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Italian Pages 199 [196] [196] Year 2006
Quodlibet Studio Letterature omeoglotte
Matteo Baraldi I bambini perduti Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf
Quodlibet
Prima edizione: novembre 2006 © 2006 Quodlibet Via Santa maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa: Grafica Editrice Romana s.r.l., Roma ISBN10 88-7462-139-6 ISBN13 978-88-7462-139-2 Letterature omeoglotte Collana del Centro studi sulle letterature omeoglotte dell’Università degli Studi di Bologna, diretta da Silvia Albertazzi e Barnaba Maj. Lavoro svolto con il finanziamento dell’Università degli Studi di Bologna.
Indice
Introduzione Il «mondo intermedio» di Paul Klee
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Il secolo dei ragazzi selvaggi II. O beloved kids I.
Il paese dei bambini perduti 139 IV. L’ombra a quattro zampe 103
III.
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Una conclusione ancora possibile?
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Bibliografia Indice dei nomi
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a Martino e Maddalena, i miei ragazzi selvaggi
Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d’un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi. Furio Jesi, Orfani e fanciulli divini, in Letteratura e Mito
Introduzione Il «mondo intermedio» di Paul Klee
In un colloquio con l’amico Lothar Schreyer, il celebre pittore Paul Klee sostenne che, tra i privilegi e i doveri di un artista, vi è quello di accedere e di far accedere a «un mondo intermedio», un luogo che non appartenga al presente e alla quotidianità eppure capace d’irradiare su di essi una nuova luce. «Lo chiamo mondo intermedio» si spiegava Klee «poiché io lo sento tra i mondi percepibili ai nostri sensi e posso afferrarlo intimamente in modo tale da poterlo proiettare verso l’esterno in forme equivalenti. Sono in grado di guardarlo ancora e di nuovo i bambini, i pazzi, i primitivi»1. Con quella che sembrava un’affermazione di assoluta libertà, di scardinamento del dettato accademico, l’artista svizzero si collocava invece in una lunga tradizione risalente almeno al XVIII secolo. Una tradizione che accomunava le tre grandi alterità in grado di attrarre e ripugnare la coscienza europea: l’infanzia, la follia e il mondo «selvaggio», in special modo quello considerato più barbaro e primigenio. Per lungo tempo si è guardato a questo mostro tricipite incerti se cogliere in esso un’orma primordiale e perduta del nostro passato o qualcosa di completamente estraneo, qualcosa che, semmai, contribuiva per contrasto a rendere ancora più netta e definita l’identità europea. Una delle più inquietanti e affascinanti rappresentazioni che siano state date di questo «grande autre», di questa identità segreta, tanto ricercata quanto rimossa, ci è parsa proprio quella del fanciullo selvaggio, un mito che trova una sua incarnazione moderna nella figura storica di Victor dell’Aveyron, studiata da Jean Marc Gaspard Itard, e resa popolare da François Truffaut nel suo ambiguo capolavoro L’enfant sauvage (FRA, 1969), in cui il regista francese decise all’ultimo momen1 In Felix Klee, Vita e opere di Paul Klee, tr. it. A. Mazza, Einaudi, Torino 1960, pp. 161-162.
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to d’interpretare egli stesso il ruolo dello studioso2. L’ambiguità di questo film, e del modo in cui guardiamo ad ogni caso di questo genere, sia esso leggendario o reale, si fonda sull’idea che ogni forma rieducativa nasconda un più o meno celato sopruso nei confronti del soggetto che la subisce, lasciandoci convinti che, così facendo, sia più ciò che si perde – la sauvagerie del fanciullo, la sua identità assoluta col mondo naturale – di quello che si acquisisce – un sempre deludente adattamento alla vita civile. I fanciulli selvaggi incarnano infatti, nel mondo occidentale, la speranza di un impossibile e totale ritorno alla natura, a una selvatichezza libera e incontrollata, ed anche per questo, mano a mano che le nostre città si addentrano, o sprofondano, nel mondo postmoderno e postindustriale, questo è un mito che continua a parlare alle nostre coscienze. Ed è un mito talmente forte e vivo da presentarsi ancor oggi sotto nuove forme, non esclusa quella della beffa mediatica. D’altra parte, già nel 1970, nella settimana in cui si presentava il film di Truffaut a Los Angeles veniva scoperta, in quella stessa metropoli, una bambina reclusa che aveva vissuto in totale isolamento, confinata da una famiglia che l’aveva ritenuta ritardata e inadeguata a una vita pubblica3. Era, sotto ogni aspetto, l’altra faccia della medaglia di Victor, eppure il suo caso si ripresentava con perfetto tempismo nel momento esatto in cui il tema del bambino selvaggio, del bambino isolato e quindi «allo stato puro», riceveva nuova attenzione nel dibattito culturale e sociologico. Evidentemente questa è una storia che ancora chiede di essere raccontata, e il feral child resta una figura viva nei nostri sogni, e nei nostri incubi. Il grande assente di queste pagine potrebbe essere Tarzan, vera e propria cerniera tra l’Ottocento inglese e darwinista e il Novecento americano e superomista. Ma quello che ci premeva di affrontare qui è il rapporto tra l’idea di fanciullo selvaggio espressa da Kipling nel celeberrimo personaggio di Mowgli, che resta a tutt’oggi la sua creazione più popolare, celando in sé un’idea di conciliazione, ma anche di violento contrasto tra la maturità inglese e l’infanzia indiana del suo autore, sintetizzate in una identità imperiale; e quella espressa dallo scrittore e poeta australiano David Malouf. Da un lato, quindi, ci confrontia2 Cfr. Antoine de Baecque e Serge Toubiana, François Truffaut. La biografia, tr. it. E. Mugellini con la collaborazione di M. Greco, Lindau, Torino 2002, pp. 402-410. 3 Si tratta del caso della bambina poi chiamata «Genie», alla cui storia sono stati dedicati diversi libri tra i quali Russ Rymer, Genie: A Scientific Tragedy, Penguin, Harmondsworth 1994.
INTRODUZIONE. IL
«MONDO INTERMEDIO» DI PAUL KLEE
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mo con un mito coloniale e, dall’altro, con una sua sfuggente ed elusiva interpretazione postcoloniale. Non si tratta però di delineare solo un confronto tra due autori prescindendo dalle loro rispettive tradizioni. In ambito postcoloniale questo non avviene mai, non potendo astrarre da un ambito sociale, culturale, storico e politico che non è immune nemmeno, o forse soprattutto, nel campo della rappresentazione letteraria, di una sua profonda carica di violenza. Si è inteso dare spazio, quindi, non solo all’analisi di figure come Mowgli e il Wild Boy di Malouf e a un parallelo tra i diversi ruoli che essi giocano nei libri di cui sono protagonisti, ma anche a tutto quel processo culturale che è stato vitale per la genesi di questi personaggi e per la rielaborazione di tale mito da parte di questi due autori. In ambito britannico le premesse alla nascita di Mowgli vanno individuate sottotraccia. Non esistevano, infatti, nella tradizione inglese, almeno non prima dell’avvento di Kipling, ragazzi selvaggi intesi nel senso stretto del termine, ma una ricca tradizione culturale rivolta all’infanzia maschile che esaltava le virtù del coraggio, della vita all’aria aperta e di una pragmatica inclinazione alla selvatichezza, intesa come ardimento e sprezzo del pericolo, che necessariamente risultava assai utile ai fini dell’espansione dell’Impero e del suo mantenimento. Le premesse del recupero di questa figura risultano invece in certo modo più esplicite nel caso di Malouf, preceduto dalla lunga, ricca e drammatica tradizione del lost child, del bambino perduto in Australia, tradizione che quest’autore contribuisce almeno in parte a rovesciare. Malouf, infatti, come molti autori postcoloniali, scrive «contro» la tradizione coloniale, una tradizione che ha profondamente condizionato l’identità stessa del suo paese poiché l’Australia, come tutte le settler colonies, le colonie d’insediamento, ha lungamente sofferto per trovare la sua più vera identità e rifiutare di plasmarla esclusivamente sul modello della propria lontana madre patria. Ma scrivere «contro» la tradizione coloniale significa, in realtà, partecipare a un rapporto molto più complesso e intricato, un rapporto che non implica una semplice opposizione e va inteso come un atto di riscrittura del tutto libera e creativa che si trasforma in un atto di riappropriazione della propria verità e della propria identità senza per questo rinunciare al lascito culturale di una pur dolorosa esperienza di sottomissione. L’obiezione che si può fin da qui porre sia a Kipling che a Malouf, nonché all’analisi tentata in questo volume, è che comunque il fanciullo selvaggio, con tutta la sua aura di libertà, è un mito prevalentemente occidentale, ed è un mito ambiguo che non può mai essere raccon-
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tato dal suo punto di vista, ma solo da quello di chi teme di perdere la sua civiltà e intende quindi ricondurre il feral child alla sua stessa dimensione. Oppure dal punto di vista di chi auspica di liberarsi egli stesso della propria civiltà per raggiungere uno stato naturale, perfettamente libero e felicemente selvaggio, rischiando così di far diventare questa una figura puramente strumentale. Ma ciò, ormai, fa parte della natura di questo mito, la cui cifra ultima e il cui fascino più profondo restano celati nella sua inafferrabilità, nella sua intatta capacità di indicare una via verso quel «mondo intermedio» a cui aspirava Klee. * Nei libri i ringraziamenti sono sempre la parte meno letta, anche se spesso una delle più doverose. Nessun libro, e questo non fa certamente eccezione, nasce da uno sforzo puramente individuale, costituendo invece il frutto di una serie di contributi, stimoli, suggerimenti. Questo lavoro non avrebbe potuto esistere senza l’incoraggiamento, la pazienza e la fiducia della Professoressa Silvia Albertazzi, né senza il suo esempio di studiosa e di intellettuale. E non avrebbe potuto essere pubblicato senza il contributo della Professoressa Vita Fortunati, artefice e promotrice del Progetto sul Primitivismo attivo presso il Dipartimento di Lingue dell’Università di Bologna. Il mio grazie va inoltre ai docenti del Centro Studi sulle Letterature Omeoglotte e ai professori e agli studenti del Dottorato di Letterature e Culture dei Paesi di Lingua Inglese della medesima università: piccole, laboriose, vivaci comunità di studio e di ricerca. Devo inoltre esprimere la mia riconoscenza ai professori della University of Western Australia di Perth che mi hanno permesso di approfondire adeguatamente la parte di questo lavoro dedicata a David Malouf, nonché al Professor Don Randall della Bilkent University di Ankara, che mi ha onorato della sua attenzione, lusingato con i suoi elogi e arricchito con le sue critiche. Ma un libro rappresenta anche il risultato di una sfera più personale. Mi è così impossibile non essere profondamente grato ai miei genitori, alla mia famiglia, a Franco, fratello nella vita e in Kipling, e in special modo a Patrizia, Martino e Maddalena, senza i quali molti aspetti del mio lavoro sarebbero stati più oscuri e meno coinvolgenti.
Capitolo primo Il secolo dei ragazzi selvaggi
C’è, lo sento, un’età a cui l’uomo come individuo si vorrebbe fermare; tu cercherai l’età a cui desidereresti si fosse fermata la tua specie. Scontento del tuo stato presente per ragioni che preannunciano alla tua infelice posterità ancor più gravi insoddisfazioni, vorresti, forse, poter tornare indietro; e questo sentimento deve essere l’elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei tuoi contemporanei, lo spavento di quelli che avranno la disgrazia di vivere dopo di te. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini
Nel mese di Termidoro dell’anno settimo della Rivoluzione, nei boschi dell’Aveyron, venne catturato un fanciullo selvaggio a cui sarebbe stato imposto il nome di Victor. Il ritrovamento di questo ragazzo, più che un banale accidente, una curiosità di paese, rappresentò un evento paragonabile alla scoperta della fenice, dell’unicorno o di qualche altro animale mitico. Egli irrompeva sulla scena al momento giusto, nel tardo Illuminismo post-rivoluzionario animato dal dibattito degli idéologues, e nel posto giusto, la Francia, il paese che più di tutti aveva contribuito, nel corso del XVIII secolo, alla riflessione antropologica, pedagogica e filosofica sulla figura del selvaggio. I ragazzi selvaggi erano sempre esistiti, non solo come corollario mitico alla necessità umana di recuperare quelle radici naturali, in qualche modo interrotte da ogni tipo di civiltà, ma proprio come evento di cronaca, come accadimento ciclicamente ripetuto e originato, per lo più, da difficoltà economiche, da momenti di crisi politiche e sociali
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che costringevano madri e famiglie a sbarazzarsi di figli diventati ingombranti. Leggendo saggi e cronistorie dedicati a questo argomento si può infatti osservare come questi eventi trovino una loro costante documentazione a partire almeno dal XIV secolo e abbiano, a tutt’oggi, numerosi riscontri. Cosa aveva allora di diverso il fanciullo dell’Aveyron? Perché di lui, più che di ogni altro caso, intellettuali e studiosi si sono occupati, a volte quasi con accanimento? Nel corso del Settecento la riflessione filosofica si era interessata sopra ogni altro argomento allo studio dell’uomo e alle sue relazioni sociali. Quindi figure isolate e solitarie come i naufraghi, i pazzi, certi tipi di selvaggio o, per l’appunto, i feral children, acquisirono il significato di casi da laboratorio, diventando la pietra di paragone dell’uomo non solo isolato, ma, in qualche modo, dell’uomo allo stato puro, dell’homme naturel di cui Rousseau, e con lui altri intellettuali dell’epoca, avevano teorizzato. Come osserva Sergio Moravia nella sua brillante introduzione ai saggi di Itard – il medico e pedagogo che più di tutti si occupò del giovane Victor – la stessa esistenza di queste singolari creature metteva in dubbio alcuni pronunciamenti fondanti dell’Illuminismo, in special modo attraverso tre punti chiave: 1) «in che misura era possibile considerare veri e propri uomini degli esseri privi addirittura della parola?» 2) «in che rapporto erano da mettere questi sauvages coi selvaggi parlanti e socialmente organizzati […] che i viaggiatori andavano da tempo scoprendo in terre lontane?» 3) «come valutare il comportamento di questi individui e il loro rapporto da un lato con la natura e dall’altro con la società?»1 Sarà bene mantenere presenti questi tre interrogativi perché le opere di Kipling e Malouf che prenderemo qui in esame possono anche essere intese come un tentativo di dare ad essi una risposta, prima a cento e poi a quasi duecento anni di distanza dall’apparizione del ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Il piccolo, nudo, inerme Victor pone ancora queste mute domande a noi che lo osserviamo due secoli dopo e ancora fatichiamo a dare ad esse una risposta perché presumono lo scioglimento di tre nodi gordiani: il rapporto con il linguaggio – che è il rapporto con il Sé –, il rapporto con l’Altro e il rapporto con la Natura.
1 Sergio Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Pedagogia e psichiatria nei testi di J. Itard, Ph. Pinel e dell’Anonimo della «Décade», Laterza, Roma-Bari 1972, p. 5.
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I. IL SECOLO DEI RAGAZZI SELVAGGI
* Quando Victor venne catturato ci si illudeva potesse testimoniare in breve tempo la sua esperienza alla società tutta. Il suo arrivo presso l’Istituto per i Sordomuti di Parigi fu salutato con grandi aspettative e curiosità non solo dalla comunità scientifica, ma dall’intera cittadinanza. Egli era l’argomento del giorno, ma la delusione fu, fin da subito, cocente. Le comitive che si recavano in visita all’ultima curiosità offerta dalla capitale francese, convinte di poter contemplare l’essere umano al grado alfa della sua evoluzione, non si trovavano dinanzi la statua ancor priva di sensibilità, ma ricca di decoro, a cui aveva fatto riferimento Condillac nel suo Traité des Sensations. E nemmeno davanti al Bon Sauvage, libero dagli obblighi delle civiltà europee e, proprio per questo, considerato naturalmente felice e dotato d’una innata eleganza, ma un essere disgustoso. Che non si curava di sporcare il proprio letto dei suoi stessi escrementi, che riusciva a stento ad emettere, ripetendolo in continuazione, un solo orrido suono, la cui fisionomia era sempre contratta da tic nervosi e i cui occhi erano incapaci di soffermarsi su alcunché, sempre vagando per guardare tutto senza vedere nulla. Era dunque questo l’Uomo di Natura? A uno spettacolo così indegno si riduceva l’essere umano spogliato della sottile crosta della sua civiltà e della vita sociale? La risposta di Jonathan Swift sarebbe stata senza dubbio affermativa, ma la mente dei visitatori e degli scienziati che avevano accolto Victor andava a ben altro autore. Non al polemista irlandese e ai suoi disgustosi Yahoos, ma a Jean-Jacques Rousseau e al suo Émile. Quando viene iniziata l’istruzione di questo immaginario allievo egli ha esattamente l’età di Victor quand’è catturato nei boschi. L’autore ginevrino stabilisce infatti che l’infanzia di Émile vada spesa «facendo nulla», vivendo in campagna, quanto più possibile lontano dal consorzio umano e dagli studi libreschi; libero dai bisogni, proprio come Rousseau immagina che sia il «selvaggio» caraibico. Si potrebbe quasi dire che il giovane catturato dai contadini dell’Aveyron sia lo stesso Émile tanto è la somiglianza del loro percorso fino a qui. Muovendo dal suo eudemonismo Rousseau si dice certo che «i primi movimenti della natura sono sempre retti: non vi è nessuna perversità originale nel cuore umano; non vi si trova un solo vizio di cui non si possa dire come e perché vi sia entrato»2. Per questo motivo egli teorizza quella che chiama una «educazione negativa». L’importante, 2
Jean-Jacques Rousseau, Emilio, tr. it. A. Visalberghi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 105.
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sostiene, non è guadagnare tempo, ma perderne, esprimendo così una fede incondizionata in quelli che sono gli istinti più naturali. Ma per fare ciò è necessario allontanarsi dalla civiltà, che è la vera causa di ogni deviazione dallo stato di natura. Rousseau, sull’esempio di Montaigne, antepone il modello del bon sauvage a quello della buona società europea e, facendo questo, non si rende conto di mettere in pratica a sua volta un pregiudizio frutto di un’elaborazione mitica di quella stessa cultura da cui pretende di distaccarsi. L’illuminista ginevrino ammette che il suo intento di isolare quanto più possibile il proprio immaginario allievo dalla società sia un’impresa disperata, ma, comunque, non nasconde la sua volontà di fare di lui «un essere insensibile, come un automa»3, pronto a essere forgiato dagli imperativi che la Natura stessa, lasciata libera di agire come pressoché sola realtà educatrice, gli detterà. Ecco allora affacciarsi per la prima volta l’idea dell’isola deserta che ritorna in modo quasi ossessivo in quest’opera di Rousseau. Émile dovrà crescere, insieme al precettore, come se davvero abitasse l’isola di Robinson. All’alba della sua vita, insiste l’autore, il fanciullo vive un’epoca descritta come il «sonno della ragione», in cui non si dovrà occupare che di essere felice e «saltare, giocare, correre tutta la giornata»4. Il suo spirito, ci viene detto, deve essere «assorbito dalla materia»5 e seguire l’esempio dei «selvaggi» i quali, «noti per il loro buon senso, lo sono anche per la sottigliezza del loro spirito». In questa fase in cui il giovane Émile è descritto come «selvaggio» possiamo apprezzare ancor più pienamente non solo quanto il suo percorso e quello compiuto da Victor siano fin qui paragonabili, ma anche cogliere come Rousseau concepisse l’idea stessa di selvaggio. Idea che fu determinante per la costruzione e il consolidamento di questo mito settecentesco: [Il selvaggio] non essendo attaccato a nessun luogo, non avendo compiti prescritti, non obbedendo a nessuno, senz’altra legge che la sua volontà, è costretto a ragionare ad ogni azione della sua vita; non fa un movimento, non fa un passo senza averne in anticipo considerate le conseguenze. Così, più il suo corpo si esercita, più il suo spirito si rischiara; la sua forza e la sua ragione progrediscono di conserva e si estendono l’una con l’aiuto dell’altra6.
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Ibid., p. 109. Ibid., p. 114. 5 Ibid., p. 123. 6 Ibid., p. 125. 4
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In questo brano troviamo la conferma che, per Rousseau, non è la materia a corrompere lo spirito, ma la civiltà ad inquinarlo. Dalla materia, dal confronto quotidiano e obbligato con la Natura, può sorgere solo uno spirito sottile, perché non vi è «nulla di più fine di un selvaggio»7. Il contributo più forte di questo filosofo all’edificazione del mito del Buon Selvaggio si trova però non tanto e non solo nell’Émile, quanto nella prima parte del Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes dove viene teorizzato come la civiltà, di per sé, rappresenti, in quanto allontanamento dall’originario stato di natura, un morbo, una forma di malattia. Egli infatti sostiene che i selvaggi, «almeno quelli che non abbiamo rovinato coi nostri liquori forti […] quasi non conoscono malattie all’infuori delle ferite e della vecchiaia»8 e arriva quasi a vedere nel selvaggio e nell’Uomo di natura una sorta di ÜberMensch, una creatura che più che rimandare al Mowgli di Kipling ricorda il Tarzan di Burroughs9. La vita civile, l’uomo sociale, viene considerato non come il frutto di un progresso, ma come l’esito di un vero e proprio «rimbecillimento». Come gli animali addomesticati e asserviti dall’uomo non hanno alcuna traccia della fierezza dei loro corrispettivi liberi in natura, così è l’uomo sociale, che si trasforma in una creatura «debole, timorosa e strisciante e la sua natura molle ed effeminata finisce di infiacchire a un tempo la sua forza e il suo coraggio»10. Per inciso è importante notare – l’aggettivo effeminato ce ne dà l’occasione – che quando parla di «Uomo» Rousseau, pur prendendo in considerazione la storia di tutto il genere umano, si rivolge e analizza esclusivamente il lato maschile della questione. Il genere femminile resta a margine del suo ragionamento, come a margine del suo Émile. Tanto che, quando alla fine del percorso entrerà in gioco la figura di Sophie, questa svolgerà una funzione del tutto simile a quella della moglie del mostro di Frankenstein, utile solo a lenire la solitudine dell’allievo. Sophie non acquisisce la dignità di personaggio ed Émile non si innamora di lei, ma del fatto che ella corrisponda alle coordinate prestabilite dal suo precettore come convenienti a una docile compagna di vita. 7
Ibid. Jean-Jacques Rousseau, Sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Rousseau, Scritti politici. I, tr. it. E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 146. 9 È curioso notare come Rousseau, descrivendo l’inessenzialità del linguaggio verbale a questo stadio originario, faccia riferimento a una delle caratteristiche più peculiari del popolare eroe della giungla: «il grido della natura […] che solo una sorta di istinto strappava nelle occasioni urgenti», ibid., p. 156. 10 Ibid., p. 147. 8
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Ma ciò che risulta più nuovo e sorprendente nel romanzo pedagogico di Rousseau è il legame che egli stabilisce tra i selvaggi d’oltre oceano e il suo giovane allievo. Altri autori, infatti, avevano istituito un paragone tra la sauvagerie e la fanciullezza, ma qui, per la prima volta, esso diventa l’argomento fondante per l’edificazione di una nuova pedagogia e di un nuovo modello di umanità. Nel Discours il filosofo si chiedeva se «il selvaggio [fosse] un bambino robusto»11. In Émile, evidentemente, si dà una risposta affermativa. Ecco allora che in Rousseau si attua un parallelo che sarà carico di conseguenze nefaste. Stabilendo che Émile è tale e quale al selvaggio egli ha instaurato una corrispondenza fra la fanciullezza e i non-europei, con speciale riguardo alle popolazioni delle Americhe nelle quali, più di tutte, viene identificato questo archetipo. Ciò comporta che lo stato di dipendenza dell’allievo dalla figura adulta del precettore sia applicabile, in qualche modo, anche alla relazione che si instaura fra il «selvaggio» e l’europeo, tra il colonizzato e il colonizzatore. Certamente il selvaggio ci può insegnare molto, sostiene Rousseau, può aiutarci a rispondere in modo più spontaneo ai dettami della natura, può aiutarci a capire quali siano i nostri veri bisogni, spogliandoci di tutto l’inessenziale delle nostre civiltà. Ma, allo stesso tempo, il selvaggio, pur capace di ragione, la applica solo per rispondere alle esigenze che gli impone la natura, non è capace di vera astrazione e deve essere guidato in questo come un precettore guida il suo allievo. La dinamica precettore/allievo, assai importante tanto nella narrativa di Kipling che in quella di Malouf, si carica così, per la prima volta, di un significato particolarmente ambiguo e profondo. Da un lato l’allievo rousseauiano, ben più del precettore, è colui nel quale si pone ogni speranza, il destinatario di questa educazione nuova e quindi il solo a incarnare il ruolo di homme naturel. Dall’altro è il precettore a tenere saldamente in mano l’educazione del suo pupillo e Don Randall12 osserva come il seguente brano possa attagliarsi non solo a un rapporto pedagogico, quanto ad una stretta relazione tra colonizzatore e colonizzato: [C]he egli creda sempre di essere il padrone, e siatelo invece sempre voi. Non c’è assoggettamento più perfetto di quello che conserva le parvenze della libertà; è assoggettata così la volontà stessa. Il povero bambino che non sa niente, che non può niente, che non conosce niente non è alla vostra mercé? Non disponete forse, in rapporto a lui, di tutto ciò che lo circonda? Non siete 11
Ibid., p. 162. Cfr. Don Randall, Kipling’s Imperial Boy. Adolescence and Cultural Hybridity, Palgrave, New York 2000, pp. 36-37. 12
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padrone di influenzarlo come vi piace? I suoi lavori, i suoi giochi, i suoi piaceri, le sue pene, non è forse tutto ciò nelle vostre mani senza che egli lo sappia? Senza dubbio egli non deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che voi sappiate quello che sta per dire13.
Questo breve passaggio risulta così estremamente significativo ed altamente contraddittorio. Non solo riflette il rapporto instauratosi tra l’Europa e le sue colonie, ma rappresenta anche una contraddizione nel ragionamento di Rousseau: quale libertà è davvero concessa, infatti, nella «liberale» educazione di Émile? Ma questa non è la sola contraddizione in cui egli cade. Criticando la pedagogia del suo tempo Rousseau rimprovera di pensare al bambino come a un adulto miniaturizzato, come a un adulto in potenza, senza considerare la reale, particolarissima natura di quest’età. Ma, a sua volta, in un brano successivo, egli rimprovera a Locke di voler fare, nel suo Some Thoughts Concerning the Education, del proprio pupillo un gentiluomo piuttosto che un uomo, quale invece vuole farne lui. Quindi, scopo ultimo dell’educazione, anche quella di Rousseau, è di modellare l’uomo che sarà e non il bambino a cui ci troviamo di fronte. «Bisogna cercare l’uomo nell’uomo e il bambino nel bambino»14, ma qui, ancora una volta, si cerca l’uomo nel bambino. Vi è però un’altra profonda differenza che allontana il punto di vista del filosofo ginevrino da quello del pensatore inglese, forse più sottile, ma non meno significativa. Questo «uomo saggio», come lo definisce Rousseau, intende l’educazione del proprio piccolo gentiluomo come indissolubilmente legata al suo paese e alla sua storia. Émile viene invece inteso non come un gentleman o «uomo di mondo», ma come «uomo del mondo», nella duplice accezione che egli appartiene al mondo tanto quanto il mondo gli appartiene. Quando Émile esce dalla propria infanzia/foresta e viene avviato, intorno ai dodici anni, a un corso di studi più regolare, l’approccio storico e umanistico, privilegiato all’epoca in cui scrive Rousseau, viene totalmente negletto in favore di un’educazione che deve rispondere ai crismi della praticità e dell’utilità. «A che cosa mi serve questo?», una delle domande più temute da ogni insegnante, viene accolta come segno di maturità da Rousseau e valutata come il solo criterio per stabilire se studiare o meno una materia. Una particolare attenzione viene 13 14
Rousseau, Emilio cit., pp. 126-127. Ibid., p. 92.
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data alla geografia su cui il filosofo basa tutto il suo insegnamento più maturo con criteri che risultano, ancor oggi, estremamente moderni. Il primo dato non è quello di acquisire nozioni circa luoghi remoti o di apprendere teorie scientifiche altrettanto remote. Gli strumenti di Émile non debbono essere né l’atlante né la sfera armillare. Immaginate un filosofo che sia stato relegato in un’isola deserta con degli strumenti e dei libri, sicuro di passarvi solo il resto dei suoi giorni; egli non si darà più affatto pensiero del sistema del mondo, delle leggi dell’attrazione del calcolo differenziale: non aprirà più forse un solo libro per tutta la sua vita; ma mai si asterrà dal visitare la sua isola fino all’ultimo angolino, per grande che essa possa essere15.
I punti di partenza di Émile nello studio della geografia saranno, però, non l’isola ma la casa di campagna del padre, poi la campagna circostante, quindi i fiumi vicini, il paese, la città, lo stato, il mondo intero16. Studiare la geografia significa, prima ancora che acquisire una vera e propria conoscenza, collocare se stessi all’interno del mondo e, così facendo, renderlo «utile» prendendone possesso. Non è un caso, e in termini di teoria postcoloniale ciò è particolarmente significativo, che questa presa di possesso si attui principalmente con un approccio al territorio tipicamente occidentale: quello cartografico. «Che faccia lui stesso – scrive Rousseau – la carta di tutto ciò; carta molto semplice e dapprima formata da due soli oggetti, ai quali egli aggiunge, a poco a poco, gli altri a misura che giunge a sapere o a stimare la loro distanza e la loro posizione»17. Ecco Émile trasformato in cartografo! Si capirà quindi che la mappatura del proprio vissuto si estende mano a mano che cresce il suo stesso raggio d’azione. Il luogo avito, il villaggio, la città, la nazione, l’impero…«Vedete già la differenza che corre tra il sapere dei vostri allievi e l’ignoranza del mio! Essi conoscono le carte e lui le fa. Ecco dei nuovi ornamenti per la sua stanza»18. I libri di Émile, ci dice Rousseau, non sono quelli stampati a sua edificazione, ma il mondo stesso. Eppure quello stesso mondo si riduce a una mappa da appendere nella sua stanza. Esattamente quello che Rousseau sembrava voler negare è ammesso nell’ultima, noncurante frase che egli pone a conclusione del suo ragionamento. La mappa non 15
Ibid., pp. 142-143. Cfr. ibid., p. 146. 17 Ibid. 18 Ibid. 16
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è uno strumento per guidare Émile verso il mondo, ma uno stratagemma per ridurre il mondo alla sua dimensione. A un foglio di carta tracciato da un ragazzino europeo. Se è vero, poi, che vi è un’insistenza, in quest’opera, nel voler fare piazza pulita dei libri19 affinché Émile guardi, senza intermediari che lo condizionino, al solo vero libro degno di essere letto, quello della Natura; è altrettanto vero che un libro, uno solo, gli viene concesso: il Robinson di Defoe. Questo è il testo perfetto per realizzare nella pratica quell’isola ideale a cui più volte accenna Rousseau. Le avventure di Crusoe, il suo naufragio, la sua isola, devono essere letti, usati, spremuti come un testo-guida. Da esso Rousseau intende trarre, o meglio, far trarre al suo allievo, tutti gli insegnamenti necessari. Ci deve essere un’immedesimazione totale («che pensi di essere Robinson lui stesso»20). Il giovane Émile dovrà costruire la sua capanna, allevare i suoi animali, coltivare il suo orto. Il gioco prenderà tanto la mano all’allievo che tutto ciò che toccherà di fare al precettore sarà di porre un freno al suo desiderio d’avventura. Questo è l’aspetto principale per il giovane lettore, l’avventura, mentre ciò che preme di più al suo maestro è l’autosufficienza, la possibilità di realizzare, almeno per un breve periodo della vita del suo allievo, l’antitesi dell’assunto di John Donne: «no man is an island». Forse è vero, ammette Rousseau, nessun uomo è un’isola, ma un bambino può esserlo. «Del resto – conclude, non senza malinconia – affrettiamoci a stabilirlo in quest’isola, finché vi limita la sua felicità, giacché si avvicina il giorno in cui […] non vorrà più viverci solo, e in cui il Venerdì, che ora non lo commuove punto, non gli basterà a lungo»21. Fra i libri possibili per la formazione di Émile viene scelto proprio quello che, più di tutti, simboleggia l’attitudine coloniale europea. Émile che, nel rapporto col suo maestro, somiglia più a Venerdì che non a Robinson, si prepara a replicare questa dialettica nella sua vita futura, pronto a dismettere i panni dell’allievo/colonizzato per assumere quelli del master/colonizzatore. Rousseau, per definire l’infanzia 19 In numerosi passi Rousseau non esita a dire «Io odio i libri» (cfr. ibid., pp. 121 e 160) e, per affermare il tentativo di una pedagogia nuova, capace di esulare dai libri stessi, egli decide di scriverne un altro! Questa antinomia è tipica non solo di Rousseau, ma, come vedremo in seguito, anche di Malouf. Ed è un cortocircuito inevitabile in testi che pongono, fra i loro temi, quello del linguaggio, della sua contagiosa imperfezione e della sua non-innocenza. 20 Ibid., p. 162. 21 Ibid.
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del suo allievo, non trova miglior paragone che quello con il bon sauvage, con Venerdì stesso, in definitiva. Ma, una volta cresciuto, il punto di riferimento diventa Crusoe. «L’europeo la cui esperienza solitaria su di un’isola caraibica lo costringe a ridiventare bambino, per ricreare e reinstaurare le forme e i valori della sua eredità culturale»22. Come evidenzia Randall, una tensione all’infanzia resta forte nell’uomo rousseauiano anche in età adulta, eppure lo stesso riferimento privilegiato per il suo processo di crescita durante l’adolescenza, il Robinson, mantiene sì i caratteri avventurosi di un’età giovanile, ma con uno spirito del tutto diverso. Émile fanciullo è come il selvaggio, come Venerdì: vive con la Natura un processo simbiotico, identificativo. Émile adolescente è come Robinson, che rientra in un più consapevole contatto con la natura, ma per meglio dominarla e trarne profitto. Anzi, non solo, sottolinea Randall, ma per replicare sulla sua piccola isola, nel suo piccolo nuovo mondo, tutti quegli insegnamenti e quegli atteggiamenti acquisiti nel vecchio mondo, cosiddetto civile. Victor, al contrario dell’allievo di Rousseau, non riuscirà mai a compiere questo passo, egli resterà sempre, se non altro a livello simbolico, un fanciullo selvaggio. Qui la giustapposizione di questi due termini deve essere colta in tutta la sua profondità. In una nota del suo Mémoire sur les premiers développements de Victor de l’Aveyron Itard scrive: «Se con l’espressione di “Selvaggio” si è inteso fino ad oggi l’uomo poco civile, si converrà che colui il quale non lo è in alcun modo merita a maggior ragione questa denominazione»23. L’aggettivo «selvaggio» non rimanda quindi al fatto che Victor abbia a lungo vissuto in una foresta, in una «selva», ma alla sua ipotetica prossimità con un noneuropeo. «Selvaggio» diventa, in questo caso, più un sostantivo da affiancare alla giovane età di Victor – fanciullo e selvaggio – piuttosto che una sua semplice qualità e anche agli occhi dello scienziato Itard si compie questa discutibile sovrapposizione tra fanciullezza e sauvagerie. L’obiettivo che egli si prefigge nel lavoro col suo allievo – questa volta l’uno e l’altro sono figure ben reali e storiche, non proiezioni delle teorie di Rousseau – è duplice. Da un lato pedagogico («impiega[re] per il suo sviluppo fisico e morale tutte le risorse delle […] conoscen22 Randall, Kipling’s Imperial Boy cit., p. 42: «The European whose solitary experience upon a Caribbean island obliges him to become as a child again, to recreate and reconstitute the forms and values of his cultural heritage». 23 Jean Marc Gaspard Itard, Memoria sui primi progressi di Victor dell’Aveyron, in Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron cit., p. 55.
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ze attuali») e dall’altro filosofico, non meno che cognitivo («determina[re] ciò che è e […] ded[urre] da ciò che gli manca la somma fino ad ora non calcolata delle conoscenze e delle idee che l’uomo deve alla sua educazione»24). Per quanto la testimonianza di Itard abbia un valore enorme e per quanto i suoi scritti abbiano avuto una grande eco in tutt’Europa, rendendolo famoso non meno dell’oggetto delle sue ricerche25, egli sente di avere fallito in entrambi gli scopi. Victor resta un fanciullo, non acquisisce un linguaggio appropriato e il suo mistero resta in gran parte irrisolto. A lui si può applicare quello che scrisse il giurista tedesco Anselm von Feuerbach al riguardo di Kaspar Hauser, un altro caso che, per certi aspetti, poteva ricordare quello del fanciullo dell’Aveyron. Avendo cominciato a vivere la sua infanzia quand’era già nella pubertà, per tutta la vita avrà un’età mentale inferiore a quella vera. In altre parole, lo sviluppo della psiche e quello del corpo, che di norma procedono di pari passo, in Kaspar si sono per così dire separati, ponendosi l’uno in conflitto con l’altro. L’infanzia perduta […] lo seguirà fin negli ultimi anni sempre fuori tempo, e proprio per questo non come un genio sorridente, bensì come uno spettro inquietante26.
Anche Victor era, agli occhi dei suoi contemporanei, uno «spettro inquietante». Accolto non come un essere umano, ma come la possibile chiave di un mistero, venne salutato dalle «speranze più brillanti e meno fondate»27, per essere poi bollato come un idiota non appena si scoprì che egli non poteva corrispondere al mito di homme naturel sognato da Rousseau. Si preferiva mantenere vivo, senza alcun fondamento, questo stesso mito, piuttosto che accettarne la confutazione incarnata da Victor. Non a caso, quando il giovane Itard comincia ad occuparsi della questione, suo primo compito è dimostrare che il povero ragazzo non sia stato abbandonato in quanto subnormale, ma che sia diventato così come lo vedevano proprio perché era stato abbandonato. E non a caso 24
Ibid., p. 53 Dopo la pubblicazione del suo Mémoire gli verrà offerto dallo zar Alessandro I un incarico di grande prestigio a Pietroburgo, ma Itard declinerà l’offerta (cfr. Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 45). 26 Anselm von Feuerbach, Kaspar Hauser, tr. it. R. Sarchielli e R. Carpinella Guarneri, Adelphi, Milano 1998, p. 54. 27 Itard, Memoria sui primi progressi di Victor dell’Aveyron, in Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 55. 25
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il nome di Rousseau non figura mai negli scritti di questo studioso, mentre vengono citati Buffon, Locke e Condillac. Il silenzio a riguardo è assordante e Itard si limita a chiamare in causa il philosophe senza mai citarlo. «L’uomo è inferiore a un gran numero di animali nel puro “stato di natura”: uno stato di nullità che qualcuno ha senza fondamento rivestito coi colori più seducenti»28. [enfasi mia] Itard comprende che l’ostacolo più difficile da superare nel far accettare le condizioni del suo allievo è rappresentato dalle teorie del filosofo ginevrino, così come la più chiara antitesi dello sviluppo di Émile è rappresentata da Victor. Se le premesse che stanno alla base delle loro rispettive educazioni – un’infanzia libera, spensierata e solitaria nel caso di Émile, mentre è completamente isolata, in quello di Victor – sono in qualche modo paragonabili, la parabola dei loro successivi sviluppi è opposta. Se uno è destinato a seguire il modello di Robinson l’altro non può che restare Venerdì. Itard, al contrario di Rousseau, è un dichiarato anti-innatista e giunge alla conclusione che l’uomo è determinato dal suo essere sociale. La società in cui vive, però, rifiuta il suo assunto e Victor diventa, per essa, una specie di rimosso. Deve venire rimosso e rifiutato un essere umano che, impossibilitato all’imitazione, considerata da Itard la principale leva dell’apprendimento, piuttosto che migliorare, come sosteneva Rousseau, perché liberato dalla malattia della società, abbia finito col perdere tutte le caratteristiche che distinguono l’umano dall’animale e, viene da aggiungere, l’europeo dal non-europeo. Se i «selvaggi» dei Caraibi avevano costituito fino allora il paradigma di homme naturel era quanto meno oltraggioso scoprire che l’incarnazione locale di questo mito corrispondeva non a un tale nobile stato, ma a un essere ripugnante. Victor occupa, nella coscienza francese d’inizio secolo, lo stesso ruolo che, nell’Inghilterra vittoriana, toccherà a Mister Hyde. Tolta la maschera delle buone maniere non resta che un volto grottesco e, posta di fronte allo specchio, la società francese, fa come Victor: non si riconosce. Ecco allora che Victor svolge, nei confronti di questa stessa società, un ruolo perturbante. È degno di attenzione in proposito quello che Itard scrive o, per meglio dire, accenna circa la sessualità del suo giovane allievo. Nel momento in cui egli entra nella pubertà, scrive lo scienziato, si può osservare come la sua manifestazione esplosiva «getti molti dubbi sulla origine di certi affetti che noi consideriamo come 28
Ibid., p. 99.
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assai “naturali”». Ma, continua, è opportuno non affrettare conclusioni «tendenti a distruggere dei pregiudizi forse rispettabili, nonché le illusioni più dolci e consolanti della vita sociale»29. La rimozione di Victor finisce così con l’essere la rimozione di un corpo. La rimozione del corpo. La sua parabola ricorda da vicino anche quella di un altro personaggio dell’epoca vittoriana, John Merrick, l’Uomo Elefante che, nel suo corpo straziato dalla neurofibromatosi ossea, incarnava un’inquietante unione del mondo animale e di quello umano e, in una cultura che negava la sessualità, si affermava come creatura dotata di una fisicità tanto deforme e prorompente da non poter essere occultata. Dopo essere stato, per breve tempo, l’oggetto della più accesa curiosità scientifica e popolare, Victor che, come l’Elephant Man, era stato trasformato tanto in fenomeno da baraccone quanto in fenomeno clinico, verrà completamente ignorato e la mesta apertura apposta da Itard al Rapport sur les nouveaux développements de Victor de l’Aveyron, redatto cinque anni dopo il Mémoire per difendere i fondi dati alla sua ricerca, offre pienamente l’idea di questo senso di abbandono. «Parlarvi del selvaggio dell’Aveyron significa pronunciare un nome che oggi non ispira più alcuna sorta di interesse»30. Il tema della sessualità di Victor viene, come si diceva, soltanto sfiorato nei due scritti lasciatici da Itard, ma si evince comunque che il suo sviluppo resta in qualche modo incompiuto e non si proietta verso un’altra persona se non in modo confuso e contraddittorio. In realtà proprio questa incompiutezza ratifica l’impossibilità di Victor a diventare adulto. Soprattutto in questo e per questo egli resta un puer aeternus. Anche in Kipling la sessualità, il rapporto con l’altro sesso, è l’istmo che collega l’isola-infanzia al continente della maturità. In ciò è emblematico il suo racconto The Brushwood Boy dove il protagonista, fino a quando non conosce donna, è ossessionato e affascinato da un sogno ricorrente in cui egli esplora un’inquietante isola notturna avvertendo la presenza di qualcuno che, come lui, vive quel sogno. Egli infine incontrerà questo qualcuno sotto le spoglie della sua promessa, la quale possiede l’altra metà del sogno. Le due parti dell’isola si uniscono e si completano, componendo una terraferma. L’isola è sfumata, l’infanzia è finita nel preciso momento in cui comincia l’esplorazione di un corpo 29
Ibid., p. 100. Itard, Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’Aveyron, in Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 101. 30
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altro. L’infanzia non finirà per Victor ed egli rimarrà per sempre il solitario abitante della sua isola, l’unico in grado di contraddire l’affermazione di John Donne. L’identificazione della fanciullezza con le isole può vantare in letteratura, con particolare ma non esclusivo riferimento a quella inglese, una lunghissima serie di rimandi. Dall’isola di Prospero, in cui crescono Miranda e Caliban, alla Neverland di Peter Pan, da Defoe a Swift, dalla Treasure Island all’Isola di Arturo passando per Lord of the Flies. Quasi a indicare che proprio quell’età che più consideriamo soggetta a dipendenza nella vita, ne rappresenta invece il momento più libero e solitario. Ma le pulsioni prive di un oggetto di desiderio manifestate da Victor rivelano un’ulteriore incompiutezza, un ulteriore isolamento. Esse sono emblematiche di un altro sviluppo che gli risulta impossibile, quello verso il linguaggio. La sessualità diventa in Victor uno dei tanti linguaggi non acquisiti o, per dirla con Kipling, il linguaggio che gli impedisce l’acquisizione di altri linguaggi più propriamente intesi. Dei cinque obiettivi che si pone Itard (vita sociale, sensibilità nervosa, idee, parola, spirito) è proprio il quarto a interrompere bruscamente i progressi di Victor e a segnare la prima grande sconfitta del suo pedagogo. Victor, infatti, non stabilisce il nesso simbolico tra l’oggetto e la parola che lo designa, tra significato e significante e si attesta invece su un ordine pre-simbolico. Seguendo un percorso esattamente opposto a quello rousseauiano, l’intenzione dello scienziato francese non è di limitare i bisogni del suo allievo, ma di ampliarli, cosicché egli sia costretto a cercare un linguaggio più complesso di quello di cui usualmente si serve e che Itard definisce «linguaggio d’azione»31. Tuttavia Victor non dirà mai la parola «latte» per chiedere di poterne bere, ma solo dopo averne bevuto. Così la parola pronunciata, in luogo d’essere il segno del bisogno, non era, relativamente al momento in cui era stata articolata, che una vana esclamazione di gioia. Se questa parola fosse uscita dalla sua bocca prima della concessione della cosa desiderata, il traguardo sarebbe stato raggiunto: Victor avrebbe finalmente afferrato il vero uso della parola; si sarebbe stabilito fra me e lui un 31 Itard, Memoria sui primi progressi di Victor dell’Aveyron, in Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 86. Per un’accurata descrizione degli esperimenti tentati con Victor nel campo del linguaggio v. pp. 76-87.
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mezzo di comunicazione, e da questo primo successo sarebbero derivati i più rapidi progressi. In luogo di tutto questo non avevo ottenuto che un’espressione, insignificante per lui e inutile per noi, del piacere che provava32.
Accompagnato Victor fin sulla soglia della parola/simbolo più che inevitabile è inesorabile ora il ricorso alle teorie di Jacques Lacan. Lo psicanalista francese divide in tre fasi lo sviluppo dell’essere umano: l’Immaginario, il Simbolico e il Reale. La prima di queste tre fasi, che è una fase pre-edipica e pre-linguistica, è quella in cui è limitato l’orizzonte di Victor. Egli manca infatti, o vive con pesante ritardo, i due momenti che, secondo Lacan, sanciscono il passaggio dalla fase dell’Immaginario a quella del Simbolico, ovvero lo stadio dello specchio e quella in cui viene appreso il «Nome-del-Padre». Itard non ci racconta di Victor di fronte allo specchio, mentre indulge nell’informarci circa la percezione del mondo che ha il suo allievo. In compenso è quasi scontato che sia l’Itard impersonato da Truffaut, nel suo film, a porre il ragazzo selvaggio di fronte alla propria immagine. Qui Victor comprende di trovarsi davanti al suo riflesso solo nel momento in cui il medico pone accanto a lui una mela che il ragazzo cerca inutilmente di afferrare fino a quando non si volge alla mela reale. Lo stadio infans, quello a cui per lungo tempo è fermo Victor, è definito da Lacan «una fase primordiale» che si attua «prima di oggettivarsi nella dialettica dell’identificazione con l’altro, e prima che il linguaggio gli restituisca nell’universale la sua funzione di soggetto»33. E lo stadio dello specchio costituisce proprio quel processo di trasformazione che si attua in un soggetto quando acquisisce un’immagine di sé necessaria all’elaborazione dell’immagine dell’altro. «L’immagine speculare sembra essere la soglia del mondo visibile»34 e l’assunzione di una imago del proprio corpo è imprescindibile non solo per varcare quella soglia, ma anche per collocare se stessi all’interno di quel mondo. Non solo: questa fase rappresenta infatti un momento difficile e doloroso che incontreremo, seppur con diverse modalità, sia nelle opere di Kipling che in quelle di Malouf. Questo è infatti il momento della percezione del sé come separato rispetto al mondo e agli altri. L’acquisizione di un’individualità passa attraverso la percezione di una frattura che non è ricomponibile se non con la morte stessa dell’individuo. 32
Ibid., p. 82. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Id., Scritti, 2 voll., a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 88. 34 Ibid., p. 89. 33
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Lacan fa riferimento a vari esperimenti condotti su animali per dimostrare come, pur in condizioni di isolamento, sia sufficiente uno specchio perché si determinino alcuni sviluppi senza il quale sarebbero impensabili. Per compromettere il normale sviluppo di Victor non è stata determinante solo la privazione della presenza degli altri, ma, in un certo senso, la privazione della sua stessa immagine. Questa può essere, in parte, la spiegazione del fallimento di Itard. Quello che Lacan chiama «il viraggio dell’io speculare in io sociale»35 non è possibile in Victor perché egli non può identificarsi nell’altro avendo mancato di riconoscere se stesso. Ciò ha molto a che fare anche con la sua impossibilità di stabilire un rapporto simbolico tra la parola «latte» e il bianco liquido che lo nutre e disseta. Il rifiuto o l’impossibilità di aderire al linguaggio e quindi all’Ordine Simbolico sono determinati, anche secondo lo psicanalista francese, da quella che egli chiama la preclusione al Nome-del-Padre. Victor non ha padre e, se per lui Itard può rappresentare una simile figura, egli giunge comunque troppo tardi. Questa preclusione comporta l’impossibilità all’accesso della fase del Simbolico e quindi l’impossibilità non solo a servirsi del linguaggio stesso, ma a comprenderne il senso. Questo è il punto nodale, la chiave di volta più oscura e significativa del ruolo occupato dai feral children e, in esso, è possibile cogliere più profondamente le diverse intonazioni che gli autori servitisi di queste figure hanno voluto dare loro. Introducendo questo capitolo ci eravamo rifatti ai tre punti essenziali evidenziati da Moravia nella vicenda di Victor e nel ruolo che egli giocò nel contesto tardo-illuministico. Se la relazione instaurata da Rousseau e, in parte, da Itard tra i ragazzi selvaggi e i selvaggi stessi rimanda al rapporto con l’Altro e quindi con le Colonie, il rapporto con il linguaggio e con l’Ordine Simbolico rimanda al Sé, alla coscienza europea, all’Impero e alla sua stessa funzione. Questo è evidente nel diverso rapporto che Mowgli e Kim, da un lato, e i ragazzi selvaggi di Malouf, dall’altro, instaurano con il linguaggio e, più specificamente, con il linguaggio dei colonizzatori, il linguaggio dei «padri». Kipling tocca questo tema in modo tanto significativo quanto superficiale. La conoscenza dei linguaggi di ciascuna specie animale è la fonte della salvezza e dell’autorità di Mowgli nella giungla, mentre l’apprendistato della lingua dei suoi stessi simili è assolutamente e volutamente riduttivo e irreale. Quando Mowgli rientra per la prima 35
Ibid., p. 92.
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volta al villaggio, viene sottoposto a un corso intensivo da Messua, sua madre di sangue, e «così appena Messua pronunziava una parola, Mowgli riusciva ad imitarla quasi perfettamente, e prima di notte aveva imparato il nome di molte cose nella capanna»36. D’altra parte Kipling è categorico nel sottolineare la necessità di imparare il linguaggio degli umani: «Che vale essere uomo – disse fra sé finalmente – se non si capisce il linguaggio degli uomini?»37 Per Mowgli, tuttavia, se l’ordine pre-simbolico può essere costituito dalla sua vita libera e selvaggia nella giungla, l’Ordine Simbolico non corrisponde tanto alla monotona vita nel villaggio quanto all’impero britannico, garante della legalità nell’altrimenti ingovernabile subcontinente38. In Kipling l’Impero è l’Ordine Simbolico supremo di fronte al quale ogni altra istanza si piega. La stessa domanda che Mowgli si pone – e viene da chiedersi in quale linguaggio essa venga articolata nel suo pensiero – se la deve essere posta, in uno slancio confuso e inesprimibile, anche Victor: «che vale essere uomo se non si capisce il linguaggio degli uomini?» Strappato alla natura, dove non aveva che pochi bisogni da soddisfare, egli è ora pieno di bisogni che non capisce e a cui non sa rispondere. Nell’iniziare il suo lavoro col giovane allievo, Itard lo sottopone a una serie di attività volte a sottrarlo al suo iniziale stato di insensibilità. I frequenti bagni caldi, le frizioni corporali, i vestiti hanno fatto nascere in lui la necessità di coprirsi, hanno reso il suo corpo sensibile al caldo e al freddo, ma, allo stesso tempo, come aveva previsto Rousseau, le prime manifestazioni di questo suo diventare umano, sono manifestazioni di debolezza: la malattia – un comune raffreddore –, il singhiozzo, il pianto. Nel creare questi nuovi bisogni Itard ha dovuto distruggere quello che c’era prima, senza cogliere che il giovane sauvage non era una tabula rasa, un foglio bianco su cui iniziare a scrivere. L’educazione di Vic36 Rudyard Kipling, The Jungle Books, Penguin Books, London 1994, p. 58: «as soon as [she] pronounced a word Mowgli would imitate it almost perfectly, and before dark he had learned the name of many things in the hut»; tr. it. U. Pittola, Il libro della Jungla, Mursia, Milano 1974, p. 86. 37 Kipling, The Jungle Books cit.: «What is the good of a man – he said to himself at last, – if he does not understand man’s speak?»; tr. it. cit., p. 86. È degno di rilievo il fatto che Mowgli non si lamenti tanto di non conoscere il linguaggio umano – nel qual caso direbbe human – ma proprio quello maschile. 38 In proposito sono rivelatori l’episodio dei Second Jungle Books intitolato Letting in the Jungle e il racconto In the Rukh, che rappresenta il nucleo originario dei racconti su Mowgli, apparso nella raccolta Many Inventions del 1893 di cui avremo modo di trattare più diffusamente in seguito.
