Hikikomori. I giovani che non escono di casa 8865315520, 9788865315521

Il termine giapponese hikikomori significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato per riferirsi

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Italian Pages 124 [137] Year 2019

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Hikikomori. I giovani che non escono di casa
 8865315520, 9788865315521

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Introduzione

Marco Crepaldi

Hikikomori I giovani che non escono di casa

Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi 3 - 00196 Roma tel./fax 0639738315 - e.mail: [email protected] - www.alpesitalia.it

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© Copyright Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 - 00196 Roma, tel./fax 06-39738315 I edizione, 2019

Marco Crepaldi, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale, nel 2017 fonda l’associazione nazionale Hikikomori Italia di cui è tuttora presidente. I suoi studi si concentrano sul crescente fenomeno mondiale dell’isolamento sociale giovanile, con particolare attenzione al contesto italiano, occupandosi parallelamente di tutte le problematiche a esso associate, come, ad esempio, la depressione esistenziale e la dipendenza dalle nuove tecnologie.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. È vietata qualsiasi riproduzione, anche parziale, di quest’opera. Qualsiasi copia o riproduzione effettuata con qualsiasi procedimento (fotocopia, fotografia, microfilm, nastro magnetico, disco o altro) costituisce una contraffazione passibile delle pene previste dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modifiche sulla tutela dei diritti d’autore.

Introduzione

Indice generale Introduzione................................................................................................ VII

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Cos’è l’Hikikomori?................................................................................. 1 L’Hikikomori non è dipendenza da Internet....................................... 2 L’Hikikomori non è depressione......................................................... 5 L’Hikikomori non è fobia sociale, schizofrenia o autismo.................... 6 Gli Hikikomori non sono eremiti....................................................... 8 Hikikomori: una prima definizione..................................................... 10 L’Hikikomori è una malattia?.............................................................. 14

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Profilo e incidenza.................................................................................. 19 L’identikit dell’Hikikomori tipo.......................................................... 19 I numeri del fenomeno....................................................................... 27

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Evoluzione e classificazione................................................................... 31 Le tre fasi dell’Hikikomori.................................................................. 31 Le quattro tipologie di Hikikomori..................................................... 34

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Le cause.................................................................................................... 37 La pressione di realizzazione sociale..................................................... 37 La paura di essere giudicati................................................................. 40 Depressione esistenziale e apatia.......................................................... 45 Dinamiche genitori-figli e disposizioni temperamentali...................... 53

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Hikikomori - I giovani che non escono di casa

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Il ruolo della scuola.............................................................................. 61 La piaga del bullismo.......................................................................... 62 Il ruolo degli insegnanti...................................................................... 64 La standardizzazione dell’apprendimento............................................ 65 “Cosa non funziona nella scuola?”, parola agli Hikikomori................. 67

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Le possibili soluzioni............................................................................... 73 L’esperienza giapponese....................................................................... 73 La tecnica dell’open dialogue................................................................ 81 Buone prassi e comportamenti da evitare............................................ 84 Come si aiuta un Hikikomori adulto?................................................. 89 L’importanza della comunità............................................................... 92

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Il progetto “Hikikomori Italia”............................................................. 97 Finalità e risultati raggiunti................................................................. 100 Metodo di lavoro................................................................................ 104 Indagine statistica | genitori................................................................ 107 Indagine statistica | figli...................................................................... 114

Conclusioni.................................................................................................. 119 Bibliografia.................................................................................................. 121

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Dedicato a Elena, ai genitori e ai volontari dell’associazione Hikikomori Italia, e a tutti coloro che ogni giorno lottano per trovare un senso.

Introduzione

Introduzione

Il Giappone uscì dalla Seconda Guerra Mondiale ferito nell’orgoglio e desideroso di riscatto. Fu questo sentimento il motore alla base del cosiddetto “miracolo economico giapponese”, il quale portò rapidamente il paese del Sol Levante ad affermarsi come terza potenza mondiale, dietro solamente all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti. La sua crescita fu così solida e stabile che molti analisti erano pronti a scommettere su un Giappone presto irraggiungibile per chiunque. Il benessere economico portò anche a un aumento vertiginoso della popolazione. Negli anni ’70, Tokyo arrivò a superare gli 8 milioni di abitanti, tanto che si rese necessario costruire grattacieli sempre più alti, con spazi abitativi progressivamente più piccoli. Il mondo intero ammirava sbalordito la Shinkansen, la modernissima rete ferroviaria giapponese sulla quale sfrecciavano i cosiddetti “treni proiettile”, emblema di una crescente fiducia per la tecnologia e per il progresso capitalistico. Sembrava che nulla potesse andare storto: la guerra era ormai un lontano ricordo e la pace internazionale finalmente duratura. Eppure, mentre il Giappone era impegnato a specchiarsi e a esibirsi in tutta la sua potenza sotto agli occhi del mondo, il “nemico” si faceva strada dall’interno, indisturbato e sottovalutato. Non sto parlando di un conflitto militare, oppure della bolla speculativa che scoppiò sul finire degli anni ’80, e nemmeno della stagnazione economica che ne seguì. Sto parlando di un nemico ancora più subdolo e sfuggente, poiché si nascondeva proprio nella più grande e preziosa risorsa di cui il Giappone disponeva, il più importante investimento sul proprio futuro: i suoi giovani. Durante quegli anni si registrò, all’interno dell’ambiente scolastico, un considerevole aumento del fenomeno dell’ijime (letteralmente “tormentare; perseguitare”), che consiste sostanzialmente nell’individuare l’elemento più debole della classe e prenderlo di mira, in particolare attraverso l’esclusione. VII

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

Con la complicità attiva o passiva di tutti i compagni, il malcapitato viene isolato e ignorato, come non esistesse. In una società collettivistica come quella giapponese, dove l’appartenenza e l’identificazione con il gruppo rappresenta un fattore essenziale per la propria struttura identitaria, questa forma di violenza psicologica risulta essere particolarmente brutale. La conseguenza fu un aumento vertiginoso di suicidi giovanili, così tanti da attirare un grande interesse mediatico. Il governo, pressato dai mass media, fu allora obbligato a dare delle risposte, attivando programmi di rilevazione e sensibilizzazione in tutto il paese che, almeno in parte, ebbero successo e nel giro di qualche anno il numero di suicidi tornò sotto controllo. Questo enorme clamore distolse però l’attenzione pubblica da un altro fenomeno, in rapida crescita sempre negli anni ’80, che tuttavia non provocava morti e, pertanto, faceva meno rumore. Sto parlando di ragazzi che scomparivano nel nulla, apparentemente senza motivo, ritirandosi all’interno nella propria camera da letto senza più mettere piede fuori di essa. Inizialmente vennero interpretati quali casi isolati, poi crebbe la consapevolezza che si trattava di una tendenza diffusa su larga scala. Tra la gente cominciò a diffondersi l’espressione “Hikikomori”, termine gergale coniato a partire dalle parole hiku, che significa «tirare», e komoru, ovvero «ritirarsi». Un’etichetta sociale carica di stigma, utilizzata per riferirsi a coloro che si tenevano in disparte da tutti e da tutto, cercando conforto al proprio disagio nella solitudine più totale. I primi casi vennero confusi con diverse psicopatologie, in particolare schizofrenia e depressione, e trattati farmacologicamente con scarsi risultati. Questo grave errore di valutazione portò i numeri del fenomeno a crescere ulteriormente, fino a raggiungere le centinaia di migliaia. Nonostante ciò, il governo giapponese continuò per molto tempo a ignorare gli Hikikomori, illudendosi inizialmente che si trattasse di una problematica circoscritta e sperando di poterla risolvere prima che uscisse allo scoperto, soprattutto a livello internazionale. Il Giappone era infatti visto dal mondo come un modello di società esemplare e non poteva permettersi di far conoscere la drammatica condizione psicologica che molti dei suoi giovani stavano vivendo. VIII

Introduzione

Poi, nel 1998, Tamaki Saitō, un giovane psichiatra giapponese, pubblicò il libro dal titolo Ritiro sociale: adolescenza senza fine, nel quale utilizzò il termine Hikikomori, non solo per riferirsi ai singoli soggetti ritirati, ma anche per identificare il fenomeno nel suo complesso. Saitō prese una posizione forte sostenendo che l’isolamento degli Hikikomori non poteva essere spiegato con nessuna psicopatologia esistente e avanzò l’ipotesi del ritiro sociale come sintomo primario. La cosa più importante, però, è che per la prima volta al termine fu data una valenza scientifica, cambiando completamente la percezione che si aveva di esso. Non era più solamente una parola, un’espressione gergale, ma un vero e proprio fenomeno sociale di cui bisognava prendere coscienza. Anche grazie a questa pubblicazione, l’attenzione sul tema aumentò notevolmente. Ben presto la questione arrivò anche sui mass media, nelle news dei telegiornali e nei salotti dei talk show. Il Giappone si svegliò improvvisamente e si accorse che un’intera generazione stava scomparendo. Il governo, messo alle strette, si mise finalmente in moto e nel 2003 pubblicò un importante studio nel quale, di fatto, riconosceva ufficialmente il fenomeno degli Hikikomori, stabilendone i criteri base: uno stile di vita centrato a casa, nessun interesse o disponibilità a partecipare alla scuola o al lavoro e persistenza dei sintomi per almeno sei mesi. Attenzione però, da questi dovevano essere esclusi coloro che soffrivano di un ritardo o un disturbo mentale e chiunque mantenesse delle relazioni sociali (Tajan, 2017). Si trattava di criteri particolarmente rigidi che avevano lo scopo di sminuire l’entità del fenomeno, in quanto le stime non ufficiali che cominciavano a diffondersi risultavano davvero allarmanti. Secondo le associazioni giapponesi che se ne occupavano, il numero di casi di Hikikomori si sarebbe aggirato attorno al milione. Tamaki Saitō, invece, sosteneva che le persone coinvolte sarebbero state addirittura oltre due milioni. Si dovette attendere il 2010 per avere i primi dati ufficiali provenienti dal Governo che stimarono un’incidenza di Hikikomori pari a circa 696 mila casi, con un’età media di 31 anni e per il 66,1% maschi (Tajan, 2017). Qualunque fosse la verità, era ormai chiaro che l’emergenza sociale necessitava di interventi rapidi e concreti. Studiosi da tutto il mondo IX

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

cominciarono a interessarsi al fenomeno, interpretandolo inizialmente come una sindrome culturale inscindibilmente legata al contesto giapponese, ipotesi che si rivelò ben presto errata, smentita da ricerche successive che attestavano casi sovrapponibili agli Hikikomori giapponesi in molte delle nazioni economicamente sviluppate del mondo, Italia compresa (Kato et al., 2011; Teo, 2013; De Michele et al., 2013; Teo et al., 2015; Malagón-Amor et al., 2015; Wong et al., 2015).

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1 Cos’è l’Hikikomori? Quando il fenomeno cominciò a diffondersi in Giappone, verso la fine degli anni ’80, sui media non se ne parlava, non c’era informazione a riguardo. Socialmente, però, il problema cominciava già a essere percepito e ogni volta che un ragazzo spariva, nel suo quartiere cominciavano inevitabilmente a girare voci sul fatto che fosse diventato un Hikikomori. I genitori si vergognavano a tal punto della condizione del figlio che evitavano di parlarne con chiunque, medici compresi. Dal canto loro le provavano tutte, ma ogni azione sembrava non dare alcun esito positivo e finivano così per rassegnarsi al fatto che non ci fosse modo di convincere il ragazzo a uscire dalla stanza, né con le buone né con le cattive. Pensate cosa significa: centinaia di migliaia di padri e madri che perdevano qualsiasi contatto con il figlio, talvolta non vedendo il suo volto per mesi e anni, nonostante trascorresse tutto il suo tempo a pochi metri da loro. Dopo lo studio pubblicato nel 2003 dal Ministero della Salute giapponese, finalmente le cose iniziarono a cambiare. L’Hikikomori non solo era stato riconosciuto ufficialmente, ma uno dei criteri sosteneva esplicitamente che, per poter essere considerato tale, non bisognava presentare disturbi mentali connessi. Da quel momento, con almeno dieci anni di colpevole ritardo, cominciarono a essere prese misure pubbliche per far fronte alla crisi. Si iniziò a parlarne con insistenza anche in televisione e sui giornali, stimolando al contempo un’accelerazione della ricerca scientifica. Nel 2013, Mami Suwa e Koichi Hara, due ricercatori della facoltà di medicina all’Università di Nagoya, documentarono come, nella maggior parte dei casi di Hikikomori da loro osservati, non era presente nessuna psicopatologia associata. Tale risultato li portò a ipotizzare l’esistenza di un Hikikomori Primario, ovvero uno stato di ritiro sociale 1

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

che non origina da nessuna psicopatologica preesistente, allineandosi con quanto sostenuto da Tamaki Saitō nel suo testo pionieristico. In generale, secondo uno studio del 2011 (Kato et al.), solo il 30% degli psichiatri giapponesi ritiene che i casi di Hikikomori possano essere diagnosticati usando i criteri del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. A partire dal 2017 l’attenzione mediatica sul fenomeno è aumentata anche nel nostro paese, grazie soprattutto al lavoro dell’associazione nazionale Hikikomori Italia. Gli articoli che ne parlano si stanno moltiplicando sul web e il tema è stato trattato più volte anche dai principali mass media nazionali. Se da una parte questa attenzione è sicuramente positiva, in quanto contribuisce a sensibilizzare sul fenomeno un numero crescente di persone, dall’altra ha portato al proliferare di un’informazione troppo spesso fuorviante e lacunosa. In molti casi si è fatta vera e propria disinformazione, a tal punto che l’Hikikomori è stato scambiato per patologie con le quali non ha nulla a che fare, generando una grande confusione intorno al tema e, di fatto, impedendo a coloro si trovano in questa condizione di identificarsi e adottare le giuste strategie di intervento. Prima di capire così sia l’Hikikomori, è allora importante fare chiarezza su cosa non sia l’Hikikomori, sfatando i falsi miti e gli stereotipi che ruotano attorno a questa problematica.

L’Hikikomori non è dipendenza da Internet L’Hikikomori viene spesso assimilato erroneamente alla dipendenza da Internet, come ho riscontrato in tantissimi articoli comparsi sul web, anche su testate prestigiose. Purtroppo si tratta di un malinteso dal momento che l’Hikikomori e l’Internet Addiction, seppur talvolta in grado di potenziarsi reciprocamente, sono due problematiche completamente distinte. Iniziamo col dire che, stando alle ricerche effettuate sugli Hikikomori giapponesi, sembrano essere in molti coloro che non utilizzano assiduamente rete.  Secondo quanto riportato nel 2008 dall’antropologa Carla

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Cos’è l’Hikikomori?

Ricci, tra i primi studiosi italiani a occuparsi del fenomeno e oggi ricercatrice all’Università di Tokyo, allora in Giappone vi era una percentuale di auto-reclusi offline vicina al 30%. Lo stesso Tamaki Saitō, durante un’intervista risalente allo stesso anno, affermò che solamente un decimo dei suoi pazienti sembrava fare un uso massiccio di internet e, nella maggior parte dei casi, si sarebbe trattato comunque di un utilizzo monodirezionale e non finalizzato all’interazione (Pierdominici, 2008). È facile ipotizzare che questi dati siano oggi sensibilmente diversi e che la maggior parte degli Hikikomori odierni faccia un uso intensivo di internet, almeno per quanto riguarda i tanti casi italiani che ho avuto modo di osservare direttamente. Il punto chiave, però, è che l’Hikikomori sembra avere un’origine indipendente dalle nuove tecnologie. Basti pensare che negli anni ’80, quando il fenomeno esplose in Giappone, internet non era ancora entrato a far parte della vita quotidiana delle persone e i primi ritirati sociali erano completamente isolati dal mondo esterno, non avendo alcuna possibilità di entrare in comunicazione con esso, nemmeno virtualmente. Da una certa prospettiva, potremmo allora sostenere che l’avvento di internet abbia rappresentato un’opportunità per gli Hikikomori, permettendo loro di mantenere delle relazioni, seppur digitali, con altre persone. In fase di valutazione dello stato di gravità dell’isolamento, l’utilizzo del web dovrebbe dunque essere considerato come un fattore positivo, in quanto utile a preservare, al meno in parte, le competenze sociali del soggetto ritirato, le quali saranno presumibilmente maggiori rispetto a chi vive la medesima condizione in modalità offline e senza nessun tipo di contatto, diretto o indiretto, con la società esterna. Allo stesso modo, è possibile ipotizzare un ruolo negativo giocato delle nuove tecnologie, con l’esistenza di una correlazione diretta tra la diffusione capillare del web e la rapida crescita del fenomeno registrata parallelamente negli ultimi anni. Internet potrebbe infatti aver avuto un effetto acceleratore, ampliando esponenzialmente le risorse a disposizione degli Hikikomori nella condizione di isolamento e rendendo di fatto maggiormente attraente tale strada, almeno più di quanto lo fosse nell’era pre-digitale.

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Hikikomori - I giovani che non escono di casa

Attenzione però, la pulsione all’isolamento di un Hikikomori non dipende mai esclusivamente dalla sua attrazione nei confronti della rete, ma origina sempre da un malessere sociale preesistente. L’eventuale abuso che egli fa di internet non deve allora essere interpretato come causa diretta dell’isolamento, ma piuttosto una conseguenza dello stesso, dal momento che il computer diventa per il soggetto ritirato l’unico mezzo di contatto con la società esterna, nonché il principale strumento di intrattenimento e svago. Al contrario, quando parliamo di Internet Addiction, l’isolamento sociale, qualora presente, ha origine direttamente dalla dipendenza e non è affatto detto che il soggetto che ne soffre sperimenti un disagio sociale sovrapponibile a quello degli Hikikomori. A tal proposito è doveroso fare un’ulteriore precisazione, poiché spesso si ritiene, erroneamente, che sia il tempo che un individuo trascorre utilizzando lo strumento tecnologico a determinarne la dipendenza, eppure quello che conta non è il tempo, ma il rapporto che si sviluppa con il mezzo. Prendendo come esempio il caso del Gaming Disorder (dipendenza da videogame), problematica inserita nel 2018 tra le psicopatologie ufficialmente riconosciute, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che si può parlare di dipendenza solo quando il giocare ai videogame impatta negativamente sulla sfera personale, sociale e familiare, esercita sull’individuo un bisogno incontrollabile e prende il sopravvento fino ad annullare gli altri interessi della vita. Quest’ultimo punto è proprio quello che differenzia un soggetto affetto da Gaming Disorder da un Hikikomori per il quale, come detto, il giocare ai videogame, così come il navigare su internet, rappresenta uno strumento di intrattenimento, di distrazione e di comunicazione con il mondo esterno. Non è il videogioco a creare un vuoto nei suoi interessi: la perdita di senso e di significato, nel caso degli Hikikomori, si trova a monte. Il videogioco va proprio a tentare di colmare un vuoto. Ciò significa che tolto il videogioco, tolto il computer, tolto internet, il vuoto rimane.

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Cos’è l’Hikikomori?

L’Hikikomori non è depressione La depressione, intesa in senso clinico, non ha nulla a che vedere con la felicità o la tristezza. Si tratta di una patologia particolarmente debilitante che impatta fortemente sugli aspetti cognitivi della persona, rendendo difficile, nei casi più gravi, compiere anche le azioni quotidiane più semplici. È spesso generata da pensieri compulsivi e schemi mentali rigidi che si autoalimentano e dai quali è difficile uscire (World Health Organization, 2017). Mentre è innegabile che molti Hikikomori abbiano evidenti sintomi depressivi, esistono soggetti in isolamento sociale volontario che non presentano tale sintomatologia e per i quali non è possibile operare una diagnosi di depressione clinica (Saitō, 1998; Suwa & Suzuki, 2013). Questo aspetto mi è stato direttamente confermato anche da diversi psichiatri con i quali sono entrato in contatto durante i miei studi sul fenomeno. Gli Hikikomori si isolano per fuggire dalla sofferenza che provoca loro la socialità e all’interno della propria abitazione riescono a ritrovare, seppur momentaneamente, quell’equilibrio che invece non sono stati in grado di raggiungere nella società esterna. Provano sollievo nella solitudine, illudendosi, talvolta, di aver individuato una soluzione al proprio malessere. La maggior parte di loro è consapevole che il ritiro non sia la condizione ideale, ma sentono comunque di preferirlo alla vita sociale. Alcuni, a causa delle continue sofferenze e delusioni riscontrate in tale ambito, arrivano a perdere totalmente interesse per le relazioni, sviluppando un atteggiamento apatico, ovvero una forte carenza motivazionale a intraprendere qualsiasi tipo di iniziativa, senza però manifestare necessariamente la sintomatologia tipica della depressione (Pierdominici, 2008; Suwa & Suzuki, 2013). È tuttavia possibile ipotizzare che la condizione depressiva sia favorita dallo stato di isolamento, soprattutto quando questo arriva a livelli estremi o si protrae per lunghi periodi di tempo. Quella che inizialmente potremmo interpretare come “una scelta del male minore”, guidata dal

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Hikikomori - I giovani che non escono di casa

disagio sperimentato in ambito sociale, potrebbe infatti trasformarsi in una gabbia dalla quale non si è più in grado di uscire, che lo si voglia o meno. In questa fase avanzata il rischio di sviluppare psicopatologie rischia di aumentare considerevolmente, contribuendo in questo modo a spiegare perché l’Hikikomori si presenta spesso in associazione con disturbi dell’umore (Koyama et al., 2010; Teo, 2013).

L’Hikikomori non è fobia sociale, schizofrenia o autismo Così come per la depressione, si potrebbe facilmente pensare che un Hikikomori non esca dalla propria abitazione a causa di una fobia sociale, ovvero una paura pervasiva del confronto con l’altro. Anche in questo caso ciò non è propriamente scorretto, ma sicuramente riduttivo, in quanto significherebbe sostenere implicitamente che l’isolamento sia una condizione forzata, conseguenza di una problematica di ordine superiore. Eppure, dietro alla scelta di ritiro degli Hikikomori, si cela spesso una componente valutativa e razionale profondamente radicata. Si tratta infatti di soggetti che hanno sviluppato nel corso degli anni una visione particolarmente cinica, critica e negativa nei confronti delle relazioni sociali e della società nel suo complesso, arrivando spesso a desiderare consciamente di non farne parte. A parziale conferma di questa ipotesi esiste uno studio condotto nel 2013 (Nagata T. et al.) dove un gruppo di pazienti, tutti con una diagnosi di ansia sociale, sono stati trattati attraverso una combinazione di psicoterapia, farmacoterapia e lavoro di gruppo. La cosa interessante emersa è che all’interno del campione in oggetto, coloro che presentavano caratteristiche riconducibili all’Hikikomori, mostravano anche una minore risposta al trattamento. La mia ipotesi è che tale resistenza sia proprio dovuta a una diversa elaborazione dell’ansia sociale sperimentata, nel caso degli Hikikomori maggiormente interpretata, non come un ostacolo da combattere, bensì come un alleato che li mette in guardia da un pericolo:

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Cos’è l’Hikikomori?

l’ambiente sociale appunto. Questo spiegherebbe perché gli Hikikomori, nonostante il malessere derivante dalla propria condizione, si dimostrano restii a ricevere aiuto e particolarmente resistenti al cambiamento. Dunque, seppure l’avversione nei confronti delle relazioni sociali sembra originare da una forte componente ansiosa, si tratta comunque di una visione negativa profondamente interiorizzata dagli Hikikomori e, per questo motivo, un fattore non trascurabile. Al contrario, dalla mia prospettiva, tali aspetti motivazionali rappresentato proprio la principale discriminante tra l’isolamento di un Hikikomori e qualsiasi altra forma di ritiro sociale non ascrivibile a tale fenomeno. Per fare un esempio, l’isolamento è anche un sintomo prodromico della schizofrenia: grave disturbo psicotico in grado di alterare fortemente la percezione della realtà da parte del soggetto che ne soffre, con allucinazioni e deliri paranoidi. Eppure gli Hikikomori non presentano tale sintomatologia e, in assenza di psicopatologie connesse, risultano essere perfettamente lucidi, nonché in grado di operare ragionamenti approfonditi e complessi, su se stessi e su gli altri (Zielenziger, 2016). Paradossalmente, le loro difficoltà adattive e relazionali potrebbero coincidere proprio con un’elevata sensibilità introspettiva e un’interpretazione della realtà più elaborata rispetto alla media. Secondo Tamaki Saitō (1998) solo dietro l’1% dei casi di isolamento sociale volontario si cela una schizofrenia. A proposito di questo argomento egli durante un’intervista disse: “Non si tratta [in riferimento all’Hikikomori] di un disturbo psicotico o di schizofrenia [...] Se si ha a che fare con un paziente schizofrenico, c’è un’effettiva incapacità comunicativa. Magari non si riescono a capire i suoi discorsi o le parole, e può essere che senta delle voci o abbia delle allucinazioni; i suoi processi cognitivi sono rovinati. Se invece si ha a che fare con degli Hikikomori, non si riscontrano mai tali sintomi.” (Zielenziger, 2006, p. 91).

Attenzione, infine, a non confondere l’Hikikomori con i disturbi dello spettro autistico. Chi soffre di questi ultimi presenta fin dall’infanzia 7

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

marcate difficoltà relazionali e comunicative, nonché una carenza di interessi personali limitati spesso a specifiche attività dal carattere rituale e ripetitivo. Nulla di tutto questo è presente negli Hikikomori, i quali generalmente conducono un’infanzia del tutto normale, sperimentando il disagio adattivo solitamente in una fase avanzata del proprio sviluppo psicologico, di solito durante l’adolescenza (Suwa & Hara, 2007). Inoltre, non tutti gli Hikikomori presentano necessariamente evidenti difficoltà comunicative e relazionali, come nel caso dell’autismo. L’elemento che provoca in loro l’istinto di isolamento va ricercato piuttosto nella paura del giudizio e nella perdita di motivazione nei confronti degli obiettivi sociali, aspetti soggettivi che spesso prescindono dalle proprie reali competenze interpersonali. Si tratta questo di un punto fondamentale sul quale ritorneremo più volte nel corso del testo.

Gli Hikikomori non sono eremiti I media, in particolare, amano definire gli Hikikomori utilizzando l’espressione “i nuovi eremiti”. Si tratta di un accostamento infelice, che rischia di fuorviare la corretta concezione del problema, dal momento che la parola “eremita” ha un preciso significato e indica storicamente una figura profondamente dissimile dall’Hikikomori, per almeno tre motivi. Partiamo da quella che potrebbe sembrare, apparentemente, l’analogia più scontata tra le due condizioni, ovvero il fatto di vivere in solitudine. Già qui troviamo la prima discordanza poiché gli Hikikomori si isolano dalla società solamente con il corpo, non con la mente. Come detto, la maggior parte di loro mantiene interazioni quotidiane con il mondo esterno attraverso il web, rimanendo costantemente aggiornati sui fatti di attualità e sulle mode del momento, giocando online in comunicazione vocale con altre persone da tutto il mondo, chattando e commentando sui social network. Di fatto, pur essendo isolati nella loro abitazione, mantengono un forte legame con la società e costruiscono relazioni digi-

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Cos’è l’Hikikomori?

tali, le quali non sono equiparabili per completezza di potenziale comunicativo alle relazioni dirette, ma restano comunque delle relazioni sociali a tutti gli effetti. Quella degli Hikikomori non è asocialità, bensì una forma di socialità alternativa, che non necessità della componente fisica della persona. Una socialità consentita dalle nuove tecnologie, destinata in futuro a diventare sempre più centrale nella vita dell’uomo. Inoltre, se escludiamo i casi più gravi, la maggior parte di loro mantiene un rapporto diretto con genitori e parenti. Parliamo quindi di un isolamento selettivo e non indiscriminato come quello che caratterizza gli eremiti. Un’altra differenza sostanziale sta nel fatto che l’isolamento degli eremiti è storicamente finalizzato anche a allontanarsi da quelli che sono gli agi della società. Al contrario l’Hikikomori non pratica una vita da asceta, non rinuncia ai benefit materiali, al cibo, a un letto comodo o alla tecnologia, anzi, potremmo affermare esattamente l’opposto, ovvero che l’Hikikomori sia la manifestazione di un disagio sociale causato proprio da un eccesso di benessere. Non è certo un caso che questo fenomeno sia scoppiato in uno dei paesi più ricchi del mondo, ovvero il Giappone, e si stia rapidamente diffondendo soprattutto nelle società economicamente sviluppate. Il terzo e ultimo punto che distingue le due figure è rappresentato dall’aspetto motivazionale che guida la scelta dell’isolamento. L’Hikikomori non si ritira con lo scopo di intraprendere un cammino spirituale, come accadeva per l’eremita: la sua è una decisione dettata dal bisogno di sfuggire al malessere sperimentato nel contesto sociale. Su questo punto, tuttavia, possono essere individuate delle analogie tra le due condizioni. È vero, infatti, che dietro al di ritiro di un Hikikomori si nasconde spesso anche una motivazione ideologica, frutto di ragionamenti interiori: una particolare concezione della propria realtà esistenziale che porta a mettere in discussione i dogmi sociali e le dinamiche di una vita che appare loro come imposta dall’alto. Siamo in presenza di uno svuotamento del significato dell’esistenza e, contestualmente, di una perdita di motivazione nel perseguire gli obiettivi giudicati come materialisti e irrazionali. La decisione degli Hikikomori potrebbe essere proprio legata alla volontà 9

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

di allontanarsi da una società che appare come lontana dai propri valori e per la quale non vale la pena lottare. Parleremo approfonditamente di questo tema nel quarto capitolo.

