza di un profondo affetto sentimentale però
velato da un’incompatibilità, evitando così sul livello pratico la questione della creazione di una famiglia, che invece è una delle sottotrame di Shuna no tabi. Tea è protagonista almeno quanto Shuna e, se pure il ragazzo sia il centro focale della narrazione per la maggioranza delle pagine, la giovane, pur occupando materialmente meno spazio, giganteggia come figura femminile, riuscendo a ricoprire un ruolo altrettanto importante di quello del “protagonista ufficiale”. Senza di lei, Shuna fallirebbe e, in questo, sembra quasi di ritrovarsi di fronte a una versione moderna del rapporto che lega il dio Susanoo alla dea Kushinada-hime narrato nel Kojiki. Vittima sacrificale per il drago Yamata no Orochi nella vicenda del ciclo di Izumo, la dea è trasformata in un pettine che l’eroe divino s’infila nel nodo dei capelli. Curioso notare come il nome Kushinada abbia due significati: “pettine meraviglioso”, ma anche “forza mistica”. Il professor Miura Sukeyuki ha fatto notare che, sebbene non raccontato espressamente nel mito, Kushinada-hime sembra svolgere il ruolo di saggia consigliera dell’eroe nella lotta contro il terribile mostro, insegnandoli come ingannare l’avversario e ucciderlo102. Ecco quindi che Tea/Kushinada diventano l’elemento essenziale femminile che consente agli eroi Shuna/Susanoo di superare l’ostacolo finale e di completare la propria missione, in quella dicotomia dell’antica filosofia cinese caratterizzata dallo yin e dallo yang, principio maschile e femminile, oscurità e luce, che Miyazaki ci ripropone. Osserviamo dunque come, per quanto apparentemente Shuna no tabi sembri un fumetto semplice con un numero limitato di pagine, in esso sono racchiusi elementi complessi e numerosi temi sottointesi, divenendo un concentrato della filosofia di Miyazaki in cui convergono anche gli elementi di “giapponesità” dell’autore e dove si trovano riverberi di concetti più antichi, indipendentemente che questi siano stati inseriti consapevolmente o meno dall’autore. Pure vi sono idee ecologiste moderne, come l’ecocentrismo, dove l’uomo è solo una piccola parte dell’ecosistema terra con cui dev’essere in armonia, piuttosto che in opposizione. Le ultime parole con cui termina il volumetto sono quasi una predizione mistica concernente la forza generativa che quest’opera ha emanato in seguito: Il viaggio di Shuna non è ancora terminato. La strada per la valle è lontana e ci saranno ancora difficoltà,
ma questa è un’altra storia da raccontare. 95 Inu ni natta ōji, in Shiroi ryū kuroi ryū – Chūgoku no tanoshii ohanashi (lett. “Il drago bianco il drago nero – Storie divertenti cinesi”) curato da Jia Zhi e Sun Jianbing, traduzione di Kimishima Hisako, Iwanami Shoten, Tokyo 1964. 96 M. Soumaré, Japan in Five Ancient Chinese Chronicles – Wo, the Land of Yamatai, and Queen Himiko, Kurodahan Press, Fukuoka 2009, p. 91. 97 I. Masahiko, La risonanza del kotodama, in ALIA-Antologia di narrativa fantastica, CS_libri, Torino 2006, pp. 373-378. 98 Termine che indica le sacerdotesse/donne sciamano che pregano, danzano per le divinità oppure che fanno da tramite con gli dèi annunciando agli uomini la volontà di questi ultimi; molto spesso non sono sposate. 99 M. Soumaré, Storia e tradizione: i due pilastri nascosti dello Studio Ghibli, in Studio Ghibli – L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata, di Enrico Azzano e Andrea Fontana, Edizioni Bietti, Milano 2015, pp. 190-193. 100 Non è facile inquadrare con esattezza il significato di questo termine; in linea generale, esprime una forma di simpatia verso un determinato comportamento kawaii, infantile, di alcuni personaggi femminili di anime, manga e videogiochi. Tuttavia, nella sottocultura giovanile è venuto ad assumere sfumature molto diverse. La sua origine è incerta, ma pare risalga al periodo tra la fine degli anni’80 e i primi anni ’90. Comunque è dal 2000 che ha incominciato a essere usato anche dai mezzi di comunicazione di massa e ad ampliare le sue connotazioni. 101 Agli inizi il termine designava degli individui asociali e appassionati in maniera maniacale di un dato settore o argomento. In seguito, è passato a indicare in particolar modo gli amanti di animazione e manga. Inoltre, il vocabolo ha addolcito il suo significato e oggi non ha necessariamente una connotazione negativa. Negli studi sociali degli ultimi anni si riconosce l’esistenza di una vera e propria subcultura otaku molto attiva e importante. 102 M. Sukeyuki, Kojiki kōgi, (Lezioni sul Kojiki), Bungei Shunjū, Tokyo 2003, pp. 121-127.
MATTEO BOSCAROL
ATTRAVERSARE LA SOGLIA, IL MOVIMENTO DELLA VITA E LA VITA COME MOVIMENTO. UNA LETTURA DEL MANGA NAUSICAÄ DELLA VALLE DEL VENTO Miyazaki comincia a concepire e disegnare Nausicaä della Valle del vento (Kaze no tani no Naushika) nel 1981 e il primo capitolo del manga viene pubblicato sulla rivista “Animage” nel febbraio dell’anno successivo, ma la storia della principessa guerriera trova una sua conclusione solo dodici anni dopo, nel marzo del 1994. Il manga infatti viene scritto, disegnato e pubblicato in modo intermittente, nel frattempo Miyazaki lavora e realizza ben quattro lungometraggi animati103 e, spinto proprio dal successo del film tratto dal manga, fonda lo Studio Ghibli assieme a Takahata Isao e Suzuki Toshio. Nella narrazione a tratti ondivaga, ramificata ed episodica (ci sono mille e più pagine104), il lavoro finito riflette l’ampio lasso di tempo in cui fu concepito e, fatto non secondario, la crescita autoriale e personale di Miyazaki stesso, che nel manga riversa molte delle problematiche e delle tematiche che più lo tormentano. Se i lungometraggi realizzati fra il 1982 e il 1994 condividono molte delle preoccupazioni, dei temi e finanche lo stile del manga (in special modo Laputa – Castello nel cielo), è altrettanto vero che ne rappresentano la controparte più leggera e meno cupa. A questo riguardo, è significativo il fatto che una volta completato il manga, Miyazaki si tuffò nella realizzazione di Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997), uno dei suoi lungometraggi più densi e pessimisti, e che rappresenta quasi una continuazione del lavoro svolto sulle pagine del fumetto. Uno dei manga105 più complessi e ricchi di suggestioni che siano mai stati disegnati, Nausicaä della Valle del vento copre una vastità di temi filosofici, ecologici, storici e religiosi, che sarebbe impossibile affrontare in un unico scritto. Si pensi poi al fatto che l’omonimo e più noto lungometraggio sviluppa, di fatto, solamente due dei sette volumi che costituiscono la totalità del fumetto. Nonostante ciò, si cercherà di evidenziare alcune delle tematiche più significative toccate dall’opera, attraverso l’analisi di alcuni concetti cardine che ricorrono, in forme diverse, durante tutto lo sviluppo del lavoro. Attraversare la soglia Una potentissima civiltà industriale, diffusasi dalle propaggini occidentali del continente eurasiatico, nel giro di qualche secolo si diffuse in tutto il mondo privando la Terra delle sue ricchezze, inquinando l’aria e plasmando a suo piacimento le varie forme di vita. Questa civiltà mille
anni dopo la propria nascita raggiunse il suo apice, a cui seguì un declino improvviso. Nella guerra nota come I sette giorni di fuoco, le città furono incendiate da nuvole di vapore velenoso. La tecnologia complessa e raffinata del passato era ormai completamente perduta. La quasi totalità della superficie terrestre era divenuta sterile e improduttiva. La civiltà industriale non risorse mai più, e gli uomini si adattarono a vivere lunghi anni di crepuscolo106.
Si apre così ognuno dei sette volumi in cui è stato raccolto il lavoro. In pochissime parole, ancora prima che comincino i disegni, ci viene presentato l’universo che si dispiegherà sulle pagine. Un mondo dove un’umanità destinata al tramonto deve fare i conti con la sua possibile estinzione e con un contesto storico dove è messo fortemente in discussione il suo primato ontologico rispetto al resto dell’esistente. Sospinta dal vento, Nausicaä parte per un viaggio fisico, spirituale e iniziatico, che le permetterà di incontrare e stringere legami con le più diverse creature. Il vento, non solo in questo lavoro ma in molte parti dell’opus miyazakiano, è un potente elemento simbolico che spesso e volentieri guida i personaggi e le storie create dall’artista giapponese attraverso il loro percorso di crescita spirituale e di scoperta del mondo. In questo manga, il vento è segnatamente un elemento capace di insinuarsi e valicare limiti, un soffio che guida letteralmente la protagonista nei suoi spostamenti, e che si esplica nella complessa narrazione come un continuo movimento di attraversamento di soglie. Attorno al conflitto principale descritto nel manga, cioè quello fra il regno di Tolmekia e l’impero di Dorok, si sviluppano e intrecciano altre tensioni belliche che mettono l’una di fronte all’altra tribù e popolazioni diverse107. Si tratta di un’estrema balcanizzazione geografica e politica che si nota fin dalla mappa che apre il fumetto. Nel corso della storia però, molte di queste divisioni e barriere vengono spesso scavalcate, almeno a livello individuale. Molti dei personaggi che appartengono a un’etnia o a un determinato regno sconfinano infatti da un gruppo all’altro, per ritrovarsi a combattere fianco a fianco con la parte “avversaria”. Succede così per Asbel, il principe del piccolo stato di Pejite, regno che viene raso al suolo da Kushana, principessa di Tolmekia, per impadronirsi di un Soldato Titano lì trovato. Nel corso della storia, la rabbia e il desiderio di vendetta del ragazzo cederanno il passo a un diverso atteggiamento e, alla fine, l’aiuto del principe sarà fondamentale per salvare sia Nausicaä sia la stessa Kushana. Interessante è inoltre come molti dei personaggi del manga, specialmente quelli che all’inizio sembrano meno positivi, nel corso della narrazione cambino attitudine o diventino qualcosa di diverso, senza necessariamente passare dalla parte dei “buoni”. Lo spirito di Mirarupa, il fratello dell’imperatore di Dorok per esempio, che è l’incarnazione di tutti i vizi e di tutte le malvagità umane, viene trasformato e redento dall’incontro con Nausicaä quando è condotto, assieme a Slem, ragazzo degli Uomini della Foresta, in una sorta di aldilà puro e onirico.
