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Italian Pages 144 Year 2018
COMUNICAZIONE E M@SS-MEDIA
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a cura di Gianpiero Gamaleri
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Giovanni Ciofalo – Silvia Leonzi
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(a cura di)
HOMO COMMUNICANS Una specie di/in evoluzione
ARMANDO EDITORE
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CIOFALO, Giovanni – LEONZI, Silvia (a cura di) Homo Communicans. Una specie di/in evoluzione ; Roma : Armando, © 2013 144 p. ; 20 cm. (Comunicazione e m@ss-media) ISBN: 978-88-6677-277-4 I Giovanni Ciofalo II Silvia Leonzi III Giada Fioravanti et al.
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1. Studi sulla comunicazione 2. Aspetti sociologici della comunicazione 3. Comunicazione come habitat, habitus e heimat CDD 300
© 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 37-00-039 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
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All’inseguimento della comunicazione GIOVANNI CIOFALO, SILVIA LEONZI
Capitolo primo Modernità e/è comunicazione GIADA FIORAVANTI, SILVIA LEONZI 1.1. Il legame invisibile 1.2. C’era una volta… 1.3. C’era una “svolta”… 1.4. La fine del sogno: il Grande Fratello e la postmodernità Capitolo secondo La comunicazione come oggetto di studio SIMONA ARIZIA, PAOLO FEDELI, SILVIA LEONZI 2.1. La comunicazione come oggetto scientifico 2.2. Verso le scienze della comunicazione 2.3. Oltre il pensiero debole della comunicazione 2.4. La comunicazione tra scienza e immaginario Capitolo terzo La comunicazione in un “tweet” ENRICA BOLOGNESE, GIOVANNI CIOFALO 3.1. Gli hashtag della comunicazione 3.2. #comunicazionecomebisogno 3.3. #comunicazionecometecnica 3.4. #comunicazionecomeinformazione 3.5. #comunicazionecomerelazione 3.6. #comunicazionecomecultura 3.7. #comunicazionecomepotere
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3.8. #comunicazionecomegioco 3.9. #comunicazionecomenarrazione
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Capitolo quarto Le tre H della comunicazione GIOVANNI CIOFALO, ANTONIO DI STEFANO, SILVIA LEONZI 4.1. Il perché dei perché 4.2. Perché la comunicazione è un habitat 4.3. Perché la comunicazione è un habitus 4.4. Perché la comunicazione è un’heimat
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Capitolo quinto Fenomenologia dell’Homo Communicans SILVIA LEONZI 5.1. Nella società della comunicazione 5.2. Homo Communicans
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Bibliografia
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Al mondo di Peppina Documento acquistato da () il 2023/04/23.
Ai baffi di Max AB
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All’inseguimento della comunicazione GIOVANNI CIOFALO, SILVIA LEONZI
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«[…..] è un campo energetico creato da tutte le cose viventi. Ci circonda, ci penetra. Mantiene unita tutta la galassia». (OBI-WAN KENOBI, Star Wars, 1977) «[…] ci dà accesso a tutto quanto. È il supremo biglietto omaggio, è il nuovo sacerdozio». (J. MILTON, L’avvocato del diavolo, 1997) «[…] è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse». (MORPHEUS, The Matrix, 1999)
Oggi sempre più spesso si sente parlare di società della comunicazione e altrettanto frequentemente si dice che “tutto è comunicazione”, ma se si prova a chiedere alle persone “che cos’è la comunicazione?” ci si rende conto che non solo ciascuno ne fornisce una definizione diversa, ma anche che si incontrano non poche difficoltà a circoscriverne il campo. Molti potrebbero fare riferimento all’uso della parola, intendendo per comunicazione il linguaggio, altri potrebbero concentrarsi sulla relazione, parlando di scambi e rimandi, quelli più tecnologicamente orientati potrebbero indicare uno o più media, altri, più semplicemente, potrebbero sostenere che coincide con l’informazione. L’unica, assoluta e incontrovertibile verità è che la comunicazione è ognuno di questi elementi e tutte queste cose insieme: è il tutto che va oltre la semplice somma delle sue parti ed è per questo che farne un oggetto di 9
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studio è, al tempo stesso, un’operazione semplice e complessa. Da questa sorta di illusione ottica, che fa apparire la comunicazione trasparente come un bicchiere d’acqua e opaca come una scatola nera, nasce la volontà di scrivere un libro che ne restituisca la doppia natura di casa e labirinto: un luogo quotidiano e uno spazio intricato in cui si rischia (o si sceglie) di perdersi. Quello che ci interessava era offrire a studenti o semplici appassionati del tema, desiderosi di accostarsi allo studio della comunicazione, un percorso panoramico, attraverso il riferimento ad alcuni dei principali concetti e delle più importanti categorie interpretative sviluppate al proposito. Dichiarato il nostro obiettivo, dobbiamo chiarire l’impostazione teorica che abbiamo adottato nel tentativo di raggiungerlo, sulla base della semplice consapevolezza di dover, in qualche modo, inseguire il nostro stesso oggetto di analisi. Studiare la comunicazione con la comunicazione ci è sembrata la scelta più efficace: all’interno del testo, infatti, abbiamo voluto fare spesso (e volentieri) riferimento a metafore, citazioni, storie e contesti presi in prestito dai prodotti dell’industria culturale (romanzi, film, fiction, fumetti, etc.), utilizzati strumentalmente per descrivere l’insieme complesso delle relazioni tra comunicazione, società e cultura che abbiamo scelto di raccontare. Una scelta stilistica ben rappresentata anche dalle frasi riportate in apertura di questa sintetica introduzione: citazioni in cui ci siamo divertiti a presupporre che la parola comunicazione fosse il soggetto del testo, sostituendola con i puntini di sospensione. Nel primo caso, tratto da un classico del cinema come Star Wars (1977), abbiamo preso in prestito le parole del Maestro Jedi Obi-Wan Kenobi per definire la comunicazione (nella versione originale la Forza) come il collante di una comunità, che trascende i singoli soggetti. Nel secondo, la visione allettante, ma rischiosa, della comunicazione come amplificatore delle capacità dell’individuo, giocando con le parole pronunciate da Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo (1997). Nel terzo, infine, utilizzando un dialogo tra Morpheus e Neo, del film Matrix (1999), per introdurre l’idea di comunicazione come habitat, concetto di cui parleremo più specificatamente nel quarto capitolo. Visioni differenti, e in parte complementari, che servono anzitutto a capire che la compresenza di più definizioni di comunicazione e l’impossibilità di individuarne confini certi e assoluti non rappresenta esclusivamente un limite, 10
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ma la condizione essenziale, e non solo da un punto di vista scientifico, per confrontarsi con un oggetto così complesso e affascinante. Costituendo un elemento congenito alla natura umana, infatti, la comunicazione, anziché essere considerata come un fatto statico, deve più propriamente essere interpretata come un processo: un insieme di insiemi (Morin 1986), i cui componenti influenzano (e vengono influenzati da) i diversi ambiti di riferimento, subendo, nel corso dei secoli, un’evoluzione non necessariamente lineare, ma articolata e determinata dalla concatenazione di un numero molto elevato di fattori. Parlare di comunicazione, dunque, significa muoversi su un terreno accidentato, non soltanto perché ogni tentativo di fare luce rappresenta comunque un compromesso tra ipotesi teoriche e verifiche empiriche, ma, più nello specifico, per la natura anfibia che la connota. Come cercheremo di illustrare più analiticamente, infatti, la comunicazione è un insieme di modelli, di ricerche e di astrazioni, ma costituisce anche un’attività indispensabile per la vita degli esseri umani, per la loro riproduzione e conservazione (su un piano trans-storico) e, contemporaneamente, l’habitus dell’attore sociale contemporaneo (su un piano storicamente determinato). La comunicazione come forma, come matrice archetipica, come elemento primordiale rappresenta il connotato bio-antropologico di ogni pratica centrata sui flussi di informazioni: un fattore centrale nell’evoluzione dell’umanità, che gli uomini, le culture, le tecnologie, il potere plasmano e riconfigurano, come un materiale plastico, dotato di una certa resilienza, che tende ad adattarsi e ad autoconservarsi. Se la presenza della comunicazione nella vita degli individui, quindi, ci appare come un’essenza costante, a cambiare sono i contenuti che, di volta in volta, danno spessore e significato agli scambi, rappresentando l’articolazione mobile attraverso cui costruiamo le relazioni sociali, soggette, oggi ancor più che in passato, a incessanti variazioni e interpretazioni. L’analisi delle dinamiche tra forma e contenuti della comunicazione costituisce, forse, il punto di osservazione più interessante, i cui confini tendono a espandersi verso i territori di discipline contigue, continuamente messi in discussione da riflessioni tese a sottolineare l’inadeguatezza di una conoscenza rigidamente separata in due distinte culture (Snow 1959): le scienze della natura e le scienze umane. 11
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Il riconoscimento della vocazione transdisciplinare degli studi sulla comunicazione è piuttosto recente e prende avvio dalle scoperte realizzate in primo luogo nell’ambito della fisica, ma anche della genetica, della cibernetica, della neurobiologia. I cambiamenti di prospettiva, operati proprio in quei contesti che avevano decretato il successo (e la presunta esattezza) della scienza moderna, riconfigurano convinzioni, modelli e teorie, sancendo la crisi profonda di un intero paradigma. In questi ultimi dieci anni, gli sforzi compiuti dalla comunità scientifica, ma anche, e soprattutto, l’interesse suscitato in un’opinione pubblica sempre più coinvolta nelle dinamiche di un mondo globalizzato e interdipendente, in cui la comunicazione appare ormai come il cuore pulsante del sistema sociale e culturale, non fanno che accreditare il ruolo di primo piano assunto da questa sfera nel mondo contemporaneo. Molte delle incertezze iniziali, che avevano segnato la nascita di questo settore di studi, sono state ormai superate, lasciando il posto a un atteggiamento di maggiore consapevolezza e rispetto, ma anche di autocritica, evidenziando, persino, quelle ingenuità epistemologiche che avevano segnato i primi passi della Communication Research. Una coraggiosa manualistica, risalente a qualche anno fa, si proponeva di raccogliere i frammenti più significativi di una galassia di tendenze e contributi disciplinari, aggregatisi attorno a un territorio ancora tutto da scoprire, ma destinato a subire la colonizzazione di quelle scienze che avevano iniziato a occuparsene, protese a illuminare il cono d’ombra più immediatamente avvicinabile con gli strumenti in loro possesso. Lo sforzo principale, compiuto da allora a oggi, è stato quello di mettere in evidenza le fragilità e gli ostacoli che si opponevano alla costruzione di una mappa in grado di orientare, con una certa decisione, il cammino di conoscenza intrapreso da chi si accingeva, con entusiasmo pionieristico, a percorrere sentieri talvolta impervi. In questa prospettiva, una quota rilevante del lavoro di sistematizzazione ha riguardato la descrizione delle teorie, dei modelli, delle correnti e delle scuole, tesi a indagare l’essenza e la portata degli effetti sociali prodotti dal e nel nuovo mondo della comunicazione. Come vedremo nel corso del volume, l’esplosione e la velocità di diffusione dei media nella società moderna hanno immediatamente convogliato l’interesse di studiosi e osservatori sugli aspetti più vicini alla natura di massa della comunicazione, provocando a volte 12
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un’identificazione diretta e immediata tra questa e la comunicazione tout court. A farne le spese è stata la riflessione intorno alla comunicazione interpersonale, rimasta perlopiù appannaggio della psicologia sociale, all’insegna di una profonda frattura tra una dimensione micro e una macro. Allo stesso tempo, un’impostazione ereditata da un approccio tipicamente sociologico ha condizionato lo sviluppo delle scienze della comunicazione, inducendole, in molti casi, a ipostatizzare i concetti, congelandoli in un tempo astorico, incapace di tenere in considerazione la natura processuale dei fenomeni considerati. Così, ad esempio, per un lungo periodo la comunicazione è stata fatta coincidere, a un livello generale, con quella sviluppatasi all’interno della modernità, riducendo le possibilità di analizzare in forma diacronica i suoi numerosi aspetti che, nell’ambito della dimensione esistenziale degli individui, risultano invece estremamente dinamici e mutevoli. In una fase più recente, invece, si è verificato un diverso tipo di sbilanciamento dovuto a una crescente attenzione nei confronti dei sempre più rapidi processi di innovazione tecnologica, tali da determinare la rapidissima affermazione di tecnologie nuove, orientando la riflessione scientifica sulle implicazioni di questi sviluppi nei diversi ambiti della vita associata, anche se a rischio, in alcuni casi, di forme potenziali di determinismo tecnologico. Ai risultati, pure interessanti, maturati da queste prospettive, nel corso del tempo, si sono poi affiancati quelli derivanti da un complessivo rinnovamento teorico ed epistemologico, prodotti al di fuori di questo mainstream, grazie al contributo di settori applicativi (pensiamo, ad esempio, alla comunicazione pubblica o alla comunicazione della salute) in cui la comunicazione si è rivelata un essenziale ammortizzatore di cambiamenti delle pratiche sociali e culturali. La consapevolezza di una progressiva evoluzione del nostro campo di riflessione ci consente oggi di presentare un testo che, pur tenendo conto dei precedenti apporti e pur essendo destinato a chi si avvicina per la prima volta allo studio della comunicazione, non debba necessariamente proporsi come una summa teorica esaustiva, ma, in parte rinviando a una bibliografia di base, in parte riprendendo alcune intuizioni fondamentali e utili ai fini del nostro discorso, si conceda il lusso di analizzare l’oggetto comunicazione attraverso elaborazioni dichiaratamente pro13
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spettiche e trasversali, che non sempre sono state adeguatamente considerate come appartenenti di diritto al campo dei media studies, in senso stretto. Abbiamo scelto, cioè, di privilegiare un approccio di tipo transdisciplinare, nel tentativo non soltanto di mettere in luce le connessioni rilevabili tra i molti frammenti di conoscenza derivanti dall’esplosione del discorso comunicativo, ma anche di contestualizzare questo discorso all’interno di processi culturali più ampi, per evitare (speriamo) l’adozione di una prospettiva mediacentrica e unilaterale. Anche se siamo consapevoli delle difficoltà di affrontare nodi irrisolti e di sollevare interrogativi, più che di fornire risposte pret à porter, riteniamo che lo stadio di conoscenze cui siamo giunti al momento attuale ci consenta di azzardare scenari in cui le scienze della comunicazione si affranchino da uno statuto disciplinare incerto e perennemente in fieri, offrendo all’osservatore, se non nuovi assiomi, leggi e regole, almeno la percezione di avere a che fare con un oggetto sensibile, che per molte delle sue caratteristiche si presta oggi a riconfigurare nuovi paradigmi e interazioni tra forme di conoscenza apparentemente distanti. L’attenzione collettiva nei riguardi di fenomeni che rientrano a vario titolo nell’ambito dei processi comunicativi, la moltiplicazione di studi e ricerche legati alla pervasività di manifestazioni sempre più visibili e presenti nelle pratiche della nostra vita quotidiana, costituiscono la trama sottile e spesso inestricabile del mondo in cui viviamo, assumendo la forma di punti luminosi disseminati su una mappa, la cui visione, talvolta, rischia di abbagliarci. In questo senso, allora, ci teniamo a sottolineare che quello che offriamo al lettore che vorrà seguirci lungo questo percorso non costituisce certamente la fotografia statica di un oggetto che, invece, si rivela in perenne movimento. Al contrario, si tratta di un racconto, di una narrazione, di una storia che, come in un film o in un romanzo, si basa sugli elementi che abbiamo ritenuto più significativi all’interno di quello scenario complesso in cui anche noi abbiamo scelto di perderci. Questo libro, che è stato possibile realizzare attraverso la curiosità e la passione di molti altri compagni di viaggio (studenti, collaboratori e colleghi) è, in qualche modo, il diario della nostra esplorazione.
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Capitolo primo Modernità e/è comunicazione
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GIADA FIORAVANTI, SILVIA LEONZI
«Nei momenti di disperazione della nostra vita – come si ode ovunque – questa scienza non ha nulla da dirci. Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso o l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale». (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1930) «Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo... […] E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori». (F. WALLACE, «Review of Contemporary Fiction», 1993) «Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi in noi stessi. Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d’intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto». (C. CHAPLIN, Il grande dittatore, 1940) 15
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1.1. Il legame invisibile Esiste una connessione profonda, un legame che non è possibile recidere, tra la comunicazione e la modernità. Il primo uomo che, intuendo come utilizzare e addomesticare il fuoco, condivide la sua conoscenza con gli altri appartenenti al suo clan, è l’artefice di un cambiamento che incide sul modo di mangiare, di vivere, di pensare di tutta l’umanità (Lewis 1960). I disegni rudimentali che, alla luce di primitivi falò, vengono incisi sulle pareti delle caverne per ricordare le scene di caccia, rendendo trasmissibili alle generazioni successive le migliori tecniche, sono i primi archivi del sapere e, contemporaneamente, le prime forme d’arte del genere umano: di quella specie, cioè, che, proprio a causa delle limitazioni fisiche che la contraddistinguono rispetto ad altri esseri viventi, ha dovuto sviluppare modalità elaborate di convivenza, di scambio, di cooperazione, di colonizzazione, di sopravvivenza. Un’evoluzione caratterizzata da un ritmo alternante, determinato da scoperte e fallimenti, da fasi di stallo e d’incredibile accelerazione, che attraverso l’arricchimento della dimensione naturale dell’uomo con una artificiale, rappresentata dalla cultura, conduce dagli albori del tempo sino alla nostra epoca, in cui è possibile contattare qualsiasi altro individuo a prescindere dal punto che occupiamo nel mondo; acquisire informazioni, più o meno volontariamente, su aspetti di una realtà che forse non sperimenteremo mai dal vero; leggere senza sfogliare pagine di carta, oppure ascoltare o vedere ciò che preferiamo senza aspettare che sia una radio o un canale televisivo a mandare in onda dei contenuti. La comunicazione, dunque, non può essere fatta coincidere semplicisticamente con la messa a punto di un linguaggio articolato o con l’invenzione di uno o più mezzi di trasmissione, ma va considerata come una predisposizione innata, capace di trasformare pratiche e manifestazioni accidentali in modi di fare e di pensare, indispensabili all’avvio dei processi di modernizzazione. Un percorso millenario durante cui, insieme alla cultura, alla scienza e alla tecnologia, la comunicazione ha rappresentato metaforicamente la colonna sonora della modernità. Fino a quando, da quei primordiali graffiti rupestri all’arte astratta (Benjamin 1936), dal linguaggio gestuale a quello orale (Ong 1982), dai primi geroglifici al 16
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codice binario (Briggs, Burke 2000), dalla riproduzione tipografica di Gutenberg (McLuhan 1962) all’ipertesto teorizzato da Nelson (Mattelart 1994), è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista principale, riconfigurando categorie, concetti, discorsi. L’esigenza innata dell’essere umano di entrare in relazione con gli altri, di produrre interpretazioni e rappresentazioni della realtà, infatti, ha fatto sì che da un lato aumentassero gli sforzi scientifici e tecnologici per potenziare le sue capacità comunicative, dall’altro che gli strumenti e i significati prodotti influenzassero il suo modo di vivere. L’effetto complessivo che ne è derivato non può essere spiegato in modo univoco e lineare: differenti correnti di studio e di ricerca hanno cercato di comprendere le diverse traiettorie dei cambiamenti innescati e riferibili contemporaneamente alla modernità e alla comunicazione. Isolando la tecnologia come variabile principale nell’attivare processi di evoluzione comunicativa, e di conseguenza sociale, alcuni studiosi hanno sostenuto che una volta messi a punto, sono stati i dispositivi e gli strumenti comunicativi a modificare l’essenza della modernità, attraverso le forme materiali del progresso: la comunicazione come fattore influente sulla modernità. Su un altro versante, non condividendo questa visione tradizionalmente riconducibile a un presunto determinismo tecnologico, altri hanno ipotizzato che siano stati i bisogni e le nuove forme dell’agire sociale a generare la scintilla capace di innescare il processo di ricerca e di definizione di nuove modalità comunicative: la modernità come fattore influente sulla comunicazione. Oggi è finalmente possibile superare la perdurante opposizione di questi due approcci teorici, attraverso un’opportuna integrazione, tale da consentire, a seconda dei casi e delle condizioni di volta in volta considerate, l’adozione di entrambi i punti di vista. Per riuscire a capire realmente il nesso che unisce la comunicazione alla modernità, tuttavia, appare indispensabile approfondire anche il significato che quest’ultima ha assunto. In generale, per noi il termine “modernità” ha acquisito la valenza di novità: ad esempio utilizziamo l’aggettivo moderno nel senso di più avanzato, in contrapposizione a ciò che, definito come antico, ci sembra essere superato e incapace di stare al passo con i tempi. Così uno smartphone, che consente la navigazione su Internet, la condivisione di file, l’utilizzo di social net17
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work sites, di giochi e di applicazioni, ci appare più moderno rispetto a un telefono mobile in grado di garantire soltanto la possibilità di chiamare, inviare sms e fare foto. Pensiamo che, oltre a essere più sicura, un’automobile dotata di dispositivi di controllo della frenata, di airbag, di un sistema di carburazione ibrido, rispetto a un’utilitaria degli anni Cinquanta, sia indiscutibilmente più moderna. Ancora, rispetto alle generazioni precedenti, le possibilità di cui può disporre un bambino che oggi deve fare una ricerca da presentare a scuola ci appaiono incomparabilmente più vaste e moderne. In realtà, il termine modernità, come dimostrato in particolar modo dalla filosofia e dalla sociologia, almeno sul versante delle scienze umane e sociali, riassume in sé più valenze: – un percorso di sviluppo storico; – uno scenario sociale e culturale; – l’insieme dei cambiamenti che possono avere luogo sul piano collettivo e su quello individuale; – il complesso delle innovazioni scientifiche o tecnologiche che sono avvenute nel corso dei secoli. Una sola parola in grado di indicare sia lo stato delle cose, sia il processo attraverso cui questo si concretizza: un singolo frame che cattura il paesaggio sociale in cui viviamo e, contemporaneamente, la sequenza di passaggi che da un punto indeterminato ha condotto alla definizione di quella stessa immagine. Il fatto che, almeno nel linguaggio corrente, tenda a prevalere una valenza riconducibile all’idea di nuovo costituisce una sorta di effetto distorsivo e illusorio. Lo scorrere del tempo trasforma inesorabilmente ciò che prima riusciva a esprimere lo spirito di una certa epoca in una versione superata, soggetta a forme di relativismo e, certamente, meno attuale di quella che caratterizza il nostro presente. Ogni epoca storica, nel suo svolgersi, infatti, si percepisce come moderna (Benjamin 1927/1940) e a suo modo lo è, ma non per sempre: gli antichi romani, attraverso la costruzione di strade, acquedotti, la creazione del diritto e di un sistema burocratico complesso, sono riusciti a innovare le forme materiali e immateriali del loro tempo. Prima di loro, i greci 18
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o gli egizi, attraverso lo sviluppo della filosofia, della matematica o la definizione della scrittura, avevano contribuito a incrementare le conoscenze disponibili. Ciò nonostante, l’emersione di nuovi fenomeni, influenti su differenti strutture della vita sociale e culturale, produce invariabilmente inedite forme di modernità e assetti sociali e culturali che, comparativamente rispetto al passato, appaiono come più avanzati. In realtà, quest’idea di modernità, basata su una presunta linearità della storia e, soprattutto, sulla convinzione di un costante processo di miglioramento, è tipicamente occidentale e ha una precisa origine. È, infatti, alla fine del ’700 che la modernità, da essenza del presente, si trasforma, anche in virtù della diffusione di una nuova sensibilità illuminista, in un sinonimo di progetto e progresso, ostinatamente perseguiti attraverso la scienza e la tecnologia. Un ipotetico punto di arrivo, un traguardo, una fase storica caratterizzata da precise prerogative: – – – – – –
l’industrializzazione; l’urbanizzazione; la divisione del lavoro; la burocratizzazione; l’accumulazione della conoscenza; la secolarizzazione.
Del resto, sotto il peso dei cambiamenti indotti dalla prima rivoluzione industriale, fondata sulla divisione del lavoro e fautrice dei processi di migrazione verso le città, dell’affermazione della borghesia – capace di modificare gli equilibri tra generi, classi, generazioni, tra tempo di vita e tempo di lavoro, sicurezza e diritti – e persino delle nuove modalità di costruzione delle case, dei sistemi fognari, dell’illuminazione delle strade (Marvyn 1994), l’Occidente cambia volto. Vengono gettate le basi per la nascita di una nuova struttura sociale e politica: la fede nel progresso non si limita più alla scienza, ma diventa il tratto dominante di quella che, dal 1815 ai giorni nostri, continua a essere definita come l’età contemporanea. Contestualmente la comunicazione, prima semplice attività naturale, bisogno psicologico e connotato antropologico, dall’inizio dell’Ottocento s’incorpora in una pluralità di mezzi e di pratiche, acquisendo rilievo oltre 19
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che nella dimensione della forza materiale, anche in quella della significatività simbolica (Breton 1992). Da quel momento in poi, infatti, la comunicazione assolve in modo più compiuto una pluralità di funzioni: consente il rafforzamento e la definitiva istituzionalizzazione dell’opinione pubblica (Habermas 1962), mantiene il legame sociale tra individui, metaforicamente vicini con i lontani e lontani dai vicini (Cooley 1909), democratizza la cultura (Lévy 1994), offre svago e intrattenimento (Morin 1962). Il giornale, il telegrafo, il telefono, il cinema, ma anche la fotografia, il fumetto, la letteratura, la radio, e poi gli altri mezzi elettronici che si svilupperanno nel Novecento, come la TV e il computer, contribuiscono complessivamente a modificare gli assetti sociali, incidendo sulla vita dei singoli individui, sulla loro percezione del tempo e dello spazio. Il nuovo modello di organizzazione sociale fondato su queste premesse segna un vero e proprio punto di rottura con il passato: come nella storia dell’apprendista stregone di Goethe, però, numerosi effetti non previsti modificano le intenzioni iniziali, conducendo l’umanità su sponde completamente diverse da quelle immaginate dagli illuministi, dai sostenitori dell’industrializzazione e da tutti coloro che si erano illusi di poter realizzare un mondo ordinato, razionale, che lasciasse ai margini gli impulsi, le particolarità, le differenze, l’imprevedibile. Messa in discussione questa ideologia del nuovo, in precedenza assunta a valore fondativo, secondo una concezione che qualifica “ciò che viene dopo” come necessariamente migliore di “ciò che c’era prima”, tanto la comunicazione quanto la modernità, fautrici di promesse incompiute di libertà, ricchezza e uguaglianza, come vedremo, alla fine riveleranno il loro lato più oscuro.
1.2. C’era una volta… Molti secoli prima che un complesso insieme di trasformazioni tecnologiche, industriali, sociali e la costruzione di un sistema filosofico edificato sul principio cardine della razionalità strumentale modificassero profondamente la realtà, legando a doppio filo modernità e comunicazione,
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l’organizzazione dei rapporti tra gli individui era regolata da un insieme di norme non scritte, distanti anni luce dalla pacificata visione del diritto e dello Stato Nazione. In questo contesto, le forme assunte dalla comunicazione riflettevano un preciso stadio della civiltà, plasmando, a loro volta, bisogni e valori, regole di comportamento e pratiche della vita quotidiana. Essendoci prefissati l’obiettivo di ricostruire le tappe che scandiscono l’evoluzione della comunicazione intesa nella sua natura processuale, il nostro punto di partenza è, dunque, costituito proprio dalla figurazione rappresentata dalla società premoderna, che assume caratteristiche specifiche sia dal punto di vista della sfera privata del soggetto e del suo modo di porsi in relazione, sia da quello della costruzione della sfera pubblica. Del resto, è opportuno sottolinearlo, perfino la radice etimologica del termine comunicazione chiama in causa due modelli di azione che tendono a contrapporsi: da un lato la pratica dello scambio di doni (Mauss 192324), che invece ne mette in evidenza il carattere gratuito, rituale, affettivo; dall’altro l’idea di condivisione di doveri e responsabilità civiche, che ne accentua il carattere strumentale e pubblico. La coesistenza di questi significati antitetici rivela il bisogno umano di utilizzare la comunicazione per costruire ambiti di condivisione collettiva e politica e, al tempo stesso, il desiderio di impiegare le capacità espressive ed emozionali, al fine di stabilire legami affettivi. Al di là di questa apparente dicotomia, sempre riferendoci a una fase premoderna, si possono individuare, più nello specifico, altri tratti tipici delle forme di comunicazione, soprattutto in considerazione di alcune principali tappe di evoluzione storica e tecnologica. In particolare, possiamo considerare almeno tre aspetti fondamentali: la natura circoscritta dei flussi e delle relazioni, il loro carattere meccanico e, infine, la prevalenza della fonte sul ricevente. Il primo elemento attiene all’evidente, e inevitabile, ristrettezza dei circuiti di scambio, in quanto, oltre all’oggettiva povertà delle tecnologie disponibili, le fonti comunicative ritenute autorevoli, e dunque in grado di dare un indirizzo alle azioni collettive, sono ancora esigue. In un’organizzazione sociale rudimentale, fortemente gerarchica e cetuale, infatti, non è ancora possibile neppure presupporre il concetto di opinione pubblica: il potere risulta concentrato nelle mani dei sovrani, dei sacerdoti e di una cerchia ridotta di professionisti della scienza. In questo tipo di strut21
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tura, segnata da una forte rigidità e da una mobilità praticamente nulla di ruoli e status, le pratiche comunicative rivestono un carattere essenzialmente automatico, privilegiando processi di tipo lineare: una diffusione di messaggi dall’alto, che non contempla feedback o momenti di verifica, provenienti dal contatto con l’ambiente e i destinatari, assumendo, invece, un carattere di prescrittività a cui risulta impensabile sottrarsi. I messaggi vengono costruiti all’esterno, a partire dai pochi centri riconosciuti istituzionalmente, e poi diffusi nell’ambiente circostante, sulla base di una presupposta autorevolezza delle fonti. In sostanza, la comunicazione non acquista una propria legittimazione nel corso del processo, bensì a priori: nel momento in cui il messaggio viene formulato e emanato, in completa assenza di forme di scambio e interpretazione del senso. In tal modo il flusso comunicativo rimane condizionato da una netta prevalenza della fonte, da una rigida codificazione dei ruoli e del valore dato per scontato, in quanto emanazione di un potere che contribuisce alla costruzione rigorosa dei significati, come premessa per l’agire sociale dei membri di una determinata comunità. Nonostante le tecnologie a disposizione in questo livello di sviluppo consentano, comunque, un’estensione dei messaggi nello spazio (ad esempio, attraverso l’utilizzo di segnali di fumo, falò, tamburi, etc.) e nel tempo (mediante l’edificazione di tombe, lapidi, monumenti, etc.), le società premoderne non contemplano una dimensione di massa, né mezzi che assicurino questo tipo di comunicazione. Le uniche forme di aggregazione possono essere considerate le riunioni che si svolgono nei mercati, nelle piazze, nei villaggi, oppure davanti ai totem religiosi, originando forme di interazione circoscritte e legate alle variabili spaziali e temporali del contesto che le accoglie (Rosengren 2001). Nelle culture antiche precedenti all’affermazione del monoteismo, in particolare, l’accesso alla costruzione della realtà passa per la mitologia: gli uomini si trovano ad abitare un universo magico-mitico, dotato di una religiosità diffusa che pervade le cose, ma spesso la dimensione sacrale si ibrida con le attività della vita quotidiana, e dunque anche con primitive forme di scambio e relazione. Così, ad esempio, nella piazza del mercato di Pharai, in Acaia, intorno alla statua di Mercurio (o Hermes), cui si attribuivano poteri sovrannaturali e divinatori, avvenivano importanti flussi commerciali, attraverso lo scambio di merci, gli incontri e le tran22
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sazioni economiche, al punto da rendere il messaggero degli Dei anche il Dio del commercio e degli affari (Bettini 1996). All’interno di queste pratiche che si svolgono in spazi pubblici, seppure circoscritti, quindi, sacro e profano tendono a confondersi, proprio in virtù di un legame profondo tra un tipo di struttura sociale e le forme di comunicazione, che così assumono una natura anfibia, avendo contemporaneamente a che fare con l’ascolto o la consultazione degli Dei e con i traffici degli uomini. In queste comunità, dove la religione costituisce un’importante forma di collante sociale, la comunicazione assume anzitutto un valore rituale, attraverso cui l’evocazione di stati affettivi, sentimenti ed emozioni rende comunque possibile la circolazione e la diffusione di messaggi in grado di rafforzare, o innovare, idee, credenze, valori. In questa figurazione sociale, organizzata sulla base di una struttura di tipo comunitario, spesso tribale, in cui i rapporti umani sono più intimi, ma anche più istintivi e violenti, i significati scambiati e condivisi tra i partecipanti al processo comunicativo sono circoscritti a un contesto situato in uno spazio e in un tempo ben determinati: non è possibile trasportarli al di fuori di quelle coordinate e usufruirne non facendo parte di quella comunità. La considerazione di questi elementi e della struttura sociale di riferimento induce a definire il soggetto in questa fase come un homo aequalis: un individuo che è legato al gruppo di appartenenza attraverso una spiccata idea del noi, ma ancora incapace di sviluppare, nella percezione di sé, nelle relazioni con gli altri e nei comportamenti, quel forte senso dell’io, tipico dello stadio successivo della civiltà, connotata da un più elevato livello di autocontrollo, d’introspezione e di riflessività. Il medium elettivo è rappresentato dall’oralità: con il linguaggio, finalmente, l’essere umano entra in una nuova sfera cognitiva, che lo allontana dalle forme più primitive e rudimentali di perlustrazione dell’ambiente circostante. Le sue capacità comunicative si moltiplicano: può raccontare storie, formulare domande, conversare, creare universi immaginari, aprendo la strada a un progresso verso altre forme di organizzazione sociale e nuovi assetti culturali. La parola assume anche un’importante funzione pubblica: tramandare la memoria della comunità. Le conoscenze, così, vengono trasmesse sotto forma di mito e in molti casi, come nella poesia, cristallizzate attraverso formule ripetitive e 23
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ridondanti (come quelle utilizzate da Omero per descrivere l’astuto Ulisse, il saggio Nestore, l’alba dalle dita rosee, etc.). Per molti secoli, sebbene si registri un’evoluzione continua e costante della produzione culturale, delle forme di organizzazione sociale, delle strutture psichiche e delle tradizioni, degli strumenti tecnologici e dei modi di vita, l’assetto che abbiamo appena descritto mantiene una sua validità, fino quasi alla fine del Medioevo. Il Rinascimento e, in particolare, l’avvento della società di corte (Elias 1939), rivoluzionano costumi, mentalità, abitudini, relazioni sociali e, complessivamente, l’equilibrio di potere tra gli individui e le istituzioni nascenti. Proprio la società di corte, che inizia a configurarsi dal XV secolo in poi, rappresenta l’emblema di un nuovo sistema sociale basato sulla mobilità tra le classi per mezzo del denaro, sull’acquisizione di posizioni non più garantite per nascita, ma conquistate anche grazie all’emulazione dei potenti. La scalata sociale non è più appannaggio dei soli aristocratici: i cavalieri curializzati, addomesticati, reprimendo gli istinti più bellicosi interiorizzano le regole dell’etichetta e acquisiscono modi di vita più civili e meno selvatici, cercando di conquistarsi i favori del Re (Sole). Attraverso complicati meccanismi di riconoscimento di posizioni, di declassamento sociale, e mediante la messa in scena di rituali nel ristretto spazio della corte si affermano modelli di comportamento e stili di relazione che rivoluzionano il costume e alimentano un nuovo immaginario simbolico. Dall’uso delle posate, all’abbandono di abitudini fino ad allora considerate naturali (come, ad esempio, quella di sputare per terra), le buone maniere mostrano l’esito esteriore di un processo di elaborazione di codici di comportamento e di tecniche di autodisciplina degli istinti, che trasformano i selvaggi cavalieri medievali in individui per i quali il controllo degli impulsi diventa un imperativo esistenziale. Sono queste le premesse in funzione di cui si delinea un nuovo idealtipo di individuo definibile come homo clausus: un soggetto che si abitua a mantenere le distanze tra se stesso e gli altri, acquisisce modi più educati nelle forme del vivere quotidiano, dal mangiare al vestire, dall’abitare all’igiene personale, finendo per concepire la propria sfera di azione come separata dai suoi simili da un invisibile muro. In sostanza, le dinamiche della società di corte impongono nuovi principi e richiedono nuove abilità: non più un modo di relazionarsi basato sulla violenza e lo scontro diretto, ma la 24
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capacità e la costanza di mantenere un’osservazione attenta, continua e accurata in direzione delle mosse operate dai propri pari, al fine di comprendere le dinamiche del borsino di azioni di ascesa e disgrazia sociale, su cui adesso si fondano i rapporti. Nuove regole sociali e culturali, dunque, che si diffondono a tal punto da rivelarsi fondamentali per la nascita della successiva età moderna.