Hikikomori: una prima definizione Oggi, all’alba del 2019, non esiste ancora una definizione ufficiale ed esaustiva dell’Hikikomori inteso come fenomeno mondiale. Possiamo allora provare a proporne una, cercando di mettere insieme quanto è stato detto finora. La cosa più importante, per quanto mi riguarda, è quella di identificarlo non quale uno status rigido della persona, come accade attualmente in Giappone, ma piuttosto come una condizione dinamica e graduale. L’Hikikomori può essere allora interpretato come una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate. Nell’analizzare tale definizione, voglio soffermarmi innanzitutto sul perché ho scelto di utilizzare la parola “pulsione”. Quando si pensa all’Hikikomori ci si immagina subito un ragazzo ritirato all’interno della propria abitazione, ma quella non è altro che l’ultima fase di un processo graduale di allontanamento dalla società. È infatti possibile convivere per molti anni con l’istinto a isolarsi senza lasciare che questo prenda il sopravvento, potenzialmente anche per tutta la vita. Tutto dipende dalle caratteristiche del contesto ambientale e dalle proprie disposizioni temperamentali. La questione diventa allora la seguente: è giusto considerare un Hikikomori tale solamente nel momento in cui egli si trova effettivamente in una condizione di isolamento sociale? A mio parere no, poiché si tratterebbe di un’interpretazione statica e piatta, poco utile anche sul piano della prevenzione. Hikikomori non è solamente chi non esce mai di casa, ma anche chi esce con fatica, con sofferenza e con disagio, chi esce senza trovare una reale motivazione e lo fa solo perché si tratta di una consuetu-

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Cos’è l’Hikikomori?

dine o di un obbligo, chi esce ma non socializza con nessuno, rimanendo a tutti gli effetti isolato anche in un contesto sociale. Quando il ritiro si concretizza e diventa manifesto, significa che il disagio ha già raggiunto un livello di gravità tale da non essere più sostenibile. L’Hikikomori è una tipologia di isolamento sociale che ha delle precise caratteristiche, le quali giustificano l’esigenza di un nuovo termine per identificarlo. Non tutti coloro che si isolano, infatti, sono Hikikomori. La discriminante sta nelle motivazioni per le quali si intraprende la strada del ritiro. L’Hikikomori è prima di tutto una scelta, dolorosa e istintiva, ma pur sempre una scelta, che esprime la preferenza di un ambiente, l’abitazione o la camera da letto, rispetto a un altro, ovvero la scuola, il lavoro o la società più in generale. L’intento, consapevole o inconsapevole, è quello di fuggire dalle pressioni di realizzazione sociale che costringono ad alti livelli di performance e provocano, nei soggetti che non sono in grado di sostenerle, malessere e disagio. Parallelamente a questo istinto di fuga, solitamente l’Hikikomori sviluppa anche una grande sfiducia nelle relazioni interpersonali e, talvolta, una forte negatività nei confronti della società moderna e delle sue dinamiche. Si tratta di un meccanismo cognitivo inconscio atto a sostenere la propria decisione di ritiro, attraverso la creazione di giustificazioni che siano in grado di convalidarla e di conferirle senso. Le esperienze negative vissute nel contesto micro, ad esempio tra i banchi di scuola, vengono allora generalizzate al contesto macro, ovvero alla società nel suo complesso. La fiducia nel rapporto con l’altro si indebolisce, compromettendo anche il valore attribuito a tale scambio. In questo senso, non vi è solo una difficoltà nel socializzare, ma vi è anche una contestuale perdita di interesse nel farlo. Il processo che porta alla genesi della pulsione all’isolamento è dunque frutto di una interpretazione della realtà fortemente interiorizzata, sviluppata dall’individuo nel corso di tutta la sua esistenza. Per questo motivo l’Hikikomori non può mai essere una sensazione estemporanea, figlia di un particolare momento o di un singolo evento, ma le sue origini arrivano sempre da lontano, avendo il tempo di costruire radici profonde e 11

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resistenti. Riuscire a modificare tale condizione necessita, pertanto, di un lavoro lento che può richiedere potenzialmente anche diversi anni. Come vedremo successivamente, lo scopo è quello di aiutarlo a recuperare il desiderio di confrontarsi con l’ambiente sociale, attraverso l’individuazione di una motivazione valida in tal senso. Gli interventi che mirano a ottenere un effetto immediato di solito provocano solo danni e, anche qualora producessero dei risultati, se il cambiamento non è profondo e stabile il rischio di ricadute sul medio-lungo termine aumenta. Forzare i tempi, spingendo il soggetto isolato ad affrontare le sfide sociali prima che sia effettivamente in grado di farlo, può provocare un contraccolpo negativo e compromettere ulteriormente la sua condizione. L’utilizzo nella definizione dell’espressione “isolamento fisico”, invece, è giustificata dall’esigenza di fare un distinguo tra quella che è la socialità diretta, la quale richiede la presenza del proprio corpo, da quella che è la socialità indiretta, oppure “virtuale”, che non richiede, appunto, la fisicità. Definire gli Hikikomori come degli “isolati sociali” è formalmente scorretto, in quanto, come detto anche precedentemente nel paragrafo sugli eremiti, si tratta di soggetti spesso completamente immersi nel mondo sociale grazie alla rete. L’attività online più comune è rappresentata proprio dai videogame cooperativi che richiedono una costante interazione con gli altri giocatori provenienti da tutto il mondo. Può essere utilizzato il mezzo della chat scritta, oppure quello della chat vocale, il social network, piuttosto che il forum: una modalità relazionale, diretta o indiretta, viene sempre mantenuta, a eccezione dei casi più gravi, dove però si è verosimilmente generata una qualche forma psicopatologica correlata. Cosa intendo, invece, con “eccessive pressioni di realizzazione sociale” spero di averlo già chiarito ampiamente nelle pagine precedenti. In una società come quella moderna, sempre più competitiva su tutti i livelli, la paura di essere visti fallire diventa per alcuni insostenibile. “Visti” perché non è il fallimento di per sé che spaventa, ma il giudizio che ne deriva. È proprio questo il caso degli Hikikomori, soggetti maturi intellettualmente, ma deboli da un punto di vista relazionale e carenti nel mettere in atto strategie difensive atte a ridurre lo stress derivante confronto con l’altro. 12

Cos’è l’Hikikomori?

Tali debolezze si concretizzano in una profonda difficoltà adattiva verso l’ambiente sociale, il quale finirà per provocare sofferenza e frustrazione. La scelta di un Hikikomori di isolarsi rappresenta sostanzialmente la volontà di abbandonare la corsa, rifiutando “le regole del gioco”. Le pressioni di realizzazione sociale, per esempio “Devi prendere bei voti”, “Devi trovarti un lavoro fisso”, “Devi trovarti un/a ragazzo/a”, “Devi essere simpatica/o, sportiva/o e attraente”, sono ovviamente più forti nell’adolescenza e nei primi anni di vita adulta, quando vi sono molte aspettative sul futuro. I giovani si trovano così a dover colmare virtualmente il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative di genitori, insegnanti e coetanei: aspettative talvolta reali, ma più spesso presunte, di cui essi stessi si fanno carico a causa della visione distorta della realtà trasmessa dai media e dai social network. Quando questo gap diventa troppo grande si sperimentano sensazioni di impotenza, fallimento e perdita di significato. Tali sensazioni possono portare poi a un atteggiamento di rifiuto verso quelle che sono le fonti di tali aspettative sociali e, siccome queste fonti sono rappresentate, come detto, dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei o più in generale dalla società, il ragazzo tenderà istintivamente ad allontanarsene. Da qui origina il rifiuto di parlare con i parenti, di andare a scuola, di mantenere relazioni d’amicizia e di intraprendere un qualsiasi tipo di carriera sociale, sviluppando sentimenti di avversione nei confronti di quelle che sono giudicate come le sorgenti del proprio malessere. La mia personale definizione di Hikikomori conclude sottolineando come le pressioni di realizzazione sociali siano “[...] tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate”. Una precisazione fondamentale che esprime la connotazione fortemente sociale e culturale del fenomeno. L’Hikikomori sembra infatti essere diffuso soprattutto nei paesi più ricchi e socialmente evoluti, per almeno tre motivi. Il primo è di natura pratica: il ragazzo isolato necessita di una famiglia alle spalle che sia in grado di mantenerlo nonostante la sua inattività. Ciò non è evidentemente possibile in un paese dove il proprio sostentamento dipende, in parte o completamente, dalla propria attivazione lavorativa. 13

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Il secondo motivo è di natura sociale e riguarda la competitività. Il capitalismo si basa sulla domanda e sull’offerta e, di conseguenza, sulla necessità di accaparrarsi i beni disponibili attraverso una migliore performance. Questo tipo di meccanismo può portare solo in una direzione, ovvero a un progressivo innalzamento dell’asticella e quindi delle competenze richieste per far parte del sistema. Tutto ciò si traduce in una competizione scolastica, lavorativa e sociale sempre più feroce dove a farne le spese sono coloro che non riescono a trovare la forza o la motivazione per tenere il passo, venendo di conseguenza lasciati dietro. Il terzo e ultimo motivo per il quale l’Hikikomori si sta diffondendo soprattutto nei paesi più ricchi è legato al soddisfacimento dei bisogni primari e alla cosiddetta “Piramide di Maslow”, secondo la quale i bisogni degli esseri umani hanno un preciso ordine gerarchico: alla base ci sono quelli fisiologici e legati alla sopravvivenza, poi a scalare, verso la cima della piramide, i bisogni diventano sempre più astratti, psicologici ed esistenziali, fino ad arrivare ai bisogni di successo personale e di autorealizzazione. Man mano che i nostri bisogni di ordine inferiore vengono soddisfatti, l’attenzione si sposta gradualmente sui piani superiori. Il punto è proprio questo: oggi viviamo nella società del benessere e, come mai nella storia dell’uomo, sappiamo che i nostri bisogni primari ci sono garantiti. Ciò comporta che tutto il peso delle nostre esigenze finisce per spostarsi e concentrarsi verso la cima della piramide, ovvero sulla necessità di realizzazione personale. Questo aspetto, difatti, è divenuto talmente centrale nelle nostre vite da essere in grado talvolta di ribaltare la piramide e trasformarsi nell’unico bisogno di cui sentiamo necessità: più importante del cibo, della morale, dell’amicizia e del rispetto. A volte anche della stessa vita.

L’Hikikomori è una malattia? Abbiamo detto che l’Hikikomori non dovrebbe essere confuso con patologie come la schizofrenia o la depressione, eppure non è ancora chiaro

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Cos’è l’Hikikomori?

se tale problematica, di per sé, debba essere considerata una malattia o meno. Nell’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, l’Hikikomori è stato classificato ufficialmente come “Sindrome culturale”, ovvero una problematica che origina esclusivamente dalle dinamiche del contesto nipponico. Anche se, come detto nel paragrafo introduttivo, tale etichetta risulta obsoleta e verrà presumibilmente rivista nel prossimo futuro, attualmente non esiste ancora una classificazione ufficiale dell’Hikikomori inteso come fenomeno mondiale. Ciò crea grande confusione, tanto che ogni paese finisce per utilizzare una categoria diagnostica differente. Kato e colleghi (2011) ne hanno individuate almeno dieci, dal Disturbo della Condotta fino alla Distimia, solo per citarne alcune. Il problema principale è che, eccetto il Giappone, dove presumibilmente l’esperienza ha portato a una maggiore comprensione del fenomeno, nella maggior parte delle nazioni si ricorre spesso all’ospedalizzazione (Kato et al., 2011). Analizzando la questione da una prospettiva sociale e spostando il focus dal malfunzionamento dell’individuo a quello del contesto nel quale vive, in molte delle storie di Hikikomori emerge con forza la centralità del ruolo ricoperto dall’ambiente. Quella forse più emblematica è stata riportata da Michael Zielenziger, ricercatore dell’Università di Berkeley, nel suo libro Non voglio più vivere alla luce del sole del 2006. Egli racconta il caso di Shigei, un Hikikomori giapponese che dopo tredici anni di isolamento trova la forza per cimentarsi in un viaggio all’estero, dove recupera spontaneamente gran parte delle proprie competenze sociali e sperimenta una remissione quasi completa della propria pulsione all’isolamento sociale. Ecco le sue parole: “Quando vado all’estero, se commetto un errore o faccio qualcosa che è leggermente differente dagli usi locali, mi accettano in quanto viaggiatore. Sono uno straniero.”

Mi ha colpito particolarmente la scelta del termine “straniero”, oggi spesso utilizzato e vissuto come un’etichetta negativa. Per Shigei, invece, 15

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essere uno straniero significa essere qualcuno a cui è concesso di sbagliare, qualcuno che nonostante l’errore viene accettato dagli altri. Si tratta di un concetto fortissimo, in grado di esprimere tutta la paura che gli Hikikomori hanno nei confronti del giudizio altrui e, in particolare, del giudizio di chi è per loro rilevante, prossimo, familiare, parte integrante dell’ambiente quotidiano, in altre parole di coloro per cui non sono degli estranei (parola la cui derivazione latina è la medesima di “straniero”), ma persone con un volto, una storia e un futuro sul quale sono riposte inevitabilmente delle aspettative. La storia di Shigei trova riscontro in molte delle testimonianze che ho raccolto in questi anni, dove è emerso in modo lampante come un cambio di ambiente, anche non eccessivamente prolungato, sia in grado di stimolare nei soggetti Hikikomori variazioni significative del proprio umore e del proprio comportamento. Un impatto di questo tipo difficilmente avverrebbe se alla base ci fosse un disturbo psicotico, come ad esempio la schizofrenia. Alcuni si riferiscono all’Hikikomori scegliendo la parola “sindrome”, altri ancora con l’espressione “psicopatologia sociale”, dicitura utilizzata sempre più spesso nella psichiatria statunitense, terminologie dalla connotazione fortemente medica che, a mio parere, non sono in grado di racchiudere a pieno la natura del problema. Secondo Tamaki Saitō (1998), l’Hikikomori non è né un disturbo mentale, né un disturbo di personalità, bensì il riflesso di una condizione di ritiro indipendente. Personalmente ritengo che la definizione più corretta sia quella di “disagio sociale”, in quanto indica chiaramente una difficoltà di adattamento del soggetto con l’ambiente circostante, senza esprimerne il livello di gravità e senza presupporre che ci sia necessariamente una psicopatologia sottostante. Attenzione però, anche ammesso che l’Hikikomori non sia di per sé una malattia, è evidente che possa provocare, favorire o legarsi a varie patologie (Kondo et al., 2013; Kato et al., 2016; Koyama et al., 2008). Questo significa che potranno esserci degli Hikikomori senza patologie associate, ma anche Hikikomori con patologie associate. Questi ultimi vengono talvolta definiti con l’espressione “Hikikomori secondari”, pro16

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prio per distinguerli da chi presenta l’isolamento sociale come sintomatologia primaria (Stip et al., 2016). Altro discorso è capire anche se l’eventuale patologia riscontrata sia sorta precedentemente o successivamente al ritiro, se abbia contribuito a provocarlo o se si tratti di una diretta conseguenza. Insomma, la questione è complessa e non esiste ad oggi una risposta univoca alla domanda che ci siamo posti all’inizio del capitolo. Molto dipende anche dalla prospettiva dalla quale si osserva il fenomeno. Ciò che è certo è che ci troviamo di fronte a un problema articolato che richiede necessariamente un approccio multidisciplinare. In termini pratici, stabilire se l’Hikikomori sia classificabile come una patologia o meno assume un’importanza relativa. La questione prioritaria, a mio avviso, rimane quella di comprendere da cosa origina questa crescente negatività e sfiducia delle nuove generazioni nei confronti delle relazioni interpersonali, la quale si traduce poi in un sentimento di rifiuto nell’accettarsi come parte integrante della società.

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2 Profilo e incidenza L’identikit dell’Hikikomori tipo Premesso che l’Hikikomori può riguardare potenzialmente tutti, senza limiti di sesso, età o estrazione sociale, è comunque possibile identificare, tra i casi riconducibili a tale fenomeno, delle variabili che ricorrono più frequentemente di altre. In questo capitolo cercheremo di capire quali sono e perché rappresentano possibili dei fattori di rischio. Partiamo dal genere. Nel primo sondaggio del 2010 effettuato dal governo giapponese, gli Hikikomori risultavano essere per il 66,1% di sesso maschile, percentuale poi calata al 63,3% nel successivo studio del 2015 (Tajan, 2017). Per quanto concerne l’Italia, non esistono ancora dati governativi nazionali a riguardo, eppure, basandoci sui risultati emersi nello studio (che presenterò nell’ultimo capitolo) effettuato sui genitori dell’associazione Hikikomori Italia, anche nel nostro paese la netta prevalenza di reclusi sociali di sesso maschile sembra essere confermata. Questa rilevante differenza di genere può essere spiegata con almeno due ipotesi. La prima si focalizza sul diverso grado di pressione sociale sperimentato dai sessi all’interno del contesto socio-culturale nel quale vivono. Secondo tale ipotesi i maschi percepirebbero su di loro, da parte della famiglia, degli insegnanti, dei coetanei o della società in generale, aspettative maggiori rispetto a quelle vissute dalle ragazze. La differenza sarebbe causata dai cosiddetti ruoli di genere, che consistono in una serie di norme comportamentali, credenze e aspettative attribuiti a maschi e femmine in un determinato contesto sociale.

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Sia in Italia che in Giappone, la realizzazione scolastica e professionale dell’uomo preserva una maggiore importanza a livello sociale, mentre per la donna le pressioni sono ancora legate in particolar modo all’aspetto materno. Seppure tali differenze siano sensibilmente diminuite negli ultimi anni, il gap non è stato ancora definitivamente colmato e continua ad avere un’influenza sui ruoli di genere e sulle dinamiche che da essi derivano. La seconda ipotesi, strettamente connessa con la prima, sostiene che  il numero di Hikikomori di sesso femminile sia gravemente sottostimato in quanto, culturalmente, una donna che passa molto tempo in casa è vista con minore apprensione da parte della famiglia, e della società in generale, rispetto a un maschio nella medesima condizione. Tale approccio emerge anche dal sondaggio governativo del 2015, nel quale coloro che sono risultate essere isolate nella propria abitazione, ma affermavano di svolgere lavori domestici o di prendersi cura dei figli, sono state escluse dalla stima dei soggetti ritirati (Tajan, 2017). La famosa scrittrice giapponese Kyoko Hayashi, che da tempo si batte per far emergere i casi di Hikikomori donne in Giappone, dando vita anche a un gruppo di sostegno a loro dedicato, durante un’intervista pubblicata dal Japan Times il 19 ottobre 2016 affermò: “Ci sono molte donne in difficoltà, ma dal momento che vengono identificate come casalinghe, non ci si rende conto che sono socialmente ritirate e hanno bisogno di aiuto.”

Se fosse davvero così, significherebbe che l’enorme differenza di genere emersa finora nei sondaggi sull’Hikikomori sia falsa o, quantomeno, fortemente amplificata dalla difficoltà nell’individuare i casi di donne in isolamento sociale. Probabilmente sono vere entrambe le ipotesi qui formulate e resta da stimare quale delle due abbia un maggiore impatto sui numeri del fenomeno. Rimane però il dubbio se determinate categorie sociali, quali per esempio le casalinghe, possano effettivamente essere ricondotte all’Hikikomori, soprattutto alla luce dell’interpretazione del fenomeno fornita nel presente testo, per cui gli aspetti motivazionali che portano al riti20

Profilo e incidenza

ro svolgono un ruolo centrale e rappresentano la vera discriminante. In Giappone, infatti, esiste un problema di solitudine a 360 gradi che non riguarda solo coloro che decidono di allontanarsi dalla società per ragioni legate alla paura dell’insuccesso sociale. È stato anche coniato un termine, kodokushi, per riferirsi al fenomeno sempre più frequente delle “morti solitarie” che riguarda soprattutto le persone non sposate e le coppie senza figli. Secondo le statistiche dell’Ufficio di Previdenza Sociale, nel 2008 le morti solitarie in Giappone sono state più di 2.200. Spesso i corpi vengono trovati dalle compagnie di trasloco dopo che sono trascorsi mesi dal decesso. La questione rimane dunque aperta. Ciò che possiamo affermare con ragionevole certezza è che, non avendo l’Hikikomori una base organica, le differenze di genere sono destinate a ridursi in futuro parallelamente al miglioramento della posizione sociale della donna nella nostra società. Un altro fattore indicato da Tamaki Saitō (1998) come potenzialmente in grado di favorire l’Hikikomori, consiste nell’essere figli primogeniti, dal momento che su di loro vengono generalmente proiettate maggiori aspettative da parte dei genitori e, di conseguenza, maggiori pressioni. A partire da questo dato, è possibile supporre che anche i figli unici si trovino in una maggiore condizione di rischio per il medesimo motivo espresso riguardo i primogeniti, con l’ulteriore aggravante che, non avendo fratelli e sorelle, possono disporre fin da piccoli di una camera da letto tutta per sé, la quale può potenzialmente favorire i loro momenti di solitudine all’interno dell’abitazione. Inoltre, l’avere un solo figlio potrebbe aumentare anche il rischio che la madre, in particolare, assuma nei suoi confronti un atteggiamento iperprotettivo e indulgente, aspetto che, come vedremo nel capitolo relativo alle cause, sembra essere legato allo sviluppo dell’isolamento sociale. A sostegno di una possibile correlazione tra figli unici e Hikikomori c’è il fatto che l’esplosione del fenomeno sia coinciso, in Italia come in Giappone, con un drastico crollo delle nascite e con un vertiginoso aumento delle famiglie a composte da tre membri. In particolare nel Paese del Sol Levante l’allarme sociale dovuto al calo della natalità è talmente 21

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alto che, secondo una stima fatta dal quotidiano Asahi Shimbun, la popolazione giapponese nel 2050 passerà dagli attuali 127,5 milioni di abitanti a 97,08 milioni, con degli impatti sociali enormi. Basti pensare che nella tradizione nipponica la famiglia era composta da diverse generazioni che vivevano sotto lo stesso tetto, mentre negli ultimi anni la tendenza è quella di vivere in solitudine all’interno di piccoli appartamenti. Anche in Italia esiste un allarme natalità. Secondo i dati ISTAT, tra il 2008 e il 2017 le nascite sono calate di 120 mila unità e il numero di figli unici è tra i più alti d’Europa. Tali aspettative sono, se possibile, ancor più alte quando si proviene da una famiglia con un elevato livello di scolarizzazione. I successi ottenuti dai genitori, infatti, possono rappresentare per il figlio un elemento di paragone troppo sfidante. Anche i i sondaggi effettuati dal governo Giapponese hanno evidenziato una prevalenza di Hikikomori tra famiglie benestanti e con genitori altamente scolarizzati (Tajan, 2017). Correlazione confermata poi da ricerche successive (Umeda & Kawakami, 2012). Le maggiori aspettative sociali si concretizzano spesso anche in maggiori investimenti economici sul percorso scolastico del figlio. Le scuole private costano molto in Giappone e spesso le famiglie arrivano a fare enormi sacrifici pur di permettersele, contribuendo però ad aumentare ulteriormente il carico di responsabilità sulle sue spalle del ragazzo, la cui paura di non rivelarsi all’altezza delle aspettative genitoriali può talvolta trasformarsi in una pressione difficile da sostenere. Per quanto riguarda l’età, sembrano essere due, in particolare, i periodi della vita nei quali è maggiore il rischio di sprofondare nell’isolamento. Il primo è rappresentato dalla fascia che va dai 15 ai 19 anni: secondo i dati del governo giapponese ben il 30,6% degli Hikikomori inizierebbe il ritiro in questo intervallo di tempo (Tajan, 2017). Anche la ricerca crossculturale realizzata da Kato e colleghi nel 2011 ha confermato come, nella maggior parte dei paesi da loro presi in considerazione, i casi di isolamento sociale riguardino soprattutto gli adolescenti rispetto agli adulti. Particolarmente critico, sulla base della mia esperienza, sembra essere il passaggio dalle scuole medie a quelle superiori, momento nel quale si 22

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è costretti a vivere un cambio drastico d’ambiente, perlopiù durante una fase evolutiva delicata come l’adolescenza, caratterizzata da una forte instabilità, sia a livello emotivo che decisionale. A ciò bisogna aggiungere un contesto, quello delle scuole superiori, decisamente più adulto rispetto ai gradi precedenti. Il confronto con i pari diventa quindi più complesso e potenzialmente frustrante per chi non ha sufficienti competenze relazionali e fatica a instaurare dei rapporti interpersonali soddisfacenti. Inizia, inoltre, a diventare più impellente, sia da un punto di vista fisico che da un punto di vista sociale, la necessità di rapportarsi efficacemente con l’altro sesso, compito con un coefficiente di difficoltà ancor più alto. Anche la relazione con gli insegnanti si complica, dal momento che il loro ruolo cambia rispetto a quello svolto nelle scuole di ordine inferiore, con una diminuzione del compito educativo e un aumento di quello formativo. Il secondo periodo della vita a maggiore rischio Hikikomori è invece rappresentato dal post diploma. Si tratta di un altro passaggio delicato e fondamentale della nostra esistenza, nel quale siamo chiamati a progettare il futuro. Che si tratti di andare all’università o inserirsi nel mondo del lavoro, dobbiamo ora ricercare una personale motivazione all’agire. Secondo il più recente sondaggio effettuato dal governo giapponese, il 42,9% degli Hikikomori avrebbe iniziato il ritiro proprio nella fascia di età tra i 20 e i 29 anni (Tajan, 2017). La spiegazione va ricercata anche nel sistema universitario nipponico, caratterizzato da una corsa forsennata per essere ammessi negli atenei più prestigiosi, gli unici in grado di assicurare un’ottima posizione lavorativa. Ciò comporta la necessità di esami di ammissione sempre più rigidi e selettivi, per i quali si arriva a studiare anche dodici ore al giorno (Ricci, 2008). Quando uno studente tenta e fallisce un test d’ingresso universitario viene definito un “ronin”, letteralmente “uomo alla deriva”, parola anticamente utilizzata per etichettare i samurai rimasti senza padrone, mentre oggi usata in gergo per identificare colui che studia per un anno intero in solitario prima di ritentare nuovamente il test. Per chi ha pregresse tendenze all’isolamento sociale, questo periodo rappresenta un forte incentivo a ritirarsi. 23

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In Italia la sfida di ammissione universitaria è decisamente più soft rispetto a quella giapponese, dal momento che non esiste una precisa gerarchia tra i vari atenei e la tendenza più diffusa è quella di frequentare corsi di studio prossimi alla propria città di origine. Come vedremo anche nel sondaggio presentato nell’ultimo capitolo, da noi il momento più critico per l’insorgenza dell’Hikikomori non sembra coincidere con il post diploma, ma si concentra in particolare nei primi anni delle scuole superiori, per i motivi esplicitati precedentemente. Un discorso diverso può essere fatto per quanto riguarda l’ingresso nel mondo del lavoro, sicuramente più proibitivo in Italia rispetto al Giappone. Quest’ultimo, nella prima parte del 2018, ha fatto registrare un tasso di disoccupazione giovanile pari al 3,8%, mentre quello italiano, nel giugno dello stesso anno, raggiungeva il 32,6%, più del doppio della media europea (dato Eurostat). Si tratta di un aspetto che tuttavia sembra essere maggiormente responsabile di un altro fenomeno sociale in fortissima crescita, parallelo a quello degli Hikikomori, ma differente: sto parlando dei NEET, acronimo di not (engaged) in education, employment or training, ovvero persone che non studiano, non lavorano e che non sono interessate a farlo, poiché prive di speranza dopo diversi tentativi falliti, oppure perché non abbastanza motivate. La sostanziale differenza che esiste tra Hikikomori e NEET è che questi ultimi mantengono una vita relazionale del tutto normale: la loro inattività scolastica e lavorativa non si traduce necessariamente in una inattività sociale. Per semplificare, potremmo dunque affermare che tutti gli Hikikomori sono sempre anche NEET, ma non tutti i NEET sono sempre degli Hikikomori. Tale affermazione è valida solo se intendiamo l’Hikikomori nella concezione giapponese, ovvero come persona effettivamente isolata, e non con l’interpretazione più flessibile e dinamica sostenuta in questo testo, che include nel fenomeno anche coloro che studiano, lavorano e hanno una vita sociale, ma lottano quotidianamente contro la pulsione a isolarsi. Esiste poi un altro fattore che potrebbe contribuire a far slittare l’isolamento al periodo post diploma. Le scuole superiori vengono infatti vissute spesso come un obbligo e, per chi ha un forte senso del dovere, 24

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abbandonarle significherebbe un dolore ancor più grande rispetto a quello sperimentato nella quotidiana sfida al proprio disagio sociale. Con il diploma per alcuni finisce l’incubo e riescono a trovare nell’ambiente universitario o lavorativo gli stimoli giusti per costruire una carriera sociale finalmente soddisfacente. Per altri, invece, la confusione sulla strada da intraprendere o l’assenza di una forte motivazione intrinseca nel crearsi un proprio percorso di vita, si trasformano in una palude di paura e apatia che può, a sua volta, favorire lo sviluppo dei meccanismi psicologici tipici dell’Hikikomori oppure, più facilmente, portare all’aggravarsi di una pulsione all’isolamento sociale preesistente. A prescindere dal momento in cui sorge il ritiro, quello che sembra essere certo è che stiamo parlando di un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, con la fascia di età maggiormente rappresentata che va dai 15 ai 29 anni (Tajan, 2017). Eppure, non dobbiamo commettere l’errore di interpretare l’Hikikomori quale fosse una fase transitoria dell’esistenza, dal momento che, se non viene adeguatamente affrontata e supportata, può facilmente cronicizzarsi e durare potenzialmente tutta la vita. Nel sondaggio nipponico del 2010 gli Hikikomori isolati da più di 7 anni erano il 16,7% del campione, mentre in quello del 2016 sono cresciuti fino al 34,7% (Tajan, 2017). La cosa più preoccupante è che questo dato non tiene nemmeno conto dei reclusi over 40, che in Giappone sono numerosissimi. Si tratta di coloro che hanno iniziato l’isolamento durante gli anni dell’adolescenza e lo hanno perpetrato per decenni, senza mai riuscire a trovare una via di uscita. Appartengono a quella che viene definita “la prima generazione di Hikikomori”, a lungo ignorata e non compresa dal governo nipponico. È stato lo stesso Tamaki Saitō, nel corso di una corrispondenza privata del 2018, a riferirci i dati sull’età media degli Hikikomori giapponesi che si aggirerebbe intorno ai 37 anni e con un periodo di reclusione pari a 155 mesi. La questione degli Hikikomori adulti è così seria e pressante in Giappone che i media lo hanno ribattezzato come “il problema 80-50”, dove la prima cifra sta a indicare l’età raggiunta dai genitori, mentre la seconda quella dei figli isolati. In molti casi è il sistema di welfare giapponese a do25

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versene fare carico, garantendo a coloro che non sono più in grado di mantenersi grazie ai familiari, deceduti o privi di risorse, una pensione minima di invalidità. Nonostante ciò, il problema rimane, poiché la mancata indipendenza degli Hikikomori adulti non riguarda solo l’aspetto economico, quanto piuttosto l’incapacità sostanziale nel prendersi cura di se stessi. In Italia il fenomeno sembra essere più giovane, ma è facile ipotizzare che nei prossimi anni l’età media delle persone in isolamento sociale volontario aumenterà anche qui. Possiamo fare però tesoro dell’esperienza giapponese ed evitare di commettere i loro stessi errori, lavorando maggiormente sulla prevenzione e impedendo che la pulsione all’isolamento sociale degli Hikikomori, qualora fosse ancora a uno stadio iniziale, degeneri fino a divenire difficilmente reversibile. Da un punto di vista cognitivo, gli Hikikomori sono spesso soggetti dotati. La loro spiccata natura critica, riflessiva e introspettiva si trasforma, però, in un’arma a doppio taglio che li rende particolarmente impacciati e ansiosi nelle relazioni interpersonali. Non di rado è presente in loro una  componente narcisistica, nutrita dalle aspettative sociali e ferita da  una realtà che si manifesta fortemente diversa da quella idealizzata. Tendono a rimuginare a lungo sui potenziali esisti negativi delle proprie azioni, soprattutto in ambito relazionale, e nutrono una paura eccessiva e irrazionale nei confronti del pensiero altrui. L’emozione chiave è rappresentata dalla vergogna che si traduce poi, in forma preventiva, nella paura di essere giudicati. Le difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti con gli altri, la maturità intellettiva che alimenta una sensazione di diversità e incompatibilità con i coetanei, unita a un forte spirito critico, contribuiscono a generare  sfiducia, negatività e disinteresse nei confronti della socialità. Come detto in precedenza, tale negatività viene poi generalizzata dal contesto micro (scuola, famiglia, gruppo di coetanei, ecc.) al contesto macro, ovvero a tutte le relazioni sociali e alla società nel suo complesso, trasformandosi, talvolta, anche in cinismo e disprezzo. Nel quarto capitolo relativo alle cause, andremo a scavare più a fondo in tutte le questioni fin qui solamente accennate. Ci tengo a precisare, 26

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tuttavia, che le caratteristiche sopra descritte non devono essere intese in modo rigido ed esclusivo, come fisse e sempre presenti. Esistono infatti molti casi di Hikikomori che rientrano solo in alcune di queste casistiche, talvolta nessuna. Nonostante ciò, si tratta di fattori che ho riscontrato essere particolarmente frequenti nelle centinaia di storie ascoltate durante i miei studi sul fenomeno, e che trovano conferma anche nei dati emersi dal sondaggio presentato nell’ultimo capitolo del libro.

