Henry James e Shakespeare 9788878705371


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Henry James e Shakespeare
 9788878705371

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SERGIO

PEROSA

HENRY JAM E SHAKESPEARE

BULZONI

EDITORE

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/nenryjameseshake0000pero

Piccola Biblioteca Shakespeariana diretta da

Nadia Fusini

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SERGIO PEROSA

HENRY JAMES E SHAKESPEARE

BULZONI EDITORE

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,

la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-537-1 © 2010 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14

http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

ad Alberto e Marta, molta gioia

INDICE

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PROLOGO

io passeggiavo a braccetto di Shakespeare lettera a T. S. Perry, 25 marzo 1864

La Casa natale

Nel suo tardo racconto The Birthplace (1903), Henry

James inscena il dramma psicologico-culturale del custode della casa natale del Bardo — mai nominato, ma chiara-

mente Shakespeare: ‘La casa giovanile del poeta supremo, la Mecca della razza anglofona”. Nasceva da uno spunto reale, registrato nei Taccuini: una coppia di ‘intellettuali’ attratti da quell’impiego di prestigio ma troppo raffinati, subito entrambi disgustati dalla cialtroneria del pubblico che richiede balle e fanfaluche sul Bardo, divenuti ostili alle sciocche leggende, che finiscono per negare e rinnegare, dovendo quindi abbandonare il loro incarico. Nel racconto compiuto, invece, la moglie pretenziosa tiene ancorato il povero custode alla loro fortuna: un domicilio di prestigio, un’elevazione sociale, la consorteria

1.

Po

con la cultura ed i suoi visitatori. Morris Gedge è soggiogato, come posseduto dal Bardo, che diventa ‘il loro amico

personale, la loro luce universale, la decisiva autorità e divinità’. Si aggira per la casa eccitato e come ubriaco; la sua spettrale vicinanza gli dà alla testa — tanto più che il sommo drammaturgo ha coperto le proprie tracce, e se ne sa poco o nulla. La moglie prospera sulla leggenda che attira i visitatori, l’alimenta e la stimola; ma il marito fiuta l’inganno di quelle esibizioni: la Camera Natale è desolatamente vuota di tutto, non c’è e non è veramente ‘nulla’. Di lì nasce quello che viene definito lo ‘strano caso del sacerdote’, in una tarda Prefazione ‘il custode disamorato di una leggenda gonfiata [overgrown]. L’uomo del passato, lo spettro del mai nominato Shakespeare non si può afferrare: ‘non c’è l’autore’, che vuol essere lasciato in pace. Ci sono soltanto tutte le persone immortali che ha creato nelle sue opere, ma nessun altro. ‘The play’s the thing”, occorre concludere. Eccelsa consolazione da un lato, fru-

strazione dall’altro. In un paio di incontri con due ‘percettivi’ visitatori americani, che la pensano come lui sulla violenza perpetrata su Shakespeare dalla manipolazione ed esibizione del suo ‘nulla’, il malcapitato Gedge svela la ‘frode’, si chia-

ma fuori dall’inganno (non c’è vera casa o stanza natale, cose o suppellettili che Gli appartengano), si dissocia per così dire dai visitatori ottusi e idolatri che il Sommo Poeta uccidono ogni giorno con la loro curiosità e credulità. Non

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avrà più a che fare con la creazione del mito e con l’indegno Spettacolo, Il Più Grande della Terra. Ma poi — per motivi pratici, spinto dalla moglie — deve recedere dal suo proposito, ‘cambia registro’, ed ecco che diventa il più fantasioso e ispirato creatore e propugnatore di improbabili storie, leggende e infiorettature sul Bardo, inventando a perdifiato fatti e circostanze a beneficio del pubblico, fino a ottenere considerazione e fama al di qua e al di là dell’ Atlantico. Non solo gli raddoppiano lo stipendio: diventa come gli anchor men televisivi d’oggigiorno, ‘crea’ una realtà superiore a quella che è stata, libera e disancorata dai fatti. È il successo del Baraccone, da un lato; ma dall’altro, Gedge è anche l’unico vero erede del Bardo, che l’ha contagiato, gli ha trasmesso

il gusto dell’invenzione,

della

manipolazione e della trasfigurazione dei fatti. Con l’invenzione magari improbabile, egli rende felici gli spettatori, li fa sognare, acquisendo il potere di ‘mostrare come in un quadro l’atteggiamento degli altri — non la propria povera, squallida personalità’. Sarà un imbonitore: ma non lo

era anche Shakespeare? Da lui egli mutua lo splendido mistero della creazione e dell’elaborata fabbricazione dal nulla, con tutte le contraddizioni, le mistificazioni e le dissacrazioni che sono il segno del grande artista. Per tutta la sua vita e la sua carriera, Henry James esalta ed eredita — entusiasta ma anche scettico e mistificato, turbato da analoghe considerazioni — quel grande potere di Shakespeare, lo interpreta, lo esemplifica e lo impersona

al modo

dello scrittore otto-novecentesco,

affascinato e

sgomento di fronte a tanta riconosciuta potenza d’arte, e a tanta sfuggente pochezza, anzi inesistenza, dell’uomo che la crea. Com'è possibile, come si spiega, perché tali abissi di insondabile mistero? ‘Strano mostro’, l’artista. In buona parte, e in svariate forme, l'affermazione e la natura di James si scopre connaturata e si misura con quella di Shakespeare. Una presenza costante e continua nella sua vita, nelle sue lettere e nelle sue memorie, nella sua opera narrativa, fino a un confronto finale e cruciale con le eccelse realizzazioni d’arte e la sconcertante ‘assenza’ dell’uomo Shakespeare. L'incontro è con un altro e uno ‘spettro’ di cui è doveroso cogliere e imitare o sfidare la grandezza,

ma altrettanto snervante dover affrontare la mancanza umana, d’ogni orpello o aggancio di questa terra. ‘Il maestro e mago dalle mille maschere”, lo chiamerà: maschere che vorrebbe fargli cadere dal volto. Ma anche un confratello (non un confrère, termine che James riserva ai romanzieri coevi), che si presenta quasi inarrivabile, quasi una sorta di apoteosi ante litteram del romanziere artiste. ‘Gran cantastorie [storyteller], gran drammaturgo e pittore, grande amante, in breve, dell'immagine della vita’, lo definisce nel saggio ‘The Lesson of Balzac” del 1905, attribuendogli le caratteristiche che ha sempre considerato proprie del gran romanziere — un compendio, insomma, delle qualità del grande artista e del grande romanziere.

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È lo scrittore capace di indagare ‘coscienze prodigiose’ — quelle di Amleto e Lear e di personaggi che attingono una consapevolezza fin troppo acuta di sé e degli altri. Nel più tardo saggio dedicato a The Tempest sarà più concisamente il supreme master of expression, in termini che James mutua dalla propria poetica e con i quali si immedesimerà. Ma le radici di tale appropriazione e tale apprezzamento sono lontane.

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SULLA PAGINA

Teatro, dramma e pittura

Lo Shakespeare che interessa James a fondo è quello immaginato e vissuto sulla pagina scritta, di cui dà testimonianza nelle enunciazioni libere dal raffronto sulla scena. Scrivendo dei propri drammi in una lettera del 1913 egli notava che, quando venivano recitati, ‘Allora erano inevitabilmente roba di Teatro [Theatre-stuff], e come tali correvano la loro alea; ma ora che godono di completa immunità dalla messa in scena, sono roba di Dramma [Drama-stuff] - una cosa ben diversa. È soltanto in quanto roba di Dramma che io ne ammetto l’esposizione a osservazioni pubbliche’. La distinzione fra Teatro e Dramma non potrebbe essere più netta. Anche in ‘After the Play’ distingueva fra stage e drama, asserendo, forse più giustamente, che il teatro abbisogna di entrambi — non si può avere l’uno senza l’altro. Ma sera fatto più drastico. Mentre già in uno scritto giovanile su Mary Elizabeth Brandon, nel 1865, postulava che nei poeti antichi l’interesse drammatico del delitto ‘stava nel fatto che comprometteva la tranquillità morale del criminale’ — come ad esempio in Oreste e Macbeth — laddove ai

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suoi tempi l’interesse sembra risiedere nel fatto che il delitto ‘ne compromette la sicurezza personale’. Ora il criminale si svela al lettore grazie alle ‘circostanze’. Ma per James ‘non ci sono circostanze nel Macbeth, quando lo leggiamo; vedendolo recitato da Charles Kean o Booth, non è altro che circostanze.’ Forse l’impressione di grandezza lasciata ai contemporanei dagli attori della vecchia generazione come Garrick e Mrs. Siddons ‘era perchè, come i vecchi drammaturghi, erano ideali e poetici; perché si sforzavano non di impressionare, ma di esprimere”. In una tarda lettera del 1914 avrebbe ripetuto: ‘Dubito che oltre un certo punto le elaborazioni e gli sviluppi scenici non siano davvero ostili alla vita intrinseca del Dramma”. È in tal senso che lo interessava Shakespeare — come poeta e null’altro: ‘i drammi e i sonetti non furono mai scritti se non da un Poeta Personale, un Poeta e Nient’altro’, al quale James si equiparava cripticamente in un’altra tarda lettera al fratello William, scrivendo di essere ‘tutto costituito di fantasia (& ‘“nervi”)’, con riferimento neppur tanto ‘sepolto’ ad un noto passo del Sogno di una notte di mezza estate (‘The lunatic, the lover and the poet are of imagination all compact’, V, 1, 7-8). Già in due recensioni giovanili riconosceva che la parola di Shakespeare ‘ha peso; egli parla autorevolmente [carries weight; he speaks with authority], e che sebbene egli vivesse in un’epoca pre-scientifica, secondo le parole di David Masson non c’era ‘apparato pensante di quel tipo più esperto della sua mente, né trasparenza spirituale di

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più ampio diametro”. Oltre che ‘divino’ (com’è definito in un’altra lettera), il drammaturgo-poeta è tutto quanto James aveva detto nella citazione fatta all’inizio: un autore comprensivo, nei due sensi della parola, che spazia, comprende e dà una visione complessiva e profonda della vita.

È panoramico e processionale — come James aveva detto dovesse essere il romanzo dell’ Ottocento nella sua dimensione artistica, ossia una picture, un gran quadro il più possibile inclusivo di vita. In questo, il suo corrispettivo era Tintoretto, il Tintoretto della Crocefissione e di altre grandi tele. In una lunga lettera giovanile al fratello, in cui riferisce dei suoi dipinti a Palazzo Ducale, James equiparava il genio di Shakespeare proprio a quello di Tintoretto: ‘se Shakespeare è il massimo poeta, Tintoretto è di sicuro il massimo pittore. Appartiene alla stessa famiglia e produce in alto grado lo stesso effetto. Mi sembra che sia penetrato nella pittura fino a una distanza insospettata dai suoi confratelli [...] nella stessa capacità pittorica.’ È un’equiparazione che anche in seguito avrebbe avuto un peso nel suo apprezzamento e nella sua valorizzazione del Bardo. E ancora una volta ci si mette anche lui, a completare il sommo trio: ‘Darei non so che cosa per riuscire a buttar giù una dozzina dei suoi dipinti in prosa di corrispondente forza e colore. [...] Gran parte dei suoi dipinti sono immensi e brulicanti di figure’, avrebbe continuato; ‘sono di ogni tipo; non si ha la sensazione di vederne la fine”.

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La speciale grandezza di Tintoretto, e quindi, per analogia, di Shakespeare, sta nel fatto che più di ogni altro pittore finora, ‘egli per abitudine concepiva il suo soggetto come una scena reale che non sarebbe potuta accadere altrove; non come mero soggetto e quadro — ma come un gran frammento strappato alla vita e alla storia, con tutti i naturali dettagli attaccati a testimonianza della sua realtà. Sembra non solo di guardare i suoi dipinti, ma di guardarvi dentro. Il ‘trio’ funziona anche all’interno dei concetti qui espressi, che ho citato a lungo perché mi sembra gettino luce sull’idea che James si fa non solo di Shakespeare, ma delle proprie ragioni di artista. Il quadro (pittorico) si equipara ad una actual scene drammatica (i quadri di Tintoretto a cui ci si riferisce sono il Miracolo di San Marco, Adamo ed Eva, Caino e Abele); e a sua volta, lo spettatore/ lettore non vede solo, ma vede dentro. Questo sarà, com'è evidente,

e come vedremo in seguito, il massimo ideale,

nel suo caso narrativo, di James, la sua poetica più spinta e la lezione maggiore che riceve anche da Shakespeare: 0ssia l’interiorizzazione di indagini e conflitti. Sull’importanza di Tintoretto come artista e modello, e

come corrispettivo shakespeariano, James si era dilungato anche nel saggio di viaggio ‘Venice. An Early Impression” del 1872: ‘era l’intera scena, completa, peculiare, individuale, senza precedenti, che egli affidava alla tela con tutta la veemenza del suo talento [...] Dall’opera di Tintoretto

si ricava l’impressione che sentisse, pittoricamente,

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grande, bello e terribile spettacolo della vita umana proprio come Shakespeare lo sentiva poeticamente.’