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1.3. C’era una “svolta”… È solo a partire dal Settecento, con l’avvento e l’affermazione della modernità, che si assiste a una frattura paradigmatica che segna una netta discontinuità con il passato: uno spartiacque che separa in modo netto la fase precedente da una completamente nuova. È in questo periodo, infatti, che viene avviata una complessiva rivalutazione del ruolo dell’uomo all’interno del mondo, attraverso una rivoluzione tanto filosofica quanto tecnologica, tanto materiale quanto culturale. Illuminismo e fede nella ragione, vapore e elettricità concorrono alla messa a punto dei nuovi criteri che definiscono non soltanto cosa sia la modernità, e quanto sia importante essere moderni, ma anche quali percorsi sia necessario affrontare per svincolarsi dal passato e proiettarsi verso un avvenire luminoso. Proprio l’Illuminismo assume un valore fondativo per tutte le categorie del moderno, non soltanto dal punto di vista sociale e politico, ma anche in una prospettiva filosofica, culturale ed epistemologica. Se, infatti, i fondamenti epistemologici della modernità sono in sintonia con le parole d’ordine della Rivoluzione Francese (libertà, uguaglianza e fraternità), è soprattutto la fede nella ragione, cavallo di battaglia degli encyclopédistes, a proporsi come elemento cardine dell’organizzazione moderna: nelle concezioni ideologiche, nell’universo scientifico, nei modelli culturali. La lotta che i sostenitori della ragione ingaggiano con le tradizioni e i retaggi di un passato considerato ormai inadeguato a sostenere la spinta del progresso, in effetti, non si esprime semplicemente nel contrasto tra un pensiero logico-astratto e uno oscurantista e mitocentrico, ma evolve rapidamente in un’affermazione della razionalità
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strumentale (Marcuse 1964). Richiamando ancora una volta l’attenzione sulla necessità di storicizzare parole, concetti, categorie, dobbiamo sottolineare come non sia la ragione tout court a opporsi alle opacità di un universo premoderno; piuttosto a divenire il cardine di un nuovo paradigma è un tipo particolare di ragione, in cui l’aspetto funzionale sottolinea la necessità di orientare l’azione sociale verso il raggiungimento di determinati fini. Non si tratta di considerare il bisogno umano di conoscere, interpretare e comprendere la verità, di scoprire le leggi della natura e i principi universali, andando al di là di emozioni e percezioni, ma piuttosto di concentrarsi sull’utilità economica e sull’efficacia dei mezzi per raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati, secondo una visione che privilegia le applicazioni della tecnica e le scoperte della scienza. Per gli illuministi, sulle tracce della tradizione cartesiana, il metodo razionale è garanzia di oggettività nei processi di conoscenza della realtà e consente all’uomo di porsi al centro di un universo che può essere decifrato e controllato, grazie alle conquiste scientifiche e ai conseguenti progressi tecnologici. Il principio di causa-effetto, il metodo positivistico, la fede in un universo ordinato in cui l’uomo occupa il posto centrale, la secolarizzazione, l’abbandono di dogmi e precetti metafisici segnano questa fase della storia dell’umanità. La filosofia moderna concepisce un concetto di razionalità che si adegua a ogni possibile forma di analisi e descrizione della realtà. Le teorie di Cartesio, come quelle di Hobbes, avevano già suggerito di svincolare completamente la fondazione del sapere e dell’ordine sociale dal principio di autorità, mentre i principi libertari ed egualitari, che i rivoluzionari sostengono a prezzo della morte, si traducono nella ricerca di un agire universalmente orientato, che più avanti, nella fase critica della modernità, in condizioni storico-sociali del tutto diverse, svelerà il suo lato d’ombra: la tendenza ad annullare le differenze, a non tollerare le deviazioni dalla norma. Rispetto ai secoli passati, questa nuova idea di modernità, solida e industriale, crede alla presunta linearità del progresso che, come una locomotiva lanciata sui binari della storia, conduce verso un futuro necessariamente migliore, senza possibilità di ripensamenti: indietro non si torna, la conoscenza è cumulabile, ma non reversibile. Si diffonde l’opinione che l’accumulazione del sapere metta al riparo dagli errori del passato e sosten26
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ga l’esperienza diretta dei fenomeni che possono essere controllati da un individuo infallibile e, dunque, astratto, posto al centro del suo universo come l’uomo vitruviano di Leonardo: con braccia e gambe tese all’estremo, a delimitare la porzione di spazio raggiungibile dalle sue capacità, amplificate dai progressi della scienza e della tecnica. Se, come abbiamo visto, a seguito della nascita, tra il ’400 e il ’600, di forme di organizzazione sociale basate sul monopolio delle risorse economiche, simboliche e della forza si struttura l’idealtipo dell’homo clausus, la sua naturale evoluzione antropologica, in questa fase, coincide con il modello dell’homo oeconomicus, che sviluppa il senso del Sé e viene socializzato al metodo scientifico e a un modo razionale di concepire il rapporto con la realtà. L’individualismo, così, diviene una prerogativa della cultura moderna, derivante dal controllo dell’uomo sulla natura, intesa sia come mondo circostante, sia come mondo interiore, finalmente libero dalla schiavitù del potere metafisico e religioso (Dumont 1977). Questo nuovo uomo è portato spontaneamente ad agire seguendo un’ottica costi-benefici; è un individuo che mira a colonizzare, modificare e piegare l’ambiente alla forza della propria volontà e dell’intelletto: oeconomicus nel pensiero, faber nell’azione. Un soggetto ri-nascente e rinascimentale che, lasciatosi definitivamente alle spalle il Medioevo, sorge dalla supremazia del pensiero sull’esistente, della cultura sulla natura, della ragione sull’emozione. In alcuni casi, la vulgata post-moderna e alcune forme di critica alla modernità hanno sottolineato come sia questa specifica concezione, sia il paradigma filosofico e l’organizzazione storico-sociale moderna nascondano al centro della loro affermazione l’acquisizione di un arido metodo razionale. Un simile giudizio, tuttavia, appare piuttosto sommario e superficiale, mascherando la difficoltà di storicizzare concetti e categorie di pensiero, valutati in modo astratto e aprioristico. Certamente non è la ragione tout court a essere al centro del paradigma di quella modernità che, prima trionfante, contribuirà alla futura implosione della società, ma piuttosto gli eccessi derivanti da un modello di razionalità strumentale, che considera le azioni umane come orientate sempre verso uno scopo, tacciando di irrazionalità, e quindi di pericolosità, quei comportamenti, o quei lati della natura umana, poco comprensibili o comunque lontani da 27
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uno schema di pensiero lineare. È questo uso strumentale del metodo a costruire progressivamente quella gabbia d’acciaio in cui gli individui hanno finito per restare intrappolati, non riuscendo più a fuggire dalle strettoie della burocrazia e, in generale, dagli esiti di un disegno ambizioso che, con l’obiettivo di liberare l’uomo (da vecchie concezioni, da leggi metafisiche, da disuguaglianze, etc.), alla fine lo ha intrappolato. Le critiche all’Illuminismo, sviluppate già a partire dalla metà degli anni Quaranta del Novecento, contesteranno l’incapacità di quell’originario progetto della modernità (Habermas 1985) di mantenere le sue promesse di benessere e progresso, accusandolo di aver fatto precipitare l’umanità in una fase di nuove schiavitù, derivanti, anzitutto, dai modi di lavoro e produzione e da un’eccessiva valorizzazione degli aspetti legati alla tecnica e all’uso delle macchine, a discapito della sensibilità, della cultura, dello spirito (Horkheimer, Adorno 1944-1947). Se, infatti, dal punto di vista filosofico possiamo far risalire l’idea di modernità al Settecento, sul versante storico-sociale un secondo passaggio essenziale per la definizione del concetto di modernità è quello che porta alla piena realizzazione della società industriale di massa, dalla fine dell’Ottocento in poi. Un periodo in cui i legami tra modernità, media e comunicazione si rivelano centrali per il processo di sviluppo delle società occidentali. Di pari passo alle concrete trasformazioni poste in essere dal loro rapido progredire, in primo luogo con la diffusione della stampa e poi del cinematografo, già alla fine dell’Ottocento i mass media alimentano un dibattito nei confronti di un elemento di cui si intuisce la portata rivoluzionaria e che, fin dal suo apparire, lascia intravedere ai suoi detrattori enormi potenzialità di strumentalizzazione, e ai suoi apologeti, inedite possibilità di sviluppo e democratizzazione della società, promesse di progresso e miglioramento della vita in tutti i possibili campi di applicazione. La comunicazione, con i suoi nuovi strumenti e il proliferare di mezzi, accompagna, caratterizza e accelera il passaggio alla modernità: consentendo il superamento della compresenza e accorciando le distanze, fagocitando e disseminando tradizione e cultura sotto nuove forme, imponendo inediti modelli di svago e intrattenimento. Fino ad arrivare, quasi, a tradire se stessa e la sua originaria etimologia di comunità, per avallare il definitivo passaggio alla società (Tönnies 1887). 28
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Folle mai viste prima si riversano nelle metropoli, esito della combinazione tra rivoluzione industriale e crescita demografica, in una continua attività di colonizzazione dei tempi e degli spazi, dello sfumare dei confini tra pubblico e privato, mentre si registra una divisione più netta tra spazio di lavoro e sfera intima. Il trascorrere degli anni, il passaggio delle stagioni, l’avvicendarsi del giorno e della notte, si fondono, si amalgamano e si perdono, senza ritorno, in un unico flusso: la linea retta, che scandisce lo scorrere di un tempo che è anzitutto valore economico, produzione, profitto e, naturalmente, sfruttamento (Popitz 1986). Inedite architetture urbane, tra quartieri dormitorio e dimore residenziali, tra periferie e centro, tra strade imponenti e cunicoli affollati, forgiano nuovi spazi. Ad abitarli sono l’uomooperaio, pagato a cottimo e padre proletario; l’uomo-impiegato, integrato nel sistema e diligente artefice del futuro suo e dei propri figli; l’uomoimprenditore, innovatore coraggioso e avido avventuriero della sua epoca. Mentre Marx analizza il nascente sistema capitalistico, teorizzandone il superamento attraverso una dialettica in grado di produrre prima una rivoluzione, quindi l’ideale affermazione della classe proletaria e, infine, una società senza classi, nelle grandi esposizioni universali novecentesche l’individuo viene invitato a intraprendere un esotico viaggio tra i sontuosi padiglioni della fiera. Attraverso l’ammirazione della merce esposta, i lavoratori si riappropriano del frutto del proprio operato: la melanconia del proletario (Abruzzese 1973) viene sublimata dall’euforia del consumatore che, assecondando inconsapevolmente le logiche del mercato, partecipa alla concretizzazione di una nuova estetica basata sulla condivisione e sulla multisensorialità. Nel passaggio epocale dalla comunità alla società, e dunque alla piena modernità, i mezzi di comunicazione diventano uno strumento essenziale di socializzazione per le masse di persone che dalle campagne si riversano nelle città, offrendo alle migliaia di individui che all’improvviso si ritrovano proiettati in un universo estraneo e poco accogliente, la possibilità di ritrovare voce e visibilità, attraverso i suoni del telefono, le parole della radio e le immagini del cinema. Le folle anonime inserite in un ambiente ad alta densità morale (Durkheim 1893), a rischio di sviluppare sentimenti di anomia e disagio, grazie alle tecnologie della comunicazione trovano un senso dell’abitare il nuovo mondo, scoprendo il loro riflesso nelle immagi29
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ni proiettate sullo schermo, che all’inizio sembrano volerli inghiottire, ma che poi aprono nuove brecce nello sguardo e nell’immaginario. Così nasce, o meglio rinasce, la moda che, dopo l’annullamento delle leggi suntuarie, consente ai nuovi ricchi di confondersi con la nobiltà di vecchia data. La dimensione dell’apparire entra con forza nelle dinamiche di civilizzazione, destinata a non uscirne più, per ricoprire un ruolo sempre più centrale nella definizione dell’identità del soggetto, perennemente in bilico tra distinzione e omologazione (Simmel 1895). La patina dell’antichità e della tradizione, per secoli simbolo del possesso di uno status sociale inarrivabile e inimitabile, cede il passo a una nuova logica del desiderio, a un’apologia del consumo di ciò che appare come nuovo e spettacolare. La fissazione di traguardi, sociali e culturali, verso cui tendere, a prescindere dalla concreta possibilità di raggiungerli (Marcuse 1969), diviene il carburante di un gigantesco motore di cambiamento che, in poco tempo, trasforma irreversibilmente il mondo (e i modi) della vita. Attraverso la corsa all’industrializzazione e la rincorsa al capitalismo, la borghesia si accinge a divenire la futura classe dominante. Adattandosi ai nuovi ritmi di lavoro, nelle strade e nei caffè si cerca di ritrovare l’altro e se stessi nel mezzo di una folla incantata e impaurita, in cui è facile perdersi. Si affermano nuove forme di cultura, modelli di comportamento e stili di vita adeguati a un tempo più ricco e a uno spazio più complesso: un immaginario di simboli, segni, figure pronti ad alimentare e sostenere un grande sforzo di cambiamento e il ripensamento radicale del vecchio. A cambiare è anzitutto la sensibilità culturale, ora capace di accogliere insieme una serie molto più ampia e variabile di funzioni, significati e oggetti: mentre muore l’arte (Benjamin 1936), quella classica e esclusiva, destinazione segreta e meta ultima cui potevano approdare soltanto minoranze elitarie, le masse iniziano a scoprire di possedere una propria cultura, su cui, tuttavia, si stende l’ombra del profitto e del controllo. Nasce l’industria culturale, espressione tipica della modernità, costituita da un insieme complesso di strumenti diabolicamente persuasori, attraverso cui il sistema sociale veicola dall’alto valori, modelli di comportamento, ideologie. Il presunto effetto collaterale è quello di trasformare l’opera d’arte in un prodotto standardizzato, omogeneo, livellato verso il basso, che non può che produrre una degradazione delle funzioni sociali e artistico-cultu30
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rali, deprimendo la creatività e lo spirito. I principali agenti responsabili di questo frutto amaro del processo di modernizzazione sono: da un lato i mass media, che indipendentemente dai contenuti trasmessi assumono una funzione ideologizzante, abolendo qualunque elemento di novità e possibilità di apertura; dall’altro le macchine che, obbedendo alle leggi della fisica e non rispettando la legittima aspirazione alla libertà degli esseri umani, creano intorno agli individui un apparato colpevole di generare omologazione, standardizzazione e costrizione. Il progetto originario dell’uomo di dominare la natura si è rovesciato nel suo esatto opposto: nell’asservimento del soggetto e nella sua degradazione.
1.4. La fine del sogno: il Grande Fratello e la postmodernità Quando il 27 gennaio del 1945 vengono aperti i cancelli di Auschwitz e l’orrore dell’Olocausto appare in tutta la sua tragicità, il paradigma della modernità illuminata assiste sgomento al suo ultimo atto (Bauman 1989), mostrando al corso della storia che non solo il sonno, ma anche la veglia della ragione, quando diviene strumento di dominio, è capace di generare mostri. Con diabolica perizia, servendosi di un gigantesco apparato burocratico dominato dall’efficienza della razionalità strumentale, il nazismo è riuscito ad annientare ed eliminare milioni di uomini innocenti. La logica di potere e oppressione, che costituisce il lato d’ombra di una logica organizzatrice e sovraindividuale, nelle sue più drammatiche degenerazioni ha condotto all’esperienza della Germania hitleriana, della Russia stalinista, delle bombe atomiche statunitensi sganciate su Hiroshima e Nagasaki (Harvey 1989). A metà del Novecento cala così il sipario su una visione del mondo che per quasi due secoli aveva raccontato un’opposizione irriducibile tra luce e ombra, bene e male, offrendo all’uomo, guidato dalla ragione, la libertà di scegliere da quale parte stare. Sullo sfondo di intere città devastate dalle guerre, va in frantumi la perfezione dell’assioma cartesiano, basata sulla forza limpida e invincibile del pensiero razionale, sul princi-
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pio di non contraddizione, sulla potenza dei numeri, sull’idea di causaeffetto, sulla centralità del soggetto, sulla messa ai margini delle emozioni, dell’immaginario, dei sensi. Sul versante dell’identità, il motto della rivoluzione francese, Liberté, Égalité, Fraternité, ripetuto come un mantra, si deforma, prefigurando un sistema costituito da individui liberi di essere uguali, ma la cui uguaglianza, portata alle estreme conseguenze, si trasforma in un annullamento delle differenze e delle singolarità. Un paradosso filosofico, che originato dall’intenzione di democratizzare la società, finisce per dissimulare una sorta di dittatura della medietà, che avvilisce il sistema sociale come la cultura. L’aspirazione di liberare l’umano dalle catene del divino e dalle leggi della metafisica, perché non fosse più schiavo di forze misteriose e trascendenti, ha modificato in modo profondo la condizione dell’uomo, il suo modo di abitare il mondo. Una crescente razionalizzazione ha permesso di padroneggiare le cose attraverso il calcolo razionale (Weber 1922), ma la logica sottesa a questa filosofia di vita è divenuta sia la sostanza con cui è stata forgiata la burocrazia, sia la risorsa attraverso cui il mondo è stato illuminato a giorno. Superato l’abbaglio, però, e riaperti gli occhi prima offuscati da tanta luce, ciò che alla fine appare è un panorama desolante: la modernità della macchina e dell’acciaio, della parcellizzazione del lavoro, dell’esplorazione e della conquista, della ragione e del progresso ha fallito, non mantenendo la sua promesse de bonheur. Dall’inizio del Novecento una corsa costante al progresso aveva prodotto enormi trasformazioni sul piano politico, sociale ed economico. Treno, automobile, aereo, ma anche telefono, cinema e radio avevano dato l’impressione che il nostro pianeta non fosse poi così misterioso e ingovernabile. In modo altrettanto rapido, però, l’esplorazione era divenuta conquista e quindi oppressione, i confini degli Stati si erano trasformati in trincee, il pensiero si era mostrato capace di forgiare ideologie ipnotiche, in grado di spingere sull’orlo dell’abisso intere nazioni. La scienza e la tecnica, finalmente evolute e capaci di raggiungere obiettivi prima impensabili, si erano proiettate verso i traguardi di una conoscenza assoluta, priva di scrupoli e di freni etici, rinunciando così a quell’umanità che, dall’origine, ne era stata l’essenza più intima. 32
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Come per uno scherzo del destino, le stesse fondamenta su cui è stato costruito il progresso, in sostanza, si rivelano le basi da cui nasce la tragedia. L’atomo, non più inscindibile, da emblema della perseveranza umana nel superare i suoi stessi limiti si trasforma nel punto di partenza di una reazione a catena che sfugge al controllo del suo creatore. Anche la comunicazione che, attraverso la costruzione di sterminate reti fisiche, prima si è fatta esclusiva dello Stato, quindi del mercato per poi, infine, riuscire a fare il suo ingresso in ogni dimora di ogni singolo individuo (Flichy 1991), si è rivelata potenzialmente corruttibile e fragile, fino a essere convertita in una potente arma di propaganda, di controllo e di coercizione. Il Grande fratello, descritto in 1984 (Orwell 1949), con la sua visione opprimente e soffocante del mondo nuovo, ne rappresenta il simulacro romanzato: una sintesi agghiacciante di quanto si verifica dagli anni Venti fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale e, contemporaneamente, un monito allarmante per i decenni successivi. Nella seconda metà del Novecento, tuttavia, nonostante siano visibili i drammatici cortocircuiti che una modernizzazione incontrollata ha prodotto e alimentato, e le ferite inferte nello spirito e nei corpi siano destinate a restare a lungo nella memoria dei popoli, la volontà di sopravvivenza e di superamento delle tragedie vissute apre il cammino a un progetto collettivo di ricostruzione e riappacificazione, destinato, seppure con grande difficoltà, a rigenerare il mondo occidentale. Del resto, la fiducia nella scienza e nel progresso ha avviato e alimentato l’illusione di un cambiamento delle magnifiche sorti e progressive. Il metodo vincente, mediato dalle scienze esatte, esteso senza esitazioni anche alla natura umana e basato sull’oggettiva osservazione dei fatti, sulla ricerca di evidenze e regolarità, ha rafforzato la convinzione che la realtà sia conoscibile attraverso la definizione di leggi universali e modelli astratti, i quali, come per la fisica, le scienze naturali o la medicina, sembrano essere in grado di spiegare la totalità dei fenomeni. Einstein non scopre soltanto la formula essenziale dell’energia, ma anche i limiti di questo paradigma, che si sgretola di fronte a un relativismo capace di condizionare i meccanismi di funzionamento dell’universo, di rivelare la natura fallace della razionalità astratta e l’esistenza di un multiverso. La consapevolezza di questa miriade di punti di vista differenti, unitamente a una trasforma33
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zione delle forme sociali e culturali che ha luogo a partire dalla seconda metà del Novecento e che riconfigura concetti e categorie di analisi delle scienze sociali, comporta il progressivo esaurimento della devozione nelle grandi architetture ideologiche che prima riuscivano a ordinare gli spazi e i tempi della vita. La crisi e il conseguente ripensamento del paradigma razional-positivista contribuiscono a dissolvere la rigidità dei confini tra le dicotomie su cui era imperniata la filosofia moderna: mente e corpo, soggetto e oggetto, individuo e società, razionalità e immaginazione, mentre il campo delle scienze della comunicazione offre uno spazio di applicazione e riflessione per un pensiero più articolato e complesso. Le teorie apocalittiche sul potere dei media s’infrangono sugli scogli dei dati ottenuti dalle ricerche empiriche e di nuove riflessioni analitiche, attraverso cui si appura l’inesistenza di un nesso causale tra messaggi inviati dai media e reazioni suscitate all’interno di una massa che, al di fuori della teoria, non esiste. Ad avere voce in capitolo sono piuttosto i singoli individui, con le loro relazioni sociali, le loro caratteristiche psicologiche, le loro differenze culturali, che recepiscono in modo diverso gli stessi contenuti, reagendo sulla base di numerose variabili, ora oggetto di studio. I mezzi di comunicazione non sono, dunque, in grado di produrre cambiamenti immediati e reazioni omogenee sulle persone, ma solo effetti limitati, rafforzando in alcuni casi le opinioni già esistenti. Anche se intorno agli anni Sessanta si ritorna a discutere in merito al potere dei media, le teorie elaborate sono tutte orientate a cogliere effetti che possono prodursi solo nel lungo periodo e in concomitanza con altri fattori. L’unico elemento certo è che, in questa fase, il sapere e la comunicazione hanno, definitivamente, acquisito un ruolo centrale, tanto che l’elemento caratterizzante la nuova epoca diviene la conoscenza, la sua distribuzione e il potere che ruota attorno al possesso di beni immateriali (Touraine 1966). In questa metamorfosi, acquisiscono (o riacquisiscono) credito forme alternative d’interpretazione e di spiegazione (dalla superstizione al mito, alla fantasia), che, tornate dall’esilio in cui, simbolicamente, erano state relegate, rinvigoriscono un legame, mai realmente scisso, tra razionale e non razionale, etica ed estetica, reale e immaginario, dando vita a nuove narrazioni che vanno a colonizzare anche lo spazio dei media. 34
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La passione per il nuovo e il diverso ammanta di esotico ogni forma di ritualità: la religione e la filosofia si spogliano delle vesti sacre del pensiero occidentale e, scomponendosi in miriadi di credenze, si adoperano per rivoluzionare i codici razionalisti di una vita sociale programmata e scandita da tappe prestabilite. Le emozioni collettive, convogliate nelle grandi cerimonie mediali (Dayan, Katz 1992) che si svolgono attorno a incoronazioni, funerali, matrimoni, eventi sportivi che hanno per protagonisti le divinità pop di un nuovo pantheon postmoderno, riaggregano in determinate occasioni gran parte della società, dando vita a un sentimento empatico di com-passione, che coinvolge milioni di spettatori. La percezione del passaggio a una nuova epoca determina l’esigenza di dare un nome alla figurazione che si osserva, di mettere ordine nel caos di una costellazione inedita di categorie, concetti, immagini della realtà, di studiare i fenomeni che si presentano. Ma il moderno, condizione del presente, sempre intrinsecamente attuale, per sua stessa vocazione etimologica (l’aggettivo moderno è la traduzione dal tardo latino dotto modernum, e cioè attuale, recente, derivante a sua volta dall’avverbio modum, che significa ora, adesso) appare difficilmente descrivibile attraverso il ricorso a un unico termine o una singola definizione, capaci di fornire una misura del cambiamento in atto. Non è semplice capire se la modernità sia davvero finita e soprattutto cosa vi sia dopo: sociologi e filosofi tentano di rispondere a questo interrogativo, di individuare le coordinate, i punti di riferimento, le regole di ancoraggio, per interpretare quel che resta di un mondo oggetto di una mutazione quasi genetica. Ponendo l’accento su alcuni elementi di rottura rispetto al passato, s’inizia a parlare di postmodernità (Lyotard 1979): il sapere come totalità, le grandi narrazioni, le religioni e le ideologie (dal cristianesimo al comunismo) vengono delegittimati e spogliati della loro portata universale, lasciando il posto a una miriade di microstorie a misura d’uomo, di visioni, punti di vista, di voci dissonanti. Il superamento (o la crisi?) della modernità non coincide con la fine della conoscenza, ma con l’affermarsi di una nuova enciclopedia che comprende, allo stesso tempo, cultura alta e cultura bassa, medicina e omeopatia, Hegel e la zuppa Campbell, l’originale da collezione e le mille copie messe a disposizione dalla riproducibilità tecnica (Benjamin 1936). 35
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Se la libertà, nell’accezione moderna di dogma laico, conteneva in sé un vincolo prescrittivo alla scelta migliore (la più equilibrata, quella capace di garantire il massimo dell’utilità), nella postmodernità, invece, il soggetto è libero di prendere anche la decisione meno efficace. Optando per l’instabilità e l’indefinitezza, scegliendo di perdersi nell’ombra, di percorrere la strada più lunga e tortuosa solo per il piacere di un viaggio che non necessariamente è orientato a una meta lineare, l’individuo non è più l’Ulisse eroico e esploratore cantato da Omero, ma quello problematico e frammentato descritto da Joyce. Illudendosi di essere privo di condizionamenti, l’uomo muove i suoi passi all’interno di un sistema fluido, flessibile, in cui si mette in gioco, immagina altri mondi possibili, ma impara a convivere con la solitudine, la precarietà e l’incertezza. Una nuova arte (il Surrealismo) e nuovi artisti (Duchamp, Magritte, Dalì, De Chirico, etc.) raffigurano questo spaesamento e questa tensione verso l’immaginario: la libera associazione, la capacità sovversiva di mettere in relazione ciò che prima non lo era e una nuova idea del corpo come mezzo di comunicazione. In questo modo, in sostanza, la fine del sogno della modernità non equivale necessariamente al suo totale fallimento, ma all’inizio di una nuova costruzione del pensiero in cui convivono smarrimento e perplessità, materiale e immateriale, oggetto comune e opera d’arte. Per alcuni non si tratta neppure di una fine, ma di una radicalizzazione estrema, le cui conseguenze hanno enormemente accresciuto le opportunità di un’esistenza sicura, ma anche i rischi e i pericoli che ad essa sono connessi (Giddens 1990). La criticità legata all’uso del prefisso “post”, che individuerebbe un’ipotetica fase nettamente successiva alla modernità, viene aggirata ricorrendo alla definizione di tardo modernità, fondata sulla considerazione dei mutamenti prodotti dall’ulteriore ridefinizione delle tradizionali categorie spaziotemporali. Se in passato l’attività sociale era articolata attraverso interazioni faccia a faccia localizzate (dominate dalla presenza e da un forte senso del luogo), ora, invece, appare organizzata in termini di relazioni con altri assenti, disseminati per il mondo. È, tuttavia, proprio l’avvento delle tecnologie, e in particolar modo di quelle comunicative, a produrre questi effetti (Innis 1950): il carattere mediato dell’interazione (Thompson 1995) viene amplificato come mai prima e, di conseguenza, tutte le attività sociali e culturali, collettive e individuali, non appaiono più legate semplice36
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mente al tempo o al contesto in cui si svolgono (il quando e il dove), ma subiscono un processo di sradicamento (disembedding). Così, mentre lo spazio virtualmente si annulla e il tempo diviene sincronico, l’ipotesi futuribile di un villaggio globale (McLuhan 1968) si materializza non più come utopia dell’iperconnessione, ma sotto forma di globalizzazione. Un altro nome di quella stessa modernità che, una volta solida e imponente, adesso sembra sciogliersi intorno al suo nucleo di certezze e di conoscenze, trascinando con sé tradizioni, vincoli, strutture, istituzioni, norme e saperi, fino ad apparire desolatamente liquida (Bauman 2000). La società postmoderna o tardo moderna, così, pone le sue nuove fondamenta sul superamento del modello centralizzato del motore e della macchina e sulla sua sostituzione con quello della rete. L’uomo si riscopre sognatore, prima ancora che calcolatore (Bachelard 1943), ed è la comunicazione, con i suoi mezzi, con le sue tecnologie, con le opportunità che offre, a rivelarsi la più abile interprete di questo cambiamento: la vera erede del sogno illuminista, ormai infranto. La crescente centralità acquisita dai media arricchisce la dimensione della vita quotidiana, liberando definitivamente la sfera nascosta in cui ha luogo l’incessante creazione di utopie e distopie, tra credenze, desideri e sogni, ma anche nuovi incubi. I mezzi di comunicazione di massa, già utilizzati come poderose armi per la creazione di consenso da parte dei regimi totalitari, riscoprono una seconda natura che, nella costante oscillazione tra il piano dell’informazione e quello della relazione, trova nell’intrattenimento il veicolo per la costruzione di significati e il luogo di contrattazione tra saperi esperti e conoscenze profane, attori sociali e istituzioni, testi e contesti, norme e desideri. Attraverso i racconti che i media producono in merito a eventi, situazioni e momenti significativi, si creano aree di sovrapposizione tra una dimensione macro-sociale, istituzionale e pubblica, e una micro-sociale, personale e comunitaria, che se da un lato, nei casi migliori, valorizzano la memoria e le storie di vita, dall’altro alimentano le forme di voyeurismo e falso realismo. Nella comunicazione moderna, la cultura alfabetico-numerica, che collocava al centro il testo, la lettura, la riflessività, era statica, frontale, spazializzata, desensorializzata, orientata a dialogare con un soggetto con un’identità forte, uno spiccato senso del privato, una tendenza all’interio37
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rizzazione e all’introspezione. In quella post o tardo moderna si afferma una realtà dinamica, digitale, immersiva, virtuale, multimediale, ipertestuale, interattiva, incorporata. Alla prima oralità, se ne affianca una seconda (Ong 1982), legata sempre di più alle immagini, che privilegia il linguaggio audiovisivo alla scrittura e scardina l’organizzazione alfabetica della cultura per lasciare spazio a nuove modalità di racconto e rappresentazione. L’ipertesto (Mattelart 1994) segna il passaggio verso una nuova rivoluzione del rapporto tra Sé e mondo, tra conoscenza e realtà: una struttura “ad albero”, non più lineare, consecutiva, esprime metaforicamente la com-presenza di aspetti differenti, di modelli comunicativi non-gerarchici, circolari, simmetrici. Insieme all’accelerazione esponenziale delle innovazioni, la diffusione del digitale opera una traduzione della realtà materiale in onde, in energia, in informazione, andando al di là delle culture dello schermo, dissolvendo definitivamente le immagini in bit. Sono almeno quattro le categorie che si impongono in questo tipo di trasformazione: – – – –
l’interattività; la virtualità; la connettività; l’immersione.
Tutte costituiscono le caratteristiche principali della nostra comunicazione, quella che oggi permea il nostro vivere in società, il nostro relazionarci con gli altri, le nostra identità, la nostra costruzione della realtà. L’insieme di queste considerazioni costituisce il punto di arrivo del percorso che abbiamo cercato di delineare in poche pagine, lungo cui abbiamo voluto evidenziare l’evoluzione della comunicazione, in funzione del suo profondo legame con la modernità: il modo attraverso cui è riuscita a porsi al centro della società e delle pratiche degli individui che ne fanno parte. Arrivati a questo punto, tuttavia, pur accettando metaforicamente l’idea che la comunicazione abbia tagliato per prima il traguardo della modernità, ponendosi come struttura e, contemporaneamente, come ambiente, come mezzo e anche come fine, rimangono ancora altre questioni da affrontare. Dobbiamo, in sostanza, puntare a comprendere gli 38
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effetti che la comunicazione produce, gli aspetti che tende ad assumere e le molteplici configurazioni che attualmente stabilisce. Per questo, adesso è necessario interrogarsi sul perché sia così determinante studiare la comunicazione e su come sia possibile farlo.