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tor viene impostata, secondo un modello tipicamente coloniale, non solo e non tanto come trasmissione, ma come «smantellamento di determinati bisogni e di determinate abitudini legate alla vita “naturale” precedente e come instaurazione di bisogni ed abitudini connesse con la nuova vita “sociale”»39. Il ragazzo selvaggio non esiste più, ora egli ha un nome e la misteriosa possibilità che egli testimoniava è perduta per sempre. Anche Itard coglie tutta la malinconia di questa perdita fino a confessare, nel suo Rapport: «quanto mi è rincresciuto di aver conosciuto questo ragazzo e quanto ho condannato la sterile e disumana curiosità degli uomini che per primi lo strapparono a una vita innocente e felice!»40 In questo senso Victor, pur incarnando la figura di uno sconfitto, o meglio, proprio in quanto il suo è il destino di un loser, può essere presentato come un resistente. Uno che rifiuta non solo l’Ordine Simbolico del linguaggio, ma che svela la natura ambigua del linguaggio stesso e della sua non innocente rappresentazione. In termini di critica e di narrativa postcoloniale ecco che la figura del ragazzo selvaggio diventa quella del fool che dice la verità e lo fa non tanto irridendo il potere, quanto rifiutando di usare il suo stesso linguaggio. Non solo l’enorme differenza che separa Émile da Victor rappresenta il margine fra il sogno illuminista e l’impatto che questo sogno ebbe con la realtà storica, all’infrangersi di miti come quello dell’homme naturel e del Bon Sauvage, ma può, fin da subito, rappresentare anche la distanza esistente tra l’Imperial Boy sognato da Kipling e il Postcolonial Boy – ci si passi questa definizione in mancanza di meglio – descritto da Malouf. Laddove l’uno si identifica con Émile, il quale abbraccia la Natura per dominarla, vero signore di essa e del proprio destino, l’altro trova in Victor una sua perfetta premessa. Victor che non è padrone della Natura, ma ne è parte, che a quel mondo è strappato, venendo così privato per sempre della sua libertà e ridotto allo stato di dipendenza. Eppure, proprio per questa sua qualità di individuo a cui è stato negato di proseguire un’infanzia felice e indipendente, egli, ben più dell’allievo di Rousseau, rappresenta l’archetipo del fanciullo in quello che potremmo definire come il secolo-bambino, l’Ottocento. Giustamente Egle Becchi scrive come lo studio che Itard dedica a Victor inauguri una lunga serie di ritratti infantili tipici del XIX secolo in cui figu39
Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 19 (enfasi mia). Itard, Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’Aveyron in Moravia, Il ragazzo selvaggio cit., p. 108 40
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rano i nomi di David Copperfield, Mowgli, Peter Pan e molti altri ancora41. Non solo Victor dà inizio a questa progenie, ma in qualche modo la determina anche, diventandone l’archetipo. Nella galleria di questi ritratti ottocenteschi, infatti, la maggior parte condivide un carattere che li accomuna al ragazzo selvaggio e li allontana da Émile. Sono quasi sempre personaggi che, alla fine dei libri di cui sono protagonisti, vivono la loro crescita, l’acquisizione di una raggiunta maturità, come un esilio dalla loro stessa infanzia, a cui essi guardano con struggimento, come Pinocchio guarda, una volta cresciuto, al simulacro della sua passata fanciullezza: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino…». Victor muore a quarant’anni senza mai essere riuscito a diventare veramente un uomo tanto che, a distanza di duecento anni egli resta ancora, per noi, il Ragazzo Selvaggio dell’Aveyron. Non solo Émile diventerà, invece, un uomo, ma tutta la sua educazione viene vissuta come un presente necessario e funzionale al suo futuro destino. La grandezza di Kipling sta in quello strazio che egli sa cogliere tra l’una e l’altra figura, tra il giovane che, sulla soglia della maturità è volto al passato e quello che è proteso verso il futuro, e nella necessità che egli sente imperiosa – e imperiale – di soffocare l’una perché l’altra possa crescere, estendersi e dominare. La grandezza di Malouf sta nel saper raccontare il ragazzo selvaggio come una possibilità che l’Australia, come altri paesi postcoloniali, ha avuto di reinventarsi e di ripartire da capo, ma che non ha saputo raccogliere. * Nel citare la stirpe letteraria di cui Victor si colloca come ideale capostipite («David Copperfield-Mowgli-Peter Pan») balza immediatamente agli occhi come questa triade, da me assemblata con frettolosa casualità, sia tutta inglese. Ma anche volendo stabilire una genealogia più meditata i nomi non britannici di questa immaginaria parentela sarebbero pochi. Come la riflessione pedagogica era stata, durante il XVIII secolo, eminentemente francese, il discorso sul fanciullo nel XIX secolo è tutto inglese. E ciò ha origine da un elemento che è tanto causa quanto conseguenza della sua stessa Englishness. Infatti la Gran Bretagna si afferma, nel corso di questo secolo, come la potenza coloniale per eccellen41 Cfr. Egle Becchi, L’Ottocento, in E. Becchi e D. Julia (a cura di), Storia dell’Infanzia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1996, vol. II, Dal Settecento a oggi, pp. 132-133.
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za e, così facendo, accresce le sue risorse, le quali garantiscono un decremento della mortalità infantile e, nel contempo, offrono a tale inatteso numero di giovani, indispensabili al mantenimento di questo impero, un insperato sbocco umano e professionale, un orizzonte più ampio degli angusti limiti della propria patria. Al di là di una mera concatenazione di eventi, che sembrano quasi autogenerarsi tanto immediato è il loro meccanismo, il discorso imperiale, in special modo quello britannico, è inestricabilmente legato all’infanzia anche sotto un profilo simbolico – come afferma Joseph Bristow, il cui contributo si è rivelato fondamentale per questa parte del nostro lavoro, «il fanciullo è un selvaggio nel cuore di un’istituzione civilizzata»42 – e connesso anche alla nostra precedente analisi delle figure di Émile e Victor. Non solo perché il discorso teorico che li riguarda rappresenta un elemento fondante la successiva riflessione pedagogica, ma perché il dualismo che si attua fra questi personaggi appartiene anche alla società inglese. L’Inghilterra di metà Ottocento è spinta, nel suo frenetico processo evolutivo, da una serie di dicotomie che sono tanto sociali quanto culturali. E sono dualismi che si innescano su un antagonismo, già descritto da D.C. Coleman nel suo saggio Gentleman and Players43, fra l’aristocrazia, la quale propone un modello educativo che ha come cardini il fair play, lo spirito di classe e di squadra e un elevato senso del decoro e, dall’altra parte, i valori caratterizzanti le emergenti classi borghesi, ovvero un forte senso della competitività, uno spirito individualista e una volontà ostinata nel perseguire i propri obiettivi. Il confronto, anzi, lo scontro fra questi due modelli produrrà una sintesi nuova, un modello maschile inedito che sarà il prototipo perfetto dell’Imperial Boy e dell’homo britannicus vittoriano. Un modello che non sarà esente da ulteriori influenze, come quelle apportate dalle classi sociali più povere. Ovviamente sia l’aristocrazia che la borghesia avvertivano come un mondo del tutto estraneo quello composto dalla working-class e dal sottoproletariato. Anzi, questa vasta parte del paese veniva in qualche modo associata al volto più deteriore dell’Impero, quello dei selvaggi che ne popolavano le regioni più remote. In questo senso è sintomatico ciò che scriverà nel 1890 il «Generale» William Booth, fondatore dell’Esercito della Salvezza: 42 Joseph Bristow, Empire Boys: Adventures in a Man’s World, HarperCollinsAcademic, London 1991, p. 74: «[the boy] is a savage in the midst of a civilized institution». 43 Cfr. Donald Cuthbert Coleman, Gentleman and Players, «Economic History Review», 26, 1973, pp. 92-116.
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Come esiste un’Africa tenebrosa, non esiste forse un’Inghilterra altrettanto tenebrosa? La civiltà, che genera in sé i suoi stessi barbari, non produce forse anche i suoi stessi pigmei? Non è possibile quindi paragonare questa situazione a ciò che avviene presso di noi, scoprendo così che, non lontano dalle nostre cattedrali e dai nostri edifici, esiste un orrore simile a quello che Stanley ha sperimentato nella grande foresta equatoriale? […] Come in Africa, dove non vi è nient’altro di concepibile che alberi e alberi e alberi, così è qui: ogni cosa è pervasa dal vizio e dalla povertà e dal crimine44.
In special modo preoccupava il destino che sarebbe toccato in sorte ai figli di questi settori sociali e si guardava con ansia non solo al mondo dei giovanissimi lavoratori, i quali continuavano ad essere la maggioranza, ma anche a quel folto sottobosco malavitoso di street gang i cui componenti sarebbero stati ribattezzati, nell’estate del 1898, con un nome ancor oggi popolare, anche se associato ad altro genere di violenza, quello di hooligans, epiteto la cui etimologia viene fatta risalire a uno spettacolo di successo tenuto da una compagnia irlandese. È significativo che questi infelici figli della patria, i quali rappresentavano un fenomeno tipico dell’Ottocento inglese, fossero invece identificati con realtà estranee, da un lato facendo riferimento alle popolazioni più selvagge dell’Impero e dall’altro ricorrendo a un vocabolo irlandese. La considerazione ottenuta da questi fenomeni di devianza e il timore dell’estendersi di una incontrollabile piaga sociale spinse a prendere provvedimenti che miravano alla diffusione di alcuni dei benefici ottenuti dalle classi più agiate, in special modo per quanto riguarda l’educazione di base. Questo tema era particolarmente caro allo schieramento liberale, le cui fila accoglievano la gran parte dei pedagogisti. Il Forster’s Act, il primo provvedimento ufficiale mirato a un allargamento dell’educazione pubblica coerentemente organizzata, fu infatti promulgato nel 1870, durante il primo governo Gladstone. In esso si ponevano in evidenza i tre elementi chiave su cui fondare que44 General William Booth, In Darkest England and the Way Out, Garrett Press, New York 1970, pp. 11-12: «As there is a darkest Africa is there not also a darkest England? Civilization, which can breed its own barbarians, does it not also its own pygmies? May we not find a parallel at our own doors, and discover within a stone’s throw of our cathedrals and palaces similar horror to those which Stanley had found existing in the great Equatorial forest? […] As in Africa, it is all trees, trees, trees with no other world conceivable; so it is here – it is all vice and poverty and crime».
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sta istruzione di massa, sintetizzati nell’espressione «3Rs» (reading, ’riting, ’rithmetic). Il successo di questa e di seguenti iniziative comportò non solo la laicizzazione dell’insegnamento in Gran Bretagna, ma anche un notevole tasso di alfabetizzazione, tanto più se paragonato alle altre realtà europee. Secondo statistiche pubblicate nel 1900 il 97,2% degli uomini inglesi era in grado di leggere e scrivere, mentre, per quanto riguarda le donne, la cifra si abbassava a un pur ragguardevole 73,2%45. Questo allargamento dei saperi scolastici basilari rivela in pieno l’impostazione liberale che era al suo fondamento, in cui si attribuiva uno scenario di privazione e violenza non a una distribuzione economica iniqua, frutto di un sistema capitalistico che su di essa si sostentava, ma all’ignoranza e all’immoralità considerate endemiche delle classi popolari. Perciò lo scopo più recondito del Forster’s Act non era tanto quello di diffondere saperi di base, ma, attraverso la diffusione di quegli stessi saperi, imporre un modello sociale borghese del tutto estraneo a quello della working-class46. La working-class inglese veniva così sottoposta ad un trattamento non dissimile da quello a cui era stato soggetto Victor, del quale era stata ignorata la natura più vera per dedicarsi invece a un esperimento cognitivistico. È sorprendente notare come, negli scritti dell’epoca e nei numerosi studi che ne sono stati fatti, il rapporto instaurato dalle classi sociali medio-alte nei riguardi di quelle più povere sia considerato in tutto e per tutto simile a un rapporto docente-discente: la società benestante guarda a quella più povera come si guarda a un ragazzino ribelle. Questo atteggiamento, in realtà, nascondeva due diversi stati d’animo. Da un lato la coscienza della propria superiorità, del proprio porsi come modello da imitare, dall’altro il timore nei confronti di qualcosa di pericoloso, di diverso e incontrollabile che sempre l’infanzia, stadio umano perturbante per eccellenza, suscita. Nei confronti di queste classi sociali si instaura poi, come abbiamo già potuto notare nell’ansioso sermone del Generale Booth, quello stesso riferimento che era stato associato all’infanzia di Victor e di Émile, ovvero il rapporto con i selvaggi. Si innesca così una triade tanto eterogenea quanto inquietante: Infanzia-Proletariato-Selvaggi. 45 Cfr. Richard D. Altick, The English Common Reader: A Social History of the MassReading Public, 1800-1900, University of Chicago Press, Chicago 1957, p. 171. 46 Cfr. Stephen Humphries, Hooligans or Rebels? An Oral History of Working-Class Childhood and Youth, 1889-1939, Basil Blackwell, Oxford 1981, p. 31.
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Solo in un secondo momento i Liberali si resero conto quanto il loro «dono» alle classi subalterne fosse stato azzardato. Nei primi programmi scolastici la lettura veniva vista come un atto meramente utilitaristico e gli aspetti più piacevoli di questa attività venivano lasciati a una sfera d’interesse del tutto personale. Le letture scelte dai giovani proletari inglesi sembravano però confermare la pessima opinione che i Liberali avevano delle classi più umili e, allo stesso tempo, sembravano sancire il fallimento del tentativo di formare in esse una sensibilità borghese. Le loro letture preferite erano infatti i penny dreadfuls, un genere di narrativa particolarmente truculento e granguignolesco che trovava il suo più diretto antenato nel Gothic Romance. Per quanto fosse un prodotto letterario già diffuso a partire dagli anni ’30 dell’Ottocento esso cominciò ad essere definito con questo sprezzante epiteto solo a partire dal 1860 e, come sempre avviene, proprio le definizioni più insultanti risultano le più efficaci. L’espressione «penny dreadful» sintetizzava perfettamente il basso costo delle opere in questione, nonché il loro scarso valore artistico, e il gusto sanguinolento delle storie che vi venivano raccontate, i cui titoli sono sufficienti a offrirne un’idea: The Blue Dwarf, The Pirates of the Thames o Varney the Vampire or The Feast of Blood. Proprio lo strumento principe per emendarsi da una condizione umana e sociale ai limiti della legalità offriva, a giovani menti avide di avventura, dei modelli del tutto opposti a quelli che si sarebbero voluti imporre loro. Pirati, malviventi, romantici banditi, fascinosi vampiri e altre creature della notte affollavano però non solo l’immaginario dei lettori più indigenti, ma anche quelle dei giovani borghesi. Queste pubblicazioni seriali a basso costo venivano stampate, infatti, a tirature da capogiro, ed erano rese particolarmente seducenti dai nuovi ritrovati tipografici in grado di arricchire le storie con immagini di indubbia potenza evocativa. Il dibattito intorno ai penny dreadfuls, a cui veniva imputato di alimentare la criminalità giovanile, fu estremamente acceso a testimonianza del fatto che questo era un argomento percepito come tutt’altro che periferico nella discussione pedagogica e letteraria in corso in quel tempo. Si realizzava l’opposto di quanto si erano aspettati i Liberali. Piuttosto che diffondere, tramite l’alfabetizzazione, anche ai livelli sociali più bassi un diverso stile di vita, la passione per i penny dreadfuls aveva oltrepassato i rigidi steccati sociali contaminando i figli della buona borghesia. Per sdrammatizzare quella che appariva come una situazione assai fosca, se proiettata nel futuro della nazione, qualcuno disse che
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l’amore per questo mirabolante genere di narrativa era un po’ come il morbillo, prima o poi tutti i bambini ne andavano soggetti, ma, di solito, se ne guariva47. Partendo da questo presupposto e dall’idea che l’infanzia fosse uno stadio dell’umanità dotato di caratteri universali e quindi in grado di oltrepassare divisioni di razza e di classe altrimenti invalicabili, si giunse, in quella che era diventata una nuova «battle of the books», ad un compromesso più o meno accettato, un compromesso che, in ogni caso, venne salutato con entusiasmo. A partire dal 1866 e poi, con rinnovato slancio, dal 1880, si cominciarono a diffondere riviste indirizzate ai ragazzi di tono più rispettabile, riviste le cui storie, pubblicate a puntate, attingevano dai penny dreadfuls uno spirito avventuroso enfatizzando però gli aspetti imperiali di queste stesse avventure. La maggior parte di tali storie erano infatti ambientate nelle più esotiche propaggini conquistate e amministrate dall’Impero britannico e si può così dire che questo stesso genere procedeva di pari passo con l’inarrestabile avanzata dell’espansionismo inglese. L’esperienza coloniale diventava, agli occhi dei più giovani figli della patria, non solo qualcosa di inerente allo scacchiere politico internazionale, e quindi qualcosa che riguardava «il mondo degli adulti», ma una specie di grande avventura, un grande gioco che si preparava perché anche loro potessero prendervi parte. Ed è tanto più significativo notare come essi fossero sia il destinatario che il soggetto di queste pubblicazioni. Da un lato, infatti, non erano che semplici lettori, ma, dall’altro, i protagonisti di queste storie erano per lo più ragazzi della loro stessa età, o poco più grandi, offrendo così a questi «semplici lettori» un sicuro mezzo di identificazione. La gioventù britannica non era solo spettatrice del discorso imperiale, ma ne diventava il primo attore. La morale ultima di queste riviste era che ciò che risultava illegittimo ai fini personali, come avveniva per i banditi protagonisti dei penny dreadfuls, diventava, se quello stesso spirito d’avventura era messo al servizio non della propria cupidigia, ma a maggior gloria dell’Impero, degno non solo di rispetto, ma di ammirazione. Non sorprende così osservare che l’ascesa di queste pubblicazioni coincise con quella della politica conservatrice e della sua identificazione dello spirito patriottico con quello imperiale e imperialista. 47 Cfr. William Thomas Stead, A Plea for the Revival of Reading, Stead Publishing House, London 1906, pp. 75-76.
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La prima rivista a traghettare i contenuti avventurosi dei fogli da un penny verso una forma più rispettabile fu probabilmente Boys of England, una delle numerose creature dell’editore Edwin Brett, la quale, fondata nel 1866, protrasse le sue pubblicazioni per ben trentatré anni. Ma il primato di longevità spetta indubbiamente alla rivista più importante del settore, Boy’s Own Paper, più conosciuta con l’acrostico di B.O.P., fondata, per volere della Religious Tract Society, nel 1879, le cui uscite continuarono ininterrottamente addirittura fino al 1967. La proposta che offriva era una mediazione fra ciò che i ragazzi volevano leggere, ciò che i loro insegnanti e genitori avrebbero voluto che leggessero e ciò che degli editori di ispirazione cristiana si sentivano autorizzati a pubblicare. In realtà l’elemento unificante che traspariva dalle sue pagine era proprio l’Impero. Come, a partire dalla metà del secolo, un’altra istituzione religiosa, le Sunday Schools, aveva dato un contributo fondamentale alla definizione dell’impresa imperiale britannica quale missione civilizzatrice, così questa rivista e la società che la pubblicava diedero un contributo altrettanto fondamentale alla creazione di un nuovo modello maschile, votato all’avventura, alla vita pratica e all’aria aperta, alle imprese rudi e sportive. Ed era un modello che traeva materia tanto dall’immagine del bravo ragazzo cristiano quanto da quello del pirata per arrivare ad una sintesi, assai proficua ai fini del dominio imperiale, che fu definita muscular Christianity. Per cogliere più pienamente il nuovo modello di ragazzo e quindi di uomo che usciva da una simile situazione sociale e culturale non sarà inopportuno rifarsi al più famoso romanzo d’avventura che sia mai stato scritto, un romanzo che, non a caso, è il frutto di questa stessa civiltà e di questa stessa epoca: Treasure Island di Robert Louis Stevenson. Quest’opera fu pubblicata in volume nel 1883, ma apparve a puntate due anni prima su uno dei tanti magazine per ragazzi dell’epoca, lo Young Folks. La caccia al tesoro inscenata da Stevenson nasconde in realtà un’ulteriore ricerca per Jim Hawkins, il suo giovane protagonista: quella di una figura paterna. Orfano di padre, egli è sotto l’influenza di due opposti esempi: da un lato i virtuous characters, dall’altro i villains. Anzi, «il» villain. È infatti interessante notare come per i buoni siano offerti diversi modelli a cui ispirarsi: il Capitano Smollett, il Dottor Livesey e il Conte Trelawney, significativamente esponenti dei tre destini possibili a un gentiluomo inglese: la vita militare, una carriera professionale borghese e l’aristocrazia terriera. Ma sono possibilità che, agli occhi di Jim e a quelli del lettore, risultano ben poco soddisfacenti, mentre per i cattivi, i gentlemen o’ fortune, come li chiama
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Stevenson, esiste una sola via, quella mostrata da Long John Silver, uno dei personaggi più memorabili non solo nel libro, ma di tutta la storia della letteratura. Nella più famosa delle sue Fables, Stevenson fa incontrare Silver e Smollett alla fine del 32° capitolo del romanzo, prima che la vicenda si avvii alla conclusione, per fumare insieme la pipa in uno spazio bianco non lontano dalla storia e in questo delizioso siparietto di gusto postmoderno, il pirata, nel suo improbabile inglese, afferma di essere il personaggio preferito dall’autore: Io so questo: se esiste una persona che è l’Autore, io sono il suo personaggio favorito. Riesce a far me mille volte meglio che non voi; mille volte, questa è la verità. E gli piace far me. Mi fa star sulla tolda la maggior parte del tempo, con la mia gruccia; e lascia voi a oziare nella stiva, dove nessuno vi può vedere, e non vuole che vi vedano, ci potete scommettere! Se c’è un Autore, tuoni e fulmini, prende le mie parti, e ci potete scommettere!48
Questo confronto tra un modello di uomo onesto, ma piatto e prevedibile, ed uno fascinoso, ma fosco ed individualista, costituisce la perfetta miscela per quello che sarà il maschio imperiale britannico, tanto fedele quanto capace d’iniziativa personale, di una proficua insubordinazione. In almeno due occasioni Jim Hawkins dimostra come la simpatia che lo lega a Silver abbia avuto su di lui più influenza di quanta sia disposto ad ammettere. La prima avviene quando, pur smascherato il fatto che la maggior parte dell’equipaggio sia composta da pirati pronti all’ammutinamento, egli preferisca unirsi a loro nell’esplorazione dell’isola piuttosto che rimanere con i più fidati membri della spedizione. Fu allora che mi balenò in mente la prima di quelle idee pazze che tanto contribuirono a salvarci la vita. […] Mi prese a un tratto la voglia di scendere a terra. Con la lestezza di un gatto scivolai giù dal bordo e mi acquattai a prua 48
Robert Louis Stevenson, The Persons of the Tale, in The Works of Robert Louis Stevenson, Skerryvore edition, William Heinemann, London 1924, vol. 7 (Fables), p. 298: «What I know is this: if there is sich a thing as a Author, I’, his favorite chara’ter. He does me fathoms better’n he does you – fathoms, he does. And he likes doing me. He keeps me on dock mostly all the time, crutch and all; and he leaves you measling in the hold where nobody can’t see you, nor wants to, and you may lay to that! If there is a Author, by thunder, but he’s on my side, and you may lay to it!»; tr. it. A. Camerino, I personaggi del racconto, in Romanzi, racconti e saggi, a cura di Attilio Brilli, Mondadori, Milano 1995, p. 1774.
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della scialuppa più vicina, che quasi subito si mosse. […] Ma Silver, dall’altra scialuppa, si voltò a guardare, e gettò una voce per sapere se ero io; e da quel momento io cominciai a pentirmi di ciò che avevo fatto49.
In realtà, non c’è bisogno di rammaricarsi di questa scelta tanto istintiva quanto proficua, perché, proprio grazie a questa fuga, Jim avrà la possibilità d’incontrare Ben Gunn, venire a conoscenza del fortino e portare i suoi compagni fuori dalla trappola mortale che si prepara per loro. La seconda felice colpa commessa da Jim avviene quando diserta il fortino, i cui abitanti sono momentaneamente al sicuro, ma in netta inferiorità numerica, per intraprendere un’altra esplorazione dell’isola, questa volta circumnavigandone la costa con la rudimentale canoa costruita da Ben Gunn. La costa appariva sgombra; io rapido come una saetta scavalcai lo steccato, tuffandomi nel folto degli alberi; e, prima che la mia assenza fosse avvertita, non ero già più a portata di voce dei miei compagni. E fu questa la mia seconda follia, peggiore assai della prima, posto che a guardia del fortino io non lasciavo che due soli uomini validi: ma come la prima contribuì alla comune salvezza50.
Proprio grazie a questa «second folly», Jim riuscirà a riconquistare la nave. Pur facendosi forte di uno spirito d’avventura piratesco, egli rifiuta di farsi pirata in senso proprio e quando, compromesso agli occhi dei suoi, Long John gli offre di unirsi a lui, Jim non accetta. Ma introiettando gli elementi più positivi di questa figura, Hawkins diventa qualcosa di diverso rispetto alla triade Smollett-Livesey-Trelawney, e cioè un Imperial Boy. Un ragazzo probo ma capace di «mad notions», di una 49 Stevenson, Treasure Island, in The Works of Robert Louis Stevenson cit., vol. 2, pp. 85-86: «Then it was that there came into my head the first of the mad notions that contributed so much to save our lives. […] It occurred to me at once to go ashore. In a jiffy I had slipped over the side, and curled up in the fore-sheets of the nearest boat, and almost at the same moment she shoved off. […] But Silver, from the other boat, looked sharply over and called out to know if that were me; and from that moment I began to regret what I had done»; tr. it. di A. S. Novaro, L’isola del tesoro, in Romanzi racconti e saggi cit., pp. 394-395. 50 Stevenson, Treasure Island.cit., p. 139: «[T]he coast was clear; I made a bolt for it over the stockade and into the thickest of the trees, and before my absence was observed I was out of cry of my companions. This was my second folly, far worse than the first, as I left but two sound men to guard the house; but, like the first, it was a help towards saving all of us»; tr. it. cit., pp. 445-446.
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certa «folly» tutt’altro che autodistruttiva. È importante notare come queste qualità sovversive e sorprendenti siano connotate da Stevenson con due termini comunemente usati per definire la pazzia. Una pazzia non priva di metodo e determinazione. Un’attitudine alla bizzarria che caratterizza non solo la mente del folle, ma anche quella del genio. Jim, all’interno della Treasure Island, rappresenta, non a caso, l’unico elemento di contatto tra i due mondi. Egli è, in questo senso, un carattere liminale non meno di quanto lo siano Kim tra indiani e inglesi e Mowgli tra umani e animali. Ciò gli è possibile non solo perché egli ha saputo fare sue tanto le qualità di Smollett che quelle di Silver; questa sintesi, infatti, non è che un’altra conseguenza della causa originaria, la quale risiede invece nella sua giovane età. Jim è solo un ragazzo e non è giunto il momento per lui di compiere scelte decisive: non ancora un gentiluomo, egli può giocare a fare il pirata senza apparire né ridicolo né immorale, perché questi due destini sono ancora racchiusi in lui, sono due possibilità ancora in potenza. Questo personaggio, per il solo fatto di appartenere a un’età sfuggente, costituisce un ibrido ancora indefinito e caratterizzato da elementi che sono propri del gentleman e dell’uomo di ventura. Né va sottovalutata l’antinomia che il personaggio di Jim è in grado di conciliare in sé. La figura del pirata, infatti, non è solo quella di un simpatico farabutto, ma ha una connotazione tanto affascinante quanto negativa. I pirati sono coloro che hanno abbandonato la retta via, che sono regrediti a un modus vivendi pre-cristiano negando il presupposto fondamentale del vivere civile: la Legge. Le storie ambientate sulle isole, le Robinsonades, come vennero chiamate, offrono l’opportunità ai giovani protagonisti che ne popolano le pagine e ai giovani lettori che quelle pagine avidamente leggono, di vivere al modo di selvaggi e pirati, ma di non diventare come loro. In ultima analisi, gli elementi che fanno di Jim Hawkins e degli altri ragazzi protagonisti di queste storie una sintesi vincente del soldato, del pirata e del selvaggio sono la loro lealtà, la concezione della vita come forma del rischio – caratteristica questa che, come nel Robinson di Defoe, ha risvolti tanto avventurosi quanto mercantili – e la loro capacità di vivere a stretto contatto con la natura. Si potrebbe però affermare, sulla base del legame che Rousseau instaura tra il rapporto pedagogico, l’infanzia e le isole da un lato e il successo delle Robinsonades, dall’altro, che in Inghilterra già esisteva un sistema educativo paragonabile a un’isola, a una nave-scuola: quello delle public school. Questo sistema scolastico, aperto soltanto a una
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ristretta élite sociale, per tutta la prima metà dell’Ottocento era stato pesantemente screditato. Raymond Williams, nel suo The Long Revolution, scrive in proposito: Questo è probabilmente l’ultimo periodo in cui la maggioranza dell’opinione pubblica inglese riteneva che l’educazione familiare fosse l’ideale. Dal XVI secolo in avanti questa convinzione aveva guadagnato terreno, e il suo opposto assoluto, con il rinnovamento dell’ethos delle public school seguito ad Arnold, si afferma come un evento di notevole importanza generale51.
L’Arnold che troviamo qui citato è Thomas Arnold, preside di Rugby dal 1824 al 1842, anno della sua morte. Il suo ruolo leggendario come riformatore scolastico è, di fatto, nient’altro che una leggenda; i meriti di questa scuola e di questo pedagogista sono stati infatti notevolmente enfatizzati attribuendo ad essi in toto la rinascita della più famosa istituzione educativa inglese. Ma il ruolo che ha assunto Rugby nell’immaginario britannico, il ruolo, cioè, di una scuola capace di coniugare l’allargamento e l’approfondimento degli studi con una grande attenzione al gioco e allo sport – tanto da far derivare il nome di una delle più popolari pratiche sportive d’oltremanica da questa stessa istituzione – non corrisponde alla realtà storica e alle idee di Arnold stesso. Questi, pur dimostrando una sensibilità nuova in materia educativa, aveva posto più enfasi sulla trasmissione dei valori cristiani, che non sulle attività sportive o sull’insegnamento delle varie discipline. Ma la fama di questa scuola e il suo status simbolico erano indiscutibili e basta l’incipit del primo racconto di uno dei più popolari scrittori per ragazzi dell’epoca, Talbot Baines Reed, per comprendere il ruolo che le era affidato: «Un ufficiale impegnato nella Guerra di Crimea una volta descrisse la sensazione vissuta in alcune delle battaglie che vi combattè come esattamente uguale a quella che aveva sperimentato sui campi di football a Rugby»52. 51 Raymond Williams, The Long Revolution, Chatto & Windus, London 1961, pp. 81-82: «This is probably the last period in which a majority of English public opinion believed that home education was the ideal. From the Sixteenth century this belief had been gaining ground, and its complete reversal, with the new public-school ethos after Arnold, is of considerable general importance». 52 Talbot Baines Reed, My First Football Match, in Philip Warner (ed.), The Best of British Pluck: The Boy’s Own Paper, Macdonald & James, London 1976, p. 18: «An officer of the Crimean War once described his sensation in some of the battles there as precisely similar to those he had experienced when a boy on the football field at Rugby».
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Questa frase ricalca una celebre sentenza attribuita al Duca di Wellington, secondo il quale la battaglia di Waterloo sarebbe stata vinta sui campi di Eton; in realtà quest’affermazione venne riportata per la prima volta solo nel 1855, tre anni dopo la morte del celebre condottiero, esattamente nel momento in cui l’istituzione delle public school riguadagnava un prestigio sociale lungamente perduto e proprio sulla base di una rapporto di causa-effetto tra la preparazione fisica e umana che essa garantiva e i successi militari e imperiali conseguiti dall’Inghilterra. Era una dinamica che, fino a quel momento, era evidentemente sfuggita agli inglesi, ma che da allora in poi venne tenuta in alta considerazione, nonché messa a frutto. La citazione tratta da Reed fa parte di una serie di bozzetti che egli scrisse per il già citato B.O.P. sotto lo pseudonimo di Parkhurst, il protagonista di queste stesse avventure. Ad esse viene fatta risalire la nascita delle public school stories come vero e proprio genere letterario53, ma già a partire dal 1857, con la pubblicazione di Tom Brown’s Schooldays, ad opera di Thomas Hughes, questo tipo di narrativa si era rivelata di grande successo. Isabel Quigly osserva come la struttura di questi racconti si basasse su elementi ripetuti e ripetitivi: la prova d’esame rubata, l’innocente ingiustamente accusato, la soluzione del mistero54. L’elemento propulsivo della maggior parte di queste storie è offerto infatti dall’infrazione delle regole, dei codici comportamentali vigenti nelle scuole. Toccherà a Kipling portare questo genere letterario al suo apice e perfezionare l’espediente dell’infrazione nel suo Stalky & Co. In questo romanzo a episodi, l’infrazione alla regola viene, in qualche modo, a sua volta codificata. Essa infatti, secondo Kipling, non rompe il patto pedagogico tra l’adulto e il ragazzo, ma ne è, invece, parte statutaria, anzi, ne costituisce, probabilmente, lo stesso fondamento. Viene riconosciuto ai ragazzi di avere una propria etica che non corrisponde a quella adulta. Il rapporto pedagogico non è più unidirezionale, di guida del maestro e sottomissione dell’allievo, ma diventa un rapporto dialettico, in cui gli adulti che meritano rispetto chiudono un occhio o somministrano punizioni a malincuore e quelli che, dal punto di vista dei ragazzi, non ne meritano, diventano oggetto delle loro sgradite premure. Non a caso, Robert F. Moss sottolinea come Stalky & Co, pur raf53 Cfr. Jeffrey Richards, Happiest Days: The Public School in English Fiction, Manchester University Press, Manchester 1988, pp. 103-109. 54 Cfr. Isabel Quigly, The Heirs of Tom Brown: The English School Story, Chatto & Windus, London 1982, p. 83.
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figurando positivamente l’ambiente scolastico, sia dominato da un’adolescienziale «fantasy of revenge»55. È poi chiaro come l’infrazione della regola, non diversamente da quanto avviene con la saggia follia di Jim Hawkins, sia un elemento fondamentale per caratterizzare l’intraprendenza e il discernimento del giovane imperialista. Kipling e Stevenson ci fanno ben comprendere, però, che questa stessa infrazione non solo deve essere condotta con avvedutezza, ma che essa, in qualche modo, è preziosa prerogativa di un’età giovanile. Una volta cresciuti è bene limitare queste attitudini pena diventare pirati, come i villains di Stevenson, o cadere in rovina, come i personaggi delle prime narrazioni di Kipling, i quali peccano inevitabilmente di hybris. Bristow sottolinea come molte delle public school stories, descrivendo l’educazione di ragazzi lontano da casa in un ambiente duro, ma non necessariamente ostile, contribuissero a definire un nuovo tipo di scuola mirata a crescere giovani autosufficienti, capaci di difendersi dai propri compagni e, allo stesso tempo, di cooperare con loro secondo un modello eminentemente militare, come ben dimostra la citazione da Reed, per cui, una volta che si era imparato a farsi onore sul campo da gioco, a difendersi nelle camerate e a stringere virili amicizie, si era anche imparato a difendersi e a farsi onore sul campo di battaglia, dando la vita per gli altri56. Questo spiega lo spazio spropositato concesso al gioco nelle public school, almeno fino al 1861, anno in cui fu istituita la Clarendon Commission, incaricata di redigere un rapporto sull’educazione nel Regno Unito. Il rapporto stabilì, non senza un certo sgomento, che uno studente di Harrow poteva avere una media di quindici ore curricolari di pratica del cricket durante il semestre estivo57. L’attività sportiva rimase comunque centrale nella realtà scolastica inglese, non solo perché essa era in grado di coniugare individualismo e gioco di squadra, i due elementi opposti caratterizzanti la borghesia e l’aristocrazia, ma anche perché rappresentava la sintesi di un’altra contraddizione altrimenti dif55
Robert F. Moss, Kipling and the Fiction of Adolescence, Macmillan, London 1982,
p. 52. 56 La critica più spietata e sintetica a questo modello verrà da uno degli autori più grandi dell’Età edoardiana, Edward Morgan Forster, il quale dirà che le scuole inglesi sfornavano: «well-developed bodies, fairly developed minds and undeveloped hearts» («corpi ben sviluppati, menti discretamente sviluppate e cuori non sviluppati»), cfr. E.M. Forster, On British Public School Students, «Life», 2 April 1951. 57 Cfr. Bristow, Empire Boys cit., p. 66.
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ficilmente sanabile, quella fra violenza e virtù che, non a caso, rappresentava l’antinomia più profonda all’interno delle public school stesse. Qui da un lato ci si rifaceva agli ideali di bellezza e armonia universali propugnati da Thomas e Matthew Arnold e da John Ruskin, e dall’altro si istituiva un selettivo cammino di crescita basato sulla dinamica di sottomissione e insubordinazione, non immune da influenze darwiniste. È sintomatico del legame tra questi ragazzi, la loro vita nelle public school e il destino imperiale che li attendeva, il fatto che la medesima contraddizione che segnava queste realtà scolastiche fosse ugualmente riscontrabile nell’impresa coloniale. L’imperialismo britannico, più di altri, era infatti vittima di una schizofrenia insanabile. Il soldato inglese, considerato il portatore di un supremo ordine civilizzatore, il kiplinghiano fardello dell’uomo bianco, doveva servirsi di una violenza inaudita per imporlo: questo è, a ben guardare, un conflitto irrisolvibile per cui ancor oggi ci si affanna a trovare un’impossibile soluzione. Nell’insistenza sulle attività sportive si celano quindi diverse istanze. Innanzitutto quella di crescere giovani atletici, fisicamente pronti alla battaglia, poi di saper coniugare virtù cavalleresche e cavalleresche inclinazioni alla guerra e, non ultima, si aggiunge una motivazione del tutto diversa ma ugualmente importante, cioè quella di una sublimazione degli istinti più corporei, degli impulsi sessuali. L’importanza attribuita alla forza e alla bellezza del corpo maschile – a quello femminile, in epoca vittoriana, era più comune attribuire un valore di sacralità –, l’isolamento di giovani in età puberale, dagli anni della preadolescenza agli ultimi anni dell’adolescenza stessa, il rapporto improntato al nonnismo e al sadomasochismo che si instaurava fra i prepostors – gli allievi più grandi – e i fags – i loro più giovani sottoposti –, l’ossessione sessuofobica unita al terrore per pratiche considerate infamanti come l’autoerotismo e l’omosessualità, tutto congiurava affinché, invece, i rapporti omosessuali si sviluppassero anche tra soggetti che non vi erano inclini. È stupefacente notare come un’istituzione che considerava l’omosessualità tra le colpe più abominevoli riuscisse a ottenere esattamente l’opposto di quanto si proponeva. In realtà il modello di virilità che veniva inculcato in questi ragazzi era tanto gagliardo quanto asessuato. I piccoli e, per ogni altro aspetto, precoci eroi delle public school novels, gli eroi dei romanzi a puntate sulle riviste per ragazzi, Robinson Crusoe e Jim Hawkins condividono tutti almeno un elemento: sono quasi completamente privi di figure femminili al loro fianco o, qualora ve ne siano, se ne mostrano disinteressati fino a quando, in genere in modo brusco e imprevisto, avviene
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un incontro che pone fine alle avventure e che perciò, anziché risultare interessante agli occhi del lettore, appare sempre molesto e malinconico. In queste opere uno degli elementi più importanti nell’adolescenza, la scoperta dell’altro sesso e della propria stessa sessualità, è volutamente ignorato e rimosso. La potenza fisica maschile, gli istinti più corporei ed aggressivi vengono sublimati così su un campo da gioco. Quella proposta era quindi una mascolinità senza sesso: tale modello non aveva solo l’obiettivo di rimuovere un aspetto considerato particolarmente scabroso dalla civiltà dell’epoca, ma era anche volto a depotenziare la pericolosa carica del giovane nel contesto vittoriano. Questi era una bomba che andava disinnescata all’interno della società inglese e il cui meccanismo a orologeria andava riattivato solo una volta fuori dei patri confini a scopi coloniali ed espansionistici. Dopo il collasso dell’Impero britannico, un sistema scolastico e sociale che faceva della violenza una possibile virtù si troverà costretto a fronteggiare il crescente dilagare del teppismo e della criminalità giovanile. Non a caso quando, nel 1968, il regista Lindsay Anderson girerà il film più critico del filone che aveva avuto inizio con Tom Brown’s Schooldays di Thomas Hughes, gli darà il titolo di If, il più famoso e famigerato – nonché frainteso – tra i componimenti poetici di Kipling. In questo film le vittime della violenza scolastica finiscono ancora una volta con l’imbracciare le armi, ma, questa volta, prendendo di mira compagni e professori. I campi di rugby e di cricket non erano tuttavia le uniche valvole di sfogo per le pulsioni giovanili. Come si guardava all’Impero al modo di un immaginario, vastissimo playground in cui difendere i colori della propria squadra, così i territori da sottomettere erano considerati come donne pronte ad essere violate. L’Impero era contemporaneamente terreno di gioco e alcova, la camera segreta dei ragazzi inglesi e, parafrasando Lenin, si potrebbe dire che l’imperialismo costituiva la fase suprema dell’adolescenza. È immediato, a questo proposito, il rimando all’opera di uno dei più venduti e apprezzati scrittori d’avventura dell’epoca: Rider Haggard. Amico e confidente di Kipling, uno dei pochi che questi ebbe mai in ambito letterario, Haggard fu probabilmente l’autore che, più di ogni altro in ambito inglese, contribuì a instaurare un’identificazione tra i possedimenti imperiali e una femminilità tanto passiva quanto pericolosa, con speciale riferimento al mondo africano. La sua, in realtà, era la rielaborazione di un mito antichissimo che traeva le sue origini dalle leggende riguardanti la Regina di Saba, ma egli seppe far risuonare in questi stessi miti esattamente ciò che i giovani lettori ingle-
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si avevano la voglia e il bisogno di sentirsi raccontare. La descrizione dell’impatto con il Continente Nero che ci offre il narratore di King’s Solomon Mines è davvero esplicita, al riguardo: Queste montagne, simili ai pilastri di un immenso cancello, hanno la forma esatta dei seni di una donna [e, a volte, la nebbia e le ombre fra di esse assumono proprio la forma di una donna supina, misteriosamente velata nel sonno]. La loro base si alzava dolcemente dalla piana, e a quella distanza pareva perfettamente tonda e liscia; e sulla cima di ognuna c’era una collinetta coperta di neve, esattamente come il capezzolo di un seno femminile58.
E ancor più esplicita è la vicenda raccontata in She dove Ayesha, la protagonista, tanto sensuale quanto temibile, finisce col perdere la sua soggiogante bellezza e con l’essere trasformata in una scimmia dopo essere stata la fosca incarnazione dell’eterno femminino. Secondo Sandra M. Gilbert e Susan Gubar la figura di Ayesha può essere considerata come antitetica a quella della Regina Vittoria iscrivendo così, tra i due poli opposti dell’autorità femminile, uno a cui è giusto obbedire e uno a cui è doveroso resistere, i due elementi dialettici di patria e colonia59. La donna nera, infatti, esercitava un ruolo di seduttrice nelle cui spire era necessario non cadere, onorando così il duplice ruolo della donna bianca, da un lato madre (la Regina Vittoria) e dall’altro sposa, e quindi bisognosa di protezione e fedeltà. L’unica violenza ammissibile nei confronti della donna nera è quella nei confronti della terra che essa rappresenta: la terra coloniale. Uscire da questa sublimazione, accettare di compromettersi con un corpo nero, un corpo altro, significava non solo oggettivare impropriamente un rapporto simbolico, ma perdere la propria identità di uomo bianco e inglese. È interessante notare poi come la relazione sessuale tra l’uomo bianco e la donna nera non sia mai rappresentata, all’interno di questi romanzi, come un’usurpazione, un atto di 58 Henry Rider Haggard, King’s Solomon Mines, Octopus Books, London 1979, p. 57: «These mountains, placed thus, like the pillars of a gigantic gateway, are shaped after the fashion of a woman’s breasts, and at times, the mist and shadows beneath them take the form of a recumbent woman, veiled mysteriously in sleep. Their bases swell gently from the plain, looking at that distance perfectly round and smooth; and upon the top of each is a vast hillock covered with snow, exactly corrisponding to the nipple on the female breast»; tr. it. V. Daniele, Le miniere di Re Salomone, Donzelli Editore, Roma 2004, p. 63. Fra parentesi quadra traduzione mia, assente nell’originale italiano. 59 Cfr. Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, No Man’s Land: The Place of Woman Writer in the Twentieth Century, 3 voll., Yale University Press, New Haven, Conn. 1989, vol. II, Sexchanges, p. 376.
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stupro da parte del colonizzatore, ma sempre come rovinosa conseguenza di una seduzione ammaliante della donna indigena, che porta promiscuità e contaminazione. Una miscegenation che conduce alla perdita di sé. Sander L. Gilman, richiamandosi ancora una volta a Kipling, afferma come: «Il “fardello dell’uomo bianco” diventa così la sua sessualità ed il controllo che si esercita su di essa, e ciò si proietta anche sul bisogno di controllare la sessualità dell’Altro, dell’Altro in quanto donna erotizzata»60. Dietro il controllo del corpo dell’Altro si celava quindi l’ansia del controllo della propria stessa sessualità. Cadere nella tentazione carnale era il modo più immediato per diventare a propria volta dei selvaggi, perdendo il rispetto di se stessi e il dominio sull’altro. Ma passare attraverso «l’amor di donna» implicava un’ulteriore menomazione. Cadere nei vincoli, legittimi o illegittimi, di una presenza femminile, imponeva infatti la fine di ogni possibilità d’intreccio in modo simile a quello dei romanzi cavallereschi medievali dove l’eroe che indulgeva alle gioie sentimentali era accusato di recreantise. Se si restava avvinti alla madre/patria non c’era speranza che un’avventura potesse prendere il largo. Se si subiva la seduzione della femme fatale si diventava un personaggio bruciato. In Treasure Island si può trovare un esempio perfetto di questa dinamica. Perché la caccia al tesoro – e a un nuovo modello maschile – possa avere inizio, Jim Hawkins deve abbandonare la squallida locanda dell’Ammiraglio Benbow e la gretta saggezza di sua madre. Perché l’avventura possa finire degnamente, occorre non solo che i giusti facciano ritorno a casa, ma che il villain si accasi con una donna. Nera, naturalmente. Di Silver non si seppe altro. Quel terribile uomo di mare da una gamba sola è finalmente fuori dal cerchio della mia vita; ma io credo che abbia trovato la sua vecchia negra e viva contento insieme a lei e al capitano Flint. Così almeno giova sperare, posto che non par molto probabile che la felicità lo aspetti nell’altro mondo61. 60 Sander L. Gilman, Black Bodies, White Bodies: Toward an Iconography of Female Sexuality in Late Nineteenth-Century Art, Medicine and Literature, «Critical Inquiry», 12, 1985, p. 237: «The “white man’s burden” thus becomes his sexuality and its control, and it is which is transferred on to the need to control the sexuality of the Other, the Other as sexualized female». 61 Stevenson, Treasure Island cit., p. 227: «Of Silver we have heard no more. That formidable seafaring man with one leg has at last gone clean out of my life; but I dare say he met his old negress, and perhaps still lives in comfort with her and Captain Flint. It is to be hoped so, I suppose, for his chances of comfort in another world are very small»; tr. it. cit. p. 530.
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Il «comfort» concesso al povero Long John prima di affrontare il giudizio divino a cui lo chiama Jim non nasconde per lui alcuna possibilità di redenzione. Anzi, se possibile, l’amore di questa «old negress» rappresenta un ulteriore passo verso l’abiezione, la degna conclusione dell’avventura terrena di un furfante. La figura del ragazzo si adattava invece quasi alla perfezione per le esigenze dell’eroe disposto alle avventure, ma non a quelle sessuali. Si poteva fare di lui un uomo, ma non integralmente, senza per questo farlo risultare equivoco, fino al momento in cui veniva introdotta una figura femminile capace di risvegliare in lui qualche interesse, il che significava non solo la fine dell’avventura, ma anche dell’innocenza. Queste due caratteristiche, l’innocenza e la sete d’avventura, per quanto possano sembrare inconciliabili, sono invece strettamente correlate: una volta che svanisce una anche l’altra è destinata a scomparire. La figura predominante nel romanzo d’avventura vittoriano diventa così quella del fanciullo che salva, dell’eroe-bambino. Un eroe-bambino che ci si immaginava godesse di ottima salute, che fosse ben nutrito e capace comunque di saper vivere in condizioni difficili, presupposti che, nell’Inghilterra del secondo Ottocento, era assai difficile trovare sintetizzati in una sola classe sociale. Infatti, o il giovane in questione era robusto e ben pasciuto, o era in grado di sopportare, o, per meglio dire, costretto a sopportare situazioni impervie, anche di estrema difficoltà e miseria. Le classi più umili offrivano numerosi esempi di adattamento a condizioni di vita improbe, ma nessun particolare segno di salute. Bristow riporta una statistica relativa al reclutamento per l’esercito a Manchester, nel 1899. Di 11.000 candidati ne vennero scartati 8.00062. Era quindi opportuno, ai fini della sopravvivenza stessa dell’Impero, che non una singola classe sociale potesse avvalersi di un’istruzione equilibrata, in cui mente e corpo fossero entrambi adeguatamente sviluppati, ma che questa possibilità fosse offerta a una parte ben più ampia del paese. Per quanto varie associazioni si fossero già interessate, fin dagli anni ’60 del XIX secolo, a garantire occasioni di socialità che permettessero alle classi meno fortunate di vivere esperienze più salubri a contatto con la natura – un elemento costante, questo, di tutte le preoccupazioni pedagogiche a partire da Froebel e, prima ancora, da Rousseau – sarebbe stato necessario aspettare il 1907 perché fosse intrapreso il primo 62
Cfr. Bristow, Empire Boys cit., p. 182.
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tentativo dalle conseguenze durature. Tra il 25 luglio e il 9 agosto di quell’anno un eroe della Guerra Anglo-Boera, famoso per la difesa di Mafeking, riuscita contro nemici che superavano le forze inglesi in una proporzione di nove contro uno, portò un gruppo di bambini e ragazzi sull’isola di Brownsea per fare quello che oggi si chiamerebbe un campo estivo. Il suo nome era Robert Baden Powell, e l’esito di questa piccola iniziativa a cui egli teneva al punto da non averla divulgata nel timore dell’insuccesso, si rivelò tanto importante da eclissare le sue passate glorie militari e renderlo famoso come il fondatore dei Boy Scout. Per quanto l’idea stessa degli Scout fosse nata proprio durante il drammatico assedio della città sudafricana, dove egli fu costretto a servirsi di giovanissime staffette a causa della mancanza di uomini, l’intento di Baden Powell non era precisamente quello di formare giovani leve. Seppure i due modelli usati per plasmare l’istituzione stessa degli Scout fossero da un lato il mondo militare – con le divise, i gradi, la disciplina – e dall’altro quello massonico – con i rituali, la fratellanza, l’iniziazione – la sua sostanza risultava assai più vicina a quella di un corpo di piccoli, coraggiosi esploratori. Il contatto con un mondo naturale isolato e incontaminato e l’insistenza sulla qualità dell’autosufficienza necessaria per sopravviverci rendono assai simile l’ideale perseguito da Baden Powell a quello di Rousseau. Vi è inoltre un ulteriore elemento a unire le pedagogie di questi due pensatori, per altri aspetti così diversi: l’enfasi data alle attività ludiche, l’impiego del gioco come strumento principe per l’apprendimento e la concezione del mondo come una grande mappa in attesa solo delle scorribande dei loro giovani eroi63. È opportuno sottolineare come l’idea che Baden Powell aveva degli Scout fosse assai diversa da quella del bravo ragazzo pronto a compiere piccole buone azioni degne di merito, che si è fossilizzata col tempo nell’immaginario collettivo. Geoffrey Pearson, autore di un interessante studio dedicato alla storia degli hooligans, riporta un discorso tenuto nel 1910 presso la National Defence Association da B.P. – come lo chiamavano familiarmente i suoi giovani seguaci – in cui egli, in modo del tutto sorprendente, definì quelli che erano generalmente considerati nient’altro che dei teppisti come «il miglior tipo di ragazzo»64. In realtà Baden 63
Cfr. Edward W. Said, Culture and Imperialism, Vintage Books, New York 1994, p.
166. 64 Geoffrey Pearson, Hooligan: A History of Respectable Fears, Macmillan, London 1983, p. 51: «the best class of boy».
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Powell fondava il dubbio legame tra gli hooligans e gli scout su quella che egli riteneva essere la qualità fondamentale del giovane inglese, e cioè la pluckiness65, ovvero la temerarietà, l’ardimento. Ancora una volta si connotava la natura della fanciullezza con qualità e difetti inestricabili al punto da diventare coincidenti. Se ne coglieva l’aspetto perturbante e non solo lo si accettava come espressione di un’età sfuggente, ma se ne metteva a frutto l’ambiguità che diventava sintesi dell’Impero e sua metafora. In quest’età incerta si placavano finalmente tutte le antinomie tipiche del Vittorianesimo. Il ragazzo era eminentemente corporeo, ma considerato anche asessuato; violento, ma anche puro. Soggetto e oggetto del discorso imperiale, egli si prestava a un’ultima contraddizione: quella di essere vittima e carnefice, colonizzato e colonizzatore. Tra le voci che si levarono contro questo processo educativo, filosofico e imperialistico in un modo così moderno da risultare oggi stupefacente e allora inascoltato, va annoverata quella di J. A. Hobson che, nel 1902, pochi anni prima del fatidico campo sull’isola di Brownsea, scriveva: Catturare l’infanzia di un paese, meccanizzare i suoi giochi spensierati nella routine di esercitazioni militari, coltivare i residui di una selvaggia aggressività, […] stabilire una visione «geocentrica» dell’universo morale in cui gli interessi dell’umanità vengono subordinati a quelli della ‘nazione’, […] alimentare il sempre sprezzante orgoglio della razza in un’età in cui la fiducia ha solitamente la meglio […] così iniziando i fanciulli al mondo con false misure di valore e con il rifiuto di abbeverarsi a fonti straniere; imprimere questa sostanziale insularità nella mente e nell’anima dei piccoli figli di una nazione e chiamarla patriottismo, è il più osceno degli abusi educativi che si possa concepire66.
La durissima invettiva di Hobson si pone come sintesi ideale di quanto sostenuto in questo capitolo. Infatti egli è in grado di condensare nella sua retorica, tanto concitata quanto efficace, molti degli elementi presi in esame fin qui. Il fatto che i fanciulli di un paese fossero 65
Cfr. Bristow, Empire Boys cit., p. 184. John Atkinson Hobson, Imperialism: A Study, Unwin Hyman, London 1988, p. 217: «To capture the childhood of the country, to mechanize its free play into routine of military drill, to cultivate the savage survival of combativeness, […] to establish a “geocentric” view of the moral universe in which the interests of humanity are subordinate to that of the “country”, […] to feed the always overweening pride of race at an age when self-confidence most commonly prevails […] so starting children in the world with false measures of value and an unwillingness to learn from foreign sources – to fasten this base insularity of mind and morals upon the little children of a nation and to call it patriotism is foul an abuse of education as it is possible to conceive». 66
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catturati da un seducente pifferaio la cui musica era in realtà una fanfara di guerra; l’idea di servirsi di quella ‘naturale’ sauvagerie e di sfruttarla per ben altri scopi; l’uso del gioco come ingranaggio di un sistema; la stoccata di quella «insularity of mind» che ben riassume un percorso iniziato da Rousseau e proseguito da Baden Powell e la mirabile, terrificante concisione di quel «starting the children in the world» che, in realtà, significava «starting the children in the war»: tutto in questa arringa congiura a descrivere perfettamente un processo imperialista in cui l’infanzia era la prima isola a essere conquistata e i suoi abitanti i primi ad essere ridotti in schiavitù. Esattamente come era avvenuto nei boschi dell’Aveyron, nel mese di Termidoro del 1798, a un fanciullo selvaggio a cui sarebbe stato imposto il nome di Victor, «il vincitore».