I numeri del fenomeno Secondo il sondaggio più recente pubblicato nel 2016 dal Governo giapponese, nel Paese del Sol Levante gli Hikikomori tra i 15 e i 39 sarebbero circa 541.000, di cui il 35% isolato da almeno 7 anni. La rilevazione è stata condotta su un campione di 5.000 famiglie con almeno un membro nella fascia d’età presa in considerazione.  Nel precedente sondaggio governativo risalente al 2010, le stime erano sensibilmente superiori, intorno ai 696.000 casi (Tajan, 2017). Si potrebbe quindi concludere che il fenomeno sia in netto calo, eppure ci sono alcuni fattori che dovrebbero indurci a tenere una linea più cauta. Innanzitutto perché  il sondaggio non tiene conto degli Hikikomori con più di 40 anni, come detto in grande crescita negli ultimi anni in Giappone. Secondariamente perché il Ministero della Salute giapponese ha ancora una concezione molto rigida dell’Hikikomori e considera tale solamente chi non esce dalla propria abitazione per almeno sei mesi, non studia e non lavora. Questo comporta l’esclusione di tutti coloro che tendono fortemente all’isolamento sociale, ma che ancora mantengono delle relazioni dirette con il mondo esterno. Come detto, il governo giapponese ha tutto l’interesse nell’abbattere i numeri del fenomeno e dare l’impressione di avere la situazione sotto controllo. La sensazione, tuttavia, è che ci sia ancora molta strada da fare prima di trovare una soluzione convincente al problema. L’ipotesi che

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gli Hikikomori in Giappone siano molto più di quelli “ufficiali” emerge anche dallo stesso sondaggio del 2016. I ricercatori, infatti, distinguono tra tre gruppi: gli Hikikomori “in senso stretto”, ovvero coloro che dalle informazioni fornite risultano completamente isolati da più di sei mesi, gli Hikikomori “in senso ampio”, che include chi esce esclusivamente per i propri hobby, e gli “affini”, cioè chi non rientra nei suddetti criteri, ma manifesta una chiara vicinanza al fenomeno. In quest’ultimo gruppo è stato inserito chi forniva risposte del tipo: “Comprendo i sentimenti di chi si isola in casa o nella sua stanza”, “Ho già pensato di chiudermi nella mia camera”, “Se capitasse un evento spiacevole non uscirei” o ancora “Se ci fosse un motivo, penso sarebbe normale chiudermi in casa o nella mia stanza”. I primi due gruppi, insieme, portavano alla stima di 541.000 Hikikomori citata precedentemente, mentre gli affini sarebbero oltre il triplo, pari a 1.656 milioni di persone in tutto il paese (Tajan, 2017). Inoltre, nel considerare i dati emersi dal sondaggio, bisogna tenere presente altri fattori che potrebbero aver influenzato i numeri a ribasso, per esempio la poca disponibilità a collaborare che solitamente manifesta chi soffre di isolamento sociale, oppure la condizione di forte stress nel quale si trovano questi soggetti, che potrebbe averli indotti più facilmente a commettere errori nella compilazione. Questo spiegherebbe, almeno in parte, perché ben il 38% dei questionari raccolti sia stato considerato non valido. Infine, ci potrebbe essere un ulteriore fattore che contribuirebbe a ridurre l’entità del fenomeno, non tanto a livello quantitativo, quanto da un punto di vista della percezione sociale. In Giappone, infatti, l’avere un figlio Hikikomori è una condizione che viene vissuta con grande vergogna dalla famiglia e non lo si divulga volentieri. Questo aspetto si lega a un’altra faccia del problema, che va al di là dei numeri, e che riguarda lo stigma sociale che tutt’oggi esiste intorno all’Hikikomori, così come per la maggior parte delle problematiche di natura psicologica. Per questo motivo parlarne apertamente e sensibilizzare sul tema rappresenta una delle armi più potenti che abbiamo a disposizione per aiutare coloro che ne soffrono, sia direttamente che indirettamente, come nel caso dei genitori e dei parenti. 28

Profilo e incidenza

In conclusione, fare oggi un calcolo accurato di quanti siano effettivamente gli Hikikomori è molto complesso, proprio per la natura sfuggente del fenomeno. Negli ultimi anni in Giappone sono state fatte numerose stime non ufficiali che variano da poche centinaia di migliaia a più di un milione; range davvero troppo ampio per sperare di trovare un punto di incontro realistico. In Italia la situazione è ancora più caotica, tanto che, prima di ipotizzare un censimento, bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa sia l’Hikikomori e su cosa, invece, non lo sia. Stiamo parlando di un fenomeno nuovo che, come abbiamo visto in precedenza, si presta facilmente a essere confuso con altre problematiche, anche dagli stessi addetti ai lavori. L’ipotesi dell’associazione nazionale Hikikomori Italia, è che nel nostro paese il fenomeno abbia già raggiunto le centinaia di migliaia di casi. Si tratta tuttavia, è corretto precisarlo, di un ordine di grandezza stimato a partire dal numero di richieste pervenute all’associazione, e non rappresenta il frutto di uno studio statistico accurato. Quello che sembra ormai essere certo, osservando l’evoluzione del fenomeno giapponese, è che se non si fa nulla per prevenirlo i numeri continueranno ad aumentare nei prossimi anni, poiché, come affermato da Tamaki Saitō: “[…] Praticamente non si registrano [tra gli Hikikomori] casi di ritorno spontaneo alla normalità. […] Dunque le persone colpite restano tali e via via la schiera si infoltisce” (Pierdominici, 2008).

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3 Evoluzione e classificazione Le tre fasi dell’Hikikomori Se interpretiamo l’Hikikomori come una pulsione all’isolamento, e non come una condizione statica, è possibile esprimerne la dinamicità attraverso l’individuazione di diversi gradi di intensità e forma, i quali possono mutare nel tempo parallelamente al continuo e costante cambiamento nell’interpretazione dell’esistenza e dell’ambiente circostante. Basandomi sulle mie osservazioni, ho ipotizzato un primo stadio nel quale il soggetto comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente.  Prova malessere quando si relaziona con altre persone e trova sollievo nella solitudine, faticando tuttavia nell’identificare un nesso causa-effetto tra la propria condizione e le sensazioni sperimentate. In questa fase l’Hikikomori prova a contrastare la pulsione all’isolamento, continuando a mantenere alcune attività sociali che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, nonostante il malessere provocatogli da queste ultime lo portino già a preferire le relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di qualsiasi genere, in particolare riportando malesseri di natura fisica; il progressivo abbandono di tutte le attività extrascolastiche o extralavorative che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno e che non sono percepite come degli obblighi, per esempio le attività sportive; una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la netta preferenza per attività solitarie, soprattutto legate alle nuove tecnologie, come ad esempio i videogame o il consumo di serie TV sui portali di streaming.

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Nel secondo stadio l’Hikikomori comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento, ricollegandola direttamente alle situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare tutte le proposte di uscita degli amici, si abbandona definitivamente la scuola, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e  si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi nella propria abitazione. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Il rapporto diretto con genitori e parenti viene mantenuto, seppur in modo conflittuale e intermittente. In questa fase si può notare anche un aumento dei comportamenti aggressivi, talvolta fisici, ma più spesso manifestati sotto forma verbale, dovuti alla frustrazione e alla sensazione di aver perso il pieno controllo sulla propria condizione. Nel terzo e ultimo stadio il soggetto  finisce per cedere completamente alla pulsione di isolamento e si allontana progressivamente anche dalla famiglia e dalle relazioni sviluppate in rete. Queste ultime diventano per lui o per lei fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. L’Hikikomori sprofonda così in un isolamento pressoché totale, esponendosi a un grande rischio di sviluppare psicopatologie, soprattutto di natura depressiva, ossessiva e paranoide. Si intensificano ulteriormente anche gli istinti autolesionistici e i pensieri suicidi, questi ultimi particolarmente presenti negli Hikikomori già a partire dal secondo stadio. Attenzione però, qui è necessaria una doverosa precisazione poiché, nonostante quello che si potrebbe immaginare, secondo i dati giapponesi, la percentuale di soggetti isolati che arriva a togliersi la vita risulta inferiore rispetto a quella della media nazionale (Saitō, 1998). Secondo quanto riportato da Carla Ricci (2008), gli Hikikomori pensano spesso al suicidio e molti di loro, circa il 46%, arriva anche a progettarlo, ma solo idealmente e senza quasi mai portarlo a compimento. Potrebbe allora trattarsi solamente di un meccanismo difensivo verso l’ansia del futuro, il quale appare incerto e gravemente compromesso a causa della propria condizione di isolato. “Posso uccidermi in qualsiasi momento”, sembra essere questo il pensiero ricorrente che arriva in 32

Evoluzione e classificazione

soccorso agli Hikikomori ogniqualvolta il proprio status viene percepito come una condanna a vita. Più in generale, l’isolamento stesso potrebbe rappresentare un fattore protettivo nei confronti degli istinti suicidi, offrendo al soggetto la possibilità di ridurre il proprio malessere e sottrarsi dalla competizione sociale, senza arrivare togliersi la vita. Il fatto che il fenomeno degli Hikikomori abbia cominciato a diffondersi in Giappone proprio durante gli anni di picco dei suicidi giovanili, di cui abbiamo parlato nel paragrafo introduttivo, sembra rafforzare tale ipotesi. Nel terzo stadio anche la percezione del tempo e della realtà si altera fortemente, con il rischio che la frustrazione accumulata si trasformi in aggressività e venga diretta, non solo verso se stessi, ma anche verso altre persone, in particolare genitori e parenti. In Giappone sono infatti diversi i casi di cronaca che parlano di Hikikomori omicidi o protagonisti di episodi particolarmente violenti (Aguglia et al., 2010; Okamura, 2016). Tuttavia, dalle poche informazioni riportate dai media, è spesso difficile stabilire con certezza se si tratti effettivamente di Hikikomori, con probabilmente psicosi associate, oppure più in generale di soggetti che nulla hanno in comune con questo fenomeno, se non il fatto di trovarsi in una condizione di scarsa opportunità sociale. Una volta che il soggetto raggiunge il terzo stadio, riuscire a farlo regredire diventa molto complesso e spesso richiede un intervento lungo, intenso e articolato, che potrebbe durare potenzialmente anche anni. Per questo motivo è fondamentale intervenire già negli stadi iniziali, ovvero quando si manifestano i primi campanelli d’allarme. Gli stessi genitori e parenti non dovrebbero aspettare che l’isolamento si concretizzi per chiedere aiuto, ma attivarsi fin dai primi segnali, cercando nel contempo di instaurare una relazione empatica con l’Hikikomori e provando a indagare a fondo quali siano le motivazioni intime che provocano i comportamenti di isolamento. In conclusione, ci tengo a sottolineare come le tre fasi proposte in questo paragrafo non siano da intendere in modo rigido e unidirezionale, ma come un continuum dinamico che può comportare un’alternanza periodica tra i vari stadi, lunghi periodi di stabilizzazione, repentine regressioni, ri33

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cadute o miglioramenti. È possibile, inoltre, individuare delle sottofasi intermedie. Il concetto importante che mi preme trasmettere è che l’Hikikomori non dovrebbe essere considerato come una condizione statica dell’individuo, ma piuttosto come un processo in continua evoluzione. Sostenere che un Hikikomori sia tale solamente dopo sei mesi di completo isolamento, come stabilito dal governo giapponese (Tajan, 2017), risulta un’interpretazione fuorviante e anacronistica, non in grado di esprimere tutta la complessità e la variabilità esistente all’interno del fenomeno.

Le quattro tipologie di Hikikomori Oltre a identificare diversi gradi di intensità dell’Hikikomori, è possibile provare a classificarlo prendendo come riferimento le diverse motivazioni che si trovano alla base del ritiro. È proprio quello che ha fatto la sociologa francese Maïa Fansten, insieme ai suoi colleghi, in una pubblicazione del 2014. Un primo tipo di ritiro è stato da loro definito come “alternativo”, ovvero un modo per evitare l’adolescenza normata e crescere diversamente. Questa tipologia di Hikikomori decide di isolarsi perché non accetta di adeguarsi alle dinamiche tipiche della società moderna. Si tratta di una ribellione silenziosa nei confronti del sistema sociale, che viene vissuto in modo particolarmente negativo e come un’entità opprimente, volta a modificare la propria identità e a limitare la libertà personale. È probabile che in questo caso l’isolamento sia preceduto e determinato da una forte depressione esistenziale, aspetto che tratterò approfonditamente nel capitolo successivo. La seconda tipologia di ritiro individuata è quella “reazionale”, definita come  una reazione sintomatica a una situazione di grandi difficoltà familiari. Gli Hikikomori che fanno parte di questa categoria vivono, o hanno vissuto, in contesti sfavorevoli che hanno contribuito ad aggravare una tendenza all’isolamento già preesistente. Spesso ricollegano la loro scelta di ritiro a un evento considerato come particolarmen-

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Evoluzione e classificazione

te traumatico, avvenuto proprio all’interno del contesto famigliare, ma aggiungo io, anche in quello scolastico. Tutto ciò contribuisce a stimolare in questi soggetti forti reazioni d’ansia, vergogna e stress, le quali vengono poi generalizzate a tutti i contesti sociali, compromettendo fortemente la loro capacità di stringere relazioni sociali soddisfacenti. Il ritiro “dimissionario” è invece un modo per fuggire dalle forti pressioni sociali e riguarda quegli Hikikomori che  non riescono a sostenere il peso derivante dalle aspettative altrui. Questa tipologia di Hikikomori decide dunque di abbandonare la competizione sociale, rifiutandosi di perseguire una qualsiasi carriera scolastica o professionale. Attraverso l’isolamento cercano di nascondersi dallo sguardo altrui e riescono ad alleviare, almeno in parte, la sofferenza derivante dal giudizio. L’ultima tipologia di ritiro è quello “a crisalide”, la quale consiste in una sospensione del tempo che esprime un’impossibilità di essere un individuo adulto autonomo. In questo caso l’Hikikomori ricerca nell’isolamento una fuga da quelle che sono le responsabilità e le incombenze dell’età adulta. Sente di non avere le competenze per affrontarle e questa convinzione provoca in lui una grande paura. L’esistenza viene approcciata con un appiattimento sul presente, mentre i pensieri sul futuro, fonte di grande ansia, vengono rifiutati attraverso il meccanismo dell’evitamento, il quale consiste sostanzialmente nell’aggirare il pensiero ansiogeno ignorandolo e senza affrontarlo apertamente. È come se l’Hikikomori volesse congelare il tempo, adottando consciamente o inconsciamente strategie mirate a tale scopo. La più comune consiste nell’invertire il ritmo sonno-veglia, preferendo dormire durante il giorno e stare svegli durante la notte. Se chiedete a un Hikikomori in questo stato che giorno della settimana sia, difficilmente saprà rispondervi. Allo stesso modo viene alterata anche la fame e i pasti vengono consumati in modo rapido e irregolare. C’è poi chi non si limita a invertire la notte con il giorno, ma interrompe qualsiasi tipo di routine, dormendo e svegliandosi sempre a orari differenti. Chi lo fa, di solito, impedisce anche alla luce del sole di penetrare dalla finestra della propria camera, in modo che sia impossibile distinguere tra il giorno e la notte. 35

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Oltre alla sospensione dello scorrere del tempo, l’inversione del ritmo circadiano permette agli Hikikomori, in generale, di ridurre il senso di colpa che provano a causa della loro inattività. Di notte il mondo è fermo, per cui passare il tempo in modo improduttivo, per esempio giocando ai videogame o guardando video su internet, viene percepito con minor colpevolezza. Anche in questo caso si tratta di un processo mentale spesso inconscio e attivato come meccanismo di difesa al fine di ridurre la sofferenza sperimentata. Così come gli stadi, anche le tipologie di Hikikomori sopraelencate non devono essere interpretate quali fossero compartimenti stagni, come se una escludesse necessariamente l’altra. È infatti altamente probabile che alla base della scelta di isolamento coesistano tutte e quattro le motivazioni descritte. È altrettanto vero, però, che le proporzioni con le quali queste ultime impatteranno su tale scelta saranno inevitabilmente differenti ed è quindi possibile che vi sia una motivazione di ritiro preponderante rispetto alle altre. In ogni caso, si tratta di una classificazione più utile da un punto di vista teorico che pratico, importante soprattutto in quanto rafforza l’idea che si tratti di un fenomeno multifattoriale ed estremamente eterogeneo. Generalizzare quando si parla di Hikikomori è sempre molto complesso e andrebbe fatto con cautela.

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4 Le cause La pressione di realizzazione sociale Sono ancora molti quelli che sostengono che l’Hikikomori sia un fenomeno esclusivamente giapponese, ovvero legato inscindibilmente agli aspetti culturali caratteristici del Paese del Sol Levante. Eppure, a livello scientifico, esistono ormai numerose ricerche che certificano l’esistenza di casi sovrapponibili per caratteristiche agli Hikikomori giapponesi anche in Spagna, Francia, Italia e Stati Uniti, nazioni con una cultura profondamente diversa da quella nipponica (Kato et al., 2011; Teo, 2013; De Michele et al., 2013; Teo et al., 2015; Malagón-Amor et al., 2015; Wong et al., 2015). Parliamo dunque di un fenomeno mondiale che sembra destinato a crescere in tutte le aree economicamente sviluppate del mondo e non rimanere relegato a un singolo paese. Detto questo, è importante sottolineare come il Giappone rimanga per distacco il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’elevata competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi. Esistono poi, all’interno della cultura giapponese, dei fattori che contribuiscono a generare  un terreno particolarmente fertile per la diffusione dell’Hikikomori. Alcuni di questi li abbiamo già citati in precedenza, come, ad esempio, il bullismo, particolarmente doloroso in una società collettivistica come quella giapponese, dove essere esclusi dal gruppo significa aver fallito socialmente, oppure il drastico calo delle nascite, che favorisce l’aumento delle famiglie con figli unici; altri fattori, invece, li vedremo più nel dettaglio successivamente, come la debolezza della figura paterna, la quale genera uno squilibrio nella relazione genitori-figli e un sovraccarico sulle spalle della madre,

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oppure l’assenza di dogmi religiosi che fungano da protezione a livello esistenziale. In Giappone vi è poi culturalmente una grande importanza attribuita al rispetto del proprio ruolo pubblico: il sekentei, parola che significa letteralmente “apparenza agli occhi altrui” e che riflette tutta una serie di aspettative sociali da non disattendere. Tale aspetto si concretizza in una netta separazione tra identità privata e identità pubblica, ossia tra Hon’ne, termine che si riferisce ai sentimenti profondi e sinceri di una persona, e  Tatamae, letteralmente “facciata”, ovvero quello che si deve mostrare agli altri. La conseguenza è una soppressione della propria individualità ogni qualvolta ci si trova a essere esposti in un contesto sociale (Doi, 1973). Le dinamiche socio-culturali potenzialmente in grado di favorire l’Hikikomori sono dunque numerose e individuarle tutte, una per una, rischia di diventare un lavoro complesso che si presta a scadere facilmente in forzature, stereotipi e generalizzazioni. Estrapolare dal suo contesto più ampio un singolo fattore, sociale, familiare o caratteriale che sia, e attribuire a esso la responsabilità di un fenomeno così eterogeneo, risulta spesso una speculazione fine a se stessa. Bisogna allora trovare un filo conduttore. Tutte le cause di cui abbiamo parlato hanno infatti un aspetto in comune: contribuiscono, in misura differente, ad aumentare l’esposizione e la vulnerabilità alla pressione di realizzazione sociale, che potremmo considerare come la causa madre dell’Hikikomori. Nonostante in Giappone abbiamo detto esistere un sistema socio-culturale che esaspera l’impatto di tali pressioni sui propri cittadini, queste ultime sono presenti e in forte crescita in tutte le società moderne, non solo nel Paese del Sol Levante. Le caratteristiche culturali rappresentano un fattore, ma non sono in grado, da sole, di giustificare l’esclusività di tale fenomeno. Seppur con intensità e modalità differenti rispetto a quelle giapponesi, infatti, anche in Italia le pressioni di realizzazione sociale sono intense e vengono alimentate da tutta una serie di fattori socio-culturali che possono favorire lo sviluppo dell’Hikikomori nel nostro paese. Alcune di queste sono le medesime citate in precedenza per il Giappone, ov38

Le cause

vero il calo delle nascite e il conseguente aumento dei figli unici, oppure l’allontanamento delle nuove generazioni dalle ideologie religiose; altre, invece, sono specifiche del nostro contesto, come ad esempio l’alto tasso di disoccupazione giovanile che alza la barriera di ingresso per i giovani nel mondo del lavoro e contribuisce a generare negatività sulle prospettive future. Poi ci sono quegli aspetti trasversali a tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo, come la diffusione capillare dei social network che sposta il livello della competizione sociale su scala mondiale e contribuisce alla propagazione di una cultura dell’immagine sempre più centrale nelle nostre vite. Le fonti di pressione sono dunque potenzialmente infinite e variano da contesto a contesto, così come da persona a persona. Alcuni soffriranno maggiormente quelle scolastiche, altri quelle lavorative, altri ancora quelle riguardanti l’accettazione dei pari. Tutto dipende dalle proprie disposizioni personali, così come dal contesto sociale, culturale e familiare di appartenenza. L’Hikikomori, attraverso il ritiro, vuole sostanzialmente fuggire da tali pressioni, divenute con il tempo insostenibili, e sottrarsi dalla competizione. Sono proprio le diverse fonti di pressione a determinare le differenti modalità di manifestazione del fenomeno a seconda del contesto socioculturale. Per fare un esempio concreto, sembra che gli Hikikomori italiani non si isolino del tutto all’interno della propria abitazione, ma conservino un rapporto, seppur conflittuale, con genitori e parenti. Gli Hikikomori giapponesi, al contrario, tendono a recludersi completamente, tagliando qualsiasi tipo di relazione diretta, anche con i famigliari. Questa differenza potrebbe essere dovuta al fatto che, per gli Hikikomori giapponesi, i genitori rappresentano, culturalmente, una fonte di pressione sociale più forte rispetto a quanto lo siano i genitori italiani per i loro figli. Il medesimo discorso ha validità sia per tutte le differenze che esistono tra una nazione e l’altra, ma non solo,  anche per quelle riscontrate tra una regione e l’altra, così come tra differenti scenari urbani. Ad esempio, è possibile ipotizzare che gli Hikikomori residenti nelle metropoli presentino caratteristiche diverse rispetto a quelli residenti in periferia o nei 39

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piccoli centri abitativi, dove le dinamiche in grado di generare pressione saranno inevitabilmente peculiari e difformi.

La paura di essere giudicati Se la pressione di realizzazione sociale può essere identificata come la causa madre dell’Hikikomori, ovvero il filo rosso che collega tutti i casi di isolamento sociale volontario, bisogna comunque precisare che essa rappresenta solamente il combustibile. Il fuoco, ossia l’emozione dominante che si trova alla base della scelta di ritiro, è la paura. La paura di fallire, la paura di essere giudicati per i propri insuccessi, per le proprie mancanze; la paura di non essere all’altezza delle aspettative altrui, ma non solo, anche delle nostre; la paura di non riuscire a sfruttare le proprie potenzialità, la paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che si ritengono essere alla portata. Gli Hikikomori sono spesso ragazzi dotati intellettualmente e fin da bambini sono abituati a ricevere attenzioni e complimenti per le proprie capacità, costruendo, in questo modo, un’identità di sé corrispondente ai feedback ricevuti. Se, per qualsiasi motivo, il gap tra quello che è il proprio sé ideale e la realtà diventa troppo ampio, la pressione a raggiungere il modello idealizzato aumenta, insieme alla paura di fallire, di deludere gli altri e, di conseguenza, se stessi.  Parte della nostra identità, infatti, si plasma in relazione a come noi ci percepiamo attraverso lo sguardo altrui, quello che il sociologo Charles Horton Cooley chiamava “l’io riflesso”. Dunque, la pressione di realizzazione alimenta la paura del fallimento sociale, la quale, a sua volta, porterà ad attivare, nei soggetti più fragili e predisposti, quel  meccanismo di difesa  primordiale che si innesca alla percezione di un pericolo: la fuga. Nel caso specifico degli  Hikikomori, il pericolo è rappresentato dal giudizio altrui, mentre la fuga si concretizza con l’auto-reclusione. La casa svolge il ruolo di

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Le cause

“tana”, un rifugio sicuro che permette di ridurre al minimo tale pericolo. Attenzione,  ridurre, non azzerare, perché, come abbiamo detto precedentemente, le fonti di giudizio sono sempre almeno due: una sono gli altri, l’altra siamo noi, e dal nostro giudizio non c’è scampo. Un’altra emozione chiave dell’Hikikomori è  la vergogna, la quale non è un’emozione primaria come la paura, bensì  un’emozione di origine sociale. Essa implica quegli aspetti di auto-valutazione di cui parlavamo in precedenza. Gli Hikikomori temono il giudizio proprio perché in grado di attivare la vergogna, la quale si genera solamente in contesti sociali, ovvero dove vi è una terza persona in grado di constatare quelle che percepiamo essere le nostre mancanze. Gli Hikikomori cercano infatti di evitare tutte quelle situazioni che possono attivare in loro un meccanismo di confronto sociale, ovvero un raffronto istintivo tra il proprio grado di successo personale e quello di una persona, o di un gruppo di persone, giudicate rilevanti.  Tale confronto, tuttavia, si può attivare sia in una situazione sociale, ma anche in una situazione privata. Pensiamo per esempio ai social network: quando guardiamo le foto dei nostri amici innescheremo inevitabilmente un confronto sociale tra la nostra condizione e la loro, e ci sentiremo talvolta in difetto poiché percepiremo un gap realizzativo. Se nessuno a parte noi, però, sarà in grado in quel momento di rilevare tale gap, non proveremo vergona, bensì piuttosto sentimenti di inadeguatezza e inferiorità, nonché un possibile calo del tono dell’umore. Paura e vergogna nell’Hikikomori sono quindi due lati della stessa medaglia. Coesistono e si fondono in un unico sentimento: la paura di essere giudicati, fattore che nella società moderna ha assunto un peso e una rilevanza mai avuta nella storia dell’umanità. Come detto, la paura è un’emozione “primaria” perché fa parte dell’uomo fin dalla preistoria ed è trasversale sia al genere umano che al genere animale. Tale emozione si innescava, originariamente, solo in quelle situazioni che potevano mettere in pericolo l’incolumità e la sopravvivenza, eppure è evidente che la paura di essere giudicati non rientra in questa categoria. Si tratta quindi di un “inganno mentale” che origina 41

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da una sovrastima irrazionale di un pericolo minimo o inesistente. Come si supera? Attraverso l’esperienza e l’apprendimento. Questa tipologia di paura, infatti, si sgonfia e si disinnesca automaticamente nel momento in cui la si affronta, ovvero nel momento in cui ci si rende conto che si tratta solamente di un nostro errore di valutazione, nient’altro che un’illusione. Per fare questo step è necessario intraprendere un percorso psicologico che porti a elaborare consciamente le paure, a ridefinirle, a razionalizzare e, infine, a padroneggiarle. In questo modo tutta la sofferenza dell’isolamento potrà trasformarsi in potenziale, energia, voglia di riscatto e in un’occasione di crescita personale. Perché davanti al pericolo, alla paura, si può reagire sempre in almeno due modi: uno è fuggire, l’altro, invece, è lottare. Anche la “paura del tempo perso” che pervade la nostra epoca, non è altro che un riflesso del timore di fallire ed essere giudicati per questo dagli altri. Fin da quando nasciamo tutti intorno a noi danno per scontato che la nostra vita avrà un certo tipo di percorso: scuola, diploma, università, lavoro, famiglia. Salvo qualche eccezione gli step previsti sono questi e ci viene anche fatto intendere che sarebbe meglio compierli nel minor tempo possibile e con il massimo impegno. Le alternative socialmente accettate sono ben poche. Finché si tiene il passo tutto bene, ma cosa succede se in questo percorso si inciampa e non si rispetta la tabella di marcia? Non è previsto un “piano B” e allora ecco che iniziano le pressioni sociali. Quando rallentiamo o usciamo dal sentiero, quando facciamo qualcosa che percepiamo non essere ciò che gli altri si aspettano da noi, proviamo disagio e ci viene istintivo correggerci: si tratta di un meccanismo fisiologico in gran parte inconscio. Il bisogno di essere accettati dal gruppo è programmato nei nostri geni, a tal punto che, come detto, parte della nostra identità si plasma in relazione a come noi ci vediamo attraverso gli occhi degli altri. Eppure questo istinto, che come tutti gli istinti abbiamo sviluppato in un’ottica di sopravvivenza, nella società moderna si trova a essere trasfigurato e sovra-sollecitato, proprio a causa di internet e dei social network che, come detto, alimentano il confronto costante tra noi e il resto delle persone. Ecco allora che il tempo diventa un nemico, perché non basta 42

Le cause

più fare le cose, ma bisogna farle in fretta, prima degli altri, meglio degli altri, altrimenti perdono di valore. Gli Hikikomori si isolano nella speranza di fuggire da queste pressioni, ma inconsapevolmente finiscono per crearsene una ancora più grande. L’immobilità dà vita a un circolo vizioso per cui più si perde tempo e più si genera ansia e paura, più si prova ansia e paura e più ci si sente bloccati e, di conseguenza, si perde tempo. Questa morsa stritola gli Hikikomori finché un giorno il gap con i coetanei apparirà loro così ampio da sembrare incolmabile. A quel punto subentrerà la resa e la rassegnazione. Capirete bene come il concetto di “tempo perso” sia assolutamente soggettivo in quanto parametrato sul singolo progetto di vita e sulla propria idealizzazione di sé. Non importa allora l’età o la durata del ritiro: ci sono ragazzi che per un voto negativo, un anno di scuola perso, oppure un percorso universitario fallito, arrivano a considerare la loro vita irrimediabilmente compromessa già prima dei venticinque anni. È talvolta sufficiente qualche mese di isolamento per aver la sensazione che qualsiasi obiettivo sia ormai irraggiungibile. La società di oggi porta a questo: a una visione distorta del tempo e dell’errore. Ricordiamoci però che la società non è un concetto astratto, ma un sistema che ognuno di noi contribuisce, nel suo piccolo, a plasmare. Soprattutto quando parliamo di micro-contesti sociali, quali possono essere un paesino, un quartiere, una classe, una scuola o una famiglia, il nostro comportamento può avere un impatto fondamentale sulle sue dinamiche interne e sui suoi componenti. Dobbiamo allora provare a ridefinire culturalmente e socialmente concetti come “tempo perso” e “fallimento”, oggi utilizzati prevalentemente con un’accezione negativa, insegnando alle nuove generazioni come non ci sia nulla di male nel fallire, nel prendersi una pausa o nel rimanere indietro. Un altro fattore che può giocare un ruolo negativo nell’Hikikomori, fortemente correlato con l’aumento della competizione sociale e con la crescente importanza attribuita alla propria immagine pubblica, è il perfezionismo, ovvero la ricerca ossessiva della perfezione. Da una recente ricerca (Curran & Hill, 2017) è emerso che,  a partire dalla fine degli 43

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

anni ’80 in poi,  questa tendenza nevrotica è aumentata enormemente nei giovani, i quali percepiscono gli altri come particolarmente esigenti nei loro confronti, molto di più rispetto alle generazioni precedenti. Si tratta di un dato allarmante, dal momento che numerosi studi scientifici hanno individuato una correlazione tra perfezionismo e disturbi d’ansia, tendenza alla ruminazione di pensieri negativi, atteggiamento eccessivamente autocritico, depressione e autolesionismo (Enns & Cox, 2005; Fry & Debats, 2009; Hewitt & Flett, 1993). È facile ipotizzare come uno dei principali fattori responsabili di tale diffusione sia ancora una volta la competizione sociale, la quale esercita pressione affinché il livello delle nostre performance sia costantemente sempre più alto, fino a tendere alla perfezione, appunto. La correlazione tra Hikikomori e perfezionismo è emersa in modo evidente in molte delle testimonianze di isolamento da me raccolte in questi anni. Come, per esempio, nella  storia di Davide  (nome di fantasia), studente modello di medicina, il quale, nonostante sia da anni fuori corso, arriva a rifiutare ottimi voti pur di non abbassare la media del 30. Un atteggiamento che lo porta a rimanere indietro con gli studi, nonché a sviluppare un fortissimo stress e un grande senso di vergogna nei confronti dei coetanei. Finisce così per evitare qualsiasi occasione sociale che lo obbligherebbe a rendere conto delle proprie difficoltà, sprofondando lentamente in una spirale di isolamento e solitudine. In questo caso l’elemento bloccante e nocivo è rappresentato dalla necessità psicologica di mantenere un determinato standard sotto al quale non si accetta di scendere. Un meccanismo del “tutto o niente”, per cui, se non si riesce a raggiungere l’obiettivo prefissato, qualsiasi risultato intermedio verrà vissuto come un fallimento privo di soddisfazione. Nei casi estremi questo meccanismo psicologico porterà a una rinuncia totale all’agire, perché anche il solo provarci apparirà privo di senso. Se nella perfezione l’errore non è ammesso, fare qualsiasi cosa, anche la più semplice, diventa particolarmente difficile, talvolta impossibile. È per questo motivo che i perfezionisti tendono alla continua procrastinazione, fino a sviluppare un atteggiamento di resa o una sensazione di paralisi. 44

Le cause

Per provare ad arginare questa crescente tendenza al perfezionismo dobbiamo necessariamente ridurre la competizione sociale e le pressioni che i giovani percepiscono su di loro. Nello sport, nella scuola, nel lavoro, in ogni contesto sociale, è importante abbassare le nostre aspettative. Se raggiungere la perfezione regala una sensazione positiva e piacevole, non riuscire in tale scopo può generare frustrazione e stress. Comprendere quando un’attività diventa tossica ed essere in grado di interromperla rappresenta allora una competenza fondamentale per il nostro benessere e per la nostra realizzazione personale. Allo stesso modo, riuscire a liberarci dalla paura del fallimento, o dalla necessità di dover mantenere sempre e comunque un certo standard, può aiutarci a diventare maggiormente produttivi e proattivi, evitando l’eterna procrastinazione e l’immobilità. 