Questo passaggio salvifico però non cambia la malvagità e la sete di sangue con cui l’uomo Mirarupa durante la sua esistenza terrena ha afflitto intere popolazioni, ma rimane un esempio di una possibile redenzione per chiunque. Anche il Re Vu, sovrano di Tolmekia e padre di Kushana, all’interno dell’arco narrativo del suo personaggio, passa attraverso diversi stadi. Avido di potere quando si reca nella cripta per carpirne i segreti, nell’incontro finale con il Signore del Santuario finisce però per sacrificarsi per proteggere Nausicaä, lasciando il suo regno alla figlia. Un altro movimento di sconfinamento portato sulle pagine del manga da Miyazaki, anzi forse quello che da un punto di vista filosofico attraversa il centro dell’opera, è il passaggio dei confini che delimitano e formano l’essere umano verso ciò che non lo è. Nausicaä spinge all’estremo il concetto di amore ed empatia, mostrando un afflato quasi panico per tutto ciò che vive ed è, fino ad arrivare – specialmente nella seconda parte del manga – a due importanti negazioni. Dapprima la principessa decide di passare dalla parte degli Ohmu108 e quindi di tutti gli altri esseri viventi, in contrasto con il regno dell’umano, mettendo in questo modo in discussione il primato della razza a cui appartiene rispetto al resto del creato. E in un secondo momento abbraccia la mortalità di tutto ciò che esiste, “artificiale” o meno, rifiutando la salvezza eterna e la possibilità di un nuovo possibile genere umano redento. Quando Nausicaä sta seguendo a bordo del suo aliante l’enorme migrazione degli Ohmu che si stanno dirigendo verso la muffa mutante, decide di passare completamente dalla parte degli insetti e si unisce a loro, spronata anche dall’apparizione del grande Nulla, episodio su cui ritorneremo più avanti. La ragazza rifiuta il suo essere umano per immergersi in tutto il resto del creato, in parte spinta dagli orrori commessi dalla sua razza, ma anche affascinata dall’afflato purificatore che anima questo lato non-umano del vivente. Quando infatti si accorge che gli occhi degli Ohmu non sono di colore rosso, la tonalità che rappresenta il loro stato di attacco, ma di un profondo blu, Nausicaä capisce allora che non sono rabbia o vendetta a muovere il Daikasho, la grande catastrofe, ma che si tratta al contrario di un grande e profondo processo di cura. Morendo, la muffa e gli Ohmu formeranno il terreno di coltura per la creazione del Mar Marcio e diventeranno loro stessi foresta. “È la foresta, è il Mar Marcio stesso a muoversi.” È quanto realizza Nausicaä, aggiungendo di voler diventare “parte della foresta”109, lasciandosi inglobare dalla massa degli Ohmu morenti e dalla muffa dalla cui unione crescerà la foresta pietrificata. Questa scelta viene spinta fino alle sue estreme conseguenze nelle ultime pagine del lavoro, quando Nausicaä si trova faccia a faccia con il Signore del
Santuario. Non si tratta di un essere umano ma di un’entità superiore creata dall’uomo, colui che detiene i segreti delle tecnologie create dalla razza umana prima della grande distruzione. La ragazza rifiuta la luce e l’eternità promessa da questa creatura, il Signore infatti è pronto a cancellare e purificare tutta l’umanità dalla faccia della Terra per ricominciare da capo con una nuova razza, avverando così il sogno che animava gli scienziati prima della grande catastrofe. Nausicaä, rifiutando l’idea del Signore del Santuario e ponendosi dalla parte dell’imperfezione, della caducità, di tutto ciò che vive e che quindi è destinato a perire, rifiuta la luce e sceglie invece il binomio oscurità/luce110. Faccia a faccia con l’entità che parla attraverso il corpo di un giullare, in tavole bellissime e densissime, Nausicaä ripete più volte come la vita sia un lampo nel buio e non solamente luce, come esso vuol far credere, “tutte le cose nascono dall’oscurità e tutte le cose ritornano nell’oscurtà”111. Con l’aiuto di Ohma, il Soldato Titano rinvenuto a Pejite che si sacrifica per lei prima di morire, Nausicaä distrugge la cripta con tutte le tecnologie e promesse in essa contenute, una scelta che significa la probabile morte futura delle popolazioni sopravissute. L’organismo degli esseri umani sopravvissuti è infatti talmente mutato nel corso dei secoli da poter vivere solo in simbiosi con un ambiente inquinato. In un mondo purificato tutti gli umani finirebbero, probabilmente, per soccombere. È la scelta più difficile e il rischio più alto con cui si conclude il volume, una decisione che narrativamente non chiude nessun cerchio, non promette niente di sicuro ai suoi protagonisti e non risolve praticamente nessuna delle problematiche sollevate durante le mille pagine del manga. Già molto prima, durante un viaggio onirico con Selm all’interno del cuore del Mar Marcio, la parte purificata, Nausicaä scopre il segreto della foresta e dichiara le sue intenzioni. Esistono luoghi in cui la giungla ha compiuto il suo corso e ha depurato la Terra, rendendo l’ambiente nuovamente vivibile per piante e animali. “Ti sei posizionato all’interno del corso della vita, al contrario io mio trovo coinvolta con ogni cosa che vive” afferma Nausicaä dialogando con Selm. E continua: “amo troppo le persone di questo mondo”, “continuerò la mia vita nel crepuscolo di questo mondo che l’umanità ha inquinato”112. Proprio in un breve incontro con alcuni Uomini della Foresta, avviene uno dei momenti che, graficamente, meglio rappresenta il concetto di attraversamento della soglia che qui stiamo analizzando. Yupa, Asbel e Kecha persi nel Mar Marcio vengono portati in salvo dagli Uomini della Foresta che li mettono al sicuro all’interno di una bolla fatta di fluido d’insetto. Questa bolla-tenda li protegge dal fuori, dall’inquinamento della foresta tossica dove
si trovano. La membrana trasparente di cui è composta questa bolla è però flessibile e può essere facilmente attraversata. È un limite che divide, ma che allo stesso tempo mette in comunicazione, creando – di fatto – i due mondi. All’interno, un mondo dove non servono maschere e l’umano è al sicuro; all’esterno un ambiente ostile e “inumano”. Ma questi due mondi sono solo apparentemente separati. Avendo rifiutato il fuoco, qui simbolo della tecnica, gli Uomini della Foresta hanno infatti scelto di abbandonare la loro componente umana e vivere in simbiosi con il resto del creato, riscoprendo quindi la loro più profonda natura non-umana. Questo avvicinamento verso la parte non-umana dell’essere continua e si arricchisce ulteriormente negli ultimi due capitoli del manga, quando avviene la rivelazione che sospende e oblitera il dualismo naturale/artificiale113. Questa sospensione trova il suo apice quando Nausicaä, assieme a Ohma, arriva in un giardino isolato e nascosto da tutto il resto della landa desolata e inquinata, dove l’unico abitante è il cosiddetto Guardiano. Questi non è altro che un essere creato millenni prima dagli scienziati, un essere senziente che nel suo giardino preserva animali, piante, musica e libri che serviranno a ricreare la nuova umanità dopo la distruzione/purificazione del Daikasho. Il Guardiano rivela a Nausicaä e Selm, presente telepaticamente a fianco di lei, come gli Ohmu, il Mar Marcio e forse anche parte dell’umanità che vive sulla Terra, siano in realtà un prodotto mutato delle ricerche portate avanti dagli scienziati prima dei Sette giorni di fuoco. È proprio in queste pagine che la linea che delimita il “naturale” dall’“artificiale” scompare, i concetti di creazione e origine vengono messi fra parentesi e spostati in secondo piano, perdendo di importanza. Ciò che conta non è quindi come una creatura o una pianta sia venuta al mondo. Le parole e le azioni di Nausicaä non ammettono alternative: “Una vita è una vita, indipendentemente da come abbia avuto origine”. I legami della ragazza con Ohma, il gigante che la identifica come una figura materna, con gli Ohmu, di cui ha scorto l’abisso che abita al loro interno e con cui condivide la sofferenza del mondo, e finanche con la muffa mutante, rappresentano l’empatia verso tutto ciò che vive, un movimento che attraversa qui l’ultima e più difficile soglia, il confine fra ciò che la natura crea e ciò che invece viene creato dall’uomo. Il movimento della vita e la vita come movimento Attraversare le soglie, a livello individuale, fisico, spirituale e iniziatico, significa prima di tutto abbracciare il cambiamento, anzi: cavalcare la trasformazione di tutte le cose, così come Nausicaä cavalca il vento con il suo aliante. Come essa stessa dichiara: “vivere significa cambiare, gli Ohmu, la muffa, l’erba e gli alberi, gli esseri umani, tutto continuerà a cambiare”114. Il
movimento della vita di cui Nausicaä è un’emanazione e che si porta dentro non si può fermare, l’ignoto o l’oscurità non sono un motivo valido per lei per fermarsi davanti a ciò che deve essere fatto. Tantomeno non rappresentano un ostacolo i legami familiari. Infatti, come si legge nell’epilogo del manga, una volta lasciata la Valle del vento non vi ritornerà più, e non incontrerà più suo padre, che nel frattempo è morto, o altri membri della sua famiglia. Lasciato il Giardino e prima di dirigersi verso la cripta per distruggere tutto ciò che si trova lì custodito, Nausicaä dubbiosa afferma: “Sto forse per andare a distruggere l’umanità”115, ma non per questo decide di desistere dal suo intento. Andare dove il “vento” la sta trasportando, appoggiarsi al cambiamento per il bene di tutte le cose create è più importante per lei che ancorarsi a un’idea dell’umanità come centro dell’essere. Parallelamente alla leggerezza e alla velocità del vento, ma a questo specularmente opposto, esiste un altro elemento visivo e concettuale che simbolizza la forza creativa e mutevole della vita e della materia. Si tratta del modo in cui, nel corso di tutto il manga, ma specialmente nella seconda parte, sono disegnati i corpi, sia quelli appartenenti al regno animale, compresi quelli umani, sia quelli dell’immenso regno vegetale. L’avanzata degli Ohmu, della muffa e dello sciame di insetti che volando oscurano il cielo rappresenta tutta la forza che caratterizza il piano immanente della vita. In modo meno evidente, ma non per questo meno importante, va inoltre sottolineata l’attenzione che Miyazaki dedica alla rappresentazione dei corpi modificati, ibridati o creati ex novo dai tecnocrati umani. Mirarupa, che rimane in vita solo grazie a periodoci bagni in cui il suo corpo viene rigenerato. Ohma, il gigante battezzato da Nausicaä, che degenera passo dopo passo incapace di contenere la sua energia. E infine la cripta di Shuwa, quasi una massa viva e pulsante che nel momento della propria distruzione sprizza sangue dalle proprie mura. Sono corpi abberranti e sformati, corpi che debordano in continuazione, trasformandosi e decadendo, corpi che nel loro orrore e squilibrio affascinano in quanto indicano un’eccedenza di vita e uno strabordare dell’energia vitale che distrugge l’organismo che abita, anche quando questi è creato “artificialmente”. Sia narrativamente che graficamente, in queste forme messe sulla pagina da Miyazaki si percepisce “la potenza generatrice della Vita […] la parte più ampia della vita animale e non umana […] Zoe come forza dinamica della vita in sé, capace di autorganizzazione […] una forza trasversale che taglia e ricuce specie, domini e categorie precedentemente separate”116. Nascita dell’ànthropos
In uno dei passaggi graficamente più significativi dell’intera opera, Nausicaä, mentre sta seguendo lo spostamento degli Ohmu, si ritrova in un viaggio onirico faccia a faccia con il grande Nulla117, rappresentato come un enorme scheletro. Questi le rinfaccia la sua natura irrimediabilmente umana. Guarda alle tue mani, cosa vedi? Sangue. Guarda ai tuoi piedi, fra i morti ci sono anche quelli che tu stessa hai ucciso. Non sei altro che un altro stupido, sporco essere umano. Sei un essere umano adulto, una donna con sangue sulla coscienza, una donna appartenente a una razza dannata.