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Capitolo secondo La comunicazione come oggetto di studio
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SIMONA ARIZIA, PAOLO FEDELI, SILVIA LEONZI
«[…] lo sguardo dell’uomo riesce a penetrare liberamente l’automatismo del mutamento storico soltanto se l’uomo stesso non guarda soltanto al presente immediato, ma alla lunga storia precedente dalla quale l’epoca sua è derivata». (N. ELIAS, La società degli individui, 1987) «All’improvviso non ci basta più soltanto dire, accese parole che si consumano in fretta o diventano ripetitive. Non basta neppure a chi le ascolta. Chi parla è insaziabile e insaziabile chi ascolta, chi parla vuole destare infinitamente l’attenzione dell’altro […] e chi ascolta vuole essere infinitamente distratto, vuole sentire e sapere sempre di più, anche se si tratta di cose inventate o false». (J. MARÍAS, Un cuore così bianco, 1999) «Fiabeschi: Senta professoressa, finiamola con questa farsa. Io non ho potuto studiare, mi dia diciotto perché sennò devo partire militare. Prof.: No. Fiabeschi: Come no... Perché no? Prof.: Perché lei non ha studiato. Fiabeschi: Ho capito, vabbè, però... lei mi punisce con un anno di militare perché non so Apocalipsi Nau». (R. DE MARIA, Paz!, 2002)
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2.1. La comunicazione come oggetto scientifico Parte della nostra riflessione in questo capitolo, incentrato sull’analisi di come la comunicazione costituisca un oggetto di studio e ricerca, riguarda, più o meno indirettamente, il ruolo della conoscenza nella società contemporanea, sulla base della convinzione che questa non costituisca un sistema chiuso, ma piuttosto una struttura aperta, in continua evoluzione e interazione con il sistema politico, sociale, economico, culturale. In generale, è opportuno partire dal chiedersi, anzitutto, se abbia senso, o meno, considerare la comunicazione come un oggetto scientifico a tutti gli effetti, o se piuttosto le fratture interne alla scienza contemporanea vadano esclusivamente in direzione di una dissoluzione delle basi fondanti del pensiero scientifico, mettendo in discussione la possibilità di ricomporre un quadro complessivo in cui modelli, teorie, paradigmi siano in grado di spiegare e interpretare i fenomeni considerati. Certamente, la costruzione di un’identità chiara e univoca appare ancora oggi in corso di definizione per le scienze della comunicazione, ma, allo stesso tempo, queste offrono un tragitto percorribile e in grado di arricchire le riflessioni sull’epistemologia delle scienze sociali. Contestualmente, l’evoluzione dei paradigmi della comunicazione, attraverso gli anni, non può che impedirci di propendere per una visione potenzialmente mistificatrice della pratica scientifica, suggerendoci, invece, di adottare una prospettiva più realistica e attenta al cambiamento. Soltanto valutandone l’operato nel lungo termine, infatti, si riesce a comprendere quanto la scienza possieda una natura flessibile e mutevole, tale da originare una relazione dinamica con il mondo che si impegna a descrivere. La crisi delle regole e dei principi che periodicamente rivoluzionano l’universo del sapere o, più limitatamente, le norme istitutive di una disciplina, anziché depotenziarne il metodo e neutralizzarne la validità, si trasforma, infatti, nel mezzo da usare per individuare nuovi strumenti per l’osservazione della realtà. Questa paradossale fragilità, effettivamente, è testimoniata da come il ruolo della scienza (e successivamente delle scienze della comunicazione), a partire dal secolo scorso, abbia subito alcune profonde modifiche, anche in funzione di quanto avvenuto nel contesto socioculturale di riferimento. Tesi e credenze che avevano rap41
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presentato in passato assiomi insindacabili sono venuti meno, mentre la fede in un sapere esatto ha ceduto il passo al dubbio e al sospetto, sfociando, in alcuni casi, in forme estreme di relativismo. La radicalizzazione di categorie e concetti, così, ha lasciato il posto a un tipo di conoscenza più ecologica e flessibile, pronta a riconsiderare i suoi contenuti e le relative interconnessioni: alla formula dell’aut aut, basata sulla contrapposizione e sull’esclusione, si è sostituita quella possibilista dell’et et, fondata sulla contiguità e sulla compresenza. Ciò nonostante, ogni scienza, per dirsi tale, deve essere in grado di definire il proprio oggetto di studio, ma questo si rivela un obiettivo quanto mai difficoltoso e non privo di rischi quando ci si allontana dai confini delle cosiddette scienze della natura, orientate a indagare fenomeni naturali e materiali, per addentrarsi nel territorio delle scienze umane e sociali, che si occupano, invece, di realtà culturali e immateriali. Facendo parte di quest’ultime, la comunicazione presenta alcune caratteristiche di mutevolezza e imprevedibilità che rendono particolarmente complesso fissarne i limiti in modo chiaro e univoco e definirne le traiettorie all’interno dello spazio sociale. A tali aspetti, che attengono all’essenza dell’oggetto comunicazione tout court, va ad aggiungersi la contemporaneità di un quadro generale in cui la pervasività dei media e la continua evoluzione delle tecnologie tendono a radicalizzare le incertezze concettuali, moltiplicando i significati e le connessioni tra tecnica, cultura e vita quotidiana. Prendiamone in considerazione, ad esempio, l’etimologia, riconducibile sia al greco antico, sia al latino. Il termine greco koinonia, che designa il concetto di comunità, viene assorbito dal latino attraverso la parola communio e cioè società/comunità. L’aggettivo latino communis, che vuol dire comune, pubblico, ordinario, è alla base del verbo communicare, composto dalla preposizione cum e dall’aggettivo munus, il cui iniziale significato è quello di condivisione di una carica. Nella sua forma di sostantivo munus, inoltre, può anche essere tradotto con il termine dono, aggiungendo un’ulteriore valenza, riguardante gli aspetti legati all’affettività e alle relazioni umane, il cui significato, mantenuto nel corso del tempo, richiama l’idea di reciprocità e dunque di partecipazione. Nel termine communicatio, derivante proprio da communicare, possiamo cogliere un’identica accezione: quella di una sostanziale messa in comune (di una carica, una 42
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proprietà, un privilegio, etc.), cui, progressivamente, è stata collegata l’idea di diffusione di un comportamento, di un pensiero o di una notizia. Dal punto di vista etimologico, pertanto, il significato essenziale che sembra contraddistinguere il termine “comunicazione” è quello di uno scambio (di parole, idee, contenuti, etc.) che avviene tra un numero variabile di soggetti. Oltre a quello originario, però, è necessario prendere in considerazione anche il senso più recente che tale parola ha assunto, cercando di capire quale sia l’utilizzo che ne viene fatto oggi: sfogliando un qualsiasi dizionario della lingua italiana è possibile rendersi conto di come i concetti e le descrizioni attribuite alla voce comunicazione siano cresciute in modo esponenziale, presupponendone la trasformazione in una sorta di vocabolo polisemico (informazione, informatica, marketing, pubblicità, tecnologia, relazione, dialogo, etc.). Come vedremo, in realtà, sono soprattutto due le macro-aree intorno a cui tendono ad aggregarsi le diverse definizioni: la prima più legata alle pratiche culturali, sociali, antropologiche, anche in termini di vita quotidiana dei soggetti; la seconda caratterizzata dalla centralità dell’innovazione e dalla messa in luce degli aspetti più tecnologici e strumentali. È chiaro, dunque, che studiare la comunicazione vuol dire confrontarsi con un oggetto indisciplinato, contraddittorio e mutevole, che sembra richiedere una pluralità di definizioni e continui aggiornamenti, tanti quanti sono gli orientamenti teorici implicati nell’analisi, nessuno dei quali, tuttavia, sembra riuscire a prevalere sugli altri. Il rischio che si corre nel circoscrivere sul piano concettuale un’entità dai confini così sfumati, allora, è quello di incorrere in descrizioni eccessivamente generiche e evanescenti da un lato, e in catalogazioni dai contorni fin troppo rigidi e limitativi dall’altro. Contemporaneamente, però, non possiamo ignorare il fatto che ciò che la comunicazione rappresenta si è innegabilmente posto come l’oggetto di studio di una scienza che, nel corso del tempo, è riuscita a definire le proprie coordinate, svincolandosi persino dai tentativi iniziali di altre discipline di occupare porzioni di conoscenza riconducibili a questo fenomeno. Tra i molti saperi che si sono dedicati allo studio della comunicazione (dalla logica alla retorica, alla filosofia del linguaggio, alla critica letteraria, etc.), prima che si delineasse un campo di studio più specifico, la 43
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sociologia ha certamente rappresentato la disciplina che più ha contribuito alla nascita delle scienze della comunicazione. Non è un caso, del resto, che, nonostante il passare del tempo, questi due ambiti disciplinari appaiano ancora accomunati non soltanto dall’interesse nei confronti dei processi di modernizzazione delle società contemporanee, quanto soprattutto da alcune caratteristiche derivanti dalla loro natura complessa e dalla necessità di risolvere la dialettica individuo-società. La sociologia, infatti, nasce esplicitamente dall’esigenza di comprendere come sia possibile fondare il legame sociale ed evitare il conflitto nel passaggio epocale dalla comunità alla società (Toennies 1887). La società rappresenta, quindi, l’oggetto d’interesse principale e il tentativo di descrivere la realtà, diversamente declinato attraverso l’adozione di varie prospettive teoriche, rimane essenzialmente un’astrazione, per quanto sia lungimirante la sensibilità dello studioso che s’impegna a tracciarne le coordinate e ad applicarne i postulati. In altre parole, tutti i tentativi di ricorrere a uno specifico concetto di società per interpretare le relazioni umane si sono rivelati comunque complessi, poiché nonostante sia possibile osservare i comportamenti collettivi e interattivi degli individui, rimane, tuttavia, una parte dell’individualità che risulta inevitabilmente svincolata dalle leggi e dalle norme, dai ruoli e dai modelli di comportamento, ma che pure coopera alla costruzione di ciò che ci circonda e al suo divenire (Mongardini 1992). Limitandosi a un’analisi statica dei differenti modelli di vita, a prescindere da quanto ci appaiano diffusi o auspicabili, analogamente a quanto accade per il concetto di comunicazione, anche per quello di società, si corre il rischio di produrre interpretazioni troppo generiche e valide soltanto sul piano teorico. Una possibile strategia per ovviare alla tendenza a considerare in maniera poco dinamica i rapporti tra gli uomini e le strutture sociali è quella di assumere una visuale prospettica, in grado di osservare un oggetto in movimento, focalizzandosi prevalentemente sui processi di socializzazione, anziché sulle caratteristiche acquisite, prediligendo le relazioni, gli scambi, la produzione di significati, la formazione di valori: in sostanza le pratiche messe in atto dai soggetti nei confronti della società e viceversa. È proprio in funzione degli intrecci, delle interdipendenze, degli infiniti e impercettibili cambiamenti intervenuti nel rapporto dell’individuo con se 44
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stesso, con l’Altro e con il mondo, che si è prodotta una gamma di differenti configurazioni, tale da caratterizzare i diversi stadi della storia sociale e comunicativa dell’uomo, in un’ottica profondamente processuale. Un’ulteriore criticità da affrontare nell’analisi delle forme sociali (e comunicative), oltre alla necessità di considerare l’esistenza di prospettive complementari e compresenti attraverso cui è possibile descrivere la società, deriva certamente dalla partecipazione dell’osservatore all’oggetto osservato, al suo prendere parte ai processi e alle relazioni che si propone di studiare. Come ormai ampiamente dimostrato dagli studi della fisica quantistica, infatti, in qualunque esperimento i due termini del rapporto non sono mai immuni da reciproche influenze. In questo senso, se per lo studioso di scienze umane e sociali non è facile liberarsi dai condizionamenti che lo collocano in una determinata posizione e che lo spingono ad assumere certi valori ed è fondamentale, oltre all’onestà intellettuale indispensabile per un buon ricercatore cosciente di essere, comunque, portatore di valori e giudizi, raggiungere la consapevolezza di poter afferrare soltanto alcuni frammenti di una realtà complessa e sfuggente, abbandonando ogni pretesa di esaustività. Uno studioso di sociologia, come di scienze della comunicazione, in sostanza, deve riuscire a trovare il necessario distacco per osservare il proprio oggetto di studio, ma, d’altra parte, deve sviluppare, proprio in funzione della sua stessa appartenenza al mondo, una visuale adeguatamente critica anche sul proprio operato. Un’altra questione decisiva riguarda lo scarto che si genera tra una dimensione collettiva (macro) e una individuale (micro): se per quanto riguarda la sociologia tale problematica è stata affrontata assumendo posizioni teoriche contrastanti, centrate talvolta sul sistema sociale, talvolta sul singolo, fino all’affermazione di più recenti formulazioni di carattere ecologico e figurazionale, in cui si fa riferimento a una complessa società degli individui (Elias 1987), le scienze della comunicazione hanno mostrato una certa reticenza a propendere per una prospettiva che tenesse conto simultaneamente degli aspetti macro-comunicativi e di quelli più prettamente micro-comunicativi. Di questi ultimi, in particolare, si sono generalmente occupate discipline come la sociolinguistica o la psicologia sociale, puntando alla comprensione degli aspetti legati al linguaggio o all’interiorità del soggetto coinvolto nelle relazioni sociali. La progressi45
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va creazione di reti complesse, sempre più orientate all’interconnessione e all’estensione dei flussi comunicativi, ha indotto inevitabilmente a concentrare l’attenzione sul versante macro-comunicativo, trascurando il fatto che, all’interno di questi processi, in ogni caso, ad agire, creare, interpretare sono gli esseri umani, al tempo stesso moneta e conio degli scambi sociali, per quanto ampi e globali questi possano essere. Proprio a causa della scarsa confidenza con un modello di tipo figurazionale, in cui sono coinvolti individui e istituzioni, una delle maggiori difficoltà incontrate oggi dagli studiosi di comunicazione riguarda il ruolo dei fruitori, che appaiono sempre più mobili e sempre meno influenzati nella loro azione e nelle loro rappresentazioni da posizioni fisse e prestabilite, muovendosi piuttosto all’interno di nuvole comunicative interconnesse. Si pensi a quanto le tecnologie e i nuovi supporti mediali ridefiniscano le pratiche quotidiane degli individui, spingendoli a intrecciare le loro vite con prodotti che assomigliano sempre di più a protesi del corpo umano (McLuhan 1964), ritenute spesso indispensabili per mantenersi in contatto costante con l’ambiente. D’altra parte, le destinazioni d’uso delle tecnologie, le differenti forme di domesticazione e adattamento all’ambiente della vita quotidiana sono frutto di elaborazioni continue che partono dai bisogni dei soggetti che adoperano quegli strumenti tecnologici. I diversi elementi del processo comunicativo sono dunque stati connessi tra loro in modi differenti, che, come nei mosaici prodotti da un caleidoscopio, hanno generato diverse configurazioni, ognuna maggiormente centrata su uno o più d’uno dei fattori presi in considerazione. Nello specifico, l’eredità derivante dal paradigma sviluppato dalla modernità ha coinciso con la costruzione di modelli centrati su una visione più tecnica e strumentale dei flussi comunicativi. Al contrario, le influenze culturali, provenienti, oltre che dal contributo di altre discipline, da una visione che potremmo definire tardo-moderna, più centrata sulle incertezze del senso e del significato, hanno dato origine a un paradigma che valorizza gli elementi della relazione, dello scambio e dell’interpretazione. Le pratiche comunicative che hanno accompagnato l’avventura dell’uomo e la sua lotta per addomesticare il mondo, attraverso l’uso di tecniche e artefatti, inventati, costruiti, perfezionati, adattati, hanno permesso di entrare in contatto con l’altro, mediante i gesti e poi il linguaggio, 46
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di conoscere se stessi, nello spazio che va dall’immediatezza delle emozioni alla riflessività dei pensieri e, infine, di costruire la realtà sociale nella sua totalità. La ricchezza e l’eterogeneità dei significati assunti dalla comunicazione nel corso di un’evoluzione, spesso discontinua per intensità e velocità di cambiamento, possono essere affrontate soltanto partendo dalla ricerca di alcuni elementi riconoscibili e ricorrenti, allo scopo di far emergere la presenza di tipi-ideali, di modelli interpretativi, indispensabili a orientarci e a ridurre la complessità. È chiaro che, proprio trattandosi di idealtipi, siamo pur sempre in presenza di astrazioni concettuali, di strumenti da utilizzare con cautela, nella consapevolezza che la comunicazione, essendo coessenziale alla natura umana, conserva sempre una quota di inconoscibilità e di contraddittorietà che sfugge a ogni tentativo di essere racchiusa entro formule generali e ripetibili. L’imprevedibilità e la mutevolezza insite nell’agire comunicativo degli esseri umani e le trasformazioni storico-sociali di un multiverso, le cui coordinate rendono queste azioni sempre più dinamiche, non possono costituire un limite invalicabile per la ricerca e per l’elaborazione teorica. I molti e numerosi approcci sviluppati dagli studiosi che si sono impegnati a delimitare questo territorio hanno avuto ragione delle difficoltà insite in una sfera dell’agire umano tanto ricca di implicazioni e possibili declinazioni.
2.2. Verso le scienze della comunicazione Le problematicità cui abbiamo accennato finora riguardano sia lo studio della società in generale, sia quello della comunicazione che, nello specifico, si occupa delle dinamiche di interazione tra gli esseri umani all’interno di un mondo sempre più complesso e iperconnesso. Nel caso dei fenomeni comunicativi, inoltre, entra in gioco anche un elemento fondamentale: il fatto che la comunicazione sia divenuta una sorta di prerequisito della società contemporanea. Vale a dire che esiste un legame diretto e essenziale tra le scienze della comunicazione e quella che ormai possiamo definire la società della comunicazione. Da un lato è possibile descrivere questa figurazione sociale solo
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facendo ricorso agli studi che si occupano di comunicazione, dall’altro la definizione che ne diamo nasce dalla semplice presa d’atto di una serie di caratteristiche che collocano la comunicazione al centro dei processi sociali e culturali della contemporaneità (Rivoltella 1998). Ed è anche in ragione di questa relazione, in cui le pratiche comunicative rivestono un ruolo performativo e caratterizzante, che lo studio delle dinamiche e dei processi che riguardano la società della comunicazione ha necessariamente provocato una revisione generale da parte delle altre scienze sociali, rivelandosi come un fondamentale vettore di cambiamento, da cui partire per un aggiornamento di categorie e concetti tradizionalmente usati per descrivere la realtà (Savarese 2004). Sul versante della teoria, attraverso l’aggiornamento di modelli e paradigmi e istituendo nuove influenze e relazioni, la comunicazione ha cambiato profondamente le regole del gioco e i modi di procedere della ricerca scientifica; sul versante della vita quotidiana, i mutamenti radicali indotti da pratiche comunicative sempre più estese e articolate, l’aumento delle competenze, la moltiplicazione e la semplificazione dei canali trasmissivi hanno modificato tradizioni, abitudini e comportamenti degli attori sociali. Consideriamo, ad esempio, un’esperienza relativamente recente come quella riguardante le applicazioni per smartphone, che si trasformano in veri e propri fenomeni virali, in “tormentoni” (come le ultime manie, in ordine di tempo, di Ruzzle e poi di Quiz cross) capaci di condizionare il linguaggio e di creare contatti interpersonali, di emergere dai confini della rete e approdare alle relazioni face to face, in uno scambio continuo tra spazio esteso e realtà quotidiana, tra pratiche tecnologiche e creatività individuale. Le trasformazioni in atto, dunque, non si limitano alla sfera della conoscenza: potremmo quasi sostenere che ci troviamo a vivere una fase di transizione in cui, in un certo senso, la velocità del fare supera quella del sapere, in cui le applicazioni tecnologiche, i loro usi domestici e privati, le pratiche sociali quotidiane che le accompagnano, si stendono sulle vecchie mappe sociali come un velo troppo corto, offuscando le tradizionali coordinate e lasciando intravedere solo una parte di ciò che si sta verificando. I significativi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nell’universo della comunicazione appaiono più profondi della maggior parte dei mutamenti avvenuti nelle epoche precedenti sia per ampiezza, sia per 48
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intensità, modificando non solo gli assetti sociali, ma anche alcuni degli aspetti più intimi e personali della nostra esistenza. Pensiamo al modo in cui le macchine in grado di elaborare e trasmettere informazioni, essendosi in parte ibridate con gli esseri umani, hanno modificato radicalmente le pratiche del sapere: mentre in precedenza la scienza ricorreva prevalentemente a modelli di tipo matematico e a formulazioni astratte, oggi i ricercatori sperimentano sempre più spesso percorsi conoscitivi fondati sulla simulazione, facendo assumere alla pratica scientifica un carattere sempre più pratico, basato sul fare (Longo 2005). La transizione verso un tipo di conoscenza in cui le tecnologie assumono diversi significati in relazione alle pratiche dei soggetti che le utilizzano e in cui, viceversa, gli individui attribuiscono senso e significato al tempo e allo spazio nella loro quotidianità anche in funzione dei cambiamenti offerti dalle tecniche della comunicazione, ci proietta oggi verso un mondo nuovo, nel quale ciò che accade non riesce ancora a essere imbrigliato all’interno di modelli e paradigmi scientifici unificanti. Malgrado la sua presenza diffusa e costante nelle nostre società, o forse proprio in ragione di questa pervasività, ciò che sappiamo della comunicazione, paradossalmente, si rivela poco e molto: conosciamo tutto e non conosciamo nulla. Del resto, non esiste niente di così complesso da comprendere come ciò che si rivela abituale e, inoltre, oggi è divenuto estremamente complicato analizzare la vastità di un universo in cui le antiche categorie concettuali, che avevano orientato la comprensione della realtà, sembrano dissolversi nelle reti, nei contatti, nelle connessioni, nelle tecnologie, in cui tutti siamo implicati. Nonostante lo studio della comunicazione abbia conquistato nel tempo una propria relativa autonomia disciplinare, dunque, la fondazione di una teoria generale al momento sembra ancora lontana, perlomeno nella forma omnicomprensiva immaginata da una concezione usualmente intesa di teoria. Il percorso, relativamente recente, di questa disciplina, trova un ideale punto di origine nella prima metà del secolo scorso, principalmente negli Stati Uniti, dove la Communication Research ha inaugurato una tradizione di ricerca volta a collocare lo studio dei fenomeni comunicativi all’interno di un frame che potesse renderli percepibili, riconoscibili e analizzabili. La nascita dei media studies, allora, ha costituito un fondamentale punto di 49
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svolta in campo scientifico, caratterizzato, nella sua prima fase, dal tentativo di ricalcare, almeno in parte, alcuni presupposti delle discipline cosiddette hard, tanto sul piano teorico, quanto su quello empirico. Molto sinteticamente, potremmo dire che a un periodo iniziale in cui la comunicazione e i suoi effetti sono stati di fatto abbandonati a mere speculazioni di carattere filosofico e intellettuale, in concomitanza con l’ascesa dei movimenti di massa e con la diffusione del cinema e della radio di propaganda, ne è seguito uno caratterizzato da un forte empirismo, che ha messo in dubbio alcune delle ipotesi formulate in precedenza, collocando al centro della scena i gruppi sociali e le relazioni interpersonali (Katz, Lazarsfeld 1955). Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, nelle scienze della comunicazione, alla sociologia e alla psicologia si è affiancata la semiotica, disciplina in grado di ridefinire la posizione del fruitore all’interno del processo di consumo, che, attraverso lo sviluppo dei Cultural Studies, ha offerto un fondamentale contributo allo studio dei media. In questo periodo, particolarmente rilevante per la fondazione delle scienze della comunicazione, un sistema disciplinare ancora giovane è riuscito a raggiungere un livello più sofisticato di indagine empirica, istituzionalizzandosi al tempo stesso all’interno di un numero sempre più elevato di contesti universitari. Negli anni successivi gli studi sulla comunicazione si sono concentrati soprattutto sugli effetti mediali prodotti nel lungo periodo. Tra gli approcci più rilevanti, un ruolo estremamente significativo, anche per i suoi successivi sviluppi, è stato assunto dalla teoria degli usi e gratificazioni (Blumler, Katz 1974), concentrata sull’analisi delle motivazioni e dei bisogni (psicologicamente e socialmente determinati) che inducono l’individuo all’adozione di particolari comportamenti culturali. Analogamente, la teoria della coltivazione ha messo a punto un’interessante prospettiva per l’analisi dei flussi comunicativi (Morgan 2002), sottolineando come i più forti consumatori mediali (ad esempio gli assidui spettatori televisivi) possano correre il rischio, soprattutto nel caso di una diminuzione delle loro occasioni di interazione diretta (parlare con un amico, condividere un contesto di lavoro, etc.), di sovrapporre le forme (telegiornali, film, fiction) della realtà mediata a quelle della vita concreta. In Italia, più o meno nello stesso periodo, gli studi sulla comunicazione cominciano a diffondersi in modo sempre più consistente. Il volume Apocalittici e integrati (Eco 1964) ha il merito di legittimare anche in 50
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ambito universitario molti prodotti culturali fino ad allora considerati marginali dalla cultura intellettuale, come i fumetti e la musica popolare. Nel 1968 viene tradotto in italiano Personal Influence di Katz e Lazarsfeld, testo fondativo delle scienze della comunicazione, capace di avviare, come vedremo più avanti, una sorta di rivoluzione concettuale riguardante gli approcci di studio e di affiancare alla figura del ricercatore innovatore quella dell’intellettuale imprenditore, moderno e “ingaggiato” nella proposta di un vero e proprio modello di organizzazione della ricerca aperto alla committenza (Morcellini 2012; Pollak 1979; Morrison 2006). I lavori successivi di altri autori testimoniano la crescente attenzione nei confronti della comunicazione, anche nel nostro Paese, dove i primi Corsi di Laurea e le prime Facoltà dedicate si diffondono dagli anni Novanta in poi. In anni più recenti nuovi contributi si sono confrontati da un lato con la necessità di svincolarsi dai risultati parziali delle indagini condotte nel breve periodo, dall’altro con la difficoltà di condurre ricerche dedicate ad analizzare con esattezza gli effetti prodotti nel lungo periodo. Allo stesso tempo, alla luce della consapevolezza di non poter costruire e conservare nel tempo un unico paradigma interpretativo e epistemologico, è stato avviato anche un processo dialettico che ha scandito fasi alternanti, durante cui modelli dominanti sono stati sostituiti da altri spesso in profonda opposizione, per poi risorgere di nuovo, magari rivisitati e aggiornati alla luce dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici intervenuti nel frattempo (Ciofalo 2007).
2.3. Oltre il pensiero debole della comunicazione Non c’è dubbio che per le scienze sociali e umane, cui la comunicazione in quanto oggetto di studio appartiene di diritto, la difficoltà di giungere a una visione unitaria e incontrovertibile divenga ancora più evidente considerando come la condizione del sapere nelle società occidentali sia andata profondamente mutando nel corso del tempo (Lyotard 1979). La crisi di quei saperi, che costituivano la base della coesione sociale, delle ideologie (e perfino delle utopie rivoluzionarie) del secolo scorso da un
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lato, e la frammentazione dell’esperienza umana nella modernità liquida, individualizzata e incerta dall’altro, hanno favorito la diffusione di forme di eccessivo relativismo e di de-oggettivizzazione della realtà, definibili nei termini di pensiero debole (Vattimo, Rovatti 1989). L’adesione, tipicamente postmoderna, a una visione secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni, in sostanza, ha avvalorato l’idea che il mondo reale esistesse solo in virtù dell’azione interpretativa dell’individuo, in netto contrasto con quanto sostenuto, invece, dal positivismo, teso all’analisi e alla spiegazione dei fenomeni attraverso una logica causale. Riprendendo il titolo di un film di Akira Kurosawa, potremmo dire che quello che sperimentiamo nella società contemporanea è una sorta di effetto Rashomon. All’interno della pellicola del 1950, uno stesso evento (l’assassinio di un samurai) è oggetto di differenti versioni elaborate da diversi testimoni, i quali, nel raccontare il loro punto di vista, forniscono soltanto una rappresentazione di quanto accaduto, trasformando l’ideale unicità dell’accaduto nella somma articolata dei frammenti da cui appare composto. L’espediente narrativo utilizzato, in realtà, ci offre un’esemplificazione suggestiva di come la realtà possa opacizzarsi, smettendo di fondarsi su un unico statuto di veridicità, fino a porsi come il risultato di tante possibili ricostruzioni, tutte ugualmente valide e verosimili. In un mondo in cui la nostra esperienza diretta non costituisce più il filtro principale per l’acquisizione di conoscenze, diviene fondamentale affrontare la questione relativa a quale sia la verità (su una persona, un fatto, etc.), se l’unico modo per accedervi è offerto da forme mediate (discorsi, parole, immagini, interpretazioni, etc.). A tale proposito, la comunicazione possiede indiscutibilmente la capacità di rendere opachi (blurred) i confini che tradizionalmente separano i gruppi sociali, portando, ad esempio, a una ridefinizione dell’identità di genere e a una corrosione del principio di autorità (Meyrowitz 1985). Secondo alcuni autori, in altre parole, l’apparente democratizzazione realizzata dalla comunicazione, avvenuta ad esempio in funzione dell’abbattimento della distinzione tra l’alta cultura e la cultura di massa (Gans 1974), nasconde il pericolo di un indebolimento senza precedenti dei valori normativi (Perniola 2004; Ferraris 2012). Del resto, nel panorama dell’industria culturale, la tendenza a creare forme di conversazioni che ruotano attorno a versioni molteplici di uno 52
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stesso evento non è un aspetto riducibile soltanto alla dimensione delle narrazioni finzionali, ma riguarda una pluralità di prodotti culturali. Consideriamo il talk show: in questo genere di intrattenimento televisivo, soggetti diversi, con visioni politiche, ideologiche, culturali differenti, si trovano a discutere di una data situazione, all’interno di una particolare cornice mediale, perseguendo, come fine ultimo, non certo la ricerca della verità, quanto piuttosto la possibilità di generare e alimentare una discussione (infinita), a partire da posizioni inconciliabili. Così, certamente, nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del febbraio 2013, è possibile ipotizzare che, tra le motivazioni che hanno spinto Beppe Grillo a vietare ai componenti del Movimento5Stelle di partecipare a questo tipo di trasmissioni, vi sia stata la consapevolezza che la tradizionale formula del dibattito aperto (fornire a tutti la stessa possibilità di intervenire) sia definitivamente degenerata nel suo opposto: anarchia discorsiva o, peggio, vuota retorica (Silverstone 1999). Divenuto ormai una sorta di format cannibale, infatti, un qualsiasi talk show avrebbe potuto fagocitare gli esponenti del movimento, stritolandoli nel suo automatismo di apparente dialogicità, rendendoli identici a tutti gli altri, e quindi annullando, agli occhi degli spettatori, la loro ostentata diversità rispetto ai politici di professione. Il pensiero debole, quindi, nato come tentativo di emancipazione, come possibilità di liberarsi dal peso di categorie insuperabili, attraverso la moltiplicazione e ibridazione delle pratiche comunicative, si è radicalizzato in alcune sue espressioni più rilevanti, rivelando un altro lato della medaglia, che poco ha davvero a che fare con più elevate possibilità di espressione e di conoscenza. Il crescente overload di contenuti mediali, infatti, produce il rischio che la supremazia delle interpretazioni sulla realtà possa trasformarsi nel successo della retorica e, dunque, nell’attribuzione di un potere superiore al più forte: a chi, avendo maggiori possibilità economiche, culturali, simboliche, riesce a controllare a proprio vantaggio il flusso comunicativo, facendo prevalere una particolare versione dei fatti. Come accade, ad esempio, nel film Sesso e potere (1997), al cui interno viene sostanzialmente messa in scena la persistente capacità della politica di influenzare i media e di manipolare gli spettatori. Infatti, pur di distrarre l’opinione pubblica dallo scandalo sessuale che rischia di travol53
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gere il Presidente uscente degli Stati Uniti nel corso della campagna elettorale per il suo secondo mandato, lo staff della Casa Bianca interpella una sorta di spin doctor (Robert De Niro), che decide di inventare una guerra contro un Paese accusato di ospitare terroristi, coinvolgendo il produttore cinematografico Stanley Moss (Dustin Hoffman). Paradossale e pungente, la pellicola, insinuando, neanche troppo velatamente, dubbi e sospetti sulla gestione d’importanti crisi politiche (da Bill Clinton in poi), riflette sulle modalità attraverso cui i media sono in grado di modificare l’essenza stessa della nostra realtà: alterando i confini tra vero e verosimile; facendo prevalere opinioni e interessi di alcuni a discapito di altri; proponendo cornici interpretative e contenuti in grado di catturare (e quindi di distogliere) l’attenzione del pubblico. Un suggestivo esempio di come, anche in una situazione di apparente e completa libertà comunicativa, garantita dalla pluralità delle fonti e dei canali, oltre che dallo sviluppo di una più elevata capacità di scelta e di critica da parte degli individui, perduri il rischio di un subdolo controllo di pochi su molti. Un rischio che, dal punto di vista dello studio e della ricerca sulla comunicazione, viene amplificato anche dalla crescente difficoltà di fare riferimento a strumenti adatti per comprendere la complessità dei fenomeni e dei loro effetti. Il nostro presente ci appare, infatti, come il risultato complicato della composizione, dell’incastro e della sovrapposizione di pratiche, modalità, soggetti e oggetti che tendono a sfuggire agli stessi nomi con cui si vorrebbe indicarli, descriverli. Persino a dispetto della condivisione (spesso problematica) dei termini che circolano nella comunità scientifica, quello che sembra profilarsi (in una fase che forse possiamo considerare di transizione?) è una paradossale situazione in cui le nostre parole sembrano non essere più adatte a rappresentare le cose. Le categorie interpretative che hanno guidato lo sviluppo critico e teorico delle scienze sociali, poi ereditate dalle scienze della comunicazione, con il passare del tempo, infatti, hanno perso la loro capacità di comprendere e spiegare le forme della vita sociale. In una società in continuo cambiamento, anche secondo i ritmi dettati dall’innovazione tecnologica, molti concetti derivanti dalla sociologia classica (come ad esempio genere, status, ruolo, classe sociale, etc.) devono oggi essere sottoposti a un complessivo processo di revisione e aggiornamento del loro significato. Ormai distaccati dai paradigmi scientifici che 54
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li hanno prodotti, essi si collocano in un non luogo del sapere, rischiando di trasformarsi in vere e proprie categorie zombie (Beck 1986): create per descrivere realtà del passato, oggi profondamente inaridite, aspirano a essere vive dal punto di vista teorico, ma si dimostrano di utilizzo sempre più difficile, rivelando ampi margini di scostamento dalla realtà. Studiare la comunicazione per chi, oggi, vive nella società della comunicazione, significa allora affinare gli strumenti della conoscenza, trovare nuove parole per descrivere nuove cose, senza aver paura di mettere in discussione concetti che ci sembrano inadeguati, ma di cui non si crede di poter fare a meno. Nella nostra epoca, resa più fluida nelle strutture e più incerta nelle definizioni delle categorie e dei concetti che le scienze della comunicazione impiegano per descrivere e interpretare la realtà, diviene fondamentale costruire nuovi universi di significati, non tanto nel chiuso dei laboratori, ma a partire dall’osservazione, l’analisi e l’interpretazione delle pratiche che i soggetti svolgono nella vita quotidiana, delle procedure utilizzate dai saperi e dai sistemi esperti, delle applicazioni tecnologiche e della loro domesticazione. Il percorso di revisione delle tipologie interpretative che utilizziamo per comprendere la realtà deve, allora, fondarsi da un lato sulla pratica della ricerca e dall’altro sulla sfida di sperimentare aggiornamenti e adeguamenti dei concetti teorici indispensabili a guidare le analisi empiriche. La consapevolezza di non poter raggiungere un tipo di conoscenza assoluta e completa, pur senza abbandonare l’aspirazione a una conoscenza ecologica, vale a dire non riduttiva e non frammentata, non costituisce un fallimento. Al contrario si pone come l’essenza più specifica di un nuovo pensiero complesso (Morin 1990) che, attraverso il dubbio, la capacità critica e l’incertezza costituisce probabilmente l’antidoto più efficace al dilagare di un pensiero altrimenti eccessivamente debole.