Capitolo secondo O beloved kids
Quando si muore? Moriamo per la prima volta già a due anni, noi siamo un’altra cosa fino a due anni e te lo dimentichi quando ti metti in un modello, quando fai cera sfusa, persa… L’uomo è un modello di cera persa, non ne rimane nemmeno lo stampo… Marco Ferreri, Colloquio con Marco Ferreri in Chiedo Asilo, a cura di Maurizio Grande
L’opera di Rudyard Kipling si pone come ideale prosecuzione, ma anche come parziale antitesi al percorso fin qui delineato. Essa infatti costituisce l’apogeo tanto del discorso sul ragazzo selvaggio quanto della definizione di Imperial boy inglese, ma, in entrambi i casi, il contributo apportato da questo autore è originale al punto da stravolgere molti degli elementi già descritti nel primo capitolo. La figura del ragazzo selvaggio, ad esempio, è assai diversa da quella osservata da Itard. Laddove lo studioso francese aveva tentato un approccio severamente scientifico l’autore anglo-indiano recupera lo stesso tema, ma in chiave mitica. La prima apparizione del personaggio di Mowgli precede i Jungle Books e risale al racconto In the Rukh, compreso nella raccolta Many Inventions del 1893, un anno prima della pubblicazione del famoso libro per ragazzi. Contrariamente a quanto avviene nei Jungle Books, dove gli inglesi rappresentano un elemento simbolico garante della legge, ma lontano e inafferrabile, qui l’Impero è al centro della narrazione anche quando sembra costituirne solo la cornice. Il racconto prende l’avvio con la spiegazione di cosa sia il Department of Woods and Forests, definito come «Il più importante […] degli ingranaggi del pubblico servizio che
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girano agli ordini del governo indiano»1. Questo termine, «wheels», generalmente tradotto con la parola italiana «ingranaggi», è essenziale nella concezione della vita imperiale, quando non addirittura della vita stessa, in Kipling. L’idea di essere ingranaggio di un meccanismo più grande, che legittima e dà senso all’esperienza umana, ma che, allo stesso tempo, la limita e racchiude, fa parte della filosofia di vita nonché della poetica di questo scrittore, per cui gli istinti più naturali e primordiali vanno sacrificati all’altare di una causa più elevata. Eppure pochi autori come Kipling hanno saputo esprimere il richiamo che questi istinti esercitano e la profonda malinconia che questa rinuncia comporta. Egli adottò l’infanzia come emblema di un mondo più libero e lieto, non ancora soggiogato dall’autocontrollo e perciò essa, nella sua opera, vive sotto la minaccia di un’incombente età adulta almeno quanto l’età adulta vive sotto la costante minaccia di una regressione infantile. Un tema, questo, che avvicina Kipling, seppur in una posizione del tutto particolare, a quella folta schiera di narratori e poeti che, sotto l’influsso romantico, colgono nel fanciullo una funzione simbolica tanto liberatoria quanto fragile, facendone un mito aurorale e crepuscolare insieme, sospeso in un attimo eterno fra la gioia e la morte. Certamente la raffigurazione dell’infanzia attuata da Kipling è una delle più complesse. Egli è in grado di rappresentare non solo la meraviglia dei primi anni di vita, ma anche tutto il dolore e la capacità di odiare insita in essi, una capacità di odio così pura, scriverà nella sua autobiografia, da essere paragonabile solo al diamante2. La sua stessa esistenza lo mise di fronte alla morte di due dei suoi tre figli. John a diciotto anni fu dichiarato disperso nella battaglia di Loos e il suo corpo non venne mai più ritrovato, mentre la piccola Josephine morì a soli sette anni di una polmonite a cui Kipling stesso sopravvisse a stento. Quest’ultimo lutto, il primo in ordine di tempo, rappresentò la fine di molte illusioni e Angela Thirkell, cugina e amica d’infanzia dei tre piccoli Kipling, testimoniò, in un suo libro di memorie, come la natura fanciullesca dello scrittore scomparisse insieme alla bambina da lui adorata3. 1 Rudyard Kipling, In the Rukh, in Id., Many Inventions, Macmillan and Co., London 1949, p. 201: «The more important […] of the wheels of public service that turn under the Indian Government»; tr. it. M. Ettlinger Fano, Nel Rukh, in Racconti dell’India, 2 voll., Mursia, Milano 1988, vol. II, p. 430. 2 Cfr. Rudyard Kipling, Something of Myself for My Friends Known and Unknown, Macmillan & Co., London 1964, p. 16. 3 Cfr. Angela Thirkell, Three Houses, Oxford University Press, London 1931, p. 86.
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Ma quando, poco dopo il suo trasferimento nel Vermont, egli scrisse In the Rukh e poi i Jungle Books, la natura illusoria del sogno di sintetizzare nell’Impero le sue due grandi contraddizioni, rappresentate da India e Inghilterra, infanzia ed età adulta, doveva ancora rivelarsi in tutta la sua durezza; anche se il titolo della raccolta in cui compare questo racconto è in qualche modo profetico. Infatti il termine «inventions», nell’accezione usata da Kipling, significa appunto «illusioni» e rappresenta una citazione dall’Ecclesiaste, il più desolato e moderno dei libri sapienziali4. John McClure scrive che il sogno imperiale di Kipling era: «Essere al disopra, ma, allo stesso tempo, appartenere; essere obbedito come un dio e amato come un fratello: questo è il sogno di Kipling per il dominatore imperiale, un sogno che Mowgli realizza»5. Quanto questo obiettivo sia veramente raggiunto resta però una questione controversa. In the Rukh viene in qualche modo evocato anche all’interno dei Jungle Books, alla fine dell’episodio che ha per titolo Tiger-tiger! e Kipling stesso lo fece poi pubblicare a complemento della Outward Bound Edition del 1897. In questo primo racconto, il quale anticipa il destino del ragazzo selvaggio prima ancora che la sua saga abbia inizio, rendendola così un storia la cui fine è nota, Mowgli viene introdotto solo dopo l’altro personaggio principale, Gisborne. Questi è un giovane funzionario del Department of Woods and Forests costretto dal suo lavoro a vivere isolato nella giungla, nel «rukh», appunto, con la sola compagnia del maggiordomo musulmano Abdul Gafur e della di lui figlia. Gisborne non è un native born, non è quindi nato e cresciuto in India da una famiglia inglese come lo fu Kipling e, in più di un’occasione, viene sottolineato come egli, pur amando questi luoghi, e pur amministrandoli per conto del Raj, non li possa capire fino in fondo. Avvisato da alcuni locali della morte di una guardia forestale indiana, uccisa da una tigre, Gisborne sta per mettersi a caccia della «mangiatrice di uomini» quando gli si fa incontro un giovane «[…] nudo 4 «Lo, this only have I found, that God hath made man upright; but they have sought out many inventions», Ecclesiaste, VII, 29 («Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha fatto l’uomo retto, ma essi cercano tanti fallaci ragionamenti»). È importante ricordare che l’edizione biblica a cui Kipling fa riferimento nelle sue citazioni è la «King James Version», pubblicata nel 1611. 5 John A. McClure, Kipling and Conrad: The Colonial Fiction, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1981, p. 60: «To be above yet to belong, to be obeyed as a god and loved as a brother, this is Kipling’s dream for the imperial ruler, a dream that Mowgli achieves».
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salvo per il panno che gli cingeva i lombi, e col capo inghirlandato di convolvoli bianchi»6. Le apparizioni di Mowgli in questo racconto saranno sempre connotate da riferimenti tesi a sottolinearne il carattere magico e divino. «Il suo volto eretto nel sole pareva quello di un angelo sperduto fra i boschi»7, le sue entrate in scena sono sempre silenziose al punto che «Uno spettro non avrebbe potuto apparire più silenziosamente»8 ed egli viene definito da Gisborne «a miracle, a lusus naturae»9. Tocca però all’Ispettore Generale Muller, un tedesco che è una vera autorità presso il Department, capo di tutti i rukh dell’India, fornire una più corretta e approfondita interpretazione di Mowgli. La scelta della nazionalità dell’Ispettore non è casuale perché egli sa subito cogliere il legame tra la figura del ragazzo selvaggio e le teorie espresse da Heinrich Heine nel suo Die Götter im Exil. «Quando scrivo i rapporti sono libero pensatore ed ateo, – ammette Muller – ma qui nel rukh sono più che cristiano, sono quasi pagano»10. Facendo questa affermazione non solo, da buon seguace di Heine, Muller colloca il cristianesimo, in una ideale scala religiosa, al disotto del paganesimo, ma circoscrive anche l’area in cui Mowgli può esercitare il suo potere, in cui la metafora di conciliazione e dominio da lui incarnata può avere successo. Per maggior chiarezza di Gisborne e del lettore, Muller ribadisce: «“Gli dei cristiani urlano forte”. Non potrebbero vivere nel rukh». E infine colloca Mowgli come ultima manifestazione panica. Mowgli «[È] il Fauno stesso, […] è un vero dio!»11 Muller è in grado di cogliere fin da subito, e non senza sorpresa, la vera natura di feral child di Mowgli. «Non è diavoleria, ma è cosa meravigliosa. Al solito muoiono tutti giovani»12. E ancora:
6 Kipling, In the Rukh cit., p. 205: «[…] naked except for the loin-cloth, but crowned with a wreath of the tasselled blossoms of the white convolvulus creeper»; tr. it. cit., p. 433. 7 Ibid.: «His face as he lifted it in the sunshine might have been that of an angel strayed among the woods». 8 Ibid., p. 210: «A ghost could not have drifted up more noiselessly»; tr. it. cit., p. 436. 9 Ibid., p. 214 10 Ibid., p. 224: «When I am making reborts I am Freethinker und Atheist, but here in der rukh I am more than Christian. I am Bagan also»; tr. it. cit., p. 444. 11 Ibid., p. 225: «“der Christian Gods howl loudly”. Dey could not live in der rukh»; «He is the Faunus himself […] he is der god!»; tr. it. cit., p. 445. 12 Ibid., p. 226: «No dere is no bossession, but it is most wonderful. Normally they die young dese people»; tr. it. cit., p. 445.
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Una volta sola nel mio servizio […] ho trovato un ragazzo che aveva cominciato come lui. È morto. Qualche volta i rapporti ne parlano, di creature simili, ma tutte muoiono. Questo è vivo ed è un anacronismo, perché è prima dell’Età del Ferro, e dell’Età della Pietra: anzi, è l’uomo primordiale, Adamo nel Paradiso terrestre, e ora gli manca solo un’Eva! No, è ancor più antico di quella favola, come il rukh è più antico degli dei13.
È sorprendente notare come Mowgli, nella sua qualità di fauno e spirito dei boschi, racchiuda in sé non solo la possibilità di mediare tra due mondi altrimenti inconciliabili, come quello umano e quello animale, ma diventi anche l’innesco o il protagonista di numerosi conflitti. Si può così affermare che egli possieda, oltre al dono di unire, anche quello di sciogliere legami o, meglio ancora, di reciderli. Ciò è sintomatico di un personaggio che vive tutte le sue avventure, in special modo quelle narrate nei Jungle Books, come una forma di violento conflitto: dalla sua lotta con Shere Khan a quella con i Bandar-log – il popolo delle scimmie – passando per il suo duro impatto con il villaggio indiano e con la terrificante violenza dell’episodio intitolato «Red Dog». È solo un paradosso apparente che, dei suoi due romanzi di ambientazione indiana, quello destinato ai lettori più giovani sia assai più brutale di quello rivolto ai lettori più maturi, essendo proprio l’infanzia la stagione della vita in cui le passioni sono più tumultuose. Molti critici hanno invece osservato come Kim sia un’opera priva di dissidio, eccezion fatta per quello tutto interiore che turba l’animo del protagonista eponimo, anche se, come osserva Edmund Wilson, il suo è un dissidio che non incide mai veramente sull’intreccio del romanzo, risultando così piuttosto artificioso. Al contrario Mowgli è un personaggio che si muove solo grazie a scontri in cui Bene e Male si affrontano senza possibilità di sfumature intermedie e anche in In the Rukh viene attuata la stessa dinamica. Qui, come si è già detto, Mowgli fa il suo ingresso in scena dopo che una tigre ha ucciso una guardia forestale per il puro piacere del sangue. La forte connotazione negativa attribuita alla tigre nella narrativa e nella società anglo-indiane sarà da noi approfondita in seguito; per ora 13 Ibid., pp. 229-230: «Now I tell you dot only once in my service […] haf I met a boy dot began as this man began. Und he died. Sometimes you hear of dem in der census reports, but they all die. Dis man haf lived, and he is an anachronism, for he is before der Iron Age, and der Stone Age. Look here, he is at der beginnings of der history of man Adam in der Garden, und now we want only an Eva! No! He is older than dot child-tale, shust as der rukh is older dan der gods»; tr. it. cit., p. 447.
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ci basti sapere che il ragazzo selvaggio è prezioso alleato di Gisborne nel debellare la giungla da questa pericolosa minaccia e la sua incomparabile conoscenza di questo ambiente naturale fa sì che la caccia si riveli breve e fruttuosa. Una caccia fin troppo facile, quindi, che riflette il futuro destino imperiale di Mowgli, in cui egli metterà a servizio il suo sapere mentre Gisborne, o chi per lui, sarà il braccio armato. Quello con la tigre, però, non è il solo conflitto descritto in questo racconto perché, come avviene anche nei Jungle Books, le resistenze più dure da vincere per Mowgli sono proprio quelle dei suoi connazionali. Se gli inglesi lo individuano subito come un prodigio, una presenza tanto fantastica quanto benefica – nonché utilissima –, quasi tutti gli indiani con cui egli viene a contatto lo temono e lo ostacolano per quanto è loro possibile. I battitori musulmani che avevano accompagnato Gisborne al cadavere straziato dalla tigre, quando vedono Mowgli si spaventano più che se avessero visto la belva stessa e, non appena questi propone al Sahib di accompagnarlo nella caccia, la loro reazione è di paura. «Gli uomini inginocchiati intorno alle orme si dileguarono quatti quatti, temendo che Gisborne chiedesse loro di accompagnarlo. Il giovane rise un poco fra sé»14. Non solo qui l’autore fa ridere il suo personaggio, ma chiede anche al lettore di unirsi al suo scherno. Questa è una delle caratteristiche meno gradevoli di Kipling. I personaggi negativi dei suoi racconti sono sempre sviliti dalla loro ignoranza e dalla loro goffaggine, non c’è in essi alcuna traccia di grandezza o di umanità e a connotarli non manca quasi mai un’aggettivazione sprezzante e derisoria. Ma ciò può essere ancora una volta ricondotto allo «spirito infantile» di questo autore. Al suo gusto quasi adolescenziale per l’insulto triviale e la canzonatura. A questo destino non sfugge nemmeno Abdul Gafur, il maggiordomo di Gisborne, che, ben più della tigre, rappresenta il vero antagonista di Mowgli in questo racconto. All’apparire del ragazzo selvaggio nella dimora del suo padrone il servo lo scruta con profondo disgusto15, ma è piuttosto a lui che viene indirizzato il disprezzo di Kipling. La sua figura viene tratteggiata come opposta a quella di Mowgli. Se questi è giovane, atletico, silenzioso e fin da subito devoto al suo nuovo 14 Ibid., p. 206: «The men kneeling above the footprints slunk off quietly, for fear that Gisborne should ask them to go with him, and the young man laughed a bit to himself»; tr. it. cit., p. 433. 15 Cfr. ibid., p. 209.
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padrone, il maggiordomo è vecchio, grasso, rumoroso e si rivela infedele, sebbene sia al seguito di Gisborne da cinque anni. Inoltre egli picchia la figlia tredicenne destinata a diventare la compagna di Mowgli. La violenza esercitata sulla fanciulla costituisce uno sfogo per i rimproveri subiti dal Sahib, il quale è a conoscenza di questi abusi paterni, ma, ipocritamente, afferma: «Ti concedo di battere i tuoi, se non fai troppo rumore, perché so i tuoi costumi. I miei usi tu non li conosci»16. La rabbia di Abdul Gafur nei confronti di Mowgli arriva al punto di fargli commettere un furto per addossarne la colpa al ragazzo selvaggio, anche se questo grossolano tentativo viene presto smascherato. Il vero motivo del suo risentimento risiede però nel rapporto privilegiato che lega Gisborne a Mowgli. Nemmeno Mowgli, infatti, conosce i costumi dell’inglese, ma a questi è data una confidenza da cui il maggiordomo musulmano resta escluso. Abdul Gafur si ritiene sopravanzato e offeso nella concezione gerarchica che ha del mondo. «Non ha casta»17, lo accusa il musulmano in un giudizio che trova sprezzante e che Mowgli usa invece come prima credenziale per presentarsi a Gisborne definendosi: «un uomo senza casta, e senza padre, anche»18. La vendetta più sottile di Mowgli nei confronti del suo inadeguato nemico è proprio quella di prendersi come compagna sua figlia e il legame che egli stringe con questa fanciulla appare tanto duraturo quanto libero. A unirli per sempre non è un vincolo matrimoniale, ma una notte d’amore che trasfigura la ragazza. Una notte alla fine della quale, la ragazza, Mowgli, e i fedeli lupi suoi fratelli compongono, agli occhi dell’inglese, un quadro di gusto preraffaellita non particolarmente riuscito: la fanciulla, a cui significativamente viene negato un nome, ha le braccia al collo inghirlandato di Mowgli, intento a suonare un flauto di Pan «alla cui musica quattro enormi lupi ballavano maestosi sulle gambe posteriori»19. Il flauto di Pan e la stucchevole maniera di questa scena scompariranno fortunatamente nei Jungle Books, anche se il legame con il mondo di Heine, pur facendosi più persona16 Ibid., p. 215: «I allow thee to correct thy own household if there is not too much noise, because I know thy customs and use. My customs thou dost not know»; tr. it. cit., p. 439. 17 Ibid., p. 215: «He has no caste»; tr. it. cit., p. 439. 18 Ibid., p. 206: «a man without caste, and for matter of that without a father»; tr. it. cit., p. 434. 19 Ibid., p. 231: «[…] to whose music four huge wolves danced solemnly on their legs»; tr. it. cit., p. 448.
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le e meno derivativo, resterà comunque anche nel racconto dell’infanzia di Mowgli. Quella di Mowgli non rappresenta la sola incursione di Kipling nel mondo del dio Pan, una divinità che, come osserva Helen H. Law, surclassò ogni altro riferimento classico nel ventennio, a cavallo tra tardo Vittorianesimo ed Età edoardiana, compreso tra il 1895 e il 191420. Nello stesso anno in cui veniva pubblicato Many Inventions, Kipling scrisse anche una poesia dal titolo Pan in Vermont, in occasione del trasferimento a «Naulakha», la dimora situata presso Brattleboro, in seguito al matrimonio con l’americana Caroline Starr Balestier. Qui viene descritto l’arrivo del dio delle selve sotto le mentite spoglie di rappresentante di una ditta di articoli floreali, la «Gee & Tellus’ Sons», a cui l’autore, nella penultima strofa, chiede: «Boccioli senza bruchi, fiori senza morale e foglie imperiture/ Mele d’oro, di Giovinezza e Salute… e grazie, Pan, questo è tutto…»21. È chiaramente un componimento propiziatorio in cui la figura mitica viene evocata in quello che Patricia Merivale, definisce il suo ‘carattere benevolo’. È il dio della fecondità e della prosperità ad essere qui invocato, per quanto la sua malizia non sia del tutto trascurata, e non il dio che sovrintende alla dimensione ferina dell’umanità. È opportuno riprendere un’altra osservazione contenuta nel saggio di Merivale dove, per quanto si sottolinei che la rappresentazione di Pan in letteratura sia un fenomeno eminentemente inglese, la studiosa nota come esistano una serie di «transplanted Pans» presenti in altre letterature di lingua inglese al di fuori della Gran Bretagna22. Oltre alla poesia di Kipling viene menzionata Pan with Us, componimento di Robert Frost del 1913, e il diffuso utilizzo del mito panico tanto nelle arti figurative che in letteratura, tipico in Australia e Nuova Zelanda nel decennio che va dal 1914 al 1924 per arrivare, aggiungiamo noi, ad uno dei più famosi romanzi d’ispirazione panica, Picnic at Hanging Rock, pubblicato da Joan Lindsay nel 1967, ma ambientato nel 1901. L’uso di questa figura mitica è ben presente nella narrativa di viaggio e nei racconti esotizzanti, specialmente quando la destinazione del20 Cfr. Helen H. Law, Bibliography of Greek Myth in English Poetry, «American Classical League Bulletin», 27, 1955, pp. 28-30. 21 Rudyard Kipling, Pan in Vermont, in Id., Methuen & Co., London 1902: «Uncankered bud, immoral flower, and leaves that never fall /Apples of Gold, of Youth, of Health – and – thank you, Pan, that’s all…». 22 Cfr. Patricia Merivale, Pan the Goat-God. His Myth in Modern Times, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1969, p. 120.
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l’itinerario si sposta pericolosamente verso sud. Gli autori inglesi o nordici ricorrono al satiro anche come metafora dell’incontro con civiltà considerate più libere e primitive, o con un mondo naturale non ancora asservito e addomesticato e quindi in grado di risvegliare quel «panico» ormai non più esperibile nei paesi civilizzati. È questa una liberazione in primo luogo sessuale e si inserisce di diritto nella rielaborazione mitica operata dal vittorianesimo per esprimere, mascherandole, pulsioni altrimenti soffocate. Pan riemerge così prepotentemente nell’impatto con l’Europa mediterranea, come testimoniano diari di viaggio quali Twilight in Italy o Sea and Sardinia di D.H. Lawrence, o il racconto di E.M. Forster Story of a Panic. In quest’ultima short story, la prima della raccolta Celestial Omnibus, pubblicata nel 1911, Eustace, un adolescente inglese, si trova in vacanza presso Ravello in compagnia di alcuni suoi connazionali. L’inevitabile picnic da loro organizzato ha conseguenze nefaste ed epifaniche. La misteriosa apparizione del dio silvestre, di cui in realtà vengono descritte solo le conseguenze, lasciando il lettore nel dubbio se essa si sia manifestata veramente, getta tutti nel panico tranne Eustace, che si dimostra tanto estraneo alla disciplina britannica quanto attratto dalla rilassatezza italiana dei costumi. Un medesimo tipo di relazione può essere applicato, però, non solo ad aree identificabili all’interno della tradizione classica, ma anche a parte del mondo coloniale, come dimostra l’utilizzo della figura del ragazzo selvaggio in Kipling e Saki e quella del mito panico in ambito australiano e neozelandese. Il personaggio di Mowgli acquisisce, alla luce di questa analisi, una notevole complessità. In lui, infatti, convergono molte delle istanze che più avevano affascinato studiosi e scrittori negli ultimi decenni dell’Ottocento: un interesse antropologico per quelle popolazioni considerate primitive; la fascinazione piena d’inquietudine per l’archetipo del puer aeternus; l’attrazione, quasi una pulsione, verso il significato liberatorio e scatenante del mito panico, ma anche il suo richiamo ad una maggiore armonia con l’ambiente naturale. James Hillman, nel suo Saggio su Pan, nota come il fenomeno di un rinato interesse per questa figura mitica abbia in realtà radici piuttosto confuse e sintetizzi in sé, non troppo diversamente da quanto avviene in Mowgli, una serie di motivazioni a volte anche contrastanti fra loro. Gli esegeti di Pan, infatti, [E]rano ancora vittime di una fantasia delle «origini della specie» e, inoltre, scambiavano l’uno con l’altro, con eccessiva facilità a livello letterale, il bambino, il primitivo, il mitico e il folle. Questa intercambiabilità ha provoca-
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to una incalcolabile confusione nei confronti del cosiddetto pensiero primitivo, dell’infanzia, dell’aberrazione mentale, e anche nei riguardi del mito23.
Il fraintendimento tra Natura, Infanzia e Sauvagerie, che aveva trovato in Rousseau il suo massimo interprete settecentesco, si arricchisce ulteriormente acquisendo nuove forme e avvalendosi di nuovi miti, ma trovando sempre una sua sintesi ideale nel ragazzo selvaggio, che altro non è se non una delle manifestazioni dell’archetipo del fanciullo divino. Merivale si oppone, tuttavia, a un’identificazione di Pan con la figura del Fauno sostenendo che, contrariamente a quanto avviene con l’immagine faunesca, «una spensierata e gioiosa amoralità di un genere specificamente proprio della giovinezza, o di una condizione immortale analoga alla giovinezza umana, non è mai stata caratteristica di nessuna significativa rappresentazione di Pan»24. Pur non potendo certamente smentire le conclusioni a cui è giunta la studiosa americana, è innegabile come, fin dalla classicità, interlocutori privilegiati di Pan fossero proprio le creature giovanili. E questo è tanto più vero nel Vittorianesimo e nell’Età edoardiana dove non solo gli unici in grado di cogliere la presenza di Pan sono personaggi che ancora non hanno superato la soglia della maturità, ma in cui un processo di identificazione, a nostro avviso, si compie. Come considerare altrimenti il già ricordato Story of a Panic o Gabriel-Ernest di Saki? E quale altra interpretazione dare al Peter Pan di James Matthew Barrie o a Dickon, il dodicenne che aiuta Mary Lennox a uscire dalla sua apatia in The Secret Garden di Frances Hodgson Burnett? Questa connessione, d’altra parte, è già stata sottolineata da un altro critico statunitense, Alison Lurie, nel suo saggio Don’t Tell the Grown-Ups dove, nel capitolo dedicato alla Burnett, scrive: The Secret Garden illustra anche l’influenza di un neopaganesimo che trovava eco tra gli intellettuali dell’epoca. Il giardino contiene una sorta di spirito della natura, che è Dickon, il giovane servo di fattoria che trascorre giornate intere nella brughiera, parlando alle piante e agli animali e che è quasi un incrocio tra il Mowgli di Kipling e le numerose incarnazioni adulte del dio rurale Pan che compaiono nella narrativa edoardiana, salvando le eroine di Forster, e in seguito quelle di David Herbert Lawrence, da un’esistenza di cadaveri viventi25. 23
James Hillman, Saggio su Pan, tr. it. A. Giuliani, Adelphi, Milano 2003, p. 36. Merivale, Pan the Goat-God cit., p. 156: «a careless, joyful amorality […] of a type emphatically characteristic of youth, or of an immortal state of an analogous with human youth, has never been typical of any significant Pan figure». 25 Alison Lurie, Don’t Tell the Grown-Ups. The Subversive Power of Children’s Literature, Back Bay Books, Boston 1990, p. 143: «The Secret Garden also shows the influen24
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I protagonisti del gruppo scultoreo di Pan e Dafni in cui il satiro, mosso da ben altre intenzioni che non quelle musicali, insegna a suonare la syrinx all’efebico pastore, si confondono e si sovrappongono in questo periodo storico e in questo clima culturale. Le due figure, quella del puer aeternus e quella del dio Pan, si associano fino quasi a sovrapporsi nell’espressione di una vitalità libera da vincoli e in pieno contatto con il mondo naturale. La citazione tratta da Lurie invita tuttavia a un’ulteriore riflessione. Infatti l’opera di Kipling, tacciata di conservatorismo nonché di essere voce dell’Impero, si trova in questo caso accostata a due dei suoi più naturali oppositori, come Forster o Lawrence, i quali, anziché sposare la causa della missione civilizzatrice inglese, auspicavano che l’Inghilterra stessa fosse vivificata dal contatto con mondi altri e si liberasse di un codice morale percepito come ipocrita. Il dissidio appare effettivamente insanabile, ma è opportuno ricordare che In the Rukh, per quanto si collochi come racconto fondativo della saga di Mowgli, sancisce anche il crepuscolo, la fine di questo personaggio e non solo la sua nascita. O meglio è una nascita, quella di Mowgli, che contiene in sé la sua morte. In una prospettiva kiplinghiana già il momento in cui il piccolo cucciolo di uomo viene tratto in salvo dai lupi contiene il distacco destinato a compiersi un giorno dal mondo animale. Sarà Bagheera a confidargli: «come io sono tornata alla mia jungla tu dovrai tornartene fra gli uomini»26. Così come in Kim, Kipling ci offre il racconto di un’infanzia spensierata, libera e felice, ma non dimentica di porre, alla fine di queste avventure, una disillusione tanto amara quanto necessaria. In ambito edoardiano i racconti che mettono al centro della propria attenzione le figure archetipiche di Pan e del fanciullo divino si concludono generalmente con una nota aperta, una disposizione utopica del tutto assente in Kipling, che si preoccupa invece di sottolineare come l’identificazione con la giungla per Mowgli e con l’India per Kim debba un giorno finire. Non esiste alternativa pena una regressione che per l’autoce of the new paganism that found a following among liberal intellectuals of the time. It contains a kind of nature spirit in Dickon, the farm boy who spends whole days on the moors talking to plants and animals and who is a sort of cross between Kipling’s Mowgli and the many adult incarnations of the rural Pan who appear in Edwardian fiction, rescuing E.M. Forster’s heroines, and later D.H. Lawrence’s, from death in life»; tr. it. F. Saba Sardi, Non ditelo ai grandi, Mondadori, Milano 1993, p. 72. 26 Kipling, The Jungle Books, Penguin Books, London 1994, p. 22: «as I returned to my jungle, thou must go back to men at last»; tr. it. U. Pittola, Il libro della giungla, Mursia, Milano 1974, p. 26.
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re anglo-indiano, contrariamente a quanto pensavano gli «intellettuali liberali» sedotti dal mito panico, non rappresentava una liberazione, ma un’abdicazione a se stessi e alla propria dignità di uomini inglesi. Nel suo illuminante saggio Narratives of Empire, Zohreh T. Sullivan sostiene come Kipling, dopo aver esplorato gli aspetti più foschi della compromissione imperiale nella vita indiana, descrivendola come una discesa agli inferi, si occupi invece, a partire dal suo soggiorno americano, quando ormai l’India era stata da lui abbandonata per sempre, di personaggi che compiono il percorso inverso e, partendo da un’identità condivisa con il mondo naturale o con quello indiano, se ne distaccano per ascendere verso quella che egli considera essere la loro vera identità27. Uno dei racconti più espliciti riguardo a questa paura di assimilazione con la terra indiana tipica degli esordi del Kipling narratore è The Strange Ride of Morrowbie Jukes, da lui scritto durante il suo secondo e ultimo periodo indiano, protrattosi dal 1882 al 1889. Il racconto fu pubblicato sul Quartette nel 1885, in un momento in cui il diciannovenne Kipling era torturato da insonnia, depressione e crampi allo stomaco, compagni non inusuali per lui, e la vicenda narrata rispecchia infatti uno stato di prostrazione. Qui assistiamo alla caduta, seguita a una dissennata cavalcata notturna, di un ufficiale inglese che sprofonda in una voragine dove sono segregati quegli indiani risvegliatisi da uno stato di morte apparente. Fuggire è impossibile e Jukes, l’ufficiale inglese, è circondato da una comunità di non-pari, di indiani insidiosi e insinuanti. La conformazione del luogo; l’insistenza sulle buche in cui dormono questi esiliati dal mondo; i continui riferimenti al comportamento di Jukes il cui carattere, ci dice Kipling in più di un’occasione, cede «a un terrore di origine nervosa […] come se foss[e] stato una donna»28, abdicando al suo status di «rappresentante di una razza dominante» e diventando invece «indifeso come un bambino»29, rimandano ad una de-verilizzazione del personaggio, ad una femminilizzazione e infantilizzazione intesa come fenomeno regressivo. 27
Cfr. Zohreh T. Sullivan, Narratives of Empire. The Fictions of Rudyard Kipling, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 113. 28 Kipling, The Strange Ride of Morrowbie Jukes, in Id., Wee Willie Winkie, Under the Deodars, The Phantom ’Rickshaw and Other Stories, Macmillan and Co., London 1951, p. 190: «with nervous terror as any woman»; La strana cavalcata di Morrowbie Jukes, in, Racconti dell’India della vendetta della memoria, 2 voll., a cura di A. Monti, Mondadori, Milano 1987, vol. I, p. 63. 29 Ibid., p. 184: «representative of the dominant race»; «helpless as a child and completely at the mercy of his native neighbors»; tr. it. cit., p. 58.
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Il tema della regressione, dello smarrimento della propria identità di uomo dominatore e civilizzato al cospetto del selvaggio femmineo/infantile/animalesco è un tema centrale di tutta la narrativa di Kipling. Questo è da lui interpretato come il grande pericolo. Smarrire se stessi, d’altra parte, significa perdere il controllo dell’India, e i personaggi di questi racconti anglo-indiani si trovano sempre in una condizione di uomini sull’orlo di una crisi di nervi. La regressione si può attuare in varie direzioni: verso un ruolo femminile considerato subalterno, come in The Strange Ride of Morrowbie Jukes, o verso la bestialità, come in The Mark of the Beast, oppure si può dissimulare dietro la hybris di chi non comprende i limiti dell’occidentale, la soglia rigorosa e moralistica entro cui si deve muovere, come in The Man Who Would Be King. Certamente anche le narrazioni che hanno Kim e Mowgli per protagonisti possono essere intese a loro volta come forme di regressione, come un ritorno all’infanzia. Hillman afferma che, quando la visione dominante che dà unità a un periodo storico e a una temperie culturale si incrina, la coscienza collettiva retrocede in «contenitori più antichi», alla ricerca di remote, ma sempre nuove forme di rinascita. Lo psicanalista junghiano interpreta il recupero della Grecia non solo come impulso romantico, ma anche come possibile sintomo di una crisi. Il riaffacciarsi del culto di Pan e l’affermazione dell’archetipo del puer aeternus diventano quindi elementi caratterizzanti una crisi imperiale intuita, forse più a livello inconscio che manifesto. L’attrazione per l’irrazionale che si cela dietro il positivismo; la normatizzazione di studi quali l’archeologia, l’antropologia e l’occultismo, testimoniano un interesse per ciò che si riteneva difforme, diverso ed estraneo quando invece esso rappresentava il più fedele degli specchi di una società in crisi. Questi ricercatori del mistero, convinti di essere giunti al culmine estremo del sapere e della potenza di un’intera civiltà e di averne individuato il segreto in quello che Hillman chiama «il bambino primordiale del livello immaginale»30, ne stavano invece descrivendo il crollo, finendo col mettere in discussione l’uomo civilizzato europeo. In questa deriva Kipling rappresenta – malgrado la sua stessa fascinazione per questo «bambino primordiale», e malgrado egli ne fornisca una delle versioni più seducenti – un paradossale elemento di resistenza. Per primo egli aveva intuito, all’apice dell’impresa imperiale, in occasione del giubileo della Regina Vittoria, il rischio di una decaden30
Cfr. Hillman, Saggio su Pan cit., p. 36.
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za e ne aveva espresso il timore nel suo famoso Recessional. L’infanzia raffigurata da Kipling sia nei Jungle Books che in Kim diventa così la più affascinante stagione della vita, ma, allo stesso tempo, assume i caratteri di una fase irrazionale da abbandonare, da lasciarsi allo spalle non appena possibile. Contrariamente a quanto avviene in altre narrazioni coeve, per lo più rivolte all’infanzia, come il già ricordato Peter Pan di J.M. Barrie, non è possibile indugiare su quella soglia, nel chiaroscuro della linea d’ombra tra giovinezza e maturità. Ciò che avviene nelle infanzie di Kipling non è un cambiamento impalpabile e malinconico, ma una vera e propria frattura che comporta un dolore quasi fisico. Anche in Kipling si attua così quello che sia Albertazzi che Said definiscono come «il Regno Sterile»31: infatti i soli bambini «eterni» della narrativa di Kipling sono le apparizioni fantasmatiche protagoniste di They, il racconto che egli dedicò alla figlia scomparsa. La regressione infantile attuata da Kipling è, in realtà, una controregressione. Siamo introdotti in un mondo fanciullesco per poi essere invitati, alla fine delle narrazioni stesse, a sbarazzarcene. L’unico elemento che può essere mantenuto è quello di un polimorfismo infantile che consente di entrare in contatto con comunità diverse. Sia a Mowgli che a Kim viene chiesto di crescere mantenendo però quella qualità ibrida acquisita in età infantile, anzi, acquisita proprio in virtù del loro status infantile, ma di metterla a frutto a maggior gloria dell’Impero. Per Mowgli ciò si avvera diventando una specie di guardia forestale e per Kim entrando a far parte del servizio spionistico inglese. È essenziale che le loro qualità non siano fini a se stesse, come avviene, appunto, nel gioco infantile, ma che diventino di utilità per l’Impero, e non importa se tali attività mantengano entrambe la forma del gioco perché questo, per usare la definizione usata da Hobson, è stato meccanizzato «into routine of military drill». Il dramma latente alle due parabole esistenziali descritte da Kipling nei Jungle Books e in Kim è proprio quello di raccontare una vicenda felice e appagante e poi concludere affermando che è necessario lasciarsela alle spalle. Già i primi racconti indiani di Kipling erano intrisi di colpa e perdizione – una colpa e una perdizione che non avevano nulla di religioso, ma che venivano provocati dall’infrazione a una severa divisione etnica, a una rigorosa distinzione tra patria e colonia – al 31 Cfr. Silvia Albertazzi e Adalinda Gasparini, Il romanzo New Global. Storie di intolleranza, fiabe di comunità, Edizioni ETS, Pisa 2003, pp. 57-79 e Edward W. Said, The World, the Text and the Critic, Vintage, New York 1991, pp. 16-17.
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punto da rendere necessaria una cornice introduttiva e conclusiva in cui l’autore prendeva le distanze dalla scabrosa materia narrata. Qui avviene qualcosa di molto simile. L’infanzia animalesca di Mowgli è una parentesi a cui In the Rukh fa contemporaneamente da prologo e da epilogo. Il ritorno all’infanzia, ben più della seduzione femminile, diventa così, in Kipling, la tentazione a cui è necessario resistere. Kipling aveva forse intuito che le due figure che sovrintendono al declino europeo, alla deriva irrazionalistica che condurrà alla Prima Guerra Mondiale, sono proprio Pan e il puer aeternus. Egli, pur essendo uno tra i più convincenti interpreti di questi miti, si oppose ad entrambi senza comprendere che ciò che di più duraturo vi è nella sua opera non è l’atto di sacrificio e disciplina che la conclude, ma lo struggimento per qualcosa che si è perduto per sempre. Per tornare a In the Rukh è invece importante sottolineare come il riferimento ad Heine e alla figura di Pan non costituisca certamente il solo riferimento intertestuale all’interno di questo racconto. La scena della danza dei lupi al suono della syrinx di Mowgli, che rappresenta un chiaro rimando ellenizzante e, in special modo, orfico, è preceduta da un paragrafo in cui siamo introdotti alla sua musica lieve, definita «a murmur of voices»32. Una definizione che rimanda a Caliban, il cui sonno è turbato da bisbigli: «A volte sento/Mille strumenti vibrare/E mormorarmi alle orecchie./E a volte voci»; «L’isola – ci ricorda il mostro di The Tempest – è piena di rumori»33. Così come l’isola shakespeariana, anche il rukh di Kipling è popolato da suoni, voci e musiche. Ma vi sono altri elementi che accomunano l’ultimo dramma di Shakespeare a questo racconto dello scrittore anglo-indiano. Mowgli può infatti essere interpretato come un personaggio in grado di fondere le qualità positive di Ariel a quelle inquietanti di Caliban, egli concilia in sé tutti e quattro gli elementi naturali spartiti fra i due demoni. Tuttavia, per quanto la condizione di Mowgli sia da considerare superiore a quella del mostro shakespeariano, anche a lui è negata la possibilità di congiungersi a un’eventuale Miranda. Egli è senza dubbio un «bridge builder», un costruttore di ponti, ma la fanciulla destinatagli non può e non deve essere inglese e la licenza di quel32
Kipling, In the Rukh cit., p. 231. William Shakespeare, The Tempest, III, 2, Cambridge University Press, Cambridge 1969: «Sometimes a thousand twangling instruments/ Will hum about mine ears; and sometime voices»; «the isle is full of noises»; tr. it. A. Lombardo, La tempesta, Garzanti, Milano 1984, p. 123. 33
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la notte d’amore, piuttosto ardita in ambito vittoriano, è assolutamente impensabile per una tredicenne suddita della Regina Vittoria. Inoltre, la stessa relazione che si instaura fra Gisborne e Mowgli e, in special modo, tra Muller e Mowgli, richiama da vicino quella tra Prospero, da un lato, e Caliban e Ariel, dall’altro. Prospero conosce l’isola e la possiede intimamente solo perché è riuscito a strapparne i segreti ai suoi sottoposti. Essi gli sono servi più o meno fedeli, ma, per quanto custodiscano ben più del demiurgo i misteri dell’isola, non possono sottrarsi all’obbedienza. Così Mowgli rappresenta per Gisborne, e ancor di più per Muller, la possibile soluzione di un mistero, l’essenza più profonda e indecifrabile della giungla stessa. Se è vero che gli inglesi possiedono materialmente il rukh, la sua natura più recondita sfugge loro, tanto che l’Ispettore Generale tedesco è costretto ad ammettere che: «il cuore del rukh non lo conoscerò mai»34. Le affinità tra In the Rukh e The Tempest non si limitano però ai personaggi concentrandosi soprattutto sulle ambientazioni. In entrambi i casi si tratta di luoghi chiusi, pressoché impenetrabili ad influenze esterne, e di luoghi magici, posseduti da un oscuro incantamento. Eppure anche su di essi la signoria dell’Impero è innegabile. Da un lato incarnata dal potere magico di Prospero e, dall’altro, più prosaicamente, dall’autorità dei due funzionari. L’isola di Shakespeare non si sottrae poi all’uso simbolico che, nel corso dei secoli, è stato attribuito a questo spazio fisico. Infatti le isole, come abbiamo già ricordato nel primo capitolo, non si limitano ad essere un luogo deputato all’infanzia, ma sono, in letteratura, un’immagine dell’infanzia stessa. Gli anni di fanciullezza consumati sull’isola shakespeariana, siano essi quelli di Miranda o di Caliban, sono tuttavia vissuti sotto lo sguardo vigile di Prospero, la loro non è un’infanzia libera, non è, come invece è per Mowgli, un’infanzia senza padre. Questa libertà è però destinata a svanire con la fine della sua giovinezza. Egli sarà acquisito dai ranghi imperiali e la consegna impostagli da Muller sarà «non più errare»35. Dopo anni di dominio incontrastato egli è ora costretto ad abdicare prendendo servizio per essere non più il padrone della giungla, ma il suo prigioniero. L’espressione è quanto mai appropriata perché il rukh non è solo il luogo del potere di Mowgli, ma esso rappresenta anche il cerchio magico al di fuori del quale egli non può uscire. Tanto che la sua incursio34 Kipling, In the Rukh cit., p. 230: «I shall nefer know der inwardness of der rukh!»; tr. it. cit. p. 448. 35 Kipling, In the Rukh cit., p. 228: «to wander no more»; tr. it. cit., p. 447.
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ne nel villaggio indiano narrata nei Jungle Books si concluderà con la distruzione del villaggio stesso per opera sua e dei suoi alleati animali. La giungla rimette radici là dove era stata estromessa confermando, ancora una volta, la sua funzione simbolica di «bosco sacro». Sul rapporto che lega il bosco sacro all’infanzia, Marie-Louise von Franz ha scritto pagine di insuperabile efficacia: Penso che nessuno possa realmente sviluppare la propria funzione interiore prima di aver creato un témenos, cioè un bosco sacro, un luogo nascosto dove poter giocare. È importante che il gioco venga fatto in assenza di spettatori: i bambini stessi hanno bisogno di un luogo e di un tempo dove non ci sia alcuna interferenza da parte di un pubblico adulto36.
In effetti, il ruolo che tocca agli inglesi in questo racconto è poco più di quello di spettatori. Eppure è sufficiente per ‘turbare’ il gioco di Mowgli e per modificarne per sempre il significato. La dimora di Gisborne, che nella logica dell’Impero è un secondario seppur essenziale avamposto, basta quasi da sola a presidiare la magia del bosco sacro e ad attenuarne il potere. «Il suo bungalow, una casetta di due stanze dai muri bianchi e dal tetto di paglia, sorgeva ad un’estremità del gran rukh e lo dominava37. [Gisborne] non fingeva nemmeno di avere un giardino, perché il rukh avanzava fino alla sua porta»38. Il bungalow del funzionario inglese per quanto assediato dalla giungla, la domina e la giungla stessa trova una soglia invalicabile in quella piccola casa, contrariamente a quanto era avvenuto sia per la città abbandonata, finita in mano ai Bandar-log, il popolo delle scimmie, sia per il villaggio indiano, abbattuto dalla rabbia di Mowgli e divorato dal lento ma inarrestabile avanzare del rukh. La conclusione che si può trarre da questa metafora di Kipling è 36 Marie-Louise von Franz, L’eterno fanciullo. L’archetipo del puer aeternus, tr. it. M.C. Baldi, Red Edizioni, Como 1989, p. 127. 37 Qui il gioco linguistico di Kipling si fa estremamente raffinato perché in inglese il termine overlook può significare sia un punto privilegiato, un belvedere da cui osservare il panorama (per cui si accende subito la sinistra memoria dell’Overlook Hotel, teatro di Shining), ma può implicare anche il senso di un comando, di un presidio. Evidentemente anche per Kipling è chiaro come la possibilità di vedere, di tenere sotto controllo, implichi, di per se stessa, un primato. Il che rappresenta un’ironia non priva di profondo significato per uno scrittore che, durante la sua infanzia, ha rischiato di diventare cieco. 38 Kipling, In the Rukh cit., pp. 202-203: «His bungalow, a thatched white-walled cottage of two rooms, was set at one end of the great rukh and overlooking it. [Gisborne] made no pretence at keeping a garden, for the rukh swept up to his door»; tr. it. cit., p. 431.
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che generazioni di indiani possono succedersi senza lasciare una vera traccia nel loro paese, mentre l’Impero si staglia come eterno e immutabile. La parabola di Mowgli risulta così non troppo diversa da quella di Victor dell’Aveyron. Anche qui il ragazzo selvaggio perde il suo paradiso terrestre, la sua possibilità di un’infanzia eterna perché diventa oggetto di un’osservazione sistematica. In Kipling però la parabola si completa in modo ancor più sottile perché ciò che si chiede a Mowgli è proprio di rinunciare a uno sguardo autonomo per diventare invece un osservatore, una spia dell’Impero. C’è tuttavia un aspetto che, fra gli altri, appare piuttosto incoerente e immotivato all’interno di questo racconto. Se l’attrazione che i due uomini europei nutrono nei confronti del ragazzo selvaggio può apparire quasi scontata. Lo è assai meno la devozione che, fin da subito, Mowgli tributa loro. In tutta la narrazione dei Jungle Books la sua orgogliosa fierezza non lo fa mai piegare davanti a nessuno, né agli indiani del villaggio, né agli altri animali, che sono suoi fratelli, ma che gli restano subalterni. Anche in questo racconto, che dei Jungle Books costituisce la premessa e la conclusione, Mowgli esibisce qualità straordinarie dimostrandosi capace di governare le creature del rukh come fossero placidi animali da pascolo. Eppure egli, anche di fronte al più genuino sbalordimento di Gisborne, non manca mai di onorare l’inglese come il solo padrone della giungla. «È il Sahib che comanda questo rukh» e poi ancora «È il rukh del Sahib»39. Il rapporto che lega Mowgli a Gisborne è lo stesso che vincola gli animali al ragazzo selvaggio. Se è vero che Gisborne stenta, per difetto di cultura e per un’eccessiva propensione alla razionalità, a riconoscere la natura prodigiosa del ragazzo, è anche vero che egli non esita a volerlo arruolare negli ingranaggi del Department. «Gisborne fumò a lungo, e chiuse le sue riflessioni giudicando che in Mowgli aveva trovato l’ideale battitore che egli e le Autorità cercavano da tempo»40. Tocca però ancora una volta a Muller di esplicitare l’arruolamento di Mowgli in modo categorico e definitivo: Tu dovrai d’ora in poi non più errare per il rukh cacciando qua e là gli animali per divertimento o per fartene bello, ma servire sotto di me, che sono il 39 Ibid., rispettivamente p. 213 e p. 216: «The Sahib is in charge of this rukh»; «It is the Sahib’s rukh»; tr. it. cit., p. 438, p. 440. 40 Ibid., p. 213: «Gisborne sat long smoking, and the upshot of this thoughts was that in Mowgli he had found at last that ideal ranger and forest-guard for whom he and the Department were always looking»; tr. it. cit., p. 438.
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Governo per i Boschi e le Foreste, e vivere nel rukh come guardia forestale; cacciar via le capre dei paesani quando non c’è ordine di lasciarle pascolare nel rukh, e farle entrare quando c’è ordine di lasciarle pascolare nel rukh; tenere a posto, come sai fare, nilghai e cinghiali quando diventano troppi; dire a Gisborne Sahib dove si rintanano le tigri, e quale selvaggina c’è nel rukh, e dare avviso immediato di ogni incendio, che tu sai avvertire più rapidamente di chiunque altro. Per questo c’è ogni mese una paga in argento, ed alla fine, quando avrai donna e bestiame e forse dei figli, c’è una pensione. Che risposta mi dài?41
La figura di Muller nasconde un paradosso. Se Gisborne, fin dal suo arrivo considera Mowgli poco più di un eccellente candidato per sostituire la guardia forestale scomparsa, il tedesco è perfettamente in grado di riconoscere in lui la stimmate del Fauno. Egli si dichiara un ateo convinto, anzi, il fascino esercitato dal rukh lo spinge a definirsi un pagano, un anti-cristiano. Eppure la proposta che egli fa a Mowgli è esattamente la stessa di Gisborne. Per di più essa viene formulata con un linguaggio biblico in cui, tra l’altro, gli insopportabili germanismi che lo avevano fin lì caratterizzato si attenuano notevolmente. La proposta di Muller non costituisce, poi, una semplice offerta di lavoro, ma elabora in sé una serie di comandamenti ben definiti in cui, alla fine, al posto della salvezza eterna, viene offerta una pensione d’anzianità. Ogni assunto successivo è dipendente dalla principale «to wander no more» che racchiude perfettamente quella rinuncia alla libertà nascosta in questa inusuale proposta. Apparentemente può sembrare che essa non cambi di molto la posizione di Mowgli nella giungla e il suo ruolo. Infatti non è nella forma che la sua vita risulta cambiata, ma nel suo contenuto più profondo. Mowgli non si dedicherà più alle sue consuete attività «for sport or for show», come aveva sempre fatto, ma come un servizio reso all’Impero. Tra il prima e il dopo l’assimilazione del ragazzo selvaggio come guardia forestale vi è la stessa differenza 41 Ibid., pp. 228-229: «Thy business is this, to wander no more up and down the rukh and drive beasts for sport or for show, but to take service under me, who am the Government in the matter of Wood and Forests, and to live in this rukh as a forest-guard; to drive the villager’s goats away when there is no order to feed them in the rukh; to admit them when they become too many; to keep down as thou canst keep down, the boar and the nilghai when they become too many; to tell Gisborne Sahib how and where tigers move, and what game there is in the forests; and to give sure warning of all the fires in the rukh, for thou canst give warning more quickly than any other. For that work there is a payment each month in silver, and at the end, when thou hast gathered a wife and a cattle and, may be, children, a pension. What answer?»; tr. it. cit., p. 447.
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che corre tra le partite di football a Rugby e il campo di battaglia nella guerra di Crimea: le une diventano funzionali all’altro. Muller, forse il personaggio più poetico e irrazionale di tutto il racconto – Mowgli infatti obbedisce a una sua coerente logica naturale – formula l’assunto più prosaico e piattamente sensato di tutto il racconto. Non è corretto rapportarsi a personaggi di finzione come se fossero reali, ma leggendolo ci si domanda inevitabilmente se Muller, e Kipling, comprendano la profonda contraddizione in cui cadono. Essi celebrano la grandezza di Mowgli, la sua unicità, e piuttosto che considerarlo come una specie di divinità, come l’ultima incarnazione del fanciullo divino, gli affidano la custodia della foresta per conto terzi. Una delle caratteristiche salienti della figura del puer aeternus è quella di non appartenere al tempo storico, ma di essere «perfetto primordialmente». Nella conferenza dedicata a questo tema che James Hillman tenne Eranos nel 1967 egli metteva in risalto lo stretto rapporto che lega la figura del puer a quella del senex. Per entrambe queste figure esiste un volto positivo ed uno negativo che si completano e contrastano a vicenda. Il puer positivo, sostiene Hillman, può essere indotto dal senex negativo a entrare nel mondo temporale. Il puer perde allora «il contatto con il proprio aspetto di significato e diventa il puer negativo. E muore. E allora abbiamo passività, chiusura, perfino la morte fisica»42. Mowgli esce così dall’eternità della sua infanzia per aderire all’ordine imperiale, che invece appartiene alla storia e dopo essere stato il solo padrone della giungla viene spodestato senza che nemmeno si accenda un conflitto, diventando così un semplice custode. Secondo una tradizione resa popolare in Inghilterra da Elizabeth Browning, nel momento del trapasso di Cristo dei marinai sentirono levarsi un grido mentre costeggiavano un’isola: «il grande dio Pan è morto!» Con la morte che avrebbe portato con sé la fine del mondo classico scompariva anche la divinità che incarnava gli istinti più ferini e naturali. Così, per Mowgli, al momento del suo ingresso nel mondo autoritario dell’Impero, e della definitiva uscita dalla sua infanzia, si può dire che egli muoia come il dio silvestre. *
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James Hillman, Puer Aeternus, tr. it. A. Bottini, Adelphi, Milano 2004, p. 105.