Mentre il Nulla scompare Nausicaä gli risponde: Non ho bisogno che il Nulla mi dica che siamo una razza dannata. Siamo le creature più terribili, non facciamo nient’altro che male alla terra… la saccheggiamo, la inquiniamo e la bruciamo.118
Oltre a essere questa una delle parti più artisticamente rilevanti di tutta l’opera119, si tratta di pagine e disegni che rivestono un significato molto importante nel percorso di scoperta e di autocoscienza che Nausicaä sta facendo. Le parole del Nulla sono infatti l’ennesima prova di come l’umano sia un essere malvagio e destinato a diffondere morte ovunque vada e su qualsiasi cosa tocchi. Fin dall’incipit citato all’inizio, attraverso l’impostazione di uno scenario postapocalittico, Miyazaki calibra l’attenzione del lettore su cicli e passaggi epocali che avvengono in ordini di tempo millenari. Il collasso della civiltà con la possibile fine dell’umano, sia per estinzione, sia per mutazione e scomparsa di ciò che lo rende tale, ci riporta inevitabilmente dove l’ànthropos ha avuto origine e cioè, secondo le convinzioni di Miyazaki stesso, alla nascita dell’agricoltura. “L’esistenza degli umani si complicò con l’inizio dell’agricoltura, non con l’inizio della società industriale. Penso che la razza umana sia cominciata quando abbiamo cominciato a coltivare e quindi a vivere sull’orlo della fame in uno stato di crisi permanente”120. Se la vita viene intesa come un processo in continuo movimento, allora il passaggio che ha portato all’uomo stanziale, svolta epocale dall’uomo paleolitico a quello neolitico, rappresenta anche il tentativo operato per bloccare tale spinta trasformativa al fine di cercare di dominare il mondo, e non più muoversi con esso. Come scrive Antonio Caronia, uno degli studiosi che più hanno saputo cogliere le implicazioni filosofiche di questa svolta e le sue conseguenze specifiche nella nostra contemporaneità: La rivoluzione neolitica introduce una condizione di vita completamente diversa: con essa la sopravvivenza dell’uomo dipende essenzialmente da pratiche violente, da vere e proprie ferite inferte al corpo della terra, l’agricoltura e l’estrazione dei metalli. L’esperienza neolitica crea un senso di disagio che non può che crescere man mano che la piccola comunità nomade si trasforma in una collettività stanziale, e poi il villaggio diventa una città, e la città una metropoli, man mano che alla coltivazione della terra si affianca l’artigianato. Su questa condizione di fondo, e sulla prima grande operazione di esteriorizzazione del pensiero costituita dalla scrittura, può alla fine svilupparsi, nella Grecia del V secolo, quella scissione tra anima e corpo, quella trasformazione del corpo in organismo
e quella subordinazione del mondo materiale a un mondo ideale, immateriale, completamente autonomo, da cui prenderà l’avvio il pensiero occidentale.121
Nel manga in questione e in alcune interviste e scritti, Miyazaki sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda di Caronia. Il vento e il movimento continuo di Nausicaä ricorda un tipo di vita nomade che non aggredisce la Terra ma che si muove assieme a essa e alle sue correnti trasformative. Nelle ultimissime pagine dei volumi si nota anche una sorta di rifiuto verso la scrittura e la sua conseguente conoscenza tecnocratica122. Quando la ragazza affronta il Signore del Santuario, quest’entità ha in un primo momento la forma di una sfera su cui sono scritte parole e frasi che gli scienziati continuano a decifrare, secolo dopo secolo, per trarne la conoscenza delle vecchie e potenti tecnologie. Si tratta della conoscenza lasciata più di mille anni prima da un popolo la cui tecnica fu così potente da portare quasi alla distruzione del mondo, ma anche capace di modificare la natura umana e di portare a una possibile vita eterna. Come abbiamo visto, Nausicaä però rifiuta questo tipo di conoscenza e la scrittura che ne è portatrice, e con l’aiuto di Ohma distrugge tutto ciò che la cripta contiene. Seguendo questo ragionamento, nel momento in cui l’umano, nel neolitico, entra sulla scena del mondo, non c’è più niente da fare. Certo, si può sempre provare a deporre un tiranno e così cambiare le cose, ottenendo sì miglioramenti significativi, ma non risolvendo i problemi più profondi. Come lo stesso Miyazaki dice: “Sarebbe una falsità dire che la pace deriverebbe dalla morte dell’imperatore di Dorok. La pace non ci sarebbe. Ci sono molti esempi sia dal passato che dal presente, il collasso dell’Unione Sovietica, il buco nell’ozono, la Guerra del Golfo […] Le stesse stupide cose vengono costantemente ripetute. Quando un tiranno è deposto, si solleva il prossimo problema”123. Viene qui espresso alla perfezione quel pessimismo di fondo che tanto caratterizza e rende unici i lavori di Miyazaki, un credo che in alcuni frangenti assume sfumature quasi di derivazione religiosa e con forti venature messianiche124. Per il solo fatto di calpestare la terra, Nausicaä si rende conto che la sua presenza sparge morte e distruzione. Per esempio, durante l’attacco ai Dorok da parte delle truppe di Kushana, Nausicaä dapprima si rifiuta di unirsi alla principessa, ma per far liberare e salvare la popolazione fatta schiava dalle truppe, quindi con un buon fine in mente, decide di cavalcare a fianco di Kushana. Questa problematica viene espressa con particolare forza in due tavole dove vediamo le granate massacrare le truppe di Dorok e Nausicaä reagire con un’espressione di dolore e sorpresa. Qui, il Gran Sacerdote dei Mani, dopo aver visto la ragazza vestita di blu cavalcare con il nemico, esclama con stupore: “Perché la figura vestita di blu è insieme alla strega di Tolmekia? Non è lei il messia delle popolazioni indigene?”125 Questo
dilemma non viene risolto nel corso o alla fine del manga, e Nausicaä, pur restando fedele a questa idea della malvagità insita nell’essere umano, decide di stare dalla parte di tutto ciò che vive e muore, rinunciando così alla purificazione e alla possibile rinascita del genere umano. Conclusione Seppure molti dei suoi lungometraggi e cortometraggi si aprono a possibili discussioni e interpretazioni di natura filosofica e religiosa, è nostra opinione che il manga Nausicaä della Valle del vento, rappresenti un unicum nell’opus dell’autore giapponese. Se Miyazaki ha saputo usare il medium animato al suo meglio, con momenti di estasi e di poesia visiva quasi inarrivabili, il fumetto in questione offre dei picchi di profondità e complessità che non sono riscontrabili in altri suoi lavori. Per questi motivi rappresenta potenzialmente un luogo privilegiato per aprire nuovi discorsi e intraprendere nuove possibili esplorazioni all’interno della sua opera. 103 Oltre a Nausicaä della Valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984), escono Laputa – Castello nel cielo (Tenkū no shiro Rapyuta, 1986), Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988), Kiki – Consegne a domicilio (Majo no takkyūbin, 1989) e Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992). 104 Lungo tutto lo scritto si farà riferimento all’edizione giapponese di sette volumi in tankōbon, solo per i nomi (con alcune eccezioni) e per l’incipit ci si è riferiti a quelli usati dall’Edizione Panini Comics, Modena 2018. 105 Si è deciso di usare in maniera pressoché identica i termini “manga” e “fumetto” anche per sottolineare come questo lavoro di Miyazaki abiti, ma allo stesso tempo sfugga, al significato che la parola “manga” ha assunto in Giappone e in Occidente negli ultimi decenni. 106 H. Miyazaki, Nausicaä della Valle del vento, Edizioni Panini Comics, Modena 2018. 107 Una situazione geopolitica che ricorda molto da vicino quella del Sengoku jidai, il periodo di guerre intestine fra i vari feudi che si protrasse nell’arcipelago giapponese dalla metà del XV secolo fino alla fine del XVI. 108 Enormi insetti dotati di poteri speciali. Si è deciso di lasciare l’originale giapponese, non adottando quindi l’attuale traduzione italiana “Vermi-re”. 109 H. Miyazaki, Kaze no tani no Naushika, in “Tokuma Shoten”, Tokyo, vol. 5, p. 147. 110 Una scelta che sembra quasi echeggiare il concetto di salvezza e felicità cosi come espresse da Walter Benjamin nel Frammento teologico-politico: “la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità”. W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Scritti 1919-22, Einaudi, Torino 1982. 111 H. Miyazaki, Kaze no tani no Naushika, cit., vol. 7, pp. 201-202. 112 Ivi, vol. 6, pp. 97-98. 113 Artificiale va inteso qui e nel prosieguo del saggio sempre come “creato dagli uomini”. 114 H. Miyazaki, Kaze no tani no Naushika, cit., vol. 6, p. 198. 115 Ivi, vol. 7, pp. 140-141.