2.4. La comunicazione tra scienza e immaginario Non esiste attività umana esente da errori, e neanche la pratica scientifica si sottrae a questa regola. Partendo da tale presupposto, è possibile
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sostenere che il pensiero debba contemplare la possibilità dell’errore, sulla base della necessità di una scienza con coscienza: un metodo indispensabile per ricostruire e interpretare la realtà attraverso l’uso della razionalità critica. La conoscenza in quanto costruzione sociale non può esistere al di fuori di un contesto di interconnessioni che prevede l’inclusione di esperienze di vita vissuta, aspetti emotivi, modelli culturali. Riferendoci ancora al paradigma del pensiero complesso, una sorta di antidoto alla semplificazione e al riduzionismo positivista, è opportuno restituire il giusto rilievo ad alcuni aspetti della conoscenza tradizionalmente messi in disparte dal paradigma della modernità. Attraverso questo capovolgimento di prospettiva, che investe nuovi ambiti dell’apprendimento, apre a nuovi spazi del sapere, accenna a nuove categorie e a nuovi linguaggi, prende forma un nuovo oggetto scientifico: l’immaginario. L’origine di questo termine riconduce immediatamente al concetto di immagine, in cui convivono due differenti nature, la realtà e la rappresentazione. Se da un lato l’immagine restituisce l’aspetto di qualcosa in assenza, dall’altro la capacità creativa delle immagini può rendere reale anche ciò che non lo è, o per lo meno produrre degli effetti concreti. Per la loro doppiezza e ambiguità, le immagini sono da sempre state considerate pericolose e sovversive, poiché in esse risiede la possibilità di prospettare altri mondi realizzabili e soluzioni imprevedibili, e quindi di manifestare una volontà sovversiva nei confronti di ciò che è già dato. In passato, a segnare il confine tra reale e immaginario, tra scienze esatte e elucubrazioni fantastiche, era stata la configurazione storica assunta dalle forme culturali, politiche e filosofiche di quella modernità che aveva fatto delle dicotomie di soggetto e oggetto, corpo e anima, ragione e sentimento, immagine e rappresentazione i suoi assiomi principali. Oggi i miti, la fantasia, l’immaginario non costituiscono più deviazioni erronee dal pensiero razionale, ma un tratto fondamentale della realtà con cui è necessario dialogare e confrontarsi, partendo dal presupposto che la scienza e l’immaginario compongono insieme l’universo simbolico di cui si nutre l’individuo (Leonzi 2011), anche nelle pratiche più semplici e abitudinarie. Così, ad esempio, la notte non è più solo un intervallo di riposo che separa le giornate lavorative, ma un terreno da esplorare: per i palinsesti 56
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televisivi, le attività commerciali, le giovani generazioni che si muovono con disinvoltura nei territori colonizzati dai media e dalla società dei consumi. L’ombra, l’oscurità, il nero, il lato più misterioso, e a volte pericoloso, di questo emisfero notturno della vita quotidiana, trovano la loro più esplicita forma di espressione sul piano narrativo attraverso l’indiscutibile centralità ormai assunta dal noir. Un meta-genere che da qualche anno sembra espandersi nell’universo del racconto e permeare media, linguaggi e formati diversi. Uno spazio/tempo trasversale, caratterizzato da personaggi ambigui, storie criminali e uno sguardo acuto sui misteri della storia e della cronaca, che riassume significati e valori tipici di un certo modo di raccontare la società. È così che pancia, cuore e ventre diventano i vettori di una nuova il-logica del sentimento (Maffesoli 1993), che non risparmia neanche le alte cariche degli Stati, la politica, le tecnologie, attraverso il tam tam di media, capaci di creare simulacri e emozioni. Un dualismo, apparentemente irriducibile, quello tra razionalità e immaginazione, che, ad esempio, è descritto in modo suggestivo nel film Il mistero di Sleepy Hollow (1999), non a caso diretto da un regista immaginifico (Tim Burton), impegnato a raccontare personaggi, luoghi e storie che mettono in discussione i canoni della realtà. Nella pellicola, ambientata alla fine del ’700, vengono metaforicamente mostrati i primi passi compiuti dalla scienza, prima ancora che si potesse configurare come tale: l’agente di polizia Ichabod Crane (Johnny Depp) viene inviato a compiere un’indagine sulle vittime di un presunto cavaliere senza testa, nella piccola comunità di Sleepy Hollow. Il cavaliere senza testa è una metafora dell’invisibile, dell’inorganico, del disagio psicologico: l’anima tormentata di un individuo che, pur essendo morto, non ha ancora abbandonato il mondo dei vivi. Il suo strazio si materializza, simbolicamente, nella testa che gli è stata sottratta, e il racconto delle sue (dis)avventure si svolge all’interno di uno spazio scenico comunitario, gotico, quasi fiabesco. Il personaggio dell’investigatore, invece, scettico e diffidente nei confronti degli avvenimenti, e soprattutto della superstizione che li circonda, nega l’esistenza del mostro, aggrappandosi con determinazione agli strumenti offerti da una scienza investigativa ancora immatura e ingenua. Fino a quando guarda il mondo fantasmagorico che lo circonda attraverso le lenti di una (appa57
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rentemente) infallibile logica razionale, non può riuscire ad afferrarne il senso, rimanendone schiacciato. L’unica possibilità di risolvere il caso è quella di ampliare la propria percezione, affiancando appunto alla scienza e alla razionalità l’immaginario e l’irrazionalità. Seppure da una prospettiva differente e con esiti completamente diversi, la medesima dinamica costituisce il sottotesto narrativo di un altro film, The prestige (2006), ambientato nella Londra del XIX secolo. L’intricata struttura narrativa, ideata dal regista, mette in scena i rapporti tra illusionismo e scienza, magia e fantastico, anche attraverso il racconto, seppure marginale, delle alterne fortune di Nikola Tesla, ingegnere e studioso dell’elettromagnetismo, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Nelle figure dei due protagonisti, entrambi maghi e illusionisti, Alfred Borden (Christian Bale) e Robert Angier (Hugh Jackman), converge l’irrisolta dialettica che contrappone la natura alla cultura, il mito alla ragione. Il primo, di umili origini, per realizzare uno spettacolo di magia di successo, si affida alla collaborazione del fratello gemello di cui quasi tutti ignorano l’esistenza, dovendosi però accontentare, per mantenere il segreto, di vivere una vita a metà, di cui può godere solo piccoli frammenti. Il secondo, un nobile, si affida invece alla scienza, utilizzando nuovi strumenti tecnologici per raggiungere il medesimo risultato, trasformandosi alla fine in un assassino. La loro ambizione irrefrenabile, la riuscita del prestigio, ciò che per il pubblico è inatteso, inaspettato, li condanna a una sconfitta, sullo sfondo di uno scenario al cui interno scienza e illusione si confondono di fronte agli occhi avidi del pubblico (quello rappresentato nel film, come quello reale davanti allo schermo). In modo quasi complementare, i due prodotti culturali che abbiamo scelto di citare sottolineano, più o meno esplicitamente, come con la diffusione dei mezzi di comunicazione, alla cui esistenza la ricerca scientifica e il progresso tecnologico contribuiscono attivamente, la scienza inizi a confrontarsi con le istanze di un pubblico più competente, ma comunque profano, che richiede un più alto livello di informazione e conoscenza dei temi presentati (Bucchi 2002). Si tratta di un cambiamento decisivo per la riflessione scientifica, che tende a uscire fuori dai confini della comunità di esperti e a transitare attraverso complesse media58
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zioni che coinvolgono gli individui, creando forme di ibridazione tra narrazione, immaginario e cultura scientifica. Quando in un film come A beautiful mind (2001) assistiamo alla scena in cui il protagonista (Russel Crowe) spiega ai suoi amici, seduti a un tavolino di un bar, che la migliore strategia per fare colpo su un gruppo di ragazze è quella di concentrarsi ognuno su una diversa, anziché rivolgere tutte le attenzioni a quella più bella, o ancora in Contact (1997) vediamo un’astronauta (Jodie Foster) viaggiare in un tunnel spaziotemporale, in cui, alla fine, incontra il padre deceduto anni prima, forse non siamo consapevoli del fatto che stiamo consumando un prodotto di fiction supportato da teorie scientifiche ben precise. Nel primo caso, il regista e gli sceneggiatori illustrano, in pochi minuti e attraverso poche sequenze, alcuni aspetti della teoria dei giochi di John Nash, premio nobel per la matematica; nel secondo, ci viene presentata la teoria dei wormhole, diffusa nel campo della fisica, che ipotizza l’esistenza di gallerie gravitazionali attraverso cui spostarsi velocemente in uno spazio inimmaginabile. Esempi che ribadiscono, almeno dal nostro punto di vista, quanto, oltre a considerare il modo in cui diverse discipline si sono dedicate allo studio della comunicazione, fino a mettere a punto teorie al proposito, strumenti d’indagine e dati di ricerca, sia importante valutare anche la prospettiva inversa. Il processo attraverso il quale la comunicazione, per mezzo della progressiva edificazione di un immaginario ricco di simboli e significati, traduzioni e adattamenti, è riuscita a influenzare la scienza: invitandoci a considerare la necessità di oltrepassare i confini di mondi chiusi in se stessi e costringendoci ad aprirci all’esterno, per seguire con convinzione e consapevolezza le continue evoluzioni concettuali e materiali di forme di conoscenza, oggi più che mai complesse e affascinanti.
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Capitolo terzo La comunicazione in un “tweet”
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ENRICA BOLOGNESE, GIOVANNI CIOFALO
«Per comunicazione si intende qui il meccanismo mediante il quale le relazioni umane esistono e si sviluppano – cioè tutti i simboli dello spirito insieme ai mezzi che li trasmettono nello spazio e che li preservano nel tempo. Essa comprende l’espressione del volto, l’atteggiamento e il gesto, i toni della voce, le parole, la scrittura, la stampa, le ferrovie, il telegrafo, il telefono e tutti gli ultimi successi conseguiti nella conquista dello spazio e del tempo». (C.H. COOLEY, L’organizzazione sociale, 1909) «In quell’impero, l’arte della cartografia giunse a una tal perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una città, e la mappa dell’impero, tutta una provincia. Col tempo, queste mappe smisurate non bastarono più. I colleghi dei cartografi fecero una mappa dell’impero che aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, meno portate allo studio della cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile e, non senza empietà, la abbandonarono alle inclemenze del sole e degli inverni». (J.L. BORGES, Del rigore della scienza, 1935) «La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra Grande Guerra è quella spirituale, la nostra Grande Depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando». (T. DURDEN, Fight Club, 1999)
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3.1. Gli hashtag della comunicazione Nel 2006, dopo MySpace, Facebook e Flickr, il parco già vasto di Social Network Sites (SNS), diffusi a livello globale e utilizzati da milioni di utenti, si arricchisce di una novità: Twitter. L’idea è tanto semplice, quanto vincente: dotare i social network, già caratterizzati da una potente dimensione relazionale, di un accresciuto potere informativo, attraverso un servizio di microblogging. Agli utenti viene offerta la possibilità di fornire continui aggiornamenti (su loro stessi, su ciò che vedono o leggono, sui luoghi visitati, etc.), fondata su una paradossale restrizione della loro capacità espressiva. Un vincolo che se, da un lato, limita le possibilità di approfondimento rispetto a qualsiasi argomento trattato, dall’altro però non determina necessariamente una diminuzione del valore informativo delle notizie veicolate, favorendo, attraverso l’istantaneità e la compressione, una fruizione veloce e potenzialmente continuativa. Sono 140, infatti, i caratteri che possono essere utilizzati al massimo per un “cinguettio” (tweet): da esercizio di stile la sintesi si trasforma in una pratica comunicativa prepotente e, soprattutto, in grado di adattarsi al ritmo frenetico di un mondo ormai segnato dall’overload informativo, dalla ridondanza dei contenuti e dalla costante accelerazione dei flussi comunicativi, arrivando perfino a favorire la messa in atto di vere e proprie forme di mobilitazione, seppure secondo specifiche modalità (Morozov 2011). Del resto, Twitter si pone come un nuovo punto di convergenza tra le routine produttive tipiche delle agenzie di stampa e la necessità di espressione, confronto e scambio, che le tecnologie digitali hanno ormai trasformato in un prerequisito fondamentale dei nostri comportamenti comunicativi. Prima di proseguire, vale la pena specificare che, in realtà, quello che ci interessa, nell’ambito di questo capitolo, non è tanto il funzionamento di Twitter dal punto di vista ingegneristico e tecnico e neppure la dettagliata analisi del suo impatto sociale e culturale, ma sfruttarne l’architettura cognitiva. Il modo migliore per studiare un oggetto complesso e articolato come la comunicazione è certamente quello di partire, anzitutto, da pratiche e da prodotti comunicativi. Più semplicemente, studiare la comunicazione con la comunicazione. Per farlo, tuttavia, è necessario rispondere a un interrogativo principale: che cos’è la comunicazione? 61
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Come abbiamo già visto nelle pagine precedenti, il termine fa riferimento a una pluralità di aspetti, fenomeni, oggetti, strumenti e pratiche riconducibili a un’unica idea generale. Per cogliere l’essenza di questa idea, tuttavia, dobbiamo selezionare un ventaglio di significati e valenze riconducibili a quello che oggi è divenuta la comunicazione, provando a individuare punti di contatto e elementi di sovrapposizione. Dovremo considerare, cioè, una varietà di concezioni, ipotizzando una loro possibile categorizzazione e soprattutto una loro possibile (e continua) connessione. Precedenti studi e contributi (Morcellini, Fatelli 1994; Volli 1997) già si sono confrontati con la complessità della comunicazione e hanno cercato di sistematizzare un oggetto tanto problematico, tentando di mettere a punto un certo numero di definizioni (ad esempio: trasferimento di risorse, influenza, scambio di valori, etc.). Una definizione non è altro che una descrizione di un particolare fenomeno, elaborata attraverso la considerazione di alcune sue caratteristiche principali, sulla base di un criterio di selezione arbitrario. Una definizione, in sostanza, può essere considerata come un’immagine concettuale (una mappa) di una particolare entità, di cui viene fornita una rappresentazione sintetica valida sul piano astratto, ma suscettibile di critiche se riportata sul piano pratico. Maggiore accuratezza e ponderazione vi sono nel corso del processo di scelta degli elementi costitutivi di un certo fenomeno, maggiore sarà la possibilità di comprenderne e trasmetterne il significato e la valenza. Allo stesso tempo, però, qualsiasi definizione non può che limitarsi alla considerazione di un numero ristretto di aspetti, non potendo comprendere in un unico intervallo concettuale la totalità di essi. Ovviamente, tutto questo dipende anche dal fenomeno che prendiamo in considerazione: più esso ci appare poco complesso, più sarà relativamente semplice fornirne una definizione efficace. Viceversa, rispetto a uno vasto e articolato sarà molto difficile elaborare una definizione semplice e contemporaneamente coerente. Come avviene nel caso della comunicazione, rispetto a cui se non è possibile riferirsi a una singola spiegazione onnicomprensiva, l’unica alternativa teorica appare quella di mettere a punto più immagini concettuali e procedere a una loro giustapposizione, in modo da coglierne complessivamente il senso. In sostanza, se è poco probabile riuscire a circoscrivere in maniera analitica un fenomeno, per sua natura complesso e ricco di sfaccetta62
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ture, risulta, in un certo senso, più semplice sviluppare una riflessione volta a individuare, in maniera sintetica, alcune concezioni generali del nostro oggetto di studio. Ed è qui, esattamente, che entra in gioco Twitter. Come detto, la sua principale caratteristica è lo spazio limitato concesso alla scrittura, ma questa è solo una proprietà. Alla brevità, infatti, si affianca un’altra dimensione centrale che permette a questo SNS di dialogare con altri ambienti simili: il link. In Twitter, infatti, la maggior parte degli utenti impiega lo spazio a sua disposizione per rimandare ad altri contenuti già pubblicati. In questo modo ogni tweet si trasforma nel nodo di una rete più ampia e estesa, e l’informazione veicolata attraversa universi di relazioni senza farsi limitare (in apparenza) dalle loro architetture. Come la citazione è uno strumento che sradica un’affermazione dal contesto originario in cui è stata prodotta, così il link permette di destrutturare l’ambiente della rete e di creare flussi di contenuti senza soluzione di continuità. Per evitare il rischio che tutto ciò diventi caotico e che l’utente alla fine si perda, è necessario utilizzare gli hashtag (#): uno strumento che consente di organizzare i messaggi secondo specifiche parole chiave. In questo modo i tweet possono essere dotati di una maggiore o minore rilevanza e il loro contenuto può essere aggregato insieme ad altri, rispettando un principio di coerenza. Ispirandoci alle proprietà di Twitter, allora, per rispondere alla domanda che ci eravamo posti, proveremo a utilizzare una serie di tweet, organizzati in una sequenza di hashtag, che dialogano costantemente tra loro tentando di creare una nuvola semantica di definizioni e concezioni. Come sempre avviene per qualsiasi riflessione legata alla comunicazione, siamo consapevoli che già nel momento in cui tenteremo di cristallizzarne l’essenza, inevitabilmente questa sarà soggetta a nuove forme di modifica e implementazione. In altre parole, sappiamo che, anche nel nostro caso, gli hashtag che considereremo, con il passare del tempo, dovranno essere ulteriormente aumentati.
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3.2. #comunicazionecomebisogno Non si può non comunicare… ne abbiamo bisogno
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Nel campo delle scienze della comunicazione non è possibile, come avviene in altri campi del sapere, appellarsi a leggi inconfutabili, o quasi. In realtà, almeno rispetto alla comunicazione umana, quella che avviene tra due o più individui, sono stati definiti alcuni assiomi che costituiscono verità incontestabili. Tra queste, la prima, e forse la più nota, afferma che non si può non comunicare (Watzlawick, Beavin, Jackson 1967). Il fatto che qualsiasi nostro comportamento possa essere interpretato dall’esterno come portatore di significati sottolinea quanto la comunicazione costituisca una delle prerogative principali della nostra stessa esistenza. La comunicazione, infatti, è anzitutto un bisogno umano elementare che, prima ancora di evolvere dal punto di vista culturale e tecnologico, attraverso la messa a punto di modalità e strumenti più o meno articolati, è insito nella nostra stessa natura. Questo desiderio appare contemporaneamente come una vocazione e una necessità. Nasciamo e viviamo in un mondo che esiste da prima di noi. Siamo dotati di sensi che ci spingono costantemente verso ciò che si trova all’esterno di noi. La soddisfazione dei nostri bisogni e delle nostre esigenze spesso dipende dagli altri, prima ancora che da noi stessi. Allo stesso tempo, tuttavia, anche gli altri necessitano della nostra presenza e persino il mondo che abitiamo non sarebbe lo stesso se noi non ne facessimo parte. Nel film di Frank Capra, La vita è una cosa meravigliosa (1946), un giovane (James Stewart), afflitto da una serie di sventure lavorative, decide di suicidarsi la notte di Natale. Il suo proponimento viene ostacolato da un angelo, che gli mostra come sarebbe la vita dei suoi cari se venisse a mancare, permettendogli di comprendere il valore di ogni singola esistenza, considerabile come la tessera di un mosaico più ampio. Il what if (cosa sarebbe successo se…) alla base di questa pellicola, meccanismo ricorrente per altro in moltissimi plot narrativi (Il cantico di Natale di Dickens, Fatherland di Harris, Sliding Doors di Howitt, etc.), in questo caso si concentra esattamente sull’aspetto che stavamo cercan64
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do di descrivere: l’interdipendenza dei soggetti e la centralità delle relazioni sociali. La comunicazione, infatti, è una prerogativa essenziale del nostro essere vivi. Dal punto di vista individuale essa appare come un connotato naturale biologico: la morfologia del nostro corpo, la nostra capacità di produrre suoni articolati, di effettuare movimenti e di attribuirvi un senso, sono alla base delle nostre possibilità di pensiero e di azione. A un livello sovraindividuale, la comunicazione si rivela come un connotato sociale antropologico: un bisogno elaborato di relazione, di solidarietà che conferisce stabilità all’ambiente che abitiamo. Persino in un’ipotetica situazione d’isolamento completo non potremmo essere in grado di sospendere le nostre attività comunicative, che continuerebbero a essere esercitate nei confronti di noi stessi, almeno attraverso il pensiero, oppure per mezzo di una simulazione, nei confronti di un altro immaginario. Dai graffiti preistorici a Wilson, il pallone cui si rivolge Tom Hanks nel film Cast Away (2000), fino al Diario di Anna Frank, le testimonianze storiche, artistiche, culturali e cinematografiche di questo bisogno, importante quanto il mangiare o il bere, sono innumerevoli. Nel corso di secoli e poi di millenni la comunicazione si è evoluta, assumendo forme inedite e sperimentando tecnologie innovative e sempre più potenti. In questo modo, si è risanata l’apparente opposizione tra natura e cultura, saldando gli aspetti biologici della comunicazione a quelli sociali e culturali. Considerare la #comunicazionecomebisogno non significa, però, sostenere che essa rappresenti una dimensione esclusivamente spontanea e automatica. Sin dagli anni ’60, la semiotica, grazie ai contributi di diversi autori direttamente o indirettamente riconducibili al lavoro di Ferdinand de Saussure, ha dimostrato come la comunicazione presupponga sempre e comunque un codice, una matrice, che deve essere appresa e condivisa affinché sia possibile un dialogo. Nel corso della nostra vita, sono moltissimi i diversi linguaggi (da quello del corpo alla lingua parlata fino ai dialetti, e così via) che abbiamo dovuto imparare, attraverso una serie di sforzi cognitivi (modulare e controllare le espressioni del nostro volto in funzione del contesto) e esercizi pratici (dalla memorizzazione di un alfabeto alle stanghette da riprodurre sulle pagine di un 65
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quaderno alle elementari). Non solo: abbiamo poi rielaborato ciascuno dei linguaggi appresi sulla base del nostro repertorio sociale e culturale, in virtù della netta distinzione che esiste tra un codice ristretto, qualitativamente più povero ed essenziale, e un codice elaborato, più ricco e articolato, derivante da un più elevato livello di conoscenze e competenze (Bernstein 1971). Il nostro bisogno di comunicazione, inoltre, con il passare del tempo è stato supportato dalla messa a punto di nuove modalità espressive e di nuovi strumenti capaci di amplificare le nostre potenzialità comunicative. Come vedremo nel prossimo paragrafo, in questo senso l’aspetto tecnologico assume una rilevanza fondamentale, al punto da riconfigurare la percezione del mondo in cui ci muoviamo, imponendo un vero e proprio processo di adattamento dell’uomo rispetto a un radicale e rapidissimo mutamento delle forme della vita individuale e collettiva. Un mutamento, che se non adeguatamente preso in considerazione potrebbe persino sfuggire di mano all’individuo e alla società, rischiando di causare un vero e proprio shock collettivo (Toffler 1970).
3.3. #comunicazionecometecnica Commento su Twitter quello che guardo in tv, mentre gioco a Ruzzle con uno sconosciuto e leggo i post dei miei amici su FB Una concezione generale che ha profondamente connotato le idee sulla comunicazione è quella di teknè: una tecnica, un’arte, un’arma, uno strumento, un mezzo tramite cui è possibile ottenere effetti e raggiungere obiettivi. Le trasformazioni più immediatamente visibili della società in conseguenza dell’evoluzione delle tecnologie, producendo uno sbilanciamento della prospettiva di studio sul versante della comunicazione di massa hanno condotto, anche in conseguenza degli eventi storici che si sono verificati nella prima metà del Novecento: ad attribuire allo sviluppo tecnologico un ruolo decisivo nella creazione di scenari disumanizzanti e omologanti; a interpretare tale mutamento come fonte di modernizzazione e democratizzazione. La dicotomia apocalittici e integrati, in questo modo, si trasforma 66
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in una categoria interpretativa quasi insuperabile, capace di fotografare (e probabilmente di congelare) gli orientamenti completamente opposti generati dalla diffusione di nuove tecnologie comunicative. In realtà, seppure oggi possiamo considerare definitivamente superata la distinzione che separa nettamente gli apocalittici, strenui difensori della tradizione, dagli integrati, accaniti sostenitori del cambiamento, nel corso della storia una simile dialettica si è ripetutamente concretizzata in occasione dell’introduzione di nuovi mezzi (dalla scrittura ai computer). All’interno del Fedro, ad esempio, già Platone contrappone le inconciliabili opinioni relative alla diffusione della scrittura del suo ipotetico inventore, Theut, convinto di aver messo a punto, attraverso le lettere dell’alfabeto, un sistema per rendere l’uomo più sapiente e capace di ricordare, e di Thamus, dio e sovrano di tutto l’Egitto, preoccupato dal pericolo di un indebolimento della memoria e di una complessiva svalutazione culturale. Un pericolo che, quindi, in ogni epoca è stato attribuito a una particolare fase di evoluzione tecnologica e descritto attraverso un’infinità di forme narrative, fino ai giorni nostri: come nel caso del governo totalitario e tecnocratico del cupo futuro di V for Vendetta (1982-1985) di Alan Moore, della realtà illusoria tramite cui macchine evolute tengono in schiavitù gli esseri umani in Matrix (1999) dei fratelli Wachowski o delle distopiche condanne preventive, raccontate nel film Minority Report (2002) di Spielberg (ispirato all’omonimo racconto di P.K. Dick). In altri casi, la centralità delle tecnologie è stata interpretata in modo tale da indurre a leggere la storia dell’umanità attraverso la lente di un determinismo tecnologico, che attribuisce ai mezzi tecnici una capacità di condizionamento tale da renderli una variabile indipendente nei processi di trasformazione degli equilibri sociali, politici, economici, culturali e antropologici. Una lettura che individua nei media il potere di influenzare tanto il contenuto del messaggio veicolato, quanto il pensiero e la cultura dell’intera società in cui si sviluppano. In realtà, oggi, non possiamo parlare di comunicazione senza prendere in considerazione anche gli aspetti concreti attraverso cui essa si manifesta. Nel momento in cui un utente parla, scrive o semplicemente invia un sms, sta di fatto utilizzando un supporto tecnologico (naturale o artificiale) capace di materializzare, estendere, memorizzare, o amplificare 67
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un messaggio. La tecnologia ha accompagnato l’uomo nel suo cammino verso il progresso, producendo una continua interazione tra la sfera sociale, culturale e economica e determinando nel tempo vere e proprie configurazioni comunicazionali (dall’età della scrittura alla galassia Gutenberg fino all’epoca di Internet) capaci di plasmare l’assetto complessivo di un’intera società. Da questa prospettiva, la comunicazione, in tutte le sue manifestazioni, dunque, appare come una tecnologia (teknè, appunto), in grado di attivare cambiamenti sia sul versante socio-culturale, sia su quello cognitivo-individuale. Volendo fissare un percorso di evoluzione, è possibile far riferimento ad almeno tre ere principali che segnano lo stretto rapporto da sempre esistito tra l’uomo e le tecnologie comunicative, all’insegna di una graduale domesticazione (McLuhan 1964; Flichy 1991). Ognuna di esse è il prodotto di un determinato periodo storico, in cui una gamma di mezzi e strumenti ha incarnato meglio i bisogni e le possibilità (materiali, produttive, culturali) dell’essere umano. Nell’era del linguaggio la tecnologia dell’oralità è determinata, da un lato, dalle possibilità tecniche a disposizione dell’uomo (la voce), in una specifica fase della civiltà; dall’altro, da una particolare configurazione sociale, costituita da piccoli gruppi di individui (le tribù), unità minime di una comunità ristretta prevalentemente caratterizzata da interazioni faccia a faccia. La peculiarità di questa prima fase consiste nella netta predominanza del contesto sul testo: i contenuti degli scambi comunicativi restano inevitabilmente confinati all’interno dell’ambiente in cui sono stati prodotti. Nell’era della scrittura la messa a punto di strumenti di archiviazione di contenuti (argilla, pietra, carta, etc.) dà origine a dinamiche d’istituzionalizzazione e condivisione di segni e, dunque, di significati, fondati sulla disponibilità di codici analogici e digitali (i geroglifici e la scrittura alfabetica) e sull’acquisizione di competenze pratiche (il saper scrivere e leggere). Diventa così possibile la circolazione del testo al di fuori del contesto di riferimento: l’effetto conseguente è quello di estendere il controllo dell’uomo sullo spazio e nel tempo (attraverso la codificazione delle leggi, la trasmissione e l’accumulazione del sapere, la nascita di nuove discipline, etc.), consentendo nuove forme di organizzazione collettiva (dalla Città-Stato allo Stato-Nazione). 68
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Nell’era dell’elettricità, infine, vengono amplificate in modo esponenziale le chance comunicative del soggetto moderno, attraverso una serie di invenzioni (fotografia, telefono, cinema, radio, televisione, etc.) che, soprattutto a partire dalla prima metà dell’Ottocento in poi, produce una rivoluzione mediale senza precedenti. Questa è la fase in cui la moltiplicazione dei testi, dei codici, dei linguaggi e dei mezzi attribuisce, progressivamente, alla comunicazione un ruolo sempre più centrale nello scenario sociale e culturale. Con il passare del tempo, con l’aumento delle competenze comunicative e, soprattutto, con l’accelerazione dei ritmi d’innovazione, le vecchie tecnologie non sono state sostituite radicalmente da quelle più recenti, ma è avvenuto un generale processo di rimediazione (Bolter, Grusin 1999), fondato su due principali tendenze: l’evoluzione (la pagina di un portale informativo sul web può apparire come la naturale prosecuzione di quella di un quotidiano stampato); l’integrazione (gli smartphone sono il risultato della convergenza di una pluralità di tecnologie come il telefono, la televisione e Internet). Quella che stiamo vivendo, dunque, può essere considerata come un’ulteriore tappa del percorso di sviluppo dei media: il passaggio a una dimensione comunicativa sempre più individuale e al tempo stesso reticolare (personal media), attraverso l’uso di tecnologie trasparenti, portatili, adattive e tagliate sulle esigenze di ciascuno di noi. La manifestazione tangibile della capacità innata dell’uomo di ideare strumenti, in grado di collocarsi all’incrocio tra bisogni soggettivi e possibilità tecniche. Ecco, allora, che integrando questo tipo di concezione (#comunicazionecometecnica) con quella precedentemente descritta (#comunicazionecomebisogno), è possibile sostenere che la comunicazione sia stata in grado di fondere i suoi aspetti di esigenza naturale e sociale con quelli di opportunità tecnologica, come dimostra quel desiderio crescente e sempre più diffuso di essere costantemente raggiungibili e connessi, soddisfatto dai dispositivi di cui ci dotiamo eppure capace, in alcuni casi, di produrre comportamenti comunicativi al limite della nevrosi.
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3.4. #comunicazionecomeinformazione
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Il modo in cui si chiamava la comunicazione, quando era una risorsa di pochi Il termine informazione, nell’accezione latina di dare forma a qualcosa, modellare, plasmare, rimanda a un’idea di comunicazione come trasferimento di risorse o trasmissione di contenuti da un soggetto all’altro. Sebbene nel corso del tempo abbia assunto anche nuovi significati, dal punto di vista teorico il concetto originario presuppone una supremazia della fonte rispetto a un destinatario tendenzialmente passivo. Tale visione è coerente con la polarizzazione determinata dall’individuazione di due macro aree di riferimento per lo studio della comunicazione: il paradigma informazionale, secondo cui la comunicazione è un processo di trasmissione a senso unico; il paradigma relazionale, in cui ha luogo, invece, uno scambio, una condivisione, fondati sul dialogo e sull’interpretazione del significato. La coppia dicotomica informazione/relazione rappresenta un tentativo di sistematizzazione del variegato panorama teorico che ha caratterizzato i media studies sin dalle origini, funzionale all’individuazione di un’asse su cui l’azione comunicativa, oscillando tra questi due estremi, possa essere compresa e analizzata. Se dal punto di vista relazionale viene enfatizzato il valore di mutamento della comunicazione e il processo dialogico di costruzione del significato che vi è alla base, al momento della sua nascita il paradigma informazionale è stato considerato come una possibile soluzione alla distanza tra approcci umanistici e scientifici, tra l’uomo e la macchina. In questo caso, facciamo riferimento a un insieme di teorie che pongono l’accento sull’immagine del movimento: la comunicazione si delinea così come un processo trasmissivo, un passaggio di contenuti da un punto a un altro, in cui rivestono un valore prioritario il processo in sé e la tecnica cui si ricorre, anziché le dinamiche di significazione. Certamente, è fondamentale anche il ruolo attribuito al destinatario, che se da un punto di vista relazionale, come vedremo anche nel successivo paragrafo, nella selezione come nell’adozione di particolari comportamenti viene considerato attivo, dal punto di vista informazionale, invece, è rele70
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gato, almeno secondo una formulazione tradizionale, alla posizione di semplice ricettore, terminale o destinatario dell’intero processo comunicativo. Se ciò che abbiamo appena descritto continua a essere valido sul piano teorico, sul versante pratico la graduale affermazione di nuovi standard comunicativi per mezzo della diffusione di tecnologie più evolute e coinvolgenti ha prodotto due fondamentali cambiamenti, profondamente connessi tra loro: da un lato il concetto di relazione ha assunto una più elevata capacità di spiegazione dei processi comunicativi; dall’altro, in modo consequenziale, si è andata radicalmente modificando la stessa portata semantica del concetto di informazione, fino al punto di acquisire il significato più generale e onnicomprensivo di conoscenza. In altre parole, se con il passare del tempo l’idea generale di comunicazione è stata ricondotta alla sua originaria accezione etimologica di condivisione, l’informazione ha smesso di essere percepita come una risorsa di pochi, per assumere la valenza di un potenziale patrimonio collettivo. Non è un caso che, proprio nella seconda metà del Novecento, a seguito della diffusione capillare di un mezzo come la televisione, fondamentale per l’implementazione dei processi di circolazione di dati e nozioni a tutti i livelli sociali, sia iniziata a circolare la definizione di società dell’informazione. Un risultato che, vale la pena sottolineare, non scaturisce dall’assunzione di una visione superficialmente determinista, tale da considerare l’innovazione tecnologica come l’unica variabile determinante, ma da un più ampio processo di evoluzione sociale. L’importanza assunta dall’economia, insieme alla metamorfosi avvenuta sul versante culturale, ha condotto a un generale rinnovamento della struttura sociale, al cui interno i flussi informativi hanno dato origine a nuove forme di organizzazione, produzione e diffusione della conoscenza. Così, seppure a distanza di secoli, come il vapore e le tecnologie meccaniche avevano contribuito al successo della rivoluzione industriale, ponendo le basi per un inedito ordine sociale, le tecnologie di trasmissione e elaborazione dei dati hanno permesso di definire il percorso che ha condotto alla nascita di una information age (Castells 1998). In quest’ottica, il pensiero umano e l’informazione non rappresentano più un elemento sovrastrutturale a fronte di fattori strutturali, costituiti da risorse e strumenti produttivi, ma diventano, invece, una risorsa 71
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potenzialmente inesauribile (Servan-Schreiber 1980), che se adeguatamente utilizzata appare persino in grado di sostituire tutte quelle risorse materiali, di cui, invece, non abbiamo scorte a sufficienza. Un passaggio, per molti versi, percepito come una liberazione epocale dai vincoli posti, tradizionalmente, dal tempo e dallo spazio, eppure, come vedremo nell’ultimo capitolo più dettagliatamente, segnato da una congenita carica utopica. Se, infatti, è assolutamente vero che ciascuno di noi oggi ha possibilità incomparabilmente superiori a quelle di qualsiasi altra persona vissuta in passato di accedere a fonti informative e di accumulare conoscenza, non si può, altrettanto realisticamente, sostenere che siano state annullate tutte le forme di disuguaglianza sociale e anche culturale. Così, seppure la filosofia hacker, diffusasi a partire dalla fine degli anni Sessanta, professava la completa libertà di circolazione delle informazioni come manifesto programmatico della futura rivoluzione informatica, il percorso intrapreso dai produttori di hardware e software, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, non è stato certamente all’insegna della gratuità e della libera fruizione. Non solo, come dimostrato da alcune teorie e ricerche condotte in campo comunicativo (dagli scarti di conoscenza al digital divide), insieme alla dimensione economica, fondamentale per l’acquisto e l’utilizzo delle tecnologie più evolute, è divenuta determinante anche quella legata all’alfabetizzazione mediale. La possibilità di fruire dell’enorme mole di contenuti e prodotti, che sostanzia il nostro attuale overload comunicativo, rimane condizionata da due fattori tra loro inversamente proporzionali: se, infatti, il costo delle tecnologie, invariabilmente, tende a scendere con la loro progressiva normalizzazione, le competenze richieste per il loro utilizzo tendono, invece, ad aumentare. La situazione che si è verificata in Italia, a partire dal 2008, con il passaggio dalla TV analogica a quella digitale (switch off) costituisce al proposito un esempio significativo: alla relativa economicità del decoder, il cui acquisto era divenuto obbligatorio per la fruizione televisiva, non ha corrisposto un’altrettanto semplice modalità di utilizzo, nei termini della ricerca e selezione dei canali, soprattutto per quelle persone, appartenenti a fasce d’età più avanzate, che proprio della televisione fanno tradizionalmente il fulcro della loro dieta mediale. 72
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In conclusione, dunque, possiamo sostenere che l’idea di informazione continua a essere profondamente radicata nel concetto di comunicazione, costituendone una parte fondamentale nonostante nel corso degli anni si sia andata modificando fino quasi a polarizzarsi tra un estremo caratterizzato dalla persistente dimensione della comunicazione di massa, veicolata da sistemi trasmissivi one to many, e un altro, contraddistinto dalla dimensione personal, basata sull’ottica di uno scambio one to one.