Scrittura e interiorità

In tale intrico, che coinvolge la poesia del dramma shakespeariano, la scena dilatata della pittura di Tintoretto,

e la stessa poetica che James va formando e perseguendo proprio attraverso simili confronti, entravano anche romanzieri che partecipano dell’una e dell’altra istanza. Un esempio importante fra i narratori per le sue e le nostre definizioni è quello di Balzac. ‘Nella maturità della sua visione, Balzac assorbì della vita umana più di ogni altro, dopo Shakespeare, che abbia tentato di raccontarcene storie’, scriveva James in A Little Tour in France (1885), rendendo esplicita anche qui la connessione shakespeariana, che affiora in molti dei saggi da lui dedicati al confrère francese. Già nel primo, del 1875, egli cita analogamente dal grande critico francese Hippolyte Taine, agguerrito studioso di letteratura inglese, il quale ‘dice molto felicemente di Balzac che, dopo Shakespeare, è il nostro gran magazzino di documenti sulla vita umana. Quando si tira in ballo quest’ultimo, veniva precisato, avvertiamo anche le differenze: i suoi personaggi ‘risaltano nell’aria aperta dell’universo, mentre quelli di Balzac sono racchiusi in una peculiare atmosfera artificiale, ammuffiti di qualità e limi-

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tati di numero’. ‘Ma è verissimo che Balzac, al pari di Shakespeare, si può trattare come una decisiva autorità sulla natura umana’. James aggiungeva di suo che in Shakespeare, come in molti romanzieri coevi, da George Eliot a

Ivan Turgenev, troviamo il profumo della moralità, di cui Balzac invece era privo: e il loro senso morale già di per sé trasferisce ai personaggi quella consapevolezza o interiorità che gli sarebbe subito apparsa di precipua importanza, e a cui come artista si sarebbe votato. Nel grande, conclusivo saggio sullo scrittore francese del 1905, James azzardava che Balzac e Dickens ‘non hanno avuto rivali, tranne l’un l’altro e Shakespeare”, esprimendo l’idea (da cui eravamo partiti all’inizio) del drammaturgo come ‘great story-teller great dramatist and painter, great lover, in short, of the image of life’, in cui compendia gli elementi essenziali ad ogni grande narratore quale egli si immagina. Shakespeare ha naturalmente qualcosa in più o di diverso: ‘L’istinto e la tradizione lirici in lui sono immensi’, al punto da squalificarlo quasi, o per un momento, come esempio e modello, giacché non si tratta di elementi precipui nel romanziere (sono in effetti assenti del tutto in Balzac, Scott, Thakeray, Dickens, anche se si ritrovano in George Sand e George Meredith, specificava James).

Lo stesso Balzac condividerebbe però con Shakespeare la capacità così importante, se non essenziale, per James, di sondare nei recessi della coscienza e nelle motivazioni o complicazioni anche oscure dell’animo, e l’asserzione non

Mu

ammette dubbi: ‘Suo argomento è in continuazione la complicata natura o condizione umana; e queste complicazioni è come se le conoscesse, così come le conosceva Shakespeare, per la sua intensa consapevolezza [charged consciousness], la storia della propria anima e l’esposizione diretta della propria sensibilità. Ed è sotto questo aspetto che James vede la grandezza ultima di Shakespeare, il modello, se possibile, al quale attenersi o con il quale almeno fare i conti. Già in una delle sue primissime recensioni, nel 1864, a ventun’anni, aveva avanzato l’idea della psicologia come ‘osservazione del carattere morale e intellettuale’; in senso tecnico, ‘è, nella narrativa, lo scrutinio della motivazione [motive]'; farne a meno equivale a eliminare ‘il principio spirituale’. Anche qui, come si è visto nelle sue cronache teatrali, la descrizione dell’esteriorità si qualifica come ‘scuola pittorica’ e viene distinta dalla descrizione dei fatti interiori, che è dunque fin dall’inizio un'istanza del narra-

tore. Nello stesso anno, James notava che il vero principio della composizione narrativa e il compito principale dell’autore è ‘la cura delle anime, fino ad assoggettare, se necessario ad escludere, il pittoresco’ (nel senso suddetto). Per tutta la vita e per tutta la sua carriera avrebbe elaborato, raffinato e messo in pratica tale principio e tale compito. Nell’influente saggio ‘The Art of Fiction’ (1884) ave-

va spezzato più di una lancia a favore dell’indagine e dell’approfondimento psicologici da parte del romanziere artiste: ‘Una ragione psicologica è, per la mia fantasia, un

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adorabile oggetto pittorico; cogliere il colore della sua complessione, sento che mi ispirerebbe sforzi tizianeschi. Poche cose sono per me più eccitanti di una ragione psicologica’. E paragonando i romanzi d’avventura di R. L. Stevenson a un romanzo come Chérie di Edmond de Goncourt avrebbe concluso: ‘La coscienza morale di una bambina fa parte della vita tanto quanto le isole dei Mari del Sud”. Sulla ‘vita della coscienza” James incentrava gran parte delle sue avventure narrative: i suoi diventano 1 primi, grandi esempi di romanzi psicologici programmati come tali. Ebbene: quando nelle più tarde Prefazioni alla New York Edition delle sue opere illustra, commenta e sviluppa la sua teoria del romanzo ‘analitico’ in contrapposizione a quello di mero intreccio o d’avventura, non trova grandi modelli nei romanzieri a lui precedenti, ma in Shakespeare. Do solo due esempi risolutivi. Nella Prefazione a The Princess Casamassima: ‘le figure di qualsiasi quadro, gli agenti di qualsiasi dramma, sono interessanti soltanto in proporzione a come sentono le rispettive situazioni, giacché la loro consapevolezza della complicazione esibita forma per noi il loro legame o la loro connessione con essa. [...] che siano finemente consapevoli — come Amleto e Lear, diciamo, sono fine-

mente consapevoli — costituisce assolutamente l’intensità della loro avventura, dà la massima sensazione di ciò che gli accade.” Ci importa relativamente poco, suggerisce James, dei tonti, rozzi e ciechi, o solo in quanto servano a

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esplicitare quel che accade a chi sente: sia Amleto che Lear ne sono circondati, ed essi in vari modi contribuiscono al destino, all’avventura interiore dei protagonisti sensibili. Arriva addirittura a sostenere che ‘nessuna “storia” è possibile senza gli sciocchi’, che stranamente diventano ‘specchi del soggetto”, così come avviene in gran parte dei ‘bravi pittori della vita’: Shakespeare, in primo luogo, Cervantes e Balzac, Fielding, Scott, Thackeray, Dickens, e

via dicendo. Nella Prefazione a The Tragic Muse, il romanzo ‘così

francamente panoramico e processionale’ che ha come uno dei suoi temi il ‘personaggio istrionico’, James si dilunga ancora sul necessario rapporto fra protagonista senziente e comprimari o agenti secondari: ‘Nessun personaggio di un dramma (che non sia un mero monologo) possiede, a dirla giustamente, una coscienza usurpante; la coscienza degli altri viene esibita esattamente alla stesso modo di quella dell’“eroe”; la prodigiosa coscienza di Amleto, la più capace e la più affollata, la presenza morale più asserita in tutta la gamma della finzione [fiction], si alterna a quella degli altri agenti della storia, indipendentemente da quanto siano occasionali. In altre parole, essa deve rispondere di se stessa al par della loro”. Allo stesso modo sarà per la protagonista del suo romanzo, che ripeterebbe insegnamenti e prefigurazioni shakespeariani. Mi sembra di notevole interesse ed importanza, perché questa è una delle lezioni fondamentali del drammaturgo, il suo contributo all'umanità e alla stessa narrativa j)amesiana.

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Un'altra complessa lezione è affrontata e minutamente discussa nell’introduzione che James fu richiesto e accettò di scrivere al capolavoro di Shakespeare, The Tempest, dove ne fa una sorta di alter ego al quale applica o in cui ritrova tutti i principi artistici che nella maturità aveva elaborato per il romanzo, e a cui, in forza di Shakespeare, sembra ora attribuire valore definitivo, assoluto, inappellabile.

La Tempesta I: preludio

Il saggio che costituì la ‘special introduction’ al volume 16° della ‘Renaissance Edition’ di Sir Sidney Lee (1907) sembra in tutto e per tutto l'equivalente di una Prefazione jamesiana. Alla richiesta di William Dana Orcutt,

che concepì e seguì l’edizione, James aveva sorprendentemente accettato, asserendo: ‘Sfiderò questo artista — maestro e mago dalle mille maschere — e gliele farò cadere, sia pure per un breve tempo ’ (avrebbe ripreso la definizione nel corso del saggio) . In realtà, strappa la maschera anche a se stesso, ritrovando sotto quella di Shakespeare un volto artistico simile al proprio. Vede nella Tempesta l’opera finale e culminante del drammaturgo, ma è come se parlasse di sé e della propria opera. C’è come un ipotesto personale: James ravvisa in Shakespeare la perfetta coincidenza ed anzi compenetrazione di tema e tecnica, senso della realtà e immaginazione, ed è come se esprimesse per l’ennesima volta, per

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trasposta persona, i propri principi letterari ed artistici, e ne trovasse conferma nell’ineguagliabile modello dell’altro Maestro. Anche il tono è quello affabile, personale, ‘narrativo’ delle Prefazioni: lo stesso andamento vagabondante, le di-

gressioni, le reminiscenze, il soffermarsi su aspetti o ricordi particolari, apparentemente marginali, ma che poi si svelano centrali o di cruciale interesse. Lo stesso sorprendente addio di Shakespeare al teatro, il fatto che la Tempesta sia l’ultima sua opera, dopo di cui subentra un inaspettato e inspiegabile silenzio, mostra un’attinenza con James,

che sente di aver concluso — proprio con la New York Edition e le relative Prefazioni — la sua lunga attività; che a differenza di Shakespeare, ritiratosi a tutti gli effetti in campagna, continuerà a scrivere romanzi e reminiscenze

autobiografiche, ma che pure può vedere conclusa la sua lunga carriera con la ‘fase maggiore’ e l’acclamazione come the Master. Questa ‘Prefazione’ è come le altre poliedrica e idiosincratica, culmine del suo apprezzamento di Shakespeare, e come per dire sua appropriazione ed equiparazione: lo specchio e il riflesso dei propri motivi e principi artistici. Sembra un testo bi-funzionale. È come la prefazione ad un’opera che è coronamento e modello di assoluta artisticità quasi astratta, un’ineguagliabile super-opera che trova come il suo corrispettivo o ipotesto nel romanzo artiste, nel romanzo

totalizzante,

insieme

musicale

e astratto,

contemporaneo — insomma, nel romanzo jamesiano.

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In una lettera del 1914 a Henry Adams, il quale si stupiva che il vecchio James ancora scrivesse nostalgicamente di un passato ormai superato e lontano, egli si definiva di fronte alla vita, con una frase celebre, come ‘quello strano

mostro, l’artista, una caparbia finalità, un’inesauribile sensibilità’. Non è un caso né una semplice coincidenza che la definizione di ‘strano mostro’ nascesse a proposito di Shakespeare, dichiarato ‘mostro’ (con in parte l’accezione che aveva in latino) per eccellenza. Ed è sotto quel segno che egli costruisce l’immagine finale del Bardo, che diventa speculare alla propria. James è come lui scrittore problematico, sorprendente, un balzo, un salto in avanti ad ogni opera, critico inquisitivo che afferra lucidamente il bandolo sapendo che lo si perde subito, che ci sfugge tra le mani, che è sempre al di là di dove crediamo che sia. Si era speso tutta la vita per l’impersonalità dell’arte, per l’artista ‘présent partout mais visibile nulle part’ di cui scriveva Flaubert in una lettera del 19 febbraio 1857 a M.lle Leroyer de Chantepie, per il rifiuto reciso di ogni biografismo e autobiografismo. Shakespeare ne era l’antesignano, non tanto per scelta o volontà propria, nel suo caso, ma per le circostanze oggettive del suo mestiere: la sua, come riconosceva già John Keats, è una ‘negative capability”, è tutti e nessuno; non sappiamo quasi nulla di lui, e lui mostra di saper quasi tutto di ognuno. James non l’avrebbe mai messo in dubbio o discussione: ma in questo suo scritto finale su di lui la domanda ossessiva, ricorrente, persino a tratti angosciosa,

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è su dove sia l’uomo Shakespeare: come sarà stato, cos'era, dov'era, come possiamo sopportare di non saper nulla o saper così poco di lui, perché. Tutte domande che ci sfuggono e ci eludono, ed è un’altra caratteristica del tardo James che scrive del tardo Shakespeare: le domande — più che le risposte — incalzano e si accumulano, costituiscono il nostro tessuto di interessi, la nostra vita di uomini e di artisti. Sempre meno sono possibili o persino auspicabili le risposte: non è tutto ormai come un fluire, una finalità assoluta e caparbia ma come alla deriva (perché il Bardo avrebbe altrimenti smesso di scrivere, di propria iniziativa e volontà, al culmine della propria attività e del proprio successo, senza ragione apparente?) Su questo testo, e sui due scrittori che lo impersonano, incombe the sense of an ending, il senso della fine, della conclusione, che però è amara tanto quanto esaltante: giacché dopo l’apice, la gloria, il suono potente della vita e dell’arte, piomba il silenzio. Perché, come, chi lo decide? James sfiora qui persino la domanda metafisica, senza risposta.