116 R. Braidotti, Il postumano, Derive & Approdi, Roma 2014, p. 63. 117 Si rende con “Nulla” la parola giapponese kyomu, “vuoto-nulla”, spesso usata in connessione con il concetto, negativo, del nichilismo occidentale. Da non confondere per esempio con il termine zettaimu, “nulla assoluto”, usato in senso positivo dagli esponenti della cosiddetta Scuola di Kyoto. 118 H. Miyazaki, Kaze no tani no Naushika, cit, vol. 5, pp.138-139. 119 Sono pagine e disegni che ricordano molto da vicino il famoso trittico La strega Takiyasha e lo scheletro spettro, ukiyo-e realizzato nella prima metà del XIX secolo da Utagawa Kuniyoshi. 120 Intervista a Miyazaki di Saitani Ryō, I Understand Nausicaä a Bit More than I Did a Little While Ago, in “COMIC BOX”, gennaio 1995. Traduzione inglese in http://www.comicbox.co.jp/e-nau/enau.html (ultima visita: 8 luglio 2018). 121 A. Caronia, Il corpo virtuale: dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Franco Muzzio Editore, Padova 1996. 122 Interessante anche come questo si rifletta nel modus operandi dello stesso Miyazaki, che per la realizzazione di molti dei suoi lungometraggi non si è avvalso di una sceneggiatura iniziale, ma la storia si è sviluppata attraverso l’ekonte, gli storyboard con cui scopre egli stesso la storia nel momento del suo farsi. 123 Intervista a Miyazaki di Saitani Ryō, I Understand Nausicaä a Bit More than I Did a Little While Ago, cit. 124 Benché non sia lo scopo di questo scritto, i possibili riferimenti a religioni o sistemi filosofici durante tutto il lavoro sono innumerevoli e meritevoli di studio in altra sede, dal Cristianesimo al Buddismo Mahayana, dalle pratiche sciamaniche dell’Asia centrale fino al sokushin jōbutsu (la pratica per automummificarsi in vita). 125 H. Miyazaki, Kaze no tani no Naushika, cit., vol. 3, pp. 128-129.
MATTEO BOSCAROL
IL BRUCO BORO. “UN’ESCURSIONE IN MONDI SCONOSCIUTI E INVISIBILI” Proiettato esclusivamente nel Saturn Theater del Museo Ghibli a Mitaka, Il bruco Boro (Kemushi no Boro, 2018) è il lavoro che ha interrotto il ritiro dalle scene di Miyazaki. In verità, già al momento della scelta del pensionamento, il giapponese era rimasto aperto rispetto alla realizzazione di corti e manga, ancor prima dell’annuncio dell’ennesimo ritorno sulle scene con un lungometraggio completamente in CGI, uscita prevista dopo il 2020. Proprio il cortometraggio in questione è stato fondamentale per far ritornare Miyazaki sulla sua decisione presa nel 2013. La riscoperta delle potenzialità della computer graphic e il lavoro con nuovi collaboratori hanno probabilmente fornito quella spinta e quelle motivazioni necessarie per andare ancora avanti e imbarcarsi in una nuova sfida. Lo dimostra il fatto che, per assemblare il gruppo con cui lavorare al nuovo lungometraggio, lo Studio Ghibli abbia postato un annuncio pubblico aperto a tutti. E se è vero che ogni lungometraggio animato di Miyazaki e dello studio in generale è sempre stato storia a sé, diverse le collaborazioni e il modus operandi, in questo caso si può certamente affermare che si tratta davvero di un nuovo inizio. Così come il piccolo insetto protagonista del cortometraggio, anche Miyazaki deve essersi mosso con stupore infantile e sorpresa all’alba di un mondo, quello offerto dalla CGI, catturato nel suo farsi. Il cortometraggio racconta infatti la nascita di un bruco da un piccolo uovo e il suo primo incontro con la folta comunità dei bruchi, con gli altri insetti e con l’ambiente-mondo della microscopica zona di giardino in cui si trova. Ma il corto è anche uno dei lavori di Miyazaki più divertenti e comici in assoluto. La “dolcezza” del disegno si mescola a situazioni improvvise di orrido, come la massa di bruchi neri che si rivela tutto d’un tratto sotto le foglie. Oppure la pioggia di escrementi cubici che fa scappare tutti, fino alla brutale uccisione di due bruchi da parte di una “gigantesca” e terrificante vespa. Nel 1933 Jakob von Uexküll, biologo e filosofo estone precursore dell’etologia, scrive Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili (Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen), un breve saggio accompagnato dalle illustrazioni di Georg Kriszat126. Uexküll scrive:
La cosa migliore è cominciare la nostra passeggiata scegliendo una giornata di sole e immergerci in un prato fiorito tra il ronzio dei coleotteri e il volo delle farfalle. Tracciamo intorno a ciascuno degli animali che popolano il prato una bolla di sapone che ne rappresenti l’ambiente e che contenga tutte le marche percettive accessibili al soggetto. Non appena entriamo in una di queste bolle di sapone, i dintorni (Umgebung) che fino ad allora circondavano il soggetto si trasformano completamente. Spariscono molti dei colori di cui era pieno il prato, altre proprietà emergono dallo sfondo, si producono nuovi rapporti. In queste bolle di sapone si formano mondi nuovi: invitiamo il lettore a scoprirli insieme a noi. Grazie a questo viaggio, speriamo di convincere molti di voi dell’esistenza di questi ambienti e, facendo ciò, di compiere un passo decisivo in grado di aprire un campo di ricerca nuovo e infinitamente ricco.127 La scoperta degli infiniti mondi che costituiscono il reale e il piacere di questa rivelazione, allo stesso tempo destabilizzante e gioiosa, sono due delle caratteristiche che legano le parole di Uexküll al cortometraggio di Miyazaki. Per sua stessa ammissione, l’autore giapponese con questo lavoro ha voluto provare a descrivere il mondo come visto e percepito da una prospettiva diversa. In una conversazione intitolata Il mondo non è una proprietà degli esseri umani infatti, Miyazaki ricorda: “Ho provato a domandarmi come un piccolo insetto possa vedere il mondo, l’aria, la luce del mattino e l’oscurità della sera, e come e se, visti con gli occhi di un insetto, possano apparire i nutrimenti delle piante”. E alla fine si domanda: “L’ossigeno nato dalla fotosintesi, il vapore assorbito dalle radici, non sono queste forse delle cose che gli insetti possono vedere?”128. In questo modo, il mondo, da un unico e unitario oggetto-blocco, destinato all’uso e abuso degli umani, diventa un insieme di mondi-ambienti dai contorni sfumati, ognuno caratterizzato da un tempo e da uno spazio propri129. Per mettere queste intuizioni in immagini, Il bruco Boro non poteva che essere un’opera sperimentale, nonostante sia, come la maggior parte degli altri cortometraggi realizzati esclusivamente per essere proiettati al Museo Ghibli, un lavoro manifestamente rivolto al pubblico dei più piccoli130. Sperimentale innanzitutto per l’autore stesso, perché si tratta del primo lavoro realizzato da Miyazaki totalmente in computer graphic131 e in secondo luogo perché si tratta di un corto che stilisticamente osa molto. Dal punto di vista prettamente visivo è capace di mettere sul grande schermo l’opacità delle sue immagini, lontane da ogni interpretazione definitiva, anche quando le premesse della storia, come abbiamo visto, sono in apparenza di una semplicità disarmante. La resa degli elementi naturali così come percepiti nel
loro farsi dal piccolo bruco quali i raggi del sole, l’acqua in sospensione nell’aria e l’energia che si solleva dalla terra nel bellissimo finale, sono graficamente le caratteristiche che più impressionano e donano al cortometraggio il suo tono “alieno”. A ciò contribuisce fortemente anche la scelta di rendere tutti i rumori e i suoni attraverso la voce umana. Il cortometraggio, completamente privo di dialoghi e di suoni naturali, lascia alla voce del comico Tamori il compito di riempire l’assordante silenzio, mimando tutti i rumori dell’inumano. Dallo svolazzare degli insetti, al mangiare una foglia, dal senso di paura all’arrivo di un predatore, alla caduta del bruco quando è in pericolo, fino ai rumori del triciclo di una bambina. A tutto questo si aggiunge poi una totale assenza di musiche132. Questa scelta già sperimentata in In cerca di casa (Yadōsagashi, 2006) e in alcune parti di Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013), dona al corto un tono molto particolare di surreale straniamento ed è funzionale all’idea di fondo che ha spinto Miyazaki a portare sullo schermo una storia che già lo aveva interessato anni fa, subito dopo l’uscita di Principessa Mononoke. La descrizione del mondo degli insetti come un universo da apprezzare e tenere in considerazione e che è sempre vicino a noi, anche negli agglomerati urbani, è infatti una preoccupazione che lo interessa fin dalla più tenera età133. L’effetto straniante ottenuto dall’impiego di voci umane che rendono i rumori è quindi parte integrante della filosofia che sta alla base del cortometraggio in quanto funzionano come un meccanismo che fa deragliare l’abituale percezione monolitica umana della quotidianità – in questo caso, il microcosmo di una piccola parte di un orticello-giardino. Come le pagine disegnate da Georges Kriszat per lo scritto di Uexküll, dove una strada di un piccolo villaggio viene vista prima attraverso una fotografia, poi filtrata da una griglia, poi ancora come probabilmente viene percepita da una mosca, le forme sono quasi indistinte ma ancora decifrabili, e per ultimo attraverso l’occhio di un mollusco, quasi una pittura astratta, il corto si presenta come una sfavillante e fresca reimmaginazione di un mondo-ambiente non umano. Il breve viaggio che il bruco protagonista fa nei pochi minuti del lavoro è anche quindi un viaggio in un diverso modo di percepire e organizzare il reale134. Quelle che forse sono gocce d’acqua o vapore sospeso nell’aria sono rese attraverso dei cubetti trasparenti che si librano nel cielo e si frantumano non appena toccano le foglie. I raggi del sole mattutino sono dei lunghi e gelatinosi cilindri di un giallo vibrante, mentre la vespa che attacca la comunità dei bruchi è disegnata come una sorta di guerriero o demone maligno, quasi con fattezze da robot135. Come scrive Agamben a proposito dei concetti di Umwelt e Umgebung usati da Uexküll: “Non esiste una foresta in quanto ambiente oggettivamente determinato: esiste una foresta-per-la-guardia-forestale, una foresta-per-il-