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Nella sua autobiografia Kipling invita coloro che intendano intraprendere la carriera letteraria a tollerare i plagiari riferendosi, non senza malcelata insofferenza, a E.R. Burroughs ed al suo Tarzan43. In realtà, come abbiamo già visto, nel plasmare Mowgli egli procede ad un’originale rielaborazione di miti preesistenti che non si riferiscono solo alla tradizione occidentale. Riesce infatti difficile credere che anche la tradizione indiana riguardante il «fanciullo divino» non abbia esercitato un influsso nell’ideazione di questo personaggio. Fra le possibili radici Károly Kerényi ne individua una che ci appare particolarmente appropriata e cioè quella raccontata nel Mahabharata dove Markandeya, l’eterno giovane eremita, si imbatte in un fanciullo divino, di nome Narayana. In modo tanto paradossale quanto significativo Markandeya trova ricetto all’interno del fanciullo che è sia un bambino che un gigante in cui è racchiuso un intero universo44. Quest’identificazione di un fanciullo divino con un mondo a parte ci sembra calzante anche per la condizione di Mowgli il quale contiene in sé la sua giungla tanto quanto ne è contenuto. In realtà Mowgli concilia molti degli elementi descritti da Jung e Kerényi come, ad esempio, il fatto che il fanciullo divino sia quasi sempre un bambino abbandonato. Il suo stato di orfanezza e abbandono ne costituisce, per quanto possa sembrare contraddittorio, l’originale punto di forza. Lo isola dalle influenze legate ad un tempo determinato per renderlo, invece, indeterminato e atemporale. Privato del conflitto generato dalla figura paterna egli può retrocedere ad un grado di originarietà assoluta. Se la figura paterna è, per lo più, assente in toto, quella materna assume caratteri alquanto singolari, di presenza e di assenza al tempo stesso, esattamente come avviene per Messua, la madre di Mowgli, che ama suo figlio, ma si ostina a chiamarlo con un nome che non gli appartiene più, quello di Nathoo. È proprio di Mowgli anche il carattere prodigioso del fanciullo divino, la sua invincibilità. Quando commentatori contemporanei irridono questo aspetto considerandolo antimoderno e più appropriato, semmai, ad un supereroe da fumetto che a un personaggio letterario del morente secolo XIX, essi non mettono a fuoco la complicata genealogia che Mowgli può vantare. Kerényi sottolinea inoltre come tra i principali alleati del fanciullo divino vi siano sempre gli animali, soprattut43
Cfr. Kipling, Something of Myself cit., p. 218. Cfr. Károly Kerényi, Il fanciullo divino, in C.G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, tr. it. A. Brelich, Boringhieri, Torino 1990, pp. 68-69. 44
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to se si tratta di belve feroci, che egli riesce a piegare al suo volere come se fossero docili bestie da pascolo. «È un tratto dionisiaco che i lupi e gli orsi, presi dal suo incantesimo, appaiano in forma di mansueti buoi, ed è dionisiaco che siano essi a punire i suoi nemici»45. Jung metterà in luce anche il conflitto innescato dall’archetipo del puer. Esso infatti incarna una necessaria regressione volta a mantenere vivo il rapporto che una civiltà ha con le proprie origini, offrendo una residua immagine d’infanzia. Eppure, scrive Jung, «il retrogradismo, mentre è più vicino alla naturalezza, è tuttavia continuamente minacciato da un penoso risveglio»46. Il progresso è invece sempre conquistato, secondo lo psicanalista, attraverso la volontà, in virtù di uno ‘spasimo’. Lo spasimo, l’atto di forza e di violenza su se stessi, volto al superamento dell’infanzia e degli istinti primordiali, è tipico di Kipling che, sebbene sia identificato come uno scrittore reazionario, si rivela essere uno straordinario interprete della modernità e delle sue contraddizioni. Infatti quando Hillman, nel suo saggio su Pan, elenca le vie di fuga che si aprono all’uomo contemporaneo: «la fuga nel futurismo e nelle sue tecnologie, la conversione all’Oriente e all’interiorità, il farsi primitivi e naturali e l’ascesa spirituale e l’abbandono del mondo in una totale trascendenza»47, si rimane sgomenti constatando come la narrativa di Kipling contenga ciascuna di queste possibili vie di scampo senza che, tuttavia, l’autore anglo-indiano si faccia illusioni in proposito. Infatti, nel conflitto tra Oriente e Occidente, tra età adulta ed infanzia, egli finisce sempre per soffocare ogni scappatoia verso quello che considera come irrazionale. In Kipling c’è un rifiuto della ‘entelechia’ junghiana, di una possibile sintesi degli opposti, per quanto, proprio nei Jungle Books, sia offerta una visione dell’India, seppur non scevra di conflitti, meno negativa di quella che aveva caratterizzato gran parte dei suoi racconti precedenti e per quanto, proprio in quest’opera, Kipling si avvicini a una conciliazione, che sfugge però all’ultimo istante. Questa nuova rappresentazione era dovuta non solo ai destinatari del libro stesso, che si rivolgeva all’infanzia, ma anche al distacco definitivo che Kipling ebbe, a partire dal 1889, dal suo paese natale, a cui fece fugacemente ritorno soltanto nel 1891, in visita ai genitori, per poi 45
Ibid., p. 67. Carl Gustav Jung, La psicologia dell’archetipo «Fanciullo», in Jung e Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia cit., p. 125. 47 Hillman, Saggio su Pan cit., p. 13. 46
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abbandonarlo per sempre, come in un volontario ed ostinato esilio. Sebbene questo distacco ne avesse attenuato le tinte forti e fosche, l’India rimase per Kipling il luogo privilegiato dell’immaginario anche durante il suo soggiorno americano, compreso tra 1892 e il 1896, tanto che, in una lettera datata 18 gennaio 1893, indirizzata a W.E. Henley, egli ammette di non essere ancora in grado di raccontare lo spirito del suo nuovo paese d’elezione48. In questo lasso di tempo Kipling attese alla scrittura di parte dei racconti che confluirono in Many Inventions e dei due Jungle Books, apparsi a distanza di un anno l’uno dall’altro (1894 e 1895). I due libri si compongono di sedici narrazioni divise in parti uguali e le vicende di Mowgli riguardano soltanto otto di esse, tre contenute nel primo volume e cinque nel secondo. La loro ambientazione, collocata nella giungla di Seonee, nello stato di Madhya Pradesh, non nasceva da un’esperienza diretta, ma dai resoconti e dalle fotografie scattatevi da Aleck e Edmonia Hill, coppia presso la quale egli visse il suo ultimo periodo indiano, abitando in una suite della loro dimora chiamata il «Belvedere», ad Allahabad. Già il titolo del primo dei racconti è emblematico dello spirito fortemente pedagogico che innerva i Jungle Books. Mowgli’s Brothers allude al fatto che, come avviene in ogni narrazione fiabesca, il protagonista, per quanto abbandonato ed unico nel suo genere, non sia affatto solo. Fin da subito è chiaro che, se egli ha dei nemici, Shere Khan la tigre e Tabaqui lo sciacallo, può altresì contare su un gruppo di sodali, anche se è opportuno sottolineare come questa caratteristica non si limiti al più famoso dei suoi libri per ragazzi, ma possa essere rintracciata in quasi tutta la sua opera. Come in The Strange Ride of Morrowbie Jukes, come in The Man Who Would Be King, intorno ai protagonisti c’è una comunità, positiva o negativa che essa sia. Non è certo un’operazione nuova, in sede critica, quella di interpretare queste fratellanze, queste logge massoniche o questi club in chiave biografica: Kipling non solo era massone, ma era anche stato il membro più giovane dell’Atheneum Club, uno dei più esclusivi di Londra, e per tutta la vita egli fu ansioso, pur nella sua indipendente fierezza, di iscrivere il proprio nome a gruppi ora militari ora civili, con la non trascurabile eccezione di un qualsivoglia coté letterario, da cui si 48 Cfr. Angus Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling. His Life and Works, Pimlico, London 1994, pp. 189-190.
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tenne sdegnosamente lontano almeno quanto fu sdegnosamente tenuto a distanza. Ma la costante presenza nella sua opera di una comunità educante o, a seconda dei casi, diseducativa, rimanda anche a una struttura tipicamente inglese, non solo per quanto riguarda la sacra istituzione del club, ma anche per quanto concerne il sistema educativo, che strappava i figli alle famiglie per crescerli in College e Public school. Anche la vita di Mowgli, che la tigre vorrebbe fin da subito sopprimere, appartiene al branco dei lupi, i quali accettano di risparmiarla per l’offerta di un toro fatta da Bagheera in sua intercessione. I termini che abbiamo qui usato invitano a parallelismi religiosi evocando l’episodio dell’ariete immolato in olocausto al posto di Isacco49. Il linguaggio che Kipling adotta per l’apparizione di Mowgli attinge alla Bibbia, fatto tutt’altro che inconsueto in un autore che aveva modellato il proprio stile denso e laconico su quello dell’Antico Testamento, mentre in In the Rukh, come abbiamo visto, aveva fatto ricorso a riferimenti da un lato magici e dall’altro grecizzanti. D’altra parte era stato Jung stesso a sottolineare come la figura del Bambino Gesù potesse essere avvicinata all’archetipo del fanciullo divino50. Fin dal suo primo apparire, ancora inconsapevole delle decisioni capitali che il consiglio sta prendendo a suo riguardo mentre lui è intento a giocare con delle pietruzze, Mowgli è fatto oggetto di profezia, sia da parte di Shere Khan che di Bagheera, la quale sentenzia al suo mortale nemico che: «Verrà il tempo in cui questo cosino spelacchiato ti farà ruggire in un altro modo, o io non conosco affatto gli uomini»51. La stessa occupazione di Mowgli in questo episodio, che appare, a una lettura superficiale, priva di significato, se non quello di connotarlo come poco più di un infante, richiama invece alla memoria l’episodio evangelico in cui a Gesù viene sottoposta in giudizio un’adultera ed egli ascolta distrattamente le accuse mentre scrive sulla sabbia con un dito. I teologi si sono sbizzarriti nel dare le più varie interpretazioni a questo gesto, ma quello che ci preme qui sottolineare è una prossimità tra la figura cristologica e quella di Mowgli, una prossimità rafforzata dal nemico destinato in sorte da Kipling al suo ragazzo selvaggio: la tigre. 49
Cfr. Genesi, 22, 12-14. Cfr. Jung, Psicologia dell’archetipo del Fanciullo, in Jung e Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia cit., p. 117. 51 Kipling, The Jungle Books cit., p. 19: «Time comes when the naked thing will make thee roar to another tune, or I know nothing of Man»; tr. it. cit., p. 20. 50
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In un interessante articolo dal soggetto assai poco convenzionale, Sujit Mukherjee descrive l’epopea della tigre nella tradizione indiana rivelandoci, in modo del tutto sorprendente, come la sua importanza negativa, comparabile a quella del lupo nella favolistica europea, sia in realtà assai recente e possa essere considerata un’idea più anglo-indiana che indiana tout court. Apprendiamo inoltre come solo nel 1972 questo animale sia assurto al ruolo di emblema nazionale indiano, un ruolo che, per circa duemila anni, era stato, piuttosto inspiegabilmente, appannaggio del leone52. La tigre, in ambito anglo-indiano, assume però non solo e non tanto un ruolo araldico, ma incarna anche una presenza maligna e terribile, un’attitudine ferina che confina con il diabolico e non è un caso se, come avviene nella più abusata tradizione luciferina, anche la tigre di Kipling sia zoppa. La caccia alla tigre, così tipica dell’immaginario inglese in India, si colora quindi di diversi significati. Da un lato essa rappresenta, né più né meno, la prosecuzione, a tinte inevitabilmente più forti, della tradizionale caccia alla volpe, inserendosi in quella consuetudine che voleva che gli sport nazionali inglesi fossero praticati o almeno adattati anche in ambito coloniale. A una seconda istanza essa rappresenta un atto di protezione, di salvaguardia degli indiani da una minaccia incombente, un genere di protezione che è dovere degli inglesi, come dimostra anche In the Rukh, esercitare. Ma a un livello più simbolico la caccia alla tigre si configura invece come l’uccisione, il soffocamento di quello che maggiormente gli inglesi temevano dell’India, se non degli indiani. Uccidere la tigre significava anche uccidere l’India esorcizzando la paura che si aveva di lei, tanto che, come scrive Nicholas Courtenay, «Per gli europei la caccia alla tigre diventò un’ossessione»53. Eppure il nome stesso attribuito al nemico di Mowgli non è indiano, ma afgano, quello di Sher Khan Sur (1486-1544), condottiero che seppe sbaragliare la resistenza dei Mogul ed imporsi, seppur brevemente, come Imperatore dell’Indostan col titolo di Sher Shah54. L’avversario di Mowgli, per quanto sia incarnato dall’animale che, agli occhi degli inglesi, era indiano per eccellenza, viene identificato col 52 Cfr. Sujit Mukherjee, Tigers in Fiction: An Aspect of the Colonial Encounter, «Kunapipi», 9/1, 1987, p. 3. 53 Nicholas Courtenay, The Tiger: Symbol of Freedom, Quarter Books, London 1980, p. 52: «To Europeans, tiger hunting became an obsession». 54 Cfr. Thomas George Percival Spear, India: A Modern History, University of Michigan Press, Ann Arbor 1972.
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nome di un invasore, di un usurpatore. È come se Kipling, nella sua ansia di legittimazione imperiale, volesse nascondere la resistenza stessa degli indiani alla presenza coloniale britannica, perché il vero nemico, il vero ostacolo alla tranquillità inglese in India, non sono i suoi più legittimi abitanti, ma dei competitori esterni. Come in Kim, dove il servizio segreto britannico non è tanto volto a sedare rivolte intestine, ma a che due agenti stranieri (un francese insinuante e un russo rabbioso che paiono replicare il poco affidabile binomio dello sciacallo e della tigre nei Jungle Books) non le fomentino. Nella cosmogonia che Kipling traccia per il mondo della giungla nell’episodio How Fear Came la tigre è doppiamente responsabile, doppiamente colpevole. L’originaria armonia presieduta da Tha, il primo degli elefanti, in cui tutte le creature della giungla sono ancora un solo popolo che non ha bisogno di uccidersi reciprocamente per alimentarsi, è infranta con l’uccisione accidentale di un daino da parte della tigre, delegata come Padrone della Giungla dall’elefante stesso, troppo impegnato a plasmare fiumi e a modellare il terreno. Al cospetto del sangue versato tutti gli animali, compresa la tigre, si danno alla fuga impazziti, scoprendo la Paura. Ma essa non è solo un sentimento, ammonisce Tha, ma anche una creatura: l’Essere Nudo che vive nella caverna e che ora è destinato a soggiogare tutti gli altri animali. Per riaffermare la sua autorità la Tigre uccide l’uomo, credendo così di averlo eliminato una volta per tutte, col solo risultato di insegnare agli altri uomini come si uccide. La belva, che originariamente aveva un manto completamente giallo, porta ora su di sé le strisce della sua onta, come Caino porta su di sé il marchio del proprio abominio55. In effetti, nella cosmogonia di Kipling, questo animale è investito di un ruolo negativo che, come si diceva, è duplice, quando non addirittura triplice. È la tigre che vìola e rende impossibile un’originaria condizione edenica, sintetizzando in sé le due figure di Eva e del serpente, a cui si somma la sua colpa di essersi macchiata del primo omicidio, come Caino, appunto. Conseguenza della scoperta della Paura e della morte è l’instaurazione della Legge che assurge, nei Jungle Books, al ruolo di vera protagonista, di principio statutario inderogabile. La giungla è soggiogata ad essa e il suo ultimo e più importante assunto è «Obey!», «Obbedisci!». Trasgredire alla legge comporta la morte o l’esclusione dalla società, 55
Cfr. Genesi, 4, 15.
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una società fortemente organizzata e divisa in caste a cui competono diversi ruoli. Mowgli, non diversamente da Shere Khan, rappresenta un outsider a cui, in qualche modo, un’infrazione è possibile, seppur rischiosa. Anche il suo nome, come quello del suo avversario, ne sancisce un’appartenenza ambigua, liminale. «Mowgli» infatti, ci dice Kipling, significa «ranocchio» e la lupa, sua madre di latte, lo battezza così per la sua pelle nuda, per il suo aspetto inerme. Questo nuovo battesimo nasconde la qualità anfibia del ragazzo selvaggio, la sua capacità di appartenere a più mondi senza che nessuno di essi possa reclamarlo, senza che egli possa sentirsi pienamente accolto in nessuno di essi: «Tu sei e non sei della giungla»56, gli dice Bagheera. Ma forse Mowgli non avverte veramente il bisogno di una piena appartenenza, di un riconoscimento compiuto perché egli, come avviene ad ogni fanciullo divino, risulta concluso e perfetto in sé, tanto che, anche quando appare circondato da una pletora di figure, non è in grado di trovarne alcuna veramente alla sua altezza, e nemmeno Bagheera può sostenerne a lungo lo sguardo. È poi interessante notare come il percorso umano di Mowgli sia in qualche modo a ritroso. La giungla, per quanto non del tutto adeguata a contenere il suo potere, rappresenta senz’altro un grado più evoluto, o almeno più organizzato, rispetto al villaggio. Così, mentre quella di Kim appare come una parabola coerente che lo porta da un’infanzia indiana – considerata da Kipling più naturale e libera, meno evoluta e organizzata – fino alla dolorosa agnizione del suo ruolo e della sua identità anglo-celtica, quello di Mowgli è invece un percorso zigzagante che lo fa approdare al villaggio per poi, una volta scopertane la miseria morale, farlo tornare sui suoi passi fino alla decisiva soglia dei diciassette anni. Quella stessa soglia su cui si chiude anche il racconto della vicenda umana di Kim e quella che, per un ragazzo inglese, vedeva la fine dell’istruzione secondaria e l’inizio, per chi, come Kipling, non poteva permettersi l’accesso all’università, di una vita adulta. Nel suo già più volte citato studio sulla figura dell’Hybrid Boy in Kipling, Don Randall sottolinea come l’azione dei Jungle Books si giochi su due teatri opposti: il villaggio e la giungla. È stato spesso fatto notare come anche nelle vicende con le ambientazioni più ampie e ariose possibili, come può essere nei Jungle Books o in Kim, la costruzione 56 Kipling, The Jungle Books cit., p. 202: «Thou art of the jungle and not of the jungle»; tr. it. U. Pittola, Il secondo libro della Jungla, Corticelli, Milano 1955, p. 80.
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narrativa di Kiping non perda mai il carattere di luogo chiuso da confini, delimitato da soglie rigorose e oppresso da un senso di minaccia. Teatro dei suoi racconti possono essere luoghi magici, nefasti oppure onirici, ma essi non sono mai neutrali, giocando sempre un ruolo fondamentale e sovente claustrofobico. Tornando al saggio che Mukherjee dedica alla figura della tigre nella narrativa anglo-indiana, ci imbattiamo in una sapiente descrizione del rapporto che i dominatori inglesi intrattennero con l’ambiente naturale indiano. «Sia nelle relazioni di viaggio che in opere di narrativa – scrive il critico indiano – i britannici rappresentarono l’ambiente rurale indiano con una frequenza e una precisione come nessuno scritto indiano aveva mai fatto»57. La differenza, sostiene ancora Mukherjee, ha molto a che fare con la volontà di dominio e di controllo che si esplicitava attraverso un’attenta mappatura e rinominazione del territorio, non diversamente da quanto avveniva in altri luoghi raggiunti dall’espansione coloniale. «E oltre la campagna c’era la giungla, che seduceva un così vasto numero di inglesi proprio perché gli Indiani erano assenti da essa e quindi un inglese poteva letteralmente entrarci in contatto in completa solitudine»58. La giungla univa quindi, agli occhi degli inglesi, l’inestimabile pregio di essere il luogo indiano per eccellenza al fatto di essere quasi totalmente priva di indiani. Questa dinamica si attua anche nei confronti del villaggio dei Jungle Books, marginale rispetto alla giungla a cui è contrapposto tanto da figurare in soli due racconti: in Tiger-Tiger! e in Letting in the Jungle, giocando in entrambi i casi un ruolo così negativo da meritare, alla fine, la distruzione per mano di Mowgli e dei suoi alleati. Come si è già ricordato nel precedente capitolo, fin dal suo primo ritorno al villaggio, Mowgli si preoccupa di apprendere il linguaggio degli uomini, impresa che gli riesce incredibilmente facile. Eppure, per quanto quella stessa lingua sia più potente di quella degli animali, al punto da atterrire Bagheera al suo solo suono, essa non gode dello stesso status, tanto da essere definita «dialect» e non «language»59. È inol57 Cfr. Mukherjee, Tigers in Fiction cit., p. 5: «Whether in factual accounts or in short stories or novels, the British recorded the Indian countryside on a scale and in detail that nobody of Indian writing has ever matched». 58 Ibid., p. 6: «And beyond the countryside was the jungle, which captivated so many Englishmen because the Indian was absent from it and here the Englishman could literally come into his own». 59 Cfr. Kipling, The Jungle Books cit., p. 201.
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tre una lingua più volta a travisare la realtà che non ad esprimerla. Infatti, se la presentazione che ci viene data di Mowgli fin dalle prime pagine è quella del fanciullo divino, egli, dal punto di vista degli indiani del villaggio, è «the Devil-Child»60 e anziché attribuirgli il merito dell’uccisione di Shere Khan, Buldeo, cacciatore e guida riconosciuta del villaggio, racconta di essere stato lui l’autore di una simile impresa, proprio mentre Mowgli lo ascolta di nascosto. Il lettore sa già come si sono svolti realmente i fatti ed è perfettamente consapevole di essere al cospetto di a una twice-told story intessuta di menzogna, superstizione e presunzione, in cui la lingua umana è usata solo per distorcere la verità a secondi fini. Ma i Jungle Books, per quanto risultino a tutt’oggi ancora limpidi e comprensibili anche a un pubblico infantile, sono ricchi di questi scarti narrativi in cui un episodio che precederebbe un altro in ordine cronologico si trova in realtà posticipato ad esso. La narrazione si fa così, per quanto essenzialmente chiara, intricata come una giungla e non lineare come un sentiero, percorso che è più identificabile con quello di Kim. L’intersecarsi dei racconti, a volte bruscamente interrotti per il sopraggiungere di un’altra vicenda che ha protagonisti e ambienti del tutto diversi, come avviene con la mangusta Rikki Tikki Tavi o con Quiquern, il cane esquimese e altri ancora, è davvero simile a un intrico di alberi e rami frondosi in cui, se è innegabile che esiste una successione cronologica, essa, come avviene nella mente infantile, può procedere per vie del tutto autonome da quelle del tempo lineare. Ancora una volta come avviene nella Tempest shakespeariana, la giungla è composta da un intrico di storie, da «murmur of voices». Quello di Kipling non è solo il libro della giungla, perché esso diventa la giungla stessa. Come il folto bosco in cui si cela il Barone Rampante, la giungla di Kipling è composta dal fitto intrecciarsi dell’inchiostro sulla carta che sembra disegnare un groviglio destinato a non avere fine, almeno fino a quando il giovane lettore non s’imbatte in una conclusione che, inaspettatamente, riguarda anche lui. Non solo perché egli si trova ormai ad aver finito il libro, ad essere uscito dalla giungla, ma perché un giorno, quello stesso passo che viene richiesto a Mowgli, uscire dall’indeterminatezza dell’infanzia, toccherà anche a lui. Il conflitto che si genera tra il villaggio e la giungla è quindi anche un conflitto tra due racconti, uno menzognero ed uno autentico, ma 60
Ibid., p. 192.
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sarà proprio la verità di Mowgli e della giungla a prevalere, alla fine, con una tale inusitata violenza da far pensare alla violenza che seguì il Mutiny del 1857 in cui i Sepoys, le truppe indiane dell’esercito britannico, si ribellarono sollevando una serie di moti in tutto il paese. Tra la fine dello stesso anno e l’inizio di quello successivo gli inglesi riuscirono a soffocare la rivolta con una sanguinosa repressione che acquisì, agli occhi dell’opinione pubblica britannica, tutti i crismi della giustizia divina. Come alla rivolta non era stata riconosciuta la dignità della sollevazione popolare, del moto rivoluzionario e indipendentistico, bensì i caratteri della diserzione, così il suo sanguinoso soffocamento, che era sconfinato in atti di violenza altrettanto se non ancor più inaudita, venne considerato come un doveroso atto riparatorio. La forza con cui questo evento colpì l’immaginario inglese fu enorme e, probabilmente, nessuno degli episodi dell’impresa coloniale inglese suscitò un’impressione tanto profonda e duratura. Nel suo Rule of Darkness. British Literature and Imperialism: 1830-1914, Patrick Brantlinger si sofferma sulle varie rappresentazioni che questi drammatici eventi ebbero anche in ambito letterario registrando non meno di cinquanta romanzi su questo tema scritti prima del 190061. Kipling, l’autore che, più di ogni altro, viene identificato con la presenza inglese in India, non diede invece alcun contributo in questo senso, tanto che Randall definisce quello dedicato alla Rivolta del 1857 come l’«absent text» nel corpus letterario kiplinghiano. Lo studioso canadese osserva però come proprio la sua opera che meno ci aspetteremmo deputata a contenere questo genere di riferimenti, i Jungle Books, possano invece essere letti come una «PostMutiny allegory»62. La violenza che Mowgli compie nei confronti del villaggio ha il carattere della vendetta riparatoria. Egli infatti, in Letting in the Jungle, reagisce al male inflitto ai suoi genitori dai loro compaesani in quanto padre e madre del «Fanciullo-Demonio» e quindi a loro volta considerati stregoni. In realtà l’attenzione del lettore, e quella di Mowgli, è attratta solo dalla violenza subita dalla madre, che si trova legata e imbavagliata nella sua capanna. Diversamente dal marito, una figura evanescente e senza nome, poco incline a riconoscersi come genitore del ragazzo selvaggio, la donna aveva confidato nell’arrivo del figlio e Mowgli non solo è pronto alla liberazione dei genitori, ma è 61 Cfr. Patrick Brantlinger, Rule of Darkness: British Literature and Imperialism: 1830-1914, Cornell University Press, Ithaca, NY 1988, p. 199. 62 Cfr. Randall, Kipling’s Imperial Child cit., pp. 62-88.
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anche assetato di vendetta, una vendetta implacabile che porterà all’annientamento del villaggio. Già in questo episodio si delinea l’alleanza del ragazzo selvaggio con gli inglesi, condividendo con loro una medesima scelta di campo avversa agli indiani. Altri abitanti del villaggio avevano espresso le loro perplessità a Buldeo temendo le conseguenze del predisposto duplice omicidio, una volta che gli inglesi ne fossero venuti a conoscenza «gli Inglesi [...] erano gente veramente pazza, che non avrebbero permesso a degli onesti paesani di ammazzare in pace gli stregoni»63. E il primo pensiero del padre di Mowgli non appena viene liberato è quello di andare a Khanhiwara dove, dice egli, «Se arriviamo a Khanhiwara e riesco a farmi dare ascolto dagli Inglesi, voglio fare intentare un tale processo contro il Bramino il vecchio Buldeo e gli altri che si divorerà tutto il villaggio. Mi ripagheranno il doppio i miei raccolti perduti e i miei bufali abbandonati. Mi farò fare giustizia per tutto»64. La vendetta di Mowgli è quindi identica alla «giustizia» degli inglesi. In realtà la sua rivalsa non chiede un prezzo di sangue, ma l’annientamento del villaggio e la dispersione della sua gente. Mowgli riesce così nell’intento di cancellare la memoria di un luogo senza sacrificare vite umane. La punizione decretata è ancora una volta una punizione di carattere biblico. Il piccolo villaggio indiano subisce così la stessa sorte di Sodoma e Gomorra solo che, al posto di zolfo e fuoco65, gli agenti distruttori sono gli animali stessi. Gli abitanti del villaggio, con quella che Kipling chiama sprezzantemente, ‘native fashion’, resteranno pigramente tra le rovine delle loro case fino a che non li sorprende la stagione dei monsoni. «Allora uomini, donne e bambini si allontanarono a guado entro la pioggia calda e accecante del mattino, ma si volsero naturalmente per dare un ultimo sguardo d’addio alle loro case»66. Anche qui il riferimento biblico è ben chiaro alludendo alla moglie di Lot che, contro il dettato divino, si girò verso la città in rovina. 63 Kipling, The Jungle Books cit., pp. 192-193: «The English [...] were a perfectly mad people, who would not let honest farmers kill witches in peace»; tr. it. cit., p. 67. 64 Ibid., p. 200: «If we reach Khanhiwara, and I get the ear of the English, I will bring such a law-suit against the Brahmin and old Buldeo and the others as shall eat this village to the bone. They shall pay me twice over for my crops untilled and buffaloes unfed. I will have a great justice»; tr. it. cit., p. 77. 65 Cfr. Genesi, 19, 24-25. 66 Kipling, The Jungle Books cit., pp. 211-212: «Then they waded out men, women, and children through the blinding hot rain of the morning, but turned naturally for one farewell look at their homes»; tr. it. cit., p. 94.
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Non solo questa enfasi mal si accorda a un piccolo villaggio prossimo alla giungla se non si considera il suo aspetto allegorico riferito al Mutiny, ma anche il maggior peso dato alla violenza subita dalla figura femminile, la madre di Mowgli, piuttosto che da quella maschile, suo padre, costituisce un chiaro rimando al modo in cui la rivolta del 1857 venne percepita dagli inglesi. Come osserva al riguardo Jenny Sharpe nel suo saggio The Unspeakable Limits of Rape: Colonial Violence and CounterInsurgency: «Una dialettica coloniale sui Sepoys ribelli che violentavano, torturavano e mutilavano donne inglesi iscrisse la sauvagerie dei nativi all’interno di un discorso sul corpo oggettivato delle donne inglesi, anche se questo implicava la brutale soppressione dei colonizzatori sugli insorti»67. Il corpo di Messua assume, nell’allegoria instaurata da Kipling all’interno dei Jungle Books, il medesimo ruolo che occupavano i corpi oltraggiati delle donne inglesi in India. Questa violazione instaura una sospensione della Legge che viene identificata tanto dagli inglesi che da Mowgli come una massima espressione di giustizia. La scoperta del sopruso subìto è emblematica: «Messua non disse niente, ma Mowgli guardava le sue ferite, e lo udirono digrignare i denti alla vista del sangue. – Chi ti ha fatto questo? – chiese – La pagherà cara!»68. Il prezzo da pagare è l’annientamento del villaggio, e, in qualche modo, l’annientamento dell’India, dell’India che resiste all’Impero. Letting in the Jungle si conclude infatti con la Mowgli’s Song Against People, ma forse sarebbe meglio dire «Against his People». Il disprezzo del ragazzo selvaggio è tutto rivolto contro la gente del villaggio, gente contro la quale non esita a rendere espliciti i suoi sentimenti: «I hate them»69, «io li odio», dirà infatti agli animali per incitarli a scagliarsi contro il villaggio stesso. L’altro racconto che ci pare possa essere ricondotto ai fatti sanguinosi del 1857 è Red Dog, l’episodio più violento dei Jungle Books, dove un lupo proveniente da un altro branco di cui è l’unico superstite, fugge da una muta di cani rossi, i temibili dholes, i quali hanno sterminato la sua 67
Jenny Sharpe, The Unspeakable Limits of Rape: Colonial Violence and CounterInsurgency, «Genders», 10, 1991, p. 29: «A colonial discourse on rebellious Sepoys raping, torturing, and mutilating English women inscribed the native’s savagery onto the objectified body of English women, even as it screened the colonizer’s brutal suppression of the uprisings». 68 Kipling, The Jungle Books cit., pp. 192-193: «Messua said nothing, but it was at her wounds that Mowgli looked, and they heard him grit his teeth when he saw the blood. – Whose work is this? – said he. – There is a price to pay –»; tr. it. cit., p. 73. 69 Ibid., p. 207.
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famiglia, mutilandolo. Il lupo ferito chiede aiuto e vendetta, una vendetta in cui Mowgli è pronto a soccorrerlo. I dholes sono attratti in una trappola vicino al fiume Waingunga, dove vivono nei loro favi i membri del Piccolo Popolo, le terribili api selvatiche, irose e ronzanti, pronte a difendere il loro miele con punture mortali. Il branco dei cani rossi, depistato da Mowgli sulla strada del Piccolo Popolo, tenta di trovare rifugio gettandosi nel fiume, come ha fatto anche il ragazzo selvaggio, ma per la maggior parte di loro è troppo tardi. Alcuni cadono direttamente nelle cavità in cui dimorano le api e là, soffocati, si dibattono mordendo a vuoto disperatamente, fino a quando vengono sollevati, ormai morti, da ondate d’insetti che li gettano su montagne nere di detriti e carcasse. Di altri ancora, dice Kipling, era stata cancellata perfino la forma. Coloro che sopravvivono a questa cruenta decimazione devono poi affrontare i lupi del branco Seonee dopo aver lottato con la vorticosa corrente del fiume, prossima alle rapide. E la chiosa di Mowgli mentre si conclude questa mattanza rimanda ancora una volta al Mutiny. «Non è prudente uccidere i cuccioli e le femmine – continuò Mowgli filosoficamente asciugando il sangue dagli occhi – se uno non uccide anche il padre della covata»70. Un altro scenario dei conflitti che hanno luogo nei Jungle Books, oltre al villaggio e alla giungla, che sono due immagini fra loro, per così dire, contemporanee, è quello, ben più arcaico, offerto dalla «Lost City», la città perduta infestata dai Bandar-log, il popolo delle scimmie, che rapisce Mowgli nell’episodio Kaa’s Hunting, per farne uno di loro. L’immagine della città in rovina, vestigia di una grandezza perduta che non appartiene più a un popolo indegno del suo passato, è tipica di molta letteratura d’avventura e contribuisce a legittimare l’impresa coloniale. Infatti i colonizzatori si reputano più evoluti ed organizzati dei popoli colonizzati, considerati usurpatori di civiltà tramontate, e quindi si ritengono più preparati ad apprezzarle del colonizzato stesso. I Bandar-log bivaccano nella Sala del Consiglio Reale dove si spulciano fingendo di essere uomini, si avventurano per i corridoi e le oscure gallerie del palazzo dimenticando però subito quello che vi hanno scoperto e si abbeverano alle vasche marmoree intorbidandone l’acqua. Ma chi sono i Bandar-log? Un’immagine, intrisa di razzismo, degli indiani stessi? È a loro che viene indirizzato lo sprezzante ritornello della Road Song of the Bandar-log, posta a chiusura dell’episodio, che 70 Ibid., p. 302: «It is not wise to kill cubs and lahinis, – Mowgli went on philosophically, wiping the blood out of his eyes, – unless one also kills the lair-father –»; tr. it. cit., p. 228.
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recita: «Fratello, dietro ti pende la coda!»?71 In realtà si è più inclini, su indicazione di Kipling stesso, che usava quest’espressione per stigmatizzare l’elettorato liberale, ad identificare i Bandar-log con la camarilla intellettuale londinese con cui egli intrattenne sempre un pessimo rapporto. Quest’indicazione trova conforto anche nell’ossessione del Popolo delle Scimmie di ottenere ascolto e considerazione, bene che essi stimano prezioso più di ogni altro, e la convinzione di dettar legge senza tuttavia rispettarne alcuna. Loro motto, che li eleva al rango di improbabili maître à penser della foresta, è: «Quello che i Bandar-log pensano ora, la giungla lo penserà poi»72. II rapporto che Mowgli instaura con la tradizione indiana, da un lato incarnata dal villaggio e, dall’altra, dalla Città perduta, è comunque una relazione conflittuale in cui egli prevale grazie a un atto di violenza. È però importante osservare come questo personaggio riesca a salvarsi dalla prigionia a cui le scimmie vogliono ridurlo: afferrato strettamente da loro e sballottato di liana in liana, di ramo in ramo, Mowgli grida agli animali in cui si imbatte un grido d’aiuto – la Parola Maestra – nella loro lingua. Egli è quindi in grado di padroneggiare ogni linguaggio, umano o animale che sia, e, contrariamente a Victor, campione d’isolamento e incomunicabilità, sua caratteristica principale è quella di poter instaurare un dialogo, un confronto con tutti, di essere intermediario e possessore di tutti i codici linguistici, almeno fino a quando una sopraggiunta maturità non lo porterà ad abbandonare la giungla di cui era stato, per lungo tempo, il dominatore incontrastato. Verrà il tempo, infatti, in cui la solitudine richiesta ad ogni dominatore sarà un peso e non più un motivo di orgoglio per Mowgli. Come si è già detto, i Jungle Books sono una serie di racconti in cui la successione cronologica è piuttosto ambigua e in cui le stagioni dell’infanzia e della giovinezza del protagonista appaiono labili e indefinite. Questa vaghezza si mette improvvisamente a fuoco nel racconto finale della saga del ragazzo selvaggio, The Spring Running, il cui eroe, ci dice Kipling, «Doveva avere circa diciassette anni»73. La scelta dell’autore di dare un’età più precisa al suo personaggio in questo racconto è riconducibile al particolare significato che la soglia dei diciassette anni implicava. Essa è la stessa su cui si chiuderà anche il racconto della vicenda umana di 71 72
Ibid, p. 55: «Brother, thy tail hangs down behind!»; tr. it. cit., p. 79. Ibid., p. 36: «What the Bandar-log think now, the jungle will think later»; tr. it. cit.,
p. 48. 73
Ibid., p. 306: «must have been nearly seventeen years old»; tr. it. cit., p. 235.
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Kim, e, come si è già ricordato, costituiva un discrimine fondamentale anche per i ragazzi inglesi dell’epoca. La «corsa di primavera» che dà il titolo all’ultimo e al più malinconico dei racconti della giungla, si riferisce al sentimento di gioia e follia che possiede gli animali al cambio di stagione. Questo è il tempo in cui tutte le creature della giungla mutano la loro pelle e si danno a danze di gioia per il risveglio della natura, questo è il tempo in cui chi, come Mowgli, è solo, avverte in modo ancor più straziante il suo isolamento e Bagheera definisce questa stagione: Time of New Talk74, il «Tempo della Parlata Nuova». Nome non casuale che chiama in causa un concetto tutt’altro che secondario nei Jungle Books, quello del linguaggio, allusivo del fatto che toccherà anche a Mowgli di tornare presto a parlare la lingua degli umani, la sua lingua. Il linguaggio gioca infatti una parte decisiva nella sua ultima, improbabile e transitoria agnizione con la madre. Nel suo vagabondaggio seguente all’abbandono della giungla per l’insofferenza di questa stagione, egli si imbatte in un villaggio che non aveva mai visto e la prima capanna a cui si affaccia è abitata proprio da Messua. Subito il suo nome affiora alla bocca di Mowgli e con esso il linguaggio umano, che egli è sorpreso di recuperare così facilmente dopo averlo a lungo rimosso, tanto che anche i nomi degli oggetti e degli utensili che egli vede nella capanna ritornano con naturalezza alla sua memoria. Il padre non c’è più, morto da tempo, ma ora c’è un nuovo fanciullo con Messua. Questo non le impedisce di ammirare il figlio più grande e di attribuirgli ora quegli stessi caratteri divini che il lettore ritroverà anche nella descrizione di Mowgli in In the Rukh – non si dimentichi che le due avventure sono assai prossime una all’altra, avendo in entrambe il protagonista all’incirca la stessa età. Messua definisce il suo figlio perduto «un dio delle selve»75 e infine riconosce come egli non sia più, ormai, il suo Nathoo perché è irrimediabilmente diventato qualcosa di diverso: «Ma non è più mio figlio»76. E addirittura osserva come sia diventato «Il più bello di tutti gli uomini»77. Non gli è possibile, ormai, restare insieme alla sua famiglia, la stessa differenza che un tempo era invisibile agli occhi della madre, ora è ben chiara anche a lei e nemmeno questo fortunoso ritrovamento è in grado di placare l’animo esacerbato di Mowgli. 74
Ibid., p. 307. Ibid., p. 318: «a godling of the woods»; tr. it. cit., p. 251. 76 Ibid.: «But it is no longer my son»; tr. it. cit. 77 Ibid., «beautiful beyond all men»; tr. it. cit., p. 254. 75
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Egli ha abbandonato il suo regno perché, dice, «Io, che sono il Padrone della jungla, sono obbligato a rimanere solo»78, come Adamo prima della creazione di Eva. Eppure la sua ricerca non è di ordine sentimentale perché la sua non è tanto una condizione di solitudine, ma una definitiva crisi identitaria. La totale incertezza sulla propria natura che lo ha accompagnato fin dall’arrivo nel branco dei lupi di Seonee giunge ora alla definitiva espressione, tanto che egli è sicuro di essere prossimo alla morte per l’ingestione di un misterioso veleno. Non è la mancanza di una compagna a determinare questa crisi e, anzi, Kipling si serve della stessa immagine delle orme, ma in termini opposti a quelli che ci aspetteremmo, per definire meglio l’afflizione che attanaglia il suo personaggio: «Di notte e di giorno io odo un duplice passo sulla mia strada»79, geme Mowgli. Il suo dolore non è dovuto alla mancanza di amore, ma alla mancata conciliazione delle sue due metà, tanto che il travaglio da cui egli alla fine tenta di uscire è quello di uno schizofrenico scisso in due identità opposte e i termini che usa per definire la sua prostrazione sono assai simili alla morte. Kaa il serpente gli chiede se «La tua traccia finisce qui, omiciattolo?»80 e poi lo invita a considerare come ogni mutamento di pelle sia doloroso. Un nuovo toro è stato ucciso per lui, il suo riscatto è stato pagato per intero e una nuova vita può avere inizio. Una vita che il lettore di In the Rukh sa già entro quale perimetro andrà a definirsi: nel servizio all’Impero. Eppure, per quanto Kipling sia estremamente minuzioso nel far coincidere gli estremi di Spring Running con gli inizi del racconto compreso in Many Inventions, questa operazione non gli riesce del tutto perché restano dei fili impossibili da annodare, dei sentimenti impossibili da conciliare. Come molti libri dedicati all’infanzia, l’ultimo gusto che i Jungle Books lasciano nel loro lettore è amaro e malinconico. È finita la magia del racconto, che è immagine della magia stessa dell’infanzia. Non diversamente da quanto avviene in Pinocchio, il lettore bambino, ovvero il lettore per eccellenza dei Jungle Books, non può essere soddisfatto dell’inevitabile conclusione che Kipling sceglie di dare alle avventure del suo eroe. La parte più affascinante della saga di Mowgli non risiede nel suo futuro destino di guardia forestale, ma nel 78 Ibid., p. 308: «I, who am the master of the jungle, must needs walk single-foot»; tr. it. cit., p. 238. 79 Ibid., p. 323: «By night and by day I hear a double step upon my trail»; tr. it. cit., p. 259. 80 Ibid.: «Thy trail ends here, then, manling?»; tr. it. cit., p. 258.
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suo passato libero e selvaggio, nella sua infanzia perduta. Per questo motivo è legittimo e appropriato il senso di morte che aleggia nelle ultime pagine del libro e che il suo protagonista avverte come un’oppressione incombente; perché qualcosa in Mowgli muore davvero, ed è la parte migliore di lui. Il suo futuro nei ranghi imperiali, per quanto lo collochi in un destino coerente e accettabile, non offre nessuna consolazione al cordoglio di Mowgli e del lettore presente in queste pagine e la dolente canzone posta a esergo di Spring Running può essere letta senza forzature come un canto funebre in morte del ragazzo selvaggio: Quello che fu nostro fratello se ne va. Udite ora, e giudicate, o voi Popolo della Jungla, Rispondete. Chi potrà farlo volgere indietro? Chi lo tratterrà? L’Uomo torna all’Uomo! Egli piange nella Jungla: Colui che fu nostro fratello è afflitto dal dolore! L’Uomo torna all’Uomo! (Ah, noi della Jungla lo amammo!) E sulla traccia dell’Uomo noi non possiamo più seguirlo81.
* Esiste una foto di Kipling, scattata nel 1902, in cui egli è ritratto accovacciato sul ponte di una nave diretta a Città del Capo e circondato da sette bambini immobili in quella che sembra una rapita attenzione. Il suo giovane uditorio è colto di spalle a eccezione di una bambina, di cui ammiriamo il profilo, mentre il volto di Kipling è per metà inghiottito dall’ombra ed egli legge loro una storia che pare essere la fonte stessa della luce misteriosamente soffusa sul gruppo. Quando questa scena viene immortalata Kipling non ha ancora compiuto il suo trentasettesimo anno, ma, come riporta Angus Wilson nella sua informatissima biografia, per tutta la vita questo scrittore fu felice di lasciare la compagnia degli adulti per unirsi ai giochi dei bambini, anche se l’infanzia fu per lui più legata a eventi dolorosi che gioiosi e, come il San Cristoforo della leggenda cristiana, il peso di quest’età lo gravò come un fardello opprimente. 81 Ibid., p. 306: «He that was our brother goes away./Hear, now, and judge, O ye people of the jungle,/Answer, who shall turn him—who shall stay?/Man goes to Man! He is weeping in the jungle./He that was our brother sorrows sore!/Man goes to Man! (Oh, we loved him in the jungle!)/ To the man-trail where we may not follow more»; tr. it. cit., p. 324.
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I critici che si occupano di Kipling riescono raramente a sottrarsi al fascino esercitato da letture biografiche della sua opera. Edmund Wilson fu il primo, nel suo saggio The Kipling that Nobody Read del 1941, a tracciare un severo ma inappuntabile confronto fra la parabola umana dell’autore anglo-indiano e la sua produzione letteraria. Ma è, in un certo senso, Kipling stesso a legittimare una simile operazione avendo egli reso il dramma occorso nella sua infanzia oggetto di ben tre narrazioni; il romanzo giovanile The Light That Failed, lo struggente racconto Baa Baa Black Sheep e la sua reticente autobiografia. Egli nacque a Bombay il 30 dicembre del 1865 da John Lockwood e Alice Kipling (née Macdonald). La giovane coppia si era trasferita in India l’anno precedente dopo l’incarico d’insegnamento di tecniche artigianali presso il locale istituto d’arte ottenuto dal futuro padre. Questo impiego non poteva consentire alla famiglia una particolare agiatezza e le circostanze economiche in cui il piccolo Rudyard visse i primi sei anni di vita non dovettero essere facili per i suoi genitori, tanto che quando, in seguito al difficile parto del primo figlio, Mrs Kipling decise di rientrare in Inghilterra per affrontare la seconda gravidanza, il marito non la poté accompagnare. Se invece si legge l’autobiografia dello scrittore, la descrizione di quel primo periodo di vita è semplicemente estatica e, amaramente, egli pone a esergo delle sue confessioni questa dolente affermazione: «Datemi i primi sei anni di vita di un bambino e potete tenervi il resto». Le passeggiate insieme alla sua ayah portoghese, le magiche visioni del subcontinente, i racconti e le cantilene dei servi indiani per favorirgli il sonno, tutto nella sua memoria si compone in un quadro paradisiaco, in una gioia aurorale e inviolabile, che invece si interruppe bruscamente. Nel 1871 la famiglia Kipling al completo si recò in Inghilterra per un breve soggiorno, ma solo due dei suoi membri fecero ritorno in India. I genitori lasciarono Rudyard e la piccola sorella in consegna a una coppia di Southsea, composta da Harry Halloway, un vecchio marinaio in pensione, e da sua moglie, una donna senza cuore chiamata poi «Auntie Rosa» dai due bambini, senza dire loro, al momento dell’addio, che non li avrebbero rivisti per lungo, lungo tempo. Infatti Rudyard ed Alice, soprannominata «Trix», avrebbero riabbracciato la madre dopo quasi sei anni, nel 1877. Nel frattempo si dischiudevano per loro le porte di uno specialissimo inferno. Di questo lungo abbandono si è discusso spesso nei testi di critica e nelle biografie dedicate all’autore anglo-indiano. C’è infatti chi sostiene che esso fosse del tutto immotivato e che, se proprio era necessario
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lasciare i due bambini, sarebbe stato meno doloroso affidarli a dei parenti piuttosto che a dei perfetti estranei contattati tramite un’inserzione su un giornale. In realtà, la pratica di lasciare bambini angloindiani presso quelle che potremmo oggi definire come case-famiglia era assai diffusa tra i genitori britannici che si trovavano a vivere in India. Questo paese era considerato insalubre e inadeguato per accogliere l’infanzia dei piccoli inglesi, in special modo dai sei anni in poi. Solo i bambini appartenenti a classi sociali prive di mezzi restavano all’estero e venivano mandati presso boarding school come quella frequentata da Kim a Lucknow, entrando pericolosamente in contatto con compagni di classe portoghesi o, addirittura, con elementi sospettati di essere half-caste. Il timore di esporre i propri figli all’influenza della società indiana era dato principalmente da una possibile miscegenation, indotta dai parametri diversissimi in materia educativa e da una diversissima successione degli eventi della vita, come dimostrano, ad esempio, i matrimoni in età precoce, che facevano inorridire gli inglesi. In un interessante articolo apparso sul Journal of Imperial and Commonwealth History, David Arnold illustrava come esistessero in India numerosi «poor whites» che vivevano la loro infanzia in strada, a pieno contatto coi bambini indiani. Ma questi bambini rappresentavano una fonte d’imbarazzo per la comunità inglese che vedeva minacciata la propria identità coloniale e intaccato il timore che essa incuteva negli indiani al punto che la loro educazione, in special modo dopo il 1857, costituì un’autentica sfida per la società britannica82. La consuetudine di riportare i propri figli nella madrepatria dopo un primo assaggio di vita indiana non compare per la prima volta in Kipling, ma, come ricorda Angus Wilson, viene già registrata in Dombey and Son di Charles Dickens, dove uno dei personaggi chiede se qualcuno sappia indicargli la strada per tornare nel Bengala83. Un ulteriore riferimento letterario utile a comprendere l’idea degli inglesi circa la nefasta influenza che poteva esercitare l’India sull’infanzia britannica è espressa chiaramente in The Secret Garden di F.H. Burnett, un testo in cui ci siamo già imbattuti nel nostro percorso dedicato a Mowgli. Questo romanzo, pubblicato dall’autrice anglo-americana nel 1911, racconta la rinascita di Mary Lennox, la giovane protagonista, da una situazione tetra e miseranda. Cresciuta nel subcontinente fino all’età di 82 Cfr. David Arnold, European Orphans and Vagrants in India in the Nineteenth Century, «Journal of Imperial and Commonwealth History», 7/2, 1979, pp. 104-127. 83 Cfr. Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling cit., p. 11.
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nove anni, affidata a servi e balie indiane che assecondavano ogni suo capriccio fino a renderla una piccola tiranna, Mary non è solo viziata nello spirito, ma anche sciupata nel corpo, che ha risentito dell’esposizione a un clima considerato malsano. «La sua carnagione era gialla quasi come i suoi capelli, perché era nata in India ed era sempre stata piuttosto gracile»84; e ancora «in India il caldo la rendeva apatica e indolente», ma, una volta trasferitasi nel suo paese d’origine, «il vento freddo della brughiera spazzava via, ad una ad una, le ragnatele che ancora legavano il suo cervellino, destandone l’intelligenza»85. La lacuna che resta più sconfortante in Mary, in un’ottica britannica, è però quella riguardante l’identità della fanciulla stessa, che ignora quale sia il suo vero paese. The Secret Garden, oltre a spiegare il punto di vista dei genitori del piccolo Rudyard e di molti altri padri e madri inglesi, costituisce un perfetto contrappunto alle narrazioni che Kipling dedicò al suo durissimo impatto con l’Inghilterra la quale apparve, ai suoi occhi di bambino, come una landa tenebrosa opposta alla luce variopinta dell’India. La dimora che ospitava i piccoli Kipling si chiamava Lorn Lodge, ma diventò presto per lui The House of Desolation. Considerato dalla donna un poco di buono e trattato dal di lei figlio con le premure di un aguzzino, Rudyard cadde in un cupo stato di prostrazione alleviato solo dal conforto della lettura. Fra i libri che gli capitarono tra le mani, in gran parte regali del padre, uno fu, se non significativo, quanto meno seminale. Si trattava di King Lion di James Greenwood, romanzo apparso a puntate su The Boys Own Magazine nel 1864, in cui si raccontava di un cacciatore capitato in mezzo a un branco di leoni organizzati in una specie di frammassoneria coi quali egli si alleava contro dei feroci babbuini. «Credo che questa lettura giovanile – scrive Kipling – sia rimasta domata nel mio spirito fino a quando scoccò l’ora dei Jungle Books»86, ma ci pare di poter dire che fu la frattu84 Frances Hodgson Burnett, The Secret Garden, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 1: «Her hair was yellow, and her face was yellow because she had been born in India and had always been ill in a way or another»; tr.it. A. Restelli Fondelli, Il giardino segreto, Fabbri, Milano 2000, p. 5. 85 Ibid., p. 48: «In India she had always felt hot and too languid to care much about anything»; «the fresh wind from the moor had begun to blow the cobwebs out of her young brain and to waken her up a little»; tr. it. cit., p. 50. 86 Kipling, Something of Myself cit., p. 8: «I think that, too, lay dormant until the Jungle Books began to be born»; tr. it. M. Vinciguerra, Qualcosa di me, Einaudi, Torino 1986, p. 8.
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ra stessa che si creò fra le sue due infanzie, una aurorale e gioiosa e una tetra e dolente, a riflettersi poi nella sua opera innescando un conflitto che non si sarebbe mai del tutto sanato, come testimonia anche il finale di Baa Baa Black Sheep. Quando la madre rientrò, su invito della sorella, Georgiana Burne-Jones, che aveva trovato Rudyard in uno stato di afflizione e deperimento tale da renderlo prossimo alla cecità, ella cercò di abbracciarlo, ma suo figlio si ritrasse temendo uno schiaffo. È quasi automatico leggere dell’incontro fra il piccolo, esaurito Kipling e sua madre e pensare a quello fra Messua e Mowgli, dov’è lei a elogiare il figlio e non quest’ultimo a sentirsi inadeguato e colpevole al cospetto di una donna che gli appare fin troppo bella. A questo riferimento se ne aggiunge uno altrettanto drammatico, che si ricollega a quella «fantasia di vendetta» riscontrabile in molte delle narrazioni di Kipling. Nel 1935, quando un solo anno lo separava dalla morte, alla sorella che gli chiedeva se quella casa che occupava un posto tanto terribile nella loro memoria esistesse ancora, egli rispose: «Se esista ancora, lo ignoro, ma se così fosse le darei fuoco e spargerei il sale sulle sue rovine»87. Non casualmente è lo stesso trattamento che Mowgli riserva al villaggio che lo ha oltraggiato. Si potrebbe eccepire che in Letting in the Jungle la rabbia del ragazzo selvaggio viene diretta contro un villaggio indiano, mentre qui Kipling rivolge il suo odio a una casa inglese, ma il rapporto che legò Kipling alla sua patria fu sempre basato su un reciproco fraintendimento, su un’invincibile diffidenza. La sua gloria letteraria sembra esaurirsi in vita poco dopo l’assegnazione del premio Nobel, conferitogli nel 1907, primo fra gli autori di lingua inglese e a tutt’oggi il più giovane scrittore ad esserne stato insignito. Il Nobel in qualche modo sanciva la fine del sincronismo fra Kipling e il suo tempo. A partire dalla seconda decade del XX secolo, per quanto avesse da poco superato la quarantina, egli era già ritenuto appartenente a un’altra epoca, irrimediabilmente compromesso col passato vittoriano, e ciò doveva essere chiaro anche a lui, poco a suo agio nella temperie edoardiana e modernista. Si assisteva così al paradosso di un autore che, mentre affinava la sua arte nel racconto breve fino a raggiungere vette magistrali, veniva considerato rozzo ed obsoleto, per quanto il suo successo presso le classi popolari fosse sempre vivo. Come scrive Z.T. Sullivan, la seconda parte della vita di Kipling può essere 87 Intervista ad Alice «Trix» Kipling apparsa sul Chambers’s Journal, March 1939; citato in A. Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling cit., p. 19 («I don’t know, but, if is so, I should like to burn it down and plough the place with salt»).