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3.5. #comunicazionecomerelazione In amore vince chi è on line, ma non risponde “Happiness only real when shared”, sostiene il protagonista (Emile Hirsch) del film Into the wild (2007), diretto da Sean Penn, esemplificando in un aforisma il valore della comunicazione come condivisione, come messa in comune, come elemento che conferisce senso all’esistenza. Come abbiamo già sottolineato, dal momento in cui ciascuno di noi nasce è inserito all’interno di una rete pre-esistente di relazioni attraverso cui prende forma e direzione la nostra esistenza, ma al tempo stesso ha origine un percorso individuale grazie a cui costruiamo nuovi legami e avviamo un’infinità di interazioni. Riferirci al concetto di #comunicazionecomerelazione, dunque, a un livello generale equivale, da un lato, a considerare la sua valenza nei termini di socializzazione, intesa come il processo di interiorizzazione di norme, valori, modelli di comportamento che consentono all’individuo di entrare a far parte del mondo della vita, e dall’altro di concentrarsi sulla sua natura di scambio sociale, fondata sui meccanismi di interazione e cooperazione con gli altri. Tanto l’idea di socializzazione, quanto quella di scambio sociale, tuttavia, si sono andate inarrestabilmente modificando sotto la spinta di una modernizzazione che, dall’avvento delle masse sulla scena sociale alla diffusione di strumenti in grado di amplificare la capacità comunicativa dell’uomo, ha comportato un incremento, senza precedenti, della nostra sfera relazionale, rendendo sempre più labili i confini fra questi due concetti. 73
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Così, alle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, religione, etc.) se ne sono aggiunte di nuove (gruppo dei pari, media, etc.), attribuendo al generale processo di trasmissione delle regole e dei valori un carattere decisamente più negoziale e immediato e, soprattutto, conferendo all’individuo un ruolo sempre più attivo, tale da riconfigurare complessivamente il suo rapporto con la società. Molte teorie sociologiche hanno cercato di analizzare la presunta dicotomia individuo-società, privilegiando ora l’uno (individualismo metodologico), ora l’altro termine del discorso (positivismo, funzionalismo, etc.). In particolare, le teorie funzionaliste, che hanno avuto a lungo un ruolo preminente nel panorama scientifico internazionale, hanno individuato nella coesione, nella stabilità e nell’integrazione gli imperativi fondamentali per una convivenza pacifica, elaborando una concezione del sistema sociale che vede il soggetto adeguarsi alle regole e ai modelli proposti, allo scopo di contribuire al mantenimento dell’ordine e dell’equilibrio. In quest’ottica, ogni azione è pensata e messa in atto in modo da ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, mentre il processo di socializzazione è inteso come un meccanismo di trasferimento di conoscenze, un flusso unidirezionale, volto a promuovere l’adesione a una determinata cultura e a svolgere le funzioni previste dalla propria posizione, al fine del mantenimento dell’equilibrio sociale. L’emersione di elementi d’incertezza, di fattori disfunzionali, di funzioni latenti (Merton 1949), di conseguenze non previste dell’azione sociale tuttavia hanno messo in discussione questi presupposti, producendo la consapevolezza che il soggetto può assumere comportamenti e atteggiamenti non necessariamente coerenti con le esigenze di conservazione dello status quo del sistema sociale di riferimento. Il film diretto da Paolo Sorrentino, Le conseguenze dell’amore (2004), seppure attraverso il ricorso all’adozione di una prospettiva decisamente insolita, ci fornisce un esempio interessante al proposito. La vita di un corriere della mafia (Toni Servillo) è scandita, quasi all’insegna di una visione appunto funzionalista o informazionale, da azioni precostituite, rigide e lineari, nel pieno adempimento del proprio lavoro. L’incontro con una donna scatena un profondo stravolgimento, attivando un passaggio da una condizione di completa passività, in cui egli è agito dal contesto e dalle dinamiche comunicazionali, a una in cui diventa parte attiva e costitutiva del 74
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processo di significazione, con i conseguenti rischi che, sempre, la libertà e l’autonomia portano con sé. Altre impostazioni teoriche (come, ad esempio, l’interazionismo simbolico) hanno contribuito al superamento di questa visione statica, valorizzando l’elemento della relazione sociale e immaginando la società come una fitta rete di legami che non si basa sulla contrapposizione tra un livello individuale e uno collettivo, ma che, al contrario, proprio in funzione di una costante alternanza di ruoli, si pone come una società degli individui (Elias 1987). È mediante lo scambio simbolico, infatti, che l’individuo avvia la costruzione della relazione sociale: se consideriamo la cultura, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume come una serie di significati condivisi incorporati in forme variabili (Griswold 1994), attraverso cui ciascuno di noi racchiude la propria esperienza per renderla interscambiabile, ci rendiamo conto di come, attraverso una sorta di contatto/contrasto con l’altro, il nostro io utilizza le proprie esperienze per avviare, incessantemente, nuove forme di condivisione. In questo senso le attività comunicative, intese come un flusso costante di scambi simbolici, consentono all’attore sociale di procedere alla messa a punto della propria identità, alla definizione dei rapporti con le altre persone e alla costruzione del mondo, sia tramite l’esperienza diretta sia, come ormai avviene sempre più frequentemente, tramite l’esperienza mediata. Nel campo dei media studies, già a partire dagli anni Cinquanta, la scoperta della centralità delle relazioni sociali ha condotto a una generale revisione degli approcci di studio e ricerca, precedentemente incentrati su una concezione dei media come strumenti di manipolazione, sulla base della semplice considerazione che sono le persone, con la loro fitta rete di legami sociali, a porsi come il mezzo di comunicazione più potente (Katz, Lazarsfeld 1955). Oggi, ancor più che in passato, comprendere la natura complessa della comunicazione nel suo aspetto relazionale è divenuto indispensabile, e per diverse ragioni. L’incremento delle reti di relazione coincide da un lato con l’evoluzione delle tecnologie comunicative, convergenti e sempre più domesticate; dall’altro con un aumento di alfabetizzazione 75
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mediale da parte dei fruitori, tale da causare una moltiplicazione esponenziale delle possibilità di scambio nella vita quotidiana. Nella nostra epoca il numero di persone con cui è possibile entrare in contatto e interagire, in forma diretta o mediata, non è in alcun modo paragonabile a quello che avveniva in un passato neanche troppo lontano. A cambiare, inoltre, non è soltanto la dimensione quantitativa, ovviamente, ma anche la qualità stessa delle nostre relazioni, sia per quanto riguarda la forma sia per il contenuto. Nel primo caso, in modo del tutto complementare, quanto avvenuto sul piano sociale e culturale (l’evoluzione dei costumi, un progressivo svincolamento dalla tradizione, etc.) e la moltiplicazione dei contesti che riusciamo ad abitare, talvolta in maniera quasi simultanea, tendono ad affievolire la rilevanza e la rigidità dei ruoli (genitore/figlio, moglie/marito, insegnate/allievo, etc.), a vantaggio di una gestione relazionale necessariamente più dinamica e flessibile. Come Woody Allen, nel film Zelig (1983), è capace di modificare, quasi fosse una specie di camaleonte postmoderno, il suo aspetto fisico, il suo modo di esprimersi e di parlare in funzione delle circostanze in cui si trova, così oggi noi siamo portati a sviluppare un più elevato livello di automonitoraggio, modellando, più o meno consapevolmente e in forme più o meno significative, la nostra identità a seconda delle persone con cui ci rapportiamo e degli ambienti in cui si verificano le nostre interazioni. Nel secondo, gli strumenti di cui disponiamo per costruire il nostro Sé e per rapportarci con la realtà che ci circonda hanno reso sempre più difficile differenziare quanto avviene in modo diretto da ciò che si verifica in modo mediato, avvalorando la percezione di una continuità tra reale e virtuale, online e offline, all’insegna di un rapporto quasi simbiotico con alcuni media. Alcuni recenti dati di ricerca (Cisco Connected World Report 2012), in particolare, confermano, soprattutto per la generazione dei nativi digitali (Prensky 2001), l’emergere di una vera e propria dipendenza, testimoniata dalle risorse di tempo investite (talvolta persino superiori a quelle utilizzate in presenza) e dalla frequenza (fino a un massimo di ogni 10 minuti) con cui controlliamo e gestiamo i nostri contatti comunicativi (mail, sms, post, etc.). Una tendenza che, se appare spiegabile nei termini di un aumento direttamente 76
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proporzionale tra bisogno di interazione e occasione di interazione, fa comunque riflettere su quanto tali comportamenti siano effettivamente spontanei/naturali oppure indotti/frenetici, nella costante ricerca di quell’audience immaginata disponibile per ogni utente (Marwick, boyd 2010). Riferirsi a un pubblico che, in ogni caso, potrà poi essere concretamente conosciuto soltanto per una quota percentuale molto ristretta è tuttavia molto difficile ed è qui che, probabilmente, la gestione dei rapporti, connotati dalla possibilità di usufruire di un numero molto inferiore di indizi simbolici rispetto a quanto avviene di persona, si dimostra più rischiosa. Non solo per il suo carattere potenzialmente illusorio (un numero molto elevato di amici su FB non garantisce necessariamente una qualità della vita sociale più ricca e appagante), ma soprattutto per un implicito svuotamento di senso che può riguardare il concetto stesso di relazione. La sua natura complessa e, talvolta, conflittuale, infatti, non deve essere dimenticata, a vantaggio esclusivo della dimensione dello scambio, del dono, dell’empatia, della costruzione di significati condivisi e, in sostanza, della creazione di socialità (che certamente le nuove tecnologie comunicative hanno amplificato come mai prima). Diventa fondamentale, in sostanza, considerare sempre il modo in cui gli individui, arbitrariamente, decidono di mettersi in gioco, ricorrendo a dinamiche di produzione di senso, comprensione e condivisione di un significato che non è mai oggettivamente dato, ma è sempre determinato in funzione del tipo di relazione fra i partecipanti e dei canali cui si fa ricorso.
3.6. #comunicazionecomecultura Quando un uomo con la filosofia incontra un uomo con la pistola… Aristotele, Django & Co. Come la comunicazione, anche la cultura si rivela un oggetto estremamente complesso. Un’idea trasversale e polisemica, in cui aspetti concreti e normativi s’intrecciano con una sfera più spirituale e creativa: idee, 77
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simboli, significati, immaginari, prodotti e, contemporaneamente, modelli di comportamento, ruoli, istituzioni, regole. Rispetto al campo dei media studies, tuttavia, l’analisi dei fenomeni di natura culturale è indubbiamente più antica e, pertanto, la tradizione di studio e ricerca maturata nel tempo appare meno incerta e più radicata. La riflessione antropologica ha giocato un ruolo decisivo nell’acquisizione di categorie e metodi per la comprensione di fenomeni, processi e prodotti culturali, con la messa a punto di più di duecento differenti definizioni o usi del termine (Silverstone 1999) e, di conseguenza, con il superamento di un punto di vista unitario sulla realtà e la messa in discussione di una prospettiva che considerava la cultura come una prerogativa esclusiva dei popoli occidentali (Clifford, Marcus 1986; Clifford 1988). Anche in campo sociologico sono state elaborate molte e diverse concezioni: l’insieme di produzioni materiali e immateriali, valori, abitudini, modelli di comportamento, simboli, significati condivisi dagli individui che fanno parte della società o di un gruppo; la totalità dei prodotti dell’uomo e della società, come una sua parte non-materiale (Berger 1969); il complesso di conoscenze e credenze, di forme d’arte, di regole e leggi, morale e costume e, più in generale, il sistema di valori, capacità, competenze che gli esseri umani condividono per la soddisfazione dei loro bisogni. Infine, il bagaglio intellettuale che un individuo accumula attraverso lo studio, l’esperienza, il rapporto con l’ambiente e che poi rielabora per costruire la propria personalità e acquisire capacità critiche e strategiche, che diventano, poi, un elemento costitutivo della personalità. Pur limitandoci a questi soli aspetti, appare chiaro come lo studio dei fenomeni e dei processi culturali investa la quasi totalità delle sfere di vita del soggetto, coinvolgendo il pensiero, l’immaginario, l’etica, ma anche le pratiche, gli oggetti, le tecniche, e, dunque, originando un legame talmente stretto con la comunicazione da produrre, in alcuni casi, una vera e propria sovrapposizione o coincidenza. Considerando gli esseri umani come creatori di significato, utenti di simboli e narratori (Griswold 1994), infatti, la cultura si pone come un’attività quotidiana che, attraverso la comunicazione, tende alla propria auto-produzione. Ogni fase dell’evoluzione umana è stata caratterizzata, oltre che da un certo stadio di avanzamento tecnologico, da valori, 78
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miti e riti collettivi che attengono a un determinato livello di sviluppo culturale. Nella sua conquista dell’habitat naturale, attraverso processi di addomesticamento, l’uomo ha utilizzato i mezzi di comunicazione in modo strategico, costruendo artefatti tecnologici e simbolici che gli hanno consentito di adattarsi al contesto e, contemporaneamente, di plasmare l’ambiente per i propri bisogni. In questo quadro la comunicazione non rappresenta soltanto il mezzo elettivo che dà sostanza alla vita di una società, ma è la protesi di un individuo sempre più eterodiretto (McLuhan 1964; Riesman 1950). Dal momento che, come abbiamo già accennato, i prodotti culturali possono essere considerati come un complesso variabile di significati condivisi incorporato in specifiche forme, è possibile sostenere che la cultura diviene visibile grazie alla comunicazione, e viceversa. Con l’affermazione della società industriale, e quindi dal momento in cui, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i media hanno assunto un ruolo sempre più centrale, la progressiva appropriazione della realtà da parte degli individui, attraverso la costruzione di mezzi materiali e simbolici, è diventata molto più diffusa, intensa e rapida. A questo proposito, è opportuno soffermarsi sulla differenza che esiste tra i concetti di kultur e civilisation. Il primo termine, che viene dalla lingua tedesca, fa riferimento alle caratteristiche e al valore che attribuiamo ai prodotti culturali: sistemi di pensiero, concezioni religiose, opere d’arte e così via. Il secondo, che invece deriva dalla lingua francese, considera non tanto i risultati tangibili dei processi di produzione, quanto l’atteggiamento degli individui nei confronti del mondo, sia che si tratti del rapporto con il tempo, lo spazio, il corpo, i generi e così via. L’idea essenziale è quella relativa al processo di civilizzazione e, quindi, all’inarrestabile processo di mutamento delle complessive strutture sociali, culturali e psichiche che, dalle origini dell’uomo fino ai giorni nostri, ha riguardato la dialettica natura/cultura, in funzione di cui l’uomo vive il contrasto tra reale e ideale, tra esperienza e progetto. Ecco, allora, che la cultura assume la valenza di seconda natura dell’essere umano, che modella i comportamenti collettivi e quelli individuali, nonostante ciascuno di noi, come avviene ad esempio nel caso della socializzazione (un risultato esemplare della civilizzazione), non sia mai 79
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totalmente conforme ai modelli proposti (o imposti), arrivando perfino a forme di devianza, pur di ridurre la distanza tra norma e desiderio. Allo stesso tempo, però, la civilizzazione, come processo storico, si sviluppa anche attraverso un aumento esponenziale delle catene di interdipendenza tra soggetti, istituzioni, gruppi, consentendo alla comunicazione di divenire il portale di accesso a beni, prodotti e servizi culturali e, contemporaneamente, il contesto della loro produzione. Da questo punto di vista, la tecnologia assume, certamente, un ruolo fondamentale nelle dinamiche di trasformazioni delle relazioni tra gli individui, del loro rapporto con la sfera sociale e della creazione di prodotti culturali, alimentando un immenso giacimento immateriale fatto di desideri, bisogni, immagini, memorie ed emozioni. È in questo modo che si concretizza lo spirito del tempo di una società, riconfigurando, incessabilmente, il rapporto dinamico tra kultur e civilisation, in un continuo oscillare tra persistenza e cambiamento, stabilità e fragilità, vita e forma. Il mutamento nasce dalla volontà della vita di materializzarsi attraverso forme che conferiscano spessore, consistenza e visibilità al suo corso incessante, ma, poiché la vita in sé deve necessariamente rinnovarsi senza sosta, le forme in cui si manifestano gli impulsi vitali non possono che essere transitorie e venire sostituite da altre, più adatte a rappresentare ciò che riflette meglio lo stato presente (Simmel 1912). Un’oscillazione costante che può essere letta come il risultato di una stretta interdipendenza tra lo slancio propulsivo della comunicazione, nelle sue differenti accezioni di necessità antropologica, bisogno psicosociale, tecnica o tecnologia e le cristallizzazioni assunte dalla cultura, in tutte le sue produzioni materiali e immateriali. Oggi, in quella che possiamo considerare come l’epoca della simultaneità, del presentismo, dell’immediatezza, i processi di cambiamento, di cui nella modernità si potevano ancora distinguere fasi e peculiarità, sono stati sostituti da una metamorfosi senza soluzione di continuità, da una trasformazione di ambienti, soggetti, prodotti, molto meno discontinua e dunque, inevitabilmente, più difficile da osservare e comprendere. Ciò che diviene canonico e istituzionalizzato, infatti, appena raggiunge una consistenza solida si frammenta e si scompone: la comunicazione, dunque, conferisce alla cultura un ritmo e una velocità di cambia80
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mento mai sperimentati prima, nel segno di una iperproduzione di messaggi, testi, informazioni, modelli, espressioni che rendono spesso imprevedibile e complessa questa sfera della realtà. In altre parole, determinano un cambiamento di un altro degli ambiti fondamentali in cui la cultura e la comunicazione risultano profondamente legate: la conoscenza. Conoscere vuol dire attribuire senso e significato a oggetti, fatti, fenomeni, grazie alla capacità di richiamare saperi, aspettative, ipotesi, inferenze, ma questa pratica non coincide mai con una registrazione meccanica delle informazioni che ci provengono dall’esterno, implicando una loro riorganizzazione, rielaborazione, rappresentazione e interpretazione. In questo senso, il rapporto tra comunicazione e cultura costituisce la doppia via attraverso cui gli individui possono mettere in atto i loro scambi e attribuire loro un significato. La messa a punto di sistemi industriali di produzione dei contenuti, tuttavia, ha amplificato come mai prima la portata di tale processo, imponendo, contestualmente, la necessità di riflettere sulle implicazioni che ne sono derivate. È proprio a partire dalla relazione tra pratiche di produzione, sistema culturale e processi di trasmissione che, negli anni Quaranta del Novecento, attraverso la prospettiva critica elaborata dagli esponenti della Scuola di Francoforte, ha origine il concetto di industria culturale (Horkheimer, Adorno 1944/1947). In un contesto storico drammatico caratterizzato dall’affermazione dei totalitarismi, non sorprende che il riconoscimento di un processo di industrializzazione della cultura transiti attraverso un’attenzione particolare dedicata ai rischi di controllo e dominio perpetrato dalle istituzioni produttive ai danni degli individui, componenti il potenziale pubblico di riferimento. Così, ad esempio, un personaggio come Paperino che dalle pagine dei fumetti al grande schermo fa sorridere gli spettatori non per una battuta o una scena comica, ma semplicemente per la sua sfortuna, per le sfide che perde, perfino per le botte che riceve, diviene la metafora di un pubblico ubbidiente e succube, che di fatto sorride di se stesso e delle sue sconfitte. Qui cultura e comunicazione smarriscono ogni possibile forma d’innocenza, di purezza estetica, per ritrovarsi ricolme di evidenti implicazioni politiche. 81
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Nei decenni successivi alla formulazione della teoria critica, in virtù di una costante accelerazione dei processi d’innovazione tecnologica e dello sviluppo dei canali di trasmissione, traduzione e diffusione della conoscenza, la concezione apocalittica di una cultura totalmente subordinata all’industria e di una perdita dei valori spirituali a vantaggio delle leggi dell’economia si è progressivamente attenuata, cedendo il passo all’affermazione di relazioni ed equilibri più dinamici tra cultura, industria e immaginario. Parallelamente a questo depotenziamento epistemologico, che ha sdrammatizzato il potere del mercato, si sono affermate teorie differenti che hanno proposto giudizi più articolati e approfonditi sul rapporto tra industria e cultura. Alcuni studiosi, in particolare, hanno cercato di comprendere il rapporto di natura dialettica tra la creazione dei contenuti e la standardizzazione delle forme in formule (Morin 1962): una logica sistemica, che appare come uno spazio di produzione e riproduzione di simboli, miti, norme, immagini attraverso cui viene data voce agli istinti e alle emozioni. Altri ancora, considerando le modalità attraverso cui i media forniscono una gran quantità di informazioni e messaggi a masse enormi di persone che un tempo non avevano alcuna possibilità di accedere a determinati prodotti culturali, si sono invece soffermati sull’emersione di nuove aree della cultura. Presupponendo una divisione del lavoro intellettuale, come requisito generale della razionalizzazione richiesta dal sistema economico di produzione, l’industria culturale, infatti, sarebbe in grado di produrre una cultura media, nuovo comun denominatore tra i differenti popoli, le classi, i generi e le generazioni. In realtà, se con la nascita e lo sviluppo della società di massa, s’inizia a cogliere anche il ruolo emancipatore giocato dalla cultura, negli anni ’60 sono forti le critiche nei confronti di una produzione che tende a trasformare i tradizionali valori e i canoni universalmente riconosciuti, opacizzando i confini consolidati che, ad esempio, separavano in modo netto cultura alta e cultura di massa. La cosiddetta midcult, che costituisce una sorta di commistione tra queste due, viene accusata di banalizzare e cannibalizzare la cultura elevata riproponendone, in forma semplicistica, stilemi e strutture narrative (MacDonald 1966). Lungo questo percorso, tuttavia, un interesse teorico crescente nei confronti di prodotti sempre più diffusi (paraletteratura, b-movie, fumetti, soap opera, etc.) ha consentito di operare un notevole ridimensionamento 82
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delle classiche distinzioni tra cultura d’élite e cultura di massa. Anzi, proprio quest’ultima, cosmopolita per vocazione e planetaria per estensione, per molti aspetti può forse essere considerata la prima cultura universale della storia dell’umanità. Quella in cui, indistintamente, prodotti culturali come Batman (1940), Lascia o raddoppia (1955) o Dexter (2006), solo per citarne alcuni, fanno parte di un unico scenario di riferimento che, seppure molto vasto, articolato ed esteso cronologicamente, ospita allo stesso modo Socrate, La Divina Commedia e Einstein. Uno spazio culturale che, nonostante l’opposizione di quanti si oppongono a una simile dinamica, avvertendo il pericolo di una deprimente svalutazione culturale (Citati 1964) e il rischio paradossale che oggi Kant passeggi a braccetto con Django resiste e prospera con il passare del tempo e con l’ulteriore evoluzione anzitutto del significato stesso che diamo al termine cultura, quindi delle connesse modalità di accesso e di fruizione. Concettualizzazioni più recenti, del resto, proprio in funzione dell’analisi delle più ampie opportunità di condivisione e personalizzazione della conoscenza da parte dei consumatori, sono arrivate a considerare la cultura in generale come il frutto di una cooperazione tra creatori e consumatori, implicando meccanismi di produzione e di distribuzione, tecniche di commercializzazione, legami sociali e comunicativi che mettano in contatto soggetti diversi in ambiti diversi. In questo modo, sostanzialmente, è stato ridefinito strutturalmente il concetto di industria culturale che, spogliato delle sue valenze più apocalittiche, è stato sostituito da quello di industrie culturali (Garnham 1990; Hesmondhalgh 2013). Un insieme di beni e servizi prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e commerciali non più su larga scala (Anderson 2004), in un’ottica attenta alla peculiarità di ogni singolo mezzo (TV, editoria, radio, cinema, etc.) e all’attività del pubblico (Hirsch 1972). Aspetti fondamentali da prendere in considerazione, laddove si assiste all’affermazione di una matrice di tipo digitale (Robins, Webster 1999; AllenRobertson 2013), in cui la produzione culturale travalica i confini dei media per attraversarli e metterli in relazione, permettendo al tempo stesso al pubblico di avviare percorsi di consumo molto più personalizzati e definiti secondo bisogni, interessi, tempi e spazi personali.
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3.7. #comunicazionecomepotere
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Come to the dark side. We have cookies Al livello delle relazioni interpersonali, ogni atto comunicativo è condizionato dal tipo di rapporto che esiste fra coloro che ne sono coinvolti e, pertanto, può essere definito come simmetrico o complementare (Watzlawick, Beavin, Jackson 1967). Possiamo considerare simmetrico uno scambio comunicativo in cui ci troviamo sullo stesso piano (ad esempio, quando chiacchieriamo con un amico), mentre ci appare come complementare se, in qualche modo, ci troviamo su piani diversi (quando il nostro datore di lavoro ci chiede informazioni sui compiti che ci erano stati assegnati). Non dobbiamo considerare soltanto il ruolo che ciascuno di noi occupa (amico, insegnante, alunno, genitore, figlio, superiore, dipendente, etc.), ma anche una pluralità di variabili (risorse economiche, formazione culturale, etc.) capace di influenzare l’andamento del flusso di comunicazione. Come già abbiamo anticipato, l’influenza delle relazioni personali e dei legami sociali è certamente in grado di esercitare un impatto decisivo, ma se abbandoniamo la sfera della micro-comunicazione per considerare quella della comunicazione mediata e di massa, dobbiamo ulteriormente ampliare il numero di fattori che concorrono alla determinazione dei rapporti di potere configurabili tra emittente/i e ricevente/i. Nell’ambito dei media studies, in particolare, l’analisi delle forme di potere prodotte dai mezzi di comunicazione è riconducibile all’analisi degli effetti mediali. Dall’invenzione della scrittura (accusata di sminuire la valenza sociale della memoria) alla prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière nel 1895 (durante cui gli spettatori vengono suggestionati dalle immagini in movimento), fino all’avvento della televisione (un portale attraverso il quale il mondo esterno irrompe nell’intimità della casa), alla nascita del computer e alla diffusione di Internet (in grado di creare un mondo virtuale al cui interno l’individuo potrebbe smarrirsi), il dibattito relativo alle potenziali conseguenze indotte dalle tecnologie comunicative e dalla fruizione dei contenuti mediali ha sempre rappresentato uno dei più vasti filoni di studio e ricerca. All’inizio del Novecento, il potere della comunicazione, amplificato dalla messa a punto di una serie di nuovi stru84
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menti, viene paragonato a un proiettile magico in grado di colpire sempre il suo bersaglio, inducendo i destinatari di un potenziale messaggio a eseguire in maniera automatica ciò che gli viene imposto. Con il passare del tempo, la presunta capacità di manipolazione mediale cede gradualmente il passo a una visione secondo cui i mezzi di comunicazione sono fondamentali strumenti di propaganda e di persuasione. Il documentario Olympia, girato dalla regista Leni Riefenstahl durante le Olimpiadi del 1936 a Berlino, esalta la concezione nazista della razza ariana attraverso la rappresentazione di un ideale d’invincibilità e superiorità. Il suo obiettivo principale è quello di diffondere una precisa ideologia: il messaggio, dunque, non nasce dalla semplice riproduzione della realtà esterna, ma da un’attenta combinazione di elementi ritenuti in grado di suscitare attenzione, impressione e ammirazione. La composizione del flusso delle immagini, il ricorso a particolari tecniche di ripresa, la scelta di precise inquadrature, trasforma l’essenza della realtà in una elaborata forma narrativa che, abbandonando volutamente una qualsiasi forma di oggettività, rivela esplicitamente un punto di vista soggettivo. Uno spot televisivo degli anni Cinquanta, in cui una celebre diva di Hollywood rivela che il segreto della sua prorompente bellezza è l’utilizzo di un particolare sapone, veicola un’implicita (e illusoria) promessa di felicità, arricchendo la natura di un semplice prodotto cosmetico con una dimensione simbolica e onirica. A quasi mezzo secolo di distanza, e alla luce delle numerose indagini e delle diverse teorie elaborate al proposito, il dibattito sugli effetti dei media non si è ancora esaurito: pur convivendo molti punti di vista diversi, è ormai maturata la convinzione secondo cui i media non siano in grado di esercitare la medesima influenza su tutti gli individui e, dunque, di determinare un cambiamento immediato, ben definito e uguale per tutti, dal punto di vista cognitivo e comportamentale. Sarebbe, tuttavia, ingenuo professare un’assoluta innocenza della comunicazione che, invece, rivestendo un ruolo primario nei processi di costruzione della realtà e delle identità individuali, produce indubitabilmente effetti concreti e conferisce livelli diversi di potere a chi ne controlla i flussi e a chi ne utilizza i contenuti. Allo stesso tempo, però, è opportuno tenere presente che il potere dei media, con la conseguente possibi85
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lità di generare volontariamente cambiamenti negli individui, va posto al centro di una riflessione di lungo periodo (Noelle-Neumann 1984). Diffondendo rappresentazioni di una realtà (informazioni su quanto avviene nel mondo, aggiornamenti sulla situazione politica del nostro governo, risultati rispetto a una serie di competizioni sportive, etc.), non necessariamente compresa all’interno delle nostre routine, i media (TV, stampa, Internet e così via) possono produrre diversi effetti: ordinare in funzione di un ipotetico criterio di importanza gli avvenimenti (agenda setting); dare l’impressione che esista una presunta maggioranza di persone che condivide un medesimo punto di vista, a discapito di una minoranza che invece appare poco rappresentata (spirale del silenzio); produrre, nei fruitori più assidui, una sorta di deformazione nella percezione del mondo circostante, non determinata dall’esperienza diretta, ma da quella mediata (coltivazione). Il potere mediale, e della comunicazione, si può esprimere però anche attraverso la sua capacità di influenzare mondi che le sono, in origine, estranei e cioè attraverso quello che può essere definito nei termini di un metacapitale mediale (Couldry 2003). I media esercitano potere su altre forme di potere e su altri campi, come ad esempio quello scientifico, riuscendo a imporre, in alcuni casi, le proprie regole e finalità. Possono accrescere il capitale simbolico di uno scienziato che, ospite di un programma televisivo, riesce a esporre le proprie tesi davanti a un vasto pubblico. La visibilità può trasformarsi in fama, in un prestigio che l’esperto, successivamente, può spendere all’interno del proprio universo professionale di riferimento. Le conseguenze, tuttavia, possono essere anche differenti, quando, come molto spesso avviene, si verifica una semplificazione e una banalizzazione dei contenuti veicolati. Così, se un programma televisivo ha come obiettivo primario il raggiungimento di un numero sempre più elevato di spettatori, pur trattando argomenti complessi come quelli legati alla scienza, può optare per una linea editoriale orientata a intercettare un basso livello di competenze pur di aumentare il pubblico potenziale. In casi come questo, inevitabilmente, i temi trattati vengono affrontati attraverso uno stile marcatamente divulgativo, che può fornire un quadro di rappresentazione semplificante in modo eccessivo. Una corretta comprensione delle conseguenze (capire quali effetti hanno i media sulle persone) non può prescindere quindi dalla 86
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considerazione delle modalità attraverso cui questi si concretizzano, come ad esempio in funzione delle dinamiche legate ai cicli di produzione delle informazioni (newsmaking) o dei prodotti culturali (industria culturale). Un altro livello del discorso riguarda, infine, il rapporto che la comunicazione intrattiene con il potere (Castells 2009), non come soggetto attivo e proponente, ma come luogo in cui questo si produce e riproduce. Come osservato ormai da tempo, i media occupano una posizione che non è in alcun modo neutra, né innocente, ma politicamente centrale. Ciò significa che sarebbe un errore pensare la comunicazione come un soggetto a se stante, quasi fosse una sorta di sistema indipendente finalizzato alla semplice messa in luce di altri insiemi dipendenti (la società, la cultura, la politica, etc.). Consideriamo quanto avvenuto rispetto alla televisione italiana, e in particolare ai due principali poli televisivi nazionali, Rai e Mediaset. All’interno della TV di Stato, sin dalla sua origine e in modo ancor più significativo dagli anni Settanta in poi, si assiste a un processo di lottizzazione (Ronchey 1977) tale da determinare un esplicito orientamento ideologico dei diversi canali emittenti, simbolo di una volontà di controllo da parte del mondo politico su quello televisivo. La progressiva espansione della centralità televisiva, accompagnata da una parallela crisi dei partiti, fa registrare, dalla fine degli anni Ottanta in poi, una paradossale inversione di tendenza, con l’affermazione della politica spettacolo (Statera 1986). Contemporaneamente, la nascita di un’alternativa privata, incarnata prima da Fininvest, quindi da Mediaset, contribuisce allo sviluppo di questo processo fino a raggiungere il culmine in cui Berlusconi, importante imprenditore in grado di contrastare efficacemente il potere del servizio pubblico a livello mediale, entra in politica, divenendo per la prima volta Presidente del Consiglio nel 1994. Si delinea così una situazione atipica, fondata su un rapporto anomalo tra diversi tipi di potere (politico/comunicativo), tra diverse sfere sociali (pubblico/privato), tra diverse forme di partecipazione (consumo televisivo/scelta elettorale), tra valori differenti (ideologia/individualismo), che, dopo aver caratterizzato il nostro passato, continua a condizionare anche il nostro presente (Colombo 2012; Ciofalo 2011b; Ginsborg, Asquer 2011). Ovviamente, oggi, considerare gli aspetti della #comunicazionecomepotere non consente di limitarsi più alla sola televisione, ma comporta esten87
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dere riflessioni di questo tipo anche a tutti gli altri strumenti che, seppure secondo traiettorie differenti, contribuiscono a confermare una stessa ipotesi di base: la comunicazione, proprio in quanto congenita attività umana, sia che avvenga a un livello personale, sia che, invece, faccia ricorso a tecnologie sempre più evolute, non può comunque essere considerata pura. Il potere che ne scaturisce, infatti, pur riguardando innegabilmente anche il pubblico, ormai dotato di filtri critici più adeguati e di più avanzate opportunità di scelta e interazione, continua a rappresentare un obiettivo primario per tutti coloro (produttori mediali, politici, intellettuali, lobby, etc.) che, pure attraverso strategie differenti, possono essere in grado di influenzare la scelta, la produzione e la distribuzione dei contenuti a tutti i livelli.
3.8. #comunicazionecomegioco Le jeux sont… fake Un’altra possibile chiave di lettura per definire la comunicazione è quella legata al concetto di gioco: un aspetto fondamentale dell’esperienza umana, che attraverso i meccanismi sociali e culturali della mediazione consente differenti forme di coinvolgimento (Silverstone 1999). Il gioco rientra a pieno titolo nelle attività della vita quotidiana e, allo stesso tempo, se ne distanzia, richiedendo al giocatore di mettere in atto un processo di sospensione dell’incredulità (Jost 2003): prendere parte a un gioco è un atto libero e volontario, che implica l’ingresso in un mondo dove, generalmente, le regole sono ben definite, condivise dai partecipanti, la cui interazione genera la creazione di significati nuovi. Nell’ambito della psicologia infantile, il gioco costituisce un elemento centrale per la crescita del bambino, che in questo modo è in grado di avviare un processo di separazione e individuazione rispetto alla madre. Il gioco diventa, quindi, uno strumento conoscitivo, di esplorazione del mondo, che stimola la fantasia e l’immaginazione (Winnicott 1971). Anche la dimensione dello sviluppo del sé (self) è influenzata dal gioco e, in particolare, è attraverso tre principali fasi (play, game, generalised other) che il bambino, in un primo momento focalizzato esclusivamente 88
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sulla prospettiva dei genitori, riesce a costruire una percezione di se stesso, filtrata attraverso lo sguardo degli altri (Mead 1932). Il gioco, tuttavia, non è soltanto fondamentale perché rende possibile far emergere l’adulto nel bambino, ma anche perché permette di conservare il bambino nell’adulto, garantendo, anche in momenti successivi della vita, un elevato numero di opportunità di condivisione, attraverso cui diventano opachi e labili i tradizionali confini sociali (Meyrowitz 1985). Dal momento che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, la comunicazione ha ormai acquisito un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà e nei percorsi di formazione dell’esperienza, comprendere le relazioni che abbiamo con le tecnologie e quelle che i media hanno tra di loro, anche nella forma del gioco, si rivela un’opzione interpretativa imprescindibile. In particolare, i media possono essere identificati come veri e propri spazi di gioco (sarebbe sufficiente pensare alla nascita dei videogames, all’evoluzione dei giochi di ruolo, agli MMPORG, agli ARG, etc.) grazie alla loro vocazione a coinvolgere il pubblico, inglobandolo in una dimensione familiare ma altra, dove vigono regole differenti che gli spettatori conoscono (o imparano a conoscere): dall’acquisizione delle competenze necessarie all’utilizzo e al funzionamento di un particolare strumento, secondo una prospettiva che vede il gioco come una pratica (un saper fare), all’emersione o definizione d’inedite potenzialità ludiche di mezzi che, al momento della loro ideazione, ne erano sprovvisti (come nel caso dei telefoni mobili con l’utilizzo degli emoticon per la scrittura degli sms). Un’ulteriore e immediata dimensione ludica è poi certamente presente nella struttura stessa dei contenuti veicolati, dalle partite di calcio ai quiz televisivi fino alle applicazioni per i dispositivi mobili. Del resto, l’implementazione di dinamiche legate al gioco in contesti (apparentemente) lontani è divenuta ormai un vero e proprio fenomeno di costume, avvalorando l’ipotesi teorica alla base del concetto di homo ludens (Huizinga 1939). La gamification, infatti, si concretizza in ambiti molto diversi tra loro, da quello commerciale a quello educativo fino al puro intrattenimento, e consiste nell’applicazione di meccaniche tipiche del gioco (punti, livelli, classifiche) che permettono all’utente di sperimentare nuove e più stimolanti forme di partecipazione e coinvolgimento. 89
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Sul versante dell’industria culturale, nello specifico, la leva cui tradizionalmente si fa riferimento è quella della fortuna e del premio, prefigurando una dimensione ludica simile a quella dell’azzardo, anche se oggi tale processo tende a essere sempre più caratterizzato da meccanismi di condivisione con altri potenziali giocatori (come ad esempio nel caso di Foursquare). Va, infine, considerata un’ultima prospettiva che, in qualche modo, potremmo definire nei termini di una sorta di meta-mediazione: la convergenza sempre più ricercata e offerta dai diversi supporti favorisce, infatti, un continuo gioco di rimandi tra i diversi media, consolidando l’abitudine a pratiche di fruizione sempre più orientate a un’esplicita transmedialità. In questo modo, senza curarsi troppo delle differenze tra un canale e un altro, ciascuno di noi, in funzione dei propri interessi e delle proprie passioni, gioca con i mezzi di comunicazione, arrivando a trasformare gli stessi contenuti di cui fruisce oppure a produrne di completamente nuovi, lungo un intervallo compreso tra i mashup di YouTube e gli UGC (User Generated Content). È proprio nell’ottica della più completa manipolazione che, allora, il gioco assume anche una funzione aggiuntiva rispetto a quella della semplice evasione o dell’intrattenimento, fino al punto di acquisire i connotati sovversivi del dissenso e della resistenza. È ciò che avviene, ad esempio, nel caso del subvertising, capace di dare origine a messaggi pubblicitari con scopi diametralmente opposti a quelli prefigurati dagli originali brand di produzione. O ancora, secondo le modalità di quella che può essere definita come pop-ilarity (Leonzi 2009): un fenomeno di contagio comunicativo, basato sulla diffusione di un tormentone, successivamente condiviso e declinato da un numero crescente di utenti, che attraverso la forma dello scherzo o della satira può veicolare forme di critica più o meno esplicita. Tra i molti casi che potrebbero essere citati (dai fake di Twitter ai gruppi su FB) possiamo ricordare quanto si è verificato in occasione delle elezione comunali di Milano del 2011 quando, a seguito di un dibattito televisivo, le accuse lanciate dall’avversaria Letizia Moratti al futuro sindaco Giuliano Pisapia, hanno originato un vero e proprio effetto boomerang, attraverso la moltiplicazione di migliaia di post accomunati dall’incipit “È tutta colpa di Pisapia…”. Uno scherzoso e paradossale esercizio 90
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di stile (poi esteso anche a molti altri vip, esponenti politici, etc.) che, attraverso l’accusa delle più improbabili colpe e nefandezze, nascondeva l’insofferenza e la stanchezza da parte dei fruitori della rete nei confronti di modelli ormai superati di comunicazione politica.