Depressione esistenziale e apatia Ogni nostra azione, anche la più semplice, ha uno scopo e una motivazione che la sorregge. Se ci alziamo la mattina e andiamo a scuola o al lavoro, persino quando non abbiamo nessuna voglia, significa che esiste una forza che ci spinge a farlo: senso del dovere, desiderio di mantenere un determinato status sociale, paura di essere giudicati, e mille altri fattori. Attenzione a non confondere la voglia con la motivazione. Se qualcuno mi puntasse un coltello alla gola intimandomi di consegnargli il portafoglio, io non avrei nessuna voglia di farlo, ma la paura del dolore mi renderebbe altamente motivato ad acconsentire alla richiesta. Gli Hikikomori sono spesso soggetti particolarmente critici e tendono a mettere ogni cosa in discussione. Dal momento che il loro malessere origina soprattutto dall’ambiente sociale, arrivano a mettere in discussione anche la necessità di farne parte, sperimentando di conseguenza una forte perdita di motivazione in tal senso. Le azioni finalizzate a perseguire gli obiettivi sociali appariranno dunque prive di significato poiché si renderanno conto che non sono sorrette da un reale interesse intrinseco, ma piuttosto animate dalla paura di deludere le aspettative altrui.  45

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Secondo alcuni autori (Yong & Kaneko, 2016) quello degli Hikikomori può essere interpretato come un vero e proprio stato di anomia (letteralmente “assenza di norme”), termine coniato da Durkheim sul finire degli anni ottanta. La loro perdita di riferimenti normativi, tuttavia, non sembra essere generalizzata, bensì limitata specificatamente a determinate dinamiche sociali, in particolare quelle legate al successo personale e all’esaltazione della propria immagine pubblica. Le altre norme, come ad esempio quelle morali, tenderebbero invece a rafforzarsi in contrapposizione proprio alle dinamiche precedentemente citate. Un’anomia circoscritta dunque, che raramente sembra portare al suicidio o al compimento di atti criminali, quanto piuttosto a una perdita di interesse e motivazione nel perseguire qualunque obiettivo giudicato come socialmente rilevante. Da questa prospettiva, la scelta del ritiro di un Hikikomori potrebbe essere interpretata come la volontà di intraprendere una strada alternativa, non percepita come il frutto di un volere superiore, ma al contrario, una strada vissuta come propria, la cui validità viene sostenuta dall’ostilità percepita attorno a essa. Una sorta di ribellione, il cui seme rimane quello della paura del confronto sociale, ma le cui radici si consolidano robustamente nel terreno grazie a una forte componente razionale e motivazionale. A supporto di tale ipotesi, esistono recenti studi che hanno messo in evidenza come nei soggetti con tendenze riconducibili all’Hikikomori sia spesso presente anche un atteggiamento anticonformista (Toivonen et al., 2011; Norasakkunkit & Uchida, 2014).  Eppure, quando la strada dell’isolamento si rivela inevitabilmente fallimentare e smette di apparire come un’alternativa valida, è ipotizzabile che anche la componente di ribellione insita nell’Hikikomori lasci spazio all’apatia, intesa come una perdita di motivazione generalizzata che contagia ogni sfera della propria esistenza. Questo stato è talmente pervasivo e rilevante negli Hikikomori, che i primi casi in Giappone venivano classificati e denominati da Saitō e colleghi come “sindromi apatiche” (Pierdominici, 2008). L’apatia si distingue dalla depressione poiché non include necessariamente gli aspetti di ansia e calo del tono dell’umore tipici del disturbo 46

Le cause

depressivo, ma il confine tra le due condizioni è spesso labile ed è facile che si presentino in associazione (Levy et al., 1998; Teo, 2013). Come detto, la perdita di senso non si limita solamente all’ambito sociale, ma può raggiungere un livello ancor più profondo. La stessa componente critica che porta gli Hikikomori a rifiutare la società, li conduce spesso a interrogarsi anche sul significato stesso della vita e a mettere in discussione i dogmi esistenziali. Un processo che può avere impatti negativi sull’umore del soggetto, generando talvolta quella che potremmo definire come una “depressione esistenziale”, teorizzata dallo psichiatra e psicoterapeuta Lodovico Berra come: “[...] una modalità depressiva non patologica, priva di cause organiche […] che deriva da una particolare presa di coscienza della nostra realtà esistenziale. [...] la conseguenza della messa in discussione dei significati che dovrebbero caratterizzare l’esistenza, ed il suo conseguente svuotamento e annullamento. Il tono dell’umore che si osserva nella depressione esistenziale è esito di riflessioni intellettuali sull’esistenza, e non derivante da eventi o conflitti intrapsichici, come per esempio accade nella depressione nevrotica o psicogena.” (Berra, 2006)

L’ipotesi di un collegamento tra Hikikomori e depressione esistenziale è plausibile, dal momento che chi soffre di isolamento sociale volontario è solitamente un soggetto introspettivo, dotato intellettualmente e con una spiccata tendenza alla ruminazione dei pensieri negativi (Chong & Chan, 2012). Proprio le persone con questo profilo, secondo lo psicologo James Webb (2014), sarebbero coloro maggiormente predisposte all’idealismo in quanto in grado di concepire cosa non funziona nella società e quali potrebbero essere invece i suoi enormi margini di miglioramento. Soggetti particolarmente sensibili alla disonestà e all’ipocrisia, che percepiscono l’esistenza di un forte frattura tra la realtà e quelli che sono i propri ideali. Allo stesso tempo, però, mantengono un solido pragmatismo, riconoscendo come il proprio impatto sul processo di cambiamento sia altamente limitato. Tale consapevolezza genera in loro delusione e fru47

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strazione, con una conseguente messa in discussione di tutti quegli aspetti sociali ed esistenziali che ritengono essere contrari ai propri valori. Un’altra teoria a sostegno dell’esistenza di una correlazione tra Hikikomori e depressione esistenziale è quella dello psicologo e psichiatra polacco  Kazimierz Dabrowski (1966). Egli credeva che alla base dello sviluppo vi fosse  un  processo chiamato “disintegrazione positiva”, che porterebbe l’individuo ad assumere un atteggiamento critico nei confronti dei propri istinti e delle convenzioni sociali. Sempre secondo lo psicologo polacco, tale processo sarebbe preceduto da una fase di depressione esistenziale, che egli aveva notato essere più comune in persone particolarmente sensibili ed emozionali. Questa fase di “disintegrazione” rappresenterebbe uno step necessario affinché l’individuo si rigeneri a un maggiore livello di accettazione e consapevolezza, determinando una crescita personale. Tuttavia, tale passaggio non sempre avverrebbe. Decisivo quello che Dabrowski definiva il “terzo fattore”, ovvero una forza intrinseca necessaria a trovare la determinazione per controllare comportamenti e istinti, riuscendo così a vivere pienamente in armonia con i propri valori personali. Una motivazione alla crescita e all’autonomia, guidata dal bisogno di esprimere la propria creatività e i propri talenti. Se questa componente viene a mancare, è possibile che la persona fallisca nella fase di ricostruzione e rimanga invischiata in un limbo, non essendo stata in grado di rigenerarsi a un nuovo livello. Potrebbe essere questo il caso degli Hikikomori. Identificato il costrutto della depressione esistenziale, sarebbe lecito chiedersi come mai, proprio in questo periodo storico, così tanti giovani sembrano sprofondarvici. Un fattore è rappresentato sicuramente dal lento crollo di tutti i dogmi religiosi che hanno protetto l’essere umano da quelle angosce esistenziali irrisolte che da sempre lo interrogano. Nelle nuove generazioni, infatti, le credenze religiose sono deboli, poco radicate, e non più in grado di rispondere ai quesiti esistenziali come accadeva in passato. Ciò che prima era compito della collettività, ovvero della religione, oggi è demandato al singolo: ognuno di noi è chiamato a individuare il proprio personale significato della vita, una propria ragione 48

Le cause

e quindi una propria motivazione che dia senso ad ogni singola azione compiuta su questa terra. Non tutti sono in grado di sostenere un tale peso esistenziale. Chi è più sensibile a questo tipo di questioni potrebbe faticare a governarle e si ritroverà pervaso, posseduto e soffocato da esse. Un altro fattore che contribuirebbe ad aumentare l’esposizione alla depressione esistenziale nella società moderna si ricollega ancora una volta alla teoria di Maslow e alla gerarchizzazione dei nostri bisogni. All’apice della piramide, insieme a quelli di autorealizzazione, troveremo infatti anche i bisogni morali e di tipo esistenziale. Questi ultimi, essendoci i bisogni di ordine inferiore spesso garantiti, possono arrivare ad assumere un ruolo e un peso centrale all’interno della nostra vita. In altre parole, non dovendoci preoccupare della sopravvivenza, della sicurezza, e avendo una famiglia che comunque sappiamo si prenderà cura di noi, investiamo tutte le nostre risorse sulla ricerca del successo personale, ma fragilità temperamentali e un contesto sociale ipercompetitivo spingerebbero alcuni soggetti a mettere in discussione la necessità di una tale affannosa ricerca. A farne le spese sono soprattutto i giovani poiché dotati di minori strumenti per riuscire a sostenere ed elaborare le pressioni esistenziali, finendo per manifestare gravi sofferenze disadattive, tra le quali potrebbe rientrare anche l’Hikikomori. Da questa prospettiva l’isolamento volontario non rappresenterebbe solamente un nuovo fenomeno, bensì un campanello d’allarme di un malfunzionamento sociale ancor più ampio e sempre più profondo, come testimoniano anche i dati pubblicati nel 2017 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo i quali nel mondo ci sarebbero 300 milioni di depressi, il 4,4% dell’intera popolazione terrestre, con un incremento del 18,4% dal 2005 al 2015. Dati molto simili sono stati riportati dall’OMS anche per quanto riguarda i disturbi di tipo ansioso. La conseguenza consiste anche in un vertiginoso aumento del consumo di psicofarmaci, attorno ai quali si è generato un proficuo mercato illegale che permette di acquistarli rapidamente online e senza prescrizione medica. In particolare negli ultimi anni è esplosa tra i giovani la moda dello Xanax, un ansiolitico appartenente alla famiglia delle benzodiazepine, il cui utilizzo è diventato, paradossalmente, quasi un vanto da 49

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ostentare in foto pubbliche sui social. “Se non sei depresso significa che non stai vivendo realmente”, sembra essere questo il paradossale concetto che si vuole trasmettere. Lo Xanax è un farmaco particolarmente accessibile, anche da un punto di vista economico. Agisce sui neurotrasmettitori che interpretano la paura sopprimendone gli output. In altre parole stiamo tentando, in tutti i modi, di contrastare farmacologicamente quei pensieri e quelle sensazioni di malessere da cui non riusciamo a liberarci. Proprio la paura, il sintomo adattivo per eccellenza, necessario all’uomo per attivare rapidamente il proprio corpo di fronte ad un pericolo, è diventato oggi un nemico. La radice di questa ondata di paura che sta tormentando il mondo, non è altro che la stessa di quella che attanaglia gli Hikikomori: paura di fallire, di essere esclusi, di essere giudicati, di non essere all’altezza, di sbagliare scelta, paura di deludere le aspettative, di perdere tempo. Sono talmente tante le cose di cui abbiamo paura che la sua attivazione diventa talvolta permanente, cronica. Non è più un evento o una situazione in particolare a generarla, non si tratta di un’ansia anticipatoria fisiologica, ma di un malessere generalizzato e inscindibilmente legato al nostro modello di vita attuale, da cui non possiamo fuggire, se non attraverso l’autoreclusione, le droghe, le dipendenze e qualsiasi altra forma di evasione che il mondo ci concede. Tutte soluzioni estemporanee che però non risolvono il problema, anzi, lo aggravano. Per invertire la rotta è necessario smettere di concentrarci esclusivamente sul progresso scientifico e tecnologico, investendo molte più energie e risorse sulla crescita esistenziale come esseri umani. La nostra intera carriera sociale si basa sul raggiungimento di obiettivi materialistici, mentre dedichiamo pochissimo tempo nella conoscenza di noi stessi e della nostra natura mortale. Dovremmo farci carico socialmente delle questioni esistenziali, senza demandarle esclusivamente alle religioni o alla singola interpretazione, ma discutendone apertamente in pubblico, a partire dalle scuole, e spezzare quella sensazione di tabù che sembra averle inghiottite.

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Le cause

Il risultato di questa repressione esistenziale collettiva è una delle cause che porta al dilagare del modello sociale fondato sull’autorealizzazione personale, dove non c’è spazio per la condivisione e il sostegno reciproco, poiché il mio successo passa anche dal tuo fallimento: quando c’è un primo significa che c’è anche un ultimo. Chi non si riconosce in tale modello, non condividendone i valori, come gli Hikikomori, può perdere la motivazione nel perseguirlo. Allo stesso tempo, tutti attorno a loro sembrano accettarlo acriticamente e dunque la sensazione sperimentata è quella di essere diversi dagli altri. La depressione esistenziale origina proprio dalla percezione di incompatibilità tra la propria personale interpretazione dell’esistenza e quello che invece viene esperito come dominante e imposto dall’alto. Anche in questo caso, per uscire dalla palude, è necessaria un’evoluzione del pensiero, attraverso la capacità di divenire quello che Nietzsche chiamava il “Superuomo”, ovvero un essere umano che riesce a convivere con la consapevolezza dell’inesistenza di uno scopo predeterminato nella vita, riuscendo a superare i dogmi etici e sociali, ed esprimendo la propria creatività e la propria umanità senza vincoli o limitazioni: un uomo in grado di dominare tutte le proprie paure esistenziali e sociali, senza lasciare che queste lo schiaccino. Sulla base della mia esperienza, sembra essere proprio questo uno dei compiti evolutivi più delicati nel quale molti Hikikomori falliscono. Al contrario, chi di loro si dimostra progredito nel processo di gestione della pulsione all’isolamento sociale, solitamente manifesta anche alto livello di razionalizzazione dei pensieri esistenziali, a testimonianza del grande lavoro psicologico effettuato su di essi. In generale, quello che sembra mancare spesso agli Hikikomori è uno scopo in grado di conferire senso all’esistenza, una prospettiva nella quale identificarsi e nella quale trovare gratificazione personale. La loro apatia non è mancanza di potenziale, ma origina dall’incapacità o dall’impossibilità di trovare applicazione alle proprie competenze e alle proprie risorse, che dunque rimangono profondamente inespresse. A ciò dobbiamo poi aggiungere un contesto, come quello moderno, sempre più competitivo e fondato sul successo personale, il quale contribuisce a creare ulteriore 51

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distacco tra la società e chi possiede un determinato sistema valoriale. Per alcuni tenere il passo risulterà allora così complesso e, allo stesso tempo, così privo di senso, per cui la scelta più spontanea sarà quella di ritirarsi dalla corsa e smettere di competere. In che modo? Attraverso la soluzione percepita come più immediata e accessibile, ovvero l’isolamento. L’Hikikomori non è dunque solo una fuga, non è solo paura dell’altro. Dietro esso si cela un vuoto motivazionale, una perdita di significato che sembra riguardare in modo trasversale soprattutto le nuove generazioni. Il modo migliore per aiutare un Hikikomori è allora supportarlo nella ricerca del senso e provare così a riaccendere la sua volontà di confrontarsi con le sfide sociali. Per farvi capire di cosa sto parlando, vi racconto la storia di Luca (nome di fantasia), un ragazzo di 19 anni che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. È stato lui a contattarmi la prima volta tramite il sito di Hikikomori Italia. Tra una curiosità e l’altra abbiamo cominciato a parlare, inizialmente via chat e poi tramite chiamata vocale. Mi raccontò di aver abbandonato definitivamente gli studi durante i primi anni delle superiori e, salvo rare eccezioni, di non essere più uscito di casa da allora. Tutto era iniziato quando, per motivi di lavoro, i suoi genitori dovettero trasferirsi. Lui non riuscì ad ambientarsi nella nuova scuola e, anche a causa di un carattere schivo, cominciò lentamente a isolarsi dal resto dei compagni, sentendosi prima fuori luogo e poi profondamente a disagio, tanto da perdere ogni stimolo e interrompere il percorso scolastico. Luca, in tutti quegli anni di solitudine, tra videogiochi e serie TV, era riuscito però a preservare la sua passione per il disegno. Quando lo scoprii gli chiesi subito se aveva voglia di realizzare delle immagini per il sito Hikikomoriitalia.it e lui si dimostrò entusiasta dell’idea. Da quel momento nacque una bellissima collaborazione, che ci permise anche di conoscerci sempre più a fondo e alimentare tra di noi una relazione di amicizia. Nonostante questo, Luca continuava a vivere la sua vita da auto-recluso, con alti e bassi. A suo dire stava bene così e non sentiva l’esigenza di uscire, ma era evidente che dietro a quelle parole si nascondesse una profonda insoddisfazione e un bisogno di calore umano. 52

Le cause

Poi un giorno accadde qualcosa che io avevo immaginato e sperato. Qualcuno notò i suoi disegni sul sito e mi chiese se l’autore fosse disponibile a esporli. Quando lo dissi a Luca, lui non esitò un secondo ad accettare. Era evidentemente intimorito dalla cosa, ma assolutamente pronto a mettersi in gioco. Io l’ho visto: un ragazzo che non usciva di casa da anni, che affermava di non aver mai avuto un amico in vita sua, essere al centro dell’attenzione, in un locale pieno di persone che lo interrogavano sul significato delle sue opere. Confuso e impacciato, ma allo stesso tempo eccitato e sorridente. Si relazionava come un qualsiasi ragazzo della sua età. Aveva trovato la sua motivazione, il suo personale motivo per uscire e affrontare le proprie paure.

Dinamiche genitori-figli e disposizioni temperamentali Errore comune è considerare gli Hikikomori come dei ragazzi pigri o addirittura degli approfittatori, e non come delle persone che vivono un forte disagio psicologico. Tale interpretazione genera diversi equivoci, uno in particolare riguarda lo stile educativo dei genitori, accusati talvolta di essere troppo permissivi, identificando in una loro presunta mancanza di autorità la causa principale dell’isolamento del figlio. Eppure, ad oggi, è giusto sottolinearlo, non esistono studi che dimostrino l’esistenza di una chiara e univoca correlazione tra un particolare stile educativo e l’Hikikomori. Anche per quanto mi riguarda non è facile formulare delle ipotesi in tal senso, dal momento che in questi anni ho avuto modo di conoscere centinaia di genitori di ragazzi isolati, con personalità e modi di essere diametralmente opposti, senza un evidente fattore che li accomunasse. Attenzione però, questo non significa che i genitori non abbiano nessuna responsabilità nel processo che conduce all’isolamento sociale volontario. Una tale ipotesi, infatti, sarebbe quantomeno pretenziosa da sostenere, dal momento che i genitori rappresentano sempre e comunque una figura centrale nel percorso di sviluppo di un figlio. Se quest’ulti-

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mo arriva a isolarsi dalla società esterna, a manifestare evidenti fragilità e comportamenti di disagio, è probabile che qualcosa non abbia funzionato correttamente anche all’interno dei delicati rapporti famigliari. Proviamo a capire di cosa potrebbe trattarsi. L’esperienza giapponese ci dice che nelle famiglie con figli Hikikomori è spesso presente  una figura paterna debole o del tutto assente,  sia sul piano fisico che sul piano emotivo (Saitō, 1998). Come detto precedentemente, la separazione dei ruoli di genere tra maschi e femmine è una tradizione ancora molto radicata nella cultura nipponica moderna, così come in quella italiana, soprattutto in alcune zone del paese. Il padre lavora e pensa al sostentamento economico della famiglia, mentre la madre si occupa della casa e dell’educazione dei figli. Inoltre, anche a causa del rallentamento dell’economia, negli ultimi anni i ritmi di lavoro giapponesi sono diventati insostenibili. La competitività del mercato costringe a orari estenuanti e capita spesso che gli uomini rincasino molto tardi la sera, con l’unico desiderio di riposare. Secondo i dati pubblicati nel 2017 dal governo giapponese, il 12% delle aziende ha dipendenti che registrano più di cento ore di straordinari al mese. Uno stile di vita di completa abnegazione per il lavoro che, tuttavia, è considerato talvolta motivo di orgoglio e un dovere morale nei confronti della propria famiglia. Le gesta eroiche del padre vengono poi raccontate dalla madre al figlio, il quale si sentirà pressato a comportarsi allo stesso modo (Ricci, 2008). Questo spirito di sacrificio può essere ricollegato a una caratteristica della cultura giapponese molto antica: la lealtà  bushido,  “la via del guerriero”, ovvero un codice di condotta e un modello di vita che esige il rispetto dei valori di onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore. Valori che devono essere perseguiti fino alla morte, come accade ai molti uomini che ogni anno perdono la vita a causa di un eccesso di lavoro. Il fenomeno è talmente diffuso in Giappone che è stata coniata anche una parola per definirlo: karoshi, che significa letteralmente “morte per troppo lavoro”. Talvolta, dimostrare agli altri che si sta dando il massimo diventa più importante di ogni cosa, anche della stessa vita. 54

Le cause

In un contesto di questo tipo, i rapporti coniugali ne risentono in modo spesso paradossale. Il contatto fisico diventa sempre più raro, tanto che secondo alcune delle maggiori imprese edili giapponesi, tra le case di nuova costruzione più di una su tre avrebbe camere da letto separate. Esiste anche una sindrome chiamata Retired Husband Syndrome che colpisce circa il 60% delle donne sposate, le quali arrivano a soffrire la presenza in casa del coniuge dopo che egli va in pensione (Bertoni & Brunello, 2014). Avendo vissuto per molti anni senza di lui, hanno sviluppato un sistema di vita indipendente di cui il marito non fa parte in alcun modo. Il risultato è un drastico aumento di divorzi tra coppie sposate da oltre vent’anni, i cosiddetti Gray divorce. La debolezza del ruolo paterno può avere un grave impatto negativo soprattutto sulle delicate dinamiche genitore-figlio poiché, non solo priva il bambino di una figura fondamentale, ma genera anche uno squilibrio della relazione parentale a carico della madre. Quest’ultima sarà maggiormente a rischio di sviluppare nei confronti del figlio quel legame di dipendenza simbiotica che in Giappone definiscono con il termine “amae” e che alcuni autori ritengono essere tra le principali cause dell’Hikikomori (Kobayashi et al., 2003; Takahata, 2003). Tale espressione è stata utilizzata per la prima volta da Takeo Doi nel 1973 all’interno del libro “Anatomia della dipendenza” e non è altro che il sostantivo del verbo ameru  che significa “dipendere e presumere benevolenza dall’altro”. La traduzione non è letterale, in quanto, nelle lingue occidentali, una parola corrispondente all’amae sembrerebbe non esistere. Secondo lo stesso Doi ci troveremmo, infatti, di fronte a un sentimento esclusivamente giapponese. A tal proposito egli scrive: “[…] il fatto che il termine amae esista in Giappone e non nelle lingue occidentali, può essere interpretato come segno che, contrariamente a ciò che avviene in Occidente, i giapponesi sono particolarmente sensibili all’amae e vi attribuiscono una grande importanza.”

L’amae esprime sostanzialmente una relazione nella quale il figlio approfitta egoisticamente delle cure del genitore poiché consapevole del fatto che 55

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il proprio status glielo consente: a prescindere dal proprio comportamento, si aspetta condiscendenza. Mentre questa può essere considerata una dinamica fisiologica nei primi anni di vita, dove la pretesa di accudimento da parte del figlio è giustificata dalla sua temporanea vulnerabilità, con il passare degli anni rischia di sfociare in un atteggiamento iperprotettivo da parte della madre verso un ragazzo o un adulto, e non più un bambino, che, da una parte tenderà ad approfittare di queste eccessive attenzioni, dall’altra si sentirà oppresso e reagirà talvolta in modo aggressivo, come testimoniano i numerosi casi di violenza operati dagli Hikikomori nei confronti dei genitori (Aguglia et al., 2010; Okamura, 2016). L’amae potrebbe ostacolare il giovane nel processo di maturazione di un’indipendenza emotiva e relazionale, limitandolo nella costruzione di una propria identità separata da quella della madre e mettendolo in difficoltà nel completamento delle tappe evolutive necessarie per uscire dall’adolescenza (Kato et al., 2016). Tale dinamica genitore-figlio sembra tuttavia essere, almeno in parte, sovrapponibile a quello che nel 1969 la psicologa canadese Mary Ainsworth e colleghi definirono un “attaccamento insicuro-ambivalente”. I bambini che presentano tale caratteristica tendono a reagire con discontinuità a un allontanamento e a un successivo riavvicinamento alla madre, sia cercando le sue cure, ma anche mostrando nei suoi confronti rabbia o passività. Secondo alcuni studi questa tipologia di attaccamento sarebbe causata da un atteggiamento incoerente da parte del genitore, iperprotettivo e respingente allo stesso tempo (Vertue, 2003; Scher, 2000). La correlazione tra attaccamento insicuro-ambivalente e predisposizione allo sviluppo di disturbi di tipo ansioso è stata riscontrata chiaramente in diverse indagini scientifiche, come quella di Bosquet and Egeland (2006). I due ricercatori hanno condotto uno studio longitudinale che hai coinvolto ben 155 soggetti, monitorati dalle scuole elementari fino alle superiori. La cosa più interessante emersa, per quanto riguarda la nostra indagine, è che i bambini che mostravano un attaccamento ambivalente tendevano anche ad avere maggiori difficoltà relazionali durante la pre-adolescenza, difficoltà le quali, a loro volta, favorivano lo sviluppo di disturbi d’ansia negli anni successivi. 56

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Partendo da queste evidenze, qualche anno più tardi due ricercatori americani (Krieg & Dickie, 2011) decisero di testare la correlazione direttamente su un gruppo di Hikikomori, riscontrando effettivamente in loro un grado di attaccamento insicuro-ambivalente significativamente più alto rispetto al gruppo di controllo. Secondo i ricercatori, i bambini che presentano questo tipo di attaccamento avrebbero minore sicurezza di sé e ciò ridurrebbe le loro occasioni di confrontarsi con i pari durante il delicato passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, mancando dunque di sperimentare e sviluppare quelle competenze necessarie a raggiungere una maggiore autonomia emotiva e psicologica dai genitori. Negli anni successivi, ciò si tradurrebbe in una maggiore esposizione del soggetto ad atti di bullismo e a un conseguente rifiuto dei pari. Infine, se all’interno di un quadro di questo tipo viene a sommarsi una precisa disposizione temperamentale, nel caso dello studio identificata nel costrutto della timidezza, il rischio di sviluppare l’Hikikomori sembra aumentare sensibilmente. Gli autori ci tengono tuttavia a sottolineare che la timidezza, da sola, non sembra in grado di determinare l’isolamento sociale, come dimostrato anche da altri prima di loro (Booth-LaForce & Oxford, 2008). Tale riflessione apre, in ogni caso, una questione importante, perché è evidente che, a parità di condizioni ambientali, non tutti diventino Hikikomori. Questo significa che esistono numerosi fattori personali potenzialmente in grado di fare la differenza. Tra questi vi è sicuramente anche una predisposizione temperamentale che deriva dal proprio comparto genetico. Per fare un esempio, alcuni neonati, di fronte alle novità, mostrano la tendenza a essere cauti e turbati, atteggiamento che tende poi a tradursi in comportamenti inibiti nei primi anni di vita e solitari in età prescolare e scolare (Zappulla, 2003). I problemi relativi a un precoce isolamento e alla difficoltà nello sviluppo delle competenze sociali, inficiano fortemente anche la costruzione del sé. Come accennato in precedenza, le scarse interazioni con gli altri determinano maggiori complessità nello sviluppo dell’identità sociale poiché, in una società in cui l’appartenenza al gruppo viene promossa e incentivata fin dai primissimi anni di vita, l’isolamento e il rifiuto possono 57

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alimentare la sensazione di essere diversi e per questo sbagliati. Il rischio è quello che si venga a strutturare un concetto negativo di sé e, di conseguenza, un basso livello di autostima. L’insieme di queste componenti contribuirebbe poi alla sperimentazione, durante l’adolescenza, di quei disturbi d’ansia di cui abbiamo parlato poc’anzi. Non solo, alcuni studi hanno dimostrato la stretta associazione esistente tra bassa autostima e isolamento sociale giovanile, identificando, invece, nella forte connessione empatica con la famiglia un determinante fattore protettivo, soprattutto nel caso fossero presenti istinti suicidari (Hall-Lande et al., 2007). Come avrete intuito, la solitudine porta all’innesco di un meccanismo in grado di auto-alimentarsi, per cui più ci si isola e più diventa difficile uscirne. A sostegno di questa tesi riporto i risultati di una ricerca condotta in Belgio (Vanhalst et al. 2015), che ha coinvolto 370 adolescenti con un’età media intorno ai 15 anni. Ai partecipanti è stato chiesto di compilare, per un anno intero, dei questionari che avevano lo scopo di misurare il loro grado di solitudine e, in base ai risultati emersi, sono stati suddivisi dai ricercatori in cinque categorie con una tendenza crescente all’isolamento sociale. In una seconda fase dello studio veniva chiesto loro di immedesimarsi in due possibili scenari: il primo era definito di “inclusione sociale” e descriveva una situazione nella quale si veniva invitati da alcuni amici a pranzare insieme. Il secondo scenario era, invece, di “esclusione sociale”, e consisteva nell’immedesimarsi in una situazione dove, per caso, si viene a scoprire tramite una foto su Facebook di non essere stati inviatati al compleanno di un nostro compagno di classe. Per ognuno di questi due scenari i soggetti dovevano esprimere le emozioni che sentivano di provare. I partecipanti precedentemente classificati come “più solitari” dimostravano di vivere la situazione di esclusione sociale in modo maggiormente negativo rispetto agli altri, manifestando alti livelli di rabbia, delusione e gelosia, e attribuendo tale esclusione alle proprie caratteristiche personali, come ad esempio il proprio aspetto fisico o il proprio carattere. Fin qui non c’è nulla di cui stupirsi. La cosa più interessante è che questi stessi ragazzi mostravano poco entusiasmo anche nella condizione di in58

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clusione sociale, ovvero nello scenario nel quale erano stati effettivamente invitati dagli amici. Questo perché l’invito veniva interpretato come frutto del caso oppure legato a un secondo fine. Ciò significa che chi ha tendenze solitarie è più predisposto a vivere con sospetto i tentativi di coinvolgimento da parte di amici, coetanei o familiari, facendo pensieri del tipo: “Lo ha fatto solo perché si sentiva in obbligo, non gli interessa veramente se vengo anche io”, “Chiama me solo quando non c’è nessun altro” o ancora “Vuole solo prendersi gioco di me.” A causa di questa disposizione mentale gli Hikikomori finiscono spesso per allontanarsi da tutti gli amici, anche quelli più insistenti. Si viene così a creare un meccanismo ricorsivo che potremmo definire, appunto, come “il circolo vizioso della solitudine”, per cui più ci si isola e più si tenderà a innescare una serie di comportamenti e atteggiamenti inconsci che contribuiranno a perpetrare tale stato e a favorirne la cronicizzazione. Questo è quello che accade a molti Hikikomori, i quali si isolano inizialmente in modo totalmente istintivo: soffrono lo stare con gli altri, faticano a sopportare le forti pressioni di realizzazione sociale che percepiscono esserci su di loro e decidono di fuggire da tutto, preferendo passare il tempo soli chiusi in casa. In un primo momento il ritiro può essere vissuto come un sollievo, ma sul lungo periodo si rivela sempre un’arma a doppio taglio. Una volta interrotti tutti i ponti con gli amici, riprendere i contatti risulta essere particolarmente difficile, soprattutto per chi ha un carattere insicuro e narcisista. La paura di essere giudicati per la propria inattività, o peggio, di essere rifiutati, è troppo forte. Ci si immagina i propri coetanei diplomati, laureati, fidanzati, con una casa, un lavoro e con dei figli: la sensazione di essersi allontanati troppo da qualsiasi traguardo sociale aumenta e la sola ipotesi di poter ricominciare tutto da capo appare impossibile. Pensieri come questi contribuiscono a trasformare un isolamento interpretato inizialmente come una pausa o una fase momentanea della propria vita, in una voragine che si amplia man mano che il tempo passa e dalla quale non si riesce più a tornare indietro.