La Tempesta II: astrazione

Il saggio coincide proprio con la domanda o il quesito, espressi nel monologo di Amleto: se sia più nobile soffrire — sentire, agire, proiettare — interiormente, o non sia meglio prender l’armi — contrastare, muoversi, esprimersi —

ESONERO

nell’agone della realtà, nella vita del mondo. O se non occorra, per l’artista, una partecipazione o compenetrazione di entrambi. Di fronte all’effetto indiscutibile della Poesia e dei Drammi di Shakespeare, il non saper nulla sulle condizioni della loro nascita ci tiene sui carboni ardenti (ecco perché James aveva scritto le sue Prefazioni). In particolare per la Tempesta, ‘una delle opere supreme della letteratura’: a nulla valgono le fin troppe risposte che la critica bassa, acquiescente, con buone intenzioni propone, come guizzi di fiochi fantasmi; ci dice tutto e il contrario di tutto. Arrivare all’ ‘osso della contesa’ (the bone of contention: un termine che James applica nelle Prefazioni a motivi della propria narrativa, ad esempio per What Maisie Knew) comporta invece un rischio mortale, giungere all’occhio dell’uragano — dove troviamo ‘il soggetto stesso intatto e inconscio, assiso imperscrutabile e senza batter ciglio come la divinità di un tempio [...] La divinità è inflessibile, non scende mai dal piedestallo, come l’immagine della vita nel Racconto d'inverno; ci lascia a occhi sbarrati attraverso i secoli”. L'incipit ci evoca una divinità placida e insieme terribile. Alla fine del saggio si riproporrà la domanda sull’ autore/uomo/persona che sempre ci elude. Non sfugge a James il perenne mistero, l’altra eterna domanda/quesito su Shakespeare: come questo ‘fiore più bello della sua esperienza’ nasca come pièce de circonstance, per una produzione celebrativa di corte, una festa di

elsa

nozze, e la musica più eccelsa scaturisca dal contingente. Un dramma breve, ricco, semplice, scritto prima dei quarantasette anni, ma avviluppato dal silenzio fitto e impenetrabile attorno agli ultimi anni dell’autore. Espressione di qualcosa su base enorme e definitiva di un ‘mostro di precocità’, a cui subito dopo si blocca il polso, zittito al culmine

della forza artistica, lasciandoci nel mistero di una ‘repentina e completa cessazione’. Lo ‘zotico’ di un tempo, ‘the transmuted young rustic’, già pronto a trent'anni a cose di prim'ordine, benché ‘sotto uno stress sordidamente professionale’, senza alcun declino visibile dei suoi poteri o spiegazione, di punto in bianco decreta un arresto repentino. È un motivo che assume i toni di un’ossessione. E se ne intreccia un’altra, con la quale entriamo nel campo della bi-funzionalità del saggio cui avevo accennato, quel parlare congiunto di lui, Shakespeare, e di sé, James: nel-

l’opera d’arte l’uno e l’altro gusta il massimo e il più raro dei suoi doni, l’ ‘Espressione creatrice, il senso istantaneo di un copioso equivalente di pensiero per ogni grano della grossolanità del reale’, la consapevolezza e la gioia di una ‘scienza sovrana’. Il ‘valore artistico del dramma è visto nel magro cerchio dei dati a nostra conoscenza’, nella penuria dei fatti a nostra disposizione: tanto più rifulge la strana complessità, perfezione e varietà del testo. L'artista è ‘così generalizzato, consumato e tipico’; l’uomo non si tocca direttamente

in nessuna parte dei suoi Drammi, ‘trattiamo perennemente con l’artista, mostro e mago dalle mille facce’, nessuna

me SI

delle quali lascia mai cadere. L'uomo è dovunque ‘così efficacemente racchiuso e imprigionato nell’artista’, mentre l’artista ‘è così immerso nell’abissale oggettività dei suoi personaggi e situazioni’ (la negative capability cui si accennava), che abbiamo come

il mal di mare, come

se

vedessimo dalle murate della nave ‘attraverso trasparenti mareggiate, il guizzo di strane creature marine. Siamo di fronte a ‘una serie di incalcolabili immersioni. Dopo quella primaria dell’uomo nell’artista, abbiamo quelle dell’artista nei suoi personaggi — Romeo e Giulietta, Shylock, Amleto, Macbeth, Coriolano, Cleopatra, Antonio, Lear, Otello, Falstaff, Hotspur — ‘immersioni durante le quali, benché si ritrovi sempre in piedi, la violenza dei movimenti procura guai e distrae la nostra vista’. Anche nella Tempesta, ‘dove non c’è violenza, egli va a fondo quanto vogliamo; ma ciò in cui s’ immerge, oltre a tutto il resto, è la lucida tranquillità del suo stile.”

Vanno delineandosi chiarissime coordinate del discorso. E subito riaffiora infatti il secondo intreccio: il capolavoro mostra ‘l'importante congiunzione che avviene [...] fra la sovraccarica ispirazione del poeta e la sua esperienza depurata [c/arified]", ossia fra la sua curiosità umana e la

sua passione estetica, che per un magnifico momento ottiene la supremazia. Non c’è raffinamento dell’esercizio artistico che non si possa attribuire all'autore. ‘La cosa fu raffazzonata [concocted] per una particolare richiesta’, ma ciò non impedisce che il Poeta trovi ‘l’occasione di gustare per se stesso, soprattutto per sé, come mai prima, neppure

NB

Poe

nel Sogno d’una notte di mezza

estate, la qualità della

propria mente e la forza della propria abilità’. Insomma, l’artista tratta con se stesso in assoluto e quasi nell’astrattezza dell’arte; nonostante la precarietà dell’occasione di Corte, ‘Innumerevoli si può sempre supporre che siano quei delicati dibattiti e intime comprensioni dell’artista con se stesso”. i Non occorre notare che James aveva fatto proprio così nelle Prefazioni. E gli scappa, a tal proposito, il termine ‘scenario’ che più volte aveva adoperato per le opere maggiori della sua fase mediana e maggiore, e che lo identifica con la stessa, presunta o ideale, procedura shakespeariana: ‘se posso metter la mano sul giusto “scenario”’, immagina che si sproni Shakespeare — proprio come faceva lui stesso da romanziere.

The Tempest III: il musico

Il passo ulteriore è ancora più evidente e gravido di significati . Lo scrittore che dibatte con se stesso, il genio maturo e divertito, James se lo figura ‘come quello di un divino musicista che, solo nella propria stanza, fa preludi o improvvisa al calar del giorno. L'immagine viene ripresa e sviluppata anche in seguito. ‘Siede al clavicembalo, vicino alla finestra aperta, nel crepuscolo estivo; vaga con le mani sulla tastiera’; cerca il motivo, si lascia andare, fra-

seggia, ricama e raffina, a seconda dell’ora e del momento.

AZ

ga

I vicini possono raccogliersi ad ascoltarlo nel giardino, l’usignolo zittire, ma si tratta di ‘un’occasione privata, il concerto di un solista, insieme esecutore e ascoltatore, che suona per il proprio orecchio, la propria mano, il proprio senso più interiore, e per la gioia e capacità del suo strumento. Per sé, ma ancor più per lo strumento. Così ancora una volta, in maniera ancora astratta, The Tempest ‘parla superlativamente di quella gran dote [endowment] dell’Espressione, l’espressione come forza primaria, una passione divorante, indipendente, la più grande mai conferita ad un uomo.’ È il potere di un discorso costitutivo, come venuto da un altro pianeta, un tesoro traboccante. Qui, direi, si tratta solo di Shakespeare, non di James, perché le risorse di tale stile sono immagini, emblemi, energie di ogni sorta, ‘l'ammasso [storehouse] di un re prima di una carestia o di un assedio’, ancora traboccante da porte e finestre, ‘la vita offerta come pasta del pane da lavorare’, tale da oscurare — o fare risplendere — il nostro mondo. L’Espressione è soverchiante, per miracolo,

rispetto ai materiali. Ne scaturisce un’altra immagine di Shakespeare, una sorta di artista ‘astratto’ perché in predominanza dedito all’aspetto formale: lavora prevalentemente non tanto nei termini dell’esperienza, quanto dell’espressione, ‘tutto nei termini della visione specifica e del genio dell’artista’. Più di ogni altro egli ci indica il rapporto dello stile col significato, ‘of manner to motive?. In lui, le due cose sono inseparabili, ‘la frase, l'insieme e l'ordine dei termini, è l’og-

ga Sa

getto e il senso, in compressione così stretta come quella di anima e corpo”. Grossa stupidità sarebbe considerarle distinte, giacché lo stile è ‘forza attiva e applicata’: nulla sarebbe altrimenti la lezione della Tempesta. Qui, e in quel che segue, James sembra applicare a Shakespeare la propria visione di quel rapporto, su cui si era dilungato in molte sue note teorizzazioni della narrativa. ‘La storia e il romanzo, l’idea e la forma, sono l’ago e

il filo’, aveva avvertito in ‘The Art of Fiction’: ma negli scritti del primo Novecento diventano la stessa cosa. E infatti, nella Prefazione a The Awkward Age scriveva che nell’opera d’arte compiuta vediamo ‘collassare visibilmente la seriosa distinzione fra sostanza e forma’. Nel saggio su Flaubert del 1902 aveva scritto della ‘fertilizzazione del soggetto da parte della forma’, e poi: ‘l’espressione è creazione, essa crea la realtà, e soltanto nella misu-

ra in cui è, squisitamente, espressione’; ci spostiamo ‘un un mondo beato dove nulla sappiamo se non grazie allo stile’. Sempre nel 1902, su D’ Annunzio: sarebbe fuorviante considerare ‘il suo “modo” distinto dal suo materiale”, giacché ‘non c’è creazione completa senza stile come non c’è musica completa senza suono’. E durante una vivace polemica con H. G. Wells nel 1915 asseriva conclusivamente: ‘È l’arte che crea la vita, crea interesse, crea importanza”. Egualmente, quella di Shakespeare è ‘un’alta testimonianza di questo valore assoluto e indipendente dello Stile’, ‘la fonte suprema per lui della gioia di vivere’. Se lo

REN

ps

stile era ‘il suo stesso materiale, la sua plastica argilla’, i segreti che gli rivelava erano ‘tutt’uno con le luci e le ombre della rappresentazione umana, tutt'uno con la miriade di battiti dello spirito umano”. Tutt’uno con la cosa, cioè: nell’applicazione il tono diventa sovrano, ‘è la sottigliezza dei suoi segreti, un interesse squisito”. Perciò egli riappare come il compositore al clavicembalo o al violino che ‘improvvisa’ e si abbandona: ‘Questa resa alla più elevata sincerità del virtuosismo” è tutta la Tempesta. James le riconosce dunque i propri ideali e intendimenti di narratore. Ma ricordiamo che anche Walter Pater in quegli anni considerava la musica come la più alta e comprensiva forma d’arte, proprio perché essenzialmente non-referenziale, astratta, svincolata dai materiali bruti dell’esperienza e del reale, in grado di attuarne una sorta di affinamento assoluto (nei due sensi del termine). ‘Tutte le

arti hanno in comune l’aspirazione verso il principio della musica, che è l’arte tipica, idealmente compiuta, oggetto

del grande Anders-streben

[il tendere verso

‘l’altra’] di

ogni arte’, aveva decretato: ‘Tutta l’arte aspira costantemente alla condizione della musica. Poiché mentre in tutti gli altri tipi d’opera d’arte è possibile distinguere la materia dalla forma, e si può sempre fare razionalmente questa distinzione, tuttavia lo sforzo costante dell’arte è di cancellarla.’ Oltre a questo, col suo estetismo Pater era proprio all'origine dell’idea che la forma fosse non solo insepara-

bile dalla ‘materia’, ma costitutiva della materia stessa,

‘un fine in se stesso”.