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descritta come quella di un uomo che assiste all’agonia di tutto ciò che ha di più sacro, fra cui, certamente, può essere annoverato l’Impero. Una delle più chiare testimonianze dell’atteggiamento che egli ebbe nei riguardi della madrepatria britannica può essere rintracciata nella poesia The Native-born, inclusa nella raccolta The Seven Seas del 1896. Qui i figli delle quattro colonie d’insediamento brindano alla Regina, all’Impero, ai loro fratelli inglesi: «Abbiamo bevuto alla salute del nostro Fratello Inglese/ (Ma egli non può capire)»88. Quei britannici nati e cresciuti nelle settler colonies vivevano in un limbo identitario dovuto alla sempre crescente difficoltà di definirsi tali a pieno titolo e all’impossibilità di potersi già riconoscere in paesi dalle personalità ancora immature e indefinite. Kipling si rispecchiava proprio in questo specialissimo genere di inglese/non inglese, di native-born che, più che identificarsi nella lontana madrepatria, si riconosceva nell’Impero. Questa caratteristica fa parte della doppiezza di Kipling, tanto che non esiste forse uno scrittore in grado di rappresentare altrettanto bene l’ambiguità del mondo imperiale vittoriano e, a tale proposito, è rimasto giustamente celebre il componimento poetico apposto come esergo all’ottavo capitolo di Kim dal suo autore, The Two-Sided Man, in cui egli afferma; «Sia lodato Allah perché due parti diede alla mia mente»89. Più dei Jungle Books, è proprio Kim l’opera in cui Kipling tentò una sintesi fra le sue dicotomie cercando di far finalmente incontrare Oriente e Occidente ed è forse per tale ragione che questo romanzo è stato definito privo di conflitti. In esso, per quanto si affrontino non solo l’Oriente e l’Occidente, l’Inghilterra e l’India, ma anche la figura del puer e quella del senex, l’autore sceglie di evitare uno scontro frontale e di mantenere la narrazione su un elusivo piano d’indeterminatezza e sospensione. Questo romanzo, pubblicato nel 1901, era anche l’opera con cui Kipling si proponeva di saldare i conti con l’India e, fin dall’incipit, egli rappresenta il suo irrisolto desiderio di appartenere al mondo indiano e di dominarlo al tempo stesso. Contrariamente a quanto era avvenuto nei Jungle Books, in cui la legge può essere adottata come chiave di lettura di tutto il testo, qui il protagonista si fa beffe delle disposizioni municipali sedendo a cavalcioni del cannone Zam-Zammah, che rappresenta il simbolo dell’autorità nel Punjab. La situazione descritta, per quanto giocosa, 88 89
«We’ve drunk to our English brother/(But he does not understand)». «And praised be Allah Who gave me two/ Separate sides to my head!».
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può essere interpretata come metafora del Raj, infatti insieme a Kim ci sono altri due bambini, un musulmano, Abdullah, e un indù, Chota Lal, i quali cercano a loro volta di occupare il posto di Kim, ma questi li scaccia deridendoli bonariamente. Dissimulata dietro lo scherzo di un bambino egoista si cela la rappresentazione di un simbolo di potere, il cannone, conteso tra le due più grandi comunità religiose indiane, su cui però prevalgono gli inglesi. Per quanto Kim sia da tutti definito ‘Little Friend of all the World’, egli può affermare un’autorità negata ad altri perché, contrariamente a Mowgli e a Victor, ha un padre, o meglio, l’aveva. Kipling ci informa subito che Kim non è un half-caste, ma l’orfano di una coppia irlandese: la madre era una bambinaia e il padre, Kimball O’Hara, un sergente portabandiera dei Mavericks che, dopo un’esistenza dissoluta in compagnia di donne indiane, oppio e alcool, lascia al figlio solo tre carte. «Egli chiamava una di quelle il “ne varietur”, perché tali parole vi erano scritte sotto la sua firma, e un’altra “la licenza di prendere il largo”. La terza era il certificato di nascita di Kim»90. Questa magra eredità è sufficiente a far sì che Kim possa riconoscersi in una comunità e possa esserne riconosciuto a sua volta. A proposito Randall cita ancora una volta Lacan che afferma come: «[è] nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge»91. Il motto del documento massonico si può così applicare anche alla persona di Kim, che non deve «essere cambiato», non deve mescolarsi con altre identità modificando la propria. Egli sa che, qualora presentasse quel foglio a una loggia massonica, sarebbe subito tradotto in un orfanotrofio per bianchi e, finché può, se ne tiene lontano. La smodata vita del padre di Kim, la cui parabola, osserva Sullivan, ricorda da vicino quella di Jellaludin Mclntosh in To Be Filed for Reference, consente «l’indianizzazione» del figlio, ma, allo stesso tempo, gli atti da lui gelosamente custoditi e tramandati, sono il presupposto per il suo riscatto. Kim compie così un percorso inverso non solo a quello del padre, ma anche rispetto a molti altri personaggi che avevano popolato i primi racconti indiani di Kipling. 90 Kipling, Kim, Macmillan and Co, London 1963, p. 2: «One he called his “ne varietur” because those words were written below his signature thereon, and another his “clearance-certificate”. The third was Kim’s birth-certificate»; tr. it. G. Celenza, Kim, in Tutti i romanzi, Mursia, Milano 1961, p. 554. 91 Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti cit., vol. I, p. 271.
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Il vagabondaggio di Kim nelle polverose strade del suo romanzo si compie insieme a un’altra figura adulta, quella del lama. Al binomio puer/senex che si innesca in questo romanzo Renato Oliva dedicò, più di vent’anni fa, un saggio ancora attuale in cui lo studioso osservava come le due figure del lama e di Kim siano indissolubilmente legate, contenendo ciascuna in sé parte delle caratteristiche proprie dell’altro. Il primo è un vecchio-bambino, saggio ma ingenuo, mentre Kim è il bambinovecchio che «si appropria mimeticamente del comportamento degli adulti»92. Il giovane incarna l’elemento razionale della coppia, ama l’azione, il gioco, l’avventura; mentre il lama tende all’ascesi, all’atarassia che preserva dalle cose umane, perché «ogni azione è male». Se il lama rappresenta l’Oriente più saggio e contemplativo, Kim risulta un personaggio più complesso racchiudendo in sé una doppia identità che si manifesta, ad esempio, attraverso un duplice registro linguistico. L’hindi è la lingua parlata dalla sua anima, ma se Kim vuole fare appello alla parte razionale della sua separate head egli deve ricorrere all’inglese, come quando – ormai entrato nella boarding school per prepararsi al Grande Gioco del servizio spionistico britannico – cerca di opporsi al tentativo di ipnosi da parte di Lurgan Sahib. Si assiste così al paradosso dell’oggettivazione del pensiero di Kim che, anche quando ci viene detto essere in hindi, viene espresso in inglese. Ma è il linguaggio stesso usato per esprimere la percezione dell’India da parte di Kim a cambiare radicalmente una volta che egli entra a contatto col mondo inglese. Se prima l’India era un meraviglioso luogo di condivisione in cui egli si sentiva fratello di tutti, venendo ricambiato in questo sentimento di gratuità, la sua visione si fa ora più arida e oggettiva, il modo di Kim di rapportarsi ad essa ha cessato di essere quello del sognatore per assumere le caratteristiche del razionalista93. Esistono due Indie in Kim, così come ne esistevano due nella vita del suo autore: una fantastica e infantile, e una divisa tra un massacrante lavoro diuturno e l’ambigua seduzione delle sue notti propria del Kipling che, come scrive Angus Wilson, ritornò in paradiso ai lavori forzati94. Queste sono l’India del Reale e dell’Immaginario che, nello 92 Renato Oliva, Kim: il puer e il senex, l’Occidente e l’Oriente, il gioco e la ricerca, in Giorgio Cusatelli (a cura di), L’isola non trovata. Il libro d’avventure nel grande e nel piccolo Ottocento, Emme Edizioni, Milano 1982, p. 42. 93 Cfr. Sullivan, Narratives of Empire cit., p. 163. 94 Il biografo di Kipling dà questo titolo al capitolo dedicato al secondo soggiorno indiano del suo autore.
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scrittore anglo-indiano, riescono a trovare una possibile conciliazione solo nel Simbolico dell’Impero. Un romanzo così duplice, così ambiguo ha portato inevitabilmente a interpretazioni opposte. Da un lato vi è chi sostiene che la figura di Kim sia quella di un traditore, oltreché di una vittima. Esposto a una crisi di coscienza che lo divide tra l’amore per l’India dei suoi fratelli e la fedeltà all’Impero dei suoi padri, egli finisce inevitabilmente col cedere, seppur in modo non del tutto conscio, perché Kim non seguirà la via del lama, ma quella del Grande Gioco, del servizio spinostico inglese in terra indiana. C’è invece chi sostiene che questo passo non si compia completamente, che la figura di Kim, al di là delle posizioni imperialiste del suo autore, vada comunque interpretata come quella di un personaggio liminale, simbolico di un’ambiguità profonda, di un’ibridazione tanto ardua quanto affascinante. Il passaggio più citato da coloro che vedono in Kim una futura pedina dei servizi segreti inglesi disposta a rinunciare alla sua infanzia indiana, è la crisi che attanaglia il protagonista mentre si reca con il suo lama sulle vette del Kashmir e la sua ambigua risoluzione. Il superamento della tentazione della donna di Shamlegh, che l’avrebbe allontanato sia dalla via spirituale professata dal lama, sia dal servizio dell’Impero, per risospingerlo definitivamente nel ventre dell’India lo porta a riaffermare la propria identità, per quanto inafferrabile essa sia. È sintomatico che questo nuovo conferimento di senso sia presentato da Kipling attraverso una metafora meccanica, quella stessa metafora degli ingranaggi che l’autore anglo-indiano aveva utilizzato anche per definire il Department of Woods and Forests nel racconto In the Rukh: «Egli sentì le ruote dell’essere suo ringranarsi»95. A tale proposito scrive Giuseppe Sertoli nel suo ormai celebre saggio dedicato a Kipling, che Kim può essere letto come un Bildungsroman a rovescio «in quanto la meta della ricerca del protagonista è l’esatto contrario di quella individualità che ineriva al genere e al personaggio tradizionali»96. Anzi il critico vede proprio in Kim il precursore di un nuovo tipo di romanzo di formazione in cui il solo esito possibile è la spoliazione del protagonista dalla sua individualità. «Solo il bambino, ormai, può godere 95 Kipling, Kim cit., p. 403; «With an almost audible click he felt the wheels of his being lock up anew on the world without»; tr. it. cit., p. 847. 96 Giuseppe Sertoli, Rudyard Kipling, in V. Amoruso e F. Binni (a cura di), Letteratura inglese. I contemporanei, 4 voll., Lucarini, Roma 1977, vol. II, p. 152.
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di un (resto di) individualismo; ma se esso non viene eliminato, il bambino non diventerà mai grande»97. Per comprendere più pienamente quale sia il vero destino che si prepara per Kim alla fine del libro ci sembra però opportuno soffermarci anche sulla scelta finale del lama, a cui vengono lasciate le parole conclusive del romanzo. Egli finalmente trova il Fiume della Freccia, il luogo dell’uscita dal suo samsara, ma dopo essersi immerso e aver quasi raggiunto la sua liberazione viene trattenuto dal pensiero del suo discepolo. «In quel punto l’anima mia [...] si ritrasse dalla Grande Anima con sforzo e spasimo e rimpianto ed angoscia inenarrabili. Come l’uovo dal pesce, come il pesce dall’acqua, come l’acqua dalla nube, come la nube dall’aria densa»98. II fiume sacro è infine prossimo al lama ed al chela che scambiano le loro ultime parole e il commiato dal libro, un commiato sospeso, ci presenta il lama nell’atto di introdurre il suo discepolo a questa visione, ma al lettore non è dato condividerla, egli resta sulla soglia come i miracolati da Gesù ne La voie lactée (BRD/FRA/ITA, 1969) di Luis Buñuel, di cui scorgiamo soltanto i piedi. Una volta che Cristo ha superato un piccolo ruscello essi sono incapaci di guadarlo e il loro passo si fa di nuovo esitante, della cauta incertezza del passo dei ciechi. A noi non è dato sapere se anche Kim si arresti sulla soglia o se egli sia invece in grado di oltrepassarla insieme al suo lama. Ciò che invece risulta evidente dalle ultime pagine del libro è che entrambi i personaggi, seppur per motivi diversi, per non dire opposti, compiono su se stessi un atto di violenza, una costrizione che porta l’uno a dare un senso all’esistenza, collocando ogni cosa nel suo giusto ruolo – un fatto del tutto inusitato e anacronistico per un romanzo del primo Novecento –, e l’altro a uno spasimo per ritrarsi dal proprio nirvana e restare vicino al suo chela. L’atto di violenza su se stessi, il sacrificio del proprio bene, della propria individualità per una causa più alta costituisce la summa, il significato ultimo dell’opera kiplinghiana e il suo fascino più profondo e struggente, ma ci pare che qui, questa lotta, anziché sancire una definitiva uscita dalla propria infanzia, dando una conclusione risolutiva al libro e alla sua magia, contribuisca invece a lasciarne aperto il finale. 97
Ibid Kipling, Kim cit, p. 412: «Upon this my Soul [...] withdrew itself from the Great Soul with strivings and yearnings and retchings and agonies not to be told. As the egg from the fish, as the fish from the water, as the water from the cloud, as the cloud from the thick air»; tr. it. cit., p. 853. 98
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Come giustamente sostiene Oliva, Kim «è costruito sull’archetipo della relazione puer-senex e favoleggia di un possibile incontro tra Occidente e Oriente, azione e meditazione, slancio vitale e rinuncia»99. Queste due figure formano in realtà un archetipo bifronte in quella che Hillman chiama una Janus-Gestalt. Laddove il puer è perfetto primordialmente, il senex si perfeziona attraverso il tempo, se uno è una figura primordiale, l’altro presiede al raccolto, alle cose ultime; ma il binomio costituito dal lama e dal suo chela è alquanto singolare perché, in esso, molti degli elementi che dovrebbero essere tipici di una figura, appartengono all’altra. Ad esempio, il puer rifiuta e rifugge la storia e il tempo, che sono invece presidiati dal senex, mentre qui è esattamente il contrario: Kim è attratto dal Grande Gioco, dall’Impero e dal suo farsi storico, mentre il lama ha come meta della propria ricerca proprio la liberazione dalla Ruota delle Cose. La loro coppia archetipica è così perfettamente confusa e saldata nei suoi elementi costitutivi da rappresentare un binomio inscindibile e l’adesione alla vita dell’uno o la rinuncia ad essa per l’altro costituirebbero la fine del sogno utopico nascosto in questo romanzo. Questa relazione indissolubile può in parte fornire una risposta all’accusa mossa da Said a Kipling di aver rappresentato un’India quasi completamente a-storica, perché il puer e il senex precedono e seguono il corso storico, ma non gli appartengono. Ed essa può forse spiegare anche il diniego di Kim alla donna di Shamlegh, che nasconde certamente la paura di una contaminazione, ma è anche tipica del puer il quale, nonostante tutta la sua mutevolezza, rifiuta, come il senex, l’evoluzione, il rapporto con l’altro. L’autosufficienza del puer è ragione del suo ermafroditismo, della sua qualità angelica dove maschile e femminile sono congiunti così perfettamente da escludere la presenza di una donna100. Il finale di Kim è un finale truccato. Esso lascia decidere al lettore se Kim aderirà completamente alla causa imperiale, se il lama abbandonerà definitivamente il suo chela traditore per ottenere il nirvana, perché tutto questo, nel romanzo, non avviene, non è dichiarato. Contrariamente a quanto aveva fatto nei Jungle Books, Kipling si arresta un attimo prima che l’irreparabile accada. Anche Kim è portato sulla soglia dei diciassette anni, anche lui è gettato dal suo autore in una crisi profonda e anche per lui Kipling lascia intravedere una soluzione. Ma Kim e il lama, puer e senex, si tengono qui in equilibrio, strettamente legati 99
Oliva, Kim, il puer e il senex, in L’isola non trovata cit., p. 55. Cfr. Hillman, Puer Aeternus cit., p. 100.
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l’uno all’altro, e il loro abbraccio non si scioglie. Se Kim entri nei ranghi britannici, se il lama ottenga la sua liberazione non importa, perché non ci viene detto. Il destino di Kim dopo i suoi diciassette anni non esiste, non essendoci stato raccontato, ed egli può così rimanere un puer in bilico sul cannone Zam-Zammah in una metafora che non è solo di adesione al potere, ma anche una sua irrisione. In quest’attimo eterno che sfugge alla storia e all’Impero e che nasconde i conflitti che esso ha seminato, Oriente e Occidente, se pur un Occidente particolarissimo e assai meticciato, possono finalmente incontrarsi, contrariamente a quanto sosteneva Kipling stesso nella sua Ballad of East and West, e, come spera il lama, guardare un giorno con distacco al loro cammino comune. «Allora tu ed io, sull’altra sponda del Fiume, guarderemo le nostre passate esistenze come sui monti guardavamo il nostro quotidiano percorso»101.
101 Kipling, Kim cit., p. 386: «Then thou and I, upon the far bank of the River, will look back upon our lives as in the Hills we saw our days’ marches laid out behind us»; tr. it. cit., pp. 834-835.
Capitolo terzo Il paese dei bambini perduti
Bad enough to lose a youngster for a day or two, and find him alive and well; worse, beyond comparison, when he’s found dead; but the most fearful thing of all is for a youngster to be lost in the bush, and never found, alive or dead1. Joseph Furphy, Such Is Life
Se nel primo capitolo è stato necessario delineare il rapporto tra i ragazzi selvaggi e la società del Settecento francese e dell’Ottocento inglese allo scopo di cogliere in modo più compiuto la funzione che essi occupano nella narrativa di Kipling, per comprendere più pienamente il ruolo che destina loro David Malouf sarà indispensabile soffermarsi sul valore simbolico del lost child nella cultura australiana. Si noti come ci si serva qui di un’espressione diversa rispetto a quella utilizzata nella prima parte del nostro percorso. Laddove, in ambito europeo, ci si è avvalsi del termine feral child, qui sarà più opportuno parlare, appunto, di lost child. In un’ottica illuministica si può fare infatti riferimento a fanciulli che, abbandonati dalla società, recuperano per essa un contatto primordiale, mentre la relazione instaurata dai primi coloni bianchi col territorio australiano, percepito come ostile e inaccessibile, non poteva 1 Joseph Furphy, Such Is Life, Stories, Verse, Essays and Letters, edited by John Barnes, University of Queensland Press, St. Lucia 1988, p. 196; «Perdere un ragazzino nel bush per un giorno o due e trovarlo sano e salvo è, di per sé, già abbastanza sconvolgente. Peggio, oltre ogni possibile paragone, quand’è trovato morto, ma più terribile ancora è perdersi per non essere mai più ritrovati, né vivi né morti». Termine intraducibile, bush, occupa un ruolo centrale nella definizione dello spazio e dell’identità australiani. Con esso si definisce l’ambiente al di fuori dei centri abitati, la cui densità e qualità è assai variabile, ma che, per lo più, ha per colore un verde secco e polveroso.
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consistere in un ritorno alla natura, ma nella scoperta di un luogo alieno dove non era possibile ritrovare se stessi, ma soltanto perdersi. La scomparsa del fanciullo o della fanciulla acquista anche in Australia non solo un senso storico-cronachistico, testimonianza della dura vita nel bush, ma si colora di un valore mitico-simbolico, opposto però a quello europeo, incarnando il primordiale impatto della comunità anglo-celtica con un luogo che solo dopo molto tempo si sarebbe potuto chiamare casa, patria, nazione. Se per Rousseau la figura del ragazzo selvaggio rappresentava una possibilità di salvezza e liberazione, in chiave australiana questo mito implicava una minaccia al residuo legame con la civiltà britannica. Il bambino o la bambina perduti nel bush assumevano così il ruolo di perfetto emblema di un’identità incerta: sparire, essere inghiottiti dalla natura rappresentava l’oggettivazione di quel timore to go native che si proiettava sulle più giovani generazioni, quelle che non potevano ricordare la lontana madrepatria o che erano nate in Australia. Ma forse la differenza più significativa tra le narrazioni, siano esse mitiche o scientifiche, riguardanti i ragazzi selvaggi europei e quelle che analizzeremo in questo nostro percorso, va individuata nelle modalità stesse dello smarrimento e della conseguente ricerca. Nei casi di Victor e di Mowgli ci troviamo dinanzi a fanciulli che, fin dalla più tenera età, sono diventati vere e proprie creature dei boschi riuscendo a sopravvivere pressoché autonomamente. Le reazioni di coloro che si dovrebbero addolorare della loro scomparsa, la famiglia e i genitori, finiscono assolutamente in secondo piano rispetto alla vicenda avventurosa di cui è protagonista il fanciullo o al percorso riabilitativo che ne è la più diretta conseguenza. Come avremo modo di osservare la prospettiva è completamente rovesciata nel caso australiano. Non solo i fanciulli che si perdono nel bush sono destinati, nella grande maggioranza dei casi, a non sopravvivere al loro vagabondaggio, ma, salvo alcuni casi, l’enfasi dei racconti non è posta sullo sguardo infantile sperduto in una natura minacciosa e indecifrabile, ma preferisce indulgere sulla disperazione delle famiglie sconvolte da questo evento, spesso con esiti di straordinaria finezza psicologica e potenza narrativa. Il mito australiano del fanciullo perduto diventa così un perfetto rovesciamento del suo corrispettivo europeo in cui non si parla, appunto, di una perdita, ma di una ritrovata sauvagerie. Qui, invece, la perdita dell’infanzia assume proporzioni devastanti assurgendo a simbolo di una privazione non solo familiare e individuale, ma collettiva e iden-
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titaria. In genere la morte o l’assenza dei fanciulli in letteratura costituisce la più perfetta esemplificazione della mancanza di fiducia nel futuro dell’epoca e della cultura che la esprime. Nel caso dell’Australia ottocentesca, invece, l’angoscia è raddoppiata dal fatto che non solo queste sparizioni provocano un’ansia profonda per la vita a venire, ma che nessun paese come questo ebbe una nascita altrettanto traumatica e un distacco altrettanto problematico dalle proprie radici. Il lost child australiano è quindi una figura che, come ogni fanciullo perduto, nega il futuro, ma, allo stesso tempo, esprime l’impossibilità di un ritorno al passato. Ed è forse questa, in ultima analisi, la principale differenza con il sogno dell’enfant sauvage europeo, per cui un ripiegamento su se stessi è in qualche misura possibile; in quanto in Australia il ragazzo che si inoltra nel territorio perdendo il contatto con il proprio malfermo punto di riferimento, è immediatamente inghiottito da uno spazio alieno che non gli lascia alcuna possibilità di sopravvivenza. Un ritorno a un contatto primordiale con la natura è negato, semplicemente perché quella natura non gli appartiene. Esiste poi un’ultima differenza osservabile nella versione australiana di questo mito, una differenza che riguarda il genere sessuale dei soggetti scomparsi. Negli ultimi dieci anni alcuni studi hanno sottolineato come non sia corretto parlare solo di uomo o di ragazzo selvaggio, evidenziando l’importanza, non meno significativa, della variante femminile di questo mito2. Ma è opportuno dire che, in una dimensione europea, si è fatto in passato assai più spesso riferimento al ragazzo selvaggio piuttosto che al suo corrispettivo muliebre, al punto di implicare un’esclusione de facto del soggetto femminile, mentre in Australia la figura della kore è indubbiamente più rappresentata e più significativa rispetto a quella del puer. Nel suo illuminante e informatissimo studio sul tema del lost child antipodeo, verso cui questa sezione della nostra ricerca è grandemente indebitata, Peter Pierce sottolinea come la sparizione di fanciulli che ebbe maggiore eco in tutto l’Ottocento e in buona parte del Novecento australiani ha per protagonista una bambina di sette anni, Jane Duff3. Probabilmente il motivo per cui la sua vicenda suscitò un tale impatto 2 A tale proposito cfr. Julia V. Douthwaite, The Wild Girl, Natural Man, and the Monster: Dangerous Experiments in the Age of Enlightenment, University of Chicago Press, Chicago, Ill. 2002; Clarissa Pinkola Estés, Women Who Run with the Wolves. Contacting the Power of the Wild Woman, Rider, London 1992; Michael Newton, Savage Girls and Wild Boys: a History of Feral Children, Faber and Faber, London 2002. 3 Cfr. Peter Pierce, The Country of Lost Children. An Australian Anxiety, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 16.
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è da ricercare nella sua esemplarità a cui si univa, però, l’elemento positivo di un lieto fine tutt’altro che comune. Il 12 agosto del 1864, un giovedì, tre fratelli chiamati Isaac, Frank e, per l’appunto, Jane Duff, rispettivamente di nove, tre e sette anni, furono mandati dalla madre a procurarsi della legna nei dintorni di Spring Hill, piccola stazione di pascolo nel Victoria, presso la quale risiedevano. Fu necessaria una straziante attesa e un’ostinata ricerca di nove giorni e otto notti prima che i tre fossero ritrovati, miracolosamente vivi e in buone condizioni, il sabato successivo. Per quanto non fosse la maggiore in età, gran parte del merito per la strenua resistenza venne attribuito proprio alla bambina e i testi giornalistici o letterari ispirati a questi fatti calcavano la mano sul ruolo di piccola santa, di eroina devota a cui era subito assurta Jane. Infatti, non solo, ogni sera, prima di coricarsi in ripari improvvisati, aveva fatto recitare ai fratelli la preghiera «Gentle Jesus meek and mild», ma si era anche distinta per il gesto samaritano di cedere il proprio abito per proteggere dalle intemperie il più piccolo dei tre. Quest’intonazione religiosa può essere colta ancor meglio se, seguendo la ricostruzione di Pierce, si tengono in considerazione, oltre alle preoccupazioni per la salvezza della bambina da parte dei suoi contemporanei, anche i loro timori per la sua castità. Timori che ritroveremo nel celeberrimo Picnic at Hanging Rock, dove però le fanciulle scomparse sono delle adolescenti. In ogni caso, sottolinea il critico australiano, anche dopo la sua lunga disavventura nel bush, Jane Duff risulta essere una «immacolata giovane vergine australiana»4. Appare così tutt’altro che sorprendente il fatto che la Religious Tract Society, corporazione d’ispirazione anglicana in cui ci siamo già imbattuti, le cui pubblicazioni erano specialmente votate alla definizione di un imperialismo missionarista, quattordici anni dopo gli eventi della scomparsa dei piccoli Duff desse alle stampe un’opera ad essi chiaramente ispirata come The Children in the Scrub: A Story of Tasmania, di Sophia Tandy. La storia di Jane e dei suoi fratelli era infatti assai conveniente alla retorica coloniale, unendo da un lato un paesaggio aspro e bisognoso di essere umanizzato, e dall’altro l’ardimento pieno di devozione di una piccola eroina della progenie inglese. Ma nella folta schiera di opere più o meno direttamente scaturite dal fatto di cronaca riguardante i fratelli Duff senza dubbio la più affascinante è Cooey: or, The Trackers of Glenferry, scritta da William Strutt, un 4
Ibid., p. 20: «intact young Australian maiden».
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piccolo gioiello d’arte coloniale non tanto per quanto riguarda la sua parte narrativa – non a caso l’opera, venduta a una rivista nel 1906, non venne mai pubblicata fino all’interessamento della National Library of Australia nel 1989 – ma per la sue illustrazioni e la sua impostazione grafica. Strutt, infatti, era un valente artista e s’improvvisò scrittore solo in quest’occasione, corredando il suo lavoro con una serie d’illustrazioni che rappresentano una piccola summa di tutta la copiosa produzione del XIX secolo riguardante i bambini perduti nel bush o le loro affannose ricerche. L’ossessione di questo artista, originariamente nato in Gran Bretagna nel 1825 e trasferitosi in Australia solo a venticinque anni di età, fu tale che Cooey, corredato da numerose incisioni e disegni a matita acquerellati, lo impegnò per un quarto di secolo, dal 1876 al 1901. Uno degli elementi più interessanti del testo di Strutt, in cui i tre bambini sono ribattezzati Roderick, Bella e David Duncan, è l’ambiguo ruolo in esso interpretato dagli aborigeni. D’altra parte il titolo stesso è rivelatore in quanto l’espressione «cooee» o «cooey» era un grido aborigeno che venne poi mutuato anche dai settlers come richiamo nella foresta, specialmente in questo tipo di occasioni. Anche nella prefazione alla sua opera, Strutt sottolinea come molto si possa dire in favore della sagacia e dell’intelligenza di queste genti, rammaricandosi però della loro inevitabile estinzione. La visione dei popoli aborigeni, in special modo di quelli australiani, come creature decadenti prossime alla scomparsa che occupavano uno «spazio anacronistico» nella geografia imperiale, era infatti tipica della cultura dell’epoca5. Il calo demografico di queste popolazioni, il dilagare dell’alcolismo, la crescita della mortalità dovuta all’esposizione a malattie per cui essi non avevano anticorpi, non venivano interpretate come conseguenze dell’impatto con la civiltà britannica, ma come un fenomeno naturale che colpiva una razza decrepita comunque destinata a scomparire nel volgere di qualche decennio. Ancora una volta, poi, nella narrazione di Strutt, come nel vero fatto di cronaca, sono i black trackers, gli esperti ricognitori aborigeni, che anche dopo la temutissima pioggia, capace di cancellare ogni traccia, riescono a cogliere i pur minimi segnali riconducibili al passaggio dei tre Duncan. Eppure Bella si era già imbattuta, insieme ai suoi fratelli, in un gruppo di aborigeni che, impegnati in un corroboree, una danza rituale, non li avevano notati. La bambina non si 5 Per un’analisi del concetto di anachronistic space cfr. Anne McClintock, Imperial Leather. Race, Gender and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, London 1995, pp. 40-42.
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fida di loro ed esorta i fratelli ad allontanarsi senza segnalare la propria presenza. L’episodio, completamente inventato da Strutt per fornire ai lettori d’oltreoceano un tocco di colore locale, oltre a sembrare altamente improbabile – se da un lato ci troviamo di fronte a trackers capaci di cogliere i segni lasciati dai bambini molte ore dopo il loro passaggio, dall’altro un’intera comunità aborigena non avverte la loro presenza a pochi passi di distanza – risulta anche estremamente significativa. Per quanto Strutt disapprovi Bella per non aver colto quest’occasione di salvezza, s’instaura nel lettore una distinzione fra gli aborigeni che vivono allo stato tribale e quelli che, comunque, intrattengono rapporti con la comunità anglo-celtica. La visione del paesaggio australiano quale emerge dalle descrizioni di Strutt risulta anch’essa particolarmente significativa. In un passo, già citato da Pierce, emergono tutte le sue potenzialità, nascoste, però, dietro un’apparenza arida e desolata. «Non c’era nulla da mangiare per loro. Infatti pochi paesi come l’Australia sono così privi di alcunché di commestibile allo stato selvatico; per quanto questa sia una terra che, con un minimo sforzo umano, potrebbe essere trasformata in un luogo in cui scorrono latte e miele»6. Una presenza ostile, quindi, in cui basta scivolare per un attimo, perdendo il malfermo appiglio con l’ultimo avamposto civile, per sprofondare nel vuoto tanto che, osserva giustamente Robert Holden, la salvezza di un bambino perduto, in Australia, assumeva un significato che poco si discostava da un’esperienza di resurrezione7. È invece quasi ovvio sottolineare come la definitiva scomparsa di questi fanciulli sancisse un taglio non solo col proprio passato, ma implicasse una negazione di ogni possibile futuro, e non è un caso se, degli altri cinque testi che analizzeremo, nessuno prevede un esito felice. La prima opera che prenderemo in esame è The Recollections of Geoffry Hamlyn, pubblicata nel 1859 da Henry Kingsley, fratello del più conosciuto scrittore Charles. Questo romanzo è stato definito da Susan K. Martin come il più autorevole esempio di Anglo-Australian novel, realtà letteraria riconducibile alla metà dell’Ottocento in cui l’Australia non era ancora raccontata come paese dotato di una precisa personalità, 6 William Strutt, Cooey: or, The Trackers of Glenferry, National Library of Australia, Canberra 1989, p. 28: «There was nothing for them to eat; indeed there are few countries naturally so destitute of anything edible growing in a wild state as Australia; yet it is a land which, with very little effort on the part of man, can be made as it were to flow with milk and honey». 7 Cfr. Robert Holden, Lost, Stolen or Strayed, «Voices», 1, Autumn 1991, pp. 58-69.
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ma come una terra esotica in grado di offrire un riscatto economico e morale alla nobiltà più spiantata e ai più umili ma intraprendenti rappresentanti delle low-class inglesi, permettendo loro di fare un felice o almeno decoroso ritorno in patria8. Pierce definisce quest’opera un portmanteau novel, un «romanzo-attaccapanni» in cui le varie storie costituiscono la trascrizione delle memorie di Geoffry Hamlyn, da lui lette ad alta voce a un fidato uditorio riunito a Baroona, nei pressi di Sydney. La prima parte del romanzo di Kingsley è ambientata in Inghilterra, così come l’happy ending prevede un felice ritorno in patria ed anche per questa visione dell’Australia come comoda sponda letteraria, nonché per una sua raffigurazione distorta e romanticheggiante, quest’autore attirò le critiche di altri scrittori a lui successivi, fra i quali Joseph Furphy, di cui avremo modo di parlare più diffusamente in seguito. Kingsley stesso, anch’egli, come Strutt, originario del Devonshire, trascorse agli antipodi solo cinque anni della sua vita, dal 1853 al 1858, per poi rientrare in Inghilterra, dove scrisse la maggior parte di quest’opera, pubblicata l’anno seguente. Il capitolo XXX, il solo attinente al nostro percorso, fu invece certamente scritto durante il suo soggiorno australiano, dato evidenziato da una lettera del marzo 1859 al fratello, il quale ebbe un ruolo importante nel dare una forma definitiva al romanzo rendendolo appetibile per la pubblicazione presso Macmillan. Questo capitolo fu poi pubblicato anche separatamente dal medesimo editore nel 1871 come racconto rivolto ai ragazzi, col titolo The Lost Child, quasi ad ammonimento di come potesse essere dura la vita per dei bambini nel più remoto dei possedimenti coloniali. Nella sua introduzione a The Recollections of Geoffry Hamlyn, J.S.D. Mellick osserva come la vicenda contenuta in questa sezione del romanzo abbia molti elementi in comune con una leggenda caratteristica del folklore della Cornovaglia in cui un fanciullo, sedotto dalla fascinazione della foresta popolata da elfi e folletti, riesce, contrariamente a quanto avviene nella trasposizione operata da Kingsley, a fare poi ritorno a casa9. Anche ignorando che questo racconto costituisca un adattamento in abiti australiani di una folk-tale britannica, la prima impressione che si ricava dalla descrizione che l’autore compie del pae8 Cfr. Susan K. Martin, National Dress or National Trousers?, in The Oxford Literary History of Australia, edited by Bruce Bennett and Jennifer Strauss, Oxford University Press, Melbourne 1998, p. 103. 9 Cfr. John Stanton Davis Mellick, Introduction, in Henry Kingsley. Portable Australian Authors, University of Queensland Press, St Lucia 1982, p. xvii; Robert Hunt, Cornish Folk-lore, Tor Mark Press, Truro 1969, pp. 8-9.
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saggio locale è di estraneità. La fin troppo facile caratterizzazione denuncia immediatamente l’esotismo dell’Australia descritta da Kingsley che sembra fatta apposta per risvegliare nel lettore un senso di «tipicità». Ecco allora «la vecchia capanna isolata, situata al riparo di un’ampia e spoglia collina»; «la foresta che diradava in amene radure» e «il grande fiume, che scorreva impetuoso fra i massi»10. Il fiume, che ritroveremo anche nel racconto Pretty Dick di Marcus Clarke e, con ben altra pregnanza, in An Imaginary Life di David Malouf, costituisce un elemento essenziale per questo genere di storie nella tradizione australiana. Il fiume rappresenta la soglia fra ciò che è sottomesso al dominio umano o, per meglio dire, inglese, e quella porzione di territorio ancora libera e capace di esercitare una potente suggestione a cui si accompagna, però, una sicura rovina. Kingsley, come la maggior parte degli autori dell’Ottocento australiano, scrive del bush in uno stato di profonda fascinazione, tanto dolorosa quanto magica, ma anche con un invincibile senso di estraneità. Questo ambiente naturale costituisce un luogo di turbamento non solo per i bambini, ma anche per gli adulti e non è un caso se, queste prime narrazioni, per esprimere il dramma del bambino perduto nella natura, ricorrono alla fairytale, al racconto fiabesco. Per opposizione uno degli elementi più originali costituisce la descrizione del protagonista di questa vicenda di smarrimento, che Kingsley qualifica come «un piccolo e strano bambino selvaggio del bush»11. È come se, per via della sua nascita antipodea, questo fanciullo di otto anni che vive in un isolato rifugio a pieno contatto con la wilderness australiana, sia già un piccolo selvaggio prima ancora di avventurarsi in essa. Infatti egli è: in grado di esprimersi articolatamente, ma del tutto inesperto di contatti con gli esseri umani, eccetto per suo padre e sua madre. Incapace di leggere una parola e ignaro di cosa sia la religione: da un punto di vista morale egli è in tutto e per tutto simile a un piccolo selvaggio come potresti trovarne nel peggior tugurio della tua città, e, malgrado ciò, magnifico a vedersi, irrequieto come un capriolo ma, posto di fronte agli elementi naturali, coraggioso come un leone12.
10 Henry Kingsley, The Recollections of Geoffry Hamlyn, in Henry Kingsley cit., p. 258: «solitary hut, snug sheltered by a lofty bare knoll»; «forest sloping down in pleasant glades»; «great river, chafed among the boulder». 11 Ibid.: «A strange, wild little bush child». 12 Ibid.: «[…] able to speak articulately, but utterly without knowledge or experience of human creatures, save of his father and mother: unable to read a line; without reli-
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In questa descrizione non è difficile rintracciare la stessa stimmate individuata da Baden-Powell e da Kipling, ovvero la pluckiness, quella miscela di sfacciataggine e ardimento che doveva connotare l’autentico ragazzo inglese. Eppure questa qualità non sarà sufficiente all’innominato protagonista del racconto di Kingsley per sopravvivere alla natura australiana, che emerge dalla riscrittura di questo mito come una delle più ostili e probanti. Quando egli confessa alla madre il suo desiderio di vedere cosa c’è oltre il fiume, di esplorare quello che a lui, da lontano, sembra essere un luogo popolato da altri bambini, lei lo ammonisce dicendogli che, quei bambini, o sono dei piccoli aborigeni, o, ancor peggio, allucinazioni evocate da folletti. ‘Pixies’ dice la madre, usando un termine inglese per descrivere queste presenze arcane, ma poco prima lei stessa ha evocato un altro nome, quello del ‘Bunyip’, un mostro acquatico della mitologia aborigena che si acquatta nei fiumi in attesa delle sue prede, di preferenza donne o fanciulli. La madre, poi, lo esorta a non attraversare il fiume mettendolo in guardia sul più probabile rischio di annegamento. Ma il bambino è troppo ardimentoso e troppo attratto dall’avventura per prestare ascolto a consigli e, in un «terso e glorioso giorno di mezza estate»13 egli infrange il divieto materno. Se la struttura di questa vicenda richiama da vicino quella tipica della fiaba europea in cui ad ogni divieto segue una pena, riscattata, però, grazie al contributo di aiutanti magici, qui questo meccanismo non si innesca e non ci sarà nessun cacciatore pronto ad uccidere il lupo. È bene tuttavia osservare che non solo, in questi racconti, manca la figura del cacciatore, o di qualsivoglia proppiano aiutante magico, ma che anche il lupo risulta assente. Non saranno né il Bunyip né i folletti a provocare la morte del fanciullo, ma il suo stesso coraggio unito a una natura che si dimostra, una volta di più, matrigna e indifferente, ben più insidiosa di quella europea. Il momento in cui il bambino attraversa il fiume viene descritto da Kingsley con toni solenni ma delicati, evocando con grazia la retorica dei liberi pomeriggi d’infanzia, con ciò enfatizzando ulteriormente il senso della tragedia incombente. Per non bagnarsi i vestiti mentre guada il fiume, il bambino si denuda fino a quando, giunto senza problemi sull’altra riva, «egli emerse nudo e libero sulla terra proibita»14. gion or any sort or kind; as entire a little savage, in fact, as you could find in the worst den in your city, morally speaking, and yet beautiful to look on; as active as a roe, and, with regard to natural objects, as fearless as a lion». 13 Ibid., p. 259: «[…] glorious, cloudless midsummer day». 14 Ibid.: «[…] he stood naked and free in the forbidden ground».
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La sua nudità è strettamente correlata da Kingsley alla sua nuova libertà. Il fanciullo non si è spogliato solo delle vesti, ma di tutte le convenzioni che regolano il vivere civile le cui leggi sono delimitate dal fiume da lui oltrepassato, leggi che ora non possono più né vincolarlo né proteggerlo. Il riferimento alla nudità ci impone di chiamare in causa ancora una volta l’ineludibile Picnic at Hanging Rock, dove la liberazione dagli abiti vittoriani implica anche l’abbandono della civiltà di cui quegli stessi abiti sono moda, simbolo, espressione. Ed è una liberazione senza ritorno che, nel caso del romanzo di Joan Lindsay e dell’omonimo film di Peter Weir, proietta le giovani disperse in una dimensione inafferrabile, mentre nel caso di Kingsley porta il fanciullo alla morte, così affermando che non ci sono alternative, se non quest’ultima, alle regole comuni, al vivere civile inteso in stretto senso britannico e coloniale. Infine, il piccolo protagonista, dopo tanto lieto vagabondare, si accorge di soprassalto di essersi perduto. «He was lost in the bush», è la sbrigativa sentenza dell’autore mentre il suo personaggio sprofonda in una ‘strange madness’, una sensazione di panico – che tuttavia Kingsley sceglie di descrivere senza nominare questa parola, evidentemente troppo legata alla cultura e alla mitologia europea – definita come «una disperazione, una confusione dell’intelletto che è costata a più d’un uomo la sua vita. Pensate cosa poteva essere con un bambino!»15 E infatti egli sarà ritrovato morto da Cecil e Sam, i due giovani che si sono incaricati di aiutare nelle ricerche, in una posizione che ricorda un sonno inquieto. Lì giaceva, morto stecchito, con una mano ancora stretta ai fiori che aveva raccolto nel suo ultimo giorno spensierato, e l’altra raccolta sotto il capo, a far da cuscino tra la morbida e fredda guancia e la ruvida e fredda pietra. La sua vacanza di mezza estate era finita, il suo lungo viaggio era terminato. Aveva alla fine trovato ciò che si nascondeva al di là del fiume scintillante, da lui a lungo contemplato16.
Un racconto avvicinabile alla vicenda narrata da Kingsley nel XXX 15 Ibid., p. 260: «[…] a despair, a confusion of intellect, which has cost many a man his life. Think what it must be with a child!». 16 Ibid., p. 262: «There he lay, dead and stiff, one hand still grasping the flowers he had gathered on his last happy play-day, and the other laid as a pillow, between the soft cold check and the rough cold stone. His midsummer holiday was over, his long journey was ended. He had found at last what lay beyond the shining river he had watched so long».
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capitolo del suo romanzo è il già citato Pretty Dick, di Marcus Clarke, autore ben più famoso per aver scritto la prima grande opera riguardante la vicenda dei convicts in Australia, For the Term of His Natural Life. Apparso inizialmente sul Colonial Monthly nell’aprile del 1869, questo racconto venne in parte riscritto, o, per meglio dire, ne venne modificato un dettaglio riguardante l’età del suo protagonista eponimo. Pretty Dick aveva infatti dodici anni nella prima stesura, ma la critica considerò poco credibile che un ragazzo di quell’età, un ragazzo che il suo stesso creatore definisce «manly», potesse perdersi tanto facilmente. Così, quando questo racconto venne poi compreso nella raccolta Holiday Park and Other Tales, l’età anagrafica del protagonista scese a sette anni. In Pretty Dick, contrariamente a quanto si è già affermato dicendo che, in ambito australiano, nel caso dei fanciulli perduti, i racconti tendono a enfatizzare le addolorate reazioni dei familiari piuttosto che le vicende infantili, Clarke tenta di riprodurre nel modo più credibile il punto di vista del bambino. Pur non essendoci identità tra il protagonista e la voce narrante, l’autore cerca di avvicinarsi alle emozioni del fanciullo per cogliere direttamente il suo stato d’animo. Giustamente, a questo proposito, Pierce fa osservare come Clarke si sia spinto più in là di tutti nel tentativo di restituire i tormenti del lost child. Ciò, secondo il critico australiano, era coerente con il carattere romantico che questo scrittore voleva conferire alla nascente letteratura nazionale. Laddove, in genere, gli altri autori australiani abbandonano questi fanciulli al loro triste destino, Clarke li pone al centro della sua attenzione come avviene nella poesia di Blake e Wordsworth17. Pretty Dick è l’unico figlio di una coppia che, come nel racconto di Kingsley, vive isolata da centri abitati dedicandosi alla pastorizia e, come nel racconto di Kingsley, il piccolo protagonista è terribilmente attratto dalla selvaggia bellezza della natura, sedotto dal mondo a lui ignoto che si estende oltre un ruscello. Prima di fargli guadare questo sottile confine, Clarke ammonisce il piccolo e il lettore con una lunga sequela di domande retoriche sulla pericolosità del bush e sui numerosi casi di morte che vi hanno avuto luogo. Queste domande non hanno solo il compito di alimentare la suspense, ma anche quello di esprimere tutta la tradizione tetra e terribile riguardante l’entroterra australiano già sedimentata nel corso di ottant’anni di storia bianca. «Non aveva 17
Cfr. Pierce, The Country of Lost Children cit., pp. 43-44.
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sentito di… ?», «Non gli era forse stato detto che… ?», «Quali storie non aveva sentito… ?», «Quali terrificanti racconti… ?»18. In realtà queste formule interrogative non rimandano a fatti, ma a racconti di fatti più o meno mirabolanti, più o meno credibili, i quali sostanziano una tradizione già ben consolidata, un immaginario tanto fosco quanto concreto. Naturalmente questo genere di racconti, anziché sedare la curiosità di Pretty Dick, sembra concepito appositamente per accendere la sua sete d’avventura. È lo stesso tipo di storie gotico-pionieristiche che sollecita Tom Sawyer e i suoi compagni a cercare avventure piratesche allontanandosi dal paese. Ma se un ritorno è sempre garantito nell’America di Twain, anzi, se è possibile, per questo autore, inscenare addirittura la spettrale burla di un funerale a cui assiste, tra il divertito e il commosso, proprio colui che viene considerato defunto, questa soluzione è invece negata a un autore australiano come Clarke, la cui vicenda procede, assai più prevedibilmente, verso la morte del suo protagonista. Non appena varcato il fiumiciattolo, subito la natura si presenta come del tutto diversa rispetto a quella che il bambino si è lasciata alle spalle. «Uno strano e intossicante profumo»19 si effonde dall’acqua stessa e dalle piante. Come prevede ogni racconto di Imperial Gothic, la natura si manifesta in forme tanto seducenti quanto fatali, al punto che quello stesso paesaggio prima apparso affascinante al bambino, una volta che egli si scopre sperduto in esso, assume sembianze così sinistre da fargli avvertire come imminente la materializzazione di quella minaccia sotto forma di qualche creatura mostruosa. «Egli era oscuramente consapevole – scrive Clarke – che tutto l’orrore del bush era sul punto di prendere una qualche forma tangibile per apparire silenziosamente da dietro le orribili rocce che gli sbarravano la strada ad ogni possibile salvezza e soccorso»20. Ecco allora riaffacciarsi il terrore dello shapeless Bunyip ed ecco che, quello stesso luogo che a lui era prima sembrato tanto seducente, si trasforma ora in una «gravestone», una pietra tombale, e «la gola in cui si trovava era come la Valle delle Ombre e della Morte»21. 18 Marcus Clarke, Pretty Dick, in, Marcus Clarke. Portable Australian Authors, Edited by Michael Wilding, p. 560: «Had he not heard of… ?»; «Had he not been told… ?»; «What stories had he not heard… ?»; «What hideous tales… ?». 19 Ibid., p. 562: «A strange intoxicating smell». 20 Ibid., p. 566: «He was dimly conscious […] that the whole horror of the bush was about to take some tangible shape and appear silently from behind the awful rocks which shut out all safety and succour». 21 Ibid.: «the gorge where he lay was like the Valley of Shadow and Death».
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In realtà non c’è bisogno di una manifestazione tanto spettacolare di malevolenza. Semplicemente essa non è necessaria perché è sufficiente la natura stessa del luogo a far soccombere le sue vittime. La natura australiana, sembrano testimoniarci queste narrazioni, non è ostile perché infestata da creature malvagie e sanguinarie, ma lo è di per sé. È una natura che non assume forme vistose, ma il cui elemento più pericoloso è proprio la desolazione che sa suscitare in chi si perde in essa fino a diventarne parte indistinguibile, confondendosi nel paesaggio. Dopo essersi perduto Pretty Dick sente avvicinarsi il rumore di zoccoli di un cavallo lanciato al galoppo. Egli cerca di lanciare un grido per richiamare l’attenzione del cavaliere, che infatti arresta la sua corsa guardandosi intorno, ma dopo un istante riprende il cammino convinto di aver scambiato per un grido umano quello che, più probabilmente, era «il verso di un pappagallo, il richiamo di un orso selvaggio, o di qualche strano uccello»22. Una volta perdutosi nel bush Pretty Dick è andato rapidamente perdendo anche la sua identità umana, venendo così incorporato dall’ambiente circostante e confuso con i suoi suoni. L’ultimo atto che prelude al definitivo smarrimento non è tanto quello di una dolorosa presa di coscienza della sua prossima fine, ma una confusione estrema, la privazione della propria identità prima ancora che del proprio corpo all’interno di uno spazio, tanto che egli si risveglia da un sonno inquieto pensando che «non era più se stesso, ma che aveva sognato di un bambino felice chiamato Pretty Dick, che si era allontanato da casa per una passeggiata un pomeriggio di molti anni fa»23. Alla sua ricerca sono dedicate solo le ultime cinque righe del racconto che si conclude con il pietoso ritrovamento del cadavere, ancora una volta trovato nella posizione di un sonno, vegliato, però, dai corvi, e con la laconica constatazione che «Dio lo aveva riportato a casa»24. I casi di bambini perduti nel bush sono stati così numerosi nell’Ottocento australiano, e alcuni di essi hanno avuto un impatto tale sull’immaginario nazionale da confondersi con la leggenda elaborata dai racconti che ne hanno trattato, come nel caso di The Babies in the Bush, probabilmente la più bella, toccante e singolare fra le storie da noi passate in rassegna. Henry Lawson, il suo autore, patriarca delle lettere australiane, grande narratore della durezza della vita agli antipodi, si 22
Ibid., p. 565: «the scream of a parrot, the cry of some native bear, or strange bird». Ibid., p. 567: «[…] he was not himself, but that he had been dreaming of a happy boy named Pretty Dick, who went away for a walk one afternoon many years ago». 24 Ibid., p. 569: «God had taken him home». 23
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servì dello stesso nome e della tormentata vicenda di un amico, Walter Head, per questo straziante racconto di smarrimento in cui, a perdersi, non sono soltanto due bambini, ma soprattutto i loro genitori, caduti nei meandri di una disperazione che sconfina nella follia. Walter Head fu un uomo con due vite, seppur non prive di coerenza fra loro. Nato nel 1861 nei pressi di Melbourne, egli fu assai attivo politicamente spendendosi per la causa socialista e impegnandosi in movimenti sindacali. Fu tra le più importanti firme di New Australia, rivista di un’omonima associazione il cui fondatore, William Lane, tentò di costituire il primo stato socialista in Paraguay, portando con sé una comunità di circa duecento persone. L’esperimento, rivelatosi presto fallimentare, si chiuse ufficialmente nel 1909 e anche Head vi avrebbe preso parte se, alla fine del 1893, non fosse stato raggiunto dalla notizia della scomparsa di uno dei suoi figli, Rowland, di tre anni, perdutosi nella zona del Gippsland poco prima che il resto della famiglia si imbarcasse per il Paraguay, e mai più ritrovato. Questo episodio segnò profondamente l’esistenza di Head. I due anni seguenti furono caratterizzati da fallimenti personali, come la fine del suo matrimonio, e professionali, l’accusa di malversazione di fondi destinati alla colonia sudamericana, e la conseguente espulsione dall’associazione. Nel 1895 Walter Head era morto per risorgere sotto il nome di Walter Ash Woods, destinato poi a distinguersi come giornalista, deputato e padre di una nuova famiglia. Il personaggio di Lawson che portava lo stesso nome non avrebbe avuto una simile fortuna. Il racconto si apre con il ritratto malinconico di Head compiuto da Jack Ellis, la voce narrante, un mandriano suo sottoposto che lentamente scoprirà il motivo per cui il boss sorride assai di rado ed è sempre posseduto da un’inguaribile malinconia. In effetti Babies in the Bush è una storia di misteri che si rivelano lentamente, introducendo il lettore a nuovi segreti, fino all’epifania di una colpa finale, tanto dolorosa quanto inaspettata. La prima parte del racconto indulge sugli aspetti più romantici della vita nel bush, evoca la poesia di Adam Lindsay Gordon e introduce agli sfiancanti ritmi di lavoro diurno e alle veglie notturne, allietate da racconti intorno al fuoco e laconiche confidenze maschili. Alla chiusura della stagione di pascolo, Head insiste perché Jack e Andy, un altro mandriano che solo alla fine scopriremo possedere l’ultimo tassello della drammatica storia, si rechino in visita a casa sua. Sul cancello della propria tenuta il boss si rivolge a Jack confidandogli il suo segreto. «Devo dirti che Mrs Head è stata vittima di una tragedia.