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La solitudine stimola poi la ruminazione compulsiva dei pensieri negativi e favorisce la nascita di quegli schemi mentali rigidi e ricorsivi tipici della depressione. Tali schemi appiattiscono la percezione della realtà che risulterà dunque sempre più distaccata, fredda e irrazionale. La nostra personale interpretazione dell’esistenza diventa allora l’unica verità possibile. Una visione che tende a rimanere stabile a causa di una routine solitaria che non favorisce di certo il cambio di prospettiva. Per uscire da questo circolo vizioso è necessario, prima di tutto, diventarne consapevoli. Comprendere che l’ambiente e il proprio stile di vita plasmano direttamente la propria mentalità e i propri pensieri. Ciò significa che nel momento in cui si riesce a rompere la routine, si modificano le attività quotidiane e si variano gli ambienti frequentati, inevitabilmente cambierà anche il modo di percepire la realtà, l’esistenza e, di conseguenza, se stessi. Fare questo da soli però non è semplice. Spesso è necessario farsi aiutare da qualcuno che sia in grado di osservare i nostri pensieri da una prospettiva diversa dalla nostra, qualcuno che possa metterli in discussione, criticarli e, di conseguenza, modificarli. Si tratta di rielaborare una visione della realtà che abbiamo plasmato per anni nella nostra mente, la cui inappellabile veridicità è solamente frutto della nostra illusione. Per questo motivo, se doveste trovarvi in una situazione simile non abbiate mai paura di chiedere aiuto. Potrà sembravi un’affermazione retorica e scontata, ma dalla solitudine non si esce da soli.

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5 Il ruolo della scuola Alcuni sostengono che l’Hikikomori non sia altro che una forma acuta di fobia scolare, ovvero un grave disturbo ansiogeno causato direttamente dall’ambiente scolastico. Eppure si tratta questa di una problematica che, ad oggi, viene descritta a livello teorico, come un disturbo che colpisce soprattutto bambini della scuola primaria, mentre, come ribadito più volte, l’abbandono scolastico degli Hikikomori si manifesta solitamente a un’età più avanzata, in particolare durante gli anni delle scuole medie e superiori. Questo può significare due cose: o che l’età di insorgenza della fobia scolare si è notevolmente alzata, oltre al fatto che la sua incidenza sia letteralmente esplosa, oppure significa che dietro alla scelta di ritiro di un Hikikomori non vi sia solamente paura. Personalmente ritengo questa seconda opzione decisamente più realistica, dal momento che, come detto, al disagio e alla sofferenza sperimentata dall’Hikikomori nell’ambiente scolastico, si sommano spesso sentimenti valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un Hikikomori troppo distanti dai propri per poter coesistere senza doversi snaturare. Questo comporta che decine di migliaia di studenti ogni anno prendono la decisione di abbandonare gli studi, non a causa di un rendimento scolastico insoddisfacente, e nemmeno per disinteresse nell’apprendimento. Parliamo infatti di ragazzi diligenti, analitici e dotati intellettualmente, un paradosso se pensiamo che fino a pochi anni fa queste caratteristiche erano predittive di successo scolastico, mentre adesso sembrano essere diventate un fattore di pericolo. Cerchiamo allora di capire quali possono essere le cause.

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La piaga del bullismo L’aver subito ijime (bullismo) a scuola rappresenta un grave fattore di rischio per quanto riguarda l’Hikikomori. In Giappone le dimensioni del fenomeno sono inquietanti: in un sondaggio del 1994, il 54% degli alunni delle scuole medie dichiarò di averlo subito (Zielenziger, 2006), mentre in una ricerca successiva è emerso che solo un bambino su sette non ha mai subito bullismo in un arco di tempo di tre anni, mentre un bambino su due partecipa ad atti di bullismo nei confronti di propri compagni di classe almeno una volta all’anno (Taki, 2001). L’ijime viene considerato un marchio d’infamia e subirlo equivale spesso ad ammettere il proprio fallimento nella società. I casi di suicidio correlati sono ancora oggi numerosissimi. Una pratica dunque che, seppur presente in tutte le nazioni del mondo, all’interno della cultura nipponica sembra assumere un peso particolarmente rilevante. Nonostante la crescente influenza della cultura individualistica occidentale, il Giappone mantiene infatti tutt’oggi una forte impronta collettivistica, dove l’importanza attribuita al successo comune è tendenzialmente maggiore rispetto a quella attribuita al successo del singolo individuo. La propria identità personale coincide fortemente con l’identità del gruppo di appartenenza, a tal punto che l’esclusione da questo può portare a percepire il proprio contribuito sociale come irrilevante e, di conseguenza, la propria esistenza come non più utile. Essere una società collettivistica significa remare tutti dalla stessa parte. Chi devia da questo obiettivo si espone dunque a una forte pressione sociale, la quale si concretizza in uno spettro di azioni che possono andare dalle più innocue, come uno sguardo per un comportamento fuori posto, fino ad assumere delle vere e proprie forme coercitive, poiché, come recita un famoso proverbio giapponese, “il chiodo che sporge va preso a martellate”. In Italia il bullismo assume caratteristiche e modalità di espressione differenti rispetto a quelle giapponesi, eppure, nonostante la nostra sia una

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cultura fortemente individualista, l’accettazione da parte del gruppo, in particolare quello dei pari, mantiene comunque un’importanza prioritaria anche nel nostro sistema sociale e nella nostra costruzione identitaria. Il subire bullismo porta infatti gli Hikikomori a sviluppare un’immagine di sé come individui differenti dagli altri: si sentono spesso più maturi e meno superficiali rispetto alla maggior parte dei loro coetanei. Più vengono presi di mira e più diventano negativi e cinici nei confronti di una generazione e di una società di cui arrivano a non sentirsi più parte integrante. Secondo i dati ISTAT relativi all’anno 2014, più del 50% degli studenti italiani dichiara di aver subito episodi offensivi o violenti, nel 9,1% dei casi con continuità settimanale. Spesso le persecuzioni proseguono anche al di fuori del contesto scolastico, attraverso il cosiddetto cyberbullismo. Quest’ultimo, sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione, risulta essere potenzialmente ancor più devastante del bullismo analogico, poiché mantiene un grado di consistenza maggiormente duraturo nel tempo: le immagini, i video o le parole pubblicate sulla rete infatti rimangono, dando la sensazione alla vittima di essere costantemente derisa o minacciata. Non vi è luogo dove questa si possa rifugiare e la propria immagine pubblica può essere talvolta percepita come irrimediabilmente compromessa. I contraccolpi psicologici del bullismo non riguardano solo l’immediato, ma possono avere delle importanti ripercussioni anche sul mediolungo periodo. Le vessazioni subite sono in grado di generare un vero e proprio trauma con gravi conseguenze sul processo evolutivo della persona (Hugh‐Jones & Smith, 1999). Ascoltando e leggendo centinaia di storie di ragazzi e ragazze Hikikomori, mi sono reso conto di quanto  bullismo e isolamento sociale volontario siano fortemente correlati tra loro. Gli Hikikomori faticano a relazionarsi con i coetanei, non solo per una incompetenza caratteriale, ma anche perché faticano nel trovare elementi di condivisione e contatto con essi. Questo atteggiamento di apparente distacco li espone a episodi di vessazione da parte del resto della classe. Subiscono un bullismo, a volte manifesto, ma più spesso subdolo e sottile, tanto da passare inosservato agli occhi degli insegnanti. 63

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Un contesto di questo tipo contribuisce a generare e ad alimentare la pulsione all’isolamento sociale, la quale viene contrastata solitamente finché non accade un “episodio scatenante”, ovvero un particolare evento che gli Hikikomori ricollegano direttamente alla propria scelta di ritiro. Sebbene tale episodio potrebbe sembrare innocuo a un occhio esterno, contestualizzato all’interno di un quadro psicologico reso fragile e vulnerabile dal continuo stress che il soggetto sperimenta ogni giorno in un ambiente percepito come ostile, fa sì che questo evento assuma per lui o per lei un’importanza estremamente rilevante. Attenzione però, sebbene l’Hikikomori associ mentalmente il proprio ritiro a particolari episodi della propria esistenza, occorre precisare che il suo isolamento non ha mai un’origine prettamente traumatica, ma è sempre il frutto di un processo graduale. La visione negativa delle relazioni interpersonali e della società viene covata nel tempo e l’episodio scatenante rappresenta solamente la classica “goccia che fa traboccare il vaso”. Il disagio e il malessere che causano il ritiro sono continuativi, logoranti nella loro apparente inconsistenza.

Il ruolo degli insegnanti La situazione si aggrava nel caso in cui questi ragazzi percepiscano di non essere tutelati nemmeno dagli insegnanti, accusati talvolta di sottovalutare alcuni atteggiamenti denigratori operati nei loro confronti dai compagni. La vittima ha così la sensazione che l’adulto identificato come garante delle regole e dei valori morali, stia in realtà dalla parte dei suoi detrattori. Tutto ciò contribuisce a generare una profonda perdita di fiducia verso il sistema scolastico nel suo complesso e una conseguente forte demotivazione nel proseguire gli studi. Non è raro infatti che gli Hikikomori arrivino a considerare gli insegnanti come la causa principale del proprio ritiro, ancor più dei compagni stessi. Infatti, mentre il comportamento scorretto di un coetaneo

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viene quasi “messo in conto”, trovare un insegnante che si dimostra poco empatico e lontano dalla propria scala di valori, può generare una frattura insanabile. In questo modo, al malessere sperimentato si va a sommare anche una perdita di motivazione, talmente profonda da far perdere significato a qualsiasi resistenza alla pulsione di isolamento. Fondamentale, dunque, che gli insegnanti si schierino con decisione dalla parte della vittima, non sottovalutando nessuna forma di comportamento denigratorio o violento, sia esso di natura fisica o psicologica, manifesto o sottile, poiché non ci è dato sapere di quali strumenti dispone per farvi fronte chi lo subisce. In una società come la nostra, che sembra essere progettata per gli estroversi, dobbiamo prestare la massima attenzione affinché tutte le minoranze caratteriali siano tutelate, soprattutto in un ambiente particolarmente delicato come quello scolastico.

La standardizzazione dell’apprendimento Dunque, se pur vero che la paura gioca un ruolo cruciale nell’isolamento di un Hikikomori, semplificheremmo il problema pensando che ci sia solo questo. Stiamo infatti parlando di una negatività così forte da essere in grado di abbattere anche quegli obblighi morali e sociali che ci vengono introiettati fin da piccoli attraverso il processo educativo e che vorrebbero la scuola e lo studio come aspetti sacri e irrinunciabili della vita. In Giappone la diagnosi di futōkō (rifiuto della scuola) risulta essere al primo posto tra quelle infantili e adolescenziali (Honjo et al., 1992) e, secondo Tamaki Saitō, circa il 10% di coloro che abbandonano gli studi diventano poi Hikikomori (Pierdominici, 2008). Per quanto riguarda l’Italia, invece, i dati ufficiali del Ministero Dell’Istruzione riportano che il 4,3% degli studenti delle scuole secondarie, tra il 2015 e il 2017 hanno interrotto anzitempo gli studi. Parliamo di 112.240 giovani, per la maggior parte maschi. Un numero impressionante che ci posiziona tra i primi posti in Europa per quanto riguarda questa infelice classifica.

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I motivi che possono portare uno studente ad abbandonare la scuola sono diversi e spesso interconnessi tra loro: predisposizioni caratteriali, difficoltà relazionali, difficoltà familiari, bullismo e molti altri. Proviamo però a spostare il focus dell’attenzione non sulle fragilità del singolo soggetto, ma su quelle del sistema nel suo complesso. Se così tanti giovani decidono che la scuola non fa più parte del proprio progetto di vita, evidentemente qualcosa non funziona. A mio parare, uno dei principali problemi è che la scuola non sembra essere più in grado di stimolare l’interesse degli studenti, soprattutto a causa di una crescente tendenza alla standardizzazione dei processi educativi. Così come nella società, infatti, anche nella scuola si sono innescati diversi meccanismi che favoriscono la soppressione delle predisposizioni personali a favore di percorsi sempre più strutturati sulla base delle esigenze del mercato lavorativo. Per esempio, le materie scientifiche sono considerate da molti come più importanti rispetto a quelle umanistiche, il cui studio avanzato viene spesso scoraggiato dai genitori, dai mass media e talvolta anche dagli insegnanti stessi. La motivazione principale è che le discipline umanistiche sarebbero meno funzionali al fine di trovare un’occupazione remunerativa e stabile. Affermare questo significa, tuttavia, assumere implicitamente che l’aspetto maggiormente rilevante nella vita sia quello di costruirsi una carriera lavorativa di successo, a prescindere dal proprio orientamento personale. Ammesso che ciò sia possibile, si tratta di un’assunzione profondamente rifiutata dagli Hikikomori, in quanto rappresenta l’emblema della società materialistica da cui cercando di fuggire. Le persone hanno per natura un’incredibile varietà di talenti che la scuola dovrebbe cercare di coltivare e valorizzare, mettendo sempre al primo posto il benessere psico-fisico della persona. Quello che succede, invece, è che spesso le predisposizioni personali finiscono per essere soffocate, svalutate, mortificate, facendo sentire molti studenti inadeguati solamente perché costretti sulla strada sbagliata. Al fine di contrastare l’abbandono scolastico si rendono dunque necessari cambiamenti strutturali. La standardizzazione può essere contrastata 66

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solamente favorendo la nascita di percorsi scolastici progressivamente personalizzati, non determinati a priori, bensì modellati sulle caratteristiche personali di ogni singolo individuo. L’obiettivo deve essere quello di supportare gli studenti nell’identificazione e nella valorizzazione dei propri talenti, stimolando il loro desiderio di apprendere e applicarsi in qualcosa che veramente li appassiona: in altre parole aiutarli a trovare una motivazione intrinseca all’agire, che non coincida per forza con i percorsi di vita canonici.

“Cosa non funziona nella scuola?”, parola agli Hikikomori La maggior parte degli Hikikomori, come detto, sembra sviluppato una visione particolarmente negativa della scuola, considerandola spesso come una delle cause principali del proprio status. Ho deciso allora di fare un sondaggio chiedendo ai diretti interessati cosa, secondo il loro parere, non funzionasse nel sistema scolastico italiano. Riporto di seguito le risposte più interessanti.

Sui coetanei... “L’educazione della maggior parte dei giovani è pessima. Ciò li porta ad adottare dei valori di vita falsi (ricchezza, popolarità, moda, ecc.), i quali si diffondono e diventano il criterio per la normalità.” “Spesso mi prendevano in giro e mi denigravano, favorendo il mio isolamento. Nessuno mi chiedeva mai come stessi.” “Parlavo solo con tre persone. Gli altri o mi ignoravano o ridevano di me.” “Mi sentivo esclusa, diversa e lontana dagli altri. Nessuno mi ha mai conosciuta veramente, nessuno si è mai veramente interessata a me.” “Io ho fatto di tutto per ricercare delle amicizie profonde, ma ho soltanto trovato persone egocentriche, incapaci di dire la verità.”

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Da queste citazioni si evince come gli Hikikomori fatichino a identificarsi con i loro coetanei, percependosi come più maturi e sensibili. La principale sofferenza sembra derivare dal disinteresse che i compagni di classe mostrano nei loro confronti, a testimonianza di come la solitudine e l’isolamento non inizi tra le mura di casa, ma già nell’ambiente scolastico: il salto non è poi così netto come potrebbe sembrare a chi osserva dall’esterno. Un altro aspetto che emerge solo parzialmente da questo sondaggio, ma che ho riscontrato essere forte in numerose altre storie, è l’esigenza da parte degli Hikikomori di instaurare legami “profondi”, e rifiutare qualsiasi altro tipo di legame affettivo, percepito come falso o ipocrita. Una volta un ragazzo mi disse: “Per me l’amicizia non esiste, esiste solo l’amore. Io non penso di aver mai provato amicizia.”

Sugli insegnanti… “Spesso ci sono professori severi che camminano sopra le esigenze degli stessi alunni.” “I professori dovrebbero sostenere esami di pedagogia e di scienze dell’educazione.” “Per poter fare il professore si dovrebbero prima sostenere dei test psicologici di idoneità. Per svolgere tale mestiere c’è bisogno di molta pazienza, professionalità e capacità di far interessare le persone.” “Pensavano che avessi dei problemi perché non interagivo mai con loro, se non sotto sollecitazione.” “Penso che se ci fosse stato qualche professore veramente di valore nel mio percorso scolastico, oggi sarei potuta essere migliore.”

Queste citazioni confermano la visione fortemente negativa che gli Hikikomori, spesso, hanno nei confronti degli insegnanti. In particolare, sembrano soffrire particolarmente l’assenza di un contatto umano che 68

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vada al di là della semplice trasmissione di competenze. L’esigenza che emerge è quella di evolvere la figura dell’insegnante e di dotarlo di maggiori strumenti psicopedagogici, in modo tale che questo sia in grado di rapportarsi efficacemente ed empaticamente con i propri alunni, cogliendone le fragilità psicologiche e supportandoli nelle carenze scolastiche e umane. Ci tengo a precisare, però, come  non tutte le risposte che mi sono pervenute fossero negative. Alcuni hanno raccontato di aver ricevuto adeguato supporto dagli insegnanti, oppure di non aver nulla da recriminare sul loro comportamento.

Sulle materie... “Cambierei la poca flessibilità nella scelta dei vari indirizzi scolastici.” “Inserirei una materia nella quale si studia come star bene.” “Bisognerebbe dare maggiore importanza a materie come la letteratura e la filosofia per appassionare di più i ragazzi alla lettura.” “Oggi si ha bisogno di imparare a vivere, senza produrre danni al pianeta.”

Anche qui emerge un’esigenza forte e concreta: quello che questi ragazzi chiedono in coro alla scuola è di insegnare loro ad affrontare la vita. Manifestano l’esigenza di un apprendimento trasversale, che non sia solo nozionistico, ma che fornisca strumenti concreti per gestire le sfide quotidiane e per migliorare come essere umani nella propria totalità. Per fare questo è necessario dare più spazio a temi fondamentali per la crescita dell’individuo, come la sessuologia, l’alimentazione, l’educazione ambientale, il rapporto con le nuove tecnologie e con l’altro in generale, solo per fare alcuni esempi. Inoltre, sarebbe utile ampliare il concetto stesso di “materia”, offrendo la possibilità di scegliere tra svariate discipline non convenzionali a livello di scuola media o superiore, come la fotografia, la danza, la moda, la recitazione, la musica e tutte le possibili 69

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forme di espressione e creatività. L’errore più grande sarebbe pensare che queste siano sacrificabili, in quanto poco utili a entrare nel mondo del lavoro, eppure non esiste un apprendimento fine a se stesso. Lo studio delle materie umanistiche, per esempio, può aiutare l’individuo a sviluppare competenze essenziali per comprendere la propria natura, dominare il proprio caos esistenziale e costruire una solida struttura identitaria.

Sul metodo... “L’attribuzione dei voti e il sistema di integrazione forzata portano le persone più introverse a isolarsi.” “Abbiamo un sistema scolastico troppo mnemonico e nozionistico, per cui prendere voti alti non è indice di vera e propria competenza o intelligenza, ma di buona memoria.” “La scuola sembra avere come principale scopo quello di formare persone col maggior numero di competenze per prepararle alla guerra del lavoro. Eppure così facendo si perde di vista quella che, secondo me, è la cosa più importante, ovvero formare persone, sì competenti, ma soprattutto felici o quantomeno che stiano bene.” “La scuola è assoggettata alle richieste del mercato e della società, che oramai si basano su principi di efficienza o raccomandazione, perciò non pensa più alla formazione personale, educativa e psicologica dell’individuo.” “La scuola dovrebbe essere un posto aperto tutto il giorno e a tutti.”

Queste citazioni confermano quanto detto sopra e rafforzano la richiesta da parte dei ragazzi di una scuola che non sia al servizio esclusivo del modello sociale attuale, ma che, al contrario, abbia la forza di guidarne i mutamenti, contrastando quelle che sono le logiche imposte dal mercato. In altre parole, i giovani chiedono alla scuola di avere più coraggio. 70

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Emerge anche una critica al sistema basato sui voti, la cui efficacia è da tempo oggetto di discussione, eppure ad oggi, salvo alcune rare eccezioni, rimane il principale metodo adottato a livello mondiale. In particolare nel Nord Europa, si stanno da tempo sperimentando modelli alternativi che non prevedono valutazioni. Anche nel nostro paese esistono dei progetti simili, ma rimangono casi del tutto isolati e appartenenti al settore privato. L’ultima citazione, invece, sembra auspicare un ripensamento dell’ambiente scolastico a partire dal concetto di spazio. Soprattutto in Italia la scuola è percepita come un luogo transitorio, dagli orari rigidi, che non si vede l’ora di abbandonare non appena suona la campanella. Dobbiamo avere la capacità, invece, di immaginare una scuola flessibile e inclusiva, un luogo che non sia esclusivamente finalizzato all’apprendimento, ma uno spazio da vivere a 360 gradi, dove sia possibile cimentarsi in attività ludiche, sportive e dove poter coltivare le proprie passioni. Con il passare degli anni tutti i limiti del sistema scolastico attuale si ripercuotono negativamente sulle dinamiche sociali e ne stiamo già pagando le conseguenze. Quella degli Hikikomori è una protesta silenziosa, ma nasconde significati profondi. Un rifiuto netto e totale, che non può essere di certo risolto con un semplice intervento sul singolo, cercando magari di convincerlo in tutti i modi a ritornare in quell’ambiente che è per lui fonte di grande sofferenza e che ritiene essere il riflesso del malfunzionamento di una società nella quale non si riconosce più. La scuola gioca dunque, nel bene o nel male, un ruolo cruciale nella diffusione del fenomeno degli Hikikomori e, nonostante tutte le difficoltà dovute alla continua mortificazione e svalutazione del ruolo dell’insegnante, nonché alla mancanza di risorse economiche, dovrebbe attrezzarsi in tutti i modi per fare fronte al problema. Conoscerne le dinamiche è il primo fondamentale passo per poterlo contrastare, essendo in grado di identificare prontamente i soggetti a rischio e attivandosi tempestivamente nel loro supporto e in quello dei loro parenti. Per esempio, sarebbe utile consigliare alla famiglia di non esercitare pressione sull’Hikikomori affinché ritorni subito a scuola, in quanto,  una volta che l’isolamento 71

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dell’alunno si è ormai concretizzato, ed egli non vuole saperne di tornare sui suoi passi, forzarlo non servirà a nulla, se non ad aggravare la sua sofferenza e il conflitto intrafamiliare, aumentando contestualmente anche il rischio di cronicizzazione. Al contrario, è necessario pianificare un percorso di recupero graduale dove il ritorno alla frequenza scolastica rappresenta il punto di arrivo e non quello di partenza. Essenziale anche che la scuola si dimostri flessibile sulle forme di istruzione alternativa, ad esempio, offrendo la possibilità di sostenere verifiche a domicilio o al di fuori dell’orario scolastico, oppure sfruttando maggiormente gli strumenti digitali, come le interrogazioni via Skype. Aiutare lo studente che si isola a non perdere l’anno di scuola rappresenta spesso un fattore chiave in grado di fare la differenza in termini positivi sul medio-lungo periodo. Al contrario, una bocciatura rischia di aggravare la sua sensazione di fallimento e sconfitta, rendendo il processo di recupero sensibilmente più complesso. L’Hikikomori dovrebbe dunque essere interpretato come un’opportunità di crescita per la nostra società, in generale, e per la scuola, in particolare. Ascoltare la loro protesta e comprendere le motivazioni del loro disagio, può aiutarci a correggere quello che non funziona, progettare forme alternative di istruzione, aprirci a nuove modalità di insegnamento, più flessibili e che tengano conto delle enormi differenze esistenti tra le persone. Ribadiamolo nuovamente: il compito della scuola non è quello di standardizzare, ma piuttosto di  valorizzare i singoli talenti  che ogni essere umano possiede. Se le cose non dovessero cambiare, l’abbandono scolastico sarà destinato a crescere drammaticamente nei prossimi anni, e ci ritroveremo a chiederci, per l’ennesima volta, dove abbiamo sbagliato.

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6 Le possibili soluzioni L’esperienza giapponese Quando sui social network si parla di Hikikomori è comune leggere commenti che inneggiano a soluzioni violente, come, ad esempio, “Tirateli fuori a calci!”, oppure “Staccategli internet e vedete come escono!”. La prima reazione potrebbe essere quella di classificare tali uscite come frasi fuori luogo dette da persone che non hanno la motivazione, o le capacità, per approfondire il fenomeno, fermandosi alle apparenze. Non dobbiamo però abbassare troppo la guardia poiché esiste il forte rischio che l’aggressività verbale si traduca in un’aggressività concreta e reale. In Giappone le forme di violenza nei confronti degli Hikikomori sono infatti aumentate esponenzialmente negli ultimi anni, generando un business da milioni di euro. Sono nate delle vere e proprio figure specializzate che hanno il solo compito di portare fuori il ragazzo isolato dalla sua stanza, con le buone o con le cattive. In gergo vengono definiti “Estrattori di Hikikomori”. Si tratta di professionisti che ricevono decine di migliaia di euro da parte delle famiglie con figli ritirati, il cui obiettivo è quello di persuadere il soggetto a uscire dalla stanza e portarlo a frequentare un centro riabilitativo. Inizialmente usano tecniche psicologiche, ma quando queste non funzionano, buttano giù la porta della stanza dove l’Hikikomori si è rifugiato e lo portano fuori con la violenza. I centri sono spesso dislocati tra le montagne oppure oltremare, come fossero delle vere e proprie prigioni, in modo tale che gli Hikikomori non possano scappare facilmente. Si tratta di un business in forte crescita, iniziato nei primi anni Duemila, il cui obiettivo è quello di espandersi anche all’estero.