IRE

Ne deriva, si potrebbe dire, una lettura ‘pateriana’ e totalmente ‘jamesiana’ di Shakespeare come faro e antesignano di un’arte assoluta e non-materiale, da lui raggiunta particolarmente in questo dramma, che alla fine Ottocento si esalta da un lato nel campo della cosiddetta ‘poesia pura’, dall’altro di quella narrativa perseguita essenzialmente come forma e affermazione estetica in sé, di cui James era il massimo fautore. E infatti egli non parla quasi mai, o solo molto di sfuggita, molto indirettamente, di quello che accade nel dramma e sulla scena. Sa bene (e lo scrive) che i materiali delle commedie di Shakespeare ‘erano, senza eccezione, vecchie storie di comari’, storie dozzinali, a cui

non badiamo grazie al ‘velo iridescente’ che ne stravolge le proporzioni. I drammi storici, le histories, non hanno vero argomento; sono una serie di pioli (pegs: scuse, pretesti) ‘su cui appendere il tessuto d’oro che le attutisce’: con tutto il sangue, la violenza, ed i significati storici, oltre che drammatici e umani, che le contraddistingue... E sui casi singoli sembra sempre che voglia sfuggire al compito di vederli per quel che sono. The Merchant of Venice si rifiuta per vergogna di ridursi agli elementi di ‘una storia senza senso [wit/ess]"; le due parti di Enrico IV

‘non formano più di un conveniente canale diretto per la sfilza di immagini evocate’. Insomma, non solo James decontestualizza, ma vede i drammi di Shakespeare precipuamente nel loro incomparabile splendore formale: ogni pollice di queste produzioni ‘è tono personale, o in altre parole espressione pensosa portata alla sua massima ener-

SE siTOR

gia’. I termini sono di una critica non solo puramente formale, ma astrattamente estetica: 1’ Espressione si sostitui-

sce ai personaggi, diventa ‘carattere’ essa stessa. Quella della Tempesta è ‘una cosa da nulla [a thing of naught]?, un’isola, un naufragio, una coincidenza, come nel caso di Prospero e Miranda: nella rarefazione dell’isola, Ariele e Calibano (che sarebbe frutto di una massima delicatezza...), iprofumi e la magia, ‘sono lo stile affidato alla sua massima, disciplinata passione della curiosità’. Il dramma può essere ‘una tessitura di simboli’: ma pensando alla complessità umana, politica, filosofica, dei suoi personaggi, temi e motivi, c’è da restare allibiti di fronte a tanta astrazione. E infatti rispunta subito l’ossessione per il momento di ‘chiusura’, di abbandono dell’arte da parte del grande autore. Sarà una coincidenza esegetica che Prospero rinunci alla bacchetta magica e l’autore compia ‘Shakespeare's own despoilment’, una spoliazione di sé, come appunto il musicista — ancora — che chiude inopinatamente il suo strumento, abbassa il coperchio ‘sulla più potente capacità di vivida riflessione che mai alberghi in una costituzione umana’. Questo ‘addio al teatro’, il ritiro a Stratford, è infatti come il sonoro click di quel coperchio che si chiude e ‘riecheggia nei secoli’. Di fronte alla magnificenza di quella Espressione, nel momento più alto della sua riuscita, questo ridursi a far nulla, questo ritirarsi nell’oscurità della provincia, appare non solo o non tanto un ‘inconcepibile atto di sacrificio’ — che James non sarà mai in grado di

s'e

fare, scrivendo fino all’ultimo lumicino della sua vita — ma un mistero, accettabile ‘solo nello stupore’, uno stupore che non si affievolirà mai. Ancor più fitta si fa l'oscurità sull’uomo: chi mai poteva fare non solo tutto quanto ha fatto Shakespeare, ma compiere questa fatale rinuncia, ‘spegnere con uno spegnitoio da due soldi una candela divina’? Sembrerebbe di per sé argomento di un grande e inspiegabile Dramma, la spinta a ritornare ai testi, la riconferma di un altro motivo jamesiano. Se l’ineguagliabile Tempesta è il raffinamento di potere, freschezza, completezza e distinzione, essa ribadisce proprio l’eterno, insolubile mistero della ‘frattura completa, come la vediamo noi, fra il Poeta e 1’Uomo”. Inutile almanaccare sull’Uomo; ciò che conta sono i fatti del Poeta, i drammi e i sonetti. Il poeta è lè; l’uomo resta fuori. Da un lato c’è ‘la persona senza attenuanti rispettabile’ di cui conosciamo i pochi fatti. Dall'altro, ‘la figura che supremamente ci interessa resta a noi invisibile come il nostro Ariele”. Insomma, colui che lavorava ‘under sordidly professional stress’ è tramutato in un folletto, in

un ‘aereo nulla’ — raffinato anche lui fino a scomparire dall’esistenza, come dell’artista avrebbe poi detto James Joyce. Grandezza del genio non è infatti la separatezza delle parti e qualità, bensì che gli elementi del carattere si compenetrino. La complicazione per il James maturo, semmai, è che come un gatto egli vuol sempre mordersi la coda, rovesciare il discorso, e il problema, su se stesso. Come

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e

spiegare il rapporto inverso? Un essere tanto dotato artisticamente, come avrà influenzato l’uomo? Che effetto avrà avuto su questi ‘la capacità di scrivere Lear e Otello”? Tali domande ci portano in un campo dove ‘il nostro vuoto è più vuoto’, da cui siamo esclusi: ma sono le grandi domande che di fronte al genio dobbiamo porci. Ecco allora che, nella visione di James, il grande drammaturgo dell’interiorità e della psicologia individuale, contorta o solare che sia, cessa di essere il musicista

solitario e rarefatto, scende improvvisamente dalla finestra alla strada e si mescola alla vita, dove lo ritroviamo fra noi. La vita del poeta, nove su dieci, è interiore. Ritornando al punto di partenza: la sua ‘personalità’ è esplicitata solo nei suoi versi e nei suoi drammi. Ebbene, Shakespeare, il decimo — o milionesimo — esempio, diventa allora ‘non lo smilzo scapolo della musica, non l’arpa eolia messa una volta per tutte sul balcone per catturare l’aria,

ma lo spirito in caccia famelica di ogni possibile esperienza e avventura dello spirito, che con la più audace delle mosse intellettuali, sarebbe saltato dalla finestra.’ Lì siamo noi: purché si colga il valore e l’assolutezza della mossa intellettuale, non umana o spicciola. Shakespeare è sulla strada con noi perché lì ha scritto e ambientato i suoi drammi, e quello è il nostro unico canale per raggiungerlo: ‘Noi siamo liberi di assistere ai Drammi stessi quando vogliamo [...] purché limitiamo rigidamente il nostro accesso da lì’. Il poeta si sarebbe ‘perduto nella folla’, e solo lì, non all’origine ma negli esiti, lo ritrovia-

0A

mo, nei suoi spettri e nei suoi fantasmi, nei suoi personaggi e nelle sue ossessioni. Ma null’altro, perché altrove la barriera persiste e il suo ‘vaulting spirit’, il suo spirito che volteggia e non conosce ostacoli, sfida l'inseguimento. Il grande saggio di James si chiude ancora sul silenzio e sull’elusività di Shakespeare — qualcosa che il romanziere avrebbe voluto, ma non saputo, fare come lui. Dopo aver visto quella del drammaturgo come ‘proprio l’avventura cospicuamente trascendente [...] della mente umana’,

è incredibile che ‘il miglior apprezzamento raggiungibile sembra invitarci a lasciar svicolar via il grande personaggio, il possente avventuriero’. Lo fece nella vita; perché non nell’immortalità? Ma l’ossessione, il chiodo fisso resta: ‘Come ha potuto la facoltà così radiosa ordire così perfettamente l’arresto del suo volo divino”, come fu applicato lo spegnitoio, ‘cosa divenne del torrente bloccato”, cos'altro mise in moto con la sua presenza ed energia,

quale altro paese devastò? O non sarà magari che Shakespeare morì per lo ‘sforzo snaturato’ di tacere, così d’un tratto? Quando cioè il potere immaginativo cessò di avere importanza nella vita dell’uomo? James lo consegna insieme all’immortalità e alla mortalità. Lo vede, alla fine, come in un altro mondo, un aldilà

virtuale in cui si aggira. Ma con altrettanta insistenza e caparbietà ci riporta, per scelta e necessità, sempre ai suoi drammi: ‘Non toccheremo mai 1’ Uomo direttamente nell’ Artista. Solo indirettamente possiamo giocare le nostre speranze [...] La tappezzeria figurata, il lungo arazzo che

2

lo nasconde è sempre lì, con la sua immensa superficie e il suo corrispondente rovescio [underside] in proporzione”. Non conosco miglior descrizione della complessità shakespeariana.

Digressione

In armonia con il suo distacco dall’ America, James non nota un aspetto della Tempesta su cui si è appuntato un grande e quasi esclusivo interesse negli ultimi anni: l’origine del dramma in una qualche vaga visione, da parte dell’autore e del suo tempo, della colonia americana della Virginia, allora ai suoi primi passi. Che la sua apertura tragga origine, direttamente o indirettamente, da qualcuna delle poche e sparute relazioni di viaggio del tempo, ed in particolare dalla lettera di William Strachey sul naufragio della nave Sea Venture alle Bermuda (nota come 7he True Reportory of the Wrack [sic], 15 luglio 1610), non v’è dubbio. Shakespeare stesso si riferisce alla ‘still-vexed Bermoothes’ (I, 2, 229), e tutta l’atmosfera dell’isola incantata, la speranza di un Commonwealth ideale espressa da Gonzalo, gli intrighi e 1 trabocchetti dei marinai rinnegati, la figura del ‘cannibale’ Calibano, confermano un qualche oscuro sentimento shakespeariano e della sua epoca per ciò che avveniva confusamente oltreatlantico: ‘come to these yellow sands’. L'idea è esplicitamente richiamata alla fine del film Shakespeare in Love (1999), dove è come se il suo ultimo dramma si ‘aprisse’

GARE

dal Mediterraneo alla visione di un Nuovo Mondo, a quel ‘brave new world’ che Miranda ancora una volta esplicitamente richiama. La critica recente ci ha insistito fin troppo, dimenticando Milano, Napoli, Algeri, Tangeri e il Mar Mediterraneo dov’è pure dichiaratamente ambientata la Tempesta. Non potremmo nemmeno lontanamente pretendere che, tutto preso dall’ Europa com'era, e del resto del tutto dimentico, come si è visto, delle corporeità e degli avvenimenti del dramma, James avesse interesse a una simile anticipazione; e non sarebbe quindi ammissibile tacciarlo di una ‘chiusura’. Ma al suo tempo l’idea circolava, ed anche molto vicino a lui. Già all’inizio dell’Ottocento, nel 1808, il primo grande editor di Shakespeare, Edmond Malone, aveva sottolineato, relativamente al dramma, l’importanza della lettera di Strachey e degli opuscoli sulla Virginia e le Bermuda pubblicati nel primo Seicento. La Variorum Edition del 1892 dava conto della loro presenza e possibile connessione col dramma. Lo stesso Sir Sidney Lee, per la cui edizione James scriveva la sua ‘introduzione speciale’, nella sua biografia di Shakespeare (del 1898, poi spesso ristampata) e in altri suoi saggi sugli indiani, argomentava che la Tempesta rifletteva l’esperienza coloniale inglese — sia pure più per sentito dire che non direttamente. La vicenda si sarebbe svolta in un’isola della costa nord-americana e Prospero, nonostante i modelli indubbiamente europei del suo personaggio, aveva indubbie coloriture coloniali.

Cia

Nello stesso anno un critico accademico americano, Frank M. Bristol, in Shakespeare and America insisteva

sulla base e sul carattere interamente americani del dramma. La sua prima edizione nella collana ‘Arden Shakespeare’ (1901) calcolava che nove decimi degli argomenti toccati fossero suggeriti dalle nuove intraprese coloniali, e che Calibano fosse in buona misura ‘un indiano spossessato’. Poco dopo, il critico inglese Walter Alexander Raleigh, nella sua introduzione alla ristampa delle Principal Navigations di Hakluyt (1903-05), vedeva la Tempesta come ‘una fantasia del Nuovo Mondo’, entrando nelle sue possibili corrispondenze con temi e figure dell’esperienza coloniale: era ‘una composizione elaborata da frammenti di racconti di viaggiatori”. Rudyard Kipling — molto più vicino a James, che lo stimava e lo ammirava come scrittore (almeno fino alla pubblicazione delle sue American Notes) — si spingeva oltre, e avrebbe ben potuto interessarlo a queste prospettive: tanto più che insisteva proprio sul fatto che l’eccelsa visione del dramma era ‘intessuta del materiale più prosaico”. Kipling aveva visitato l’isola di Bermuda nel 1894, e in una lunga ‘Lettera’ allo Spectator del 1898 suggeriva che un impresario — null’altri che Shakespeare — avesse appreso del naufragio su quell’isola di Sir Georges Somers nel 1609 (cui si rifaceva anche Malone) da un marinaio mezzo ubriaco che ne riferiva blaterando in un teatro di Londra,

cogliendo ogni mezza frase o strana affermazione di questi come una suggestione, e stimolandone con le sue domande

su Gi

e con buone dosi di bevute i ricordi, che poi traspone nel suo testo, assieme a tante indubbie panzane che ha udito. Kipling immagina fra l’altro una sua storia fantasiosa per spiegare l’origine della caverna di Prospero, e l’incontro di due marinai ubriachi con una puzzolente balena morta e la loro velleità di impadronirsi dell’isola, e che i

suoni prodotti dal vento sulla barriera corallina diventino gli strani rumori che si odono nell’isola del dramma, e così via. Per quel tramite l’idea e i motivi della Tempesta sarebbero arrivati a Shakespeare nel corso della sua vita d’ogni giorno, ‘secondo la grande legge che per essere veramente miracolosa una storia va zavorrata di fatti’. È un po’ (o proprio) il contrario di quanto aveva messo in conto James nel suo saggio; ma peccato, forse, che egli non avesse avuto sentore di questa sortita di Kipling, di cui non fa alcun cenno nei suoi scritti. Del resto, Kipling tanto era attratto dalla sua ‘fantasia’, che la trasferì in seguito in una poesia, ‘The Coiner (Circa 1611)’, dove immagina che Shakespeare (mai però nominato come tale) incontri a Londra i marinai che erano naufragati alle Bermuda, li conduca in un taverna, e pagando loro da bere li faccia parlare delle loro esperienze fra sirene, diavoli e spiritelli, traendo non solo lo spunto, ma diversi elementi del suo dramma, dando loro quattro soldi alla fine (onde il titolo della poesia: ‘Il falsario’) per ripagarli di tanti tesori ricevuti e messi a buon frutto nel suo dramma. È interessante, infine, notare che forse il primo a presentare con tutte le cautele, e con la ritrosia tipica dei suoi