3.9. #comunicazionecomenarrazione
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Era una notte buia e tempestosa… “Mai sottovalutare la forza di una grande storia”, recita il claim di un celebre spot di Canal Plus, e in effetti le grandi narrazioni hanno accompagnato da sempre la società, prima in forma orale, poi scritta e audiovisiva. Le storie, i miti, le esperienze e le culture sono stati tramandati e diffusi grazie ai più diversi strumenti comunicativi, attraverso supporti artigianali e device tecnologici, discorsi e flussi immateriali di dati: non è mai esistito, in alcun tempo, un popolo che non si affidasse ai racconti, poiché questo è uno dei modi attraverso cui una comunità riconosce e preserva se stessa. Fare riferimento all’idea di #comunicazionecomenarrazione, consapevoli che il contenuto veicolato, a prescindere dal canale utilizzato, è comunque un resoconto e, dunque, un racconto, vuol dire concentrarsi sulla sua funzione di messa a punto di un assetto valoriale in cui è possibile riconoscersi, di creazione di relazioni tra simboli e significati, di consolidamento del senso di comunità attraverso la generazione di immaginari condivisi. Grazie alle narrazioni (le storie personali o collettive), infatti, viene conservata e trasmessa, seppure in forme estremamente diverse (un libro di storia, un saggio, un film, un documentario, una fiction, etc.), quella memoria indispensabile al mantenimento di una comunità nel corso dei secoli: la stessa appartenenza a una specifica nazione, del resto, si basa su un mito fondativo (il Risorgimento, la rivoluzione civile, la monarchia, etc.) che si tramanda nello stesso tempo e in tempi diversi tra comunità immaginate (Anderson 1991). Nella società contemporanea l’atto del raccontare assume un ruolo 91
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ancora più centrale, tanto che potremmo indicare quella in cui viviamo come l’epoca del narrative turn. Una fase della civiltà in cui la narrazione si trasforma in una strategia discorsiva capace di accomunare differenti settori della società, della cultura e delle professioni: dai manager che puntano a motivare i loro dipendenti, ai medici che, insieme ai pazienti, ricostruiscono le storie delle patologie da cui sono affetti, fino ai giornalisti che ricorrono a nuove modalità di rappresentazione per la trasmissione d’informazioni (Salmon 2008). È anche ciò che è avvenuto in televisione, mezzo generalista per eccellenza, che, proprio, nel segno di una diffusa narrativizzazione ha proceduto alla rielaborazione di generi e formati, dall’intrattenimento all’informazione. Consideriamo, ad esempio, i criminality show: in format di questo tipo la cronaca nera e la spettacolarizzazione si pongono come gli estremi di un intervallo al cui interno gli anchormen assumono il ruolo di guide, si confrontano gli esperti, sono interpellati testimoni più o meno diretti, vengono prodotti materiali descrittivi aggiuntivi, sempre con l’obiettivo principale di sviluppare una lunga serialità, attraverso cui fidelizzare il pubblico. Il fatto criminoso diventa, così, una favola nera, ricca di archetipi e stereotipi indispensabili per fissare confini netti tra bene e male, tra giusto e sbagliato, che, neppure troppo implicitamente, veicola una morale e, talvolta, persino condanne mediatiche senza appello. Del resto, il principio dello storytelling (la comunicazione come racconto) ha permeato tutte le sfere della produzione culturale e, dunque, qualsiasi fenomeno considerabile come un potenziale contenuto: dalla politica alla scienza, dallo sport alla guerra, fino alle stesse merci. Producendo effetti rilevanti sul piano emotivo e su quello cognitivo, la narrazione si pone come uno degli strumenti più efficaci per la veicolazione di valori, ideologie, comportamenti: il politico vincente è quello che ha una buona storia da raccontare, in cui gli elettori possano identificarsi; la marca vincente non è quella che semplicemente vende un prodotto, ma una storia, ricca di riferimenti simbolici in grado di sedurre il consumatore. Non è un caso che la pubblicità, da sempre all’avanguardia nell’intercettare e confezionare lo spirito del tempo, abbia gradualmente abbandonato la formula ripetitiva degli spot in pillole per concentrarsi, 92
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in modo sempre più convinto, sulla dimensione dell’advertainment (Musso 2005). La combinazione tra intrattenimento, iniziative promozionali e serialità ha fatto sì che i prodotti commerciali venissero reclamizzati, sempre più frequentemente, all’interno di frame narrativi in grado di essere incastrati tra loro, come in un puzzle, per far emergere un’unica storia complessiva: dal condannato che rimanda perennemente la fucilazione, restando attaccato al telefono, al bizzarro paradiso in cui angeli e santi sorseggiano ininterrottamente caffè, fino ai pinguini rockstar che cantano di promozioni e tariffe per cellulari. Oggi, la nuova frontiera dello storytelling è costituita dalla narrazione transmediale (Giovagnoli 2013), grazie a cui uno stesso contenuto può trovare posto su piattaforme diverse, generando potenzialmente uno sterminato universo narrativo a cui accedere da diverse porte. Può trattarsi di una storia pensata già in origine per essere declinata in diversi formati e per diversi mezzi, oppure di una narrazione che solo in un secondo momento, magari in virtù del successo ottenuto, viene rimodellata e fatta circolare attraverso vari device. L’esperienza di fruizione, così, si trasforma: gli elementi della storia, dispersi sulle piattaforme coinvolte, attivano una ricerca di senso e creano un’esperienza inedita di intrattenimento. Intercettando le esigenze di un pubblico sempre più competente, narrazioni come Lost, Matrix, lo stesso Star Wars configurano veri e propri mondi immaginari (Jenkins 2006), in cui la storia non è semplicemente offerta agli spettatori su un medium tradizionale, bensì riprodotta, in modi peculiari, su media differenti (rispettandone le caratteristiche intrinseche), consentendo di attivare vari livelli di coinvolgimento e partecipazione. Ovviamente, non tutto ciò che ci viene raccontato ci interessa: alcune storie sono noiose, altre lontane da noi, alcune non le riconosciamo neppure come tali, disperse come sono nel vasto oceano della comunicazione. Quando, tuttavia, scatta la nostra attenzione selettiva, la narrazione, grazie al suo ruolo chiave nel processo di significazione degli eventi, arriva perfino a influire sul piano della costruzione delle nostre identità individuali. I social media, la più recente frontiera di questo tipo di concezione comunicativa, non fanno altro che offrire opportunità aggiuntive per soddisfare la nostra sostanziale esigenza di raccontarci, 93
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offrendo spazi dedicati in cui è possibile praticare forme di enunciazione, archiviazione e condivisione delle esperienze. Da MySpace a Instagram, le interfacce che utilizziamo, se analizzate nel medio-lungo periodo, contengono, come in una sorta di diario segreto che chiunque può sfogliare, la nostra storia, raccontata giorno per giorno attraverso foto, commenti, preferenze e relazioni. In un episodio della diciannovesima stagione della serie (Eternal Moonshine of the Simpson Mind), a Homer Simpson scorre davanti agli occhi tutta la sua vita, in poco meno di due minuti: come in una successione di istantanee, il suo viso in primo piano si modifica rapidamente (da neonato a bambino, da adolescente a adulto), mentre cambia lo sfondo e compaiono alcuni personaggi che hanno un ruolo importante nella sua vita. La sequenza, in realtà, non è altro che la divertente trasposizione del video Everyday, pubblicato nel 2006 su YouTube dal fotografo nordafricano Noah Kalina, realizzato attraverso la tecnica del time-lapse, basata sull’incremento del numero dei fotogrammi proiettati al secondo. Un individuo (non una persona qualsiasi, ma un fotografo con un’elevata competenza tecnica) presenta se stesso in un autoritratto dinamico, da cui emerge il suo (piccolo) mondo che, tuttavia, smette di essere tale per trasformarsi in una trama universale. Raccontando di sé in forma visuale, Kalina mette in scena la propria identità, componendo però una narrazione condivisa e collettiva, lasciando una traccia del proprio io in una galassia di immagini che, insieme, contribuiscono alla sua concretizzazione. In questa prospettiva anche YouTube si propone come una sorta di archivio universale, una memoria infinita di trame personali che assumono un carattere sociale, in un racconto collettivo apparentemente senza confini, nel quale le singole storie si intrecciano e si connettono. Un esercizio che svolgiamo implicitamente senza prestare troppa attenzione al fatto che: da un lato il rapporto tra il tempo e la nostra identità si esprime sempre attraverso le certezze del passato, i cambiamenti del presente e le ambizioni del futuro; dall’altro avviene una costante riconfigurazione dei limiti tra la sfera del nostro privato e quella del pubblico dominio. Perdendone l’esclusività, cioè, la nostra storia personale diviene una tessera di un più grande mosaico narrativo, attraverso forme più o meno esplicite o suggestive. 94
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Capitolo quarto Le tre H della comunicazione
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GIOVANNI CIOFALO, ANTONIO DI STEFANO, SILVIA LEONZI
«L’ambiente in cui vivono gli esseri umani è fortemente pervaso dall’esperienza, dai ricordi e dalle abitudini acquisite di coloro che li hanno preceduti, e questa è una delle ragioni per cui gli esseri umani, a differenza degli animali inferiori, sembrano essere così inadatti al mondo in cui nascono». (R.E. PARK, La città, 1925) «Prendiamo un medico, per esempio. Ha un certo modo di fare con i malati, e in generale si comporta come ci si aspetta che si comporti un medico. Può addirittura identificarsi così totalmente con il suo ruolo da credere di essere come appare agli altri. Deve apparire in una data forma, o gli altri non crederanno che è un medico. Lo stesso vale per il docente universitario: deve comportarsi in un certo modo perché sia plausibile che è un professore universitario». (C.G. JUNG, Jung parla. Interviste e incontri, 1995) «Sarò anche stato concepito nei remoti meandri dello spazio… ma sono veramente nato quando si aprì il razzo sulla terra in America. Serberò sempre i ricordi donatimi da Jor-El e Lara… ma solo come strani mementi di una vita che non è stata. Krypton mi ha generato, ma è la terra che mi ha dato tutto ciò a cui tengo. È stato Krypton a fare di me Superman… ma è la Terra che mi rende umano!». (SUPERMAN, Man of Steel, n° 6, 1986)
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4.1. Il perché dei perché Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ripercorrere alcune delle principali tappe che hanno contraddistinto il processo di modernizzazione della nostra società alla luce della nascita e dello sviluppo dei media, provando a spiegare come la comunicazione, nel corso di poco più di due secoli, sia riuscita a occupare un ruolo di fondamentale importanza tanto dal punto di vista sociale che culturale. Abbiamo quindi considerato come questa centralità si sia tradotta nella scelta di farne un oggetto di studio da parte di un numero molto vasto di discipline, fino alla fondazione di un ambito di studi autonomo. Infine, resistendo alla tentazione di intrappolare un fenomeno così ampio e strabordante in una singola definizione, abbiamo optato per un approccio teorico fondato sull’idea che la possibilità di capire davvero la natura di ciò che chiamiamo comunicazione sia direttamente proporzionale alla nostra capacità di individuarne, e com-prenderne, una pluralità di significati. Una simile articolazione teorica, fondata su tre livelli differenti eppure tra loro complementari, è stata essenziale per consentirci di affrontare finalmente l’ipotesi concettuale che guida la stesura dell’intero volume: il potenziale passaggio a un nuovo stadio evolutivo, che ha come protagonista quello che abbiamo scelto di chiamare homo communicans. Utilizzare una simile espressione non costituisce una provocazione o una suggestione teorica: il tipo di cambiamento che la comunicazione è stata in grado di produrre sull’uomo, nel corso della storia e in particolare negli ultimi due secoli, non sappiamo quanto incida sulla sua dimensione biologica o naturale, anche se gli studi neurobiologici hanno comunque sottolineato alcuni importanti legami tra aspetti fisici e cognitivi che si attivano nel corso dei processi di comunicazione (pensiamo ad esempio alla scoperta dei neuroni-specchio). Ciò nonostante, pur riferendoci principalmente alla sfera culturale, l’insieme dei numerosi effetti che ne derivano assume una rilevanza tale da rendere verosimile l’idea di una transizione a un differente stadio della civilizzazione. Una modifica che però non dobbiamo leggere necessariamente in termini di avanzamento: non vogliamo, cioè, attivare un’interpretazione lineare e sempli96
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ficante secondo cui il progresso, sia esso sociale o tecnologico, produce in ogni caso un miglioramento. Il cambiamento in atto è così simultaneo e macroscopico che, certamente, soltanto tra qualche tempo ne saranno più chiare le linee di sviluppo e gli esiti. Alla luce di quello che potremmo allora definire come il perché dei perché, ciò che intendiamo fare è individuare una nuova categoria interpretativa, che sia in grado di tenere insieme i molteplici aspetti della comunicazione e la progressiva trasformazione che, attraverso una simbolica incorporazione, ha riguardato l’individuo. Per comprendere la portata di questa rivoluzione antropologica, arrivati a questo punto, è necessario provare a rispondere ad altri perché: in questa prospettiva puntiamo, allora, a comprendere perché la comunicazione può essere, contemporaneamente, considerata un ambiente (habitat), uno spazio d’interazione (habitus), una terza natura (heimat). Attraverso queste tre h, il nostro obiettivo è quello di esaurire, per quanto possibile, l’elenco dei processi di trasformazione che, incidendo sul piano cognitivo, costituiscono i presupposti, teorici e pratici, per affrontare nell’ultimo capitolo la fenomenologia dell’homo communicans.
4.2. Perché la comunicazione è un habitat Partiamo da una sorta di sillogismo: la comunicazione non è più semplicemente un insieme di mezzi che utilizziamo, ma un ambiente in cui siamo immersi: habitat vuol dire ambiente, ecco perché la comunicazione è un habitat. Ovviamente, questa semplice corrispondenza linguistica non è sufficiente. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la presenza costante e multiforme della comunicazione nella nostra vita quotidiana (ormai quasi un’onnipresenza) rende molto difficile mettere a fuoco l’oggetto di studio che c’interessa: come se, scattando una fotografia, fossimo noi stessi inglobati all’interno di un’immensa, invadente immagine, in grado di occupare tutto lo spazio intorno a noi, senza consentirci di coglierne chiaramente i contorni e dunque le caratteristiche. Ciò nonostante, consi-
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derare la comunicazione come un ambiente, dopo aver proceduto a elaborarne una serie di declinazioni, permette di iniziare a delimitare lo scenario di riferimento al cui interno ci stiamo muovendo, dopo averlo volutamente ampliato. Un obiettivo che, del resto, accomuna chiunque decida di capire cosa sia oggi la comunicazione e sia orientato a sviluppare una visione adeguatamente critica, e cioè non forzatamente favorevole oppure contraria ai cambiamenti che questa determina. Per verificare la validità dell’equivalenza comunicazione = habitat è necessario, anzitutto, capire cosa intendiamo con questo secondo termine. Generalmente, con habitat si fa riferimento all’insieme delle condizioni ambientali che caratterizzano la vita e consentono la sopravvivenza di una specie animale o vegetale. L’habitat, quindi, non è semplicemente uno spazio fisico, ma più propriamente il risultato del rapporto tra tre differenti dimensioni: spazio – tempo – vita. Tale risultato, di conseguenza, non è determinato in modo definitivo, ma, a seconda del tipo di spazio (un ambiente geografico, ma anche uno sociale o culturale), del tipo di tempo (sia in un’accezione metereologica, sia in una storica), del tipo di vita (una specie animale oppure vegetale) che consideriamo, tende a modificarsi e, soprattutto, a estendersi. Non esiste un singolo habitat, ma una moltitudine di ambienti, la cui sovrapposizione e integrazione dà origine a una figurazione macro-sistemica: un habitat complessivo al cui interno si preserva la vita, nel senso più generale possibile. Ecco, allora, che per poter comprendere le caratteristiche della nostra realtà comunicativa, e non solo da un punto di vista scientifico, dobbiamo tenere bene a mente questo presupposto e indirizzare la nostra attenzione anziché verso un unico e ipotetico oggetto, verso una pluralità di habitat comunicativi abitati da attori sociali completamente diversi rispetto al passato, frutto di una grande co-evoluzione che ha coinvolto elementi biologici, tecnici, culturali, antropologici. Se la conoscenza concepibile come esplorazione del mondo ha sempre rappresentato una prerogativa tipicamente umana, l’evoluzione tecnologica attraverso i media, dalla scrittura (Ong 1982) agli strumenti elettrici e elettronici (McLuhan 1964), ha consentito che questa potesse avvenire anche secondo modalità indirette. L’impossibilità di sperimentare in prima 98
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persona gli innumerevoli ambienti di vita, di stabilire relazioni o più semplicemente di entrare in contatto con tutti i membri di un gruppo, è stata così aggirata dall’opportunità di conoscere, in forma mediata, luoghi e culture lontane e di tramandare queste informazioni, secondo predefiniti standard di trasmissione, alle generazioni successive. In altre parole, la nostra atavica esigenza di abitare il mondo ha portato a un processo di compenetrazione tra gli elementi naturali e biologici e quelli sociali e culturali (tra corpo e protesi tecnologiche). Contestualmente ha reso la relazione tra ambiente e comunicazione sempre più stretta e indissolubile, nel segno di una precisa concezione strumentale e strategica: addomesticare la natura circostante, costruire forme di solidarietà e istituire legami sociali, al fine di rendere possibile la sopravvivenza e di ridurre l’incertezza e la paura dell’ignoto. Ancora una volta, intendiamo qui la comunicazione come istinto naturale e come esigenza sociale (#comunicazionecomebisogno), sviluppata attraverso le possibilità di creare forme di trasmissione (#comunicazionecomeinformazione) e di condivisione (#comunicazionecomerelazione), anche grazie a una fondamentale capacità simbolica (#comunicazionecomecultura). Un’abilità unica che ha consentito a un nostro antenato, milioni di anni fa, di osservare ciò che gli stava intorno con un nuovo sguardo e di iniziare a elaborare associazioni di significato che hanno innescato un processo irreversibile: la civilizzazione. Il primate che raccoglie dal terreno un osso, scoprendo che ciò che prima era semplicemente un resto animale può diventare un’arma, è, come suggestivamente racconta Stanley Kubrick nel film 2001: Odissea nello spazio (1968), il primo uomo sulla terra (Abruzzese 1979). Una volta divenuto faber, l’uomo riesce a distinguersi dagli altri esseri viventi perché è in grado di articolare suoni dotati di senso e perché riesce a produrre strumenti, artefatti simbolici (utensili, armi, etc.), da utilizzare per raggiungere i suoi obiettivi, primo tra tutti la sopravvivenza. La conoscenza che acquisisce, progressivamente, lo rende sapiens e gli permette di plasmare l’ambiente che ha intorno in funzione delle proprie esigenze, che inevitabilmente mutano al mutare dell’ambiente. Per abitare il mondo, in sostanza, gli esseri umani, nel tentativo di dominare la natura (esterna e interna a essi), ne producono e riproducono molti altri e, modificando la loro stessa ereditarietà biologica, riesco99
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no a trasmettere le competenze e le tecniche indispensabili affinché questo processo non si interrompa. La comunicazione, attraverso la creazione, implicita e esplicita, di connessioni tra mezzi, modalità di condivisione e di trasmissione, diviene una realtà di vita, non alternativa, ma perfettamente sovrapposta a quella apparentemente più concreta e immediata. Un orizzonte visivo che, grazie ai processi di evoluzione tecnologica e culturale, si arricchisce fino a scomporsi, come all’interno di un caleidoscopio, in una pluralità di immagini e di frammenti: non abitiamo più una singola realtà, ma al contrario la nostra realtà è composta da tante altre realtà, in parte esclusive e in parte condivise. Il significato del termine habitat a cui facciamo riferimento non coincide, allora, con l’idea di un unico spazio esteso, ma più propriamente con quella di un multiverso. Questo termine, poi impiegato anche nel campo della meccanica quantistica, coniato nel 1895 dal filosofo e psicologo americano William James, presuppone il superamento dell’idea di un solo universo (un infinito spazio dominato da un unico tempo) a favore dell’ipotesi della coesistenza di più universi (infiniti spazi compresenti in infiniti tempi) capaci di racchiudere qualsiasi aspetto della realtà. Si tratta ovviamente di una suggestione che, però, appare particolarmente efficace nel descrivere le modalità attraverso cui la comunicazione è, ed è stata, abile nell’originare, alimentare, ma anche preservare una pluralità di mondi compresenti e interconnessi, riconfigurando una concezione della realtà precedentemente fondata sulla linearità del tempo e sull’esclusiva corporeità dello spazio fisico. Proviamo a sintetizzare quanto detto: l’uomo nasce in un ambiente che, per essere abitato, prevede lo sviluppo di forme di adattamento; una peculiare forma di adattamento dell’uomo è rappresentata dalla comunicazione, la quale, tuttavia, determina una modifica dello stesso ambiente in cui l’uomo si trova; l’adattamento, quindi, diviene un processo di trasformazione dell’ambiente circostante che, proprio in funzione del ricorso alla comunicazione, assume le caratteristiche della costruzione di nuovi ambienti all’interno di quello iniziale, la cui naturalità e artificialità, infine, non sono più distinguibili né assolute. Seppure all’interno di una cornice di finzione, quanto appena descritto costituisce uno dei temi fondamentali della serie televisiva Lost, pro100
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dotta dalla ABC e trasmessa dal 2004 al 2010: ultimo e rilevante esempio, in ordine di tempo (in precedenza avremmo potuto fare riferimento a testi letterari come Robinson Crusoe di Daniel Defoe o Il signore delle mosche di William Golding), della complessa dialettica che da sempre è esistita tra l’uomo e il suo ambiente. Sin dalla fase immediatamente successiva alla caduta dell’aereo sulla spiaggia di un’isola (apparentemente) deserta, i molti protagonisti, immersi in storie prive di linearità, ma ricolme di una simultaneità che costringe lo spettatore a ridefinire le proprie abitudini di fruizione (Leonzi 2011; Ciofalo 2011a), tentano di addomesticare lo spazio in cui si trovano, al cui interno stabiliscono relazioni tra loro. Il processo di esplorazione e colonizzazione, tuttavia, non è dettato semplicemente da un bisogno naturale di salvezza e di sicurezza: a guidarli, infatti, è anche un desiderio di conoscenza che tanto più è soddisfatto quanto più genera interrogativi e produce nuove incertezze, metaforicamente rappresentate da una misteriosa botola che, come la tana del bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie (1865), si spalanca su molti altri mondi (narrativi) possibili (Rose 2010). I diversi spazi di vita che, gradualmente, vengono scoperti e definiti determinano così la generazione di un habitat complessivo che, però, non è semplicemente il frutto della loro somma algebrica, né tanto meno appare ordinato da una esclusiva logica causale: esattamente ciò che avviene, al di fuori della fiction, nella nostra quotidianità, senza che in noi ve ne sia consapevolezza. Pensiamo a Internet: sin dalla sua prima diffusione, e per molto tempo dopo, la rete è stata etichettata come uno spazio virtuale completamente distaccato e differente da quello reale. Non è così: le molteplici connessioni prodotte e riprodotte dagli utilizzatori nella dimensione online, infatti, tendono a essere trascinate, senza soluzione di continuità, anche nell’offline. Allo stesso modo avviene il contrario, quando trasponiamo virtualmente nella realtà del web la mole complessa delle nostre relazioni, dei nostri valori e atteggiamenti, della nostra identità. Così è stato possibile che, dopo la sua creazione avvenuta nel 2003, l’ambiente digitale di Second Life si sia popolato degli avatar degli utenti, attraverso lo slittamento in una dimensione altra (seconda per l’appunto) rispetto a quella primaria dell’esistenza. Nello stesso modo, 101
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però, al suo interno, oltre all’amplificazione delle relazioni comunicative consentita dalla tecnologia, sono stati riprodotti comportamenti, abitudini e pratiche che hanno acquisito un significato in rete proprio in virtù della loro fondatezza sociale e culturale fuori dalla rete (Terranova 2004): si è verificata, cioè, una contaminazione con la Real Life (Ciofalo 2010). Non solo: l’attrattiva di questo vero mondo finto, dovuta in buona parte anche alla suggestione derivante dalla sua struttura analogica (l’analogia/similitudine con il vero mondo vero), si è attenuata piuttosto rapidamente a causa del diverso e più semplice funzionamento delle successive interfacce, nella convinzione ormai acquisita che il mondo, o i mondi, che esperiamo in forma diretta o mediata, non sono mai paralleli né tanto meno separati. Analogamente, andrebbero considerate ulteriori variabili: la specifica progettazione di un sito (il suo design) costituisce, in modo innegabile, un elemento già da solo capace di influenzare le modalità di aggregazione degli utenti e le strategie legate alla costruzione e alla presentazione della propria identità in rete (Donath 2008; Donath, boyd 2004), favorendo od ostacolando la partecipazione di determinate tipologie di agenti online (Papacharissi 2009). LinkedIn, ad esempio, si fonda sul sistema definito gated-access approach, secondo cui la connessione tra gli utenti, per potersi realizzare, deve fondarsi su una relazione pre-esistente o un contatto reciproco. La scelta, che rende le performance online più statiche e meno interattive, non è ovviamente casuale, ma finalizzata al conseguimento di un più elevato livello di fiducia tra i membri. ASmallWorld è pensato come un ambiente privato, il cui accesso è reso possibile dall’invito di alcuni utenti già iscritti, ai quali viene offerto tale privilegio a condizione di possedere un’ampia varietà di reti sociali e una membership di lungo periodo. Nella casa di vetro Facebook oppure nel quotidiano in pillole Twitter, invece, la maggior parte degli utenti è incline a muoversi e a posizionarsi all’interno di gruppi caratterizzati dai medesimi gusti e dalle stesse scelte. Una tendenza che può essere simbolicamente rappresentata dall’esclusività del like (non esiste un dislike), che tende a banalizzare processi di partecipazione e, implicitamente, sembra spingere verso aggregazioni private da conflitti e visioni alternative. 102
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In quest’ottica, i SNS, porzioni di una più vasta realtà (Internet), si pongono quasi come walled gardens o giardini recintati (Lovink 2012), la cui intima natura monologica, in contrasto con la loro sterminata vastità (basti pensare al numero degli iscritti e alla quantità dei contenuti prodotti), non è legata soltanto a una serie di barriere in ingresso, determinate dalla loro particolare conformazione (tecnologica e di membership), ma anche a variabili di tipo sociale: piccoli mondi elitari fondati, in alcuni casi, sulla replicazione di tradizionali forme di disuguaglianza sociale e culturale. Il multiverso comunicativo, l’habitat cui facciamo riferimento, dunque, nonostante avalli un’evidente fluidificazione delle relazioni, non consente un utopistico superamento delle differenze, che invece si dimostrano sempre connesse all’eredità simbolica che ciascuno di noi incorpora nelle (e attraverso le) sue pratiche quotidiane. L’impatto culturale e simbolico della pervasività dei media nella vita quotidiana delle persone (Silverstone 1999) e la logica connettiva che attualizza tali pratiche, anche attraverso l’utilizzo di dispositivi come gli smartphone e i tablet, consente all’attore sociale di scavalcare agevolmente le presunte barriere che, un tempo, si ponevano come confini predefiniti tra uno spazio e l’altro. Se, infatti, accanto a Internet e ai telefoni mobili, proviamo a posizionare l’insieme complesso di tutti gli altri ambienti comunicativi determinati dai precedenti mezzi di comunicazione e dalle innumerevoli altre forme di relazione, il risultato che otteniamo è quello di un aumento esponenziale del livello di complessità del nostro habitat. Un multiverso, appunto, che rappresenta una forma di arricchimento (o complessificazione) di una nostra originaria realtà naturale. Il fatto che, in conclusione, questa prerogativa possa essere segnata da contraddizioni e criticità non deve essere considerato anomalo o sorprendente: la comunicazione, infatti, pur sperimentando secondo forme tradizionali o inedite, identità, pratiche, valori, norme, rimane comunque il prodotto di un mondo sociale e culturale che essa stessa contribuisce a riprodurre. Proprio per questo motivo, allora, dopo averne compreso la valenza di habitat è necessario tentare di capire in che modo essa si ponga anche come habitus e come heimat.