cacciatore, una foresta-per-il-botanico, una foresta-per-il-viandante, una foresta-per-l’amico-della-natura, una foresta-per-il-legnaiolo e, infine, una foresta di favola in cui si perde Cappuccetto Rosso”136. Quella che vediamo nei pochi minuti di animazione del cortometraggio è allora “la foresta-per-ilbruco-Boro-appena-nato”, o almeno l’interpretazione immaginifica che ne danno Miyazaki e i suoi collaboratori usando il medium animato. L’intero lavoro può anche essere letto e interpretato come una sorta di movimento dal particolare al totale (zoom-out) che, partendo dal microcosmo dei pochi centimetri in cui si svolge tutta l’azione, nelle ultime scene si allarga, rivelando che si tratta in realtà di un piccolo giardino-orticello di una casa, con l’ultimissima parte del cortometraggio che rivela dove si è svolta l’azione, una verde zona suburbana. A un certo punto Boro finisce goffamente attaccato alla schiena di una bambina che non lo nota, finché la madre non lo prende e lo riporta al giardino a cui appartiene. Nel finale, la madre e la figlia – la presenza femminile è una costante nei lavori del nostro – hanno, secondo lo stesso Miyazaki, un effetto quasi di sollievo dopo una descrizione che, “gonfiata di immaginazione”137, poteva incutere paura. Inoltre, madre e figlia contribuiscono a contestualizzare spazialmente l’azione; si comprende fin dall’inizio naturalmente che siamo nel mondo microscopico della natura, ma il paesaggio, così come gli insetti, hanno, pur nella loro comicità, un che di alieno. Inoltre, la presenza della madre e della figlia ricalibra il tutto, comunicandoci come questa piccola bolla-mondo si trovi accanto alla nostra e a questa sovrapposta come in una gigantesca partitura138 musicale. 126 Questo unitamente ad altri scritti avranno una significativa influenza su filosofi tanto diversi quanto importanti quali Martin Heidegger, Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, quest’ultimo gli dedica fra le altre cose un importante capitolo nel suo libro L’aperto (2002). 127 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, con illustrazioni di Georg Kriszat, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010, p. 37. 128 Miyazaki in conversazione con Yōrō Takeshi, anatomista e pensatore, in Sekai wa ningen no mono janai, nel libretto Kemushi no Boro venduto al Museo Ghibli. 129 G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 44. 130 Sul metodo distributivo dei corti e su come esso influenzi lo stile si veda il saggio dedicato ai cortometraggi compreso in questo volume. 131 La tecnica della computer graphic è stata in realtà usata da Miyazaki in alcuni dei suoi lavori passati, fra il 10 e il 15 per cento, come, Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997), La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001) e soprattutto Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004). Quest’ultimo proprio per l’uso “massiccio” di tale tecnica – massiccio quantomeno per gli standard dell’autore – ha portato alla realizzazione di un film stilisticamente molto diverso come Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008).
132 L’unica eccezione sono i titoli di coda, accompagnati dalle musiche realizzate, ancora una volta, da Hisaishi Joe. 133 Gli artisti giapponesi che hanno mostrato un interesse per l’entomologia e il mondo degli insetti sono numerosi, specialmente fra mangaka e animatori, ed è una tematica che meriterebbe uno studio a parte. 134 “L’obiettivo di Uexküll […] è esplicito: mettere in crisi in modo definitivo un pregiudizio antropocentrico, l’idea che le varie specie animali, le meduse e i gatti, i lombrichi e i ricci, vivano in uno spazio senso-motorio identico al nostro”. Marco Mazzeo, in J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, cit., p. 7. 135 Y. Takeshi in conversazione con Miyazaki, in op. cit. 136 G. Agamben, L’aperto, cit., p. 45. 137 H. Miyazaki in Seikai wa ningen no mono janai, cit. 138 Il termine è usato da Agamben che, in merito, parla esplicitamente di partitura musicale: “Dove la scienza classica vedeva un unico mondo, che comprendeva dentro di sé tutte le specie viventi gerarchicamente ordinate, dalle forme più elementari fino agli organismi superiori, Uexküll pone invece una infinita varietà di mondi percettivi, tutti ugualmente perfetti e collegati fra loro come in una gigantesca partitura musicale e, tuttavia, incomunicanti e reciprocamente esclusivi, al cui centro stanno piccoli esseri familiari e, insieme, remoti, che si chiamano Echinus esculentus, Amoeba terricola, Rhizostoma pulmo, Sipunculus, Anemonia sulcata, Ixodes ricinus ecc.”. G. Agamben, L’aperto, cit., p. 46.
TITOLI DI CODA LA CREAZIONE DI (PICCOLI) MONDI Su tre corti proiettati al Mitaka no mori
Parallelamente alla sua produzione di lungometraggi, Miyazaki nella sua carriera, almeno quella nello Studio Ghibli, ne ha portata avanti un’altra, conosciuta eppure segreta e difficilmente esperibile dal pubblico internazionale e invero anche da quello giapponese stesso. Il giapponese è infatti anche autore, talvolta solo sceneggiatore, di alcuni cortometraggi prodotti dallo Studio Ghibli. Mentre nel corso degli anni sono usciti per il mercato home video dei DVD che mettevano insieme molti dei lavori fatti da Miyazaki e soci per la televisione, come pubblicità, video musicali e così via, nel caso dei cortometraggi veri e propri non c’è modo di vederli se non recandosi al Mitaka no mori, il Museo Ghibli di Tokyo. Il cinema ritorna a essere in questo modo e solo per un breve periodo – sembra inevitabile che anche questi cortometraggi trovino prima o poi un’uscita in DVD o Blu-ray – quell’esperienza simile a un sogno che lo caratterizzava fino a 30-35 anni fa, antecedente l’avvento dell’home video prima e dei servizi streaming poi139. Lo si vede una volta sola, in un ambiente molto speciale, il Cinema Saturno si trova all’interno del Museo che a sua volta è all’interno di Mitaka, una zona verde a poca distanza dal centro, uno dei centri, di Tokyo. Lo stesso teatro è piccolo e con le panche in legno, più una sorta di mini anfiteatro che non una sala cinematografica vera e propria, la “visione” in questo senso davvero si lega a una sorta di pellegrinaggio laico, o sacro dipende dal punto di vista, il tipo e il luogo della fruizione diventano quindi parti integranti della visione stessa. Un’eventuale uscita di questi cortometraggi per il mercato home video cambierebbe, ne siamo sicuri, il nostro giudizio e la nostra analisi su queste opere “umbratili” ed evanescenti ma molto importanti nell’opus del regista giapponese. Mentre i cortometraggi realizzati da Miyazaki durante tutta la sua carriera sono finora nove, in questa sede ci soffermeremo su tre opere realizzate più o meno durante lo stesso periodo, Il ragno d’acqua Monmon (Mizugumo Monmon, 2006), Il giorno in cui allevai una stella (Hoshi wo katta hi, 2006) e In cerca di casa (Yadō sagashi, 2006). Il primo è un cortometraggio di 12 minuti, la cui idea nasce da una storia pensata da Miyazaki poco prima della realizzazione di Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) e da cui
trarrà il suo primo cortometraggio in CGI Il bruco Boro (Kemushi no Boro, 2017?). Il ragno d’acqua Monmon è la rappresentazione della vita nel microcosmo di uno stagno, in particolare la delicata e leggera storia d’amore tra due diversi tipi di ragno d’acqua, uno che vive nelle profondità dello stagno e l’altro che pattina delicato sulla sua superficie. Si tratta di una specie di danza in immagini dove i due insetti trasportati da folate di vento e da rivoli d’acqua si incontrano e si separano continuamente fino alla scena finale della definitiva separazione. Oltre all’incredibile qualità visiva, che è un marchio di fabbrica dello Studio Ghibli, in questi pochi minuti trapela con forza dirompente la visione di Miyazaki e la sua attrazione verso mondi e universi dove l’elemento umano è assente, la bellezza e la crudeltà del mondo esistono ma sono totalmente indipendenti dall’intervento delle persone. Qui, ma su scala più grande e spettacolare anche in altre sue opere dove l’umanità si trova a lottare con sé stessa e con le conseguenze dei suoi atti, Miyazaki ci rivela una visione del mondo fortemente deantropocentrizzata, poetica e leggera certo, in fin dei conti si tratta della vita di due minuscoli insetti, ma nonostante questo si percepisce il soffio di libertà da un mondo dove l’essere umano è quantitativamente e qualitativamente troppo presente. Pezzo in qualche modo più innovativo, più scanzonato, per stile e concezione forse un caso isolato nell’opus del regista, è In cerca di casa, una sorta di sperimentazione dove i disegni sono coloratissimi ma grezzi e a bassa definizione allo stesso momento. Dialoghi assenti e rimpiazzati solo da suoni e rumori prodotti da due attori, rumori che vengono visualizzati sullo schermo attraverso le scritte onomatopeiche e in questo modo diventano parte integrante dell’aspetto visivo dell’opera. È la ricchezza della lingua giapponese a permettere questa visualizzazione della parola, infatti molti verbi che esprimono suoni o rumori in natura, come lo scroscio dell’acqua, il soffio del vento e il tuonare, sono resi in giapponese con delle onomatopee. Il tono del cortometraggio è comico e surreale allo steso tempo, visivamente scabro ma nonostante questo molto vivo, anzi nella ricerca di un posto dove dormire attraverso un bosco la protagonista si imbatte in un senso decisamente panico della natura. Proprio per lo stile del disegno, obliquo, antirealistico e quasi da abbozzo, tutto sembra avere vita propria e respirare, tattilità del disegno e vitalità dell’ambiente che la ragazza attraversa penetrano lo schermo anche grazie ai suoni e ai rumori di cui si diceva più sopra. Le voci umane che compongono il sound design donano a prima vista un tono comico a tutto il corto, ma alla fine del lavoro, che comunque dura solo 12 minuti, sembra quasi che l’ambiente creato, case, alberi, boschi, miriadi di insetti, frutta, vivande, fiumi e pioggia respirino di vita propria. Una tecnica simile è usata anche in Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013) dove