SS

RS

atteggiamenti e della sua scrittura, il caso di una Tempesta ispirata alle vicende della colonizzazione in Virginia, fosse proprio uno scrittore americano che James conosceva, uno

dei primi narratori della nuova nazione, espatriato in Europa ai primi dell’Ottocento, come lui lo sarebbe stato in seguito: Washington Irving. In due saggi narrativi di stampo settecentesco degli anni 1840s, ‘The Bermudas. A Shakespearian Research’ e ‘The Three Kings of Bermudas’, poi raccolti nel volume Wolfert's Roost (1855), Irving avanzava l’ipotesi che il drammaturgo avesse un chiaro interesse alle avventure dei coloni in quelle isole grazie agli opuscoli e alle dicerie correnti nel suo tempo, e che si potesse rintracciare ‘in quei primi resoconti e nelle nozioni superstiziose a loro connesse, alcuni degli elementi del suo stravagante [wild] e bellissimo dramma”. Erano ancora una volta le avventure della Sea Venture e di Sir Georges Somers. Irving entrava nei particolari di possibili corrispondenze: la temuta ‘isola dei diavoli’ che si rivela fertile e di splendido clima, incantata e benefica; i dissensi interni e la rivolta di due marinai ammutinati, che per un po’ ne diventano i ‘regnanti’ (poi tramutati da Shakespeare in Stefano, Trinculo e il loro complice Calibano), ecc. Tutti questi fatti — che all’epoca fecero sensazione e vennero riportati con grande clamore — avrebbero colpito la fantasia del drammaturgo e fornito elementi e materiali per il suo dramma: le tempeste, gli incanti, le superstizioni sull’isola ‘prodigiosa’ e ‘incantata’, l’idea di un’utopia felice, un’età dell’oro, da instaurare in ‘una piantagione’, su

PR, PERO

cui si diffonde in un celebre passo Gonzalo. Irving metteva già allora le cose a posto: non si trattava di stringenti paralleli o somiglianze, di ‘fonti’ dirette: ma se l’origine del tutto era italiana, l'ambientazione,

le idee fantasiose

e

‘stravaganti’ del dramma, erano verosimilmente suggerite da quei lontani naufragi sulle coste americane. Peccato che neppure di questi scritti James avesse contezza. Oggi si eccede in questo senso, ed è uscito recentemente un libro che costruisce addirittura tutta una storia sul naufragio alle Bermuda del 1609, ricamandoci molto sopra,

e parla di ispirazione diretta: A Brave Vessel. The True Tale of the Castaways who Rescued Jamestown and Inspired Shakespeare's The Tempest (2009). James, comunque, nemmeno dei fatti che pur avvengono nel dramma voleva parlare, figurarsi di questo; e nel nostro contesto la mia digressione ha quindi soltanto valore di curiosità.

Dissolvenza

Per tornare a noi. James non sa capacitarsi del perché Shakespeare abbia smesso di scrivere, e non cessa di interrogarsi su chi fosse veramente. Come abbiamo visto, non

capisce come il ‘mostro e mago dalle mille maschere’, così compiuto e tipico, così divertito di se stesso, della propria arte e della propria forza, possa smettere così d’un tratto di esercitare il suo potere. Forse muore per quello. È

Soi

la morte dell’artista a determinare quella dell’uomo, non viceversa, come spesso accade.

Né gli va giù — sono le frasi colloquiali che James usa, come faceva Shakespeare — l’abissale disparità fra la pochezza dell’uomo e la grandezza dell’artista. Ne parlava in un punto come dello ‘zotico [o bifolco: lour] di Stratford”

(ricevendone un’intemerata da parte dell’amica Rhoda

Broughton). C'è in questo non solo una punta di snobismo e di fastidio, ma la convinzione sottaciuta dell’espatriato americano nell’Inghilterra vittoriana per sete di cultura, che la conquista artistica, delle vette artistiche, dovesse basarsi su bagagli e la costruzione di forti fondamenti personali di cultura. Il genio ‘spontaneo’ che viene dal basso e imperscrutabile nella sua forza è difficile da capire. (È, mutatis mutandis, senza naturalmente l’odio, l’atteg-

giamento di Salieri magistralmente espresso nel dramma — poi un film di Milos Forman — Amadeus [1979] di Peter

Shaffer: come può, in questo caso, quello sgorbio di sciocco e vanesio ragazzino mai cresciuto scrivere la musica sublime che va sotto il nome di Mozart?)

Per questo, James poté persino farsi tentare dalla teoria baconiana, che cioè l’autore delle opere del Bardo fosse Francis Bacon: una teoria particolarmente in voga nell'America del tempo, a partire dal libro di Delia Bacon, The Philosophy of the Plays of Shakespeare (1857, con una prefazione di Nathaniel Hawthorne). Troppa la disparità fra l’uomo comune e la genialità dei drammi e dei sonetti. Ma altrettanta disparità ci sarebbe stata fra il saggista

=

Me

e scienziato elisabettiano, e quei drammi e sonetti eccelsi, e permanevano i dubbi e le frustrazioni. Così nel 1902 James aveva scritto all’amico Morton Marble, che gli aveva

inviato un libro su quella teoria: ‘fidati della parola di uno che bazzica con storie e fiabe: i drammi e i sonetti non poterono essere mai scritti se non da un Poeta Personale [Personal Poet], un Poeta e Nient'altro, un Poeta che, non essendo Nient'altro, non poteva mai essere, per giunta, Bacone [...] La difficoltà col divino Guglielmo è che lui

non è, non era, il Poeta Personale del calibro e delle condizioni necessarie, ma non più di quanto lo fosse il dotto, il fin troppo dotto Francesco [Bacone]. L’anno dopo, in una lettera a Violet Hunt avrebbe ribadito: ‘Sono ossessionato o “giù di lì” [sort of] dalla convinzione che il divino Guglielmo sia la più grande e più riuscita frode mai praticata su un mondo paziente. Più lo giro e rigiro e più mi dà quest’impressione. Ma tutto qui — non fingo di trattare la questione o di spingermi oltre. È irta di difficoltà, e posso solo esprimere la sensazione generale dicendo che trovo quasi altrettanto impossibile concepire che Bacone abbia scritto quei drammi, quanto credere che l’abbia fatto l’uomo di Stratford, così come noi lo conosciamo.’ Insomma, una sorta di baconiano tiepido e scettico: sarebbe stata una bétise crederlo fino in fondo, giacché tutto poteva essere Francis Bacon, ma non quel Poeta Personale che mostrò di essere ‘l’uomo di Statford’, chiunque egli fosse. L'idea che fosse una bérise veniva ribadita an-

te

fa

che in una lettera del 1910 ad un amico venuto a investigare la teoria: andava in bestia, James, a vederlo associato con una delle più provinciali, ‘the Bétise!” Da cosa nasce comunque cosa. Violet Hunt, allora artista in erba (alla quale poi James avrebbe riservato una brutta parte, quando divenne amante di Ford Madox Ford e si fece passare per sua moglie) gli suggeriva in una lettera che il genio di Shakespeare si poteva paragonare al passeggero di un piroscafo con pochi effetti personali in cabina e le grandi risorse del suo bagaglio nella stiva. James coglieva la palla al balzo, ma per un altro dei suoi immaginosi ricami su Shakespeare. Ammetteva la possibilità del paragone — che doveva toccarlo anche da vicino: quante volte non era stato un passeggero transatlantico? — ma esso non spiegava affatto la ricchezza di risorse di Shakespeare. Di suo, nella stiva, egli aveva in effetti ben poco bagaglio; il dato magico e sorprendente era come potesse sfoggiarne tanto nei suoi drammi: ‘Io faccio questa differenza. Il genio accede al proprio bagaglio nella stiva senza inconvenienti [perfectly] (mentre i comuni mortali si riducono a uno scatolone sotto

la cuccetta); ma non accede a quello del Capitano e del Primo Ufficiale, nei loro misteriosi recessi. Ora a me sembra che William di Stratford non aveva bagaglio, non poteva averne, in nessuna parte della nave, corrispondente al

grande guardaroba che sfoggia nei drammi’ Il mistero delle fonti e del dispiegarsi dell’intraprendenza artistica rimaneva intatto: da dove, in Shakespeare,

CT

tanta dovizia di risorse? Comunque la si rigiri, non sembra esserci spiegazione sufficiente. Egli costringe a immaginare, a far voli di fantasia, ci accomuna a lui: in cose relativamente da poco, come si è visto in The Birthplace, e in ambiti ben più grandi, soprattutto nel modo come James si postulava, si proponeva o si poneva, non si sa quanto inconsapevolmente, a suo ‘doppio’ e alter ego. Onde persino, una sua certa stanchezza finale. In visita

nel Warwickshire, ‘una terra piena di primavera e Shakespeare’, scriveva al fratello William di averne avuto abbastanza delle ‘trilogie’ di drammi dati in sequenza (ne ho subita una anch’io, da anglista giovane, e posso testimoniare di una ineluttabile sazietà): ‘Ed anche mortali trilogie commemorative di Shakespeare al teatro di Stratford, alle quali siamo stati trascinati per due serate. Basta!” (basta è in italiano nel testo).

Da ultimo, ciò che James sposa di Shakespeare è la maledizione, non meno esplicita della sua, su chi oserà turbare le sue ceneri, frugare nella sua polvere, gozzovigliare sui fatti personali: ‘Mio unico desiderio è frustrare il più completamente possibile l’esploratore post-mortem [...] da tempo ho pensato di lanciare, con una clausola nel testamento, una maledizione non meno esplicita di quella di Shakespeare’ (in una lettera del 1914 al fratello). Da quel canto, l’elisabettiano era stato più fortunato: non aveva lasciato quasi nulla in cui frugare. James avrebbe provveduto invece direttamente a impedirlo il più possibile con due gran falò delle sue carte.

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NELLA NARRATIVA

I luoghi Quando scrive dei luoghi di Shakespeare, James sem-

bra intonare già la nota narrativa, più che quella meramente evocativa o saggistica. Il Warwickshire (in un saggio di viaggio del 1872), ‘come si continua a ripetere, era terra di Shakespeare”, e ‘Il paesaggio pecca per un eccesso di suggestioni nutritive; per il sapore di dispense e mangiatoie’ — ossia per le sue connotazioni rurali. ‘Aiuta grandemente la mia vaga concezione del temperamento di Shakespeare, col quale non mi scandalizza molto esser obbligato ad associare idee di montone e manzo. C’è qualcosa di definitivo, di disilluso sugli orrori romantici di rocce e foreste, di

cònsono ai bisogni umani, nei pascoli del Warwickshire quanto nella moralità di fondo del poeta. È un’interessante notazione giovanile, un’empatia con il carattere ‘campagnolo’ del giovane drammaturgo, di cui James dà testimonianza trovandosi fra un villaggio e la campagna della stessa contea anche cinque anni dopo: ‘Cercai la gogna del villaggio; ero pronto a prendere i vagabondi di oggi per i buffoni di Shakespeare; e stavo per infilarmi in una delle birrerie per chiedere a Mrs. Quickly

Pda] gr

una tazza di vin di Spagna [sack, nel reportage ‘In Warwickshire']°. Certi aspetti del paesaggio sembrano inalterati, come se ci si ritrovasse ai tempi di Elisabetta I: una

casa lì vicino sembrerebbe adatta ad ospitare uno studioso o un appassionato del poeta. Anzi, sembrano i luoghi dei suoi stessi drammi: con i

suoi prati e le sue pecore, ‘era un giardino di delizie; il palcoscenico bell’e pronto per una della sue commedie — per Twelfth Night o Much Ado [About Nothing] — ma anche uno sfondo adatto ai romanzi di George Eliot. Anche Haddon Hall, nel Derbyshire, con le sue connotazioni più gentilizie e romantiche, appariva al giovane James ‘la mise en scène ideale per parti di commedie di Shakespeare. “È proprio elisabettiano”, disse il mio compagno. Qui la contessa Olivia può aver ascoltato Malvolio, o Beatrix [sic], quella meravigliosa coquette, può esser venuta a chiamare Benedick a cena’ (le allusioni sono a celebri personaggi dei due drammi suddetti). Ma nella sua narrativa, Shakespeare ispira James in forme meno pittoresche, più incisive e profonde di altri autori. A ventun’anni, in una lettera all’amico T. S. Perry, il narratore in erba scrive che a Newport ‘gli unici altri abitanti sono Shakespeare, Goethe e Charles Lamb” e che lui passeggia ‘a braccetto di Shakespeare”. Più tardi avvertirà in tono deprecativo che Daisy Miller, l’opera breve che gli diede la fama, ‘non è Shakespeare”: certo, ma l’accostamento in qualche modo gli viene (anche se si trattava di un semplice studio, un étude alla maniera francese, con

PS;

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pochi incidenti, essenzialmente una storia di ‘rapporti morali’: onde il sottotitolo, A Study). Nelle lettere, in racconti e romanzi, il tasso degli echi e delle allusioni è elevato. Anche se sono di prammatica o d’abitudine per quasi tutti i grandi scrittori di lingua inglese, in James sembrano più evidenti. (È indicativo e commovente che nell’ Autobiografia incompiuta, scrivendo della vita da espatriati, la definisca ‘non troppo dissimile da quella dei mitici esiliati nella foresta di Arden’.)