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Il 22 Maggio 2017, a Tokyo, si è tenuta una conferenza stampa per informare sui pericoli di questa dilagante pratica. Durante l’evento è stata raccolta anche la testimonianza di una madre pentita, la quale, in preda alla disperazione, dopo l’ennesimo litigio con la figlia Hikikomori, ha cercato aiuto su internet e si è imbattuta nel sito di una di queste organizzazioni. Nei giorni successivi alla firma del contratto, si sono presentate a casa sua otto persone, hanno preso la figlia con la forza e caricata su un’autovettura senza nessun tipo di informazione. Dopo tre mesi le è stato permesso di tornare a casa. Secondo il suo racconto, sarebbe stata condotta in una struttura spoglia, privata di tutti gli effetti personali e controllata a vista, giorno e notte. La madre, allarmata dalle condizioni nelle quali versava la figlia, ben lontana dall’aver recuperato la propria indipendenza, decise di fare causa all’organizzazione, il cui “servizio” le era costato la bellezza di 5,7 milioni di yen, circa 45 mila euro. Tutte queste informazioni mi sono state riportate da Vosot Ikeda, Hikikomori giapponese di mezza età, che da alcuni anni collabora con il giornale online indipendente denominato Hikikomori News, fondato sempre da un ex Hikikomori, Naohiro Kimura, con l’obiettivo di sensibilizzare la nazione sulla problematica. Chi lavora a questo progetto lo fa perché crede che l’informazione veicolata dai mass media circa l’isolamento sociale non sia veritiera e dipinga spesso gli Hikikomori come dei soggetti pigri, incompetenti oppure violenti. L’intento è allora che siano gli stessi Hikikomori a prendere la parola attraverso la scrittura, raccontando tutto quello che ritengono essere utile per cambiare la concezione pubblica esistente sul problema e per mettere in guardia dalle possibili strumentalizzazioni del fenomeno, tra cui appunto vi sono anche le organizzazioni violente di cui abbiamo parlato in precedenza. Affinché queste non trovino terreno fertile nel nostro paese, è fondamentale anche per noi continuare a fare corretta informazione sull’Hikikomori, ribadendo come le soluzioni rapide e coercitive difficilmente portino a dei benefici sul lungo periodo. Soprattutto nei momenti di maggiore sconforto, quando qualsiasi altra soluzione sembra portare in un vicolo cieco, le famiglie diventano vulnerabili a questa tipologia di proposte. Tali 74

Le possibili soluzioni

organizzazioni, infatti, approfittano dello stato di confusione, solitudine e sofferenza di chi si trova a vivere con un figlio ritirato, al solo fine di ottenere profitto. Ribadisco però che,  essendo l’Hikikomori una scelta profondamente radicata nei valori e nel vissuto dell’individuo, ha bisogno necessariamente di tempo per essere modificata. Non esistono soluzioni rapide e miracolose: per aiutare un Hikikomori serve molta pazienza. Bisogna comprendere le sue paure e riportarlo gradualmente alla vita sociale, agendo sul singolo, sulla famiglia, ma anche sull’ambiente sociale che lo circonda. A tal proposito, riporto alcuni esempi virtuosi, come quello di Fujisato, una cittadina di montagna situata nel nord del Giappone, nella prefettura di Akita, la quale conta circa 3.500 abitanti, di cui però solo il 45% sono residenti locali. La restante parte è composta da visitatori provenienti da ogni parte del paese interessati a studiare i metodi utilizzati dall’amministrazione locale per fare fronte al fenomeno degli Hikikomori. Nello spazio di cinque anni, infatti, l’80% dei ragazzi isolati della città sono stati reintegrati socialmente, come riportato dal The Japan News in un articolo del 2017. A Fujisato del fenomeno degli Hikikomori si sono accorti quasi per caso. Gli assistenti sociali che si recavano nelle case degli anziani per aiutarli si resero conto che, in molte occasioni, vi erano giovani in età lavorativa, sempre presenti, anche durante il giorno. In un’indagine successiva scoprirono che il 9% degli abitanti della città, tra i 18 e i 54 anni, erano Hikikomori e molti di loro avevano più di 40 anni. Per fare fronte a questa emergenza sociale l’intera cittadina fu coinvolta nel processo di cambiamento. Gli abitanti si premurarono di  creare luoghi che i reclusi potessero frequentare e nei quali potessero avere un ruolo attivo. Venne, per esempio, realizzata una sala da pranzo dove gli Hikikomori potevano imparare a cucinare e a servire i clienti, oppure fu progettato un corso per chi desiderava diventare assistente sociale. Prese vita anche quello che fu denominato “Fujisato Experience Program”, che consisteva in una serie di attività lavorative nelle quali gli Hikikomori avevano l’occasione cimentarsi per un periodo di tempo limitato, da un minimo di tre giorni a un massimo di tre mesi. Tale impostazione consentiva di abbattere enormemente la barriera psicologica in 75

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ingresso, dal momento che gli Hikikomori sono consapevoli della propria volubilità e temono gli impegni lunghi e vincolanti. Periodicamente tutte le famiglie di Fujisato ricevevano una comunicazione direttamente a casa riportante tutte le iniziative e gli eventi pensati per i soggetti isolati. Molti Hikikomori, ormai ex, hanno dichiarato di aver beneficiato moltissimo di questa esperienza in quanto ha dato loro modo di sperimentare “una nuova prospettiva di vita”, che non avrebbero potuto vivere stando all’interno della propria abitazione. Questo programma di intervento produsse anche un cambiamento nella percezione che l’intera comunità di Fujisato aveva nei confronti degli Hikikomori, inizialmente visti come individui strani o fannulloni, mentre dopo che molti di loro ebbero l’opportunità di dimostrare il proprio valore nelle diverse attività lavorative, iniziarono a essere riconosciuti come un patrimonio importante della città. Mayumi Kikuchi,  il responsabile di queste iniziative, dichiarò:  “Se consideriamo l’esclusione sociale come un problema solo degli Hikikomori, non lo risolveremo mai. Noi stiamo creando un posto migliore per tutti” (The Japan News, 2017). Emblematico il caso di Tsukasa Hatakeyama, quarantacinquenne di Fujisato, il quale, durante un’intervista (The Japan News, 2017), racconta la sua storia di reclusione durata ben 29 anni: “Sono tornato nella società un mese fa. Dopo aver subito bullismo alle elementari e alle scuole medie, ho attraversato un periodo di sfiducia nei confronti dell’umanità. A 16 anni, solo tre mesi dopo essermi iscritto, abbandonai la scuola e trascorsi i 29 anni successivi all’interno della mia casa. Passavo il mio tempo online, giocando ai videogiochi o guardando la TV. Andavo a letto verso le 5:00 di mattina e mi svegliavo alle 4:00 del pomeriggio. Cucinavo riso e cenavo insieme alla mia famiglia. I weekend qualche volta andavamo fuori a mangiare. Ho sempre pensato di uscire, di lavorare e di superare la mia difficoltà nel parlare con altre persone, ma non riuscivo a fare il primo passo perché non avevo idea di come sarebbe potuta andare.

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Le possibili soluzioni Litigavo spesso con mio padre, il quale insisteva che la mia condizione non poteva durare per sempre e si preoccupava di quello che mi sarebbe potuto succedere. Mi chiedeva di considerare anche quello che sarebbe successo una volta che lui fosse morto. Mia madre, invece, non disse mai una parola sulla mia condizione, mentre mio fratello più giovane mi rimproverava spesso. Dopo queste discussioni mi sentivo sempre depresso. Divenni irascibile, iniziai a tirare libri e a prendere il mio letto a calci. Tre anni fa un assistente sociale cominciò a venire a casa mia portando dei volantini con i corsi disponibili in città.  Inizialmente rifiutai qualsiasi cosa, sostenendo che fosse troppo difficile, oppure dicendo che avevo paura a interagire con altre persone. Tuttavia, in seguito, cominciai a interessarmi a quello che accadeva in città. Prima di quel momento non avevo idea di cosa succedesse a Fujisato e non sapevo del progetto di supporto in atto. Cominciai a pensare a come potevo rendermi utile per le altre persone. Data la mia passione per le auto, mi immaginai di poter fare il meccanico. La morte di mio padre, alla fine, mi costrinse a interrompere la reclusione. Circa una settimana dopo la sua dipartita, un altro assistente sociale venne a farmi visita. Mi fu subito chiesto se desideravo partecipare a un’esperienza lavorativa che si sarebbe tenuta nei giorni seguenti. Io risposi: ‘Sì, sì, verrò!’, ma ero preoccupato perché non avevo idea di cosa si trattasse. Quando feci ritorno nella società iniziai a sentirmi più leggero. Divenni meno irritabile. Il mondo attorno a me sembrava completamente differente. Sento come di aver perso qualcosa in questi 29 anni.”

Sempre nella prefettura di Akita, precisamente nella città di Daisen, è nata un’altra iniziativa degna di nota finalizzata al reinserimento sociale degli Hikikomori: una caffetteria dove lo staff è interamente composto da persone che soffrono di isolamento sociale. La particolarità di questo luogo è che non esiste una vera e propria gerarchia, non ci sono regole scritte e vige un assoluto spirito cooperativo. Anche l’ultimo arrivato può da subito rendersi utile, cominciando dalla mansione che riesce più facil77

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mente a svolgere, senza alcun tipo di pressione. Chi si trova nel progetto da più tempo riceve anche uno stipendio, il quale gli permette di guadagnare una maggiore indipendenza dalla famiglia, nonché percepirsi come maggiormente responsabilizzato e coinvolto nelle attività svolte. Nell’estate del 2018 ho avuto il piacere di incontrare a Milano Roseline Yong, la fondatrice della caffetteria in questione, la quale mi ha raccontato come è arrivata a ideare tale progetto. Di origini malesi, durante gli studi universitari si interessa al crescente fenomeno dei suicidi in Giappone che la porta a svolgere un dottorato sul tema all’Università di Tokyo. Successivamente inizia il lavoro di ricercatrice ad Akita, una delle aree col tasso di suicidi più alto di tutto il paese. Qui studia e approfondisce il fenomeno degli Hikikomori, condizione da lei stessa sperimentata durante gli anni universitari. Fino al 2013, quando decide di aprire con i suoi fondi personali “Flatō”, questo il nome della caffetteria, il quale deriva dal termine inglese flat, ovvero “piatto”, proprio per esprimere l’assenza di gerarchia. Si tratta sostanzialmente di un gruppo di mutuo-aiuto tra pari, senza barriere di ingresso e a cui è possibile accedere in qualsiasi momento. Uno spazio non medicalizzato dove l’Hikikomori non ha la sensazione di essere inserito all’interno di un programma di recupero, bensì all’interno di una famiglia allargata che non lo pressa in alcun modo e da cui si sente accettato nonostante le proprie fragilità. Anche la concezione di Hikikomori non è quella rigida espressa dal governo giapponese, ma viene considerato tale chiunque soffra per la propria condizione di isolato sociale e desidera uscirne, a prescindere da quanto questa sia profonda o duratura nel tempo. Tutti i clienti che frequentano la caffetteria sanno del progetto e cercano di supportarlo attraverso la propria presenza. Ci sono anche diversi medici, psicologi e ricercatori che vi si recano con l’intento di entrare in contatto con gli Hikikomori e comprenderne il disagio. “Qui sono i ragazzi a insegnare ai medici e non viceversa”, mi racconta soddisfatta Roseline. Si tratta dunque di uno spazio libero, ma allo stesso tempo protetto, dove gli Hkikomori possono ritrovare il piacere del contatto diretto con 78

Le possibili soluzioni

le altre persone, gradualmente e secondo il proprio livello di competenze sociali. Visti gli ottimi risultati ottenuti, il progetto è stato in parte finanziato anche dal governo e potrebbe essere presto replicato in altre città nipponiche. In realtà in Giappone esistono già da tempo diversi centri dalla struttura comunitaria dedicati all’Hikikomori, con la differenza che per accedervi è necessario versare un contributo. Questo aspetto, che potrebbe sembrare scontato e secondario, rappresenta invece una forte barriera d’ingresso, non solo per il costo effettivo del servizio, ma anche da un punto di vista psicologico. La maggior parte degli Hikikomori, infatti, soffre particolarmente il fatto di pesare sulle casse della famiglia e non accetterebbe mai di intraprendere un percorso che richieda un grande esborso economico da parte dei genitori. Ho riscontrato tale aspetto in molte delle storie con le quali sono venuto in contatto anche in Italia. Tra le comunità di Hikikomori più famose in Giappone vi è sicuramente la “New Start”, un’organizzazione no profit fondata dai coniugi Futagami con sede a Tokyo, al confine con la prefettura di Chiba. Il loro metodo consiste nel persuadere gli Hikikomori a lasciare la propria abitazione per recarsi nei centri da loro gestiti, il cui scopo è quello di favorire un lento e graduale reinserimento nella società.  Il metodo più utilizzato in questo senso è quello delle rental sister, che significa letteralmente “sorelle in prestito”. Si tratta di ragazze volontarie che si presentano a casa del soggetto isolato e cominciano a stabilire con lui un primo contatto attraverso la porta chiusa, talvolta comunicando solamente tramite un cellulare, oppure attraverso dei bigliettini. L’obiettivo è quello di instaurare un grado di empatia e di fiducia sempre maggiore, fino al convincimento del ragazzo. Tale processo può durare, tuttavia, anche diversi anni e non sempre i buoni propositi bastano.  Circa il 30% dei ragazzi avvicinati dalle  rental sister  decide di non lasciare la propria stanza, mentre un 10% inizia il programma di recupero, salvo poi far ritorno alla vita da ritirato sociale (Jones, 2006). Questi dati potrebbero essere migliori nel caso in cui il primo contatto fosse affidato a professionisti qualificati? Il dubbio è più 79

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che lecito. Lo stesso Tamaki Saitō, in un’intervista manifesta tutte le sue perplessità sull’efficacia del lavoro delle rental sisters, in quanto, nonostante la buona volontà e l’impegno ammirevole, queste non hanno alcuna preparazione specifica (Pierdominici, 2008). La “New Start” aveva una sede anche a Roma, ma è stata successivamente chiusa. Sono comunque riuscito a entrare in contatto con due volontarie italiane che hanno lavorato per l’organizzazione e mi hanno raccontato alcuni dettagli interessanti del suo funzionamento. Innanzitutto, gli italiani che accedendo alla “New Start” si impegnano a svolgere per quattro giorni alla settimana dei lavoretti chiamati shifto, che consistono nell’affiancare i ragazzi Hikikomori in mensa, in panetteria, al bar o al centro anziani. In genere si tratta di turni di 5-6 ore al giorno. In più è richiesta la loro presenza durante almeno tre pasti settimanali. La cosa più interessante è che nessuno all’interno dell’associazione indossa una divisa o un cartellino identificativo. Questo avviene con il preciso intento di non creare una netta distinzione tra i membri dello staff e gli Hikikomori, ponendosi tutti sullo stesso livello. Esiste invece una gerarchia informale basata sull’anzianità per cui l’ultimo arrivato, se ne ha bisogno, si consulta con chi è da più tempo nell’associazione, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo appartenga allo staff o meno. Il personale medico coinvolto è sempre esterno. Oltre alle iniziative citate finora, di natura essenzialmente privata, è importante sottolineare come anche il governo nipponico, negli ultimi anni, si stia muovendo per far fronte alla crisi sociale rappresentata dagli Hikikomori, arrivando a istituire oltre cinquanta centri di supporto specializzati distribuiti su tutto il territorio. I servizi offerti vanno dalla consulenza telefonica per le famiglie, alla creazione di spazi di incontro dedicati ai soggetti isolati, fino al supporto nell’inserimento lavorativo (Kato et al., 2018).

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Le possibili soluzioni

La tecnica dell’open dialogue Quando gli Hikikomori arrivano a tagliare i rapporti con gli stessi genitori, significa che questi sono arrivati a essere percepiti come una fonte di pressione sociale, esattamente come accade per la scuola e per i coetanei. Eppure, anche quando gli stessi genitori comprendono questo importante aspetto e riescono a limitare quasi completamente la pressione esercitata sul figlio, interagire efficacemente con lui rimane un compito molto arduo. Partiamo col dire che la comunicazione genitore-figlio è sempre stata difficoltosa, su questo ci sono pochi dubbi. Far parte di due generazioni diverse significa essere nati e cresciuti in un contesto differente che ha portato, di conseguenza, a sviluppare una visione del mondo difforme. Ci troviamo tuttavia in un periodo storico nel quale questo gap risulta particolarmente esasperato come forse mai nella storia dell’uomo. Uno degli aspetti centrali che ha contribuito a generare tale barriera è sicuramente l›esplosione e la rapida diffusione delle nuove tecnologie, le quali, nel giro di pochissimi anni, sono state in grado di rivoluzionare profondamente l’esistenza dell’essere umano. Chi è nato con tali tecnologie, ovvero i cosiddetti “nativi digitali”, ha una serie di competenze informatiche innate che le generazioni analogiche non possono naturalmente avere, a volte nemmeno con anni di studio e pratica. I più giovani sono profondamente influenzati dall’universo online, che esplorano e padroneggiano con grande facilità, al contrario dei più adulti che riescono a penetrarlo solo in superficie. Ci sono interi mondi particolarmente centrali nella vita dei figli, i quali sono invece completamente sconosciuti per i genitori, come ad esempio quello dei videogame. Son ben pochi i genitori che possono dire di conoscere realmente i giochi con i quali loro figlio passa numerose ore al giorno. Tale ignoranza porta a una banalizzazione e a una svalutazione del non conosciuto, ed è così che le più grandi passioni dei giovani vengono catalogate dagli adulti come delle “perdite di tempo”, senza alcuna dignità di essere approfondite.

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Ciò comporta che i figli si sentano giudicati e rinuncino, completamente o quasi, a condividere le proprie attività online con i genitori per paura di essere criticati o sminuiti. Siccome per un Hikikomori le attività virtuali costituiscono la quasi totalità delle attività quotidiane, capite bene come questa loro rinuncia abbia un grande impatto sulla comunicazione interna alla famiglia. Un problema non da poco, se pensiamo che i genitori rappresentano spesso gli unici interlocutori con i quali gli Hikikomori possono avere interazioni sociali dirette. Quella appena descritta rappresenta una barriera generazionale piuttosto conosciuta e manifesta, di cui si parla spesso. Eppure, ne esiste almeno una seconda, altrettanto impattante, ma decisamente più oscura e trascurata. Come detto anche nel paragrafo precedente relativo alla depressione esistenziale, le nuove generazioni sembrano riconoscersi progressivamente sempre meno nelle religioni, come ad esempio quella cristiana. Ciò non gli impedisce però di mantenere una propria coscienza esistenziale e di interrogarsi sul significato dell’esistenza o su altri temi fondamentali per il proprio sviluppo, come ad esempio la vita dopo la morte o il principio di moralità. Al contrario, il crollo delle religioni sembra aver avuto come effetto collaterale proprio quello di intensificare la riflessione esistenziale tra i più giovani, i quali sono però lasciati spesso soli in questo delicato compito. Parlare di temi esistenziali nella società odierna, infatti, è diventato quasi un tabù, un po’ perché viene considerata una perdita di tempo, un po’ perché gli stessi temi esistenziali sono ancora inscindibilmente legati alle credenze religiose, per cui diventa difficile affrontarli senza incappare in semplificazioni inaccettabili per chi non ha “fede”. Anche a scuola, per esempio, se ne parla pochissimo. La ragione può essere ricercata anche nella paura, dal momento che ci costringono ad affrontare “l’assurdo”, così come lo definiva Albert Camus, ovvero quella sensazione di apparente illogicità dell’esistenza umana. In generale la società moderna sembra nutrire una solida fiducia nella scienza e nel progresso tecnologico come principali strumenti per elevare la condizione umana, a farne le spese sono perciò gli aspetti esistenziali 82

Le possibili soluzioni

dell’uomo (attenzione, non religiosi), che infatti hanno avuto negli ultimi anni uno sviluppo nettamente più lento rispetto a quelli scientifici, rimanendo relegati spesso a rituali antichi e anacronistici, che stridono con l’evoluzione sociale avvenuta nel frattempo. Un contesto di questo tipo porta inevitabilmente a una repressione della propria esperienza esistenziale, con conseguenze non positive sulla società e sull’individuo. Gestire un conflitto interiore di tale portata senza esternarlo e condividerlo con qualcun altro può rendere molto più difficile la sua elaborazione e la sua razionalizzazione, e finirà talvolta per sopraffare e soffocare l’individuo, il quale rimarrà schiacciato senza quasi rendersene conto. Interagendo con diversi ragazzi in isolamento sociale, ho avuto la conferma di questa loro grande predisposizione alla riflessione esistenziale, della quale non parlerebbero mai con i propri genitori, poiché timorosi di non essere capiti, oppure per non allarmarli con un atteggiamento che verrebbe interpretato come “anomalo”. Questa autocensura può allora potenzialmente favorire o aggravare la pulsione all’isolamento, alimentando negli Hikikomori una sensazione di distacco con il resto della società che li porta a percepirsi come diversi e fuori luogo. Per migliorare la comunicazione tra l’Hikikomori e la famiglia, in Giappone si sta cominciando a utilizzare l’Open Dialogue, tecnica sviluppata in Finlandia a partire dal 1980, che affonda le sue radici nella teoria dialogica e nella terapia sistemico-relazionale, e che consiste in un coinvolgimento di tutto il nucleo familiare in uno scambio comunicativo libero e senza censure. Tale tecnica è stata utilizzata inizialmente nei casi di esordio psicotico come strumento per ridurre il numero delle ospedalizzazioni e viene oggi sperimentata da Tamaki Saitō anche nei casi di isolamento sociale volontario, con risultati assolutamente positivi. È stato lui stesso a illustrarci, tramite corrispondenza privata avvenuta nel corso del 2018, come si struttura più nel dettaglio una seduta di “Dialogo aperto”. L’Hikikomori, i genitori, lo psicoterapeuta e un suo assistente siedono in cerchio all’interno di una stanza. Il primo a parlare è l’assistente che pone al soggetto ritirato una domanda aperta, alla quale 83

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non è possibile rispondere solo con un “sì” o un “no”. I genitori ascoltano la risposta senza intervenire, finché non arriva il loro turno di parola e possono esprimere il proprio pensiero circa le parole del figlio. Al termine di ogni scambio, lo psicoterapeuta e l’assistente commentano tra loro quanto emerso, senza giungere a conclusioni di nessun tipo e non ponendosi come esperti nei confronti dei pazienti. Affinché il dialogo sia efficace, a tutti i partecipanti deve essere garantito il giusto tempo per esprimersi, riservandosi anche l’opportunità di cambiare idea. Non vi è nessun tentativo di persuadere l’altro, poiché nella persuasione la conclusione è già stata raggiunta e la discussione che ne scaturisce ha più le caratteristiche di un monologo. Lo scopo dell’Open Dialogue non è quello di convincere l’Hikikomori a modificare il comportamento, bensì comprendere la sua condizione e riattivare la comunicazione con i genitori. Senza questo step qualsiasi altro intervento rischia di rivelarsi inefficace o controproducente, compresa la psicoterapia che, quando attivata esclusivamente sul soggetto isolato, e non coinvolgendo tutto nucleo familiare, si è dimostrata spesso di scarso aiuto nel trattare i casi di Hikikomori, come è emerso anche dalle tante testimonianze provenienti dai genitori dell’associazione Hikikomori Italia.

Buone prassi e comportamenti da evitare Avere a che fare con un Hikikomori rappresenta un compito delicato per chiunque, si tratti di un genitore, di un insegnante, di un amico o di uno psicologo, dal momento che ci si trova a doversi relazionare con persone profondamente negative, sfiduciate e disilluse. Per non essere respinti è necessario cercare di aggirare le barriere da loro erette nei confronti del mondo sociale, evitando qualsiasi tipo di forzatura o atteggiamento supponente, ma ponendosi come degli interlocutori empatici e non giudicanti. Il grande paradosso dell’Hikikomori è che spesso i genitori sono più soli dei figli stessi. La maggior parte di loro di loro arriva nel gruppo

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Le possibili soluzioni

Facebook di Hikikomori Italia in uno stato di panico e confusione. Sentono di averle provate tutte, senza tuttavia essere riusciti a migliorare la condizione del figlio, al contrario, la sensazione è che più si prodigano per aiutarlo e più le cose non fanno che peggiorare. Provano una sensazione di impotenza che li scarica di ogni energia e li porta a perdere la speranza in una possibile risoluzione. Quando entrano nel gruppo, come prima cosa, scoprono di non essere i soli a vivere un tale incubo, riuscendo così a ridurre, almeno in parte, i propri sensi di colpa. Successivamente, iniziano a leggere le centinaia di testimonianze pubblicate dagli altri genitori e cominciano finalmente a comprendere quelli che sono gli elementi comuni del problema e quelle che invece sono le peculiarità che contraddistinguono la propria personale esperienza. La sensazione di sollievo, però, quasi sempre non basta a cancellare quell’ansia soffocante di dover aiutare a tutti i costi e velocemente il figlio isolato, anzi, in alcuni casi viene alimentata da una rinnovata speranza. Eppure, non si rendono conto che è proprio quella stessa ansia a generare ulteriore pressione sull’Hikikomori e a peggiorare il suo stato di isolamento. Sulla base delle esperienze raccolte, il primo consiglio che l’associazione Hikikomori Italia rivolge ai genitori che la contattano è proprio di allentare, per quanto possibile, tale pressione, in modo che il figlio non si percepisca oppresso anche all’interno della propria abitazione. Infatti, quando l’Hikikomori si sente giudicato per l’inattività, oppure si sente pressato a fare cose che provocano in lui sofferenza, per esempio frequentare amici o altre situazioni sociali, non farà altro che chiudersi sempre di più fino ad arrivare, nei casi più gravi, a tagliare completamente i ponti anche con i familiari stessi. L’aspetto forse più complesso dell’Hikikomori è che i ragazzi isolati spesso negano categoricamente di avere un problema e, di conseguenza, rifiutano qualsiasi tipo di supporto. La domanda che viene allora spontaneo porsi è la seguente: “Come si aiuta chi non vuole essere aiutato?” Sappiamo bene che un genitore che percepisce il figlio in difficoltà non potrà mai far finta di niente, anche se quest’ultimo sembra respin85

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gerlo con tutte le sue forze. Dietro quell’atteggiamento duro e orgoglioso si nasconde infatti una persona che soffre profondamente e che desidera stare meglio, ma non sa come. Una persona che si sente incompresa nel proprio disagio e che ha smarrito la fiducia nel rapporto con il prossimo, una persona che non riesce a trovare alcuna motivazione all’agire e lotta inconsapevolmente alla ricerca di un equilibrio esistenziale, di uno scopo che valga la pena di essere perseguito. Per tutti questi motivi, riuscire ad aiutare un Hikikomori rappresenta un’ardua sfida. Non esistono azioni che offrono garanzia di successo, ma, sulla base delle esperienze raccolte tramite i genitori dell’associazione Hikikomori Italia, sembra esistere un approccio mentale che, se interpretato correttamente e pazientemente, può creare i giusti presupposti per il cambiamento. In generale, la prima cosa da ricordare quando si vuole aiutare qualcuno è che non lo si sta facendo per se stessi. Può sembrare un’affermazione banale, ma la sua applicazione non è sempre così scontata. Pensando al caso concreto di un Hikikomori, l’obiettivo non deve essere quello di spingerlo a vivere la vita che noi riteniamo essere migliore per lui, ma supportarlo nel trovare la sua personale strada, quella che ci auspichiamo possa renderlo più sereno, anche qualora non dovesse corrispondere con il nostro modello di vita ideale o a quello della società. Tendenza comune è di dare per scontato che ciò che ha funzionato nella nostra esperienza, funzionerà sicuramente anche per gli altri, ma non è così: ogni storia è unica e non esistono regole universali. In secondo luogo, è importante rimanere consapevoli dell’impatto limitato che le proprie azioni, parole incluse, hanno sul prossimo. Non possiamo agire per conto degli altri e le nostre responsabilità sulle loro scelte sono, giustamente, ridotte. Ognuno è padrone della propria vita, anche un figlio. Fondamentale, inoltre, non sacrificare il proprio benessere personale. Quando si ha un figlio in difficoltà si farebbe di tutto pur di aiutarlo, eppure un atteggiamento di abnegazione rischia di provocare l’effetto opposto in un Hikikomori, il quale si sentirà ancor più pressato e in colpa 86

Le possibili soluzioni

per propria condizione. Bisogna quindi sforzarsi di condurre una vita il più normale possibile, senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d’ordine nell’approcciare qualsiasi caso di isolamento sociale è “pazienza”. Se, come detto, alla base della scelta di isolamento di un Hikikomori vi è una visione negativa delle relazioni e della società, per aiutarlo a modificare questa sua concezione e a recuperare interesse, fiducia e sicurezza nei confronti delle relazioni interpersonali, è necessario un processo lento e graduale. A partire da questo approccio al problema è stato possibile identificare anche una serie di comportamenti e atteggiamenti che, se messi in atto in modo costante e ricorrente, sono in grado di provocare nell’Hikikomori risposte positive con una certa regolarità. Nella nostra quotidiana attività di sensibilizzazione come associazione vengono definite “buone prassi” e possono essere valide non solo per i genitori, ma in generale per chiunque desidera approcciarsi efficacemente con un ritirato sociale, professionisti compresi. La prima consiste nel riconoscere la sofferenza vissuta dall’Hikikomori. Anche se la sua scelta può sembrarci talvolta assurda e incomprensibile, è necessario abbattere le proprie barriere mentali e sforzarsi di comprendere realmente il profondo disagio  che egli sperimenta, senza banalizzarlo o sminuirlo in nessun modo. Allo stesso tempo è importante, come ribadito più volte nel corso di questo testo, cercare di allentare la pressione di realizzazione sociale esercitata inconsciamente su di lui, almeno quella che riusciamo a identificare come proveniente da noi stessi. È del tutto comprensibile che quando un Hikikomori arriva ad abbandonare la scuola o gli amici, la reazione più istintiva e comune da parte dei genitori sia quella di provare a convincerlo in tutti i modi a tornare sui suoi passi. Tuttavia, come detto, questo tipo di atteggiamento rischia solitamente di aggravare la situazione e di produrre l’effetto opposto a quello desiderato, causando la perdita di contatto diretto con il figlio e vanificando così qualsiasi opportunità di supporto. Attenzione però, allentare la pressione non significa evitare a tutti i costi il conflitto, che anzi, se gestito correttamente, può rivelarsi uno strumento decisivo per sbloccare situazioni complesse. La cosa che conta 87

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è che il fine ultimo di tale conflitto sia sempre quello di stimolare un dialogo e una riflessione critica sul problema, non di manipolare le sue intenzioni, forzarlo alla socialità, giudicarlo o farlo sentire in colpa. Bisogna rimanere focalizzati sul suo benessere, senza mai dimenticarsi che la priorità rimane quella di aiutarlo a stare meglio, non quella di recuperare immediatamente la frequenza scolastica o la carriera sociale interrotta. Altro aspetto fondamentale è quello di interpretare il problema a livello sistemico, ovvero come una questione che riguarda tutta la famiglia e, più in generale, la società. Al contrario, approcciare l’Hikikomori quale fosse una problematica esclusivamente del singolo individuo si è rivelato poco funzionale in ottica risolutiva e alimenta nel soggetto isolato la convinzione di essere un problema per chi gli sta attorno. Bisogna quindi cercare di agire su tutti quei fattori, sociali, scolastici o famigliari, che possono avere un impatto sulla condizione di isolamento e non focalizzarsi in modo esclusivo su uno di questi. Per quanto riguarda in particolare gli Hikikomori adulti, è importante che si sentano trattati alla pari e non con un atteggiamento di superiorità, quale fossero eterni bambini che necessitano di essere costantemente educati. Fondamentale, in questo senso, concedere loro gli spazi, l’intimità e l’autonomia decisionale di cui necessitano. Allo stesso tempo, non bisogna essere pronti a soddisfare ogni loro necessità, assumendo un atteggiamento iperprotettivo o assistenzialista. Quando un Hikikomori inizia a isolarsi capita spesso, infatti, che il genitore reagisca istintivamente aumentando il proprio grado di protezione sul figlio. Questo comportamento rischia tuttavia di ostacolare la sua evoluzione psicologica e sociale, impedendogli di razionalizzare correttamente il fallimento e la sofferenza come parte integrante del proprio percorso di vita. Altro comportamento, che consigliamo assolutamente di evitare, è quello di intraprendere azioni coercitive. Per quanto possa essere complessa la situazione di un Hikikomori, utilizzare “il braccio di ferro” non produce quasi mai effetti positivi. L’errore più comune è quello di privarlo forzatamente di internet, interpretandolo come la causa del problema, ma finendo invece per condannarlo a una condizione di isolamento ancor 88

Le possibili soluzioni

più estrema e pericolosa. L’imposizione genera conflitto, distacco e rafforza le reciproche convinzioni, mentre il dialogo rimane l’unica via per produrre un cambiamento positivo. Per fare questo, come detto però,  è necessario sospendere qualsiasi tipo di giudizio sulla decisione di isolamento del soggetto, concentrandosi, invece, sul suo malessere e sulle cause che lo hanno portato a tale scelta. In particolare, quando un Hikikomori percepisce che la persona che si propone di aiutarlo lo considera alla stregua di un malato da curare, automaticamente reagirà con orgoglio e tenderà a respingerla. Risulta invece molto utile cercare di spezzare la sua routine solitaria, provando a coinvolgerlo in attività, anche domestiche, che gli consentano di evadere dai propri schemi e creino una discontinuità rispetto al suo vivere quotidiano. La condizione di Hikikomori è profondamente complessa e mi rendo perfettamente conto che, nella vita di tutti i giorni, mettere in pratica queste azioni non è affatto semplice, talvolta addirittura impossibile. Le variabili da tenere in considerazione sono tante, troppe: ogni storia è a sé e l’approccio corretto varia, nello specifico, a seconda del caso. Tutti i comportamenti descritti nel presente paragrafo devono quindi essere calati sulle specificità del singolo contesto e non adottati acriticamente. Ogni Hikikomori ha le sue peculiarità che lo rendono unico e non inquadrabile all’interno di un pacchetto preconfezionato di azioni. Per questo motivo, è sempre consigliabile evitare l’autogestione e rivolgersi a un professionista che possa monitorare da vicino la situazione e guidare verso un corretto approccio al problema.