le voci degli attori sono utilizzate per rendere l’accensione dei motori degli aerei e le ondate sismiche del catastrofico terremoto del 1923 a Tokyo. Ecco allora come questo cortometraggio, ma si potrebbero trarre delle connessioni fra altri corti e lungometraggi, sembra essere una sorta di officina per sperimentare tecniche che poi Miyazaki e collaboratori avrebbero usato nelle animazioni più famose. Come si diceva, il corto è del 2006, un periodo di crisi per l’artista giapponese dopo la lavorazione de Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), periodo che avrebbe portato a Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo), opera spesso sottovalutata ma che rappresenta una sorta di punto zero per Miyazaki, che con essa e a partire da essa ritorna alle origini dell’atto del disegnare. I paralleli che si possono tracciare fra Ponyo e In cerca di casa sono moltissimi, in entrambi i lavori il senso e la natura panica del reale sono i veri protagonisti, senza nominare il tratto del disegno che ritorna fanciullesco così come il tono generale della storia. Anche il mondo rappresentato nei due lavori è contiguo, il tessuto del reale sembra essere solamente una stasi temporanea fra scosse ondulatorie continue, naturalmente più evidenti nel lungometraggio dove a predominare è l’acqua, elemento liquido che scioglie e che finisce per travolgere tutto, quasi un presagio della catastrofe del 2011. Con Il giorno in cui allevai una stella ci spostiamo decisamente verso tecniche e poetiche più simili a quelle utilizzate da Miyazaki nei suoi lungometraggi, si tratta forse del cortometraggio più riuscito e probabilmente di una delle opere del giapponese più significative. La storia, che ha origine da un’idea dell’artista Inoue Naohisa, si apre con uno sguardo su un paesaggio che sembra quello di una normale campagna, con tanto di casetta rustica un po’ retrò e campi coltivati a verdure. Da qui un ragazzo un giorno se ne va al mercato per vendere delle enormi rape, ma per la strada incontra due buffi personaggi, una rana e una talpa che lo convincono a barattare gli ortaggi per il seme di una stella. Ritornato a casa il ragazzo lo pianta in un vaso e lo accudisce con dedizione e amore giorno e notte, finché il seme si sviluppa e incomincia a assumere le fattezze di un pianeta, sospeso a mezz’aria sopra il vaso. Pian piano assistiamo alla bellissima nascita di un pianeta in miniatura, si formano così l’atmosfera, gli oceani e quindi le terre emerse. Si scoprirà nel proseguo della storia che il luogo dove il protagonista abita è la periferia rurale di un’enorme città alveare, una sorta di metropoli bladerunneriana coperta d’erba, con macchine volanti, bazar popolati d’ogni sorta di strambi esseri, teste che rotolano140 ed elefanti parlanti. Saranno ancora i suoi buffi amici, la rana e la talpa, a guidarlo con una navicella in una Via Lattea fantastica, popolata di asteroidi multiformi, pianeti e stelle varie e dove il ragazzo rilascerà il suo pianeta-stella ormai cresciuto. Oltre a una
prima e facile lettura del corto in termini ecologici e di cura del piccolo pianeta come fosse un essere vivente, metafora abbastanza diretta della terra e del rispetto che l’umanità dovrebbe portarle, è una seconda lettura a offrirci spunti forse più interessanti. Il tema del senso panico della vita che è presente in tutto ciò che è, nel regno animale degli insetti e nel mondo naturale dei primi due corti, qui si espande a livello cosmologico raggiungendo anche gli strati della materia inerte. Ma non sembra essere un credo animista dove ogni cosa del creato possiede un’anima in quanto vivo, piuttosto una “filosofia” dove viene riposizionato l’essere umano all’interno di altri tipi di essere nonumani, dove ogni cosa cioè, biologicamente viva o meno, ha il suo posto e il suo valore ontologico nell’universo. Proprio perché si tratta di qualcosa di diverso da un animismo magico ma anche rispetto a un assoluto materialismo scientista, è quasi inevitabile che la costruzione di questo universo non avvenga attraverso la fantascienza e nemmeno in un mondo puramente fantastico. Ma siamo a metà strada fra l’uno e l’altro, una fantascienza fantastica che facendo delirare i presupposti scientifici e tecnologici li fa collidere con gli strati più antichi e profondi della fantasia collettiva, una delle caratteristiche tematiche e stilistiche che più definiscono e rendono unico tutto l’opus di Miyazaki. 139 William Gibson sul suo account Twitter in un tweet nel 2014 diceva praticamente le stesse cose, parafrasiamo: scrivere su un film oggi e scrivere 30 o 35 anni fa è cosa molto diversa, un tempo vedere un film era come un sogno, un’esperienza onirica, non lo potevi tornare a guardare per analizzarlo meglio. 140 Teste che ritorneranno anche in altri lavori, segnatamente in I racconti di Terramare (Gedo senki, 2006) del figlio Gorō.
FILMOGRAFIA Lupin III – Il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro) Regia: Miyazaki Hayao. Soggetto: Monkey Punch, Maurice Leblanc. Sceneggiatura: Miyazaki Hayao, Yamazaki Haruya. Art direction: Kobayashi Shichirō. Character design: Miyazaki Hayao, Ōtsuka Yasuo. Montaggio: Tsurubuchi Mitsutoshi. Fotografia: Takahashi Hirokata. Musiche: Ōno Yūji. Produzione: Katayama Tetsuo. Paese: Giappone. Anno: 1979. Durata: 100’. Dopo un colpo al Casinò di Monte Carlo, Lupin e Jigen si accorgono che le banconote appena rubate sono false. Decidono quindi di risalire alla fonte di questo denaro e si ritrovano nel piccolo arciducato di Cagliostro, paese governato da un misterioso conte. Questi tiene prigioniera nel suo castello la bella principessa Clarissa che è anche il segreto di una enorme ricchezza. Lupin e Jigen chiamano in aiuto Goemon e insieme tenteranno di liberare la ragazza e impossessarsi del tesoro. Nausicaä della Valle del vento (Kaze no tani no Naushika) Regia, soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Art director: Nakamura Mitsuki. Character design: Miyazaki Hayao, Komatsubara Kazuo. Direttore dell’animazione: Komatsubara Kazuo. Montaggio: Kaneko Naoki, Sakai Shōji, Kida Tomoko. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Takahata Isao, Hara Tōru, Kondō Michio, Tokuma Yasuyoshi. Paese: Giappone. Anno: 1984. Durata: 116’. Tolmekia e Pejite sono i due grandi regni rimasti sulla Terra dopo I sette giorni di fuoco, la catastrofe causata dall’uomo che più di mille anni prima aveva quasi spazzato via dalla faccia del pianeta il genere umano. La Terra è ricoperta da deserti e da una foresta tossica in espansione, il Mar Marcio, al cui interno vivono degli enormi insetti chiamati Ohmu. Nausicaä è la principessa guerriera di una delle poche zone abitate dagli esseri umani superstiti, la Valle del vento, e spinta dal desiderio di portare la pace fra i due regni e dall’empatia che la lega a tutto il creato, comincia il suo viaggio. Laputa – Castello del cielo (Tenkūno shiro Rapyuta) Regia, soggetto, sceneggiatura e storyboard: Miyazaki Hayao. Art director: Nozaki Toshio, Yamamoto Nizō. Character design: Miyazaki Hayao, Tannai Tsukasa. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Tokuma Yasuyoshi, Takahata Isao. Paese: Giappone. Anno: 1986. Durata: 124’. La giovane Sheeta, discendente del leggendario regno di Laputa, viene rapita dal colonnello Muska e dal suo esercito che la vogliono usare per scoprire dove si trova l’isola volante. Quando però l’aeronave viene attaccata da un gruppo di pirati capitanati dalla matriarca Dola, la giovane cade dall’aereo ma grazie alla pietra magica che porta al collo riesce a salvarsi. Ritrovata e aiutata da Pazu, un ragazzo che lavora in una miniera, i due decidono di cercare la misteriosa isola volante dove sono custoditi importanti segreti e armi potentissime. Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro) Regia, soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Art director: Oga Kazuo. Character design: Miyazaki Hayao, Satō Yoshiharu. Art director: Satō Yoshiharu. Montaggio: Seyama Takeshi, Adachi Hiroshi. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Hara Tōru, Tokuma Yasuyoshi. Paese: Giappone. Anno: 1988. Durata: 86’. Satsuki e Mei, due bambine di undici e quattro anni, si trasferiscono assieme al padre in una casa di campagna a Tokorozawa, vicino Tokyo. In questo modo potranno stare vicino alla madre, malata di tubercolosi, che è ricoverata in un ospedale della zona. Satsuki e Mei scoprono in questo nuovo ambiente naturale un mondo vivo e popolato di creature fantastiche, fra cui i “nerini del buio”, che solo i bambini possono vedere, e Totoro, lo spirito del bosco. Kiki – Consegne a domicilio (Majo no takkyūbin) Regia e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Soggetto: Kadono Eiko. Art director: Ōno Hiroshi. Character design: Kondō Katsuya. Fotografia: Sugimura Shigeo. Montaggio: Seyama Takeshi. Musiche: Hisaishi