Echi e allusioni

Echi e allusioni sono frequenti nelle lettere (alla Tempesta già in una lettera del 1869). Di Othello James ama la citazione ‘This is the only withcraft I have used’ (I, 3 168),

e la usa diverse volte; in altre lettere si riferisce a Midsummer’s Night Dream e Much Ado about Nothing — i drammi a cui più spesso si richiama. Un’allusione più recondita a ‘the whirligig of time’ (la girandola del tempo, 7welfth Night, V, 1, 384) è in una lettera al fratello. Ma sarebbe inane segnalarne altre: basti indicarne la frequente presenza; e ricordare che James riteneva Shakespeare un’ottima fonte per dare i nomi ai bambini, facendo un lungo elenco di possibilità. Non so quanto gli interessati le avrebbero apprezzate. Ancor più diffusa è la presenza di riferimenti o citazioni ‘sepolte’ (talvolta scherzose) nei racconti e nei romanzi:

E

sembra che il Bardo ne sia spesso una sorta di genius loci. Ne farò una breve recensio, puramente indicativa della loro frequenza e di qualche evidente influsso. Il titolo stesso del suo primo racconto, ‘A Tragedy of Errors’ (pubblicato anonimo nel 1864), sembra rovesciamento di The Comedy of Errors; il suo primo atto unico Pyramus and Thisbe (1869) rimanda in qualche modo all’esilarante recita degli artigiani nel Sogno di una notte di mezza estate; il Benvolio del racconto omonimo (1875), al

celebre Malvolio della Dodicesima notte. In ‘A Light Man’ (1869), il protagonista sembra richiamare Iago (figura che tende a ripresentarsi come riferimento in molti altri casi);

altri riferimenti shakespeariani sono in ‘Gabrielle de Bergerac’, dello stesso anno. Le sorelle rivali di “The Romance of Certain Old Clothes’ (1868) hanno il nome di eroine shakespeariane, Viola e Perdita (il primo poi mutato in Rosalind); in ‘A Bundle of Letters’ (1879) compare il nome Miranda, che fa subito apparire come per magia un Prosper. ‘The Madonna of the Future’ (1873) si conclude con l’esclamazione ‘cats and monkeys’, che sembra riecheggiare il terribile ‘goats and monkeys” dell’ Otello. In ‘Master Eustance” (1871), il giovane angustiato dal nuovo matrimonio della madre e geloso del suo secondo marito, che si sente vivere in una casa

‘avvelenata’, è

esplicitamente ricondotto ad Amleto: ‘To sono come Amleto — non approvo le madri che si consolano”. Se qui abbiamo un Amleto in sedicesimo, in ‘Georgina’s Reasons’ (1884) abbiamo esplicitamente una Giulietta della 12th

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Street e un Romeo di Brooklyn. In ‘Guest’s Confession’ (1872), si caratterizza un personaggio con la descrizione che Falstaff dà di Shallow in Henry IV Part 2 (III, 2, 309): ‘la sagoma di un uomo ricavato dopo cena da una crosta di formaggio”. Giorgio Melchiori, che ha studiato queste corrispondenze da par suo, fa notare che il titolo della prima raccolta jamesiana di racconti, The Passionate Pilgrim (1875, dal racconto omonimo), non può non rifarsi a A Passionate Pilgrim, la collezione di poesie (1599) dove ne comparivano di Shakespeare. Anche qui c’è la citazione ‘sepolta’ messa in bocca a Clement Searle: ‘la magia che ho usato è tutta qui’, e un’altra che coinvolge (tramite Tennyson) il ‘moated grange’ dove languisce la povera Mariana nel Measure for Measure, poi eliminata in una più tarda edizione (lo stesso riferimento a questo ‘maniero cinto da un

fossato dove Mariana aspettava disperata che accadesse qualcosa’ si ritrova nel saggio ‘Roman Rides’, 1873, poi raccolto in Italian Hours, 1909); mentre di Searle è detto che ha ‘un’avventura romantica libera come il volo di Ariele’. Più tardi, in ‘The Coxon Fund’ (1894), ci si imma-

gina che Saltram vaghi disonorato e senza tetto nelle Midlands, ‘quasi come Lear ferito vagabondava sulla brughiera spazzata dalla tempesta”. Ancor più insistiti e significativi i riferimenti a Shakespeare nei romanzi brevi e in quelli più lunghi, di cui darò solo qualche esempio. Nel giovanile Watch and Ward (1871) ci sono due riferimenti al Mercante di Venezia ed

2

e

un’allusione criptica all’uomo del West ‘barbuto come il leopardo’, dal discorso sulle età dell’uomo in As You Like It. Roderick Hudson, nel romanzo omonimo (1876), che subito si siede accanto all’adorata Christina Light mentre gli altri uomini stanno in piedi, è detto ‘cospicuo come Amleto ai piedi di Ofelia”. In The American (1877), dove si può riconoscere un ipotesto che rimanda alla dinamica dell’Otello (vedi sotto), Claire de Cintré è definita una ‘smaliziata parigina’, così come Desdemona era definita una ‘smaliziata veneziana’. In Washington Square (1881) c’è invece un’allusione al ‘dolore che non ha parole’, dalla frase di Macduff nel Macbeth quando apprende dell’assassinio della moglie e dei figli, che accentua il senso tragico della vicenda lì romanzata. Può sorprendere che in The Portrait of a Lady (1881) Henrietta Stackpole, la giornalista americana critica degli atteggiamenti dell’eroina, rinfacci a Ralph Touchett: ‘siete stato abbastanza Prospero da renderla ciò che è diventata’ (ossia un’ereditiera appetibile per cercatori di dote, quanto lo era la protagonista dell’altro romanzo appena citato); e Ralph stesso si definisce, nei riguardi di Isabel Archer, ‘Caliban to her Ariel) Entrambe le allusioni ampliano la rete di possibili significati in queste due

avventure jamesiane. In The Aspern Papers (1888) ci si riferisce ai Sonetti di Shakespeare e poi si dà una forte accentuazione al ruolo di sognante ‘Romeo’ del protagonista, che pur esplicitamente dichiara di non essere un poeta: nella scena del giardino

RE,

aleggia ‘proprio l’aria che deve aver vibrato per i voti di Romeo’, ed egli stesso afferma: ‘guardavo alla finestre del palazzetto per vedere se per caso non era stato seguito l’esempio di Verona’. L’infatuazione di questo ‘pubblicista farabutto’ (publishing scoundrel) è intrisa di ironia: ‘in una notte come questa’ non può che suscitare l’eco del celebre duetto di Lorenzo e Jessica nel Mercante di Venezia, mentre nella New York Edition della novellette viene inserito un riferimento alla ‘cadenza morente’ (dying fall) che rimanda alla celebre frase d’inizio di 7welfth Night. Altra citazione criptata a As You Like It si ha in The Sacred Fount (1901: ‘una povera cosa, ma mia!’, dal modo come

Touchstone presenta la sua pastorella Aubrey). Potremmo proseguire la caccia alle innumerevoli allusioni, ma basta quanto indicato per assodarne la pervasiva presenza (Robert Gale ha quantificato in oltre una ventina le immagini shakespeariane usate nei romanzi: cinque da Amleto, quattro da Romeo e Giulietta, tre dalla Tempesta e da Re Lear, ecc.). Anche nel tardo racconto ‘The Velvet Glove” (1910) ci si riferisce a ‘creature lontane romantiche

e “plastiche”, figure di squisito stampo arcadico, rustici sublimati come quelli del corteggio di contadini nel Racconto d’inverno’. Mentre in ‘Julia Bride’ (1908) c’è un’al-

tra allusione a Romeo and Juliet. È naturale che in The Tragic Muse (1890) ci sia un’allusione a A Winter's Tale o una possibile eco dell’ Amleto: uno dei due intrecci del romanzo ‘tematizza’ proprio l’attrazione del teatro di Shakespeare sulla ‘musa tragica’ del

PIETRI QI

titolo. Recitarlo con le tecniche della Comédie Frangaise e non del teatro inglese dell’epoca, è la massima aspirazione, la finalità artistica, più ancora che istrionica, dell’eroina. Oltre che da una celebre attrice francese, Miriam Rooth è addestrata a Roma da un ‘famoso Signor Ruggieri’ che ha le caratteristiche di quell’Ernesto Rossi su cui già si era espresso James — tutto pantomima e scarsa elocuzione. I primi segni di grandezza li dà declamando le grandi tirate passionali di Constance nel King John, il dramma minore di Shakespeare, forse apprezzabile per le sue caratteristiche spettacolari. Philip Horne ci spiega che è perché quello era stato uno dei grandi ruoli di Sarah Siddons, ritratta da Sir Joshua Reynolds come ‘The Tragic Muse”, e quelle scene costituivano dei grandi momenti di intensità poetica combinata a efficacia teatrale (anche Miriam, del resto, viene ritratta nel

corso del romanzo ed è associata al ritratto postumo che Geròme aveva fatto di Rachel alla Comédie Frangaise come ‘La Tragédie’). Solo dopo quella declamazione Miriam si senta pronta per Giulietta e Cleopatra e trionfa nel primo ruolo, dando ‘un’immagine squisita di giovanile passione e giovanile disperazione’. Quella combinazione di ‘stile francese e passione italiana’ rimaneva però una pia illusione sulle scene ‘pittoriche’ e spettacolari del tardo-vittorianesimo: nell’affermazione teatrale dell’eroina James riverbera ciò che gli era sembrato assente nel suo tempo. E come non ricordare, nella ‘fase maggiore’ (190204), la rilevanza tematica che assume in un romanzo come

=

The Ambassadors l’equiparazione dell’eroina, Mme de Vionnet, a Cleopatra? ‘Soprattutto gli suggeriva la riflessione che la femme du monde — nel più raffinato sviluppo del tipo — era, come la Cleopatra nel dramma, davvero variabile e multiforme’ (cap. XV); prima era stato detto ‘È varia. È cinquanta donne”, e più avanti (cap. XXXIV): ‘Ha tale varietà e tuttavia tale armonia’. Shakespeare, nelle parole di Enobarbo, aveva celebrato ‘her infinite variety”: anche per Mme de Vionnet, non averla vista sarebbe stato

un impoverimento. È un’equiparazione che dimostra quanto libresca sia la visione che James ha della donna di mondo fascinosa e seducente, ma proprio per questo è significativo il richiamo all’eroina matura più seducente di Shakespeare: la donna destabilizzante egli la può vedere e concepire solo come figura classica, Cleopatra o Medea. Nello stesso The Wings of the Dove, infine, c’è un’altra allusione all’Otello (‘un’inestimabile perla buttata davanti ai suoi occhi’, che echeggia quanto Otello rinfaccia a se stesso); e in entrambi i romanzi F. O. Matthiessen ha individuato una diffusa presenza di iii marine riconducibili alla Tempesta.