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4.3. Perché la comunicazione è un habitus A un livello generale, l’habitus può essere inteso come il rapporto, caratterizzato da un processo di influenza bidirezionale, che esiste tra un soggetto e la collettività cui appartiene. Una connessione, irresolubile, tra noi e il mondo. Ancora una volta, per riuscire a definire uno specifico aspetto della comunicazione dobbiamo far ricorso a un concetto ugualmente dinamico e processuale che, in campo sociologico, è stato oggetto di diversi studi e ricerche (Bourdieu 1972, 1980; Elias 1987, 1991), con l’obiettivo di dimostrare come le nostre rappresentazioni e le nostre immagini della realtà siano allo stesso tempo il prodotto di disposizioni socialmente determinate e le fonti generatrici di nuove pratiche sociali. L’habitus inscrive la relazione tra l’individuo e la società in un processo circolare, che rende impossibile attribuire a ciascuno di noi proprietà completamente innate o, viceversa, completamente acquisite. Qualsiasi routine che abbiamo appreso nel corso del tempo attraverso un’interazione sociale quotidiana, non risponde a un principio meccanicistico di causa-effetto, ma è sempre il frutto di una negoziazione che ha luogo tra noi e la società. Come vedremo, quale che sia l’ambito di riferimento e più che mai nel caso della comunicazione, non è possibile utilizzare un modello di spiegazione di stampo comportamentista, secondo cui, semplicisticamente, è uno stimolo a determinare una precisa risposta. Consideriamo un aspetto della vita di tutti i giorni: l’abbigliamento. Il modo in cui ci vestiamo è determinato, apparentemente, dal nostro gusto personale. Il gusto, tuttavia, deriva, seppure secondo strategie diverse rispetto al passato, da una sorta di compromesso tra noi e il nostro ambiente di riferimento. Le nostre capacità o possibilità di scegliere e acquistare i capi di vestiario sono influenzate dalla disponibilità economica (possedere o meno prodotti costosi o di marca). La volontà di seguire una moda può costituire un elemento significativo dei nostri acquisti. L’educazione che abbiamo ricevuto può rappresentare un fattore altrettanto determinante nell’orientare le nostre scelte, così come possono dimostrarsi fondamentali le esperienze che abbiamo fatto entrando in contatto con altre persone. Possedere lo stesso indumento può rivelarsi un elemento fondamentale di 104
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aggregazione e socializzazione (come ad esempio per i ragazzi in età scolare), oppure impedire forme di distinzione e individualizzazione (come ad esempio accade con le uniformi). Una certa combinazione d’indumenti può trasformarsi nell’espressione di un preciso stile di vita (punk, yuppies, emo, hipster, etc.), oppure nella necessità di adeguare il proprio abbigliamento a un particolare contesto (lavoro, tempo libero, etc.). Anche una certa noncuranza, se non il totale disinteresse, rispetto all’abbigliamento deriva in realtà dal modo in cui, assorbite una serie d’informazioni e norme sociali e culturali, abbiamo proceduto a costruire una categoria personalizzata di moda, che utilizziamo nella vita di tutti i giorni. L’habitus è quindi il risultato di un processo che, sulla base dell’ambiente di riferimento, l’eredità sociale, culturale, simbolica incorporata dal soggetto attraverso la socializzazione, orienta le possibilità di scelta e di azione dell’individuo (Bourdieu 1979), il quale, tuttavia, nel metterle in atto secondo le proprie inclinazioni produce contemporaneamente una conferma e una modifica di quella stessa eredità e, dunque, del proprio contesto sociale (De Certeau 1980; Sewell 1992; Lahire 2003). Più semplicemente, potremmo utilizzare la definizione d’interdipendenza (Elias 1987): il modo in cui l’io individuale e il noi sociale si modellano, attraverso un rispecchiamento e una contaminazione tra strutture psichiche e sovraindividuali, dà origine a specifiche configurazioni storico sociali, come ad esempio la società medievale, la società di corte o ancora la nostra società della comunicazione. Pensiamo al rapporto che lega un genio, oppure un artista, allo spazio e al tempo in cui vive: la sua capacità di anticipazione e di espressione appare sempre e comunque condizionata da quegli stessi canoni conoscitivi o estetici che, pure, egli stesso contribuisce a modificare. È quello che emerge ad esempio da uno studio condotto in relazione alla figura di Mozart (Elias 1991): l’interdipendenza tra l’epoca (il 1700) in cui Mozart vive e compone e l’indiscusso talento musicale che lo anima, danno origine a uno specifico habitus. Mozart, di origini piccolo-borghesi, infatti, si afferma presso un mondo aristocratico che non gli appartiene (la corte in cui si esibisce e per cui lavora). Il suo genio musicale, in una fase in cui l’arte, strettamente condizionata da dinamiche di mecenatismo (l’artista come esecutore), non è stata ancora sottoposta a quel complessivo processo di rivalutazione che avrà luogo con il 105
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romanticismo (l’artista come creatore), è riconosciuto solo nel momento in cui soddisfa il canone musicale cui l’imperatore e i suoi cortigiani sono già alfabetizzati. Eppure, contemporaneamente, la portata innovatrice delle sue composizioni segna un’evoluzione nel modo stesso di fare musica sia nella sua epoca, sia nei secoli successivi. Modificando la nostra prospettiva, potremmo procedere ad analisi simili in relazione anche ad altri personaggi storici oppure a epoche più o meno recenti (da Leonardo da Vinci a Nelson Mandela, fino a Steve Jobs). Utilizzare la categoria interpretativa dell’habitus, in sostanza, vuol dire arrivare alla conclusione, solo apparentemente banale, che gli individui sono, contemporaneamente, conio e moneta (Elias 1987) del mondo sociale che li ospita e che essi stessi contribuiscono a costruire. L’impatto che la comunicazione ha avuto su questo processo è stato deflagrante: la moltiplicazione delle occasioni di scambio, confronto e condivisione, garantita da una crescente pervasività mediale, ha condotto a un potenziale superamento della classica distinzione/opposizione tra individuo e società, ipostatizzata dalla modernità e dalle categorie della sociologia classica. L’ambiente di vita, arricchito comunicativamente, si è trasformato in una rete sempre più fitta di relazioni, attraverso cui ciascuno di noi procede alla costruzione e alla gestione delle sue diverse identità, all’acquisizione o alla modifica di conoscenze, valori e pratiche quotidiane, allo svolgimento della propria esistenza e al raggiungimento dei propri, diversi e numerosi obiettivi. Alla società, intesa come realtà ontologicamente oggettivata, si è venuta, cioè, ad affiancare la socialità, intesa come insieme di relazioni e processi (Melucci 1998). Oggi, continuiamo a fare i conti, come Mozart in passato, con le attese, le necessità e i limiti imposti dalla convivenza sociale e dalle risorse culturali, simboliche, conoscitive disponibili in un determinato periodo, ma utilizzando un più elevato numero di opportunità comunicative siamo in grado di modificare più agevolmente la nostra struttura e quella dell’intreccio sociale che contribuiamo a formare. L’uso intensivo dei mezzi di comunicazione, e come dicevamo nel paragrafo precedente, la loro trasformazione in un ambiente complesso, ha coinciso con la continua emersione di nuove forme di azione e d’interazione, di nuovi tipi di relazione e di nuovi modi di rapportarsi a se stessi e agli altri. Si tratta di una 106
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trasformazione interna all’architettura cognitiva del singolo e a quella contestuale della società: la comunicazione combina, nella forma del connettivo, l’individuale e il collettivo (De Kerckhove 1997), modificando l’habitus da interdipendenza, costante in tutte le epoche ma caratterizzata da un’intensità variabile, a connessione. L’esempio che riesce a rappresentare nel modo più immediato, e anche suggestivo, ciò che stiamo provando a descrivere è fornito dall’immagine della rete: ognuno di noi, infatti, può essere considerato come un punto (un nodo) che, insieme a tutti gli altri, dà forma a una specifica figurazione (un assetto) reticolare attraverso cui passano e si diramano i flussi comunicativi. Contemporaneamente, però, ciascuno di noi può contribuire a modificare o implementare anche il contenuto (e non soltanto la forma) di cui è composta tale configurazione. Ovviamente, parlando di rete non intendiamo riferirci soltanto a Internet. Il successo di un prodotto culturale (un film), la diffusione di un bene di consumo domestico (un detersivo), oppure tecnologico (un tablet), oggi può essere spiegato, ancor più che in passato (Katz, Lazarsfeld 1955), in funzione dell’aumento esponenziale della capacità di influenza esercitata dalle persone, in grado di porsi in modo più dinamico e complementare come opinion leader all’interno di interminabili e tortuose catene di passaparola, che si sviluppano nell’ambito di un numero sempre più elevato di canali. L’espansione dei mezzi e degli ambienti comunicativi, in sostanza, supportata da un’estensione senza precedenti dei contenuti disponibili e fruibili, ci offre, in maniera crescente, la possibilità di trasformare curiosità, interessi e passioni prima in opportunità di approfondimento, quindi in occasioni di scambio e confronto, dirette o mediate, in cui, alternativamente, assumiamo il ruolo di influenti o di influenzati, a prescindere dal nostro status, dalla posizione che occupiamo nel ciclo di vita o dal nostro livello di gregarismo. Così, ad esempio, un individuo cresciuto negli anni Sessanta, che ha collezionato l’intera discografia dei Beatles, oggi può incontrare un fan più esperto che, seppure nato negli anni Novanta, all’interno dei propri device, oltre all’intera libreria musicale, possiede alcuni inediti, ha scaricato tutti gli articoli, italiani e stranieri legati al gruppo, ha realizzato un blog personale dedicato e come suoneria del suo cellulare ha scelto di 107
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impostare Yesterday. O ancora, un appassionato lettore di fumetti de L’Uomo Ragno può restare sbalordito dalla competenza e dalla preparazione di un bambino che, nell’arco di un periodo relativamente limitato, può aver sviluppato un’analoga conoscenza di questo supereroe attraverso la fruizione di un mix di prodotti culturali (comics, film, videogame, action figure, etc.), nel segno di un’ottica compiutamente transmediale. Nei casi appena citati, pur riferendoci più direttamente a un’idea di influenza personale comunque coerente al percorso che stiamo affrontando, la ricchezza comunicativa è in grado di fornire risorse e strumenti aggiuntivi che, in apparenza, sembrano limitarsi al solo piano dell’interazione. Procedendo verso un livello più complesso, possiamo, però, osservare come, al di là delle relazioni personali o di delimitati gruppi di appartenenza, la comunicazione acquisisca compiutamente la valenza di habitus, presupponendo nuove forme di attualizzazione del rapporto tra l’individuo e la collettività. Consideriamo di nuovo Internet: i casi in cui gli utenti mettono a disposizione volontariamente le proprie capacità, le proprie competenze, il proprio tempo (libero) sono moltissimi. Le diverse forme di engagement risultano appaganti in quanto costituiscono il risultato di un coinvolgimento dell’individuo, che tanto più mette in campo i propri desideri e le proprie capacità, quanto più soddisfa la propria ambizione. Tali pratiche, cioè, non essendo regolate da filtri formali, permettono al soggetto di mettersi in gioco completamente, senza limiti, ottenendo ricompense simboliche (reputazione, apprezzamento, etc.), che possono essere re-investite in altre galassie dell’universo social. In Wikipedia, ad esempio, scrivere un documento su un personaggio pubblico, un evento storico, una scoperta scientifica costituisce un’attività in cui sono coinvolte migliaia di persone, che possono intervenire per colmare un vuoto (una voce mancante), oppure per migliorare quanto realizzato da altri (Lovink, Tkacz 2011). I librarians di aNobii, scambiandosi recensioni e informazioni sui volumi che possiedono, creano uno spazio tanto virtuale quanto concreto di condivisione della conoscenza (Di Stefano 2011, 2012). I fandom online, popolati da appassionati di una particolare serie televisiva, possono riuscire a esercitare una pressione tale da produrre cambiamenti persino sulla stessa struttura narrativa del prodotto (Andò 2007). 108
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Come abbiamo già avuto modo di anticipare, il venir meno di una netta distinzione tra una dimensione ipoteticamente virtuale e una ipoteticamente reale rende più che plausibile l’idea che la messa a punto di nuovi stili di azione e d’interazione non si limiti allo specifico ambito comunicativo in cui si verifica. In altre parole, la comunicazione, fornendoci un più elevato numero di risorse (canali, contenuti, etc.), ridefinisce il nostro agire comunicativo e ci abitua a nuovi standard che, poi, tendiamo a utilizzare, seppure attraverso opportune declinazioni, a prescindere dal contesto cui facciamo riferimento. È esattamente in questo passaggio, allora, che diviene possibile intuire e cogliere la valenza della comunicazione come nostro habitus elettivo: un’idea di connessione che garantisce una più vasta capacità di azione, trasposta al di fuori del sistema in cui si sviluppa, fino a tradursi in un nuovo statuto ontologico. Ognuno dei casi considerati, basandosi sul dialogo e sulla simultaneità, può essere ricondotta a un ideale modello sociale connessionista (Boltanski, Chiapello 1999) che, diffusosi a partire dagli anni ’60 del Novecento sotto forma di una inedita filosofia di vita, tratteggia le sembianze di un nuovo individuo, flessibile e autonomo. Questo paradigma, che si afferma entro specifici contesti lavorativi (si pensi, ad esempio, all’immagine offerta da imprese come Google o Apple, solo in apparenza libere da qualsiasi forma di gerarchia), riesce progressivamente a imporsi anche in quello spazio più personale rappresentato dal tempo libero. Essere continuamente connessi, ludicamente impegnati, in numerosi ambienti comunicativi, dai quali uscire e ai quali accedere quando si vuole, configura per l’individuo un habitus attraverso cui può sentirsi libero di esprimere se stesso, i propri desideri, le proprie capacità. Tale habitus sembra distante da qualsiasi forma di condizionamento economico e strumentale, a tal punto che tra le metafore in grado di esprimerne il senso, quella del dono appare la più affascinante (Aime, Cossetta 2010). Una simile visione si basa sulla considerazione della ricchezza cognitiva e delle moltiplicate opportunità di partecipazione, offerte non soltanto da Internet (Benkler 2006; Shirky 2010), che è possibile idealmente comprendere all’interno dell’intervallo che va dal digital al civic engagement (Dahlgren 2009). Nonostante tale fondamentale passaggio, nell’arco di pochi anni, sarà sempre meno riconducibile a un particolare livello di alfabetizzazione 109
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mediale oppure alla disponibilità di uso e fruizione di un certo numero di strumenti, non si vuole sostenere che esso costituisca, invariabilmente, un fattore di miglioramento e di progresso, sul piano sociale o culturale. Di certo, un più elevato livello di partecipazione e, al tempo stesso, la presa d’atto da parte del singolo di rivestire un diverso ruolo nei confronti della collettività prefigurano una serie di opportunità certamente molto affascinanti. Vogliamo però sottolineare che la velocità che caratterizza quanto sta avvenendo, come cercheremo di argomentare nel prossimo capitolo, può rappresentare un possibile elemento di distorsione del giudizio che oggi siamo in grado di formulare e, in ogni caso, non consente di verificare, in tempo reale, gli effetti che tali modifiche inducono. Diversi studi hanno già tentato di evidenziare come alcune pratiche comunicative possano anche nascondere una logica strumentale ed economica, in grado di sfruttare una forma evoluta di lavoro cognitivo effettuata gratuitamente dai produttori culturali (Terranova 2000; Formenti 2011): l’immaginario libertario che avvolge il 2.0, cioè, potrebbe dissimulare un nuovo spirito del capitalismo (Boltanski, Chiapello 1999). Gli attori sociali parteciperebbero volontariamente al loro sfruttamento, illudendosi di costruire un mondo socialmente migliore e sostenibile e la logica social della rete potrebbe mascherare la natura di un processo secondo cui le dinamiche relazionali verrebbero trasformate in qualcosa di completamente diverso. Non solo: una tale effervescenza comunicativa potrebbe non corrispondere a un reale utilizzo di quanto può venire prodotto, dando origine a una sorta di surplus cognitivo (Shirky 2010) e inficiando la valenza di un modello di capability approach (Sen 1993; Sennett 2012), all’insegna di uno scarto tra capacità potenziali e reali. Un effetto collaterale facilmente riscontrabile nel contrasto che, ad esempio, può essere ravvisato tra un elevato livello di attivazione determinato dalla relativa economicità dell’azione (condividere un contenuto all’interno del proprio spazio virtuale) e il raggiungimento di un pari coinvolgimento cognitivo e comportamentale, prodotto da un più alto costo personale (prendere fisicamente parte a una manifestazione). Anche alla luce di queste considerazioni, dunque, ci sembra opportuno segnalare almeno tre criticità che sono insite nella logica connessionista che stiamo cercando di analizzare: anzitutto, più siamo connessi in 110
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scambi sempre più rapidi e istantanei, ricchi di contenuti e informazioni, più rischia di aumentare la nostra ansia di non essere in grado di gestire questo immane flusso comunicativo, sia in termini di capacità, sia di tempo. In secondo luogo, non è da sottovalutare il pericolo che un continuo utilizzo di tecnologie, fondate in alcuni casi su una limitata articolazione discorsiva (come le mail o i tweet), possa comportare una paradossale contrazione delle nostre capacità riflessive e cognitive (Carr 2008). Infine, l’overload informativo che si genera, anche in relazione alla commistione delle diverse sfere sociali, culturali e relazionali, può produrre come effetto collaterale una vera e propria tirannia del presente (Eriksen 2001), capace di sbiadire l’importanza del passato e di costringerci a vivere in funzione di un eterno oggi. In questo senso, l’idea di comunicazione come habitus acquisisce una concezione inedita e, in parte, rischiosa, che potrebbe presupporre, ammesso che ciò non stia già avvenendo, il passaggio da una sorta di polifonia comunicativa, basata sull’assunzione di una molteplicità di punti di vista, valori, sentimenti spesso in esplicito o implicito conflitto tra loro a una potenziale cacofonia comunicativa. Anche consapevoli di queste problematiche, però, non riteniamo che una soluzione percorribile possa consistere nell’opzione di rinnegare l’attuale status quo, ricorrendo a forme di disconnessione. Un modo per combattere questo malessere (diffuso ancora non sappiamo quanto) che se, da un lato, propone una socialità densa e in apparenza soddisfacente, dall’altro tratteggia le sembianze di un soggetto ansioso, incapace di controllare le traiettorie di un mondo sfuggente e dinamico, va sicuramente individuato in una maggiore consapevolezza critica. Nella capacità, cioè, di comprendere e orientare proprio attraverso una connessione più cosciente e pragmatica il nostro ambiente, il nostro agire, noi stessi: il nostro habitus.
4.4. Perché la comunicazione è un’heimat È il 1919. Dopo la fine della guerra Paul Simon torna a Schabbach, il piccolo villaggio dov’è nato, nel cuore dell’Hunsrueck, una regione della
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Germania. Pochi anni dopo, il fratello di Paul, Edward, iscritto al partito nazista giunto al potere, diventa Borgomastro del paese. Paul decide di emigrare negli Stati Uniti in cerca di fortuna. La moglie Maria s’innamora di un ingegnere, Otto, impegnato nei lavori di realizzazione di una grande autostrada. Quando Paul, ormai ricco, tenta di tornare a Shabbach per la seconda volta, incapace di provare la propria discendenza ariana, rimane bloccato sulla nave con cui è partito dagli Stati Uniti. Il giorno dopo Hitler invade la Polonia (Mereghetti 2002). Schabbach in realtà non esiste, così come non esistono Paul, Edward, Maria e Otto, tutti personaggi di una saga cinematografica di 11 episodi, diretta da Edgar Reitz e intitolata Heimat (1984). Heimat è un termine tedesco che non ha un immediato corrispettivo nella lingua italiana, ma che si potrebbe tradurre come piccola patria o patria d’origine. Quello spazio anzitutto fisico, quindi anche simbolico, costituito dai luoghi in cui ognuno di noi ha le proprie radici e i propri affetti, legati alla famiglia e all’infanzia. A questo significato, che emerge dal racconto delle piccole storie degli abitanti di Schabbach, sullo sfondo della grande Storia che travolge il destino della Germania e di tutto l’Occidente nella prima metà del Novecento, viene attribuito un’ulteriore valenza attraverso un nuovo ciclo di episodi che compongono il grande affresco della seconda opera di Reitz: Heimat 2 (1988). Qui il principio narrativo è completamente rovesciato: se nel primo Heimat veniva raccontato il ritorno alle origini, adesso è l’abbandono di Schabbach e la partenza verso una nuova destinazione ad attribuire un senso allo svolgersi delle vicende. Prendendo spunto da questa seconda narrazione, quindi, possiamo anche intendere il termine heimat come seconda patria o patria elettiva, un luogo, reale e simbolico, raggiungibile per mezzo di una serie di decisioni e azioni che attraversano le diverse sfere dell’esistenza, dall’amore agli amici, dal lavoro alle passioni personali: il mondo che l’individuo si sceglie da adulto e in cui decide di fermarsi. La scelta e la decisione esprimono quel senso di libertà che ci consente di creare nuovi legami, cominciare un nuovo lavoro, fare nuove esperienze, per realizzare il nostro progetto di vita, assumendo consapevol112
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mente maggiori rischi e sperimentando l’incertezza e la precarietà dovuta all’abbandono del nostro luogo d’origine. Se da un punto di vista generale potremmo utilizzare il concetto di heimat per descrivere come negli esseri umani convivano due patrie complementari (una d’origine: la natura; una elettiva: la cultura), in modo più specifico riteniamo che esso riesca a cogliere un ultimo e fondamentale aspetto della comunicazione, strettamente collegato a quelli già analizzati di habitat e habitus. La comunicazione, infatti, è anzitutto una patria d’origine: una dimensione biologica (#comunicazionecomebisogno) e un luogo antropologico (#comunicazionecomerelazione), a cui apparteniamo fin dalla nascita e da cui origina il nostro percorso biografico. La comunicazione è poi anche una patria elettiva: una destinazione individuale e simbolica (#comunicazionecomecultura), verso cui ci dirigiamo, selezionando consapevolmente unità di senso (scelte, esperienze, consumi, etc.) all’interno di un flusso indistinto e continuo, che altrimenti ci travolgerebbe, per attribuire significato alla nostra vita. L’innovazione tecnologica ha reso possibile un’inedita integrazione tra questi due aspetti: fino a quando era disponibile una tecnologia limitata dal punto di vista delle possibilità d’interazione, infatti, tendeva a prevalere il primo tipo di heimat comunicativa. Non a caso, la definizione di mass-medium, che utilizziamo ancora oggi, deriva da una precisa concezione legata a un sistema di trasmissione basato su un ristretto numero di scelte e, pertanto, su un ruolo meno attivo del soggetto, a vantaggio di una più ampia condivisione degli stessi contenuti. A questo proposito, l’esempio forse più significativo è costituito dalla televisione. Sin dal 1954, anno d’inizio delle trasmissioni regolari nel nostro Paese, la televisione, almeno fino alla metà degli anni ’70, è stata improntata, molto più degli altri mezzi di comunicazione, a un modello trasmissivo e pedagogico (Morcellini 2005). Soggetta a un attento controllo da parte della Democrazia Cristiana, la TV, così, ha favorito la diffusione di una neolingua nazionale, riuscendo dove per quasi un secolo la scuola e le altre agenzie di socializzazione avevano fallito. Un risultato ottenuto sia attraverso programmi educativi come Non è mai troppo tardi (1960), in cui il maestro Manzi insegnava agli italiani a leggere e a 113
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scrivere, sia ancor prima attraverso il grande successo di trasmissioni come Lascia o raddoppia? (1955), in cui il linguaggio utilizzato da Mike Bongiorno diveniva un punto di riferimento per i telespettatori (Pasolini 1999). Allo stesso modo, favorendo l’ingresso nelle case degli italiani di nuovi prodotti, dal frigorifero alla lavatrice, dai cosmetici ai pannolini, dalla brillantina ai detersivi, introdotti da personaggi familiari e dalle storielle nazional-popolari (Dorfles 1998) di Carosello (1957), la televisione ha intrecciato la trama di un immaginario collettivo in cui era possibile ritrovarsi e riconoscersi. Ovviamente, non vogliamo sostenere che il mezzo televisivo abbia esercitato un’influenza unilaterale e diretta sul pubblico italiano, come dimostra il fatto che la prima generazione (Piccone Stella 1993) compiutamente televisiva abbia seguito percorsi di socializzazione spesso imprevisti e non necessariamente in linea con i modelli pedagogici e i valori trasmessi. Quello che ci interessa sottolineare è come il mezzo televisivo abbia costituito un enorme archivio condiviso di immagini e informazioni a cui gli italiani, seppure con modalità personalizzate, hanno attinto, riconoscendovi le proprie radici e appartenenze culturali. Appunto, un’heimat comunicativa da intendersi come ipotetica patria d’origine di un Paese in movimento, proiettato verso la modernità. Esattamente come avviene nella saga cinematografica, però, il raggiungimento di questa meta ha coinciso inevitabilmente con il progressivo abbandono dei luoghi originari a favore della ricerca di altre destinazioni: oggi quella televisione in bianco e nero non può che apparirci antiquata e lontana (paleotelevisione), sprigionando un senso di nostalgia per un nostro comune passato che in alcune circostanze ci appare migliore del presente. La nascita delle TV private, la diffusione del telecomando e del videoregistratore, quindi del walkman, dei videogames e del personal computer, fino alle più recenti e innovative tecnologie mediali, hanno fornito a ciascuno di noi gli strumenti necessari per avviare la costruzione di nuovi territori dell’abitare (Ciofalo 2011b). Il passaggio da una dieta mediale povera a una più ricca, reso possibile da accresciute opportunità e modalità di fruizione, unitamente al definitivo avvento della società dei consumi, favorendo la moltiplicazione degli stili di vita e la radicalizzazione di una tendenza all’individualismo, hanno permesso la fondazione di una seconda 114
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heimat comunicativa, intesa come patria elettiva, come spazio delle scelte finalizzato alla costruzione di molteplici legami e connessioni. Nei nuovi mondi che abitiamo, sperimentiamo una libertà di scelta senza precedenti, eppure tutto ci sembra più incerto e facilmente soggetto al cambiamento. L’immensa quantità di comunicazione riversata o riversabile nella società contemporanea trova una delle sue espressioni più efficaci nel social network che oggi forse può rappresentare ciò che la televisione è stata per gli italiani in passato: Facebook. Dopo essere stato un piccolo mondo all’interno del più ampio universo della rete, Facebook si è trasformato gradualmente in un supernetwork (Mazzoli 2009) in grado di oltrepassare i propri confini. Gli utenti utilizzano questo social network non soltanto per entrare in relazione tra loro, ma, operando costantemente una serie di scelte, selezionano unità comunicative (immagini, canzoni, citazioni, commenti, etc.) per racchiudere in una sorta di mosaico in progress quell’universo di riferimento che intendono condividere con altri. In questo senso, Facebook rappresenta il modo in cui la comunicazione è divenuta, attraverso strumenti, competenze, ambienti, una patria elettiva nella quale scegliamo di abitare: un luogo che racchiude in modo ologrammatico il nostro mondo individuale che, proprio in funzione della visibilità che decidiamo di attribuirgli, è reso accessibile agli altri e dunque diventa collettivo. La nostra immagine emerge attraverso le foto che carichiamo o che diventano oggetto di discussione, le nostre preferenze, espresse dai like o ancora dai gruppi di cui entriamo a far parte, la lista dei nostri contatti, gli amici della vita reale o semplicemente le nuove conoscenze acquisite, persino le critiche, l’espressione di dissenso o di punti di vista alternativi, le manifestazioni di contestazione o di partecipazione e attivismo. Quello che traspare dalle pagine del nostro diario, in sostanza, può rivelare, a coloro ai quali decidiamo di mostrarlo, la nostra più intima natura, coerente con il profilo che utilizziamo nei diversi contesti della quotidianità, oppure porsi come una maschera, più o meno in contrasto con quello che, invece, siamo veramente. Così Facebook diventa il luogo in cui cerchiamo evasione e relax, intrattenimento e relazione, oppure quello in cui, in modo volontario, scegliamo di nasconderci, per sottrar115
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ci, almeno momentaneamente, agli obblighi e agli impegni che i nostri ruoli ci impongono. Allo stesso tempo, come ogni patria elettiva, però, questo microcosmo, in cui ciascuno di noi è contemporaneamente cittadino e straniero, presenta una serie di rischi e insidie. In primo luogo, l’incertezza dovuta alla volatilità d’incontri, relazioni e amicizie che possono nascere e morire nello spazio di un post, procurandoci un senso di perdita e frustrazione. Quindi, come dimostrano alcuni casi di cronaca, le forme di stigma, etichettamento, emarginazione attuate soprattutto a danno di quei soggetti psicologicamente più fragili e socialmente meno integrati, favorite dal contagio comunicativo che la stessa struttura reticolare di questo socialnetwork consente. In generale, tuttavia, tanto la televisione quanto Facebook costituiscono soltanto due dei molti esempi che potremmo citare a supporto della medesima idea: la comunicazione, divenuta ambiente (habitat) e nodo di connessione tra la sfera individuale e quella collettiva (habitus), è anche l’essenza più profonda dello spazio che scegliamo di abitare e di quello in cui ci troviamo a vivere (heimat). Il fatto che prevalga, di volta in volta, una dimensione o l’altra dipende da diverse variabili: la nostra struttura psicologica, l’insieme delle nostre relazioni sociali, il nostro capitale economico, culturale e sociale, la qualità e la quantità delle nostre esperienze di vita, etc. La comunicazione come heimat, pertanto, si fonda sulle scelte e sulle decisioni compiute da ciascuno di noi e non è mai scindibile dalle condizioni sociali, tecnologiche e culturali in cui si radica e si sviluppa. In questo universo possiamo (finalmente) immaginare un’altra realtà, costruire la nostra patria, a partire dalle nostre necessità, dalle nostre istanze di emancipazione, dai nostri desideri e bisogni (Leonzi 2012), facendoci carico, tuttavia, dei rischi e dei pericoli che ogni decisione di allontanarsi dal luogo in cui si è nati e cresciuti, nel mondo reale come in quello della comunicazione, comporta inevitabilmente.
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Capitolo quinto Fenomenologia dell’Homo Communicans
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SILVIA LEONZI
«In una serie di forme insensibilmente graduate dalle creature simili alle scimmie fino all’uomo, quale è ora, sarebbe impossibile fissare un qualsiasi punto definito a partire dal quale si debba usare il termine “uomo”». (C. DARWIN, Le origini della specie, 1859) «Lisbeth si presentò vestita di una maglietta nera con su stampata un’immagine di E.T. con i canini affilati e la scritta I am also an alien. Aveva una gonna nera con l’orlo stracciato, un consunto giacchino di pelle nera, cintura borchiata, robusti anfibi Doc Marten’s e calzettoni al ginocchio a righe rosse e verdi. Si era fatta un make up in una scala cromatica che faceva sospettare che fosse daltonica. In altre parole, era di un’eleganza davvero insolita. […] “Questa è la signorina Salander, che ha scritto il rapporto”. Armanskij esitò un attimo e poi continuò con un sorriso che nelle intenzioni doveva essere confidenziale ma che sembrò piuttosto un sorriso di scusa. “Non si lasci ingannare dalla sua giovane età. La signorina è in assoluto la nostra ricercatrice migliore”». (S. LARSSON, Uomini che odiano le donne, 2005) «Da un grande potere derivano grandi responsabilità». (B. PARKER, Spiderman, 2002)
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5.1. Nella società della comunicazione All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, lo studio di un economista (Machlup 1962) rivela un cambiamento senza precedenti: a partire dal 1956, negli Stati Uniti, il settore terziario (comunicazione, trasporti, assicurazioni e servizi bancari, turismo, etc.) registra un numero di lavoratori superiore a quello occupato nel settore secondario (industria). Meno di venti anni dopo, il peso dell’informazione sull’economia americana viene stimato pari a quasi il 50% del prodotto interno lordo e della forza lavoro totale (Porat 1976). A metà degli anni Novanta, il vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, riprendendo una metafora già utilizzata da Bill Clinton, parla delle nuove tecnologie digitali della comunicazione nei termini di autostrade informatiche. Veri e propri network in grado di consentire una condivisione della conoscenza, di potenziare l’economia, di fortificare la democrazia e di trasformare in una comunità globale il piccolo mondo che abitiamo. Si tratta soltanto di alcuni passaggi significativi in grado di testimoniare, tuttavia, l’idea che la società della comunicazione, quale assetto sociale profondamente condizionato dalle pratiche e dai flussi di informazioni e relazioni che si sviluppano al suo interno, non sia un concetto puramente astratto o il frutto di un’elaborazione esclusivamente teorica, ma il risultato di una serie di cambiamenti che hanno avuto luogo concretamente a partire dal Novecento, trasformando radicalmente le nostre vite. Anche se la società della comunicazione rappresenta il nostro mondo attuale, l’origine di questa concezione non va rintracciata nel presente, ma impone un viaggio a ritroso nel tempo, dal momento che, come già abbiamo avuto modo di evidenziare nelle pagine precedenti (e in particolare nel primo capitolo), questo tipo di traguardo deriva dall’evolversi dello stretto rapporto tra la modernità e la comunicazione, connubio che ha fatto di quest’ultima il centro nevralgico della prima e non semplicemente una delle sue molteplici dimensioni. Definire quali siano le caratteristiche salienti di un concetto così articolato non è affatto semplice: se le sue radici filosofiche, infatti, possono essere ricondotte originariamente agli ideali illuministici di matematizzazione del mondo e di affermazione della razionalità strumentale, sul 118
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piano materiale le fondamenta su cui poggia sono rintracciabili, anzitutto, nelle promesse di emancipazione e di integrazione, garantite dall’affermazione delle tecnologie della comunicazione a distanza. Il costituirsi di nuove forme d’interazione sociale promosse dall’innovazione tecnica, infatti, ha da sempre rappresentato, come vedremo, l’humus ideale per lo sviluppo di utopie relative a una società decentrata e a una comunità universale (Mattelart 1994). Dalla macchina tipografica ideata da Gutenberg alla fine del Quattrocento, passando per le prime forme di comunicazione elettrica e elettronica della seconda metà del XIX e del XX secolo, fino ad arrivare alla Rete, le tecnologie della comunicazione hanno sensibilmente modificato gli stili di vita e di consumo degli individui e creato modalità sempre nuove di interazione e socializzazione. Attraverso forme di simultaneità despazializzata, tali da separare l’esperienza della contemporaneità dalla condivisione fisica di un ambiente comune, è stato possibile svincolare le categorie di tempo e spazio dal legame che le univa inestricabilmente. Nel tentativo di descrivere l’essenza di questo vastissimo processo di riconfigurazione sociale e culturale, sono state messe a punto moltissime definizioni. Solo per citare alcuni esempi: società dell’informazione (Touraine 1966), società postmoderna (Lyotard 1979), società postcapitalista (Dahrendorf 1959), società tardo moderna (Giddens 1990), società del rischio (Beck 1986), società liquida (Bauman 2000) società dei servizi (Gersuny, Rosengren 1973), Mediaevo (Morcellini 2005), etc. Anche alla luce dell’estrema varietà delle formule citate, il nostro obiettivo, in questo paragrafo, è quello di chiarire il significato e la portata teorica dell’espressione società della comunicazione, sulla base di un percorso analitico che tenga presente almeno due dei molti e possibili ambiti di riferimento (Webster 1995): la dimensione socio-economica e quella tecnologico-culturale. In considerazione di quanto avviene dalla seconda metà del Novecento in poi (la crescente globalizzazione dei mercati, l’applicazione di politiche economiche liberiste, la crisi delle ideologie, etc.), prende forma un mutamento che riguarda la società nel suo complesso: i modelli lavorativi e produttivi, le istituzioni e le agenzie di socializzazione, i bisogni e i consumi e quindi, in generale, gli standard di vita delle persone. In sostanza, lo scenario che si presenta alla fine del 119
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secondo conflitto mondiale, sulla spinta del desiderio di ricostruzione e progresso che accomuna l’Occidente, sembra prefigurare una nuova fase. L’immagine di Charlie Chaplin nel film Tempi Moderni (1936) che combatte contro gli ingranaggi di una catena di montaggio, è l’esempio più rappresentativo delle minacce esercitate dall’organizzazione industriale del lavoro, attraverso un sistema fondato sulla tecnologia meccanica, sul fordismo, sull’automazione, a cui si aggiunge, sul piano del paesaggio sociale, un repentino processo di urbanizzazione, che sancisce il drammatico passaggio dalla solidarietà meccanica, accogliente, intima della comunità alla solidarietà organica, spersonalizzante, anonima della società (Töennis 1887; Durkheim 1893). L’industria, che in precedenza, per quasi due secoli, aveva rappresentato, e non solo simbolicamente, il motore di un’incessante trasformazione sociale, perde il suo primato, vittima della stessa razionalità tecnica (Marcuse 1969) che ne aveva guidato lo sviluppo. Nasce la società postindustriale (Touraine 1969), le cui caratteristiche principali scaturiscono dall’affermazione di un’economia basata sulla produzione di beni immateriali, dalla preminenza di una classe di professionisti e tecnici, dalla centralità del sapere come risorsa e come strumento per l’innovazione e la mobilità sociale. Il fulcro vitale di questa nuova società è rappresentato dalla produzione di beni simbolici (Bell 1973), che ha luogo sia attraverso inedite modalità di emancipazione e opportunità di conoscenza dell’individuo, sia per mezzo della riproposizione dei medesimi sistemi di controllo e imposizione sociale del passato, modernizzati però dall’avvento di tecniche più avanzate. Un ruolo primario viene ricoperto dalla tecnologia, considerata da un lato come la variabile determinante nei processi di cambiamento, dall’altro come fautrice di una sorta di postumanesimo, connesso alla capacità dei mezzi di comunicazione di prospettare un nuovo modello di uomo, più adatto ad abitare un ambiente profondamente mutato. Nel transito da equilibri di potere alimentati dal possesso di risorse materiali (terra, lavoro, capitale) ad altri equilibri, in cui la conoscenza crea forme alternative e trasversali di stratificazione sociale e culturale, si concretizza quindi la coincidenza tra la società post-industriale e una nascente società dell’informazione: un’organizzazione collettiva, al 120
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cui interno l’accesso e il possesso di beni immateriali costituiscono un’importante garanzia di successo, ricchezza e potere. La figurazione sociale che si determina a partire dal concetto di società dell’informazione, tuttavia, non è ancora, in tutto e per tutto, simile a quella che oggi caratterizza la nostra contemporaneità. Per questo motivo, anche in considerazione delle trasformazioni avvenute sul piano tecnologico e culturale negli ultimi decenni, e ancora in corso, riteniamo opportuno a questo punto sostituire il termine informazione con quello di comunicazione, sottolineando l’ulteriore passaggio a una nuova fase. Riferirsi a una società della comunicazione, infatti, consente di ampliare il significato originario, prendendo in considerazione non solo gli aspetti tecnico-economici o ideologici – insiti nella parola informazione – ma anche quelli più relazionali e di scambio che il termine comunicazione riesce, invece, a includere sottolineando l’apertura verso dimensioni di partecipazione e interazione. Anzitutto, la trasformazione delle modalità produttive e dei criteri di distribuzione, avvenuta, ad esempio, grazie all’informatizzazione, è all’origine di evidenti ripercussioni sul possesso e l’utilizzo dei beni materiali e immateriali. Si passa, cioè, da un’economia di mercato a un’economia della rete, che inaugura una nuova era dell’accesso (Rifkin 2000), al cui interno la capacità di indirizzare, gestire e distribuire valori come la cultura, le idee, le informazioni diviene centrale, così come la loro condivisione e implementazione. Inevitabilmente, come accade per ogni passaggio d’epoca, questi cambiamenti non hanno solo implicazioni sul piano dell’evoluzione tecnica o dell’architettura sociale, ma innescano anche una complessa rivoluzione antropologica, ponendo le basi per l’affermazione di un modello di individuo dotato di nuovi skills e di bisogni e desideri differenti. Il cammino inarrestabile percorso dalle tecnologie della comunicazione, culminato nell’affermazione del digitale, sancisce, simbolicamente, la transizione dagli atomi ai bit. La sottomissione del materiale all’immateriale prospetta un inedito scenario caratterizzato dalla moltiplicazione delle opportunità di emancipazione dei soggetti, esseri digitali (Negroponte 1996), ora nelle condizioni di demandare a tecnologie intelligenti la realizzazione della quasi totalità delle proprie necessità, ma pone anche alcune questioni relative alla distribuzione del potere e della conoscenza. 121
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Il prevalere dell’aspetto immateriale può coincidere con l’esaltazione di alcuni valori piuttosto che altri, come per esempio il tempo a discapito dello spazio: una metafora del rapporto tra ricchezza e immaterialità è quella presente nel film fantascientifico In time (2012), in cui appunto è proprio il tempo a rappresentare una nuova moneta di scambio. Nella pellicola diretta dal regista Andrew Niccol, in un futuro distopico dominato dal denaro, il potere costringe le persone che vogliono vivere più di venticinque anni a pagare il tempo per restare in vita. Il film ovviamente esaspera la dimensione dell’immateriale come strumento di accesso e controllo da parte di centri di potere sempre più interconnessi, che trasformano gli esseri umani in merci, sottolineando i rischi legati alla possibilità che si costruisca una società globalizzata fondata su una forte disparità nel possesso delle risorse immateriali. Un’altra prerogativa della società della comunicazione è quella di riconoscere uguale importanza tanto alla tecnologia quanto al sapere. Se la ricchezza non è più identificata esclusivamente con il possesso delle risorse materiali né degli strumenti necessari alla loro produzione, il potere risiede nelle mani di chi è in grado di gestire al meglio le opportunità di conoscenza o può controllare il flusso delle informazioni, divulgarle al momento che ritiene più opportuno o magari tenerle nascoste qualora possano nuocergli. In altre parole, la società della comunicazione, quella che oggi rappresenta lo scenario e l’ambiente in cui siamo immersi e viviamo giorno per giorno, assume la sua compiuta fisionomia solo nel momento in cui si compie la nascita della società in rete (Castells 1996). Quando il flusso di contenuti e messaggi può estendersi in modo capillare e reticolare grazie alla nascita del medium che, forse più di ogni altro, stravolge la stessa concezione della comunicazione e delle sue tecnologie: il world wide web. È attraverso i suoi nodi interconnessi che i dati corrono lungo una ragnatela variabile in costante cambiamento, seguendo una molteplicità di traiettorie. Il network diviene l’emblema dell’attuale condizione comunicativa degli individui, quella che si potrebbe definire una nuova morfologia del sociale. Non solo: seppure profondamente condizionato dalle dimensioni della sua estensione (pochi nodi equivalgono a una rete debole), l’essenza più specifica del network consiste nella moltiplicazione dei processi d’interazione. Ciascun punto compreso in questa struttura retico122
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lare, infatti, non è fisso, ma pulsante e dinamico: il passaggio si trasforma in scambio; la trasmissione, mai unidirezionale, diviene modifica e interpretazione incessante; la ricezione, attraverso innumerevoli opportunità di selezione, si tramuta in azione e, appunto, in interazione. L’informazione, almeno nella sua accezione più antica e tradizionale (#comunicazionecomeinformazione), cede il passo a una più vasta e problematica idea di comunicazione: un bacino dinamico di contenuti e relazioni, che, senza più distinzione tra virtuale e reale, condiziona i nostri modelli di pensiero e i nostri stili di vita. Nella nuova struttura, permangono, tuttavia, pure a dispetto di una strisciante retiologia (ovvero ideologia della rete; Musso 2005), aspetti critici che ne ridimensionano la portata rivoluzionaria e salvifica. Nell’ambito di queste profonde trasformazioni l’approccio sociologico allo studio del social network (inteso come qualsiasi rete di legami; Marinelli 2004), diventa la logica culturale dominante (Varnelis 2008), grazie anche allo sviluppo e alla popolarità dei social network site: la connettività della rete si sostituisce così all’astrazione dell’informazione. La società della comunicazione possiede, però, due diverse facce. Da un lato, questo assetto amplia le opportunità di accesso e di partecipazione, attiva nuove forme di pensiero e di conoscenza collettiva, presuppone il passaggio a una condizione diffusamente digitale, scopre nella dimensione relazionale la sua essenza più specifica e più promettente. Contemporaneamente, però, alimenta l’incertezza, produce caos e disorientamento, rischiando di svuotare di significato istituzioni, pratiche e valori che in un passato, neppure troppo remoto, costituivano il collante del nostro sistema sociale. Si tratta di contraddizioni e rischi inevitabili, che caratterizzano la transizione dal vecchio paradigma mediatico a quello attuale e che, più nello specifico, coinvolgono gli attori di quella che è stata definita la nuova cultura partecipativa: da un lato, infatti, il pubblico si confronta idealmente con una realtà senza filtri, gerarchie, gatekeeper; dall’altro si scontra con l’innegabile potere crescente delle corporation (Jenkins 2006). Un nuovo scenario in cui, di fatto, mentre si mobilitano i movimenti grassroots (o di base), in cui la creatività e le competenze acquisite passano per un’educazione informale e uno scambio reciproco, le corporate assumono un atteggiamento strumentalmente ambiguo, interagendo e incoraggiando questi comportamenti e al contempo resistendo e ostacolandoli. 123
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Del resto l’eccessiva concentrazione sull’aspetto tecnologico, alla base di una visione talvolta acriticamente ottimista, sottintende una concezione dell’evoluzione sociale e culturale ancora troppo meccanicistica e lineare. Un’impostazione che, da un’altra prospettiva, alimenta un’idea ai limiti dell’utopia comunicativa, secondo cui più elevate possibilità di accesso e fruizione determinano un generale arricchimento degli individui e del loro ambiente comunicativo. La valorizzazione e il potenziamento delle competenze soggettive, garantiti dai nuovi standard della conoscenza, tuttavia, non sembrano tradursi in un’omologazione della capacità di pensiero di ciascuno di noi, ma piuttosto nella nascita di una intelligenza collettiva (Lévy 1994) sovraindividuale, che attiva nuove forme di partecipazione e democratizzazione (da Wikipedia al crowdsourcing fino al citizen journalism), tanto più forti quanto più deboli si fanno, invece, i legami con le vecchie forme di aggregazione sociale. L’attivismo promosso, ad esempio, da queste nuove comunità del sapere fa emergere una profonda ridefinizione del concetto tradizionale di competenza: il paradigma dell’esperto, basato su un corpo delimitato, rigido e discriminante di conoscenze è destinato a essere rapidamente eroso da processi comunicativi più aperti al cyberspazio e, dunque, alla condivisione di sapere e a una partecipazione dal basso (Walsh 2003). La nostra cultura convergente (Jenkins 2006) si determina dal potenziamento del flusso di contenuti che attraversano i diversi canali mediatici, al cui interno i tradizionali confini tra la sfera della produzione e quella del consumo si fanno sempre più labili. In quest’ottica, il collasso del sistema broadcasting, presagito dai sostenitori della rivoluzione digitale, lascia semplicemente il posto a un paradigma della convergenza, più idoneo a definire un quadro ancora più complesso e in parte contraddittorio di compresenza e rimodellamento tra vecchi e nuovi media, all’interno del quale logiche top down si scontrano e si confrontano con pratiche bottom up. Sebbene sia realistico pensare che l’equilibrio di potere tra detentori attivi della conoscenza e fruitori passivi subisca un profondo sconvolgimento che rimescola competenze e opportunità, tuttavia questa visione rischia di assumere una valenza rischiosa se non teniamo conto anche del fatto che le forme di condivisione, ampliamento, democratizzazione e partecipazione della e alla conoscenza non sono ancora in grado di cancellare distanze e 124
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dislivelli tra saperi esperti e conoscenze profane in molti settori essenziali per la nostra vita (dalla medicina, alla scienza, all’economia, etc.). Nell’ambito di una così critica trasformazione multidimensionale, caratterizzata da un elevato numero di fattori positivi e negativi, in cui la comunicazione si fa liquida e muta di significato, a seconda delle necessità e delle occasioni (Morcellini 2012), dobbiamo affrontare un’ultima e decisiva questione: capire quali siano le caratteristiche che contraddistinguono il soggetto che, volente o nolente, vive all’interno di questo sistema; comprendere quali possano essere le sue reti di relazioni, le pratiche d’interazione, gli assetti di riferimento, il portato simbolico e culturale delle sue azioni. In sostanza, afferrare l’essenza del modo in cui ciascuno di noi, oggi, è divenuto il soggetto che abita questo nuovo mondo: l’homo communicans.