Joe, Arai Yumi. Produzione: Miyazaki Hayao, Tokuma Yasuyoshi, Tsuzuki Mikihiko, Takagi Morihisa. Paese: Giappone. Anno: 1989. Durata: 102’. Come tutte le streghe della sua età, tredici anni, anche Kiki, secondo tradizione, deve trascorrere un anno di formazione in un’altra località. La giovane ragazzina parte quindi sulla sua scopa volante, assieme al gatto parlante Jiji, verso Colico, quella che sarà la sua nuova casa per dodici mesi. Dopo un inizio difficile, in cui Kiki fatica a legare con la nuova comunità, riesce a trovare alloggio e lavoro presso un fornaio che aiuterà con un sistema di consegne a domicilio volanti. Tutto sembra andare per il meglio, stringe anche nuove amicizie, fra cui quella con Tombo, un ragazzo appassionato al volo, quando all’improvviso si accorge di non riuscire più a volare. Porco Rosso (Kurenai no buta) Regia, soggetto, sceneggiatura e storyboard: Miyazaki Hayao. Art director: Hisamura Yoshimitsu. Character design: Kawaguchi Toshio. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 1992. Durata: 93’. Italia degli anni Venti del secolo scorso. Marco Pagot è un cacciatore di taglie noto per la bravura a pilotare il suo rosso idrovolante. Schifato dal fascismo, durante la guerra Marco ha lasciato l’apparenza umana per trasformarsi in un uomo con la testa di maiale, da qui il suo soprannome, Porco Rosso. Marco combatte i pirati del cielo, predoni formati per la maggior parte da piloti che durante il conflitto bellico guidavano gli aerei da guerra, togliendo loro la refurtiva e restituendola ai legittimi proprietari. Stufi delle sue gesta eroiche, i pirati decidono di eliminare Porco con l’aiuto dell’aviatore americano Donald Curtis. Principessa Mononoke (Mononoke-hime) Regia, soggetto, sceneggiatura e storyboard: Miyazaki Hayao. Art director: Oga Kazuo. Character design: Miyazaki Hayao, Andō Masashi, Kondō Yoshifumi. Fotografia: Okui Atsushi. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 1997. Durata: 134’. Giappone, epoca Muromachi (1337-1573). Un demone cinghiale attacca un piccolo villaggio ferendo il giovane guerriero Ashitaka. Colpito a un braccio nello scontro, una maledizione si impossessa del suo arto, spingendolo a lasciare il villaggio alla ricerca del demone. Nel suo peregrinare si ritrova nel bel mezzo di uno scontro fra gli animali della foresta, da una parte, e le truppe di Lady Eboshi, una donna che guida il suo popolo costruttore di armi, dall’altra. Con gli animali combatte anche la principessa Mononoke, figlia adottiva dei lupi che nutre un odio profondo verso gli esseri umani. La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi) Regia, sceneggiatura e storyboard: Miyazaki Hayao. Soggetto: Kashiwaba Sachiko. Art director: Takeshige Yōji. Character design: Miyazaki Hayao, Andō Masashi. Fotografia: Okui Atsushi. Musiche: Hisaishi Joe. Montaggio: Seyama Takeshi. Produzione: Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 2001. Durata: 125’. Chihiro, una bambina di dieci anni, sta traslocando assieme ai genitori in una nuova città, lasciando tutti i suoi amici e i luoghi della sua infanzia. La famiglia imbocca una piccola stradina e finisce per perdersi, ritrovandosi in un villaggio deserto, dove i genitori di Chihiro cominciano a mangiare così tanto da trasformarsi in maiali. La bambina inoltre si accorge che sta diventando invisibile, ma viene aiutata da Haku, un ragazzo che la porta in un’enorme casa dove dovrà lavorare nei bagni pubblici per sopravvivere e nascondersi dalla strega Yubaba. Qui incontra una serie di esseri fantastici e tenta, con l’aiuto di Haku, di salvare i suoi genitori e di ritornare a casa. Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro) Regia e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Soggetto: Diana Wynne Jones. Art director: Takeshige Yōji, Yoshida Noboru. Character design: Yamashita Akihiko. Montaggio: Seyama Takeshi. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Miyazaki Hayao, Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 2004. Durata: 119’. La giovane Sophie, diciotto anni, lavora nel negozio di cappelli lasciatole dal padre. Un giorno per strada incontra il mago Howl, ma la strega delle Lande Desolate vuole avere il cuore dell’uomo tutto per
sé e decide così di trasformare Sophie in una vecchietta. Disperata la donna fugge e incontra uno spaventapasseri che le indica l’abitazione dove dimora Howl, un vecchio e malmesso castello in grado di muoversi. Anche se capisce che si tratta di Sophie, il mago accetta la vecchia e le chiede di aiutarlo a prendersi cura del castello, specialmente del fuoco Calcifer. Intanto Howl è impegnato a scongiurare una guerra che sembra sempre più destinata a scoppiare. Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo) Regia, soggetto, sceneggiatura, storyboard e montaggio: Miyazaki Hayao. Art director: Yoshida Noboru. Character design: Miyazaki Hayao, Kondō Katsuya. Fotografia: Okui Atsushi. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 2008. Durata: 100’. Sōsuke è un bambino di cinque anni che vive con sua madre in una casa in riva al mare, su una scogliera. Un giorno incontra Brunilde, una bambina-pesce che vive nelle profondità del mare con le sue sorelle, e la chiama Ponyo. Il padre di Ponyo non vuole che lei si intrattenga con il mondo degli umani, ma la piccola pesciolina ruba i poteri al padre e si trasforma in una bambina. Questo però porta scompiglio nel mondo provocando un enorme tsunami e facendo intervenire la madre di Ponyo, la dea Gran Mammare. Si alza il vento (Kaze tachinu) Regia, soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Art director: Takeshige Yōji. Character design: Miyazaki Hayao, Kōsaka Kitaro. Direttore animazioni: Kōsaka Kitaro. Montaggio: Seyama Takeshi, Sasaki Hiromi, Matsubara Rie. Musiche: Hisaishi Joe. Produzione: Suzuki Toshio. Paese: Giappone. Anno: 2013. Durata: 130’. Giappone, inizio del XX secolo. Horikoshi Jirō è un ragazzo che sogna di diventare pilota di aereo, ma i problemi agli occhi non gli permettono di proseguire su questa strada. Passano gli anni, un giorno Jirō si sta dirigendo a Tokyo in treno per continuare i suoi studi di ingegneria, quando il terremoto del Kantō squarcia la terra e fa deragliare il treno. Nel disastro riesce a portare in salvo Nahoko, una ragazza che prima aveva visto sullo stesso treno. Alla fine degli studi Jirō lavora alla Mitsubishi come progettista di aerei da caccia, ma i suoi lavori non riescono ad avere successo, decide allora di ritirarsi in montagna. Qui incontra di nuovo Nahoko, la loro relazione si svilupperà di pari passo con la sua carriera e i tragici avvenimenti bellici che devasteranno il mondo di lì a qualche anno.
GLI AUTORI LUIGI ABIUSI è scrittore, critico letterario e cinematografico. Collabora con diverse riviste, tra cui “Filmcritica”, “Cinecritica”, “Critica letteraria”, “Alias”, “Filmparlato.com” ed è direttore del trimestrale online di cultura cinematografica “Uzak.it”. Collabora all’Enciclopedia Treccani (sezione cinema). Ha curato di recente il volume Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli scheRmi. È docente a contratto presso l’Università di Bari, dove si occupa di letterature comparate. Su questi argomenti ha pubblicato i volumi Per gli occhi magnetici. Campana, Pasolini, Erice, Tarantino (CaratteriMobili, 2011) e Tempo di Campana. Divenire della poesia tra Nietzsche e Deleuze (B.A. Graphis, 2008), oltre a vari altri saggi sul decadentismo e le avanguardie pubblicati su volumi e riviste. Come poeta ha pubblicato i volumi Non un segno (Adriatica, 2002) e Dei comprimari riflessi (Sentieri Meridiani, 2008). È autore di racconti usciti su riviste, antologie ed ezine. MATTEO BELLANO insegna History of Animation (in inglese) all’Università degli Studi di Padova. È autore di numerose pubblicazioni internazionali sulla musica per gli audiovisivi e sull’animazione. Nel 2014 la SAS-Society for Animation Studies gli ha conferito il premio Norman McLaren-Evelyn Lambart per il miglior articolo accademico del 2010-11: The Parts and the Whole. Audiovisual Strategies in the Cinema of Hayao Miyazaki and Joe Hisaishi (“Animation Journal” 18, 2010). Ha presieduto il 29° convegno annuale della SAS (Padova, 3-7 luglio 2017). Dottore di ricerca in cinema, è diplomato in pianoforte e direzione d’orchestra; compone e orchestra musica per eventi legati al cinema muto e all’animazione. MATTEO BOSCAROL vive in Giappone, è saggista e critico cinematografico e scrive di cinema e Oriente per “Il manifesto”. Ha curato Tetsuo. La Filosofia di Tsukamoto Shin’ya (Mimesis, 2013), Rock’n’Roll Virus di William S. Burroughs (Roma 2008), ed è intervenuto in volumi monografici su Satoshi Kon, Ōshima Nagisa, Sono Sion e con due saggi in World Film Locations: Tokyo (Intellect Books, 2011) e “Agalma”, n. 16 (Mimesis, 2009). Al momento è impegnato nell’esplorazione della storia del documentario dell’Estremo Oriente. ALBERTO BRODESCO ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso il Dottorato internazionale di Studi Audiovisivi – Cinema, musica, comunicazione dell’Università di Udine. Lavora come assistente di ricerca al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. Le
sue pubblicazioni (molte disponibili in open access al sito http://unitn.academia.edu/AlbertoBrodesco) sono dedicate principalmente all’immaginario tecnoscientifico al cinema e nella serialità televisiva e ai temi della spettatorialità, della visione del corpo violato, delle soglie dello sguardo. È autore di Una voce nel disastro. L’immagine dello scienziato nel cinema dell’emergenza (Meltemi, 2008) e di Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema (Mimesis, 2014). È collaboratore di Cinergie – Il cinema e le altre arti e redattore della rivista di discussione culturale Scenari – Mimesis. Scrive anche su “Nazione Indiana”. MARCO CASOLINO fisico, è primo ricercatore presso l’Istituto nazionale di fisica nucleare, insegna “raggi cosmici e strumenti spaziali” all’Università di Roma Tor Vergata e lavora nei laboratori giapponesi del Riken, ove è team leader di un gruppo di ricerca rivolto alla fisica spaziale. Si occupa di fisica fondamentale (materia, antimateria e ricerca di materia oscura), di fisica delle astroparticelle di alta energia e di metodi di protezione degli astronauti dalla radiazione spaziale. Ha più di 200 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali, tra cui “Nature” e “Science”. Nel 2011 ha pubblicato il saggio Come Sopravvivere alla Radioattività e un thriller ambientato in Giappone: Grikon. Cura un blog su temi scientifici: La curva dell’energia di legame. ANDREA FONTANA collabora con “Segnocinema” e “Fumettologica”. Divoratore di immagini in movimento, è anche autore e curatore di diversi volumi (dalle monografie dedicate a M. Night Shyamalan, Satoshi Kon, Robert Zemeckis a saggi come La bomba e l’onda e Studio Ghibli), è intervenuto in saggi collettivi e ha contribuito a vari cataloghi di Festival cinematografici (Festival di Roma e Asian Film Festival). MARCELLO GHILARDI è ricercatore in Estetica all’Università di Padova, dove insegna anche al Master di Studi Interculturali, ed è membro del gruppo di ricerca sull’immaginario “Orbis Tertius” dell’Università di Milano-Bicocca. Tra i suoi libri: Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (Esedra, 2003); Filosofia nei manga (Mimesis, 2010); Arte e pensiero in Giappone (Mimesis, 2011); Filosofia dell’interculturalità (Morcelliana, 2012); Il vuoto, le forme, l’altro (Morcelliana, 2014); The Line of the Arch. Intercultural Issues between Aesthetics and Ethics (Mimesis International, 2015). MASSIMO SOUMARÉ è scrittore, traduttore, saggista e ricercatore indipendente. Ha collaborato con riviste specializzate sulle culture orientali e con riviste di cultura letteraria italiane e giapponesi quali “Quaderni Asiatici” (Centro di Cultura Italia-Asia “G. Scalise”), “Semicerchio” (Le Lettere), “Studi