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Noi… noi abbiamo perso i nostri due bambini. Le fa bene parlarne a un estraneo, di tanto in tanto, si sente sempre meglio dopo, ma sono molto pochi coloro di cui posso fidarmi. Non dar peso a eventuali stranezze… e dalle sempre ragione, Jack»25. Una confidenza così dolorosa fatta all’ultimo momento e la rivelazione che sua moglie va assecondata, un modo delicato per ammetterne la follia, dispongono Jack, nonché il lettore, a un rapido cambiamento di tono, cosicché quando Head, infine, dischiude il cancello e i tre personaggi varcano la soglia, è immediatamente chiaro che essi ne attraversano anche una spirituale, entrando in uno spazio misterioso il cui significato ultimo è una sofferenza inconsolabile. In qualche modo l’invito di Head costituisce anche una trappola. Egli ha portato con sé Jack e Andy perché anch’essi possano condividere il dolore della moglie, diventando vittime di una lugubre terapia. La porta di casa si apre e la figura di donna che si affaccia è appena rischiarata nella penombra dalla luce scialba proveniente da un’altra stanza, una luce che le incornicia i capelli grigi e la figura dimessa, tanto che il narratore si chiede se la madre del boss viva con loro. Ma, naturalmente, le parole con cui Head presenta la donna ai due ospiti sono: «My wife, Mrs Head». La percezione dell’età della donna, una volta che Jack si è assuefatto all’ambiente ombroso, gli sembra parzialmente diversa. Gli appare sempre invecchiata anzitempo, ma ora gli ricorda «una di quelle piccole vecchie signore dal volto fresco e ben preservato che vestivano in modo giovanile, portavano denti falsi e scimmiottavano una vivacità da ragazzine»26. C’è un eccesso di entusiasmo in lei alla prospettiva di avere nuove visite, nuovi martiri su cui riversare il suo tormento esistenziale. È come se la sofferenza da lei patita l’avesse da un lato fatta appassire precocemente, e, dall’altro, resa infantile, facendole assumere le caratteristiche dei suoi bambini perduti. Bambini dei quali la donna agognava di raccontare a Jack fin da quando il marito le aveva parlato di lui, perché solo un bushman può capire la sua storia. «Sa, – gli dice Mrs Head – noi abbiamo perduto i 25 Henry Lawson, The Babies in the Bush, in Joe Wilson and His Mates. 56 Stories from the Prose Works of Henry Lawson, Currey O’Neill, South Yarra 1981, p. 136: «I must tell you that Mrs Head had a great trouble at one time. We—we lost our two children. It does her good to talk to a stranger now and again—she’s always better afterwards; but there’s very few I care to bring. You—you needn’t notice anything strange. And agree with her, Jack». 26 Ibid.: «one of those fresh-faced, well-preserved, little old ladies who dressed young, wore false teeth, and aped the giddy girl».
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nostri bambini nel bush. Sono state le fate a prenderli»27. Ecco che una cronaca di nera disperazione, di dolore irredimibile vira in una fairy tale, una fiaba follemente consolatoria. È proprio questo scarto a costituire l’elemento più sconcertante del racconto di Lawson. Se egli non lo trasfigurasse con questo camuffamento che lo rende grottesco, quasi una storia gotica, esso non sarebbe che un altro resoconto di lost child, ma la rielaborazione operata da quest’autore, la grande abilità con cui egli si avvicina al racconto di genere senza cadervi completamente, costituisce l’aspetto letterario più rilevante di Babies in the Bush. La storia narrata dalla donna necessita di una vera e propria liturgia. Viene convocata un’anziana cameriera chiamata «Auntie», custode e cerimoniera del tormento della donna. Due ritratti sono ora esibiti in una solenne ostensione e, come in un rito religioso, alle allucinate parole di Mrs Head è riservato un coro di assenso partecipe. La storia, in realtà, non viene realmente narrata dalla donna, ma velocemente riassunta da Jack, il quale afferma che «Non c’era alcun bisogno di raccontarmi dei bambini perduti. Potevo già vedere tutto nella mia mente»28. Questa variante narrativa non costituisce solo un accorto espediente letterario, opportuno per vivacizzare il tono del racconto, ma, così come avviene con la lunga sequenza di domande retoriche di Pretty Dick, essa costituisce una testimonianza della triste ordinarietà di questo tipo di eventi e della risaputa sequenza che essi innescano: è la rappresentazione di uno stereotipo che si ripresenta sempre uguale ed ossessivo. Le fate del bush a cui fa riferimento Mrs Head si incaricano di portare con sé i bambini perduti e non ritrovati per impedire loro una morte certa e, si illude la donna, esse le renderanno presto i suoi. «E riporteranno a casa i bambini l’anno prossimo?»29 Chiede al marito, ansiosa di una pronta conferma che non si fa attendere, ma poco dopo sarà l’anima razionale della donna a prendere il sopravvento, facendola sciogliere in lacrime e chiedere perdono per lo spettacolo che ha offerto di sé. Andy, rimasto silenzioso per tutto il tempo della narrazione, una volta che lui e Jack sono usciti di casa, commenta che ora la donna starà 27 Ibid., p. 138: «You know we lost our children out on the station. The fairies took them». 28 Ibid., p. 142: «There was no need to tell me about the lost children. I could see it all». 29 Ibid.: «And they’re bringing home the children next year?».
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meglio, forse per mesi, per poi ricadere di nuovo nel baratro. Era stato lui stesso a ritrovare i corpi dei bambini che ora sono seppelliti a Sydney. Ed è stato di gran lunga meglio così, sostiene il mandriano, infatti: «Quando i corpi non sono trovati, i genitori non abbandonano mai del tutto l’idea che i loro piccoli stiano vagando nel bush proprio quella notte (potrebbe anche essere anni dopo) e stiano morendo di fame, di sete e di freddo. Questa folle idea li tormenta per tutta la loro vita»30. Jack, che è legato da sincera amicizia al suo principale, esprime tutto il rincrescimento per il doloroso evento toccatogli in sorte, ma la risposta del suo compare è sibillina: «Saresti ancor più dispiaciuto se sapessi tutta la storia»31. L’ultimo mistero, quello su cui Andy è così reticente, riguarda l’assenza di Mr Head dalla scena degli eventi: questi si trovava a Sydney per lavoro mentre i suoi figli morivano di stenti e non era stato possibile raggiungerlo. Ma la verità verrà alla fine confessata a Jack da Head stesso. Egli non si trovava in città a quel tempo, ma in una sordida bettola, dedito a un howling spree, un periodo di eccessi sfrenati consacrato all’alcol che i bushmen si concedevano di tanto in tanto per sfuggire alla dura vita quotidiana. Il rimorso per la sua assenza, la certezza che, se fosse stato presente, sarebbe riuscito a ritrovare i suoi figli, lo hanno distrutto e anche lui, seppur in modo diverso dalla moglie, è un uomo perduto. Se Lawson aveva trasfigurato nella narrativa l’esperienza che aveva sconvolto la vita di un suo conoscente, Joseph Furphy, un autodidatta a cui si deve una delle più interessanti e definitive testimonianze sull’Ottocento australiano, contenuta nel romanzo Such Is Life, pubblicato nel 1903 sotto lo pseudonimo di Tom Collins, fu invece coinvolto direttamente nelle ricerche di uno dei più drammatici casi di lost children. Nel 1867, presso Daylesford, nello stato del Victoria, si erano perse le tracce di tre bambini che rispondevano al nome di William e Thomas Graham e Alfred Herbert Burman. Le ricerche erano state infruttuose fino a quando un tale McKay, mentre attingeva dell’acqua presso un fiume insieme al suo cane, notò che questi, dopo essersi assentato per breve tempo, aveva fatto ritorno stringendo fra le zanne qualcosa di quantomeno inusuale: uno stivale con dentro il piede di un bambino. McKay diede immediatamente l’allarme, sicuro che i resti dei 30 Ibid., p. 144: «when the bodies aren’t found, the parents never quite lose the idea that the little ones are wandering about the bush tonight (it might be years after) and perishing from hunger, thirst, or cold. That mad idea haunts ’em all their lives». 31 Ibid., p. 146: «You’d be sorrier if you knew all».
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poveri corpi dovessero trovarsi nei paraggi. Le prime ricerche furono senza successo e il cane si rifiutò di collaborare, portando anzi con sé, quella sera stessa, il cranio di uno dei cadaveri. Infine le spoglie dei bambini vennero trovate, ridotte in uno stato pietoso, nel cavo di un albero in cui avevano evidentemente cercato rifugio, offrendo di sé un macabro pasto ai cani del vicinato. Questa sconvolgente esperienza dovette albergare a lungo nell’animo di Furphy perché egli fece del lost child un tema essenziale all’interno della sua opera. Such Is Life ambisce ad essere un testo riepilogativo e simbolico del primo secolo di colonizzazione, tanto che il titolo, che può essere tradotto con la rassegnata constatazione che «Così è la vita», rappresenta la citazione delle ultime parole pronunciate dall’eroe fondativo australiano per eccellenza, quel Ned Kelly, che, dopo una breve vita dedita a un banditismo non privo di onestà e generosità, affrontò la forca con questa stoica affermazione. Un’affermazione che non va interpretata come una piatta ammissione di fatalismo, ma con tutta la combattività conscia di essere votata alla sconfitta tipica dello spirito tradizionale australiano; un’affermazione così pregnante da essere usata come chiusura in due dei sette capitoli di cui consta la vicenda. Non accidentalmente sono proprio i due capitoli che riguardano la nostra storia. Il secondo capitolo del romanzo di Furphy ci introduce alla figura di Mary O’Halloran, una bambina, figlia di un bonario cattolico irlandese e di una severa protestante inglese, cresciuta libera e felice, a contatto con la natura, ma che, per le contrastanti fedi dei suoi genitori, non è stata battezzata e quindi, secondo la sprezzante definizione della madre, «È senza nome»32. Si è tentati di dire che, in realtà, il vero nome di Mary sia «Australia», tale è l’esemplarità e la forza allegorica di cui l’autore carica questo personaggio. «Mary O’Halloran era il perfetto prototipo della Giovane Australiana. […] Era una figlia dei boschi, una driade fra gli alberi suoi fratelli. La poesia di antica discendenza della sua natura faceva echeggiare il bush di una pura gioia di vivere; lei conferiva ad ogni singolo albero la sua grazia, e questi rispondevano in perfetta comunione»33. 32
Furphy, Such Is Life cit., p. 72: «She’s got no name». Ibid., p. 74: «Mary O’Halloran was perfect Young-Australian. […] She was a child of the wilderness, a dryad among her kindred trees. The long-descended poetry of her nature made the bush vocal with the pure gladness of life; endowed each tree with sympathy, respondent to her own fellowship». 33
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Solo in seguito Tom Collins, protagonista e voce narrante dell’opera, formata dalle stesse pagine del suo diario, apprenderà, durante una veglia intorno al fuoco, come Mary O’Halloran si fosse perduta nel bush alla disperata ricerca del padre, il quale, nel frattempo, aveva fatto ritorno a casa. Ancora una volta la vicenda viene presentata come assolutamente stereotipica e, ancora una volta, essa non ci viene raccontata in presa diretta, ma attraverso la forma del racconto orale che, peraltro, essendo Such Is Life un romanzo in forma diaristica, costituisce la trascrizione di un racconto e non il racconto stesso. Come se si trattasse di un incubo collettivo che solo attraverso una continua ri-narrazione possa essere, se non vinto, almeno esorcizzato. Pierce fa tuttavia notare come, in questo gioco di specchi tra autore e pseudonimo, tra racconto di primo e secondo o, addirittura, terzo grado, sia importante non attribuire l’identificazione di Mary con l’Australia anche a Furphy, oltreché al suo personaggio-alter ego. Furphy, come già aveva fatto anche Lawson, rielabora un mito nazionale mettendolo parzialmente in discussione. La lettura di Such Is Life ci fa infatti comprendere che quello del lost child è, in realtà, un mito geminale. Da un lato abbiamo la rappresentazione dell’Australia nei panni di una giovane donna libera e selvaggia e, dall’altra, il timore, o addirittura il terrore, che la nuova possibilità che essa incarna, l’essere libera da vincoli battesimali, rappresenti il totale smarrimento della propria identità, il proprio definitivo annullamento (e va ricordato, a tale proposito, come a Mary tocchi una sepoltura in terra sconsacrata). Questo tema sarà centrale anche nelle opere di Malouf che prenderemo in esame, ma è chiaro come, fin dalla fine dell’Ottocento, esso fosse già in qualche modo avvertito e rappresentato dagli autori australiani. Un definitivo rovesciamento di quello che è un vero e proprio topos nazionale venne operato più di mezzo secolo dopo da Patrick White, padre scomodo e severo del Novecento australiano, nonché, a tutt’oggi, il solo Nobel per la letteratura proveniente da questo angolo di mondo. Nel secondo capitolo del suo The Tree of Man (1956) egli immagina una coppia, i Parker, che anziché perdere il proprio figlio, dopo un’alluvione che ha spazzato via ogni cosa, ne trova uno. Forse a causa dello shock provocato dall’inondazione egli se ne resta muto e, se non accetta esplicitamente l’ospitalità della giovane coppia, neppure la rifiuta, seguendoli nella loro abitazione. La donna si sveglia durante la notte e sorprende l’enigmatico ragazzo al tavolo della cucina, occupato a osservare gli oggetti che lo circondano attraverso il frantume della vetrata di una chiesa, andata in pezzi sotto la pressione del-
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l’acqua, e cerca di instaurare con lui un impossibile dialogo. Il mattino dopo il ragazzo è sparito, incapace di adeguarsi alla vita che i Parker avrebbero potuto offrirgli. Interpretare la profetica scrittura di White costituisce sempre un azzardo, ma a noi pare quasi di poter cogliere nel suo silenzioso fanciullo l’impossibile ritorno a casa del lost child ottocentesco, l’ammissione che, con esso, qualcosa di misterioso e inafferrabile si sia perduto per sempre, portando con sé un nuovo e possibile punto di vista da cui guardare all’Australia. * La prospettiva con cui la seconda metà del Novecento ha guardato a questo topos australiano contempla un maggior distacco rispetto alle realistiche paure di smarrimento che avevano attanagliato il secolo precedente, e un riavvicinamento a posizioni per certi aspetti più corrispondenti al mito europeo. Questa visione è dovuta in larga parte al cinema più che alla letteratura, con la cospicua eccezione della narrativa di Malouf, e se il modo di porgere questo mito risulta indubbiamente ancora diverso rispetto a quello del Vecchio Continente, l’enfasi sul contatto con una natura primordiale e sulla possibilità di un risvegliamento panico o addirittura edenico è assai frequente. La versione australiana del lost child continua a differenziarsi, invece, per quanto riguarda il genere dei soggetti sperduti. Tutti e quattro i film che prenderemo qui in considerazione riguardano infatti lo smarrimento di fanciulle nel bush o nella più selvaggia natura australiana. Essi sono Walkabout (UK, 1971) di Nicolas Roeg; Picnic at Hanging Rock (AUS, 1975) di Peter Weir; Evil Angels/A Cry in the Dark (AUS/USA, 1988) di Fred Schepisi e Lantana (AUS, 2001) di Ray Lawrence. Visto il riavvicinamento a tematiche e posizioni apparentemente più «europee», non deve sembrare un paradosso che uno degli iniziatori di questo nuovo modo di guardare all’isola-continente sia un regista non australiano, l’inglese Nicolas Roeg, il quale nel 1971 realizzò il suo Walkabout traendo ispirazione da una novella per ragazzi di James Vance Marshall. La trama del film – alquanto modificata rispetto al romanzo di partenza – è assai semplice. Un fratello e una sorella, interpretati da Lucien John Roeg, uno dei figli del regista, e dall’attrice inglese Jenny Agutter, rispettivamente di sei e quattordici anni, accompagnano il padre in un viaggio che li porta da Sydney all’entroterra desertico. Qui il loro genitore, un imperscrutabile geologo, impazzisce
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improvvisamente e cerca di ucciderli, ma, una volta fallito il bersaglio, si dà la morte dopo aver incendiato l’automobile, ultima risorsa per fare ritorno a casa. I due fratelli si avventurano allora nel deserto fino a quando, le labbra riarse, la pelle bruciata dal sole e dalla sabbia, le uniformi scolastiche logore e strappate, si imbattono in un aborigeno coetaneo della giovane – interpretato dall’esordiente David Gulpilil, destinato a una ricca carriera artistica – impegnato in un cammino iniziatico, il Walkabout del titolo, che prevede un lungo e solitario pellegrinaggio sulle orme del proprio animale totemico. L’incontro segnerà la salvezza dei due giovani bianchi e la rovina dell’aborigeno, ma prima che questo fato si compia il rapporto tra loro si farà via via più profondo fino a sembrare, nei momenti più idilliaci, quello di una famiglia edenica liberata in una natura non più ostile. La conclusione giunge così tanto inaspettata quanto sconvolgente: il giovane aborigeno, profondamente attratto dall’acerba sensualità della fanciulla, dopo aver eseguito una danza rituale d’amore e di morte, e dopo essere stato da lei respinto, si toglie la vita impiccandosi e il suo cadavere viene abbandonato quasi con indifferenza dai due fratelli. Il ritorno alla civiltà è in qualche modo sancito con un gesto opposto a quello di molti lost children dell’Ottocento australiano, i quali abbandonavano il mondo civile attraversando piccoli corsi d’acqua, mentre qui i due ragazzi rientrano in seno al mondo civile mettendo i piedi sul cemento della prima strada asfaltata in cui s’imbattono dopo molto tempo, con la stessa solennità con cui si compie un allunaggio. Soprattutto la ragazza interpreta questo gesto come un ritorno positivo, ella infatti, ancora inconsapevole di quanto ha perduto, sogna di tornare ad ascoltare i suoi dischi, alle sue feste, a una normale vita di adolescente, ma questo passaggio nasconde anche tutta l’impossibilità di un ritorno alla natura. Per buona parte del film Roeg ci mostra, in modo da un lato documentaristico e dall’altro assai romantico, la potente bellezza dell’outback australiano, con immagini di animali misteriosi e primordiali, con spettacolari sequenze ambientate nel deserto, reso con colori saturi e accesi, rievocando un film coevo ben più celebre quale Zabriskie Point (USA/ITA, 1970) di Michelangelo Antonioni. E, come in questo film del regista italiano, un ritorno all’avventura, alla natura e il sogno/incubo dell’abbattimento del modello di civiltà borghese e capitalistica si rivelano infondati. Questo sogno appare quindi tanto potente quanto fragile. Per buona parte del loro felice percorso comune, l’aborigeno non cerca di
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far sì che i due ragazzi possano tornare a casa, ma si impegna anzi a nascondere loro tutte le occasioni che potrebbero ricondurli in seno alla civiltà. Occasioni mostrate invece allo spettatore e rivelatrici di quanto ciò che, a prima vista, sembra un ambiente incontaminato, costituisca in realtà un luogo assai compromesso dalla presenza umana. Dietro una collina costeggiata dal terzetto si cela, ad esempio, l’abitazione di un piccolo imprenditore che sfrutta una comunità aborigena come manodopera per modellare statuette ed altri manufatti e in pieno deserto si trova una stazione di osservazione scientifica. Non a caso l’unico insediamento in cui il giovane conduce la fanciulla e suo fratello è una vecchia dimora abbandonata, lontana testimonianza del tempo dei pionieri. Essa rappresenta per l’aborigeno ciò che di più vicino vi è a una casa, ma, agli occhi della ragazza, si rivela in tutto il suo decrepito orrore. Le stanze fatiscenti custodiscono le scolorite memorie di una vita che non c’è più: se il bush è minacciato dalla presenza umana, la sua stagione ottocentesca ed eroica è ormai completamente tramontata e la fanciulla sogna solo il ritorno alla metropoli. Al ragazzo aborigeno non resta così altro che il suicidio e la sua danza di morte è associata a immagini terminali, alla mattanza di animali selvatici da parte di spietati cacciatori, a teschi e ossa e il suo stesso corpo, nella sua danza d’addio, è dipinto con una tecnica chiamata X-ray painting, come se non si trattasse più di un corpo, ma di uno scheletro. A distanza di quasi un secolo rispetto al già citato Cooey: or, The Trackers of Glenferry di William Strutt, la raffigurazione che tocca in sorte all’aborigeno resta dunque inalterata: egli viene sempre rappresentato come creatura nobile, ma prossima al suo crepuscolo e completamente destituita della possibilità di un futuro. L’ultimo sentimento suscitato dal film, però, è quello del rimpianto visibilmente provato dalla ragazza, ora cresciuta, sposata e accasatasi in quello stesso appartamento alto-borghese da cui aveva avuto inizio la sua avventura, e su questo rimpianto si chiude il film. La vicenda, che ancora una volta si avvale di una struttura fiabesca, in cui possiamo trovare il tema dell’abbandono in un luogo isolato e alieno da parte di un padre-patrigno, il soccorso di un aiutante magico e il ritorno, più o meno felice, alla propria magione con tanto di coronamento sentimentale, potrebbe essere in realtà letta anche in chiave allegorica, come la storia dell’Australia stessa. Due fanciulli vengono abbandonati al loro destino in un luogo che non appartiene loro, che anzi essi percepiscono come ostile. Gli originari abitanti di quel territorio periranno per causa loro e, anziché elaborare una civiltà diversa,
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i nuovi arrivati faranno il possibile per tornare a quella stessa civiltà che li aveva abbandonati. Ogni lettura allegorica, piuttosto che conferire al racconto un ulteriore elemento di ricchezza e profondità, lo priva di tutto il suo mistero, ma è innegabile come questa spiegazione sia applicabile in modo se non altro coerente al film diretto dal regista inglese. Walkabout appare comunque in qualche modo complementare rispetto all’opera che a tutt’oggi può essere considerata come la più conosciuta tra quelle espresse dell’arte australiana: quel Picnic at Hanging Rock che fu il primo capolavoro autoctono a suscitare interesse e considerazione su scala planetaria. Un paragone tra i due film risulta interessante per quanto difficile. Se infatti uno è ambientato nell’outback desertico, il cuore profondo della nazione, in cui pochissimi scelgono di vivere, l’opera di Weir si confronta invece con il bush. Anche il contesto sociale e cronologico è diverso. Se uno trae spunto da un’Australia già moderna e urbanizzata, seppur ancora impacciata e provinciale, l’altro si colloca nell’ultimo anno dell’età vittoriana, ma entrambi, pare di capire, sono luoghi da cui la fuga è più che legittima. Queste due opere sono fra loro complementari anche perché ci lasciano intravedere parti opposte di una stessa storia. I due fratelli di Walkabout sono costantemente sotto lo sguardo dello spettatore, mentre nel libro di Joan Lindsay e nell’opera cinematografica che ne trasse Peter Weir, le fanciulle perdute, pur restando protagoniste del racconto, scompaiono assai presto nella narrazione che poi, come ha sottolineato Elizabeth Jolley, un’altra grande scrittrice australiana, si concentra «sulle azioni e le reazioni, e il conseguente comportamento di quelli che non sono scomparsi»34. Scrivere di Picnic at Hanging Rock può risultare, da un punto di vista critico, quasi imbarazzante. Infatti non esiste probabilmente opera più conosciuta, se non più studiata, in ambito australiano e si ricava così l’impressione di cimentarsi, ancora una volta, con una tematica il cui mistero sia già stato del tutto svelato. Per quanto quest’impressione contenga una parte di verità, essa può anche essere facilmente contraddetta, come quasi tutto ciò che riguarda questo libro e questo film, le cui narrazioni consistono in una profonda, affascinante ambiguità. Ciò è vero, naturalmente, a partire dalla presunta veridicità degli 34 Elizabeth Jolley, The «No Theory» Theory, in http://www.bookmice.net/darkchilde/rock/picnictc.html: «The actions and reactions, and the subsequent behaviour of all those who did not disappear».
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eventi raccontati. Sfogliando un qualsiasi repertorio cinematografico italiano o leggendo il risvolto di copertina della peraltro ottima edizione Sellerio, si può infatti constatare come le vicende narrate dall’opera cinematografica e dal romanzo siano presentate quali rielaborazioni di fatti realmente avvenuti, facendo così assurgere queste opere al ruolo di faction, cioè di fiction fondata su true facts. Ora, per quanto non siano da escludere casi di sparizione nei pressi di Hanging Rock – una roccia vulcanica situata nei pressi di Mount Macedon, nello stato del Victoria –, la vicenda che riguarda le giovani fanciulle sperdute è frutto esclusivo della fantasia di Joan Lindsay, l’autrice del romanzo apparso nel 1967 per i tipi della Cheshire Books, e appartiene quindi alla leggenda e non alla cronaca australiana. Il romanzo stesso sarebbe stato meno ambiguo, al riguardo, se fosse stato pubblicato nella sua forma originaria, che prevedeva lo svelamento delle ragioni della scomparsa con l’improbabile ingresso delle fanciulle in un crepaccio, capace di proiettarle in un tunnel spazio-temporale. Il team editoriale, composto da John Hooker e Sandra Forbes, valutò tuttavia che il romanzo avrebbe tratto giovamento accentuando l’aura di mistero anziché dissolvendola dietro una spiegazione metafisica. Il capitolo «segreto» fu poi pubblicato vent’anni dopo e presentato il giorno di San Valentino del 1987 presso un edificio scolastico nei pressi di Mount Macedon, considerato il modello originale per l’Appleyard College del romanzo. Questa sezione contava dodici pagine in tutto, ma, grazie a un’introduzione di John Taylor e una postfazione di Yvonne Rousseau, la pubblicazione era stata estesa fino a raggiungere le 64 pagine che avevano per titolo The Secret of Hanging Rock, ed erano vendute in una busta sigillata. L’opera suscitò comunque i più svariati tentativi d’interpretazione: dal rapimento all’assassinio, dai risvolti psicoanalitici a quelli antropologici, e ci fu anche chi dedicò un intero volume a suffragare le possibili ipotesi35. A creare ancor più confusione in una vicenda editoriale già sufficientemente oscura, contribuì certamente l’opera cinematografica che Peter Weir, regista poi destinato ad allori hollywoodiani, trasse nel 1975 dal romanzo, confezionando un capolavoro senza precedenti di rilievo. Per quanto la cinematografia australiana potesse infatti vantare uno dei primi lungometraggi mai prodotti, essa aveva poi 35
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Cfr. Yvonne Rousseau, The Murders at Hanging Rock, Sun Books, Melbourne
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lungamente faticato nel dopoguerra a trovare una propria identità. Non esisteva una scena industriale in grado di produrre una realtà artistica solida e coerente e anche quando, alla fine degli anni ’60, si provvide a rendere disponibili fondi per giovani cineasti, le realizzazioni tardarono a conquistare una propria dignità e uno spessore artistico di rilievo, tanto che si può dire che il film di Weir emerse, almeno agli occhi degli affascinati spettatori di Cannes nel 1976, praticamente dal nulla. Se quest’opera metteva al centro del proprio interesse una misteriosa sparizione, il film in sé costituiva una vera e propria epifania, sebbene altrettanto misteriosa. Come ha giustamente osservato un’altra regista australiana, Gillian Armstrong, «Quando Peter Weir fece Picnic at Hanging Rock fu la prima volta in cui la gente poté dire: “Mio Dio, c’è un film australiano e noi non ne siamo imbarazzati”»36. Con questo film si dà convenzionalmente inizio a una corrente cinematografica definita come AFC Genre, dove l’acronimo sta per Australian Film Commission, l’ente governativo preposto a finanziare queste opere, un «genere» caratterizzato da un alto tasso di «letterarietà», prendendo per la maggior parte spunto da opere ambientate o scritte tra Età vittoriana ed edoardiana, da una certa propensione al calligrafismo e dall’intento di indagare e ricostruire l’epoca, fondamentale per l’identità nazionale, compresa tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. A partire dal 1975, in seguito a uno dei frangenti più tormentati della sua breve storia, seguito al dismissal dell’esecutivo Whitlam, l’Australia aveva evidentemente bisogno di rielaborare il suo passato per affrontare un presente incerto e un futuro minaccioso. In realtà è stato spesso fatto osservare come l’opera di Weir avesse assai poco in comune con successive pellicole quali The Getting of Wisdom, My Brilliant Career o The Chant of Jimmie Blacksmith37, perché, per quanto la ricostruzione degli ambienti e dello spirito di un’epoca fosse in esso assai accurata, l’intento principale di questo film non era certo quello di offrire un ritratto in costume di un’epoca passata38. 36 In Gabi Wood, My Brilliant Career Down-under in Film and Feminism, «New Statesman», 27 March 1998: «Peter Weir made Picnic at Hanging Rock which I think was the first time people said “My God, there’s an Australian film and we’re not embarrassed”». 37 The Getting of Wisdom (AUS, 1978) di Bruce Beresford; My Brilliant Career (AUS, 1979) di Gillian Armstrong e The Chant of Jimmie Blacksmith (AUS, 1978) di Fred Schepisi. 38 Cfr. Graeme Turner, Art Directing History: The Period Film, in The Australian Screen, edited by Albert Moran and Tom O’Regan, Penguin Books, Ringwood 1989, pp. 104-106.
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È però suggestivo notare come un’ulteriore etichetta assegnata a questa fase della locale cinematografia fosse quella di Australian Renaissance, perché, per quanto l’accenno al Rinascimento sia in questo caso del tutto incidentale, esso risulta invece assai pregnante nei confronti del film di Weir e del romanzo della Lindsay, i quali possono essere interpretati con un approccio neoplatonico, di riappropriazione della natura, quasi come opere del Rinascimento fiorentino. Se però, nel romanzo, Miranda – la diciassettenne fanciulla attorno alla quale ruota tutta la vicenda, per quanto ella esca di scena assai presto insieme alle sue compagne – viene paragonata genericamente a un «un angelo del Botticelli uscito dagli Uffizi»39, nel film si insiste di più sul parallelo con la figura di Venere. Infatti, mentre nell’opera della Lindsay il paragone di Miranda con un’opera d’arte è in qualche modo gratuito, nel film è indotto dalla lettura dell’insegnante di francese di un volume dedicato all’arte italiana le cui pagine, sfogliate dal vento, ci mostrano l’immagine della dea pagana e non quella di una presenza spirituale cristiana. Ma Jonathan Rayner, nel suo studio sul cinema di Weir, sottolinea «l’indivisibilità dell’amor sacro e profano, della dea pagana dell’amore con la Madonna»40 tipica di quest’opera. Quello che si innesca tra mitologia pagana e dimensione cristiana in Picnic at Hanging Rock non è in realtà uno scontro insanabile, ma un tentativo di mediazione, rendendo assai diverso, in questo, il romanzo di Joan Lindsay dall’opera pittorica, che pure deve aver esercitato un certo influsso su di lei, dell’illustre cognato Norman Lindsay, artista sensuale, esaltatore delle virtù paniche nonché fiero spregiatore di quelle cristiane. Come scrive Francesco Cattani, questa scrittrice intendeva invece «conciliare il presente australiano con il passato europeo»41, cercando un modo nuovo di guardare a un mondo nuovo, a quel «brave new world» a cui già un’altra Miranda, quella della Tempest shakespeariana, aveva fatto riferimento. Ecco che, ancora una volta, riaffiora un concetto eminentemente rinascimentale come quello di una renovatio 39
Joan Lindsay, Picnic at Hanging Rock, Longman, Harlow 1991, p. 19: «Botticelli angel from the Uffizi»; tr. it. M. V. Malvano, Picnic a Hanging Rock, Sellerio, Palermo 1993, p. 31. 40 Jonathan Rayner, The Films of Peter Weir, Continuum, New York-London 2003, p. 72: «[…] indivisibility of sacred and secular love, [of] the pagan goddess of love and the Madonna». 41 Francesco Cattani, Picnic at Hanging Rock. Un mito australiano, Università degli Studi di Bologna, tesi non pubblicata discussa nella I sessione dell’anno accademico 2002-2003, p. 66.
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mundi che non doveva però implicare un tabula rasa di ciò che l’aveva preceduta, ma una possibile conciliazione di mondi opposti. In effetti è quanto mai singolare constatare come, analizzando l’opera che più di ogni altra ha contribuito a creare uno spazio per l’Australia nell’immaginario collettivo occidentale, ci si imbatta assai spesso in possibili rimandi alla cultura europea. Oltreché Botticelli, infatti, il movimento figurativo che aveva ispirato la scrittrice nell’immaginare le sue protagoniste e guidato il regista nella scelta delle attrici, è il Preraffaellismo vittoriano. Intervistato da Sue Mathews al riguardo, Weir ha affermato come quest’immaginario figurativo fosse stato decisivo per la realizzazione del film e come si rivelò necessario un lungo lavoro di casting per trovare «questo volto particolare, questa fanciulla dall’aspetto ottocentesco e preraffaellita»42. Anche se a questo è opportuno aggiungere come, a determinare le raffinatissime scelte stilistiche di Russell Boyd, il direttore della fotografia di Weir, avesse contribuito anche il fenomeno della Heidelberg School, un movimento pittorico che, sotto l’influsso dell’Impressionismo francese, si era prefisso lo scopo di catturare la luce peculiare del bush. Tra gli artisti che esercitarono un maggior influsso può senza dubbio essere annoverato Frederick McCubbin, autore di un trittico dedicato proprio al tema del lost child. D’altra parte l’opera di questo artista non poteva essere deliberatamente ignorata anche perché, oltre ad offrire una testimonianza importante su un tema comune, ne offriva una assai viva su un territorio comune. McCubbin, infatti, aveva vissuto l’ultima parte della sua esistenza in una dimora di campagna dal pretenzioso nome di Fontainebleau, posta poco lontano da Mt Macedon, esattamente nello stesso angolo di bush in cui si ergeva anche la rupe di Hanging Rock. Il trasferimento in un avamposto piuttosto isolato da parte di un pittore già affermato era il frutto di una scelta artistica. Secondo Ann Galbally, studiosa che a Frederick McCubbin ha dedicato un volume critico-biografico, il trasferimento di questo pittore era infatti dovuto al suo desiderio di entrare a più stretto contatto con la vita del bush, cercando di coglierlo attraverso occhi infantili, attraverso le sensazioni che esso poteva evocare in un’immaginazione fanciullesca43. 42 Sue Mathews, 35mm Dreams. Conversations with Five Directors About the Australian Film Revival, Penguin, Ringwood 1984, p. 94: «[…] We found this particular face, this Pre-Raphaelite, nineteenth-century look only in South Australia». 43 Cfr. Ann Galbally, Frederick McCubbin, Hutchinson, Melbourne 1981, p. 119.
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A testimoniare il prolungato interesse di McCubbin per il tema del bambino perduto è il lasso di tempo, compreso nell’arco di ventuno anni, in cui sono stati eseguiti i tre quadri ad esso dedicati. Il primo, e probabilmente il più famoso dei tre, Lost, conosciuto anche col titolo di The Lost Child, risale al 1886 e rappresenta una bambina sperduta in un ambiente in cui la sua figura minuta appare sproporzionata. È così vaga e indefinita da essere ridotta a una semplice macchia azzurrina nella gran massa informe delle tinte dorate che colorano la natura, gli alberi, l’erba alta e secca, in quello che sembra un pomeriggio caldo e pigro, indifferente al suo pianto. Un pianto che intuiamo solo perché un braccio è portato al volto per asciugarlo. L’ultimo dei tre, datato invece 1907, e anch’esso intitolato Lost, raffigura un fanciullo colto mentre cerca di rialzarsi dal sonno, o mentre al sonno sta infine cedendo. Anche qui la mano è portata al volto come a detergerne le lacrime o per dare sollievo, forse, ad occhi assopiti. Fra i due si inserisce Found, risalente al 1892, un quadro di terribile ambiguità che rappresenta il ritrovamento di una piccola bambina dispersa da parte di un cercatore barbuto, il quale, infine, la raccoglie fra le braccia, mentre è abbandonata al sonno. L’ambiguità nasce dal tipo di sonno di cui è preda la bambina in questione ché, se sia più o meno eterno, nessuno può dirlo. Ma vi è un’ulteriore ironia del destino nascosta in quest’opera, l’unica del trittico composto da McCubbin che ritragga un ritrovamento. Il quadro, infatti, è andato perduto. Quest’ambiguità appartiene anche e al libro della Lindsay e al film di Weir. O meglio, il lettore (e lo spettatore) è perfettamente conscio che solo di una delle ragazze, Irma, è stato possibile recuperare le tracce, mentre delle altre non si saprà mai più nulla. Eppure un’ambiguità di fondo rimane, e scaturisce da una domanda che, in sede critica, sarebbe più opportuno evitare di porsi; ovvero, Picnic at Hanging Rock finisce bene o male? O, per metterla in termini più accademici, quale valore attribuire alla scomparsa delle ragazze? Esse testimoniano la necessità della liberazione da un ordine morale considerato oppressivo e inadeguato – quello dell’Appleyard College, che risponde agli stretti vincoli della morale vittoriana – o ammoniscono sul rischio di cosa comporti abbandonare quella stessa morale, quei legami inscindibili con la propria «Englishness»? Il rapporto tra Inghilterra e Colonia è uno dei temi in sottotraccia più rilevanti in quest’opera, in cui i personaggi si dividono anche a seconda della maggiore o minor purezza del loro essere inglesi, o del loro essere, per usare la definizione del poeta A.D. Hope, second hand Europeans.
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È singolare come, in special modo nel film, entrambi i correlativi oggettivi di questi mondi, raffigurati come contrapposti e inconciliabili, ovvero la rupe e il College, siano caratterizzati da un’atmosfera gotica. Ciò è immediatamente riscontrabile fin dalla primissima sequenza del film in cui compare la roccia, avvolta in una nebbia caliginosa, di un primo mattino già splendente eppur velato dai vapori notturni, e poi, dopo una lenta sequenza, viene presentata l’anacronistica costruzione della scuola, circondata da un giardino così curato e così riconoscibilmente inglese da risultare stridente col paesaggio circostante. Rifacendosi agli elementi chiave della letteratura gotica, entrambi questi luoghi appaiono simili al ‘castello’ del romanzo nero, seppure in modo assai diverso. Uno infatti si manifesta in qualità di seducente malia, come un invito alla libertà e alla fuga, mentre l’altro è la prigione che custodisce queste jeunes filles en fleurs. La seduzione della roccia e del bush è soprattutto una seduzione sonora, che Weir orchestra tra un alternarsi di sapienti silenzi, di suoni naturali esasperati al punto da sembrare altamente innaturali e del musicista Gheorghe Zamfir, virtuoso del flauto di Pan, che accompagna la danza di morte condotta dalle fanciulle intorno alla rupe. Proprio questo strumento appartenente alla classicità, che di tanto in tanto riaffiora nel presente studio con un richiamo melodioso al punto da risultare inquietante, invita a considerare ancora una volta il legame di quest’opera, sia nella sua forma letteraria che cinematografica, con la mitologia greca. Non è difficile, infatti, stabilire un collegamento tra Marion e Miranda, le due fanciulle effettivamente destinate a non essere mai più ritrovate, e la figura di Persefone, la figlia di Demetra rapita nell’Ade e scomparsa nelle viscere della terra. Persefone, narra il mito, potrà rientrare nel mondo dei vivi solo al ritorno di ogni primavera e soggiornarvi solo in quel tempo, legando così il suo nome alla stagione della rinascita, secondo un’altra iconografia botticelliana. Persefone, nell’analisi che ne fa Kerényi in un suo celebre saggio, è l’immagine della «kore», della fanciulla per antonomasia. In lei si nasconde l’elemento della passività, la fase invernale dell’anno e della vita, la stagione del rapimento e del sopruso, necessaria perché la vita possa nuovamente germinare e dare frutto. In lei, spiega lo studioso ungherese, è rappresentata al meglio «l’idea greca della non-esistenza», assolutamente complementare e necessaria all’esistenza stessa44. 44 Cfr. Kerényi, Kore, in Jung e Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia cit., p. 177.
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Per il lettore italiano questo vincolo suggerisce un ulteriore possibile rimando, quello coi Dialoghi con Leucò, opera del 1947 di Cesare Pavese, e in special modo con il colloquio dedicato alla morte di Coronide, uccisa in un rogo per aver consumato un rapporto animalesco. Il dio Ermete viene incaricato di consegnare il figlio della donna, quell’Asclepio destinato a divenire sommo maestro nella medicina, al centauro Chirone, ambiguo ibrido di pedagogo e bruto, per metà uomo e per metà cavallo, e i due discutono del legame profondo che un tempo legava gli esseri umani alla condizione ferina, al loro passato di esseri indistinti dagli elementi. «A quel tempo» afferma il centauro «la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dèi. La montagna e il cavallo la pianta la nube e il torrente – tutti eravamo sotto il sole. Chi poteva morire a quel tempo? Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?» Spetta ad Ermete, la divinità più ambigua dell’Olimpo, avvicinarsi alla comprensione di questo mistero femminile di vita e di morte, d’innalzamento spirituale e abbrutimento animalesco, un mistero che presiede alla rivelazione ultima e al nirvana di ogni individualità: «Ora so perché è morta, lei che se ne andò alle pendici del monte e fu donna e amò il Dio col suo amore»45. Ermete non rivela solo il segreto della morte di Coronide, ma sembra anche indicare la via per comprendere quello di Miranda: il duplice riferimento alla montagna, nelle sue parole e in quelle di Chirone, ne fa fede. Il mistero delle fanciulle di Hanging Rock è un mistero doloroso e gaudioso insieme, è un mistero di morte e di vita, di morte necessaria affinché una nuova vita possa compiersi e non è un caso se la narrazione ha inizio il 14 febbraio, nel giorno di San Valentino, martire protettore degli amanti. La risonanza di temi e modi tipici della cultura europea quando non addirittura della cultura classica spinge però anche a meditare su una possibile accusa di epigonismo nei confronti di queste opere. Una risposta potrebbe essere tentata affermando che è caratteristico delle realtà postcoloniali rifarsi a elementi tipici della cultura del colonizzatore per sovvertirne e scardinarne il significato ultimo. Quello che sembra un discorso quasi derivativo, si rivela una sovversione del discorso europeo, che è anche un discorso coloniale. E la figura del fanciullo selvaggio e delle ragazze di Hanging Rock, la cui scomparsa implica il rifiuto di una civiltà, sono probabilmente tra le immagini più efficaci 45 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1998, pp. 28-29. [In entrambi i casi il corsivo è mio].
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per esprimere il postcoloniale come mimesi e alterità, assorbimento e trasformazione46. Il senso di profondo straniamento e potente inquietudine, che è valso a questo regista l’ammirazione di Stephen King, aveva invece suscitato qualche perplessità in Joan Lindsay. L’autrice del romanzo obiettava al fatto che il film tratto dalla sua opera fosse presentato come «a recollection of evil» aggiungendo: «Penso che in questo libro ci siano tanto il bene quanto il male. […] E penso che, oltre ai suoi aspetti più sinistri, esso contenga una manifestazione di amore e umanità»47. L’ambiguità del destino delle fanciulle di Hanging Rock si rivela così essere, oltreché profondamente umana, anche profondamente australiana. Il significato più profondo della loro scomparsa, il fatto che essa consista in una rivelazione o, invece, in una dannazione, riguarda da vicino l’identità di quest’isola-continente e solo Miranda, che si dilegua agli occhi del mondo per abbracciare questo brave new world, potrà constatare se esso sia un paradiso o un inferno. Simile all’Esterina montaliana, che si inabissa nei flutti del mare, anche Miranda lascia ammirati o atterriti i suoi spettatori, appartenenti alla razza «di chi rimane a terra». Hanging Rock non è la sola roccia a cui sia associata una sparizione nella realtà australiana. Infatti uno dei più discussi casi di cronaca di tutto il XX secolo riguardanti questo paese concerne la misteriosa scomparsa di una bambina, Azaria Chamberlain, che al momento della sua morte aveva da poco compiuto il secondo mese di vita. La sua famiglia, composta dai genitori Lindy e Michael Chamberlain e dai due fratelli maggiori, Aidan e Reagan, si era recata in vacanza presso un campeggio vicino al più grande monolite del mondo, Ayers Rock/Uluru, il cuore rosso dell’Australia stessa. Nella notte del 17 agosto 1980 avvenne il fatto che avrebbe alimentato molte discussioni pubbliche del successivo decennio. La bambina non fu più rinvenuta nella tenda in cui stava dormendo e in cui gli altri componenti della famiglia l’avevano lasciata per andare a cenare. Lindy Chamberlain, la madre, assicurò di aver visto un dingo scappare furtivamente dalla tenda, accusando l’animale di averle sottratto la bambina. Ma sia lei che suo marito acqui46 Cfr. Bill Ashcroft, Primitive and Wingless. The Colonial Subject as Child, in Id., On Post-Colonial Futures. Transformation of Colonial Culture, Continuum, London-New York 2001, p. 53. 47 Stephen Downes, Rock Keeps Its Secret, «The Age», 22 March 1977: «I think there is as much good as evil in that book […] I think it’s a demonstration in many ways of love and humanity alongside its very sinister aspects».
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sirono ben presto il ruolo di carnefici, e non più di semplici vittime di una tragedia familiare. Ciò che aveva spinto l’opinione pubblica a considerarli come sospetti era stato il loro modo, considerato troppo freddo e distaccato, di vivere il lutto, nonché la loro appartenenza alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno. La forte religiosità della coppia, e l’affiliazione a una Chiesa considerata «minore» in un paese profondamente laico qual è l’Australia, aveva indotto a sospettare di eventuali riti sacrificali, di oscure pratiche settarie e misteriche in cui la bambina avrebbe interpretato il ruolo di capro espiatorio. Il processo definitivo, dopo una serie piuttosto contraddittoria di giudizi d’innocenza e di nuove indagini della polizia indicanti ancora come sospetti i due genitori, ebbe inizio a Darwin nel settembre del 1982, e si concluse il 29 ottobre dello stesso anno con un giudizio di colpevolezza che condannava la donna, per altro rimasta nuovamente incinta, alla detenzione a vita. Ciò che più aveva indisposto non solo l’opinione pubblica australiana, ma evidentemente anche i membri della giuria, era stato l’atteggiamento duro e cinico di Lindy Chamberlain, il cui comportamento ambiguo era considerato poco materno. Ma forse ciò che la compromise, come osserva acutamente Pierce, fu la sua inclinazione a «parlare troppo». L’ostinazione nel fornire sempre nuove versioni dei fatti in cui si mescolava ciò che aveva effettivamente visto e vissuto a ciò che aveva immaginato, nel tentativo di conferire coerenza a una storia che alla coerenza si negava, la screditò agli occhi di chi la doveva giudicare, evocando in loro un’immagine assai simile a quella di Maggie Head, la protagonista distrutta dal dolore del racconto di Lawson The Babies in the Bush48. Questo personaggio è ben incarnato da Meryl Streep, l’attrice americana che avrebbe vinto la Palma d’Oro a Cannes grazie alla sua interpretazione per il film di Schepisi, Evil Angels/A Cry in the Dark (AUS/USA, 1988), ispirato al libro omonimo che John Bryson trasse dalla vicenda dei Chamberlain. Qui il centro dell’interesse non risiede nella sparizione della bambina, che si cerca, anzi, di rappresentare come la meno misteriosa possibile, tanto che lo spettatore, alla fine della visione, è convinto della «colpevolezza» del dingo, ma nelle reazioni dell’opinione pubblica, nei rapidissimi cambiamenti impressi da dettagli anche minimi, e per lo più insignificanti e superficiali, in una società modellata, o deformata, dai mezzi di comunicazione. 48
Cfr. Pierce, The Country of Lost Children cit., p. 176.
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Anche se Schepisi appare più interessato a offrire un impietoso ritratto di certa provincia, resta tuttavia assai significativo che una simile massa di reazioni sia stata provocata, ancora una volta, dalla sparizione di una creatura innocente, dimostrando che, se questo è un mito nato nell’Australia ottocentesca, ciò non significa che esso non sia più in grado di turbare la coscienza nazionale: al contrario la vicenda processuale riguardante la piccola Azaria Chamberlain e sua madre resta una delle più importanti del XX secolo australiano. È affascinante, tuttavia, vedere come sia profondamente cambiato il modo di reagire a questo tipo di vicende. Sia nel film di Schepisi che nell’opera di Bryson, definita da Pierce come il più alto esempio di New Journalism tentato in Australia, viene messo in evidenza come la maggior parte delle proteste nascesse non solo dalla scarsa simpatia suscitata dalla madre della bambina scomparsa, ma anche dalla simpatia paradossalmente accordata al fantomatico dingo. Questo animale è sempre stato considerato una calamità dagli australiani, tanto da rendere necessarie sterminate recinzioni che attraversavano l’intero paese allo scopo di proteggere gli allevamenti dalle sue attenzioni nefaste. Ma anch’esso ha indubbiamente beneficiato del nuovo spirito ambientalista caratteristico dell’Australia di questi ultimi decenni dove il bush e il deserto stesso, l’ambiente naturale, insomma, di cui il simbolo principe è proprio il monolite di Ayers Rock alle pendici del quale la piccola Azaria scomparve, è investito di un ruolo positivo, di una carica identitaria impensabile per il XIX secolo. A quel tempo la natura australiana assisteva, indifferente più che maligna, alla scomparsa dei primi figli della nazione. Oggi la fiaba triste del lost child, se non è stata dimenticata dalla coscienza australiana, ha tuttavia mutato radicalmente il suo significato. Ad essere imputata non è più la natura, ma il genitore, l’adulto. La sorprendente sentenza promulgata a Darwin nell’ottobre del 1982 non implicava soltanto la condanna a vita – ed è raccapricciante notare come essa riecheggiasse quella riservata ai convict del secolo precedente: «for the term of her natural life» – ma comportava anche l’assoluzione del bush australiano. La scarcerazione della donna, avvenuta dopo quasi quattro anni di prigionia, avvenne per motivi non meno aleatori della sua condanna. Il 2 febbraio del 1986 fu rinvenuto nei pressi di Ayers Rock il coprifasce che la donna aveva sempre affermato essere stato indossato dalla bambina e sul quale avrebbero potuto concentrarsi le tracce di saliva del dingo del tutto assenti dal resto degli abitini della piccola Azaria trovati nel deserto nei giorni seguenti alla sua sparizione assai misteriosa-
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mente ripiegati in perfetto ordine. A distanza di sei anni dall’accaduto non era più possibile identificare le tracce del dingo, ma il recupero di questo indumento, la cui esistenza era stata messa in discussione dall’accusa, sembrava accertare che la donna aveva affermato la verità49. L’ultimo dei film a cui faremo riferimento è Lantana (AUS, 2001), di Ray Lawrence, probabilmente la miglior opera cinematografica australiana da dieci anni a questa parte, spesso paragonata a Magnolia, di Paul Thomas Anderson. Ma per quanto questi film si avvalgano entrambi di una narrazione polifonica a storie intrecciate e di una medesima atmosfera d’inquieta disperazione, e per quanto entrambi si rifacciano, nel titolo, al nome di una pianta, la prima sequenza del film australiano, nonché uno dei suoi temi essenziali – le conseguenze innescate dalla sparizione di una persona –, pare invece rimandare all’opera di Peter Weir e, più in generale, a tutta la tradizione australiana dei lost children. Nella prima sequenza la cinepresa si addentra in un cespuglio fiorito che nasconde un groviglio di spine e, tra le spine, un corpo femminile lacero e inerte. Non riusciamo a coglierne il volto e solo una comparazione ravvicinata con Picnic at Hanging Rock può suggerire un legame, quasi un’incongrua prosecuzione, come se il corpo a cui ci troviamo di fronte fosse infine quello di Marion o di Miranda. Tuttavia, se il film di Weir poteva essere più o meno equamente diviso tra la contemplazione di un mistero e l’analisi dell’isteria collettiva, delle reazioni pubbliche da questo mistero suscitate; qui pare invece che il segreto non risieda tanto nella scomparsa di quel corpo, che infatti sarà alla fine ritrovato rivelando una vicenda tanto banale da essere agghiacciante, ma nel dolore profondissimo che accomuna tutti gli altri personaggi. La scomparsa della donna, in realtà, non ne è la vera causa, pare dirci Lawrence, perché essa serve a malapena a dare un volto e una forma, per quanto sfuggenti, a questo stesso dolore. Valerie, la psicanalista che nel film sparisce per breve tempo, il filo rosso che tiene uniti i destini di cinque diversi gruppi familiari, aveva a 49 La vicenda dei Chamberlain, già di per sé complessa e intricata, si è recentemente arricchita di un finale non meno drammatico e grottesco del suo inizio. Alla polizia di Alice Springs si è infatti presentata una ragazza, la cui età coinciderebbe con quella della bambina scomparsa, affermando di essere Azaria e di aver ricevuto in sogno la rivelazione della propria vera identità. Sarebbero stati degli aborigeni a salvarla, per affidarla poi a una famiglia bianca con la quale è vissuta fino al giorno della sua scoperta. La notizia, com’è facile capire, resta tutta da verificare. (Cfr. Carla Reschia, Si riapre il giallo di Ayers Rock, in «La Stampa», 27 agosto 2005).
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sua volta sofferto, insieme al marito John, la dolorosa scomparsa della figlia Eleanor, una bambina di undici anni, scoperta poi cadavere in un sobborgo di Sydney. John, il marito di Valerie, interpretato con dolore sommesso da Geoffrey Rush, sosterrà di essere andato proprio sul luogo del delitto portando dei fiori, come era solito fare di tanto in tanto, di nascosto dalla moglie, la sera in cui lei gli aveva telefonato chiedendogli aiuto, dopo essersi persa in seguito a un banale incidente. Ma, ancora una volta come nell’archetipico racconto di Lawson, il marito ha qualcosa da nascondere. John era invece in casa e semplicemente non aveva risposto al telefono, limitandosi ad ascoltare la richiesta d’aiuto dalla segreteria telefonica, oppresso da un rapporto coniugale in cui l’unico legame rimasto era il dolore. È stupefacente considerare come, per narrare assai efficacemente l’Australia contemporanea, questo regista e il suo sceneggiatore, Andrew Bovell, autore anche di Speaking in Tongues (1996), l’opera teatrale da cui sarebbe poi nato il film, si servano ancora della scomparsa di un personaggio, ma la scomparsa, la latitanza è qualcosa che non accomuna solo tutte queste storie, investendo direttamente l’Australia stessa. Da un punto di vista tutto occidentale questa irrequieta isola-continente appare e scompare dall’orizzonte culturale quasi debba essere sempre riscoperta, come se il resto del mondo si dimenticasse ciclicamente della sua esistenza. Per lungo tempo una delle più peculiari ossessioni australiane è stata proprio quella della propria invisibilità, della propria lontananza da quel mondo a cui si sentiva culturalmente più vicina. Ma ancor oggi, nel momento in cui questo paese ha cessato, forse per sempre, di essere un luogo marginale e periferico per diventare un polo d’attrazione culturale, politico e turistico, Lantana dimostra come gli elementi di quella lontana inquietudine siano ancora ben vivi. Basta prendere una scorciatoia poco frequentata in una notte di pioggia, cercare rifugio da una presunta minaccia in un luogo buio e alberato, per sprofondare, per essere inghiottiti, per scomparire ancora una volta.