‘Fragili vasi’

Già da alcuni di questi ripetuti riferimenti si deduce una predilezione di James per due tipi si personaggi: eroine romantiche e tormentate, e uomini remissivi, rinuncia-

E

tari, ‘inutili’ o ‘superflui’, nei riguardi loro e del mondo:

entrambi i tipi caratterizzati da forte, complessa, drammatica e sofferta interiorità, e in certa qual misura riconducibili a ‘istigazioni’ di Shakespeare. Questi è per James creatore di una straordinaria e multiforme galleria di personaggi: quella del character, si è visto nel saggio su The Tempest, è la sua prerogativa precipua. Si tratta di ‘un’immensa galleria di personaggi [...] così veritieri [lifelike]”, ‘che nascono dal traboccare [overflow] dell’osservazione

— personaggi che fanno apparire il dramma molteplice e multiforme [mu/titudinous: che è un’altra citazione ‘sepolta’ dal Macbeth], come la vita. [...] Scaturiscono da una

mente molto popolata’. Ma fra tanti, James predilige i due tipi suddetti, con le applicazioni narrative del caso. Da un lato egli ammira ‘la fragranza di Imogen e Desdemona’ ed eroine consimili, dove si esplica quella che altrove definisce la capacità shakespeariana ‘di travolgere [overturn] il lettore con l'impressione’. Forse glielo hanno

impresso particolarmente le letture di Fanny Kemble: oltre che della sua Porzia, così nobile e sottile, dai molti toni [full-toned], ci si ricorderà delle ‘Giuliette, le Beatrici, le

Rosalinde che ella riusciva a rendere vivide senza alcun accessorio, tranne il circostante frastuono di Londra’; l’ultima risuonava come un campanello d’argento. Sotto un altro aspetto, lo stimolano le vittime di situazioni più grandi di loro che sfuggono tragicamente al loro controllo — da Desdemona a Ofelia, in primis. Mme

de Cintré, in

The American, fa in certo senso la fine di Ofelia — col

=

RA —

cuore spezzato, deve acconciarsi ad andare sul serio in convento. Isabel Archer, in Ritratto di signora, è vittima

del raggiro sociale e mondano e della malvagità di cuore, condividendo con le eroine shakespeariane, della sofferenza o della gioia che sia, una certa irruenza e presunzione. Simili ‘parallelismi’, come altri che seguiranno, non devono stupire né apparire forzati. Già Dorothea Krook aveva osservato che nell’ambito del romanzo borghese dell’Ottocento, ed esplicitamente in quello jamesiano, i milionari e le ereditiere, le figure dell’alta società, corri-

spondono ai re e ai principi, alle regine e alla principesse d’un tempo. L’enfasi ora sarà sul denaro come fonte e strumento di potere, e quindi sulle classi agiate: milionari ed ereditiere ‘hanno nei suoi romanzi esattamente la stessa funzione drammatica dei re, regine e principi nei drammi di Shakespeare”. Sono altrettanto istruttivi e rappresentativi, ‘simboli riconosciuti del supremo potere e prestigio della loro società’, di cui incarnano le possibilità, e ciò che loro ‘accade’ è esemplare quanto il destino concepito per un Principe Amleto, un Macbeth, un Re Lear. Ammettono, altrettanto legittimamente, l’alta tragedia, e sono come questi contornati da ruoli di supporto o di contrasto: nei romanzi di James, gli aristocratici impoveriti e rapaci del Vecchio Mondo. L’equiparazione è del resto esplicita: Isabel è detta ‘erede di tutte le età’, la Principessa Casamassima è, se non la protagonista, l’agente catalizzatore del romanzo omonimo, Maggie, ne La coppa d’oro, è ‘La Principessa’ che dà il titolo al Libro II del romanzo.

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(Anche Melville, in Moby-Dick, ha un capitolo, il 27, ‘Knights and Squires’, dove equipara gli eroi della sua avventura sulla baleniera a quelli dell’antichità nobile e feudale: ma il suo è un discorso più radicale di ‘rinnegati bastardi, reietti e cannibali’ che esula da possibili corrispondenze sociali: lì opera anzi una volontà ‘democratica’ di scardinamento e rovesciamento sociale.)

Va ribadito inoltre che James ha un occhio del pari ‘shakespeariano’ per le eroine volitive e assertive, con tutto il rischio rappresentato dalla presunzione, dalla sfida voluta o semplicemente caratteriale a convenzioni e preconcetti della società, e talvolta a ogni logica o a benevoli interventi di amici. Spesso, nella sua ‘prima fase’, esse partecipano dell’una e dell’altra caratterizzazione, o debolezza. Catherine Sloper, in Washington Square, è vittima del padre perspicace tanto quanto della propria caparbia cecità sulle mire e la natura del suo pretendente. Accanto a Daisy Miller e Isabel, accomunate da una sfida altrettanto caparbia e perdente alle convenzioni del mondo, ci sono ad esempio ne La musa tragica Miriam Rooth, che a prezzo di ogni rinuncia aspira al ruolo di protagonista come attrice, e Julia Dallow, tutta presa “dai grandi affari e dall’azione pubblica’ (come in Tolstoj, ha scritto in proposito R. P. Blackmur). Nei romanzi mono coloriture ambasciatori, è

Nessun cedimento sentimentale in loro. della ‘fase maggiore’ queste eroine assushakespeariane. Mme de Vionnet, ne Gli

solo a metà la Cleopatra a cui James la collega e la fa paragonare: è la vittima sacrificale di una

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tacita congiura, se non di un vero e proprio complotto ai suoi danni, abbandonata dopo i doni che ha elargito a chi finisce per sposare valori e interessi di convenienza economico-sociale. È, come Isabel Archer (da parte sua, però, più verginale che passionale) una donna sfruttata e tradita, relegata a un triste destino di solitudine, nonostante il suo fascino e la sua grandezza di spirito. Milly Theale, ne Le ali della colomba, con tutta la sua amabilità e premonizione di morte, grazie ai suoi soldi e

all’uso generoso che ne fa alla fine, è colpevole di un abuso e di una predominanza che fa quasi — dico quasi — il paio con l’esplicito e programmato raggiro a cui la sottopongono i due vi//ains della trama, Kate Croy e Merton Densher. L’impoverita Kate sa benissimo come potrebbe attingere alla propria liberazione dal bisogno, e lo persegue con fredda determinazione: il suo compagno è l’altro polo, quello del personaggio, come vedremo, remissivo e in ulti-

ma analisi ‘superfluo’. In The Golden Bowl, infine — con il suo tema di dominio, appropriazione e possesso, campito fin dall’inizio su base ‘imperiale’ come Antonio e Cleopatra (notava già Francis Fergusson) — si ripropone il dualismo nella figura di Maggie, vittima del tradimento del marito, ma che poi assume assoluto controllo su di lui, sulla situazione e sugli altri personaggi grazie a una melliflua ma granitica volontà, addirittura (come argomentava R. P. Blackmur) a una

capacità distruttiva simile a quella di Iago. Per riconquista-

DR. O

re il marito fa il deserto attorno, ha il volto di Medusa; può essere quasi l’inizio, solo l’inizio, di una Lady Macbeth.

La predilezione di James è comunque per i ‘fragili vasi’, i ‘frail vessels’, quei personaggi in prevalenza femminili che così erano stati definiti dall’amata romanziera George Eliot: ‘con che assolutezza, con che smodatezza, le Isabel Archer, e persino le altre di minor conto, insistono a assumere importanza. George Eliot lo ha ammirevolmente notato: “In questi fragili vasi viene portato avanti nei secoli il tesoro degli affetti umani”. James ne parla ampiamente nella Prefazione a Ritratto di signora, a proposito della sua eroina sensibile, ‘intelligente ma presuntuosa’ che affronta il proprio destino. Qui viene adombrato, per vie traverse, un rapporto con Shakespeare, o una possibile ascendenza. Ce ne sono a milioni come lei, tipiche di una classe, ma evitate, forse per la loro difficoltà o indegnità, da grandi romanzieri come Dickens, Scott o Stevenson. Difficili ma indispensabili, in sé e come centri di interesse, hanno la loro origine o le loro antesignane proprio in Shakespeare. Esse contano come modelli e splendono come fari. Di Ofelia, che sembrerebbe la più adatta, non si parla in questo contesto. Piuttosto: ‘In Romeo and Juliet Giulietta deve avere importanza’, ed egli infatti concede importanza alle sue ‘Giuliette e Cleopatre e Porzie (persino con Porzia, che fornisce il tipo precipuo e modello della giovane intelligente e presuntuosa)”. Importano, eccome, per sé e gli altri, e come specchi delle situazioni. Questi ‘fragili vasi’,

un

queste ‘esili figure’, possono soffrire la menomazione dell’esiguità, dell’offrire l’unico puntello (prop) alla situazione, e aver quindi bisogno di comprimari, di personaggi e intrecci secondari, di sollievo comico. Possono passare per secondarie. Ma è l’importanza che gli attribuisce Shakespeare a ovviare al rischio, esaltandone il ruolo nei rapporti interpersonali, creando anzi un fitto e inesauribile sistema di rapporti di reciproca e concomitante importanza. ‘Relations stop nowhere’, le relazioni non si arrestano mai, avrebbe scritto James dei propri romanzi, forse ispirandosi proprio a questo. Così si dilunga — e il dilungarsi è segno della rilevanza che assume per lui il ‘modello’: ‘Cleoptra ha smisurata importanza per Antonio, ma i suoi colleghi e antagonisti, la situazione di Roma e l’imminente battaglia ne hanno prodigiosamente altrettanta; Porzia ha importanza per Antonio, e Shylock, e il Principe del Marocco”, ma altre preoccupazioni ci sono per Antonio, come Shylock e Bassanio, il fallimento degli investimenti e la situazione di pericolo, che ‘importano, eccome, a Porzia’— sebbene ciò ‘ci

interessi perché a noi importa di lei’. C'è insomma ‘il valore riconosciuto alla mera giovane creatura’, indipenden-

temente dal fatto che ‘persino Shakespeare, benché possa essersi principalmente preoccupato delle passioni dei principi, non avrebbe preteso di basare l’acme del suo interesse per lei sulla sua alta posizione sociale’. (Affiora qui, come in seguito, il motivo delle corrispondenze ‘sociali’ a cui si accennava all’inizio.)

PRIDE a RCA

Così questi ‘fragili vasi” — che comportano ‘sfidare una profonda difficoltà’ — diventano ‘se non l’elemento esclusivo della nostra attenzione, almeno il più chiaro dei

richiami’: centrali e in tutti i sensi specchio delle situazioni, nel reticolo delle relazioni ma anche in se stessi, come ‘centro di interesse’ e soprattutto nella loro interiorità. Il ‘debole agente” visto in rapporto a chi lo circonda costituisce un ponte per le relazioni: ‘Rendilo in modo predominante una visione del loro rapporto, e il gioco è fatto [...] “Metti il centro del soggetto nella coscienza stessa della giovane”, si ingiunge James; ‘a questo affidati come centro; metti il peso maggiore su quella bilancia, che quindi sarà ampiamente la bilancia del proprio rapporto con se stessa’. Così ella diventa centro di interesse anche per gli altri, per i ‘satelliti’, ossia per tutti gli altri personaggi del romanzo, alla cui coscienza verrà applicata minor pressione, e che contribuiscono soltanto alla sua storia. ‘Essi erano come il gruppo di inservienti e intrattenitori che vengono in treno quando la gente in villeggiatura dà una festa: rappresentavano la condizione per farla svolgere.” Ovvero, sono come quelli del seguito che ‘cavalcano col re e la regina’. Quanto a Isabel, la cui immaginazione James definisce altrove ‘decisamente la più profonda profondità dell’imbroglio [sic]", ecco il valore e la predominanza dell’interiorizzazione: la sua celebre ‘straordinaria notte meditativa di veglia’, nel capitolo 42, a metà del libro, ‘fa avanzare l’azione più di quanto avrebbero potuto fare venti “incidenti”. E un seeing, un vedere e capire, 299.9.

200

tutto interiore, che si svolge in solitudine. ‘Centro di consapevolezza’, ‘presa di coscienza’, queste due caratteristiche della narrativa di James arrivano di lontano, ma non alla lontana, da Shakespeare, così come il tipo delle sue eroine e ‘fragili vasi’. E infatti, per Ritratto di signora, il romanzo di cui sta trattando, egli prendeva le mosse da un concetto o un’eco shakespeariani: ‘Per sua natura il romanzo è del “rumore”,

del rumore su qualcosa questo mi ero imbarcato more su Isabel Archer’. chiamo irresistibile non

[...] Onde, consapevolmente, in — organizzare decisamente del ruAn ado about Isabel Archer: il ripuò essere che a Much Ado about

Nothing (onde occorre tradurre ado con

‘rumore’

e non

chiasso, agitazione, movimento, come sarebbe più appropriato). Solo che anche qui, ‘fragile vaso’ o meno che sia l’eroina, sarà tutt'altro che rumore per nulla.