lovecraftiani” (Dagon Press), “Komatsu Sakyō Magazine” (IO Corporation) e “Ronza” (Asahi Shinbunsha). Ha inoltre tradotto numerose opere letterarie di scrittori giapponesi moderni e contemporanei. Come autore, suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie tra cui ALIA (CS_libri, 2003, 2004, 2005, 2007, 2008, 2011), Tutto il nero del Piemonte (Noubs, 2007), Igyō korekushon (Kōbunsha, 2007), Kizuna: Fiction for Japan (Brent Millis, 2011), Onryo, avatar di morte (Mondadori, 2012) e sue opere sono state tradotte e pubblicate in Cina, Giappone e USA. Tiene inoltre la rubrica Stupori giapponesi sulla letteratura contemporanea giapponese per il blog L’indice dei libri del mese (L’indice scarl). Insegna lingua giapponese presso il CentrOriente e la Fondazione Università Popolare di Torino. ROBERTO TERROSI insegna Italian Studies alla Tokyo University of Foreign Studies, dopo il dottorato in filosofia si è specializzato in estetica e cultural studies. Ha scritto vari libri tra cui: La filosofia del postumano (Costa&Nolan, 1997), Il fai-da-te dell’anima: guida critica alla new age (Datanews, 2000), Filosofia e antropologia del ritratto (Mimesis, 2012), La genealogia: Nietzsche, Foucault e altri genealogisti (UniversItalia, 2012) e La bellezza in Oriente: introduzione all’estetica orientale (goWare, 2014).
IL CAFFÈ DEI FILOSOFI Collana diretta da Claudio Bonvecchio, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio
1. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli 2. Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo 3. Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente 4. Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! 5. Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico 6. Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia 7. Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito 8. Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola 9. Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo 10. Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità 11. Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro 12. Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce 13. Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosofico-politico 14. Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere
15. Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano 16. Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno 17. Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta
18. Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping 19. Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte 20. Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia 21. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones 22. Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese 23. Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari 24. Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione 25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi
31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese
38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai
39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere
41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza xe del potere 42. Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla 43. Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa 44. Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos 45. Donato Ferdori, Stefano Marino (a cura di), Filosofia e popular music 46. Lucrezia Ercoli, Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma 47. Salvatore Ferlita, Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi 48. Paolo Ercolani, Qualcuno era italiano. Dal disastro politico all’utopia della rete 49. Flavio Ermini, Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione 50. Federico Nicolaci, Tempio vuoto. Crisi e disintegrazione dell’Europa 51. Antonio Guerrieri, Apple come esperienza religiosa 52. Erik Peterson, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa 53. Richard Greene e Peter Vernezze, I Soprano e la filosofia. Uccido dunque sono, traduzione e cura di Andrea Signorelli
54. Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), Quentin Tarantino e la filosofia. Come fare filosofia con un paio di pinze e una saldatrice
55. Natale Sansone (a cura di), La filosofia del marchese De Sade 56. Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan 57. Enrico Cantino, Da Lamù a Kiss me Licia. Le dinamiche di coppia secondo l’animazione giapponese
58. Enrico Cantino, Da Mimì Ayuhara a Oliver Hutton. Gli anime sportivi e lo spirito di gruppo 59. Stefano Petruccioli, Gli X-Men e la filosofia
60. Ernesto L. Francalanci, Estetica del potere. Figure dell’ordine e del disordine 61. Furio Colombo, Athos De Luca, con Vittorio Pavoncello, Il paradosso del Giorno della Memoria. Dialoghi
62. Andrea Calzolari (a cura di), Mondobugia. Undici variazioni sul mentire 63. Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore 64. Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti
65. Jean-Luc Nancy, Tommaso Tuppini, 2014 66. Pino Bertelli, Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere! Sul cinema sovversivo di un filosofo dell’eresia e commentari sulla macchina/cinema
67. Matteo Galli, Il sogno e il tempo. Due saggi su Wenders 68. Leonardo Vittorio Arena, Sul nudo. Introduzione al nonsense 69. Enrico Cantino, Dall’incantevole Creamy a Pollon. Maghette e incantesimi nell’animazione giapponese
70. Enrico Cantino, Da Heidi a Lady Oscar. Le eroine degli anime al femminile, 71. Stefano Petruccioli, X-MEN. Per un’etica indagata in stile mutante 72. Pino Bertelli, Guy Debord un filosofo sovversivo. Per una critica radicale della civiltà dello spettacolo e la rivolta della gioia dell’Internazionale Situazionista
73. Carmine Castoro, Clinica della TV. I dieci virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione
74. Monia Andreani, Peppa Pig e la filosofia. Tra antropologia e animalità 75. Mario De Caro, Biografie convergenti. Venti ircocervi filosofici, con illustrazioni di Guido Scarabottolo
76. Enrico Petris, Rosso, nero e Pasolini 77. Umberto Vincenti, Etica per una Repubblica 78. Alberto Abruzzese e Gian Piero Jacobelli (a cura di), Bond, James Bond. Come e perché si ripresenta l’agente segreto più famoso del mondo
79. Matteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese
80. Massimiliano Pandimiglio, Rugby Football. Storia e mito di uno sport che è quasi una religione
81. Nicola Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto 82. Stefano Cristante, Corto Maltese e la poetica dello straniero. L’atelier carismatico di Hugo Pratt
83. Massimo Centini, Lupus in fabula. Antropologia dell’uomo lupo
84. Bruno Barba, Calciologia. Per un’Antropologia del football, prefazione di Darwin Pastorin
85. Pierpaolo Marrone, Pop-ethics. 40 occasioni per la filosofia morale 86. Andrew Spannaus, Perché vince Trump. La rivolta degli elettori e il futuro dell’America 87. Vittorio Pavoncello (a cura di), CHEESE! Un mondo di selfie. Fenomenologie d’oggi 88. Enrico Petris, Filosofia e servizi segreti. Il doppio mestiere dei filosofi analitici 89. Eric Rohmer, Da Mozart a Beethoven. Saggio sulla nozione di profondità nella musica 90. Pierfranco Pellizzetti, Italia invertebrata. Personaggi e argomenti nella decadenza del dibattito pubblico
91. Alessandro Curioni, La privacy vi salverà la vita! 92. Alfonso Navarra e Laura Tussi, Antifascismo e nonviolenza, prefazione di Adelmo Cervi, contributi di Fabrizio Cracolici e Alessandro Marescotti
93. Giorgio E. S. Ghisolfi, Star Wars. L’epoca Lucas. I segreti della più grande saga postmoderna. Esalogia ed Expanded Universe
94. Laura De Luca, La radio disegnata 95. Miguel Real, L’ultimo europeo. 2284, Traduzione di Francesco Ambrosini e Maria Da Silva Valente
96. Andrew Spannaus, La rivolta degli elettori. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa 97. Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento
98. Alessandro Curioni, Questa casa non è un hashtag! Genitori e figli su Internet senza rete 99. Ezio Albrile, L’illusione infinita. Vie gnostiche di salvezza 100. Beatrice Balsamo, Elogio della dolcezza. Misura e velo del gusto e del legame 101. Giovanni Careri, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «bel composto» di Bernini 102. Dario Pisano, Nel cammin di nostra vita. Dante, Petrarca e Boccaccio visti da vicino 103. Anna Camaiti Hostert, Trump non è una fiction. La nuova America raccontata attraverso le serie televisive
104. 105. 106. 107.
Roberto Riva, La filosofia del cocktail Gianluca Barbera (a cura di), Idee viventi. Il pensiero filosofico in Italia oggi Nicola Perullo, Il gusto non è un senso ma un compito. Epistenologia II Donovan Hohn, Moby Duck. La vera storia di 28.800 paperelle naufragate nell’oceano e dell’isola di plastica del Pacifico
108. 109. 110.
Pierpaolo Marrone, Pop-sophia. 12 ingressi (senza omaggi) alla filosofia Carlo Bordoni (a cura di), Il declino dell’Occidente revisited Francesco Chianese, “Mio padre si sta facendo un tipo problematico”
111. 112. 113. 114. 115.
Andrea Tortoreto (a cura di), Filosofia della fantascienza Stefano Cristante, Società low cost. 2011-2017: gli anni del grande scombussolamento Valter Bucelli, Nell’occhio del pettirosso Riccardo Gramantieri, Fenomeno Ufo. Science and fiction (1947-1961) Marco Pacini, Epocalisse. Appunti di un cronista pessimista