Capitolo quarto L’ombra a quattro zampe
Last scene of all, That ends this strange eventful history, Is second childishness and mere oblivion, Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything1. William Shakespeare, As You Like It, II, 7
Gli elementi che accomunano l’opera di Rudyard Kipling a quella dell’autore australiano David Malouf sono così numerosi che si resta sorpresi constatando quanto pochi siano gli studi dedicati a un possibile parallelo fra questi due scrittori. Nei brevi articoli che ne parlano si accenna a volte a un comune utilizzo della figura del ragazzo selvaggio, ma senza mai rivolgere a questa prossimità l’attenzione che veramente merita. In realtà, il riferimento a questa figura archetipica produce in Kipling e Malouf temi dissonanti e conclusioni opposte, ma non potrebbe esserci altro tipo di relazione tra un autore che grandeggia nella temperie coloniale ed uno che, invece, appartiene a un mondo e a un tempo che a quel periodo, idealmente, si oppongono. David Malouf, considerato, insieme a Peter Carey, il più importante scrittore d’Australia, è originario di una delle sue realtà più periferiche, Brisbane, capitale federale del Queensland, città in qualche modo antitetica al cuore culturale della nazione che pulsa tra la sistole di Sydney e la diastole di Melbourne. Se questo paese è stato per lungo tempo un luogo esiliato da tutto e da tutti, Brisbane e il Queensland costitui1 «L’ultima scena, infine,/ a conclusione di questa varia strana storia/ è una seconda infanzia, puro oblio,/ senza denti occhi, gusto, senza niente», W. Shakespeare, Come vi piace, tr. it. A. Calenda e A. Mediani, in Le commedie romantiche, Mondadori, Milano 1982, p. 164.
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vano un’Australia nell’Australia, e Malouf può essere collocato su un cerchio concentrico ancora più esterno in quanto figlio di madre inglese, ma di famiglia ebreo-sefardita, e di padre libanese, e quindi non appartenente all’egemone mondo anglo-celtico. Sul comune sentimento di esilio e marginalità che caratterizzava e che forse, seppur in modo più attenuato, caratterizza ancor oggi gli australiani, Malouf si è espresso in questi termini: Nel guardare alla nostra collocazione geografica noi ci siamo sempre considerati da un altro punto di vista, ci siamo sempre visti come gli abitanti di un remoto angolo situato in fondo a destra rispetto al resto del mondo, quasi fossimo a un estremo limite da cui, da un momento all’altro, avremmo potuto scivolare fuori dal pianeta e, vista la situazione in cui ci trovavamo, nonché la legge di gravità, non potessimo essere altro che i passivi fruitori di ciò che altri lasciavano cadere dall’alto2.
Nato nel 1934 e laureatosi presso la University of Queensland, egli ha poi vissuto in Europa nel decennio compreso tra il 1959 e il 1968 entrando nel novero degli ‘Australians Abroad’, gli intellettuali che consideravano indispensabile trasferirsi nel Vecchio Continente per tentare una carriera di prestigio e un proficuo arricchimento culturale. Una volta fatto ritorno in patria ha insegnato letteratura inglese presso la University of Sydney fino al 1977, anno in cui divenne scrittore a tempo pieno. La sua carriera descrive una parabola piuttosto inconsueta; infatti, per quanto nel mondo delle letterature di lingua inglese sia più diffusa una certa versatilità tra narrativa e poesia rispetto a quanto avviene nella realtà italiana, è comunque insolito che chi, come Malouf, nasce poeta abbandoni la sua musa in favore del romanzo. È altresì vero però che, per cercare le più corrette genealogie delle opere più mature di questo autore, si rivela spesso necessario, nonché assai fruttuoso da un punto di vista ermeneutico, risalire alle sue prime raccolte poetiche. In un’intervista concessa a Jim Davidson nel 1980, Malouf sottolineava come, per comprendere la genesi del romanzo An Imaginary Life, che lui stesso definisce qui un «watershed», uno spartiacque nella sua evoluzione di scrittore, fosse necessario rifarsi a una delle prime 2 David Malouf, Putting Ourselves on the Map, «Saturday Age Extra», 23 January 1988: «In looking at where we stand we have always taken our stance elsewhere, seen ourselves as being at the bottom right-hand corner of things – on the edge, where at any moment we might fly off the globe – at the bottom where, given the laws of gravity, we can only be the passive receivers of what others let fall».
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poesie che egli avesse mai scritto, Wolf Boy, contenuta nella sua raccolta d’esordio, Bicylce and Other Poems del 1970. Nella mia produzione c’è una poesia che è una delle prime che io abbia mai scritto, per quanto si trovi all’incirca a metà di Bicycle. Per certi aspetti è anche una poesia abbastanza imbarazzante. Ma già all’epoca riguardava una figura di questo tipo, uno che è stato portato al di fuori della condizione umana per poi tornare ad essa3.
In quest’intervista l’autore australiano sottolineava però come l’idea alla base di quello che è il suo secondo romanzo si nascondesse nella privazione del linguaggio da parte di un poeta, di un artista il cui scopo nella vita risiede nel linguaggio stesso. Forse perché nato e cresciuto in una nazione a lungo considerata periferica e in una delle sue città più isolate e poi confinatosi per lungo tempo in un volontario esilio in Toscana, David Malouf deve aver sentito una profonda affinità con la vicenda del poeta latino Ovidio, che incorre nelle ire di Augusto per motivi mai precisati e viene scacciato all’estrema soglia dell’Impero in quel di Tomi, oggi Costanza, in Romania, al punto da volerlo rendere il protagonista di An Imaginary Life. Egli incarnava perfettamente la figura del poeta esiliato non solo dal suo luogo d’origine, ma soprattutto dalla sua lingua d’espressione, tanto da privarlo del senso più vero della sua vita, quello di scrivere e comunicare poesia. Solo in un secondo momento anche la figura del ragazzo selvaggio era entrata in gioco come ideale contrapposizione. Il feral child, infatti, è colui che, seppur umano, resta del tutto privo non solo del linguaggio, ma della valenza simbolica insita in esso. Se il poeta, e in special modo Ovidio, a cui immediatamente si associa l’idea di metamorfosi, è colui che riesce a trasfigurare il mondo e le cose attraverso le sue parole, manipolandole e padroneggiandole al punto da stravolgerne la natura, il ragazzo selvaggio è colui che non è in grado di cogliere il distacco fra sé e il creato, di percepire quella frattura originaria senza la quale il linguaggio non sarebbe possibile. Resta tuttavia affascinante constatare come la tematica del feral child fosse presente in Malouf fin dai 3 Jim Davidson, David Malouf. Interview, «Meanjin», 39/3, Spring 1980, p. 331: «I have a poem which is really one of the very earliest poems I ever wrote, though it gets into the middle of Bicycle. In some ways it’s quite an awkward poem. But it was already concerned with that kind of figure, one who has been brought up outside the human world and then comes to it».
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suoi esordi di poeta, tanto che ci pare indispensabile sottoporre questo componimento, Wolf Boy, ad una breve analisi, convinti che in esso si nascondano elementi preziosi per decifrare anche il significato del percorso successivo di questo scrittore. Per una maggiore chiarezza espositiva riteniamo opportuno offrire il testo originale della poesia con una traduzione a fronte. Wolf Boy Cradled and warm, fur-warm, in the she-wolf’s lair: sky howling grey, the sweet milk of the planets to suck; wolf-brothers tumbling, playful nip of tooth and claw; on all fours going safe in the she-wolf’s tracks and closer to the earth. How could he guess that days of separation would come, when he on two feet must stand taller and naked in the air? Feeling the itch of warm fur at his groin, in his mouth raw words to hurl at the grey bitch sky that turned from him. Sweating before an iron trap whose hinges snap at a foreleg, kneeling to sniff blood that streaks wet meadow-grass. Pricking an ear in his attic bed for lean wolf-packs that prowl the forest edge, their low growls in his throat. The boots, the books, the chairs! A firelit trestle where cream goes round, frothing in wooden cups. The girls’ bare arms disturb him. Wolf-skulls nailed to planks and wolf-skins underfoot. The searing blue of their entrails in the gun-shot blast. Sulking and blond. Ashamed of his footsteps printing the snow, of water jerked from a pump that stings like nettles on the chest, soft stroke of hands in a game of blind-man’s buff. Ashamed to suffer the strange goosepimpling of his hairless flesh. At night past the last hut slouching, barred helm-tower with its slew black cross, a neighbour’s grim face clenched on its own, its human grief. Caught in the red
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-eyed blaze of the wolf’s slow agony, its shadow on all fours, shaggy, limping at his heel. Ragazzo lupo Cullato e caldo, caldo di pelliccia, nella tana della lupa: il cielo un ululato grigio, il dolce latte dei pianeti da succhiare; i lupacchiotti ruzzano, il graffio giocoso di zanne ed artigli; a quattro zampe seguono sicuri le orme della lupa, più vicini alla terra. Come poteva lui sapere che i giorni dell’addio sarebbero venuti, quando su due piedi doveva stare eretto e nudo all’aria? Sentendo il prurito del pelo caldo all’ inguine, nella bocca crude parole da scagliare alla grigia lupa del cielo che l’aveva abbandonato. Sudando in una trappola di ferro la cui morsa gli addenta una zampa, in ginocchio per annusare rivoli di sangue nell’erba. Tendendo un orecchio nel suo letto in soffitta per udire sparuti branchi di lupi aggirarsi ai limiti della foresta, il loro ringhio sommesso nella sua gola. I libri, le sedie, le scarpe! Una pentola sul focolare per la minestra versata schiumante in tazze di legno. Le braccia nude delle ragazze lo turbano. Crani di lupo inchiodati alle pareti e pelli di lupo ai suoi piedi. Il blu rinsecchito delle loro viscere per l’esplosione del colpo. Imbronciato e biondo. Si vergogna delle orme impresse nella neve, dell’acqua attinta a una pompa che lo punge come al petto l’ortica, lievi tocchi di mano in un gioco di moscacieca. Si vergogna di provare la strana pelle d’oca della sua carne senza pelo. Di notte, vagando oltre l’ultimo rifugio – una torre dalla chiusura a sbarra con una nera croce girevole –, la torva faccia del vicino stretta alla sua, si piega sul suo umano dolore. Visibile, nel rosso scintillio degli occhi, un lupo in lenta agonia, la sua ombra a quattro zampe, arruffato, zoppica ai suoi piedi4. 4 David Malouf, Bicycle and Other Poems, Q.U. Press, St. Lucia 1970, p. 31. Per la traduzione di questa poesia desidero ringraziare Massimiliano Morini, prestatosi a un’amichevole consulenza.
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Anche quella narrata in Wolf Boy è una condizione d’esilio, sebbene l’esilio non sia quello che l’innominato fanciullo subisce per tutta la sua infanzia, trascorsa, come per Mowgli, in mezzo ai lupi, e che ci si lascia anzi intendere essere stata felice, protetta e addirittura «cradled», cullata. Ma è proprio quello vissuto una volta che, catturato, egli viene reintrodotto nella confraternita umana, un’umanità invocata solo per essere subito associata al «grief», al dolore che la sua condizione sempre comporta. In questo il ragazzo selvaggio di Malouf si rivela essere una figura intimamente associata con la classicità e con il mito. Egli nasconde il rimpianto di una perduta unità con il tutto che, come è già emerso nella nostra precedente analisi di Picnic at Hanging Rock, porta con sé un lascito tanto brutale e animalesco, quanto divino e superno. Wolf Boy si chiude con una geniale intuizione, un’immagine efficace e malinconica. L’ultima memoria che resta al ragazzo selvaggio dell’innocenza perduta è la sua ombra a forma di lupo, che si può scorgere nel buio per il suo sguardo rossastro. È un’ombra senza fierezza, è «shaggy», arruffata e sciatta, e nella sua mestizia si nasconde la stanca rassegnazione di chi è già un fantasma o di chi è presto destinato a diventarlo. È interessante notare come l’ambientazione di questa storia in versi sia riconoscibilmente europea e sicuramente non contemporanea. È questa una poesia la cui vicenda è collocata in secoli passati: il suo protagonista potrebbe essere un contemporaneo di Victor e si potrebbe quasi affermare – non fosse per la datazione fattane dall’autore, che la colloca all’inizio piuttosto che alla fine degli anni ’60 – come essa debba molto al film di Truffaut5. L’ambientazione europea può forse motivare in parte il triste esito di Wolf Boy perché, quando Malouf riprenderà in mano la vicenda di un ragazzo selvaggio associandola, seppur indirettamente, alla realtà australiana, egli sceglierà di rovesciarne il finale e di trasformare il suo nuovo feral child in un vincente, anziché in uno sconfitto, quasi a dimostrare che, in un nuovo mondo, questa storia possa essere scritta con un finale diverso. Alla sua apparizione nel 1978 An Imaginary Life venne salutato come un romanzo bizzarro e inusuale per essere il prodotto di un autore australiano. Ma già pochi mesi dopo l’uscita del libro il critico Phi5
L’enfant sauvage di François Truffaut risale infatti al 1969.
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lip Martin faceva notare che la storia scelta da Malouf poteva essere letta come una metafora della condizione australiana e, aggiungiamo noi, una potente metafora del poeta e dell’intellettuale in Australia6. Dieci anni dopo, un ragionevole tempo di sedimentazione, il critico Harry Heseltine rincarava la dose sostenendo che il parallelo poteva essere spinto più oltre, perché non solo la descrizione di una terra agli estremi del mondo conosciuto calzava perfettamente, ma che la seconda metà degli anni ’70 australiani – un periodo di moderata transizione, di controriforma illuminata seguito ad uno di riforme più sconvolgenti e radicali – trovavano una corrispondenza nell’epoca vissuta da Ovidio, il quale si era permesso di sabotare dall’interno i mores della restaurazione augustea con la sua condotta dissoluta e la sua arte di raffinata mollezza7. Malcolm Fraser, il primo ministro australiano dell’epoca, come un novello Augusto? Il paragone non è privo d’interesse, ma crediamo di poter affermare che quanto attraeva maggiormente Malouf fosse di dedicarsi ad una storia la cui natura avesse sia una portata simbolica per il suo paese, sia un valore poetico, in qualche modo archetipico ed eterno, e la vicenda di Ovidio si prestava assai bene a questo scopo. Irina G. Pana, una studiosa di origine rumena, osserva come il rapporto di centro-periferia che sussisteva tra Roma e la Dacia possa essere assimilato a quello che, per lungo tempo, aveva legato l’Australia alla Gran Bretagna: «L’Australia è un “supplemento” all’Inghilterra allo stesso modo in cui Tomi è un’appendice, una nota a piè di pagina, una glossa a Roma. È un’espressione di marginalità paradigmatica, vista come derivativa e inferiore rispetto ‘all’altrove’ e all’alterità del centro»8. E Malouf stesso aveva affermato che il suo paese d’origine poteva essere considerato come un’altra versione dell’Europa, una versione capace non solo di rivelare qualcosa di sé, ma anche qualcosa di nuovo sull’Europa stessa9. 6
Cfr. Philip Martin, Australia in Disguise?, «Overland», 74, 1979, pp. 59-60. Cfr. Harry Heseltine, An Imaginary Life. The Dimensions of Self, «Australian Literary Studies», 14/1, 1989, pp. 26-40. 8 Irina Grigorescu Pana, The Tomis Complex: Versions of Exile in Australian Literature, «World Literature Today», 67/3, Summer 1993, p. 524: «Australia is a “supplement” to England in the same way Tomis is an appendix, a footnote, a commentary on Rome, an expression of paradigmatic marginality seen as derivative, secondary, inferior to the “elsewhere” and the otherness of the centre». 9 Cfr. David Malouf, Interview by Jim Davidson, in Johnno, Short Stories, Poems, Essays and Interviews, ed. by J. Tulip, University of Queensland Press, St.Lucia 1990, p. 289. 7
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Lo stato di esilio vissuto dal poeta di Sulmona si adatta ad essere letto secondo le più diverse prospettive essendo non solo, quella dell’esilio e della marginalità, una condizione squisitamente australiana, ma una delle metafore più esplorate e raccontate per esprimere la condizione umana nel Novecento. Quando Ovidio scrive i Tristia e le Epistulae ex Ponto, le opere che ci raccontano l’amarezza del suo confino, egli si trova a sua volta nella condizione di raccontare un evento non del tutto nuovo e originale, perché la sua vicenda umana lo rende assai prossimo a un topos letterario che già a suo tempo aveva una lunga tradizione. Avvicinandosi alle ultime opere di Ovidio il lettore contemporaneo resta sorpreso non dalla descrizione di una condizione umana sorprendente, inusitata, atroce. Non è l’io di Ovidio, un concetto che dovrà pazientare ancora parecchi secoli prima di affacciarsi alla ribalta letteraria, a destare stupore, ma è invece l’uso di stilemi, di elementi tradizionali messi al servizio di un’esperienza del tutto personale, a suscitare una certa impressione. La disperazione di Ovidio ha bisogno di rinviare a Ulisse, a Enea, per poter essere compiutamente espressa. Egli è perfettamente consapevole di fare qualcosa di nuovo, di sovrapporre forse per la prima volta la voce del protagonista a quella dell’autore, ma la sua sensibilità di poeta ha bisogno di dare alla sua sventura una forma più vera del vero, quella della tradizione letteraria, in una operazione eminentemente metanarrativa. Tantoché il latinista A.D. Fitton Brown, convinto da alcune patenti imprecisioni, riprende vecchie ipotesi e giunge perfino a sostenere che Ovidio non sia mai stato in esilio e che la sua è una geniale invenzione letteraria. Per andare in Romania, infatti, sostiene il critico inglese, non si faceva il viaggio descritto dal poeta e a Costanza il clima non era molto diverso da quello romano, mentre Ovidio ci racconta solo di uno smisurato, uniforme inverno10. Ignoriamo se Malouf fosse a conoscenza delle ipotesi a cui si ispira questo classicista per elaborare la sua affascinante teoria. Quello che è certo è che anch’egli si inserisce in una consolidata tradizione letteraria, si impossessa di una delle sue vicende più significative e la riscrive. Le possibilità simboliche nascoste nella figura di Ovidio e nella sua esperienza di poeta esule, di uomo privato non solo dei suoi beni e dei suoi affetti, ma dello stesso linguaggio di cui è fatta la sua arte, lo hanno reso protagonista di altre narrazioni nel corso del XX secolo. Un seco10 Cfr. Anthony David Fitton Brown, The Unreality of Ovid’s Tomitian Exile, «Liverpool Classical Monthly», 10/2, 1985, pp. 18-22.
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lo in cui non solo le figure dell’esule e del migrante si sono conquistate una posizione preminente, almeno in letteratura, ma in cui anche la figura di Ovidio è stata oggetto di speciali attenzioni da parte di alcuni scrittori. Oltre alla riscrittura di Malouf se ne possono contare infatti almeno altre due. La prima, apparsa nel 1960, è quella ad opera del rumeno Vintila Horia che, nel suo Dieu est né en exil, immagina un Ovidio padre fondatore del paese balcanico, mentre l’altra risale a dieci anni dopo An Imaginary Life, per la firma di un autrore austriaco, Christoph Ransmayr, che nel suo Die Letzte Welt (1988) tesse una vicenda sospesa tra un passato remoto e un presente post-moderno in cui del poeta latino si sono perse le tracce11. In cosa si distingue, allora, il racconto ovidiano di Malouf rispetto all’originale? E in cosa si distingue rispetto alle altre riscritture novecentesche? E ancora, se quest’opera è ascrivibile al novero di quei romanzi postcoloniali che intendono rispondere ad una distorta rappresentazione coloniale, perché rifarsi a un racconto così lontano come quello di Ovidio fra tutti quelli possibili in tema di esilio? Pur senza avere l’ambizione di risolvere, di spiegare tutto di un romanzo tanto breve quanto denso, potremmo azzardare qualche risposta attraverso l’analisi dei quattro temi portanti di quest’opera: l’esilio, l’infanzia selvaggia, il linguaggio e la metamorfosi, anche se sono temi così strettamente, così abilmente intrecciati che solo a distinguerli, a prenderli in esame singolarmente, si rischia di snaturarne il significato. Il tema dell’esilio è certamente il più esplicito. Le prime pagine del romanzo, che seguono a una breve, importante introduzione, sono tutte divorate dall’angoscia che questo esilio comporta e, come i Tristia e le Epistulae ex Ponto, sono in forma di lettera, una lettera rivolta non ai suoi familiari o all’imperatore per supplicare un impossibile perdono, ma indirizzata al lettore contemporaneo. Hai mai sentito pronunciare il mio nome? Ovidio? Sono ancora famoso? Qualche riga della mia scrittura è sfuggita al bando dei miei libri da tutte le 11 Il romanzo di Vintila Horia, poi tradotto anche in italiano per le Edizioni del Borghese di Mario Tedeschi e Claudio Quarantotto col titolo Dio è nato in esilio, acquisì una certa notorietà all’epoca della sua uscita e si meritò un’affermazione nel prestigioso Premio Goncourt. Premio che però non venne mai conferito al suo autore, un profugo della Romania comunista, per l’accusa di essere stato membro della Garda de Fier, la Guardia di Ferro Rumena, un movimento cristiano irrazionalista e antisemita che ebbe contatti col Nazismo. Sull’opera di Ransmayr avremo modo di soffermarci brevemente in seguito.
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biblioteche e al loro pubblico rogo, con cui sono stato espulso dalla lingua latina? […] Sono sopravvissuto?12
Può sembrare una preoccupazione futile, ma in realtà il più cocente degli esili sofferto dal protagonista è proprio quello dal suo pubblico, la sua morte come poeta al cospetto della latinità. Ci siamo serviti del plurale, «esili», a ragion veduta perché, in realtà, attraverso la storia che ci narra l’Ovidio di Malouf, scopriamo che egli è stato sottoposto a più di un doloroso abbandono. Non vi è solo l’esilio da Roma, non si tratta solo di uno spostamento geografico, perché Malouf fa comprendere, attraverso la parabola del poeta, tutte le conseguenze del suo sradicamento. La terra stessa smette di parlare a Ovidio, la nuova natura in cui vive gli è ignota. Infatti laddove l’Italia ci viene presentata come un «un luogo costruito»13, il luogo a cui è stato destinato è un luogo originario, primordiale, informe. «Sul nostro villaggio non c’è niente da dire»14, confessa mestamente. Ma Ovidio non può dire nulla, almeno all’inizio, non solo perché Tomi è ai suoi primordi, ed è un crocicchio di capanne a stento distinguibili dal fango, ma anche perché egli è del tutto privo delle parole per descrivere ciò che a malapena è in grado di riconoscere. Gli mancano le parole, gli manca il linguaggio, cosicché quando una donna gli fa assaggiare una semente è in grado di afferrarne solo il gusto senza poterlo ricondurre a nessuna esperienza precedente, senza poterlo descrivere e nominare. Ovidio ritorna di fatto a un mondo pre-adamitico, in cui alle cose deve ancora essere imposto un nome e perciò esse sono ancora prossime une alle altre, le une dalle altre indistinguibili. L’esilio dal proprio linguaggio è il dato più umiliante e sconvolgente per il poeta, il cui patrimonio linguistico ed esperienziale è d’un tratto annichilito, reso del tutto inutile, tanto da fargli dire che: «questi uomini e io abbiamo da spartire solo le sembianze della nostra umanità e tra noi non c’è nessuna esperienza, usanza o lingua in comune»15. 12
David Malouf, An Imaginary Life, Picador, London 1978, p. 19: «Have you heard of my name? Ovid? Am I still known? Has some line of my writing escaped the banning of my books from all the libraries and their public burning, my expulsion from the Latin tongue. […] Have I survived?»; tr. it. S. Pirri e R. Giannetti, Una vita immaginaria, Frassinelli, Milano 2001, pp. 10-11. 13 Ibid., p. 28: «created place»; tr. it. cit., p. 22. 14 Ibid., p. 22: «There is nothing to be said about our village»; tr. it. cit., p. 14. 15 Ibid., pp. 50-51: «I and this men have only the likeness of our humanity to share, and neither experience, custom nor tongue between us».
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Ma nella vicenda personale di Ovidio, originario di una famiglia di ceto equestre di Sulmona, esisteva già un’altra frattura, un altro esilio, quello che lo aveva separato dai luoghi aviti della sua infanzia. Un esilio voluto, ma che all’improvviso trova una propria ricomposizione del tutto inaspettata proprio a Tomi. Riemergono così i legami con le sue origini, le memorie felici e malinconiche che ricordano quelle felliniane di 8 e 1/2, un rapporto con la femminilità e la terra che era stato dimenticato, rimosso, del tutto eclissato dall’invadenza di Roma. Riemerge la memoria del padre, dei riti familiari, della morte del fratello a cui egli non si potrà ne vorrà sostituire recandosi invece nella città eterna per intraprendere la carriera dell’uomo di lettere e recidendo così i legami con le proprie radici. Ma in realtà la sua infanzia si era già chiusa da tempo, da quando aveva perduto il rapporto con un misterioso ragazzo selvaggio con la cui descrizione si apre il romanzo stesso. Non sappiamo chi o cosa sia esattamente, né se esista veramente o sia solo una proiezione della sua fantasia, ma non appena il piccolo Ovidio cresce acquisendo pienamente il linguaggio degli adulti e perdendo quello non verbale dell’infanzia, questa figura panica esce dalla sua vita. Il ragazzo è là. Io ho tre o quattro anni. È la fine dell’estate. È primavera. Ho sei anni. Ne ho otto. Il ragazzo ha sempre la stessa età. Ci parliamo, ma in una lingua tutta nostra. Mio fratello, che ha un anno più di me, non lo vede, nemmeno quando ci sfiora. È un ragazzo selvaggio16.
Il primo esilio sofferto nella vita di Ovidio è l’esilio dalla sua infanzia, un tratto che lo accomuna a Mowgli, a Kim e al loro autore. Vi sarebbero a questo punto ancora due tipi di esilio, ma li posticiperemo per concentrarci invece sulla questione dell’infanzia. Tempo dopo il suo arrivo a Tomi, Ovidio viene aggregato ad una battuta di caccia rituale e scopre in quest’occasione, tra le altre orme che si imprimono nel sottobosco, anche una robinsoniana impronta d’uomo. Viene così a sapere dell’esistenza di un ragazzo selvaggio, un ragazzo-lupo che vive nei pressi del villaggio. Ovidio non ha esitazioni. È lui, è il ragazzo selvaggio della sua infanzia tornato per salvarlo. Improvvisamente la passività con cui il poeta aveva subito il suo destino è dissipata dal nuovo desiderio di avvicinare il ragazzo, di entrare in 16 Ibid., p. 9: «The child is there. I am three or four years old. It is late summer. It is spring. I am six. I am eight. The child is always the same age. We speak to one another, but in a tongue of our own devising. My brother, who is a year older, does not see him, even when he moves close between us. He is a wild boy»; tr. it. cit., pp. 1-2.
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contatto con lui e, per fare questo, non ha altra scelta che convincere Ryzak, il capo del villaggio, ad organizzare una speciale battuta di caccia allo scopo di catturarlo, impresa che non gli costerà meno di un anno. Quando finalmente Ovidio riesce a entrare in contatto col ragazzo e a portarlo a Tomi, il suo primo obiettivo è quello di introdurlo alla civiltà della sua gente e sono queste le pagine più in debito con le memorie di Itard e col film che Truffaut ne trasse. Ma il tentativo di riportare il giovane in seno alla sua gente è destinato fatalmente a fallire perché, come Ovidio nei riguardi dei Geti che lo ospitano, egli non ha null’altro da condividere con lui se non la sua forma esteriore, un involucro che, peraltro, ammette il poeta, nemmeno dopo essere stato ben strofinato sembra pulito: «come se la terra fosse penetrata nel profondo della sua pelle e lui ne avesse assorbito il colore»17. Forse, oltre all’intuizione di trovarsi di fronte alla stessa creatura che aveva visitato la sua prima infanzia, Ovidio è inconsapevolmente, crudelmente attratto da un’ulteriore possibilità, quella di sottoporre un altro essere umano al suo stesso destino. Infatti la condizione del ragazzo è speculare alla sua. Non solo entrambi hanno poco o nulla da condividere con la popolazione che li ospita, ma tutti e due subiscono uno straziante esilio: Ovidio, dalla civiltà di Roma, il ragazzo, dalla wilderness della sua precedente esistenza. Quando, durante un rigido inverno, il ragazzo selvaggio sarà vicino, come già erano stati Victor e Mowgli e il Wolf Boy della poesia di Malouf, a cedere la propria liminale identità in favore della condizione umana, egli riesce, in un momento di crisi profonda, a ritrarsi, a tornare alla sua natura animale e a trascinare con sé Ovidio. Questa sequenza, centrale per il successivo sviluppo di An Imaginary Life, avviene nel cuore dell’inverno, nel momento in cui tutti i personaggi sono rinchiusi in una misera capanna e il Ragazzo, scosso da febbri violente, pronuncia finalmente una parola umana. Ma sarà una parola non-umana a prevalere. Già fin dalle prime pagine, poco dopo il suo arrivo, Ovidio c’informa di un sogno inquieto che, come un presagio, lo ha visitato e da cui si è riscosso gridando una parola inafferrabile18. È questo «il grido non taciuto» che egli non riesce ancora a comprendere, ma che alla fine si rivela essere il compimento del suo destino. Al contrario di quanto avviene nel rapporto tra Itard e Victor e tra 17 Ibid., p. 77: «As if the earth had got so deep into the skin that he has taken on its color»; tr. it. cit., p. 78. 18 Cfr. ibid., p. 25.
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Muller e Mowgli, non sarà Ovidio a traghettare il giovane selvaggio verso la civiltà, ma, per gradi impercettibili, via via più significativi, tocca al ragazzo determinare l’ultimo esilio di Ovidio. Un volontario esilio dal suo stesso luogo d’esilio, fino a varcare i confini entro i quali era stato sdegnosamente relegato. Così facendo il giovane carica su di sé un ruolo di redenzione, è colui che completa il percorso circolare del poeta facendogli comprendere che il suo vero esilio non era stato il suo distacco da Roma, ma la sua vita a Roma. Il ragazzo selvaggio di Malouf è, a sua volta, l’ultima incarnazione di un topos letterario che trova molti riscontri in letteratura e assume in special modo una nuova coloritura in ambito postcoloniale. Questo ragazzo selvaggio si contrappone infatti ai modelli originari di Victor e di Mowgli il cui destino è di allontanarsi dalla loro giungla-forestainfanzia, di crescere e di affrontare la vita da adulti. Ma ciò che più è interessante in una prospettiva strettamente postcoloniale, andando a rileggere Rousseau, Kipling e gli altri autori che si sono serviti di questa metafora, è che queste figure giovanili, a metà fra l’umano e l’animale, non hanno simboleggiato solo il passaggio da una vita infantile ad una adulta, ma anche il discutibile discrimine tra società occidentale e cultura indigena: Mowgli, il cucciolo di uomo, esce dalla sua fratellanza animale e accetta la sua umanità, ma in realtà l’attraente doppiezza da cui alla fine si emancipa non è molto diversa, da un punto di vista kiplinghiano, da quella che ci sconcerta in The Mark of the Beast. Malouf sembra quasi accettare questa proiezione, questa sovrapposizione dell’elemento colonizzato con il fanciullesco e il primitivo, rovesciando però il significato finale attribuito a questo paragone. Il ragazzo selvaggio immaginato dallo scrittore australiano acquisisce una funzione simbolica del tutto positiva, liberata dall’ambiguità di Mowgli e per Ovidio seguire la strada indicatagli da questo feral child non rappresenta, come sarebbe in Kipling, una sconfitta, un’abdicazione alla propria dignità, ma la scoperta di una dimensione più vera e profonda. Questa lezione si attaglia assai bene allo spirito australiano che presenta nella sua tradizione culturale e letteraria una speciale identificazione con queste figure di sconfitti. Sconfitti che si rivelano essere i segreti vincitori di una sfida morale. Volendo applicare ad An Imaginary Life un rigido schema interpretativo, potremmo così affermare che, se la centralità di Roma rimanda al cuore simbolico dell’Impero, all’Inghilterra e a Londra, e la marginalità dei Geti ricorda quella subìta per lungo tempo dagli australiani – i Geti infatti non si considerano barbari ai margini dell’Impero, ma sen-
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tinelle dell’ultimo avamposto civile sotto minaccia di orde nemiche –, il ragazzo selvaggio testimonia, come il mondo aborigeno, un legame più profondo e partecipe con la natura. È inoltre interessante notare, in un’ottica tutta australiana, come il ragazzo selvaggio di Malouf costituisca un rovesciamento anche rispetto alla tradizione locale del lost child, destinato a perire anziché ad essere vivificato dalla natura stessa19. Ed è forse scontato constatare come il secolo che separa i Jungle Books e Kim da An Imaginary Life, nonché dalla tradizione locale, porti a esiti opposti. Non sarà così il ragazzo a rientrare in seno alla sua natura umana, ma Ovidio a liberarsene, ad andare oltre la soglia estrema del fiume Istro, una soglia simbolica prima che geografica. Le ultime pagine del romanzo sono sfocate per un eccesso di luce. I ruoli sono ora invertiti. Ovidio non è più il maestro; è il giovane ad assumere un ruolo guida, a condurlo a una morte che è, innanzitutto, nelle parole stesse di Malouf «un atto di riconciliazione»20, ma anche un ripiegamento sulla propria infanzia, un dissolvimento. Tutto ciò che Ovidio era stato nella sua brillante carriera di poeta è vanificato da qualcosa di più profondo ed essenziale e la domanda che ci aveva posto all’inizio del libro con angoscia: «Have I survived?» perde tutto il suo significato perché l’Ovidio di Malouf non cerca di issarsi su un monumentum aere perennius, ma di inabissarsi nel cuore stesso della natura e lì morire. L’ultima immagine del libro, Ovidio che muore pacificato in un orizzonte freddo ma luminoso, rimanda al finale di un altro libro kiplinghiano, Kim, dove il Lama e il suo chela trovano entrambi una diversa, opposta e dubbia illuminazione alle sorgenti di un altro fiume. Ma per Ovidio, al contrario del Lama, il cui nirvana resta irrisolto, questa è davvero la liberazione dalla Ruota delle Cose e degli affanni umani. «I am there» sono le sue ultime parole, in cui il pronome personale scolora in quel there, che è la Natura stessa. Nell’Ovidio di Malouf si compie finalmente il sogno del feral child. Per la prima volta in una narrazione non è il senex a trascinare nella Sto19 Un’ulteriore differenza tra i fanciulli selvaggi di Malouf e la tradizione dei lost children australiani è data dal fatto che in questo scrittore tali figure sono maschili. Il rapporto tra uomini, il legame di amicizia, il vincolo tra il maestro e l’allievo sono temi centrali nella cultura e nella narrativa australiana, e in particolar modo nelle opere di Malouf, uno scrittore che ha sempre trattato questo argomento con straordinaria sensibilità e perspicacia. 20 Ibid., p. 98: «gesture of reconciliation»; tr. it. cit., p. 104.
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ria il puer, ma avviene il contrario. Il fanciullo conduce con sé il vecchio Saturno, al di là delle soglie del tempo e della storia, in un mondo ancora nuovo, ancora vergine. La soglia del fiume Istro si carica, rispetto ai corsi d’acqua che separavano più o meno solennemente l’Australia occidentalizzata da quella ancora da colonizzare nelle narrazioni ottocentesche, e anche rispetto al fiume di Kim, di una solennità e di un significato specialissimi. Questo fiume divideva infatti il territorio colonizzato dall’Impero romano da quello non conquistato, non civilizzato, non sottoposto alla mappatura dei suoi soldati e alle descrizioni dei suoi geografi. Malouf ne enfatizza il ruolo anche attraverso un gioco di parole sospeso tra latino e inglese. Egli infatti divide l’antico nome di questo fiume, Ister, in due sillabe che suggeriscono la certezza di Ovidio di essere giunto al finale convegno con la sua liberazione. Is-ter, scrive Malouf, richiamando l’inglese «Is-there». L’attraversamento di questa soglia conduce il poeta in un luogo che appartiene al non-esistente, che ancora sfugge a una qualsiasi descrizione umana. Un luogo pre-simbolico in cui Ovidio può finalmente essere liberato dal peso della sua angoscia e anche dal peso del suo perduto linguaggio. Come ogni essere umano in punto di morte egli può raccogliersi a feto e scomparire in quell’oblio che un tempo aveva temuto e che ora invece agogna. Questo finale, che non è poi il vero finale del libro, deve aver particolarmente soddisfatto il suo autore per la sottile paradossalità che lo caratterizza. Qui Ovidio, l’artista ammirato per la sua abilità nel celebrare la varietà del mondo e la sua mobilità, in cui ogni creatura è soggetta ad un cambiamento che la trasfigura, subisce, a causa del suo esilio e dell’incontro con il ragazzo, la più radicale delle metamorfosi, la morte. Ma la metamorfosi più profonda che il romanzo di Malouf riserva al suo protagonista è di una qualità più sottile e non riguarda soltanto la sua esistenza, ma anche la sua arte. Fin dalle prime pagine egli descrive Tomi come un mondo all’inizio del mondo, in cui qualsiasi tipo di cambiamento si deve ancora compiere. La distinzione tra Roma e Tomi sta tutta in quel paziente, consapevole lavoro di metamorfosi che è l’opera dell’uomo. La metamorfosi che subisce l’Ovidio di Malouf sta invece tutta in quel ritorno all’unità, che potremmo solo impropriamente definire come un’involuzione, e procede per gradi manifestandosi soprattutto attraverso il linguaggio. Dopo il suo primo smarrimento egli infatti ammetterà la bellezza della lingua getica, una bellezza che si manifesta però solo grazie alla sua diversità rispetto al modello latino.
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Ora capisco la lingua di questo popolo quasi come la mia e la trovo stranamente commovente. Non è affatto simile alla nostra, le cui desinenze sono volte a esprimere differenze, le più piccole sfumature del pensiero e del sentimento. Questo linguaggio è ugualmente espressivo, ma ciò che presenta è la vita primigenia e l’unità delle cose21.
Il passaggio successivo a quello dell’apprezzamento di una lingua tanto diversa, un passaggio non verbale, sarà mediato dal ragazzo che, per esprimersi e comunicare non ha altra forma che quella mimica. Attraverso di essa Ovidio rientra in una simbiosi assoluta con la natura, ma si illude ancora una volta che questo sia un mero stratagemma letterario, una nuova tecnica da acquisire. Devo cacciar fuori il mio vecchio io e far entrare l’universo. Le creature ritorneranno strisciando, non come dei trasmigrati, ma con la loro propria natura. Con i loro becchi , le loro pellicce, con i denti e le zanne, gli artigli, gli zoccoli e i grugni si insedieranno dentro di noi, ritorneranno a occupare le loro antiche vite nel fondo della nostra coscienza. E dopo, alla stessa maniera, le piante. Poi cominceremo a riportare in noi stessi i laghi, i fiumi, gli oceani della terra, le pianure, le rupi piene di foreste con le loro balze di neve. Poi, a poco a poco, il firmamento. Lo spirito delle cose migrerà di nuovo in noi. Noi saremo tutto22.
L’atteggiamento del poeta latino si rivela qui ancora in qualche modo «coloniale». La sua sensibilità, la sua soggettività è il luogo privilegiato che, assai presuntuosamente, deve accogliere e inglobare la metamorfosi dell’intero creato, mentre spetterà proprio a lui di perdere se stesso e la sua individualità dissolvendosi nell’universo. Questa vera e propria conversione di Ovidio – conversione all’infanzia, all’animalità, alla natura – avviene progressivamente, ed essendo quella di An Imaginary Life una narrazione per gradi via via più profondi e sempre 21 Ibid., p. 65: «I now understand these people’s speech […] and find it oddly moving. It isnt’t at all like our Roman tongue, whose endings are designed to express difference, the smallest nuances of thought and feeling. This language is equally expressive, but what it presents is the raw life and unity of things»; tr. it. cit., p. 65. 22 Ibid., p. 96: «Soltanto allora potremo avere un’idea del nostro vero corpo di uomini. I must drive out my old self and let the universe in. The creatures will come creeping back not as gods transmogrified, but as themselves. Beaked, furred, fanged, tusked, clawed, hooked, snouted, they will settle in us, re-entering their old lives deep in our consciousness. And after them, the plants, also themselves. Then we shall begin to take back into ourselves the lakes, the rivers, the oceans, of the earth, its plains, its forested crags with their leaps of snow. Then, little by little, the firmament. The spirit of things will migrate back into us. We shall be whole»; tr. it. cit., p. 102.
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più distanti da una concezione formale, da una definizione metropolitana e imperiale, essa non esclude errori, abbagli, correzioni di marcia, inganni al lettore disseminati nel suo compimento. Lo strumento attraverso cui Ovidio giunge a questa graduale illuminazione è ovviamente il Ragazzo, che lo conduce a un linguaggio completamente diverso, un linguaggio infantile e preverbale. Giustamente Bill Ashcroft osserva come, fin dal titolo del romanzo, esista un riferimento a questo tipo di sviluppo. Il critico australiano afferma infatti come esso contenga un inevitabile rimando al discorso lacaniano sull’Immaginario e il pre-simbolico, in cui ci siamo già imbattuti nella descrizione del percorso umano di Victor. «Questi figli selvaggi della natura rappresentano per noi l’alterità psichica dell’ego civilizzato, l’unione dell’infanzia col primitivismo, le informi potenzialità del linguaggio pre-edipico e pre-imperiale»23. Un linguaggio pre-edipico, quindi, in grado di arrestarsi sulle soglie della fase dell’Immaginario e di non procedere verso il Simbolico, identificabile con il linguaggio propriamente inteso, che è definizione di sé e dell’altro, elemento fondante della strategia imperiale. È ancora Ovidio a convenire che: Il latino è una lingua atta a distinguere, ogni desinenza serve a delimitare e separare. Il linguaggio di cui ora sto parlando, che sto quasi parlando, è un linguaggio in cui ogni sillaba è un atto di riconciliazione. Una volta conoscevamo quel linguaggio. L’ho usato nella mia infanzia. Dobbiamo scoprirlo di nuovo24.
Poi ancora non ci sarà nessuna forma di comunicazione esplicita, ma un linguaggio più muto e profondo scoprendo: […] un tipo di conversazione che non ha bisogno di parole, un perfetto scambio di percezioni, toni, domande, risposte, che è semplice come il tempo […]. Come i pensieri passano da una mente all’altra, […] senza nessuna delle strutture del linguaggio convenzionale25. 23 Ashcroft, Childhood and Possibility. David Malouf’s An Imaginary Life and Remembering Babylon, in Id., On Post-Colonial Futures cit., pp. 54-55: «These uncivilized children of the wilderness – scrive Ashcroft – represent for us the psychic other of the civilized ego, the union of childhood and primitivism, the formless potentialities of a pre-Oedipal, pre-imperial language». 24 Malouf, An Imaginary Life cit, 1978, p. 98; «Latin is a language for distinctions, every ending defines and divides. The language I am speaking of now, that I am almost speaking, is a language whose every syllable is a gesture of reconciliation. We knew that language once. I spoke it in my childhood. We must discover it again»; tr. it. cit., p. 104. 25 Ibid., p. 145: «[…] a kind of conversation that needs no tongue, a perfect interchange of perceptions, moods, questions, answers, that is as simple as the weather […]
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Si giunge così al paradosso di un romanzo scritto da un poeta, e che ha un poeta per protagonista, in cui si propugna l’abbandono del linguaggio, della sua forma più elaborata ed umana, comunicando questo rifiuto finale proprio attraverso quel linguaggio che viene negato, e in una forma talmente raffinata da essere stata a più riprese definita come «prosa poetica». Nell’ Afterword che costituisce il vero finale del libro, tuttavia, l’autore ci mette in guardia sulle sue vere intenzioni che erano quelle di far vivere al poeta delle Metamorfosi un’esperienza del tutto diversa, un’esperienza che, per il vero Ovidio, sarebbe stata solo l’occasione per uno «smagliante gioco letterario»26. Quella che può sembrare un’accusa lanciata a distanza di secoli dall’autore australiano al poeta latino sembra in realtà più indirizzata al postmodernismo europeo che non a questo autore della classicità. Per comprendere la peculiarità della posizione di Malouf è utile avvicinarsi all’opera dell’autore austriaco Christoph Ransmayr, già fugacemente menzionata. Il suo romanzo Die Letzte Welt rappresenta infatti davvero il «dazzling literary display» di cui parlava Malouf e costituisce un’antitesi perfetta e assoluta al suo An Imaginary Life. È interessante notare infatti che laddove la Tomi «australiana» è primordiale, quella «austriaca» versa in rovina. È un luogo che non precede la modernità, ma le sopravvive mestamente. E ancora, Ovidio è assente dalle pagine dello scrittore europeo ed il suo protagonista, Cotta, è un sodale del poeta il cui nome è giunto fino a noi perché gli è rivolta una lettera dall’esilio. Questi andrà in cerca dell’amico ormai scomparso, ma ciò che troverà sarà un luogo popolato da creature che appartengono al mondo poetico di Ovidio fino a rendersi conto, all’ultima pagina, di essere a sua volta niente più che una flebile eco letteraria, un nome ricordato solo perché menzionato da uno sfortunato e famoso poeta della classicità. Tomi è una prigione di carta da cui non si può uscire e la metamorfosi riservata ai suoi abitanti è quella di diventare personaggi letterari27. L’impossibile tentativo operato da Malouf, invece, è proprio quelas thoughts melt out of one mind into another […] with none of the structures of formal speech»; tr. it. cit., p. 158. 26 Ibid., p. 154: «dazzling literary display»; tr. it. cit., p. 171. 27 Per un più esteso paragone tra l’Ovidio di Malouf e quello di Ransmayr vedi anche: Silvia Albertazzi, Bugie sincere: narratori e narrazioni 1970-1990, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 56-58.
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lo di rompere il cerchio del linguaggio scritto, dell’opera compiuta. Il suo Ovidio esce non solo dai chiusi limiti dell’Impero, rivendicando una verità altra che si richiama all’infanzia e al mondo naturale, laddove l’autorità costituita si identifica con l’età adulta e la realtà metropolitana, ma compie un passo oltre la soglia stessa del romanzo e ne esce diventando invisibile alla nostra vista, a noi che restiamo sulla riva. L’ambiguo legame che lega David Malouf a Rudyard Kipling è rafforzato anche dal suo lavoro in qualità di librettista per il compositore inglese Michael Berkeley il quale, interessato a lavorare sul soggetto dei Jungle Books, si consultò con lo scrittore australiano su quale potesse essere il modo migliore per portarlo sulla scena. L’intuizione di Malouf fu quella di mescolare i racconti pieni di vita e di colore del più famoso libro di Kipling alla triste vicenda infantile di questo autore narrata in Baa Baa Black Sheep, racconto che ha poi prestato anche il titolo all’opera di Berkeley. L’interpretazione offerta da Malouf coglie ancora una volta il reale opposto all’immaginario di un mondo fantastico, un mondo che è oltre la soglia della quotidianità e, in qualche modo, la riscatta. Come nel film The Wizard of Oz, tutti i personaggi reali trovano un corrispettivo fantastico e così Harry, il prepotente figlio di Auntyrosa, viene proiettato nelle minacciose vesti di Shere Khan, e la sorellina Trix assume l’aspetto di Gray Wolf, ma, a differenza della pellicola di Victor Fleming, il finale di quest’opera lirica non racconta di un felice ritorno a casa perché, quando la madre giunge a soccorrere il piccolo Mowgli-Kipling, questi rifiuta il suo abbraccio, restando selvaggio e inafferrabile e allontanandosi dal palco in silenzio, come Ovidio si era allontanato dal suo luogo d’esilio e dal suo linguaggio28. * L’altra opera di Malouf che prenderemo qui in considerazione, successiva di ben quindici anni rispetto An Imaginary Life, è Remembering Babylon (1993), un romanzo che, secondo Lee Spinks, ha l’altissima aspirazione di confrontarsi con «niente meno che l’immaginario coloniale, cioè l’intero repertorio di metafore, immagini, divisioni e proie28 Per accedere all’intervista a Michael Berkeley in cui viene chiarito il ruolo di Malouf nella composizione della sua opera cfr. http://www.abc.net.au/rn/arts/sunmorn/stories/s466739.html.
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zioni che ha reso possibile il Colonialismo come un coerente discorso culturale»29. Forse per quest’ambizione, e per la ragione di essere comunque un testo più problematico, meno compatto di quanto non fosse la novella ovidiana, questo libro ha goduto di una ricezione meno incondizionatamente positiva di An Imaginary Life. I due romanzi sono comunque profondamente legati, per quanto l’ambientazione e il racconto siano del tutto diversi. Entrambi trattano infatti di figure liminali, di personaggi in grado di mettere in discussione confini e barriere: quelli tra l’umanità e la natura nella reinventata vicenda del poeta latino, e quelli tra bianchi e aborigeni, tra colonizzatori e colonizzati, in Remembering Babylon. E in entrambi i casi Malouf si avvale di strumenti simili per affrontare questo tipo di situazioni, ovvero il linguaggio e l’infanzia, i temi di riflessione da lui prediletti. La sua opera più recente, tuttavia, forse per il fatto di essere più esplicitamente australiana, anche se, come vedremo, non meno ambiguamente ricca di significati nascosti, si è prestata ad accuse di varia ispirazione. Se nel suo breve romanzo del 1978, Malouf rifletteva su una condizione australiana trasfigurandola nella metafora di Tomi, nella sua opera del 1993 egli ne parlava apertamente, per quanto oggetto del suo studio fosse l’Ottocento e non la contemporaneità. Don Randall osserva come la pubblicazione di Remembering Babylon abbia coinciso, alquanto appropriatamente, col primo anno internazionale delle popolazioni indigene proclamato dall’ONU e si collochi l’anno successivo alla sentenza che aveva riconosciuto per la prima volta i diritti territoriali degli aborigeni nella causa tra Eddie Mabo e lo stato del Queensland30. Quest’opera di Malouf si inserisce quindi in una dialettica sulla realtà aborigena alquanto vivace ed animata, all’interno della quale attirò non poche critiche per la sua posizione volutamente ambigua. Ad aprire le ostilità fu Germaine Greer, primadonna del femminismo australiano e internazionale, con una recensione apparsa sul quotidiano The Age dal titolo «Malouf’s Objectonable Whitewash», accusando lo scrittore di Brisbane di aver posto al centro della narra-
29 Lee Spinks, Allegory, Space, Colonialism: Remembering Babylon and the Production of Colonial History, «Australian Literary Studies», 17/2, 1995, p. 173: «Nothing less than the imaginary of colonialism: the entire repertoire of metaphors, images, divisions and projections that make possible colonialism as a unified discursive field». 30 Cfr. Randall, Cross-Cultural Imagination in David Malouf’s Remembering Babylon, «Westerly», 49, 2004, pp. 143-154.
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zione ancora una volta un «fake black», anziché un vero aborigeno31. La critica più severa e circostanziata all’opera di Malouf resta però quella lanciata da Suvendrini Perera dalle colonne di Meridian, in cui questa studiosa afferma come in Remembering Babylon ci sia un’appropriazione del «corpo indigeno» per esaltare un happy hybridism, evidenziando così un’interpretazione in chiave provvidenzialistica della storia australiana degli ultimi due secoli32. In realtà ci pare di poter affermare che, se è presente una provvidenza in Remembering Babylon, essa gioca un ruolo beffardo e sconcertante perché la parabola immaginata da Malouf in questo romanzo risulta assai più negativa, assai meno possibilista e romantica di quanto non fosse in An Imaginary Life. Ispirato a un resoconto scritto dall’esploratore Francis Thomas Gregory su un personaggio realmente esistito, tale Gemmy Morrell o Morrill, Remembering Babylon affronta un’altra delle grandi paure dell’Ottocento australiano, la paura, cioè, di essere assorbiti dall’elemento nativo, di subire un processo di perdita dei propri caratteri britannici per entrare a far parte del mondo aborigeno. Per quanto non particolarmente diffusi si erano verificati casi di questo genere, quali quello di William Buckley, un galeotto che, evaso nel 1803, si unì alle tribù aborigene intorno a Geelong vivendo con loro per più di trent’anni, o quello riguardante Eliza Fraser che, in seguito a un naufragio, visse per circa due mesi con gli originari abitanti della Great Sandy Island33. L’elemento comune a questo tipo di vicende era però il sostanziale rifiuto e 31
Cfr. Germaine Greer, Malouf’s Objectonable Whitewash, «The Age», 3 November
1993. 32 Cfr. Suvendrini Perera, Unspeakable Bodies: Representing the Aboriginal in Australian Critical Discourse, «Meridian: The La Trobe University English Review», 13/1, 1994, p. 22. 33 Il caso di Eliza Fraser scosse le coscienze australiane dell’epoca e continua, a tutt’oggi, ad essere interpretato come un exemplum di notevole impatto nelle letterature postcoloniali e a ispirare narrazioni più o meno esplicitamente riferite ad esso. È qui opportuno ricordare alcuni di questi tentativi, ben tre dei quali apparsi nel 1976: A Fringe of Leaves, di Patrick White; An Instant in the Wind del sudafricano André Brink, nonché il film di Tim Burstall, Eliza Fraser, sceneggiato dal drammaturgo australiano David Williamson. A questi sono da aggiungere il long poem The Man with Seven Toes (1969) di Michael Ondaatje e il libretto di Barbara Blackman Eliza Fraser Sings (1978), musicato da Peter Sculthorpe. Per una più approfondita ricerca sulla rappresentazione di questa figura storica in letteratura e nelle arti cfr. Kay Schaffer, In the Wake of First Contact: The Eliza Fraser Stories, Cambridge University Press, Melbourne, New York and Cambridge 1995.
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il profondo sospetto con cui la società bianca guardava a chi aveva vissuto anche per breve tempo con una comunità aborigena. Malouf afferma, nel breve scritto a conclusione del romanzo, che la scintilla da cui era scaturito il personaggio di Gemmy Fairley, protagonista di Remembering Babylon, era nata dalle parole «I am a British object», pronunciate, seppur in un diverso contesto, da Gemmy Morrell. Il lapsus che fa dire a questo personaggio di essere un oggetto anziché un soggetto britannico, locuzione, questa, che definiva quei cittadini inglesi nati e cresciuti nei possedimenti coloniali, si prestava perfettamente a qualificare non solo la condizione di un uomo che aveva subito un processo di ibridazione tale da fargli acquisire una nuova identità e rinnegare quella passata, ma per esprimere anche la condizione coloniale dell’Australia stessa. Il passato di questo paese appartiene infatti all’ambigua realtà delle settler colonies, le colonie d’insediamento, in cui l’inglese che vi si trasferiva perdeva gradualmente la sua «Britishness» per acquisire una condizione nuova, incerta, in un processo identitario assai complesso. E un processo assolutamente non lineare, se è vero che, ancora nel 1919, il premier laburista Billy Hughes poteva proclamare a buon diritto che gli australiani «erano più britannici dei britannici»34, specchiandosi in quella stessa identità in cui anche Kipling aveva collocato gli inglesi «native born», e quindi anche se stesso, quando accusò gli inglesi per nascita di non comprendere la vera funzione dell’Impero. Nel romanzo di Malouf il passato di Gemmy Fairley, la sua perduta identità inglese, rimanda a un’infanzia di dolore e privazioni e la sua vita cambia improvvisamente quando, all’età di otto anni, con terribili trascorsi, tra crimini commessi e abusi subiti negli slums di una Londra dickensiana, si imbarca per errore su una nave diretta in Australia, una nave che, per colmo di disdetta, naufraga quand’è ormai vicina all’approdo. Gemmy, il solo superstite, viene tratto in salvo da una tribù aborigena e la scena del ritrovamento è già sintomatica del suo futuro destino. Che cos’era? Una creatura del mare di una specie mai vista prima, ma proveniente dai fondali oltre la barriera corallina? Uno spirito debole, tornato dal regno dei morti e rinato solo a metà? La carne era martoriata, coperta da ulcerazioni bianche come fiori nei punti in cui il sale vi era penetrato, piccole bocche spalancate che sollevavano pallidi tentacoli non appena l’acqua le sfiorava. Minuscoli granchi saltellavano qua e là arrampicandosi l’uno sul tenero guscio 34
«Were more British than the British».