Come si aiuta un Hikikomori adulto? Quando un ragazzo in età scolare si isola sono diverse le sinergie che possono essere messe in atto con il mondo della scuola, ma come ci si deve comportare quando il soggetto ritirato è più grande? Gli Hikiko-

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mori adolescenti rappresentano infatti solamente una porzione del fenomeno, mentre ci sono tantissime persone in isolamento sociale che hanno raggiunto un’età per la quale la scuola non è più un riferimento e la sensazione del tempo perso ancora più soffocante. Anche dal punto di vista dei genitori, avere un figlio adulto completamente inattivo rappresenta un motivo in più per essere costantemente in apprensione circa la sua sorte. “Cosa farà quando io non ci sarà più?” è la domanda che continuano a porsi e a cui non riescono a dare una risposta. Senza nemmeno la scuola, le soluzioni possibili sembrano davvero inesistenti. In Giappone, dove, come detto, il fenomeno è esploso negli anni ’80, sono molti gli Hikikomori che si stanno ritrovando senza il supporto dei famigliari, perché deceduti o perché non più in grado di prendersi cura di loro. Proprio in questo ultimo periodo, il governo e l’opinione pubblica si stanno interrogando parecchio su come fare fronte al problema e, almeno momentaneamente, la risposta sembra essere quella di includere questa categoria di ritirati estremi tra i “nuovi poveri”, in modo che possano avere diritto a una pensione d’invalidità. È evidente, però, che si tratti di una soluzione tampone non sostenibile sul medio-lungo periodo. Il sistema di welfare giapponese, pur essendo molto ricco, non può permettersi di mantenere un milione di inattivi per decenni. L’unica soluzione possibile al problema rimane, ovviamente, quella di cercare di reintegrare nel mondo del lavoro quanti più Hikikomori possibile, prima che il sistema pensionistico arrivi inevitabilmente al collasso. In Italia, per il momento, gli Hikikomori over 35 sono decisamente una minoranza, ciononostante anche da noi il problema inizierà a porsi sempre più concretamente con il passare degli anni. I genitori dell’associazione Hikikomori Italia chiedono a gran voce che vengano attivati servizi e forme di supporto a loro dedicate. Un riferimento importante, in questo senso, potrebbe svolgerlo la formazione professionale, creando dei percorsi di inserimento lavorativo agevolati e studiati ad hoc per chi ha una forte carenza di competenze sociali. Si tratterebbe, in ogni caso, di un servizio usufruibile solo da coloro che sono in fase di ripresa e possiedono 90

Le possibili soluzioni

abbastanza risorse interne da tentare un passaggio di questo tipo. Per la maggior parte degli Hikikomori, invece, il salto dalla stanza all’ambiente lavorativo risulterebbe proibitivo, se non addirittura nocivo, poiché un eventuale fallimento darebbe loro la conferma definitiva di non essere in grado di reintegrarsi socialmente. Per evitare di bruciarsi è necessario quindi attendere il momento giusto e non lanciarsi allo sbaraglio. Serve un percorso di avvicinamento graduale, cercando ove possibile un luogo che funga da “palestra” dove potersi allenare e sviluppare le competenze necessarie per il ritorno in società, uno spazio cuscinetto che renda meno brusco il passaggio: sto parlando di una comunità, argomento che affronteremo in modo approfondito nel prossimo paragrafo. Tornando alla questione degli Hikikomori adulti, è chiaro che, da un punto di vista lavorativo e sociale, le condizioni necessarie affinché vengano reintegrati sono completamente differenti da quelle di un Hikikomori adolescente. Tuttavia, per quanto riguarda le modalità di aggancio e l’approccio al problema, ritengo non ci siano particolari discordanze rispetto a quanto detto sinora. In entrambi i casi l’obiettivo ultimo rimane quello di modificarne l’immagine negativa del mondo sociale e aiutarli a rielaborare le loro paure in tal senso, in particolare “la paura del tempo perso”, che spesso blocca proprio quegli Hikikomori che riconoscono di avere un problema e desiderano uscire dal proprio stato di isolamento. In questo caso, la durata effettiva del tempo che si ritiene di aver perso è poco rilevante: potrebbe essere un mese, così come diversi anni, tutto dipende da come viene interpretato soggettivamente. Come detto infatti nel quarto capitolo relativo alle cause, “La paura del tempo perso” non è altro che un inganno mentale, responsabile della fallace convinzione che sia impossibile riprendere in mano la propria vita, a qualunque età. La principale differenza che esiste tra un Hikikomori adolescente e uno adulto, è che il primo avrà probabilmente una visione negativa della socialità recente e quindi più malleabile. Dall’altro lato, invece, l’Hikikomori adulto ha rimuginato da solo per anni sulla sua concezione dell’esistenza, cristallizzatasi per l’assenza di prospettive alternative dovute all’isolamento, e quindi maggiormente interiorizzata e più difficilmente sradicabile. 91

Hikikomori - I giovani che non escono di casa

Lo stesso Tamaki Saitō ci ha confermato che, anche in Giappone, non esiste una sostanziale differenza di approccio al problema a seconda dell’età del soggetto isolato. La chiave rimane sempre quella di costruire una relazione dialogica, così da lui definita, tra l’Hikikomori e la famiglia, senza la quale difficilmente il contatto con la società sarà di nuovo possibile. Anche nei casi più duraturi, dunque, la tecnica di riferimento per Saitō rimane l’open dialogue.

L’importanza della comunità Quando abbandoniamo un luogo familiare per uno a noi sconosciuto, innescheremo automaticamente un processo di adattamento al nuovo ambiente e cercheremo di plasmarlo secondo le nostre esigenze, essendone allo stesso tempo plasmati, esattamente come accaduto nel tempo con l’ambiente che stiamo lasciando. È nella natura dell’uomo crearsi una propria “zona di comfort”, una propria routine. Nonostante l’accezione negativa che hanno ormai assunto tali espressioni nella società contemporanea, si tratta di comportamenti adattivi innati e assolutamente ineluttabili. Può tuttavia capitare che, durante il corso della nostra esistenza,  la routine da noi creata ci conduca in una spirale negativa, inducendoci a percepire la realtà sempre dallo stesso punto di vista e provocando un grave appiattimento dell’esperienza. È in questo momento che dobbiamo trovare la forza per allontanarcene, per fuggire dalla prigione che noi stessi ci siamo creati e ricostruire una nuova routine, che ci porterà in contatto con cose, persone e ambienti diversi. Svilupperemo, in questo modo, dei pensieri e delle sensazioni discontinue rispetto a quelle a cui siamo abituati, mutando di conseguenza il nostro modo di percepire l’esistenza. L’Hikikomori, trascorrendo quasi tutto il suo tempo nel medesimo spazio e ripetendo in modo circolare le medesime attività, si costruisce quindi una visione della realtà che finisce per appiattirsi e apparirgli come l’unica possibile. Immaginiamo allora per un momento di prenderlo e

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Le possibili soluzioni

di trasportarlo in un altro luogo, che non abbia più le caratteristiche dell’ambiente-stanza, ma delle peculiarità completamente diverse. Come qualunque altra persona privata improvvisamente del proprio “habitat”, l’Hikikomori vivrà con grande sofferenza questo cambiamento, poiché si troverà a dover ricostruire completamente la propria zona di confort. Proverà disagio e sentirà la mancanza delle attività che in precedenza rappresentavano per lui una fonte di piacere, dimenticandosi quasi completamente di quegli aspetti che invece lo facevano stare male. Tuttavia, essendo costretto a intraprendere delle attività differenti, verranno a generarsi in lui, come detto, anche una serie di pensieri, riflessioni e interpretazioni della realtà discontinue rispetto al passato. Tale cambiamento avviene sia quando siamo costretti a variare l’ambiente per periodi prolungati, avendo tempo di ricreare completamente una nuova zona di comfort, per esempio quando ci si trasferisce in un’altra città, ma  si innesca anche per periodi più brevi, ad esempio quando partiamo per una vacanza. Al rientro proveremo inevitabilmente una sensazione di familiarità, che non è dovuta solamente alla componente fisica dell’ambiente ritrovato, ma soprattutto dal fatto che stiamo reinserendo repentinamente il nostro essere in una routine che avevamo in gran parte modificato nel corso della nostra permanenza esterna. Ho fatto l’esempio di una vacanza, ma può essere anche un viaggio di lavoro o di studio: non importa lo scopo per il quale abbandoniamo il nostro mondo, il meccanismo adattivo si innesca automaticamente, dal momento che fa parte dell’istinto di sopravvivenza. Questa riflessione, declinata sul caso specifico degli Hikikomori, avvalora la necessità di creare degli spazi che permettano al soggetto isolato di poter variare il proprio ambiente, qualora ne sentisse l’esigenza. Delle comunità, o meglio delle “palestre sociali”, idealmente accessibili 24 ore su 24, senza nessun vincolo di frequenza e orario, dove l’Hikikomori può trascorrere tutto il tempo necessario a modificare irreversibilmente la propria routine tossica fino a non sentirne più l’attrazione.

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Essenziale, tuttavia, la volontarietà dell’atto. Qualcuno potrebbe infatti erroneamente pensare che una soluzione possibile sia quella di prelevare a qualunque costo il soggetto isolato, anche con la forza, e portarlo nella comunità. Come detto in precedenza, questa pratica avviene, purtroppo, già da diversi anni in Giappone e, non solo rappresenta una pratica barbara che viola la libertà personale, ma rappresenta anche un potenziale rischio per chi ne è vittima.  La coercizione raramente restituisce dei risultati positivi con gli Hikikomori poiché non fa altro che confermare la sfiducia che nutrono nei confronti del prossimo e della società, rafforzando anche l’idea di un percorso di vista imposto loro senza alcuna libertà di scelta. Dunque, affinché il cambio di ambiente sia efficace nel produrre un mutamento profondo e a lungo termine nel soggetto,  è fondamentale che sia egli stesso, e nessun altro (non il genitore, non lo psicologo, non il medico),  a prendere tale decisione. Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare: “Un Hikikomori non si trasferirebbe mai e poi mai volontariamente in una comunità”. Il punto è proprio questo: quando un Hikikomori decide di lasciare la propria camera, la propria routine, il proprio oggetto di dipendenza, se così vogliamo definirlo, lo deve fare perché ritiene che quella sia la soluzione migliore per il suo bene. Significa che ha già fatto il pezzo di percorso propedeutico allo step successivo, ovvero ha compreso e accettato il fatto di aver bisogno di aiuto. Alcuni Hikikomori arrivano a maturare spontaneamente tale decisione dopo un lungo periodo di isolamento, altri, invece, per orgoglio o per confusione, continuano a rifiutare categoricamente qualsiasi tipo di supporto, anche quando il malessere è divenuto ormai insostenibile. È soprattutto in questi casi che si rende necessario l’intervento di “facilitatori”, ovvero persone specializzate nella fase di aggancio dell’Hikikomori e disponibili a operare anche a domicilio. Fondamentale che tale ruolo sia interpretato da persone in grado di parlare lo stesso “linguaggio” dell’Hikikomori, che ne condividano i valori e la sensibilità emotiva, ma soprattutto che non lo facciano sentire giudicato, riuscendo in questo modo a costruire con lui un forte legame di fiducia ed empatia.

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Le possibili soluzioni

Idealmente tale ruolo dovrebbe essere ricoperto da un professionista sociale e sanitario, il quale dispone di maggiori strumenti per valutare in autonomia le azioni da intraprendere. Il requisito chiave rimane, in ogni caso, quello di sapersi porre nei confronti dell’Hikikomori come farebbe un amico, e non alla stregua di un medico con il proprio paziente, altrimenti si innescherà nel soggetto isolato un atteggiamento diffidente e di chiusura. Una volta in comunità possono essere implementate numerose azioni al fine di aiutare gli Hikikomori a recuperare le competenze sociali, smarrite durante il periodo dell’isolamento o mai completamente sviluppate. Ad esempio, è possibile organizzare sedute di discussione di gruppo, coordinate da un moderatore esperto, tornei video-ludici, gite fuori porta, laboratori creativi e attività formative di qualsiasi tipo, finalizzate a un inserimento professionale e non. Parliamo dunque di una struttura intensiva e multidisciplinare che miri a produrre un cambiamento persistente nell’individuo. Fondamentale che l’Hikikomori sia costantemente monitorato negli anni successivi al suo reintegro in società, anche qualora non dovesse più presentare gravi ed evidenti pulsioni di isolamento sociale, dal momento che le ricadute sono sempre dietro l’angolo. Le sensazioni legate all’isolamento possono infatti generare dipendenza psicologica, ovvero una dipendenza non rappresentata da una sostanza, come può essere l’alcool, o da un elemento fisico, come il computer, ma da uno stato mentale, di cui l’ambiente è direttamente responsabile. Per questo motivo la comunità non deve essere intesa come un luogo chiuso ed ermetico, bensì come uno spazio aperto pronto ad accogliere chiunque ne percepisca il bisogno. Se impostato in tal modo, ritengo questo uno dei pochi strumenti trasversali in grado di produrre cambiamenti efficaci e duraturi nella maggior parte dei casi di Hikikomori, utile soprattutto per coloro che hanno raggiunto un grado di ritiro particolarmente profondo e continuativo nel tempo. In Italia, nel momento in cui scrivo, purtroppo non esistono strutture comunitarie come quelle descritte. Il mio auspicio è che possano presto nascere su tutto il territorio nazionale, anche grazie al lavoro dell’associazione Hikikomori Italia, di cui parlerò approfonditamente nel capitolo successivo. 95

7 Il progetto Hikikomori Italia Ho aperto il blog Hikikomoriitalia.it nel febbraio del 2013. Avevo da poco conseguito la laurea in psicologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, con una tesi proprio sul tema dell’isolamento sociale volontario in Giappone. In realtà mi imbattei nel fenomeno quasi per caso, ovvero guardando un anime dal titolo “Welcome to the NHK”. La serie, tratta dall’omonimo romanzo di Tatsuhiko Takimoto, racconta la storia di un ragazzo, Sato, il quale, dopo essersi trasferito da solo a Tokyo per studiare, finisce per isolarsi completamente dalla società e passare tutto il suo tempo in un monolocale. Rimasi colpito nello scoprire che milioni di miei coetanei nel mondo stessero scegliendo consapevolmente di ritirarsi dalla vita sociale e vivere come auto-reclusi. Da una parte mi sembrò una cosa assurda, mentre dall’altra era come se li capissi perfettamente, condividendo con loro le paure e la confusione di una generazione che fatica a trovare il proprio posto all’interno di questa realtà dimensionale, sperimentando un disagio esistenziale forse mai così forte nella storia dell’uomo. Passai mesi e mesi a leggere tutta la letteratura esistente all’epoca sul tema. Una volta ultimata la tesi, però, dentro di me rimase un vuoto. Non potevo lasciare che finisse tutto lì, sentivo il bisogno di continuare il mio percorso di conoscenza e apprendimento, non più da solo, ma condividendolo con chiunque avesse il mio stesso interesse. Fu proprio in quel momento che decisi di dare vita al blog Hikikomoriitalia.it, senza un vero e proprio obiettivo, se non quello di parlarne, convinto che l’Hikikomori non fosse un fenomeno esclusivamente giapponese, come indicato nel DSM. Dopo poco iniziarono a contattarmi decine di ragazzi in isolamento sociale, ma non solo, anche genitori, insegnanti, psicologi e altre figure 97

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professionali di ogni genere. Realizzai da subito che si trattava di un problema tanto diffuso, quanto ignorato, che necessitava di risposte concrete. Ben presto i contatti divennero centinaia e poi migliaia. Anche la stampa e le reti televisive nazionali cominciarono a puntare i propri riflettori sull’argomento, e nel giro di pochi anni Hikikomoriitalia.it divenne la principale fonte di informazione in tema dell’isolamento sociale volontario nel nostro paese, con centinaia di migliaia di visualizzazioni ogni anno. In particolare, mi si presentavano con regolarità due tipologie di urgenze: la prima era quella dei ragazzi ritirati, desiderosi di spezzare la propria solitudine attraverso il contatto con altri componenti della community. La seconda, molto più pressante, era quella dei genitori, confusi e in panico per la condizione del figlio. Così decisi di creare, per ognuna di queste categorie, degli spazi online finalizzati all’interazione e alla condivisione delle esperienze. Ad oggi il gruppo genitori Facebook di Hikikomori Italia conta migliaia di membri provenienti da ogni zona del paese, mentre gli spazi dedicati agli Hikikomori, che comprendono, oltre al gruppo, anche un forum e una chat, vedono transitare al proprio interno oltre 500 utenti, con circa 10.000 messaggi pubblicati ogni giorno, un grado di partecipazione tale da suggerire un forte bisogno represso di interazione sociale. Gli Hikikomori, infatti, desiderano entrare in contatto con le altre persone, ma spesso riescono a farlo sono con coloro da cui non si sentono giudicati, in questo caso altri soggetti con problematiche simili alle loro. All’interno di chat e forum non è necessario giustificarsi per la propria inattività, per il fatto di aver abbandonato la scuola e o il lavoro, di non aver mai avuto un ragazzo o una ragazza, oppure di non sentirsi a proprio agio con il proprio corpo. Alcuni studi suggeriscono come gli spazi di confronto online possano giocare un ruolo fondamentale nel processo di recupero di un Hikikomori, aiutandolo a recuperare fiducia nel rapporto con gli altri e ridefinire la propria identità sociale in modo positivo (Yong & Kaneko, 2016). In particolare la chat telegram è nata su proposta diretta di un ragazzo Hikikomori della community, desideroso di potersi confrontare con altri 98

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coetanei nella medesima condizione. Si tratta di uno spazio autogestito, moderato da un numero selezionato di utenti, i quali assicurano, attraverso un lavoro di coordinamento in team, che vengano sostanzialmente rispettate le norme di buon senso e sia garantito un clima rispettoso e accogliente per tutti. La principale premura è che la chat rimanga un luogo positivo e non diventi uno spazio di autocommiserazione, né, tanto meno, un luogo dove si incentiva la strada dell’isolamento. Chi vuole entrare nella chat può fare richiesta direttamente dall’omonima sezione del sito Hikikomoriitalia.it. Inizialmente si verrà inseriti in uno spazio finalizzato al filtraggio degli utenti, presidiato esclusivamente dai moderatori. All’utente viene qui richiesto di presentarsi e di spiegare i motivi per i quali desidera entrare a far parte del gruppo. Se le motivazioni sono giudicate coerenti con gli scopi dello strumento, il richiedente viene inserito, solo in questo momento, nella chat vera e propria e può cominciare a interagire con gli altri membri. Il sistema di regole, scritte e non, che governa questo spazio lo rende a tutti gli effetti un ambiente sociale protetto nel quale, chi soffre di isolamento, ha la possibilità di esercitare e tenere vive le proprie competenze relazionali, nonché ritrovare il piacere del confronto con l’altro a un livello di profondità e intimità che non può essere paragonato a quello consentito, per esempio, da un videogioco online o da un qualsiasi social network. Il gruppo Facebook dedicato ai genitori, d’altro canto, viene utilizzato dai membri con il preciso scopo di condividere la propria esperienza e trovare una soluzione al problema del figlio. Si concretizza in un ambiente particolarmente carico dal punto di vista emotivo, a tal punto che il grido di aiuto scaturito da esso è divenuto col tempo talmente forte da rendere necessaria la costituzione di un’organizzazione che avesse una struttura giuridica e potesse portare la problematica, con maggiore vigore e credibilità, davanti alle istituzioni. Nel giugno 2017 nasce così l’associazione Hikikomori Italia Genitori ONLUS, presieduta da Elena Carolei e parte integrante dell’associazione nazionale Hikikomori Italia.

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Finalità e risultati raggiunti L’obiettivo generale del progetto Hikikomori Italia è quello di sensibilizzare sul tema dell’isolamento sociale volontario nel nostro paese e creare una rete nazionale che metta in comunicazione tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, siano interessati alla questione. In questo modo è possibile condividere esperienze, informazioni e le singole competenze, accelerando il processo di apprendimento del fenomeno a livello nazionale e stimolando l’implementazione degli strumenti necessari per fare fronte a questa specifica problematica. Un movimento dal basso, finanziato e sostenuto soprattutto dal lavoro volontario dei genitori stessi. È infatti grazie a loro se siamo riusciti a organizzare eventi di sensibilizzazione in tutta Italia, spronando le istituzioni a prendere delle misure finalizzate ad arginare la crisi. A tal proposito voglio citare due nostre importanti conquiste. La prima nasce il 21 novembre 2017, quando l’associazione organizza  un seminario al Liceo Sabin di Bologna, coinvolgendo diversi enti territoriali, tra i quali anche l’Ufficio Scolastico regionale emiliano. Davanti a un pubblico accorso numeroso e composto soprattutto da insegnanti, abbiamo raccontato il disagio che vivono gli Hikikomori e le loro famiglie. Oltre ai professionisti e ai rappresentanti dell’associazione, sono intervenuti infatti anche i genitori stessi, riportando in prima persona quali difficoltà comporta l’avere a che fare quotidianamente con un figlio isolato. Al termine dell’evento i referenti dell’Ufficio Scolastico hanno dichiarato l’intento di attivarsi per provare a dare risposte concrete alle numerose esigenze emerse. Ebbene, qualche mese dopo, il 7 agosto 2018, lo stesso Ufficio Regionale pubblica una nota circolare sul tema dell’abbandono rivolta a tutti i dirigenti delle scuole medie e superiori, e a tutti i docenti coordinatori dell’Emilia-Romagna. Al suo interno viene esplicitamente citato, per la prima volta in Italia su un documento ministeriale, il fenomeno degli Hikikomori, e viene contestualmente annunciato uno studio in corso per mapparne l’incidenza in tutti gli istituti primari e secondari, di primo e di

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secondo grado, del territorio emiliano. Una ricerca unica nel suo genere, non solo in Italia, ma anche a livello europeo. Il questionario utilizzato per raccogliere i dati è stato progettato in stretta collaborazione con Hikikomori Italia. Il 6 novembre 2018 vengono resi noti i risultati dell’indagine riferiti a 687 scuole rispondenti. I casi di ritiro segnalati sono risultati 346, tutti riferiti a ragazzi e ragazze che, dopo aver abbandonato la scuola, si sono isolati nella propria abitazione “per motivi psicologici”. Quasi il 60% di loro si trova in una fascia di età che va dai 13 ai 16 anni e, il dato forse più interessante, poiché in controtendenza rispetto a quanto emerso dai sondaggi effettuati finora in Giappone sul fenomeno, è che si tratta per la maggior parte di femmine. Le motivazioni indicate nelle giustifiche delle assenze, o finalizzate a ottenere un piano personalizzato di insegnamento, sono risultate, nella stragrande maggioranza dei casi, relative a disturbi depressivi, disturbi d’ansia, attacchi di panico, fobia scolare, ritiro e ansia sociale. Per quanto riguarda il rendimento scolastico, quasi il 67% degli alunni segnalati presentava un andamento positivo o molto positivo nel periodo antecedente al ritiro. Questo dato conferma che l’abbandono non è avvenuto per motivi di scarso rendimento e, anche per coloro che lo presentavano, è possibile ipotizzare che le valutazioni negative fossero direttamente collegate alle sofferenze psicologiche, piuttosto che a una reale incapacità o a un disinteresse generalizzato nell’apprendimento. Il dato più allarmante è forse però quello relativo al supporto che i vari istituti sono stati in grado di offrire. Su 356 casi non certificati, ossia non in possesso di una diagnosi medica per il proprio disagio, il Piano Didattico Personalizzato, che potrebbe consentire all’alunno isolato di proseguire gli studi attraverso formule alternative che non prevedano necessariamente la frequenza in aula, è stato concesso solamente nel 41,91% dei casi. In generale, le azioni di aiuto più comuni attivate consistono nell’istruzione a casa (8,96%), istruzione a distanza (7,51%), compiti via mail (19,65%), semplificazione dei contenuti (34,39%) e tolleranza nella valutazione (39,31%). 101

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Il rifiuto da parte delle scuole di attivare un PDP, rilevato nella maggioranza dei casi, è sicuramente un dato preoccupante che deve far riflettere. Anche diversi genitori dell’associazione si sono visti negare questo diritto per la mancanza di una certificazione medica. Uno scoglio burocratico che può essere superato includendo l’Hikikomori tra i BES (Bisogni Educativi Speciali), definiti a livello internazionale come “qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento permanente o transitoria in ambito educativo o di apprendimento, dovuta all’interazione tra vari fattori di salute e che necessita di educazione speciale individualizzata”. Una piccola azione che permetterebbe di aiutare migliaia di ragazzi italiani a non abbandonare la scuola, nonostante il forte malessere sperimentato nell’ambiente sociale. Nel tentativo di tamponare, almeno parzialmente, questa lacuna burocratica, nel novembre 2018 l’associazione Hikikomori Italia è riuscita a ottenere un altro risultato storico, sottoscrivendo un protocollo d’intesa con la Regione Piemonte e l’Ufficio Scolastico regionale finalizzato alla definizione e alla promozione di strategie di intervento condivise sul tema dell’isolamento sociale. Anche in questo caso la collaborazione è nata in seguito a un seminario tenutosi il 20 febbraio 2018 all’Istituto Avogadro di Torino. L’evento, che ha radunato centinaia di persone, ha visto la partecipazione, tra gli altri, proprio dell’Ufficio Scolastico regionale e della Regione Piemonte. I rispettivi referenti, presa definitivamente coscienza dell’impellenza del problema, decisero di redigere un documento tecnico congiunto che contenesse al suo interno una serie di indicazioni mirate ad affrontare l’emergenza, anche in termini preventivi, riferite sia alle famiglie che alle istituzioni. In particolare, nell’Allegato al documento sono contenute delle indicazioni operative per le scuole al fine di aiutarle a individuare gli strumenti disponibili per la gestione delle assenze, delle valutazioni, degli esami e di altre criticità di difficile trattamento nei casi del ritiro sociale. Il protocollo prevede, nel suo triennio di validità, l’aggiornamento delle indicazioni per la famiglia e per la scuola, e la redazione di altre indicazioni operative sulla gestione del fenomeno Hikikomori da parte della formazione professionale, dei servizi al lavoro e dei servizi socio sa102

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nitari, ovvero dei settori strategici che possono venire a contatto con le famiglie colpite. L’associazione Hikikomori Italia Genitori ONLUS, rappresentata dalla presidente ing. Elena Carolei e dal sottoscritto, ha partecipato attivamente in tutte le fasi della stesura del documento. Il risultato ottenuto è fondamentale, sia in termini pratici, ma soprattutto in termini simbolici, poiché ciò che ne è scaturito può essere emulato e ripreso da tutte le regioni italiane, fungendo da apripista per tutta una serie di azioni istituzionali sul fenomeno. Ci tengo a precisare che tutte le iniziative e gli eventi organizzati dall’associazione, compresi i due sopracitati, vengono promossi dai gruppi locali di genitori, i quali sono distribuiti capillarmente sull’intera penisola italiana, dal nord al sud, a partire dai principali capoluoghi. La loro funzione è duplice: da una parte, come detto, sono finalizzati alla progettazione e al coordinamento delle attività di sensibilizzazione nel proprio territorio di appartenenza, ma, allo stesso tempo, rappresentano un fondamentale strumento di mutuo-aiuto e di condivisione delle esperienze legate al ritiro dei figli. Ogni gruppo è infatti supportato da uno psicologo volontario, formato dall’associazione attraverso un coordinamento nazionale che include diverse decine di professionisti della salute mentale. Stiamo parlando dunque di una comunità enorme ed eterogenea di persone, unite allo scopo di colmare un vuoto amministrativo, burocratico, informativo e istituzionale sul fenomeno dell’isolamento sociale volontario nel nostro paese. Il processo di sensibilizzazione iniziato da Hikikomori Italia ha reso possibile una presa di coscienza popolare del problema che in altre nazioni europee sembra essere ancora lontana. Per diffusione e struttura siamo dinnanzi, con tutta probabilità, a un movimento che non ha eguali nel mondo. Anche i media giapponesi si sono interessati al nostro progetto, tanto da dedicargli, nell’agosto 2017, un ampio articolo sullo Yomiuri Shinbun, il principale quotidiano nipponico, nonché citarlo in un documentario prodotto e trasmesso dalla NHK World, la rete televisiva nazionale.