5.2. Homo Communicans Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di delineare un percorso analitico che, brevemente, potremmo riassumere nel modo seguente: – la modernità è lo scenario in cui si sviluppa compiutamente la comunicazione, così come noi oggi la conosciamo; – in virtù di una serie di cambiamenti avvenuti sul piano culturale come su quello tecnologico (di cui la comunicazione è stata contemporaneamente soggetto e oggetto), il suo ruolo diviene così centrale nella vita individuale e collettiva da renderla, già a partire dalla fine dell’Ottocento, un fondamentale oggetto di studio e di riflessione; – le sue caratteristiche e le innumerevoli pratiche a essa riferibili rendono impossibile mettere a punto una singola definizione, imponendo un approccio sistemico che, attraverso una serie di categorie interpretative (hashtag), è in grado di considerarne i differenti aspetti (bisogno, informazione, relazione, cultura, potere, etc.); – l’insieme dinamico dei significati che le attribuiamo, tuttavia, può comunque essere ricondotto a tre principali dimensioni concettuali (habitat, habitus, heimat); – fino a configurare il passaggio da una precedente società dell’informazione all’attuale società della comunicazione. 125
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Arrivati a questo punto, possiamo finalmente analizzare quella particolare figura concettuale che dà il titolo all’intero volume: l’homo communicans. Dal nostro punto di vista, questa definizione indica, in generale, l’insieme complesso delle caratteristiche e delle pratiche che oggi definiscono le coordinate esistenziali della vita degli individui: la tappa più recente raggiunta nel nostro percorso di evoluzione. Per comprenderne appieno il significato, tuttavia, è necessario fare riferimento a due ultimi contributi teorici, che consideriamo fondamentali: l’idea di evoluzione complessa (Morin 1986) e il pensiero cibernetico (Wiener 1948). Rispetto alla sua originaria formulazione (Darwin 1859), l’evoluzione ha gradualmente assunto una fisionomia sempre più elaborata, alla luce di un numero crescente di variabili da considerare. In particolare, le fasi evolutive dell’uomo sono state contraddistinte da un’integrazione tra vari livelli, che riguardano lo sviluppo biologico, quello psicologico, storico e sociale, e che, sul versante del rapporto tra individuo e ambiente, convergono verso lo scenario rappresentato dal processo di civilizzazione. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l’evoluzione biologica attraverso lo sviluppo di capacità simboliche da parte dell’homo sapiens ha comportato l’emergere di una seconda natura umana, altrettanto determinante e cruciale: la cultura. Come avviene dal punto di vista prettamente naturale, anche per quanto riguarda l’uomo, inteso come eco-sistema caratterizzato da un mutamento incessante, la tendenza verso un climax (equilibrio) passa necessariamente attraverso fasi di instabilità e metamorfosi (Morin 1980). La principale differenza tra l’evolversi dei processi biologici e di quelli sociali e culturali, però, consiste nel fatto che mentre i primi sono tendenzialmente irreversibili, gli altri sono invece reversibili, rendendo possibile fasi di arretramento della civiltà e, quindi, inficiando l’idea positivista di un progresso costante come meta ultima verso cui ci dirigiamo. La nostra tesi è che la comunicazione, che nell’arco degli ultimi secoli ha costituito un fattore di cambiamento incessante, ha determinato l’approdo a una nuova fase di climax, di cui contemporaneamente è l’espressione più evidente. Osservando le differenti epoche che hanno segnato fino a oggi la nostra evoluzione, possiamo notare come ogni configurazione sociale sia sempre stata caratterizzata, dal punto di vista collettivo, da un certo grado di differenziazione delle strutture sociali, politiche, economiche, da specifiche 126
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forme di distribuzione delle risorse materiali e simboliche e da un certo livello di avanzamento tecnologico. Così come, dal punto di vista individuale, ogni assetto sociale è stato segnato da particolari rapporti del soggetto con se stesso, con l’altro e con il mondo circostante, in un equilibrio variabile. Con la differenza che, oggi più che mai, i diversi aspetti della comunicazione contribuiscono all’affermazione di un particolare modello psichico, antropologico, sociale e, quindi, alla costruzione e alla definizione della realtà. Sia che si adotti un approccio orientato alle trasformazioni del sistema nel suo complesso, sia che si assuma una prospettiva incentrata sull’attore sociale e sulle sue possibilità di cambiare il gioco e le sue regole, o ancora, come sarebbe auspicabile, che ci si sforzi di considerarle congiuntamente in un’ottica più ecologica, appare piuttosto chiaro come un ruolo decisivo nel percorso di evoluzione dell’umanità, infatti, sia stato ricoperto dalle pratiche, dalle innovazioni, dalle tecniche e dalle tecnologie comunicative. In quest’ottica, i limiti e il dilemma del determinismo tecnologico si dissolvono nell’idea che gli strumenti tecnici costituiscano comunque una forma essenziale di produzione sociale: non solo non sarebbe possibile studiare la società nella sua interezza senza prendere in esame questo aspetto cruciale (Castells 1996), ma, attualmente, non potremmo neppure cogliere l’essenza di questa grande evoluzione. Lungo questo tragitto, durante cui emergono, come abbiamo evidenziato nelle pagine precedenti, differenti tipologie di uomo (faber, clausus, ludens, etc.), un ulteriore punto di svolta avviene all’incirca a metà del Novecento. Poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, in corrispondenza dello sviluppo e della diffusione delle prime macchine informatiche e della centralità acquisita dai media di massa, infatti, comincia a prendere forma un paradigma scientifico che vede nella comunicazione, e più in particolare nell’informazione, la risorsa fondamentale per migliorare la società. Secondo alcuni studiosi, gli eventi drammatici che hanno sconvolto il pianeta sono stati causati da un enorme deficit di comunicazione, che ha condotto l’umanità sull’orlo dell’autodistruzione: per scongiurare il pericolo di futuri black out della coscienza collettiva diventa fondamentale eliminare ogni ostacolo al dialogo e alla libera circolazione di informazioni, attraverso la creazione di comunità aperte, trasparenti e comunicanti. La soluzione che viene ipotizzata consiste nell’attribuire una quota di 127
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comando e di controllo alle tecnologie e alle macchine intelligenti, aggirando i bug del cervello umano, spesso condizionato dal bisogno di potere e dall’irrazionalità: la logica del computer in opposizione alla deriva distruttiva della bomba atomica. Attraverso uno studio sistematico e transdisciplinare si ritiene possibile individuare protocolli scientifici da applicare alla realtà circostante, al mondo naturale, agli individui e alle macchine: lo scambio continuo di dati è visto come la modalità costitutiva di ogni fenomeno. La comunicazione, dunque, assume un’inedita funzione di mediazione tra l’uomo e l’ambiente, non limitandosi a esprimere un generico bisogno elementare e transtorico dell’essere umano, ma trasformandosi in un concreto valore culturale, indispensabile per la preservazione di un nuovo e possibile ordine sociale e come garanzia di una futura convivenza pacifica tra gli esseri umani. Dal punto di vista scientifico, l’obiettivo del pensiero cibernetico è quello di studiare analogie tra eventi estremamente diversi, che spaziano dal mondo naturale a quello artificiale, individuando un minimo comun denominatore in grado di accomunare e spiegare l’essenza di tutti i fenomeni. L’universo viene così interpretato come un sistema di sistemi, dominato dalle interazioni tra i fattori che lo compongono: che si tratti di un uomo, di un computer, di una cellula vivente, di una società, di un’organizzazione, di un animale, tutto in sostanza è sempre regolato dai processi di comunicazione. La cibernetica si pone (o almeno aspira a farlo) come una teoria unificante e interdisciplinare che elabora una serie di concetti validi sia per i sistemi biologici e fisici, sia per quelli artificiali, puntando a definire uno specifico campo di studio per la comunicazione. Le relazioni, gli scambi e l’informazione diventano la base condivisa di una infinità immaginata come un macro-organismo costituito da parti interconnesse e comunicanti. Il valore fondativo della comunicazione, superiore persino a quello della matematica, è esprimibile in termini di circolazione d’informazioni: ogni fenomeno (umano, animale, vegetale, meccanico, etc.) può essere interpretato elaborandone una lettura comunicativa che, cogliendone l’essenza, riesce persino a regolarne l’andamento, grazie alla messa a punto di un feedback (ciclo di restituzione della risposta). La possibilità di ridurre l’entropia (il disordine, il caos), invariabilmente derivante dal semplice svolgersi della vita, dipende dalla capacità 128
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di rendere circolari i flussi comunicativi, trasformandoli, così, in sistemi di controllo: esattamente come avviene, ad esempio, per il funzionamento di un termostato che, attraverso la ricezione di alcune informazioni (la temperatura esterna misurata attraverso un termometro) e la successiva comparazione con dati già impostati (la temperatura ideale per un particolare ambiente), consente, con l’aumento o la diminuzione del calore emanato (feedback), il mantenimento dell’equilibrio desiderato. Una volta svincolato dal piano esclusivamente tecnico e estesa la sua portata ideologica, il traguardo concettuale a cui conduce l’adozione di un simile approccio consiste nel ritenere che l’antidoto alla naturale tendenza al disordine del mondo che ci circonda possa essere rappresentato dalla capacità dell’uomo di attivare processi fondati su un costante scambio di dati. Il controllo, inoltre, non viene inteso come una forma di dominio, ma come un processo di regolazione, reso possibile da una circolarità che permette una messa a punto ottimale del meccanismo considerato. In questa sorta di neoumanesimo, dalle evidenti connotazioni utopistiche, le teorie cibernetiche contribuiscono all’affermazione di un paradigma scientifico che applica alle dinamiche comunicative contributi improntati a una logica matematico-ingegneristica, inglobando al suo interno scienze fisiche e naturali, ma anche antropologiche e sociali (von Bertalanffy 1933). Il modello matematico-informazionale (Shannon, Weaver 1949) costituisce, al proposito, l’esempio più significativo: un modello semplificato del mondo attraverso cui è possibile spiegare e prevedere eventi che possono accadere nella realtà. Ideato specificatamente per la comunicazione telefonica, il suo scopo è, in generale, la risoluzione dei problemi di trasmissione, al fine di garantire la migliore ricezione possibile del messaggio. Secondo lo schema una fonte seleziona, all’interno di una gamma di possibilità, il contenuto da inviare; questa informazione iniziale (input) viene codificata in un segnale (ad esempio gli impulsi elettrici) e veicolata da un apparecchio a un altro (il telefono); il destinatario ha il compito di ricevere il segnale (e poi di attribuirgli un significato). Lungo il tragitto, tuttavia, la presenza di un rumore (l’interruzione di una linea fisica, un’interferenza, etc.) può compromettere o ridurre l’efficacia della trasmissione: il modo per aggirare quest’ostacolo consiste nel calcolare la dispersione dell’in129
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formazione (entropia), determinata dal rapporto tra l’intensità del segnale e quella del rumore, e nell’attuare una ripetizione modulata del contenuto (ridondanza). Propriamente configurabile come un modello tecnico, quello matematico-informazionale introduce comunque due elementi di riflessione fondamentali: in primo luogo, la considerazione degli aspetti pragmatici relativi alla produzione degli effetti desiderati, sulla base di una specifica concezione secondo cui è sempre possibile stabilire criteri precisi nel processo di codifica del messaggio e attuare forme adeguate di supervisione nel processo di trasmissione; secondariamente, la dimensione della significazione che, seppure non pienamente esplicitata, riguarda i livelli di congruenza tra messaggio inviato e ricevuto, aprendo la strada alla concettualizzazione delle modalità di decodifica aberrante (Eco 1964). La volontà di trattare l’informazione in termini definiti chiaramente, ma del tutto astratti, permette di formulare una generalizzazione del concetto di comunicazione e di avviare un’analisi mirata delle sue caratteristiche principali. L’attenzione si concentra sulla scomposizione del processo comunicativo nei suoi elementi costitutivi e sulla capacità diffusiva delle comunicazioni di massa nel trasmettere a vasti pubblici gli stessi contenuti. La confluenza di cibernetica e teoria matematica dell’informazione, dunque, dà origine a una visione ideologica, secondo cui è indispensabile combattere ogni tentativo di limitare la libera circolazione delle informazioni. Pur non riuscendo a superare le obiezioni del tempo, tuttavia, questa nuova, grande utopia segna comunque una fase fondamentale delle scienze della comunicazione, traducendosi in un progetto etico e filosofico che si sviluppa su tre diversi livelli: una società ideale, una nuova concezione antropologica dell’essere umano, l’idea della comunicazione come valore. Nel sistema sociale che viene immaginato, non solo tutti gli esseri umani, in sintonia con i postulati dell’illuminismo delle origini, sono considerati come aventi pari dignità, ma, e questa è forse la maggiore novità della cibernetica, persino le macchine, nuovi attori intelligenti e, perciò, naturalmente orientati al bene, acquistano un ruolo attivo e strategico, rientrando in un concetto allargato di umanità. La comunicazione costituisce la risorsa prioritaria e come tale è in grado di generare forme di benessere diffuso, nel segno dell’abbattimento delle barriere spazio-temporali e dell’annullamen130
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to di tabù, malintesi e segreti, grazie alla realizzazione di scambi universali e trasparenti tra individui, istituzioni, agenzie formative, tecnologie. In questa utopia visionaria la rappresentazione dell’uomo come essere comunicante è strettamente associata alla ricercata similitudine tra l’intelligenza umana e artificiale: razionalità e comunicazione si fondono fino a plasmare le forme stesse della cultura e l’habitus psichico del soggetto, con la promessa di un nuovo paradiso terrestre in cui diventa possibile evitare qualunque incomprensione e scoraggiare qualsiasi volontà di potenza e di sopraffazione. Soggetto di questa rivoluzione è, appunto, un homo communicans (immerso in un flusso concatenato di azioni e reazioni attraverso cui si costituisce il legame sociale), che ha il compito di colonizzare e abitare il territorio del (ciber) mondo: uno spazio armonico, utopisticamente depurato dal conflitto. Se la crisi dei valori democratici e la perdita di fiducia nel futuro sono i prerequisiti per la formazione di questo sistema di pensiero, ossessionato dalla ricerca di trasparenza, come unica àncora di salvezza contro il naufragio entropico dell’umanità, un elemento viene certamente trascurato: la comunicazione non è mai neutra, simmetrica e senza ombre. Al contrario, spesso, è invece sbilanciata e ambigua: i messaggi non arrivano quasi mai al destinatario nello stesso modo in cui sono pensati dalla fonte, e tra i diversi elementi del processo comunicativo possono contrapporsi molti e differenti ostacoli. Questa omissione fa sì che nell’universo cibernetico, fatto di macchine pensanti e di esseri comunicanti, l’interiorità non sia che un limite posto alla totale trasparenza, un ricettacolo di forze oscure e minacciose, che neanche la psicanalisi è in grado di domare completamente. L’uomo comunicante, che emerge da questa prima impostazione teorica, allora, ci appare più come un terminale perennemente immerso nel flusso di scambi e relazioni che si svolgono nel mondo esterno, completamente privato della sua corporeità e spiritualità. Nell’intreccio composto da miriadi di informazioni disseminate nella realtà, in sostanza, gli individui non diventano che nodi interconnessi di una grande rete: la ricchezza e il mistero racchiuso nel nucleo insondabile dell’interiorità lasciano il posto a una natura aperta e votata alla più esemplare esteriorità, secondo cui tutto è comunicazione. Corpi e anime si fanno bit, eliminando alla radice qualunque necessità di dare spazio all’interiorità e ai suoi fantasmi. 131
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Con il passare del tempo, alcuni tratti di questa visione utopistica procedono verso una normalizzazione, venendo interiorizzati all’interno di nuove teorie e modelli di spiegazione. Una delle più note metafore che ne restituisce il senso, in maniera emblematica, è quella relativa al villaggio globale (McLuhan 1968), secondo cui, grazie alle tecnologie, l’umanità è destinata a una nuova fase di coinvolgimento fisico, sensoriale e comunitario, per molti versi simile alla dimensione vissuta nell’epoca che precede la nascita della cultura alfabetica, quando l’uomo abita un universo inclusivo, estetizzato, sensibile e profondamente tribale, in cui i sensi sono in equilibrio e caratterizzati da una dinamica di simultaneità. Non solo, l’illusione di una società in cui i conflitti entropici sono sconfitti dalla presenza salvifica della comunicazione produce altre visioni del mondo, secondo cui il discorso diviene la base per l’azione sociale. La dimensione etica della comunicazione, implicata in questa prospettiva, si fonda su tre principi morali fondamentali: la giustizia che consiste nell’identica possibilità per tutti i partner di usare il linguaggio per le proprie argomentazioni; la solidarietà, intesa come la disponibilità e l’apertura reciproca nel quadro di un obiettivo comune; la responsabilità, quale impegno alla soluzione dei problemi (Apel 1976). Nella sfera ideale della comunicazione, allora, i soggetti si predispongono a una cooperazione discorsiva: ma se, da un lato, attraverso il dialogo l’esperienza può diventare universalmente comunicabile, dall’altro, la storia dimostra che esistono comunità reali, in cui non prevale la trasparenza, ma piuttosto l’opacità. Una visione innatista del linguaggio (Chomsky 1986), in base a cui i processi linguistici possono essere accomunati da una generale omogeneità e le strutture fondanti del discorso devono essere universali, inoltre, tende a sottodimensionare le ineludibili differenze che invece esistono tra universi culturali e sociali distanti. Allo stesso modo, non è possibile ignorare l’interpretazione soggettiva delle regole e della realtà linguistica, la costante contrapposizione tra costruzioni culturali antitetiche e la tendenza consequenziale dell’essere umano al conflitto e alla devianza. Un tentativo di affrontare questi limiti può essere quello che consiste nel produrre un’attività discorsiva in merito agli obiettivi, ai valori, ai significati, realizzando una sorta di psicanalisi sociale attraverso cui i soggetti diventano, grazie alla comunicazione, attivi e coscienti (Vattimo 132
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1989). La consapevolezza dell’impossibilità di realizzare un universo comunicativo in cui i messaggi fluiscano liberamente senza incontrare ostacoli alla loro circolazione e comprensione pone l’accento sulla necessità di adottare un agire argomentativo, e fissa i principi del discorso nella capacità di ogni individuo di dichiarare i propri valori e le proprie critiche, di parlare con onestà e autenticità e di disporre di uguali opportunità per esercitare eventuali forme di resistenza (Habermas 1985). In tal senso esiste una distinzione fondamentale tra razionalità e soggettività: mentre i significati sono soggettivi, il processo comunicativo possiede una propria struttura razionale, ed è proprio in tutte quelle situazioni in cui valori e culture differenti rendono difficile trovare un accordo che la razionalità argomentativa diventa uno strumento risolutivo. Pertanto le azioni comunicative rappresentano la forma più consapevole di umanità, distinguendosi dalle azioni strumentali, attraverso cui l’individuo agisce in modo strategico, mettendo in atto una volontà di dominio. Com’è noto, le utopie costituiscono sistemi di rappresentazione inevitabilmente astratti e distanti da qualunque forma di elaborazione critica: per questo vogliamo declinare la nostra riflessione sul presente, pur accogliendo alcune delle suggestioni derivanti dall’approccio cibernetico e sempre sulla scorta di una concezione bio-psico-sociale dell’evoluzione umana. Diversamente da quanto era stato immaginato, i media elettronici non hanno incrementato solo il livello di immediatezza dei contatti, ma anche il loro grado d’intimità, agendo dunque sul piano quantitativo e spaziotemporale, sugli spazi simbolici, affettivi, psichici. La possibilità di una comunicazione più immediata e intima ha dissolto antiche barriere sociali, portando alla ribalta quello che un tempo costituiva il retroscena di ogni individuo o gruppo (Meyrowitz 1985). Ne deriva che i legami sociali e professionali tradizionalmente intesi, incasellati in un contesto definito una volta per tutte, lasciano il posto a nuove forme di relazione e interazione. Il radicamento alla geografia fisica sembra allentare la sua presa, l’identità tra comunità relazionali e territoriali viene meno e la categoria del gruppo sociale viene sostituita da modelli d’interazione permeabili, differenziati, orientati a network multipli e fluidi. Lo sfumare dei confini sociali e spaziali determinato dai nuovi media, sebbene abbia comportato la riduzione della prossimità fisica, della dimensione faccia a 133
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faccia, dei contatti diretti, ha generato un flusso di connessioni pressoché infinite e aperte. Così anche il tradizionale limite individuabile in un numero circoscritto (150) di persone con cui un individuo può instaurare una relazione (numero di Dunbar; Dunbar 2010) è stato enormemente amplificato dalla quantità di contatti garantita dalle attuali tecnologie comunicative. Seppure attraverso semplici interconnessioni tra link. Se, infatti, la nascita e la diffusione della rete hanno certamente rappresentato una fase di possibile rilancio del sogno di un villaggio globale, spazio interconnesso e interattivo in cui è possibile superare ogni ostacolo, opacità, limitazione alla libera circolazione di informazioni, oggi sappiamo che la costituzione di un ambiente tecnologico ricco e articolato non coincide automaticamente con l’affermazione di un mondo ideale. Alcuni studiosi hanno sottolineato come, ad esempio, la costituzione di comunità virtuali non rappresenti necessariamente un presupposto all’agire democratico, dal momento che la mancanza di compresenza fisica e della condivisione di spazi di identità sociale consolidati possono dare vita a una sorta di simulacri di comunità o comunità di spettri (Maldonado 1997). Altri ancora sono arrivati a sostenere che i principi di eguaglianza e libertà potenzialmente veicolati dalla rete costituiscono le promesse mancate di un’innovazione che ha fatto del web 2.0 una tecnologia di controllo sociale e di Internet il medium che dà forma a nevrosi e timori diffusi (Lovink 2012). Due considerazioni si impongono a questo punto del discorso. In primo luogo, la struttura a rete, prerogativa della società contemporanea, non coincide necessariamente con una semplificazione dei rapporti, ma piuttosto con la loro crescente complessità: elemento che non fa che confermare l’esigenza di richiamarsi a modelli comunicativi elaborati per spiegare e comprendere il mondo in cui viviamo. In secondo luogo, il fatto che il paradigma relazionale si sia nel tempo sostituito a quello informazionale, ponendo l’accento sullo scambio e sull’interazione, piuttosto che sull’efficienza e sul trasporto di informazioni da una fonte a un ricevente, non vuol dire che, anche se si è passati dal sistema gerarchico e unidirezionale dei media generalisti a quello multipolare e interattivo a cui oggi siamo abituati, si sia realizzata l’utopia di una comunicazione trasparente. Il concetto di relazionalità va analizzato nella sua interezza, evitando qualunque semplificazione: le relazioni sociali non rappresenta134
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no, infatti, un fattore positivo in assoluto, ma possono configurarsi contemporaneamente come cooperazione e come conflitto, come trasparenza e come menzogna, come amore e come odio. Parlare, come abbiamo fatto, di società della comunicazione, dunque, non significa propendere a favore di una visione utopica o distopica, ma piuttosto riferirsi a uno stadio dell’evoluzione del rapporto tra uomo, natura e tecnologia, in cui certamente la comunicazione rappresenta il fattore propsulsivo: il portato storico di uno stadio della civilizzazione, destinata, per sua essenza, a una continua e infinita evoluzione. In sostanza, la realtà sempre più ipercomplessa e iperconnessa, oggetto di un continuo alternarsi di paradigmi contrastanti, costituisce uno scenario di riferimento al cui interno si colloca un nuovo archetipo oggi più che mai definibile come homo communicans, le cui caratteristiche, tuttavia, ci appaiono estremamente diverse da quelle originariamente immaginate dalla cibernetica. L’osservazione dell’impatto prodotto dall’innovazione tecnologica, unitamente alla crescente consapevolezza dell’importanza della dimensione umana nello svolgersi dei processi comunicativi, infatti, ha determinato la necessità di reinserire elementi legati all’affettività, all’immaginario, alla sensorialità, alla corporeità, ma anche al conflitto e all’incertezza. La sua natura è in parte assimilabile a quella dell’homo complexus (Morin 1990), unione di individualità, specie e società, capace cioè di racchiudere un insieme di caratteristiche apparentemente contraddittorie, ma necessariamente coesistenti, di cui la comunicazione rappresenta il tratto distintivo. In effetti, i media, lungi dal creare il tanto temuto uomo a una dimensione, attraverso la moltiplicazione di immagini, discorsi, connessioni, hanno piuttosto ampliato i punti di vista, dando vita a un multiverso articolato in una molteplicità di razionalità locali, di minoranze che hanno preso voce, rivendicando nuovi diritti di cittadinanza. In questo senso, ciascuno di noi rappresenta il nodo attivo di una rete di interdipendenze ed è soggetto a un perenne movimento e mutamento: assumiamo un’identità non tanto grazie alla nostra natura individuale, quanto, piuttosto, in relazione alla capacità di comunicare nel contesto che ci circonda. L’identità come dato anagrafico o condizione permanente del soggetto, quale categoria utilizzata dalla sociologia classica, è un 135
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concetto che, rapportato alla nostra epoca, mostra tutta la sua attuale inadeguatezza, sostituito dall’idea di un’identità collettiva, che scaturisce da un processo interattivo e condiviso. La definizione del sé, la capacità d’interiorizzazione e simbolizzazione propria dell’essere umano che si dispiegano nella vita quotidiana e che un tempo passavano per le tradizionali agenzie di socializzazione, ritornano oggi in forma quasi interamente mediata da nuove agenzie: il dissequestro dell’esperienza (Thompson 1995) restituisce pratiche e azioni della quotidianità, rendendoli accessibili attraverso i media. Nell’homo communicans il dentro e il fuori coincidono, poiché l’uomo trae la propria identità, il senso del proprio essere al mondo dal rapporto con il suo habitat, in cui egli costituisce un nodo di azioni e reazioni. Interiorità ed esteriorità partecipano agli stessi processi di cambiamento, che la comunicazione sollecita e incentiva, in un contesto articolato in cui convivono luci e ombre. La diffusione su scala globale dei social media, quale novità più rilevante della moderne pratiche comunicative, nonché la loro capacità di attrarre e attivare socialità, è un esempio di come si sia sviluppata una natura esteriorizzata e relazionale, in grado di valorizzare le forme dell’affettività, dell’emotività e di enfatizzare la volontà di mostrare frammenti più o meni ampi di identità. Quello che stiamo descrivendo, dunque, è un soggetto che si caratterizza per il possesso di una natura interconnessa e processuale, che forse a differenza di altri tipi ideali di fasi precedenti si incarna nelle differenze, nelle contraddizioni e nella complessità di un multiverso, che non è né del tutto opaco né del tutto trasparente, ma in cui le relazioni e le interazioni producono continuamente crisi e opportunità. L’idea che il fondamento della società risieda in modo esclusivo in una comunicazione razionale e astratta configura un sistema di relazioni certamente distante dalla nostra quotidianità e anche da forme di cultura più popolare che invece possono rappresentare una fonte essenziale per la messa in atto di azioni di ribellione verso la cultura dominante, per mezzo di pratiche comunicative che seguono le strade meno elitarie del divertimento, del gioco, dello spiazzamento, mettendo in discussione modelli stigmatizzati delle dinamiche relazionali. Da questo punto di vista, l’homo communicans è libero nella creazio136
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ne di contenuti, ma, in parte, deve rispondere a logiche di mercato nella loro gestione e distribuzione. Tra questi due estremi esiste un’infinita gamma di sfumature, mentalità, conoscenze, competenze, desideri, bisogni, in grado di comporre una figura prismatica e sfuggente, che tuttavia è sempre e comunque soggetta a un confronto incessante, più o meno vincente, con il fattore comunicazione. Possiamo sostenere, allora, che l’homo communicans, condividendo tutte le sfaccettature della comunicazione che abita, possiede un’anima giovane e digitale e ha certamente una vita resa più semplice dalle molte opportunità di connessione e più gratificante dalle pratiche di partecipazione a cui può aderire, entrando in contatto con altri suoi simili. Allo stesso tempo, però, non dobbiamo dimenticare che al suo interno resiste anche un’anima vecchia e generalista, che può mostrare un forte disagio nell’adattarsi alla velocità del cambiamento, a metabolizzare la grande quantità d’informazioni e messaggi che la sovrastano, a trasformare in risorsa e in capitale sociale la possibile moltiplicazione dei contatti e delle relazioni a cui può accedere. L’homo communicans, dunque, riassume in sé lo slancio verso l’innovazione e la resistenza nei confronti del cambiamento, la ricchezza delle tante occasioni di interazione e relazione e la paura della solitudine, la crescente necessità di essere continuamente connesso e l’ossessione di non riuscirci, l’aspirazione alla libertà e alla individualità e la schiavitù nei confronti del consumo, delle mode e della frenesia comunicativa: è il bambino che, prima ancora di sapere leggere o scrivere, utilizza lo smartphone dei genitori; l’anziano che non riesce a sintonizzare i canali della TV digitale; l’adolescente che si avventura curioso negli spazi più pericolosi del deep web; il single che passa la notte sveglio per chattare con persone che forse non incontrerà mai; l’appassionato che si lascia ancora affascinare dal buio di una sala cinematografica; il fan che attraversa tutti i media, rincorrendo i personaggi e le storie delle sue fiction preferite; il lettore vorace che non si rassegna all’avvento dell’e-book; il professionista che ricorre a tutte le tecnologie disponibili per ottimizzare le proprie performance lavorative e persino il più convinto critico di quella società della comunicazione, in cui, tuttavia, non può fare a meno di vivere. È tutti noi, in sostanza: una specie di/in evoluzione di cui ancora molto rimane da capire e da scoprire. 137
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