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dell’altro, si alzavano scintillando. Una donna cercò di cacciarli. Si levarono a ondate da sotto quel corpo, in gran fermento, sgusciarono fuori dalle pieghe della corteccia in cui era avvolto, e con il tenue lamento prodotto da un milione di minuscoli artigli sui granelli di sabbia che scivolavano sotto di loro, si allontanarono simili al turbinio di una nube sulla spiaggia incandescente.35.
Il riferimento alla corteccia, al «fold of bark», rappresenta un dettaglio assai importante destinato ad assumere anche un rilevante ruolo simbolico alla fine del libro. Questa corteccia è la vera ragione della salvezza di Gemmy e l’immagine della donna aborigena che ne dischiude i lembi per cacciare i granchi ricorda l’episodio di Mosè salvato dalla figlia del Faraone mentre era in un cesto, abbandonato alla corrente del Nilo36. Questo riferimento biblico non è sorprendente in un’opera come Remembering Babylon in cui anche il titolo costituisce una citazione del testo sacro giudaico-cristiano. Malouf si serve di questi riferimenti anche allo scopo di connotare un territorio che viene descritto come nuovo e antichissimo al tempo stesso, un luogo in cui «c’era troppo spazio tra le parole, anche le più semplici, come tra gli oggetti»37. Destino di Mosè è quello di tornare al suo popolo come guida e di essere accolto come profeta inviato per liberare la sua gente dalla schiavitù dando loro la speranza di una terra promessa. Anche Gemmy incarna una simile possibilità nel romanzo di Malouf, la possibilità di ricominciare da zero, di compiere una metamorfosi, così come era avvenuto per l’Ovidio di An Imaginary Life. Ma anche se il passaggio di Gemmy nel villaggio non è privo di conseguenze, egli subisce quello che Pierce descrive come un «unwelcome return». La descrizione di una creatura considerata parte uomo e parte pesce richiama alla memoria non solo la figura di Mosè, ma anche quel35 David Malouf, Remembering Babylon, Vintage, London 1994, pp. 22-23: «What was it? A sea-creature of a kind they ad never seen before from the depths beyond the reef? A spirit, a feeble one, come back from the dead and only half born? The flash was raw, covered with white flower-like ulcers where the salt had got in, opening mouths that as the soft water touched them lifted pale tentacles. Tiny crabs heaped and climbed over one another’s soft shelled backs, and heaved and glittered. One of the women tried to drive them off. Seething, they rose up in waves from under him, tumbling out of the folds of the bark he was wrapped in, and with the sighing million tiny claws as the sand grains slipped under them, wheeled in a cloud over the bubbling sand»; tr. it. F. Cavagnoli, Ritorno a Babilonia, Frassinelli, Milano 1997, p. 32. 36 Cfr. Esodo, 2, 3-10. 37 Malouf, Remembering Babylon cit., p. 111: «there was too much space […] between words, even the simplest, as there were between objects»; tr. it. cit., p. 125.
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la di Caliban nella già spesse volte citata Tempest, in cui Trinculo, alla vista del primigenio abitante dell’isola, si interroga sulla vera natura di ciò che gli sta davanti agli occhi. E il ruolo giocato, o forse sarebbe meglio dire subìto, da Gemmy appare molto più vicino a quello interpretato dal mostro shakespeariano che a quello del profeta biblico. A segnarne il fallimento è lo stesso potere che egli detiene e che lo rende unico, il potere di destabilizzare le identità degli altri coloni. La sua prima apparizione nel villaggio situato nell’entroterra del Queensland, che coincide con l’inizio del romanzo, è altrettanto simbolica della sua epifania presso la tribù aborigena. Infatti egli appare in cima a uno steccato con le braccia aperte in segno di resa38 gridando a Lachlan, il bambino che, secondo lui, lo sta minacciando con un fucile, la frase-nucleo del romanzo stesso: «Non sparare, [...] sono un oggetto bb-britannico!»39 Così come era accaduto nel suo primo contatto con gli aborigeni che l’avevano salvato, le prime persone in cui egli si imbatte dopo i lunghi anni di vita tribale, significativamente un gruppo di bambini intenti a giocare nel bush, lo considerano una creatura per metà umana e per metà animale, la sfortunata vittima di una metamorfosi incompleta che lo ha sospeso al disopra di questi due mondi, senza permettergli un vero accesso a nessuno dei due. Le gambe, simili a due stecchi e nodose alle articolazioni, facevano pensare a un uccello acquatico ferito, una specie di gru, oppure a un essere umano che, alla maniera delle storie che si narravano l’un l’altro, piene di incantesimi e di maledizioni, fosse stato tramutato in un uccello ma solo a metà e che ora – né l’una né l’altra cosa – stesse avanzando verso di loro a piccoli balzi, starnazzando, staccandosi da quel mondo laggiù, al di là della terra di nessuno che era la palude, dimora di cose selvagge e temibili, e al di là di ciò che essi conoscevano, non solo i bambini ma anche i genitori: gli incubi, le voci, le superstizioni e tutto quello che apparteneva al Buio Assoluto40. 38 Malouf usa un’altra più positiva immagine dicendo che le sue braccia sono distese come le ali di un uccello pronto a spiccare il volo, ma la postura è anche la stessa di un uomo in croce. 39 Malouf, Remembering Babylon cit., p. 3: «Do not shoot, [...] I am a B-b-british object!»; tr. it. cit. 40 Ibid., pp. 2-3; «The stick-like legs, all knobbed at the joints, suggested a wounded waterbird, a brolga, or a human that in the manner of the tales they told one another, all spells and curses, had been changed into a bird, but only halfway, and now, neither one thing nor the other, was hopping and flapping towards them out of a world over there, beyond the no-man’s-land of the swamp, that was the abode of everything savage and
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Contrariamente a quanto avviene in Kim di Kipling, dove il protagonista entra ed esce grazie a vari camuffamenti dall’identità di Sahib per riaccedere alla sua infantile condizione indiana, il sortilegio che ha trasformato Gemmy in un pesce, un uccello d’acqua o in qualcosa di indefinibile a metà strada tra un inglese e un aborigeno, risulta irreversibile e la sua condizione è quella di rimanere un ibrido per il resto della sua vita. Il fatto che Gemmy venga catturato da un bambino impegnato a giocare al piccolo pioniere è rivelatore del progetto che, secondo Spinks, è sotteso a Remembering Babylon, quello, cioè, di rappresentare l’intero processo immaginativo legato al discorso coloniale. L’episodio in cui Lachlan, il bambino che gioca al coraggioso eroe fingendo che il suo bastone sia un fucile, cattura Gemmy, può essere letto come una perfetta esemplificazione dell’archivio immaginativo formato dalla letteratura avventurosa inglese dell’epoca. È poi interessante notare come la fantasia spinga Lachlan, un bambino di natali australiani, un native born, a dare ai suoi giochi uno scenario non australiano, e quindi eminentemente coloniale, ma europeo. Uno scenario popolato da boschi innevati e lupi famelici in cui, all’improvviso, egli si trova ad essere non più il simulacro, ma l’incarnazione del brave boy delle avventure per bambini che si imbatte in una figura sospesa tra Ben Gunn e Friday. Per quanto Gemmy sia paragonabile a numerosi personaggi della letteratura per l’infanzia, il rapporto che lo lega a Lachlan non sarà improntato alla più schietta amicizia, portando sempre con sé qualcosa di ambiguo e di non detto. Ciò è forse anche dovuto al fatto che l’arrivo di Gemmy comporta, in qualche modo, la brusca uscita dall’infanzia per il bambino, il quale vede, in maniera del tutto inquietante, l’avveramento delle sue fantasie, l’oggettivarsi del suo gioco in realtà, allo stesso modo in cui la letteratura per ragazzi e le attività ludiche maschili in ambito britannico erano finalizzate a una preparazione per l’esercizio del potere nelle realtà coloniali. Del villaggio in cui viene condotto Gemmy non è mai menzionato il nome, rivelando così il suo ruolo simbolico. Infatti l’ambiguità e l’inbetweenness che caratterizza questo personaggio nonché le reazioni che egli suscita possono essere ricondotte non solo all’Australia del XIX fearsome, and since it lay so far beyond experience, not just their own but their parents’ too, of nightmare rumours, superstitions and all that belonged to Absolute Dark»; tr. it. cit., p. 11.
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secolo, ma anche a quella contemporanea. Agli occhi degli uomini del villaggio egli appare come una creatura perturbante, in grado di destabilizzare profondamente le coscienze di tutti non per la sua diversità, ma per la sua perduta familiarità, presentandosi così come una perfetta incarnazione dell’Unheimlich freudiano. Trasformato dal suo lungo esilio nel mondo aborigeno, egli non può essere classificato dai coloni nei parametri dell’alterità, ma non può nemmeno essere accettato come un bianco. È, semmai, la «parody of a white man», la parodia di un uomo bianco, un uomo la cui rovina non si limita a trascinare con sé la sua sola persona, minando le basi stesse della vita coloniale che, per poter sussistere, deve distinguersi quanto più rigidamente dal mondo indigeno e sentirsi prossima quanto più possibile alla lontana madrepatria. «Era una brutta parodia di se stesso e chi lo guardava si sentiva in una posizione falsa, l’intera faccenda diventava assurda e improbabile»41. Laddove nella parola business va inteso, naturalmente, non solo lo status fragile e precario del colono in Australia, ma tutto il processo coloniale. Gemmy rappresenta, per gli abitanti del villaggio, un interrogativo inquietante, una possibilità aperta per il futuro del loro paese, una minaccia all’identità inglese dei loro figli: Guardavano i loro figli, perfino il più piccolo ciarlava a più non posso, perfettamente a suo agio nella sua lingua, poi ascoltavano la mezza dozzina di parole inglesi che quel tipo riusciva a biascicare, e pure quelle così mal dette e distorte che si riusciva appena a intuire cosa voleva dire, costringendoli a porsi la domanda più difficile. Si poteva perdere tutto questo? Non solo la lingua, ma tutto quanto. Tutto42.
Si è detto come la figura di Gemmy sia prossima, oltre a quella di Ben Gunn, anche ad altri personaggi appartenenti all’immaginario coloniale settecentesco e ottocentesco. Una profonda somiglianza può essere riscontrata anche con il popolo degli Yahoos il quale suscita in Gulliver la medesima repulsione che Gemmy provoca negli abitanti del villaggio. Questi ultimi colgono nel giovane cresciuto con gli aborigeni 41 Ibid., p. 39.: «He was imitation gone wrong, and the mere sight of it put you wrong too, made the whole business somehow foolish and open to doubt»; tr. it. cit., p. 49. 42 Ibid., p. 40: «They looked at their children, even the smallest of them chattering away, entirely at home in their tongue, then heard the mere half-dozen words of English this fellow could cough up, and even those so mismanaged and distorted you could barely guess what he was on about, and you had to put to yourself the harder question. Could you lose it? Not just language, but it. It»; tr. it. cit., p. 50.
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un passato comune, un punto di partenza condiviso da cui non avrebbero mai creduto si potesse degenerare fino a una simile corruzione e cercano, come fa il personaggio swiftiano, di appigliarsi alle apparenze più effimere del proprio bagaglio identitario pur di distinguersi da lui. Gemmy, non più «soggetto» britannico e liberatosi della passività dell’oggetto, si rivela in realtà un «abietto» nel senso che a questo termine attribuisce Julia Kristeva: un essere, cioè, capace di mettere in discussione limiti, soglie, confini e identità considerate immutabili43. I coloni che abitano in questo piccolo avamposto bianco situato sul confine dell’espansione inglese provano una struggente nostalgia nei confronti della loro patria perduta, la Gran Bretagna, anche quando il loro passato di sofferenza non legittimerebbe un simile sentimento. Paradossalmente l’unica persona che non condivide questa percezione è proprio colui che, più di tutti, si è allontanato dalla sua condizione di un tempo: Gemmy. Anche questo è un segno di ciò che egli incarna, una possibilità del tutto nuova, del tutto inaudita per gli altri coloni. Essi però vivono con lo sguardo rivolto a un passato identitario che non coincide più con la loro condizione presente e anziché vedere in Gemmy una possibilità nuova vivono la sua presenza come un’insidia, come la materializzazione del peggiore dei loro incubi, quello di perdere il loro ruolo di uomini e donne britannici per divenire qualcosa d’inesplicabile e inquietante. La considerazione che la maggior parte di loro ha nei confronti della colonia che si trovano a popolare è ben espressa dal personaggio di George Abbott, il giovane e intelligente maestro elementare che vive la sua vita in Australia come una frustrazione infamante. Attraverso il suo punto di vista, viene istituito un paragone con un altro orizzonte coloniale, quello africano. L’Africa, ne era convinto, avrebbe temprato la sua anima e fatto di lui un uomo. Qui niente e nessuno pretendeva niente da lui. Era un luogo che menava colpi bassi. Era oppressivo, dappertutto, vischioso e insidiosamente dolce in tutte le sue forme – al lussureggiante rigoglio della natura seguiva un’umida putrescenza, sicché l’anima veniva manifestamente stimolata, eccitata e resa più fragile per essere subito dopo neghittosamente messa al tappeto44.
43 Sul concetto di abiezione in questa studiosa vedi in particolare: Julia Kristeva, Poteri dell’orrore: saggio sull’abiezione, Spirali, Milano 1981, con speciale riguardo alle pagine 10-11. 44 Malouf, Remembering Babylon cit., p. 51: «Africa, he believed, would have tempered his soul to hardness and discovered the man in him. No such demands were made
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Dopo il primo impatto con gli abitanti del villaggio, Gemmy viene sottoposto all’indagine delle due autorità locali, incarnate proprio da Abbott, il maestro, e dal pastore anglicano, Mr Frazer, i quali trascrivono, inventandola pressoché di sana pianta, la vicenda del giovane cresciuto dagli aborigeni, mentre questi osserva con enorme angoscia la propria esperienza umana ridursi a grumi d’inchiostro sulla carta. La sola persona in grado di cogliere almeno in parte la possibilità offerta da Gemmy è proprio Mr Frazer, considerato dai suoi fedeli uno svagato e inaffidabile sognatore. Egli si aggira con lui nella foresta che circonda l’insediamento perché Gemmy gli riveli i nomi dati dagli aborigeni alla flora e alla fauna locali, nomi che il sacerdote va annotando su un taccuino. Se l’atto di ri-nominazione di un territorio è il primo segno di un’avvenuta colonizzazione e la sanzione ufficiale di una definitiva presa di possesso, Mr Frazer, nel suo tentativo di ristabilire i nomi originari, compie un inconsapevole atto di decolonizzazione. Talvolta questo porta a goffi fraintendimenti perché la pronuncia o la trascrizione di questi nomi è spesso scorretta e «una volta quello che emerse dalla bocca di Mr Frazer fu il testicolo di un vecchio, un’altra, al posto di un tubero uscì uno stronzo» o i suoi tentativi si rivelano addirittura blasfemi «dato che quella in cui Mr Frazer si era imbattuto era una parola che gli spiriti circostanti non avrebbero mai dovuto udire sulle labbra di un uomo»45, ma i suoi sforzi, per quanto velleitari, sono animati dalle migliori intenzioni. Ancora una volta i temi di Remembering Babylon invitano a un parallelo biblico, richiamando l’episodio in cui ad Adamo viene richiesto da Dio di imporre i nomi agli oggetti della creazione divina46. Ma qui i ruoli tra figura paterna e filiale, tra vecchio e giovane, sono, se non invertiti, almeno confusi. Gemmy è, allo stesso tempo, Adamo che dà i nomi alle creature e Dio che ne rivela i segreti, ma altrettanto si può dire di Mr Frazer che trascrive i nomi e ritrae le immagini delle piante nel suo erbario e, così facendo, sancisce delle nuove definizioni, oggetupon him here. The place worked its defeats in a low way. It was on every side oppressive, in all its forms clammy and insidiously sweet. Lushness and quick bloom followed by a dank putrescency so that the soul was at one moment garishly excited, brittle overwrought, and next slothfully laid low»; tr. it. cit., p. 62. 45 Ibid., p. 67: «In one case what emerged from Mr Frazer mouth was an old man’s testicle, in another the tuber came out as a turd [...] since the word Mr Frazer had it upon was one the surrounding spirits should never had heard on a man’s lips»; tr. it. cit., p. 79. 46 Cfr. Genesi, 2, 19-20.
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tiva nella scrittura ciò che, fino a quel momento, era appartenuto solo all’oralità. Questa relazione ambivalente di un vecchio con un giovane, di un senex col suo puer, in cui la reciprocità dei ruoli è così stretta da legittimare un dubbio su chi sia davvero la guida e chi il discepolo, acquisisce un ruolo particolarissimo sia in Kipling che in Malouf, seppur in modo assai diverso. Se in Kipling il Lama si ritrae dall’acquisizione del nirvana per restare accanto al chela e mostrargli la fonte della sua illuminazione, una fonte che non sappiamo se Kim saprà e potrà condividere; in Malouf è il puer a trascinare il senex oltre quella stessa soglia su cui il saggio indiano aveva indugiato e a portarlo ad una nuova, definitiva metamorfosi, o almeno a un radicale cambiamento di prospettiva. Non è da trascurare, poi, come un simile tipo di ambigua relazione tra magistero e discepolato si instauri anche tra Mowgli e i suoi due precettori, Bagheera e Baloo, i quali lo ammaestrano e lo redarguiscono, ma non sono in grado di fissarlo negli occhi senza stornare lo sguardo. Sia in Kipling che in Malouf può essere colta l’influenza di Wordsworth e del suo famoso verso, contenuto nella poesia My Heart Leaps Up When I Behold, dov’egli afferma che «The Child is father of the Man», ovvero che «il Bambino è padre dell’Uomo». È però importante rilevare che, laddove Kipling identifica la figura emblematica dell’occidente nell’elemento puer, a esemplificare la vitalità e l’energia dell’espansione coloniale, Malouf attribuisce invece, sia in An Imaginary Life che nel rapporto tra Gemmy e Mr Abbott in Remembering Babylon, l’identità giovanile alla figura dell’Altro, rappresentando l’elemento legato alla tradizione occidentale con il senex. La rivelazione finale, l’illuminazione che Gemmy offre a Mr Frazer, per quanto sia di un tipo del tutto diverso rispetto a quella toccata in sorte a Ovidio, condivide con essa una nuova valutazione della natura, un nuovo sguardo con cui contemplare l’Australia: Abbiamo sbagliato nel considerare questo continente un luogo ostile e sfortunato, al quale, facendo appello allo stoicismo più fiero […] si sarebbe riusciti a dare forma rendendolo abitabile. Esso è già abitabile. Il pensiero va ai nostri primi coloni, che morivano di fame lungo codesti lidi in mezzo a un’abbondanza che non hanno saputo riconoscere, […] con i loro occhi inglesi. Dobbiamo stropicciarci gli occhi e guardare di nuovo, liberare le nostre menti da quanto andiamo cercando se vogliamo vedere quel che c’è. […] Non vi è forse una sorta di refrattario orgoglio in questo insistere che la terra si presenti a noi nei termini a noi noti, perché altrimenti preferiremmo perire anziché prenderla così com’è? […] Verrà il giorno in cui anche noi saremo nutriti
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non solo dal frumento e dagli agnelli e dai cetrioli sotto vetro, bensì da ciò che la terra stessa produce, affinché in noi si irradi un’intima comprensione di ciò che essa realmente è, e tutto quanto in essa vi è di inconoscibile ci diventi infine familiare47.
L’impossibilità di Mr Frazer di comunicare agli altri abitanti del villaggio un diverso modo di guardare al paese in cui vivono dimostra come l’opportunità incarnata da Gemmy sia, in realtà, niente più di un’occasione perduta e, come afferma Bill Ashcroft, «Gemmy è l’emblema di un’Australia che avrebbe potuto essere, un Immaginario australiano»48. Infine questo personaggio fuggirà dal villaggio per tornare alla sua comunità aborigena, destinata ad essere sterminata, di lì a qualche tempo, da mandriani avidi di terra. Nel lasciare il villaggio, nello sparire agli occhi del mondo bianco e civilizzato, Gemmy porta con sé quello che ritiene essere il documento in cui è stata a suo tempo trascritta la sua vita, mentre si tratta solo del componimento di uno degli svogliati allievi del maestro Abbott. La pioggia incessante dilava alla nostra vista l’immagine del ragazzo che torna alla sua comunità aborigena, torna alla sua condizione di lost boy, e cancella anche ogni traccia di quelle parole che egli crede così significative. La parola taciuta si prende così una breve rivincita su quella scritta e sul discorso coloniale49. Molti anni dopo, in chiusura di romanzo, quando Lachlan Beattie, il bambino che per primo aveva avvistato Gemmy ed era stato l’inaspettato fautore della sua cattura, è diventato un Ministro della Corona Britannica in Australia, prossimo ad essere sfiduciato per uno scambio epi47 Malouf, Remembering Babylon cit., pp. 129-131: «We have been wrong to see this continent as hostile and infelicitous, so that only by the fiercest stoicism […] can it be shaped and made habitable. It is habitable already. I think of our early settlers, starving on these shores in the midst of plenty they did not recognise […] with their English eyes. We must rub our eyes and look again, clear our minds of what we are looking for to see what is there. Is there not a kind of refractory pride in it, an insistence that if the land will not present to us in terms that we know, we would rather die than take it as it is? The time will come when we too will be substained not only by wheat and lamb and bottled cucumbers, but by what the land itself produces […] so that what spreads in us is an intimate understanding of what it truly is, with all that is unknowable in it made familiar within»; tr. it. cit., pp. 143-144. 48 Ashcroft, The Return of the Native: An Imaginary Life and Remembering Babylon, «Commonwealth», 16/2, 1993, p. 51: «Gemmy is the sign of an Australia that might have been, an Australian Imaginary». 49 Cfr. S. Albertazzi, Nel bosco degli spiriti cit., pp. 49-50 e Francesca Lazzarato, Due ragazzi selvaggi, «Il manifesto», 27 gennaio 1994.
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stolare compromettente50; il lettore viene informato di quello che si può definire come l’ultimo incontro tra lui e Gemmy, avvenuto nove anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, quando l’allora giovane Lachlan faceva parte di una squadra governativa. Un incontro assai triste, perché il suo perduto amico è ormai morto e i suoi resti giacciono in uno degli otto involucri funerari da lui rinvenuti durante l’esplorazione. «Lachlan, senza nessuna prova, […] decise che quello doveva essere il luogo, e che uno degli involucri […] conteneva le ossa di un uomo […] il cui errare aveva finalmente raggiunto la meta, questa meta»51. La corteccia che aveva offerto a Gemmy riparo e salvezza dal naufragio di una nave inglese, il suo guscio provvidenziale, un nuovo utero per lui, si è tramutato in un sarcofago raggrinzito, in una tomba per un uomo morto in un massacro. L’opportunità di un incontro positivo tra aborigeni e White Australians non ha avuto seguito, la perla trovata all’apertura di quel guscio da parte di una donna aborigena, non è stata raccolta, ed essa si è perduta per sempre. * Una possibile conciliazione tra lo struggente escapismo di An Imaginary Life e la dura presa d’atto di Remembering Babylon può essere trovata in un’opera più recente di questo autore, il racconto At Schindler’s, compreso nella raccolta Dream Stuff, pubblicata nel 2000. Qui la figura scomparsa non è più quella del fanciullo, un ragazzo di nome Jack sospeso sulla linea d’ombra tra infanzia e adolescenza, ma quella del padre, disperso in guerra. Questo racconto è infatti ambientato durante il secondo conflitto mondiale, anche se ciò non viene mai dichiarato se non attraverso la presenza di Milt, un giovane soldato americano, l’ultimo di una lunga sequela di corteggiatori della madre di Jack, ancora fresca e attraente. 50 È opportuno osservare che anche in Remembering Babylon, come già era avvenuto in An Imaginary Life, la parola scritta e il linguaggio umano in generale sono spesso fonte di incomprensioni, di fraintendimenti le cui conseguenze si rivelano quasi sempre nefaste. Malouf, come già aveva mostrato in An Imaginary Life, sembra condividere il concetto foucaltiano secondo cui «occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose». Cfr. Michel Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, tr. it. A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, Einaudi, Torino 2004, p. 27. 51 Malouf, Remembering Babylon cit., p. 197: «[Lachlan] decided without proof […] that this was the place and that one of these parcels […] contained the bones of a man […] whose wandering at last had come to an end, and this was it»; tr. it. cit., p. 215.
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Oltreché tra infanzia e maturità, Jack resta sospeso anche tra la figura del padre e quella del militare statunitense il quale, per la giovane età, gli sembra più un suo compagno di giochi che un possibile pretendente della madre. Il ragazzo ha ancora negli occhi il padre che, nella piscina del piccolo albergo gestito dagli Schindler da cui il racconto prende il titolo, si esibiva in perfette evoluzioni, in tuffi da campione. La sua silhouette di tuffatore è ancora nitida per lui, ben visibile fino al momento in cui il corpo spiccava il salto dal trampolino e s’immergeva nell’acqua. «Quella parte era perfetta. Adesso non gli restava che pazientare, e aspettare»52. Ma il corpo di suo padre è destinato a non riaffiorare più, se non in modo del tutto inaspettato. Anzi, la sua presenza nella memoria del figlio scolora lentamente perdendo nitidezza in favore di un nuovo modello maschile e questo passaggio si gioca, in modo assai caratteristico per Malouf, anche su un dato linguistico. Fra le qualità paterne più difficili da ricordare per Jack vi sono proprio il suo modo di esprimersi, le inflessioni della voce, certi modi di dire e certi vezzi del linguaggio, tanto che egli si sorprende a volte a tentare di modularne il tono a fior di labbra senza riuscire a riprodurlo compiutamente. Il ragazzo comprende, con una rabbia profonda che nasconde il suo senso di colpa, di aver scelto un nuovo modello paterno, una nuova figura di riferimento nel momento in cui un compagno di giochi gli fa notare come egli «parli come uno yankee»53. Il linguaggio in Malouf non è mai solo linguaggio verbale, ma diventa anche linguaggio corporeo cosicché, quando Jack tenta di rievocare la perduta voce paterna, è una caratteristica fisica quella di cui va in cerca, una voce che scaturisce da un corpo. Il corpo del ragazzo deve però apprendere un nuovo linguaggio in cui proprio il soldato americano gli sarà da guida. «Il corpo ha le sue leggi [...] – gli spiega Milt –. È una specie di… grammatica… di sintassi»54. Fra le immagini più evocative di un racconto che indugia sulla soglia tra infanzia e adolescenza, in cui si racconta la lenta agonia di un bambino che sta per entrare a una nuova vita, vi è quella di un grande scivolo posto all’estremità della spiaggia. Una costruzione di pali grezzi, con una scala su un lato i cui pioli sono così distanti fra loro che 52 David Malouf, At Schindler’s, in Dream Stuff, Vintage, London 2001, p. 2: «[Jack] had got this part of it perfect. For the rest he would have to be patient and wait»; tr. it. F. Cavagnoli, Dai Schindler, in La materia dei sogni, Frassinelli, Milano 2002, p. 3. 53 Ibid., p. 17. «talk[s] like a Yank»; tr. it. cit., p. 23. 54 Ibid., p. 11: «The body’s got laws [...]. It’s a kind of – grammar – syntax»; tr. it. cit., p. 15.
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bisogna avere nove o dieci anni per poterci salire. «Sulla piattaforma al centro ci stavano, pigiati l’uno contro l’altro, quattro o cinque bambini; in attesa del loro turno per scendere, si minacciavano a vicenda di spingere giù gli altri oppure se ne stavano seduti a gambe penzoloni con il sole che seccava il sale sulla schiena»55. Quest’immagine dello scivolo da cui bambini prossimi all’adolescenza sono in procinto di tuffarsi non solo nel mare, ma in un’altra fase della loro vita, ricorda per opposizione ancora una volta un racconto di Kipling, They, in cui un uomo visita una casa popolata da bambini, e solo quando scorge fra essi sua figlia recentemente scomparsa comprende che essi sono fantasmi di bambini morti, e questa rivelazione infonde in lui una rassegnata serenità. I fanciulli del racconto dell’autore anglo-indiano, seppur inquietanti agli occhi dell’adulto, sembrano pacificati, sciolti da ogni vincolo terreno. Quanto risultano diversi, invece, i bambini di Malouf, protési non verso l’aldilà, ma verso una vita nuova, con una gioia quasi aggressiva, pronti a scherzare, a spingersi, a sgomitare per giungere primi a quel lungo scivolo che li porta al mare e all’età adulta. Ma Jack è ancora dubbioso e irrisolto e quando è giunto il momento per lui di salire sullo scivolo, poiché ormai cresciuto e capace di scalarne i pioli, scopre con profondo turbamento di soffrire di vertigini e lo scivolo diventa per lui una visione spettrale, minacciosa. Nei suoi incubi si ritrova in cima alla struttura che gli appare spropositatamente più alta di quanto non sia, col mare scuro e mosso che ruggisce sotto di lui e l’unico modo possibile per scenderne è di svegliarsi di soprassalto. Quando, per l’ennesima volta, quest’incubo visita i suoi sogni, al risveglio, come sempre traumatico, si trova in una scura notte di pioggia battente e, come un bambino più piccolo della sua età, cerca rifugio nella camera dei suoi genitori. Lì intravede due corpi abbracciati in un amplesso e il suo primo pensiero è che suo padre sia finalmente tornato. La parola «Papà» sta quasi affiorando alla bocca in un empito di gioia quando vede chiaramente non solo il corpo della madre, ma anche quello di Milt, il soldato americano, avvinghiato al suo. Per esprimere il momento culminante del racconto, Malouf si avvale con maestria di un effetto quasi da scrittore di genere, da consumato maestro dell’orrore. Mentre il piccolo Jack scopre il legame della 55 Ibid., p. 19: «On the platform between, four or five kids could huddle, waiting their turn and threatening to shove one another off, or sit with their legs dangling while sunlight crusted the salt on their backs»; tr. it. cit., p. 26.
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madre con il suo migliore amico e la pioggia scroscia furiosamente nella notte, l’oscurità è attraversata da un lampo accecante che gli concede un’estrema rivelazione. Oltre a lui e ai corpi stretti in un abbraccio appassionato, il bagliore illumina un’altra presenza: quella del padre. «A torace nudo, con il collo lungo e indosso un paio di vecchi calzoni del pigiama che gli ricadevano mollemente sotto la pancia, era fermo lì a guardare, in un isolamento che lo rendeva simile a un fantasma, come se il mondo a cui apparteneva fosse l’aldilà dei morti»56. A Jack occorre un lungo attimo per comprendere che la figura a cui si trova di fronte non è il fantasma paterno venuto a chiedergli memoria e vendetta come a un novello Amleto, ma è la sua stessa immagine distorta e riflessa dal vetro della finestra. La prova di passaggio dello scivolo è ormai inutile perché Jack è improvvisamente diventato adulto, si è specchiato in suo padre, ma è pronto ad assumere un ruolo nuovo, un nuovo linguaggio per il suo corpo che non sia né quello di Milt, né quello del defunto genitore. Infatti egli si sente improvvisamente troppo grande per negare la sua definitiva scomparsa, comprendendo che suo padre non è un Ulisse destinato al ritorno e lui non è un Telemaco deputato solo a raccontarne la storia. All’alba, col cuore colmo di un sentimento indescrivibile, Jack lascia l’albergo per passeggiare nella boscaglia a ridosso della spiaggia e si arrampica in cima a un albero in cerca di quella serenità che visitava l’animo dei marinai quando sedevano in coffa d’albero, sul pennone più alto della loro nave. Una sensazione, questa, che, accompagnata da un sonno pacificatore, s’impadronisce presto di lui. Come per Kim dopo la sua crisi più estrema, anche per Jack il mondo sembra ricomporsi in un orizzonte nuovo eppure antico, in cui tutti occupano un loro ruolo e una loro responsabilità, in una vita a venire degna di essere vissuta, carica di significato e di promesse. Eppure, come e più ancora che nelle pagine di Kipling, il personaggio di Malouf è conscio che, se una maturità nuova è sorta in lui, qualcosa di altrettanto, se non ancora più importante, si è smarrito. «Sul suo cuore gravava un’ombra che sarebbe rimasta per molti anni, una sensazione di perdita da cui si sarebbe liberato solo a poco a poco»57. E ciò che Jack ha irrimediabilmente perduto è la sua infanzia. 56 Ibid., p. 21: «Bare-ribbed, long-necked, in a pair of old pyjama bottoms that hung below the hollow of his belly, he stood watching, in an exclusion that made him ghostlike, as if he belonged to was the otherworld of the dead»; tr. it. cit., pp. 28-29. 57 Ibid., p. 24: «There was a shadow on his heart that would be there for many years to come, a feeling of loss from which he would only slowly be released»; tr. it. cit., p. 33.
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Egli però non si accorge di essere diventato a sua volta, seppure per brevissimo tempo, un bambino perduto e affannosamente cercato dai suoi compagni di giochi. Spetta a un bambino più piccolo, uno che Jack ha visto spesso, ma di cui non conosce il nome, di ritrovarlo. Il piccolo è esultante: «Loro ti stanno cercando dappertutto, ma ti ho trovato io»58, e l’immagine dei due che si incamminano insieme sulla spiaggia devastata dal temporale notturno conclude il racconto. È affascinante vedere come, in una perfetta circolarità, la figura del bambino si riaffacci alla fine a dimostrazione di quanto sosteneva Furio Jesi, che l’immagine del puer non è in realtà tanto aurorale, quanto terminale e ultimativa59. «At Schindler’s», infatti, è un racconto d’infanzia perduta e ritrovata, un racconto in cui Malouf ricompone il tentativo di afferrare il mito dell’eterno fanciullo e la perenne frustrazione di questo inseguimento fondendo l’uno e l’altro, tentativo e frustrazione, infanzia ed età adulta, in un’immagine ciclica dove una nuova maturità si accompagna alla figura di un bambino a cui non spetta più il ruolo di chi è cercato, ma di chi trova e riscatta chi si è perduto, per allontanarsi insieme, all’alba di un nuovo giorno.
58
Ibid., p. 24. «They been lookin’ all over and I’m the one that found you»; tr. it. cit.,
p. 33. 59
1968.
Cfr. Furio Jesi, Orfani e fanciulli divini, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino
Una conclusione ancora possibile?
Uno dei motivi per cui, ancora oggi, la figura del ragazzo selvaggio suscita una fascinazione profonda e immaginifica, va attribuita anche al fatto che, in essa, sono perfettamente saldate due «scoperte», due epifanie verificatesi simultaneamente nella storia del pensiero europeo, le quali hanno agito l’una sull’altra in modo assai efficace e quasi sempre nefasto. Sia «l’invenzione dell’infanzia» che quella della figura del selvaggio risalgono infatti al Settecento. Entrambe celano tanto l’idea dell’alterità, della profonda diversità rispetto all’uomo europeo civilizzato e maturo, quanto una relazione di originarietà. Secondo i pensatori illuministi, infatti, l’infanzia, studiata per la prima volta in questo secolo con un’attenzione del tutto specifica se non del tutto scientifica, rappresentava il grado primordiale dell’individuo così come il primitivo costituiva il grado primordiale della specie. Un’idea, questa, che si rafforzò e diffuse ancor più nel secolo successivo con l’avvento del darwinismo. Nel suo saggio dedicato al romanzo per l’infanzia The Water Babies di Charles Kingsley, fratello del già ricordato Henry Kingsley, Jo-Ann Wallace afferma che la «scoperta» del «bambino rappresenta il necessario prerequisito dell’imperialismo; e ciò significa che l’occidente doveva inventare per sé la figura del “bambino” prima di poter elaborare uno specifico imperialismo colonialista»1. Ma, come sostiene Ashcroft2, fu il 1 Jo-Ann Wallace, De-scribing The Water Babies: The Child in Post-colonial Theory, in C. Tiffin and A. Lawson (eds), De-scribing Empire. Post-colonialism and Textuality, Routledge, London 1994, p. 176: «The child is a necessary precondition of imperialism – that is, that the West had to invent for itself “the child” before it could think a specifically colonialist imperialism». 2 Cfr. Ashcroft, «Primitive and Wingless». The Colonial Subject as Child, in Id., On Post-Colonial Futures cit., p. 37.
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reciproco condizionamento che queste due idee esercitarono l’una sull’altra, a offrire all’imperialismo europeo una missione e un’ideologia, quasi un’identità coerente. Se lo studio del fanciullo si presentava soprattutto da un punto di vista pedagogico, nei termini della sua «educabilità», altresì il soggetto primitivo si presentava come bisognoso di essere civilizzato e introdotto alla contemporaneità, cioè all’età adulta. L’immagine del bambino si offriva come perfetta esemplificazione del rapporto che il colonizzatore doveva instaurare col colonizzato. Come un bambino il soggetto colonizzato è allo stesso tempo potenzialmente buono, ma naturalmente incline al male e all’indisciplina e compito del genitore e del maestro è quello di essere una guida ferma, capace di somministrare premi e punizioni efficaci. La metafora, a prima vista così calzante agli occhi dell’occidente, nascondeva in realtà una contraddizione insanabile. Infatti, se il compito del bravo genitore è quello di trasformare progressivamente il figlio in un soggetto indipendente e maturo, il vero compito del «genitore coloniale» è quello di mantenere i suoi «figli» in uno stato di perenne dipendenza, nella condizione di una prole eternamente inetta, cosicché la metafora infantile che investiva i soggetti colonizzati li cristallizzava, nell’ordine imperiale, in un’infanzia perpetua e immutabile. Ed è anche e soprattutto per questo che la vera schiavitù di Mowgli non si attua nella sua prima giovinezza libera, felice e avventurosa, ma nel compimento della sua maturità al servizio del Department of Woods and Forests. La figura del ragazzo selvaggio diventa così la perfetta sintesi di due idee, quella della fanciullezza e del primitivismo, che, a partire dal Settecento, si sono incrociate e sovrapposte in modo assai frequente ed esiziale e la cui intersezione ha prodotto la contraddittoria identità dell’Impero. Ciò è riscontrabile tornando ancora una volta al caso di Victor dell’Aveyron e del suo educatore, osservandolo però attraverso l’ipotesi formulata da Octave Mannoni in un saggio da lui dedicato al rapporto fra i due. [Noi] possiamo immaginare una situazione che sarebbe sembrata pazzesca a Itard, ma non è impossibile da concepire e supporre di scambiare le parti e spedire Itard con il selvaggio nei boschi della Caune per vedere quello che potrebbe impararvi di veramente nuovo per lui. Non è necessaria una supposizione tanto strampalata per rendersi conto
UNA CONCLUSIONE ANCORA POSSIBILE?
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che Itard non impara nulla dal selvaggio e che lo trasforma in uno schermo vuoto su cui proietta il suo sapere personale3.
Itard, come il colonizzatore europeo, non compie alcuno sforzo per osservare la situazione con gli occhi dell’altro, attribuendogli invece uno stato di «pura natura» del tutto priva di qualsiasi supporto culturale. Il confronto con la natura, quindi, non genera, secondo Itard, né secondo gli intellettuali europei dell’epoca che forgiarono la mente imperialista, alcuna competenza culturale né intellettuale e trovarsi dinanzi al selvaggio dell’Aveyron o al selvaggio caraibico equivale a trovarsi dinanzi a un essere del tutto naturale e del tutto inetto da un punto di vista concettuale. Un essere imprigionato al grado alfa dell’età evolutiva la cui mente costituisce una pagina bianca, una coscienza vergine su cui può essere scritta qualsiasi cosa. Anche qualora vi fossero delle abilità acquisite è bene, anzi, che esse siano sradicate al più presto, come fa scientemente il medico francese, per consentire una più agile scrittura di concetti utili ed elevati, frutto di una cultura avanzata e di un’elaborazione europea. Nel suo confronto con mondi altri, quello europeo si percepiva, tra Sette e Ottocento, come l’incarnazione di una perfetta maturità in cui l’Africa e gli altri continenti «nuovi» e vergini venivano rappresentati come fanciulli ingenui e, proprio per questo, pericolosi e bisognosi di una pronta educazione; mentre si guardava all’Asia, e in special modo all’estremo oriente, come a un mondo antico e saggio, ma di decrepita vecchiezza e avviato a una lenta agonia. In questa rappresentazione delle tre età, di ispirazione quasi rinascimentale, in cui l’uomo europeo incarnava la pienezza della vigoria, si può cogliere tutta la necessità e l’urgenza della missione colonizzatrice delle potenze imperialiste, nonché la loro ansia di legittimazione. Già nel caso della rappresentazione degli aborigeni nei testi dei coloni australiani del XIX secolo abbiamo potuto constatare come all’Altro sia sempre assegnato un ruolo carico di implicazioni volte a marginalizzarne il carattere. L’Altro o è un fanciullo, completamente libero da qualsiasi vincolo, o è un essere decrepito, oberato da una tradizione insostenibile e morente. A questa rappresentazione distorta il mondo postcoloniale ha risposto in modo del tutto sorprendente, non rifiutando l’identificazione con una realtà infantile e primigenia, ma anzi accettando quest’am3 Octave Mannoni, Itard e il suo selvaggio, in Id., La funzione dell’immaginario: letteratura e psicanalisi, tr. it P. Musarra e L. M. Cesaretti, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 100.
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bigua metafora e ribaltandone il significato. Laddove la figura infantile era stata vista all’interno del discorso coloniale come espressione di un’immaturità bisognosa di una rapida crescita, di uno sviluppo eterodiretto, essa viene invece interpretata, dagli autori provenienti da quelle realtà che l’hanno lungamente subita, come un segno di novità e di possibilità pieno di speranze per il futuro. Se a partire dall’epoca tardo vittoriana e segnatamente dall’avvento del Modernismo in poi, i bambini che si affacciano nelle narrative occidentali si rivelano creature fragili e perturbanti o brillano per la loro totale assenza in un mondo di adulti timorosi di crescere, nelle realtà letterarie ex coloniali sono proprio i bambini ad aiutare gli adulti a venire a patti con la frammentarietà dell’esistenza. Essi rappresentano contemporaneamente «le speranze insite nel futuro e i depositari paradossali di una rielaborazione storica rivissuta attraverso la rielaborazione fantastica»4. Un simbolo, quello del bambino all’interno del discorso postcoloniale, che, al contrario di quanto avveniva nella rappresentazione imperiale, si rivela tutt’altro che statico e si rimpossessa delle sue qualità mercuriali destinate a presiedere alla formazione e alla trasformazione delle identità. Non a caso Ashcroft, per esemplificare queste qualità, si serve proprio delle due figure giovanili di Malouf prese anche da noi in considerazione. In An Imaginary Life, infatti, sostiene il critico australiano, il fanciullo selvaggio incarna per Ovidio una possibilità di vita oltre gli angusti limiti dell’Impero, del linguaggio e della vita stessa; mentre, in Remembering Babylon, Gemmy Fairley impersona quello che l’Australia avrebbe potuto essere, un’altra possibilità più libera e rispondente alla sua vera natura5. La scelta di questi esempi da parte di Ashcroft si rivela, a nostro parere, particolarmente attinente perché entrambi i personaggi da lui citati non sono bambini comuni, ma fanciulli che, per la loro ambiguità che unisce l’infanzia allo stato ‘selvaggio’, nel senso più ampio del termine, riferendosi sia a un’identità totale con la natura, sia a una promiscuità con popolazioni considerate primitive, sconvolgono lo stereotipo coloniale arricchendolo di un significato anti-coloniale. Non più espressione di un «adulto potenziale» la figura del bambino, e in special modo quella del bambino selvaggio, diventa la perfetta risposta alla teoria paternalista del controllo impe4 Albertazzi, Bambini di mezzanotte, in Albertazzi e Gasparini, Il romanzo New Global cit., p. 77. 5 Cfr. Ashcroft, «Primitive and Wingless». The Colonial Subject as Child, in On PostColonial Futures cit., pp. 52-53.
UNA CONCLUSIONE ANCORA POSSIBILE?
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riale: non più il docile allievo, ma la creatura perversa e polimorfa la cui qualità proteiforme trascina i suoi sedicenti maestri oltre i confini definiti, oltre gli argini del sapere costituito e istituzionalizzato, oltre la soglia dell’umano sentire.
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Sitografia www.feralchildren.com www.kipling.org.uk www.pbs.org/wgbh/nova/transcripts/2112gchild.htm
Indice dei nomi
Agutter, Jenny 122 Albertazzi, Silvia 68, 68n, 156n, 168n, 178n Alessandro I, Zar 25n Altick, Richard 36n Anderson, Lindsay 47 Anderson, Paul Thomas 136 Antonioni, Michelangelo 123 Armstrong, Gillian 127, 127n Arnold, David 93, 93n Arnold, Matthew 46 Arnold, Thomas 43, 43n, 46 Ashcroft, Bill 133n, 155, 155n, 168, 168n, 175, 175n, 178, 178n Baden Powell, Robert 51, 53, 111 Balestier, Caroline Starr 62 Barrie, James Matthew 64, 68 Becchi, Egle 32, 33n Beresford, Bruce 127n Berkeley, Michael 157, 157n Blackman, Barbara 159n Blake, William 113 Booth, «General» William 34, 35n, 36 Botticelli, Sandro 128, 128n, 129 Bovell, Andrew 137 Boyd, Russell 129 Brantlinger, Patrick 84, 84n Brett, Edwin 39 Brink, André 159n Bristow, Joseph 34, 34n, 45, 45n, 50, 50n, 52 Bryson, John 134-5 Buckley, William 159 Buffon, Georges-Louis Leclerc, Comte de 26
Buñuel, Luis 100 Burman, Alfred Herbert 119 Burne-Jones, Georgiana 95 Burnett, Frances Hodgson 64, 93, 94n Burroughs, Edgard Rice 19, 75 Burstall, Tim 159n Carey, Peter 139 Cattani, Francesco 128, 128n Chamberlain, Aidan 133-35, 136n Chamberlain, Linda 133-35, 136n Chamberlain, Michael 133-35, 136n Chamberlain, Reagan 133-35, 136n Clarke, Marcus 110, 113-14, 114n Coleman, Donald Cuthbert 34, 34n Condillac, Etienne Bonnot de 17, 26 Davidson, Jim 140, 141n, 145n de Baecque, Antoine 12n Defoe, Daniel 23, 28, 42, 200 Dickens, Charles 93 Donne, John 23, 28 Douthwaite, Julia V. 105 Duff, Frank 106 Duff, Isabel 106 Duff, Jane 105-06 Estés, Clarissa Pinkola 105n Ferreri, Marco 55 Feurbach, Anselm von 25, 25n Fitton Brown, Anthony David 146, 146n Fleming, Victor 157 Forbes, Sandra 126 Forster, Edward Morgan 45n, 63, 63n, 65, 65n
198 Foucault, Michel 169n Franz, Marie-Louise von 71, 71n Fraser, Eliza 159, 159n Fraser, Malcolm 145 Froebel, Friedrich Wilhelm August 50 Frost, Robert 62 Furphy, Joseph 103, 103n, 109, 119, 120, 120n, 121 Galbally, Ann 129, 129n Gasparini, Adalinda 68n, 178n Gilbert, Sandra M. 48, 48n Gilman, Sander L. 49, 49n Gladstone, William 35 Gordon, Adam Lindsay 116 Graham, Thomas 119 Graham, William 119 Greenwood, James 94 Greer, Germaine 158, 159n Gubar, Susan 48, 48n Gulpilil, David 123 Haggard, Henry Rider 47, 48n Hauser, Kaspar 25, 25n Head, Walter/Ash Woods, Walter 116 Heine, Heinrich 58, 61, 69 Henley, William Ernest 77 Heseltine, Harry 145, 145n Hill, Aleck 77 Hill, Edmonia 77 Hillman, James 63, 63n, 67, 67n, 74, 74n, 76, 76n, 101, 101n Hobson, John Atkinson 52, 52n, 68 Holden, Robert 108, 108n Hooker, John 126 Hope, Alec Derwent 130 Horia, Vintila 147, 147n Hughes, Billy 160 Hughes, Thomas 44, 47 Humphries, Stephen 36n Hunt, Robert 109n Itard, Jean Marc Gaspard 11, 16, 16n, 24, 24n, 25, 25n, 26, 27, 27n, 28, 28n, 2932, 32n, 55, 150, 176-77, 177n Jesi, Furio 9, 173, 173n Jolley, Elizabeth 125, 125n
INDICE DEI NOMI
Jung, Carl Gustav 75, 75n, 76, 76n, 78, 78n, 131n Kelly, Ned 120 Kerényi, Károly 75, 75n, 76n, 78n, 131, 131n King, Stephen 133 Kingsley, Charles 108, 175 Kingsley, Henry 108-109, 109n, 110, 110n, 111-13, 175 Kipling, Alice Macdonald 92 Kipling, Alice ‘Trix’ 92, 95n, 157 Kipling, John Lockwood 92 Kipling, Rudyard 12-14, 16, 19-20, 20n, 24n, 27-31, 31n, 32-33, 44-45, 45n, 47, 49, 55-56, 56n, 57, 57n, 58, 60, 62, 62n, 63-65, 65n, 66, 66n, 67-69, 69n, 70n, 71,71n, 72, 74-75, 75n, 76-77, 77n, 78, 78n, 79-81, 81n, 82n, 83-84, 84n, 85, 85n, 86, 86n, 87-88, 90-93, 93n, 94n, 94n, 95, 95n, 96, 97, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 100n, 101, 102, 103, 111, 139, 151, 157, 160, 163, 167, 171, 172 Klee, Felix 11n Klee, Paul 11, 11n, 14 Kristeva, Julia 165, 165n Lacan, Jacques 29, 29n, 30, 97, 97n Law, Helen H. 62, 62n Lawrence, David Herbert 63, 65, 65n Lawrence, Ray 122, 136 Lawson, Alan 175n Lawson, Henry 115-16, 117n, 118-19, 121, 134 Lazzarato, Francesca 168n Lindsay, Joan 62, 112, 125-26, 128, 128n, 130, 133 Lindsay, Norman 128 Locke, John 21, 26 Lurie, Alison 64, 64n, 65 McClintock, Anne 107n McClure, John 57, 57n McCubbin, Frederick 129, 129n, 130 Mabo, Eddie 158 Malouf, David 12-14, 16, 20, 23n, 29, 30, 32-33, 103, 110, 121-22, 139, 140, 140n, 141, 141n, 143n, 144-45, 145n,
199
INDICE DEI NOMI
146-48, 148n, 150-52, 153, 155n, 156, 156n, 157, 157n Mannoni, Octave 176, 177n Marshall, James Vance 122 Martin, Philip 145, 145n Martin, Susan Kaye 108, 109n Mathews, Sue 129, 129n Mellick, John Stanton Davis 109, 109n Merivale, Patricia 62, 62n, 64, 64n Merrick, John 27 Montaigne, Michel Eyquem de 18 Moravia, Sergio 16, 16n, 24n, 25n, 27n, 28n, 30, 32n Morrill o Morrell, Gemmy 159-60 Moss, Robert F. 44, 45n Mukherjee, Sujit 79, 79n, 82, 82n Newton, Michael 105n, Oliva, Renato 98, 98n, 101, 101n Ondaatje, Michael 159n Ovidio 141, 145-57, 167, 178 Pana, Irina Grigorescu 145, 145n Pavese, Cesare 132, 132n Pearson, Geoffrey 51, 51n Perera, Suvendrini 159, 159n Pierce, Peter 105, 105n, 106, 108, 109, 113, 113n, 121, 134, 134n, 135, 161 Quarantotto, Claudio 147n Quigly Isabel 44, 44n Randall, Don 20n, 24, 24n, 81, 84, 84n, 97, 158, 158n Ransmayr, Christoph 147, 147n, 156, 156n Reschia, Carla 136n Richards, Jeffrey 44n Rayner, Jonathan 128, 128n Reed, Talbot Baines 43, 43n, 44, 45 Roeg, Lucien John 122 Roeg, Nicolas 122-23 Rousseau, Jean-Jacques 15-17, 17n, 18-19, 19n, 20-21, 21n, 22, 23, 23n, 24-26, 30-32, 42, 50, 51, 53, 64, 104, 151 Rousseau, Yvonne 126, 126n Rush, Geoffrey 137 Rymer, Russ 12n
Said, Edward William 51n, 68, 68n, 101 Saki (Hugh Hector Munro) 63, 64 Schepisi, Fred 122, 127n, 134-35 Schaffer, Kay 159n Sculthorpe, Peter 159n Sertoli, Giuseppe 99, 99n Shakespeare, William 69, 69n, 70, 139, 139n Sharpe, Jenny 86, 86n Sher Khan Sur 79 Spear, Percival 79n Spinks, Lee 157, 158n, 163 Stead, William Thomas 38n Stevenson, Robert Louis 39, 40, 40n, 41n, 42, 45, 49n Strutt, William 106-08, 108n, 109, 124 Sullivan, Zohreh T. 66, 66n, 95, 97, 98n Swift, Jonathan 17, 28 Tandy, Sophia 106 Tedeschi, Mario 147n Thirkell, Angela 56, 56n Tiffin, Chris 175n Toubiana, Serge 12n Truffaut, François 11, 12, 12n, 29 144n, 150 Turner, Graeme 127n Twain, Mark 114 Victor dell’Aveyron 11, 12, 15, 16, 17, 18, 24, 24n, 25, 26, 27, 27n, 28, 28n, 29, 30, 31, 32, 32n, 33, 34, 36, 53, 72, 88, 97, 104, 144, 150 Vittoria, Regina d’Inghilterra 48, 67, 70 Wallace, Jo-Ann 175, 175n Weir, Peter 112, 122, 125, 126, 127, 127n, 128, 128n, 129-31, 136 White, Patrick 121, 122, 159n Wellesley, Arthur, Duke of Wellington 44 Williams, Raymond 43, 43n Williamson, David 159n Wilson, Angus 77n, 91-93, 93n, 95n, 98 Wilson, Edmund 59 Wood, Gabi 127n Wordsworth, William 167 Zamfir, Gheorghe 131