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Metodo di lavoro Ogni giorno nuove madri e nuovi padri affluiscono nell’associazione e capita spesso che la loro immediata richiesta sia quella di essere messi in contatto con uno psicologo che possa prendere in carico il figlio. Il nostro metodo di lavoro, tuttavia, prevede di partire sempre dalla famiglia, coinvolgendo i genitori nei gruppi locali. Si tratta di un approccio di tipo sistemico che si basa su un semplice assunto: l’Hikikomori non è un problema del singolo, ma di tutta la società, compreso il nucleo famigliare di appartenenza. Se le dinamiche di quest’ultimo si sono alterate a tal punto da creare in casa una condizione di grave malessere che ne contagia i membri, intervenire solo sul soggetto isolato non può che rivelarsi, nella maggior parte dei casi, uno sforzo inconcludente, dal momento che si agirà solo su una variabile del problema. Qualunque intervento non può quindi prescindere dal coinvolgimento diretto dei genitori, i quali sono chiamati spesso al difficile compito di ridefinire il proprio approccio al problema. Molti di loro hanno infatti sviluppato nel tempo un atteggiamento scorretto nei confronti del figlio, scaricando involontariamente su di lui le proprie ansie e paure, non facendo così che aumentare la pressione e aggravare il suo stato di ritiro. In un clima di questo tipo, qualunque intervento individuale sull’Hikikomori difficilmente potrà restituire risultati positivi, soprattutto sul medio-lungo periodo. Il primo step del nostro percorso di sostegno consiste nell’accogliere i genitori nel gruppo nazionale di mutuo aiuto online, in modo che possano cominciare a confrontarsi con altri che hanno vissuto esperienze simili alla loro e capire in questo modo quali sono gli elementi trasversali e quelli che invece riguardano specificatamente la propria situazione. Il primo fondamentale passaggio che speriamo di ottenere è quello di aiutarli a capire che non sono i soli ad affrontare tale battaglia, riducendo così il proprio senso di colpa per la condizione del figlio. Lo step successivo è quello di indurli a informarsi approfonditamente su cos’è l’Hikikomori attraverso letture e video, con l’obiettivo di tra104

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smettere loro la reale natura del problema e le sue possibili dinamiche. L’auto-formazione è un aspetto essenziale per diversi motivi, prima di tutto perché comprendere più a fondo la condizione del figlio significa essere in grado di gestirla con maggiore consapevolezza ed efficacia, e, in secondo luogo, perché i genitori rimangono gli interlocutori privilegiati di riferimento, chiamati talvolta a svolgere il delicato ruolo di “co-terapeuti”, fungendo da tramite tra lo psicologo e l’Hikikomori, essendo gli unici in grado di entrare in contatto diretto con lui. Il terzo step consiste nell’includere i genitori nei gruppi regionali in modo che possano partecipare fisicamente agli incontri in presenza di uno psicologo appartenente all’associazione. Come detto in precedenza, oltre per la condivisione delle esperienze e il mutuo-aiuto, questi gruppi sono pensati per il coordinamento e la progettazione di attività di sensibilizzazione sul proprio territorio di riferimento. Fare sentire i genitori come parte attiva del processo di cambiamento, e non solo come soggetti passivi da prendere in carico, li aiuta a percepire un maggiore grado di controllo del problema e a spostare il focus, almeno in parte, dalla loro situazione specifica, a una visione più sistemica. In questo modo anche l’ansia verrà incanalata verso altre direzioni e non scaricata completamente sotto forma di pressione sul figlio. Il progetto Hikikomori Italia mira infatti ad agire simultaneamente su più livelli: non solo sui soggetti isolati, non solo sul microsistema familiare, ma anche su quello scolastico e sociale. Arrivati a questa fase del percorso, in base alla nostra esperienza, l’approccio al problema del genitore sarà migliorato e, conseguentemente, anche la condizione del figlio, che tenderà a riaprirsi con lui. Tale riavvicinamento rappresenta un passaggio imprescindibile nel processo graduale che mira al reintegro sociale del soggetto isolato, poiché è difficile immaginare come l’Hikikomori possa riaprire a un ritorno in società, senza prima essere riuscito a vivere in modo sufficientemente positivo l’ambiente domestico. Nel momento in cui il figlio si sente compreso dai genitori nella propria sofferenza e riesce a instaurare con loro una rinnovata relazione di 105

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fiducia, la possibilità che accetti l’aiuto esterno di un professionista è sensibilmente più alta. La condizione ideale è che ogni aspetto del percorso di recupero venga concordato con lui e niente sia fatto contro la sua volontà, o peggio, alle sue spalle. È inoltre auspicabile, ai fini della buona riuscita del percorso, che entrambi i genitori siano coinvolti. Sembra tuttavia esistere un diverso approccio al problema a seconda del ruolo genitoriale: da una parte la madre vive la condizione del figlio con particolare apprensione e tende ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento conciliante e persuasivo. Dall’altra, il padre si dimostra spesso meno paziente e reagisce al problema con maggiore fisicità, arrivando talvolta allo scontro frontale e compromettendo gravemente qualsiasi relazione con il figlio, il quale finirà per respingerlo del tutto. Come conseguenza il padre tenderà a sviluppare un atteggiamento di rifiuto e di resa nei confronti del problema, percependo ogni suo tentativo come fallimentare. Si tratta ovviamente di una resa dolorosa e non disinteressata: un meccanismo difensivo causato da una forte sensazione di frustrazione e impotenza. Anche per questo motivo la figura paterna risulta spesso più complessa da coinvolgere nei gruppi di mutuo aiuto, nelle terapie familiari e in qualsiasi altro percorso di sostegno. Avere a che fare con un figlio Hikikomori è tra le sfide più complesse che un genitore può essere chiamato a dover affrontare, soprattutto in un contesto come quello italiano, dove il problema viene spesso ignorato o banalizzato. L’impotenza e l’auto-colpevolizzazione porta molte famiglie all’esasperazione e alla disgregazione, aggravando contestualmente il senso di colpa percepito dal figlio, che si sentirà causa del malessere manifestato dai genitori. Aiutare un Hikikomori richiede tempo e pazienza e non esiste la formula magica in grado di accelerare drasticamente il processo di cambiamento. Anche il nostro metodo di lavoro non è certamente esente da criticità e non funziona, evidentemente, in tutte le casistiche. La grande eterogeneità del fenomeno richiede l’implementazione di strategie e percorsi di supporto differenti, da usare in sinergia o alternativamente tra 106

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loro. È pertanto difficile riuscire a stilare un protocollo d’intervento che possa avere validità in tutti i casi di isolamento sociale volontario. Importante anche non affidarsi esclusivamente e rigidamente alle forme di intervento classiche esistenti oggi, dal momento che si tratta di un fenomeno che presenta dinamiche nuove e che richiede, di conseguenza, maggiore flessibilità e apertura alla sperimentazione di tecniche di supporto alternative. Idealmente sarebbe auspicabile coinvolgere un team quanto più multidisciplinare possibile, che includa al suo interno psicologi e psichiatri, questi ultimi fondamentali soprattutto nella fase di diagnosi differenziale, ma anche professionisti del settore sociale, come gli educatori, le cui competenze socio-pedagogiche possono rivelarsi estremamente utili, in particolare nella fase del primo contatto. Nonostante i suoi possibili limiti, grazie al nostro metodo di lavoro abbiamo ottenuto risultati tangibili che ci fanno pensare di essere sulla giusta strada. Non abbiamo l’ambizione di avere la verità in tasca e certamente non ci illudiamo di aver individuato la soluzione definitiva al problema, ammesso che ne esista una. I feedback ricevuti sono però incoraggianti, con decine e decine di genitori che riportano un significativo miglioramento della relazione con il figlio e una sua contestuale riapertura alla vita sociale.

Indagine statistica | genitori Sfruttando l’alto numero di genitori affluiti nell’associazione, ci è stato possibile condurre una prima indagine statistica circa il fenomeno dell’isolamento sociale in Italia. Lo strumento utilizzato per lo studio è un questionario digitale, somministrato attraverso le più comuni applicazioni di messaggistica, a un campione selezionato composto da 288 soggetti, tutti madri e padri con un figlio o una figlia le cui problematiche manifestate sono legate all’isolamento sociale. Sono state escluse dal sondaggio tutte le altre tipologie di

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parenti (fratelli/sorelle, zii/e, nonne/i, ecc.), mantenendo invece i genitori adottivi, meno del 1,5% del campione. Nel caso in cui entrambi i genitori fossero stati disponibili a compilare il questionario, si è scelto di dare priorità ai padri, data la maggiore difficoltà di reperimento rispetto alle madri. Nonostante questo, il campione finale è composto solamente da un 21,2% di maschi e un 78,8% di femmine, a conferma del diverso approccio al problema mostrato dalle due figure genitoriali. L’età media dei compilanti è di 53 anni e il 42% ha come titolo di studio il diploma di maturità, il 16,3% il diploma di terza media (o inferiore), mentre il 41,7% la laurea o un titolo superiore. È stato anche chiesto loro di auto-valutare la propria situazione economica, che per il 13,2% viene giudicata come negativa o molto negativa, per il 37,8% positiva o molto positiva e per la restante percentuale, pari al 49%, né positiva, né negativa. Entrambi questi dati sembrano confermare quanto ipotizzato nel secondo capitolo, ovvero che i soggetti Hikikomori siano maggiormente presenti in famiglie benestanti e con un livello di scolarizzazione medio-alto: la percentuale di laureati nel campione è infatti nettamente superiore rispetto alla media nazionale. Per quanto riguarda, invece, la distribuzione geografica, quasi tutte le regioni sono rappresentate, ma vi è una netta prevalenza di partecipanti residenti nel Nord Italia, con in testa la Lombardia (15,3%), il Piemonte (14,2%) e il Veneto (10%). È però il Lazio la regione più presente in assoluto con il 18,4% del totale, percentuale che supera complessivamente quella di tutto il Sud Italia, isole comprese (14,2%). Potremmo dunque concludere che l’Hikikomori sia più diffuso nel nord del nostro paese, ma, come vedremo successivamente, si tratta questa di una conclusione affrettata poiché la composizione del campione potrebbe essere stata influenzata dalla metodologia di selezione scelta. Particolarmente interessanti i dati circa lo stato civile dei rispondenti, dove emerge un’incidenza rilevante di coppie divorziate (27,4%). In generale, oltre un terzo dei figli (39,9%) vive con solo uno dei due genitori, oppure con entrambi ma non simultaneamente, e il 19,4% delle famiglie 108

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sono composte da soli due membri. Dai dati a nostra disposizione, tuttavia, non ci è possibile sapere se la separazione della coppia sia avvenuta prima o successivamente al ritiro del figlio, non potendo quindi stabilire un nesso di causa o conseguenza. È importante precisare però, che non sempre la separazione avviene per volontà della coppia, ma sono a conoscenza di casi in cui uno dei due genitori, più sovente il padre, arriva a deteriorare la relazione con il figlio a un punto tale che si trova costretto ad abbandonare l’abitazione onde evitare di peggiorare ulteriormente il clima di tensione all’interno della stessa. A tal proposito, alla domanda “Quanto impatta la condizione di tuo/a figlio/a sul benessere familiare?”, il 61,5% ha risposto “molto” o “moltissimo”. A ulteriore testimonianza della grande apprensione con la quale i genitori vivono tale condizione, quando è stato chiesto loro quanto ritenessero di aver bisogno di aiuto, il 60% ha manifestato un alto livello di allarme. Tuttavia, la relazione con il soggetto isolato è stata valutata come “pessima” o “scarsa” solo dal 22,6% dei rispondenti. Questo dato sembra confermare il fatto che, rispetto all’Hikikomori giapponese, dove il rapporto con i familiari si deteriora spesso in modo irrimediabile, in Italia il rifiuto dei genitori da parte dei soggetti isolati non è così netto. Nel trarre tale conclusione, dobbiamo però considerare che il campione è stato selezionato esclusivamente tra i genitori dell’associazione Hikikomori Italia, i quali hanno già fatto o stato facendo un percorso finalizzato proprio alla ricostruzione dei rapporti intra-familiari attraverso un profondo cambio di approccio, rielaborazione e reinterpretazione del problema. Si potrebbe dunque ipotizzare che la relazione genitori-figli risulterebbe meno positiva qualora il campione fosse stato selezionato tra i genitori esterni all’associazione, spesso lasciati completamente soli ad affrontare tale sfida e dunque più propensi a cadere in errore. Concentriamoci ora sui dati riguardanti i soggetti isolati. Confermata appieno la maggiore incidenza sul sesso maschile, addirittura l’87,85% del campione, percentuale sensibilmente più alta di quella emersa dall’ultimo sondaggio giapponese: 63,3% (Tajan, 2017). L’età media si attesta intorno ai 20 anni, ma il più interessante è probabilmente quello relativo 109

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ai figli unici, pari al 28,5% dei casi selezionati. Sembrerebbe questo un risultato in controtendenza rispetto a quanto ipotizzato precedentemente, ovvero che il fatto di non avere fratelli o sorelle rappresenti un fattore di rischio nello sviluppo di problematiche legate all’isolamento sociale, dal momento che la percentuale emersa è sensibilmente inferiore rispetto a quella della media nazionale italiana corrispondente al 47,1%, secondo i dati ISTAT riferiti al 2017. Confermata, invece, come riscontrato da Tamaki Saitō (1998), l’alta presenza di primogeniti, esattamente un terzo dell’intero campione. Anche la durata dell’isolamento si conferma essere importante. Solo il 14,2%, infatti, è ritirato da meno di un anno. Il 34% si trova in tale condizione da 1 a 3 anni, il 41,7% dai 3 ai 10 anni e, nel 10,1% dei casi, il ritiro si protrae da oltre un decennio. L’età media nella quale sono emersi i primi evidenti problemi di isolamento sociale è intorno ai 15 anni, a testimonianza di come il passaggio alle scuole superiori rappresenti una fase della vita particolarmente critica per lo sviluppo di questa problematica. Dato in apparente contrasto rispetto a quanto riportato dai sondaggi sul fenomeno in Giappone, dove il periodo più a rischio sembra essere quello post diploma (Tajan, 2017), con oltre il 42,9% che ha iniziato il ritiro tra i 20 e i 29 anni. Rispetto ai tre stadi dell’Hikikomori proposti nel terzo capitolo, il 38,5% dei genitori ha dichiarato che il figlio si trova nella prima fase (“frequenta la scuola o il lavoro e ha ancora dei contatti sociali diretti, oltre a quelli virtuali”), il 55,2% nella seconda fase (“ha abbandonato completamente la scuola o il lavoro e tutti i contatti sociali diretti, ad accezione di quelli con i parenti, preferendo i contatti virtuali”) e il 6,3% alla terza fase (“non intrattiene nessun tipo di relazione sociale, nemmeno con i parenti o tramite internet”). Nonostante quest’ultima sia una percentuale apparentemente bassa, deve comunque accendere un campanello d’allarme, dato che si tratta di soggetti completamente isolati dalla società ed esposti a un alto rischio di sviluppare psicopatologie anche gravi. Per quanto riguarda il rapporto con le nuove tecnologie, i dati emersi ci dicono che la maggior parte dei soggetti (ben il 43,4%) passa oltre 8 ore al giorno connesso a internet, il 26,4% tra le 6 e le 8 ore, mentre la 110

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restante percentuale lo utilizza meno di 6 ore al giorno. Sappiamo anche quali sono le attività svolte: la stragrande maggioranza (oltre il 65%) gioca online con altri utenti, mentre quasi la totalità guarda film o serie TV. Eppure, più della metà di loro utilizza il web anche per approfondire interessi personali e cimentarsi in attività creative, quali disegno, produzione video, ecc. Internet si conferma dunque uno strumento sia di svago, ma allo stesso tempo fondamentale per coltivare le proprie passioni e mantenere un contatto con la società. Veniamo alle abitudini legate al ritmo circadiano. Il 63,9% dei soggetti coinvolti presenta un ciclo sonno-veglia alterato e, secondo quanto riportano i genitori, il 21,9% di loro dormirebbe più di dieci ore al giorno, mentre una bassa percentuale (5,2%) avrebbe un tempo di riposo inferiore alle cinque ore. Per la restante parte l’intervallo di sonno sembra mantenersi all’interno di range che può essere considerato standard. Il supporto esterno per le famiglie e per i soggetti isolati appare dal sondaggio quantomeno lacunoso: il 62,8% dichiara che il figlio non è attualmente seguito da nessuno specialista della salute mentale. Altrettanto importante sottolineare che, tra questi, quasi la metà è stato seguito in passato con scarsi risultati, rivolgendosi sia alla sanità pubblica, ma soprattutto a quella privata. Solo il 46,1% si dichiara “abbastanza soddisfatto”, “soddisfatto” o “molto soddisfatto” dell’aiuto ricevuto: la maggioranza riporta un feedback negativo. Analizziamo ora un punto importante e delicato, ovvero quello relativo alle comorbidità associate all’isolamento sociale. Ai partecipanti è stato chiesto di indicare se il figlio fosse in possesso di una diagnosi medica certificata. Ebbene, meno del 10% ha riportato un disturbo di tipo psicologico, nello specifico Depressione Maggiore, Sindrome di Asperger, Disturbo Borderline di Personalità, Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Fobia Sociale, Ansia Sociale e Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Questo significa che la restante parte, o ha un disturbo non ancora diagnosticato, oppure presenta quello che abbiamo definito precedentemente come Hikikomori Primario, ovvero una pulsione all’isolamento che non si associa a nessuna psicopatologia o disturbo certificabile. 111

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Si tratta questo di un dato importante che conferma l’esistenza di un vuoto classificatorio riguardante l’isolamento sociale volontario, vuoto che potrebbe essere colmato attraverso l’annoveramento dell’Hikikomori tra le problematiche ufficialmente riconosciute. Premesso ciò, è ipotizzabile che la percentuale di soggetti con psicopatologie associate non sia così basso come riportato dai genitori. Risposte successive, infatti, porterebbero a pensare il contrario. Ad esempio, quando è stato chiesto loro se “Dal momento del ritiro, tuo/a figlio/a si è dimostrato di cattivo umore, triste o depresso?”, il 42,7% ha risposto “molto” o “moltissimo”. Ciò non significa che siano tutti clinicamente depressi, ma è altresì ipotizzabile che tale quadro diagnostico sia presente in ben più dei soli due casi emersi. Ipotesi rafforzata dal fatto che il 20,1% riferisce, spesso o molto spesso, di essere stanco di vivere. Possibile che tra i casi selezionati si nascondano anche dei potenziali schizofrenici, dal momento che almeno sei di loro, secondo i genitori, riferiscono spesso di vedere cose o sentire voci che invece gli altri non percepiscono. Secondo Tamaki Saitō (1998) la percentuale di schizofrenici tra i casi di isolamento sociale sarebbe intorno all’1%; il dato merso in questo sondaggio è dunque sovrapponibile. Il 74,1% sembra aver sviluppato un atteggiamento apatico in seguito al ritiro, perdendo interesse per attività che prima lo appassionavano. Non mancano le manifestazioni d’ansia e quelle di rabbia, presenti rispettivamente nel 53,1% e nel 67% dei casi selezionati. Chiudiamo con il dato relativo alla percezione del proprio status: il 39,9%, sempre secondo i genitori, ha poca o nessuna consapevolezza del problema, e una percentuale sensibilmente maggiore, il 68%, sarebbe poco o per nulla predisposto ad accettare un aiuto. Facendo un’ulteriore analisi incrociata, scopriamo che più della metà (53,2%) di coloro riconoscono di avere un problema, ma si dimostrano comunque restii nel ricevere supporto. Questo atteggiamento potrebbe essere stato generato da precedenti tentativi di aiuto errati o forzature (come, per esempio, la pressione per tornare subito a scuola) che hanno aggravato la sfiducia del soggetto circa la possibilità che qualcuno possa effettivamente aiutarlo a 112

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uscire dalla propria condizione. Un’altra ipotesi, confermata spesso nelle storie che ho avuto modo di ascoltare, riguarda l’aspetto economico. Siccome gli Hikikomori si sentono particolarmente in colpa per gravare completamente sulle spalle della famiglia, spesso si rifiutano di chiedere ai genitori un ulteriore esborso economico, anche quando sentono di averne bisogno. Dal momento che si tratta in assoluto della prima indagine statistica condotta sul fenomeno italiano, le informazioni raccolte risultano essere molto preziose anche nell’ottica di una ricerca cross-culturale. Emergono infatti delle affinità con i dati giapponesi, in particolare l’alta prevalenza del sesso maschile e dei figli primogeniti, ma anche delle contrapposizioni, come l’età di insorgenza, che in Italia sembra concentrarsi in particolare durante i primi anni delle scuole superiori, mentre in Giappone coincide principalmente con il periodo post diploma (Tajan, 2017). Lo studio ha però sicuramente anche dei limiti. Il primo riguarda la composizione del campione. Nonostante gli sforzi compiuti, lo squilibrio di genere rimane importante, con i padri nettamente sottorappresentati rispetto alle madri. Impattante anche la metodologia di selezione, avvenuta esclusivamente attraverso strumenti digitali, quali social network e applicazioni di messaggistica, il che significa che sono stati inclusi all’interno del campione oggetto di indagine solo coloro che possiedono un livello di competenze digitali sufficienti a padroneggiare tali mezzi. I dati maggiormente impattati da tale scelta potrebbero essere due in particolare: quello relativo al titolo di studio dei partecipanti, forse influenzato a rialzo, ma soprattutto quello che riguarda la distribuzione geografica del campione, i cui membri sono concentrati per la stragrande maggioranza nel Nord Italia. Sebbene sia possibile ipotizzare che il fenomeno sia più diffuso nelle regioni settentrionali del paese, proprio perché sembra essere correlato, almeno in parte, con una migliore situazione economica e con un maggiore livello di scolarizzazione dei genitori, è altrettanto ipotizzabile che il basso numero di casi emerso finora nel Sud Italia sia dovuto a una minore digitalizzazione, tale per cui l’associazione Hikikomori Italia fatica a entrare in contatto con i genitori del mezzogiorno e a includerli, 113

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di conseguenza, nell’indagine. Quasi il 70% dei partecipanti, infatti, dichiara di essere venuto a conoscenza della nostra realtà tramite il web o i social network. Il secondo limite è di tipo strutturale ed è rappresentato dal fatto che diversi dati raccolti, per esempio quelli relativi all’umore o alle attività svolte online, non sono stati forniti dai soggetti interessati, ma filtrati sulla base della percezione dei genitori. Per questo motivo è stata condotta una seconda indagine, che verrà presentata nel paragrafo successivo, nella quale sono stati direttamente coinvolti coloro che soffrono di isolamento sociale.

Indagine statistica | figli La metodologia utilizzata per la selezione del campione è stata la medesima adottata nello studio sui genitori. Anche il questionario somministrato è in gran parte sovrapponibile, con l’adattamento delle domande, ora espresse in forma diretta, e con l’aggiunta, la rimozione o l’ammorbidimento di alcuni quesiti. Per esempio, si è scelto di chiedere l’anno di nascita, e non la data completa, oppure solamente la regione di appartenenza e non la provincia, poiché, da un primo test condotto su un campione ristretto, risultavano essere elementi potenzialmente bloccanti in quanto giudicate come informazioni altamente identificative. Nonostante tutte le accortezze finalizzate a ridurre le possibili resistenze nella compilazione, i questionari raccolti sono stati in numero decisamente inferiore rispetto a quelli ottenuti dall’indagine precedente, sia perché il bacino da cui si è attinto era di minore entità, sia perché i soggetti isolati si dimostrano in genere molto meno collaborativi e interessati a esporsi rispetto ai loro genitori. Alla luce di questo, gli 89 questionari raccolti sono da considerarsi come dati estremamente preziosi, seppur statisticamente meno rappresentativi rispetto a quelli esposti nella precedente ricerca.

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Confermata la netta prevalenza di maschi, presenti nel 70,8% del campione. Tuttavia, il 10% abbondante in più di femmine rispetto a quanto emerso dal sondaggio condotto sui genitori, merita quantomeno una riflessione. Tale dato, infatti, riaccende il sospetto espresso nel corso del secondo capitolo, ovvero che il numero di Hikikomori di sesso femminile sia stato sottostimato dalle indagini effettuate sinora sul fenomeno, poiché a valutare la propria condizione non sono mai state le dirette interessate, come in questo caso, ma piuttosto i familiari. Il ruolo di genere ricoperto dalla donna nella nostra società potrebbe indurre i genitori a percepire il problema dell’isolamento sociale, qualora riguardasse la figlia, con minore sensibilità e urgenza rispetto a quanto capita per i maschi, arrivando così a segnalarlo solamente in una fase avanzata e maggiormente esplicita. Al momento si tratta solamente di un’ipotesi che dovrà essere confermata o smentita da ricerche future. Anche sull’età media, risultata essere leggermente superiore, ovvero intorno ai 23 anni, possiamo provare ad avanzare delle ipotesi. Mentre nel questionario somministrato ai genitori il numero di isolati over 30 risultava essere pari al 5,9%, in questo caso la percentuale sale fino al 13,5%. Una differenza che potrebbe essere determinata da una maggiore disillusione nell’identificare una soluzione al problema da parte di chi ha figli in età molto avanzata. Ciò si tradurrebbe in una minore disponibilità da parte di questi genitori a essere inclusi nei campioni di indagine sul fenomeno, oppure in una effettiva difficoltà ad attrarli all’interno degli spazi di aiuto come Hikikomori Italia. Nel caso della presente indagine, invece, essendo condotta direttamente sui soggetti isolati, la loro partecipazione è stata del tutto spontanea e non finalizzata necessariamente al ricevere aiuto, ma piuttosto dettata dalla curiosità. In generale, la maggior parte dei dati emersi sono risultati sovrapponibili con l’indagine precedente, come, ad esempio, quello relativo al numero di coppie divorziate o separate (25,8%), oppure quello riguardante i figli unici (23,6%) o primogeniti (32,6%). Sensibilmente differente, invece, è risultata essere la percezione della relazione con i genitori, giudicata “pessima” o “scarsa” da quasi la metà dei rispondenti, mentre il 115

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responso del sondaggio precedente era stato decisamente più positivo a riguardo. Curioso notare, però, come nelle domande finalizzate a comprendere l’attribuzione della responsabilità circa la propria condizione da parte dei ragazzi, i genitori sono risultati i meno colpevoli, poiché giudicati responsabili (“abbastanza”, “molto” o “moltissimo”) “solo” nel 47,6% dei casi. La percentuale cresce quando si parla di insegnanti (52,4%), scuola (69,8%), coetanei (79,4%), e raggiunge il suo apice quando viene citata la società in generale (93,6%), a ulteriore conferma di quanto affermato a più riprese nel corso del presente testo. Gli Hikikomori non mancano tuttavia di fare una forte autocritica: quando è stato chiesto loro “Quanto ti ritieni responsabile per la tua condizione di isolamento sociale?”, la percentuale raggiunta è molto alta, pari all’82,5%. L’immagine che emerge è quella dunque di ragazzi profondamente consapevoli dei propri limiti, ma allo stesso tempo con un grande rancore nei confronti dell’altro. Il dato relativo all’età di insorgenza delle problematiche di isolamento sociale è identico a quello ottenuto nel questionario somministrato ai genitori, ovvero intorno ai 15 anni. Stesso discorso vale per la durata dell’isolamento, nella stragrande maggioranza superiore all’anno ma inferiore al decennio. In questo caso è stata aggiunta anche una domanda relativa all’andamento della propria condizione nell’ultimo periodo, giudicata stabile nel 31,7% dei casi, in leggero o netto miglioramento nel 47,5% e in leggero o netto peggioramento nel restante 20,7%. Un dato che potrebbe essere interpretato tutto sommato come positivo, eppure la stragrande maggioranza di loro si dichiara “abbastanza”, “molto” o “moltissimo” preoccupato circa il proprio futuro (l’85,7%) e per la propria condizione di isolamento (73%). Un altro elemento di discordanza tra i due studi emerge quando si osservano le risposte riguardanti la predisposizione all’aiuto. Secondo i genitori oltre il 60% dei figli sarebbe poco o per nulla disponibile ad accettare supporto, mentre in questo caso la percentuale si ribalta, con un 65% che si dichiara aperto a ricevere sostegno per la propria condizione. Potrebbe esistere dunque una difficoltà di comprensione tra la famiglia e 116

Il progetto “Hikikomori Italia”

il soggetto isolato circa il supporto desiderato, con una differente interpretazione del concetto stesso di “aiuto”. È allora fondamentale, ancora una volta, cercare di capire a fondo quali siano le aspettative e le esigenze dell’Hikikomori prima di proporgli, o peggio, imporgli, qualsivoglia tipo di supporto. Preoccupanti, infine, i dati relativi agli allo stato d’animo vissuto in seguito al ritiro. Ben più della metà dei rispondenti dichiara di aver sperimentato un drastico calo del proprio umore (57%) e di sentirsi stanco di vivere (69,8%), di aver perso interesse per le passioni precedentemente coltivate (52,4%) e di nutrire grande rabbia verso le altre persone (68,2%). Le psicopatologie diagnosticate sono le medesime emerse nello studio precedente e riportate dal 23,8% dei rispondenti. Anche in questo caso, dalle risposte fornite riguardo la percezione distorta dello spazio e del tempo, nonché relative a fenomeni di tipo allucinatorio, è probabile che all’interno del campione oggetto d’esame si nascondano alcuni casi di gravi psicosi non diagnosticate.

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Conclusioni Come avete avuto modo di notare, all’interno del fenomeno degli Hikikomori si intersecano moltissimi temi, tutti di grande attualità, come quello della ristrutturazione del sistema scolastico, il tema dalla fragilità esistenziale nelle nuove generazioni, quello della depressione giovanile e adulta, del bullismo, dalla solitudine e dell’apatia, della vergogna e della paura, dell’importanza sociale del corpo, del rapporto con le nuove tecnologie, il tema dei cambiamenti nelle dinamiche familiari e nei ruoli genitoriali, nonché quello della crescente competitività sociale e del conseguente aumento della pressione di realizzazione, solo per citarne alcuni. La sua componente trasversale conferisce all’Hikikomori un grande potere attrattivo in grado di interessare chiunque, e non solo chi lo ha sperimentato in prima persona, oppure chi ne è indirettamente coinvolto, come nel caso dei genitori, degli insegnanti o dei professionisti della salute mentale. Ogni volta che se ne parla l’interlocutore ignaro vive diverse fasi, dallo stupore iniziale fino a una comprensione intima, con la sensazione di averne sempre sospettato l’esistenza. Ecco la grande forza della parola “Hikikomori”, così straniera alle nostre orecchie e allo stesso tempo terribilmente familiare: la logica conseguenza di un malfunzionamento sociale che tutti noi percepiamo e che ora ha anche un nome. Non si tratta di un’etichetta sociale volta a incasellare le persone, uniche in quanto tali, bensì di uno strumento fondamentale al fine di calamitare le nostre riflessioni, conferendo loro direzione, identità e consistenza. Si tratta di un fenomeno di cui dobbiamo necessariamente prendere coscienza, poiché dalla sua comprensione possiamo trarre importanti strumenti per evolvere come essere umani, sia da un punto di vista esistenziale, che da un punto di vista sociale. Più gli anni passano è più emergono con evidenza tutti i limiti strutturali dell’attuale modello capitalistico che governa la nostra società, talmente pervasivo da essere da

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essere in grado di influenzare ogni aspetto dell’esistenza, compresi quelli che non dovrebbero farne parte. Guardando il Giappone, per esempio, ora sappiamo che l’estrema efficienza tecnologica, organizzativa ed economica di una società non si traduce necessariamente in un maggiore benessere per i suoi cittadini. Ora sappiamo che la strada imboccata forse ci condurrà esattamente dove non vorremmo arrivare. L’invito è allora quello di interpretare l’Hikikomori come un monito, la spia rossa di un malfunzionamento più grande. Trattandosi di un fenomeno sociale non può in alcun modo essere interrotto, come accadrebbe con una malattia infettiva trovando il suo vaccino, ma può essere contrastato, limitato e ben gestito. Per fare questo è necessario continuare a parlarne e sensibilizzare sul tema quante più persone possibile, non lasciando il compito solamente in mano ai media, con tutti i loro limiti, ma assumendoci la responsabilità in prima persona attraverso il passa parola. Ognuno di noi può fare qualcosa, deve fare qualcosa. Poiché l’Hikikomori ci riguarda tutti.

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