(Tanti altri fragili vasi, dalle eroine dei primi racconti a Fleda Vetch in The Spoils of Poynton, alle adolescenti di altri romanzi e racconti del periodo mediano, che si dibattono fra le violenze, le corruzioni e l’incomprensibilità del mondo dei grandi, costellano la narrativa di James. Ma qui ho privilegiato quelli più sofferti e con connotazione o agganci shakespeariani.) Uomini superflui Quanto ai personaggi maschili jamesiani, molti possono essere ‘centro di interesse’, ma i più sono riflettori e

op =

osservatori esterni all’azione. Anche fra loro c’è chi esercita autorità e dominio a scapito dei più deboli o ingenui (spesso gli europei sugli americani), ma più numerosi sono quelli che ne sono privi, la delegano o vi rinunciano per stanchezza, incapacità, inadeguatezza, disgusto per il mondo della realtà turbinosa e opaca. Tanto da richiamare per certi loro aspetti il tipo reso comune nell’Ottocento da Ivan Turgenev, gli ‘uomini superflui’ o inutili (li$nie ljudi o liùnij celovek), relegati ai margini dai tempi e dalle situazioni politiche e sociali che li privano di ruoli, incombenze e posizioni centrali, e che vagano quindi nell’inquietudine o irrequietezza della mente, più che nell’agone dell’esistenza. La definizione è nel titolo del lungo racconto ‘Diario di un uomo superfluo’ (1851) di Turgenev: è l’uomo di origine nobile che non trova funzione e scopo nella società e nel suo ambiente, colto e disoccupato, costretto all’inazione, invecchiato nell’animo, estraneo e in conflitto con il proprio milieu. Ma la letteratura russa dell'Ottocento ha una ressa di altri tipici esempi, nel romanzo Rudin dello stesso Turgenev e in altri suoi romanzi, oppure (secondo Isaiah Berlin) Besuchov in Guerra e pace di Tolstoj, Levin in Anna Karenina, tutti, in qualche modo, i Karamazov, lo studente ne // giardino dei ciliegi e il Colonnello VerSinin in Tre sorelle di Cechov, e naturalmente Oblomov di Gonciarov. Precursori erano nell’ Eugenio Onegin di Puskin (il protagonista e Vladimir Lenskij), in Un eroe del nostro tempo di Lermontov, e forse nell’ ‘homme inutile’ di Geor-

en

ge Sand (una scrittrice talmente popolare in Russia, che vi fiorì un ‘Georgesandismo’), anch’esso relegato ai margini per la mancanza di un ruolo definito in situazioni politiche burrascose o di assolutismo e repressione — nella Francia del secondo impero come nella Russia zarista. James non ne fa direttamente menzione, ma era amico,

ammiratore e attento lettore di Turgenev, e lettore quasi altrettanto ammirato di George Sand (benché preferisse naturalmente la compostezza del primo alle turbolenze della seconda). E nei suoi saggi su Turgenev allude non solo al ‘Diario di un uomo superfluo’, ma ai suoi personaggi ‘morbosi’, ‘unrounded, unmoulded, unfinished, inapt’, nature fatalmente complesse ‘forti negli impulsi, nei discorsi, nella reazione emotiva, ma deboli nell’azione,

nel potere di sentire e fare da soli’, eroi scontenti e tragici falliti, perdenti nel gioco della vita, che sarebbero ‘il tipo russo par excellence’, ma proprio perché ‘squisitamente consapevoli delle loro mancanze”. Certi suoi personaggi sembrano avvicinarsi al tipo, che ha però un suo molto lontano, ma altrettanto presente prototipo: quello di Amleto, emarginato nella sua corte, privato del ruolo di regnante e di vero principe, in situazione quanto mai precaria, il quale deve sì agire per riconquistarli e ristabilire l'ordine, ma predilige — o è indotto a — crogiolarsi nelle riflessioni, nei dubbi, nella malinconia,

nelle recriminazioni sul mondo e sulla vita, i propositi di abbandono o di suicidio, al limite della disperazione, fin

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quando non scatenerà l’azione di vendetta, ma senza naturalmente ricavarne alcun frutto per sé. (Turgenev scrive un racconto, “Un Amleto del distretto di Stigry”, 1849, poi inserito in Memorie di un cacciatore, 1852, dove ne fa appunto un ‘uomo superfluo’, al limite estremo dell’infelicità, di una fredda disperazione e scontento di tutto, senza scopo, incapace di ogni impegno, evitato dagli altri ed esposto impotente alle loro umiliazioni. Non dà il suo nome, ma se si voleste affibbiargli un nomignolo, così esorta alla conclusione: ‘allora... allora chiamatemi l’ Amleto del distretto di Sèigry”. E non è per caso che i giovani rivoluzionari romantici del primo Ottocento russo, gli ‘uomini inutili’ che Tom Stoppard mette in scena e fa discettare a vuoto nella prima parte della sua trilogia The Coast of Utopia del 2002, si richiamino esplicitamente ad Amleto.)

Anche ad Amleto e ai suoi confrères, già si accennava, James dedica pagine nella Prefazione a The Princess Casamassima, dove lo qualifica come il massimo eroe del-

l’interiorità e dell’osservazione. ‘Le figure di qualsiasi quadro, gli agenti di qualsiasi dramma, sono interessanti solo in proporzione a come sentono le rispettive situazioni, giacché la loro consapevolezza della complicazione costituisce per noi il legame di connessione con esse’, scrive.

C’è chi sente di più e chi di meno, ma conta ‘il potere di essere sottilmente consapevoli e riccamente responsabili’: quest’ultima capacità sembra in dipendenza della prima, e solo in presenza della prima noi lettori ricaviamo il massi-



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mo. E qui scatta, già si è visto, il richiamo shakespeariano. ‘Il fatto che siano sottilmente consapevoli — come lo sono, diciamo, Amleto e Lear — crea assolutamente l’intensità della loro avventura, dà il massimo di senso a ciò che gli accade’. Poco ci importa di ciò che accade agli stupidi, ai rozzi e ai ciechi che gli si prodigano o gli gravitano attorno: con il loro in ogni senso ‘limited sense’ essi serviranno da contorno alla vera avventura — così come succedeva ai ‘satelliti’ delle eroine. Costoro, più che i protagonisti, si qualificano come superflui: in gioco è però sempre la qualità o la quantità del sentire, del chiedersi e del meravigliarsi, del wondering e del bewilderment, che per quella via riconduce al lontano ascendente di Amleto. Per James e suoi personaggi centrali il ‘sentire’ è molto più importante del ‘fare’; ‘Ciò che un uomo pensa e ciò che prova sono la storia e il carattere di quel che fa; e su tutto questo poggia la logica dell’intensità’. Ciò costituisce una piena rivalutazione di Amleto. Anche Turgenev, nel suo saggio Amleto e Don Chisciotte, dove caratterizza il primo tipo di personaggio in base al suo malessere spirituale, al disagio esistenziale e all’inazione, fa questa distinzione: ‘da un parte stanno gli Amleti che pensano, che sono coscienti, che vedono tutto, ma che sono anche impotenti e condannati dall’immobilità’. A lui riconosce un’abbondanza di riflessione critica e introspezione; è il tipo che privilegia l'osservazione e il distacco: ‘osservandosi continuamente e continuamente scrutando dentro di sé, conosce nei minimi dettagli tutti i

Io] pro

propri difetti, li disprezza, si disprezza, e nello stesso tempo, si può dire, si nutre di questo disprezzo’ (sono gli eccessi di morbosità ‘russa’ non alieni ad Amleto e meno presenti negli intelligent observers jamesiani). Questi personaggi, è stato detto, abitano una storia parallela, perché non trovano posto nel mondo. Che attorno a loro ci siano gli sciocchi, ifools, inadeguati nel senso che gli manca la capacità di apprezzamento, di cogliere ‘il campo riflesso della vita’, realizza una forma di dramma. Servono, ricordiamo, a tutti i grandi romanzieri, da Cervantes a Balzac, da Scott a Zola, ma massimamente a Shakespeare, per mettere in risalto non solo le figure, ma il ‘sentire’ dei protagonisti: oltre a confondere, essi proiettano e gettano luce, fermo restando che solo

chi ha o raggiunge consapevolezza, risalta. Così si giustifica la particolare visione jamesiana di Amleto e Re Lear, il cui valore in questo contesto è appunto la tragica consapevolezza raggiunta dei propri errori. Fra le due classi di persone in antagonismo, ogni rivalutazione è a favore di chi apprezza e arriva alla consapevolezza interiore dei fatti e degli avvenimenti: Amleto rivalutato come agente molto più di tutti gli altri indaffarati; Lear, nonostante la sua proterva cecità per buona parte del dramma, condotto a vedere veramente in se stesso tramite il

dolore e la follia. Per il primo caso, impossibile non pensare all’importanza che James attribuisce alla già ricordata notte di veglia di Isabel Archer (quasi un equivalente dei suoi monologhi); per il secondo, vale il principio che lo

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svelamento di se stessi, anzi lo ‘stripping away of the self’ (come avrebbe detto D. H. Lawrence delle tragedie suddette) è la conquista dei suoi più grandi personaggi. La consapevolezza — ‘in the sense of a reflecting and colouring medium’— definisce il loro valore e la loro umanità, e ‘le loro avventure e la loro storia — l’intero soggetto dell’autore — sono determinate dai loro sentimenti e dalla natura delle loro menti’. E l'ascendente shakespeariano permane. ‘Così come Amleto, con il nero del lutto, drappeggiato e piumato, ed egualmente romantico, ha una mente ancor più di un costume’ (cosa che non avviene ad esempio nei personaggi di Walter Scott, a tutto scapito dell’intensità), il proprio personaggio maschile più amletico, nel senso dell’interiorità che assorbe e determina ogni comportamento, James lo riconosce nel protagonista di Principessa Casamassima, quel Hyacinth Robinson che ha nella mente una notazione concentrata della situazione e delle cose. Il giovane che si è votato alla causa rivoluzionaria sconterà tutti i dubbi sulla rettitudine e l’efficacia dell’azione, e folgorato dalle bellezza di Venezia e delle sue creazioni estetiche, benché basate sullo sfruttamento, arriva a ripudiare la causa a cui si era votato e approda al suicidio. Ma passando appunto per la gioia e l'agonia dell'apprezzamento e della crescita interiore, dell’interiorizzazione del dramma. Non a caso, anche qui, uno dei suoi modelli è il protagonista di Terre vergini di Turgenev, NeZdanov, anch'egli figlio naturale e non riconosciuto di un nobile, messo così

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in un falsa situazione, che per frustrazione e furia aderisce al movimento rivoluzionario ma si scopre scettico, schizzinoso ed ‘estetico’, e a contatto degli aristocratici contro

cui cospira si sente più aristocratico di loro: la realtà politica, rozza, brutta, volgare, lo sconcerta, lo disinganna e lo disgusta, e finisce anch'egli suicida. È, vedi caso, definito

più volte ‘un Amleto russo’ (è l’ultima incarnazione del tipo in Turgenev), e di sé recrimina nel cap. 18: ‘Oh! Amleto, principe di Danimarca! Come fare per non essere tuo

imitatore in tutto, anche nel vergognoso godimento del flagellar se stessi?” Ancora una volta, James sembra trovare una mediazione'in George Eliot, ricorrendo all’esempio dei suoi personaggi sia maschili che femminili (i ‘fragili vasi’ di cui si diceva). Ed è chiaro che i suoi ‘centri di interesse’ e di consapevolezza sono tutt'altro che ‘uomini inutili’ o superflui da cui siamo qui partiti: la qualità della consapevolezza raggiunta li esime dal pericolo (la ‘Lettera da Venezia’, che racchiude la motivazioni della rinuncia di Hyacinth all’azione equivale in tutto, strutturalmente e tematicamente, alla notte di veglia di Isabel). Ma la relazione con

il tipo, sia pure alla lontana, per molti di loro, e anche per Hyacinth, sussiste: benché proletario, non un principe come Amleto e non uno dei nobili emarginati ed estraniati dei romanzi russi, è anch’egli inabile e tutto sommato defilato rispetto all’azione, ‘superfluo’ nel senso che altri più rozzi e decisi di lui attueranno la sfida rivoluzionaria. In lui è proprio la sensibilità, ed in particolare la sensibilità

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estetica che sviluppa, a impedirgli l’azione: ed è un tratto che si ritrova in molte configurazioni di questo tipo particolare di non-eroe. Significativamente, e in modo rivelatore, quando James fa un elenco di questi suoi sensibili ‘centri di consapevolezza’ e ‘osservatori’ delle vicende, si tratta in molti casi di personaggi che hanno proprio somiglianze e attinenze con gli ‘uomini superflui’ e loro caratteristiche. Da Rowland Mallet di Roderick Hudson, che fa da mentore al pittore in erba destinandolo alla rovina nel clima di Roma, a

Merton Densher ne Le ali della colomba, a Lambert Strether ne Gli ambasciatori (‘veramente uno specchio di ar-

gento miracoloso’), fino al Principe Amerigo de La coppa d’oro. Facendo un po’ di confusione, fra centrali e marginali ne avrebbe cinquanta a disposizione, in romanzi e racconti. Qualcuno si adatta al tipo meglio degli altri, e sono quelli che, per forza o per scelta, maggiormente si defilano dall’agire nel mondo, e vale la pena saggiarne una più precisa valutazione. Prince Amerigo è forse il personaggio più vicino al tipo, nobile senza mezzi che deve sposare i soldi, senza un vero ruolo nella società, se non gingillarsi nella raffinatezza e nell’intrigo amoroso per insouciance del mondo. Anche Lambert Strether va a pennello: ha la meravigliosa rivelazione di Parigi, dell’ Europa, della joie de vivre e della necessità di vivere il più ampiamente e intensamente possibile, ma non l’ha mai fatto ed è troppo tardi per lui; alla fine dell’avventura deve rinunciare a tutto, e a tutto quanto

go

aveva prima a disposizione, si nega all’amore e si relega all’anonimato della provincia e della solitudine. Altro esempio del tipo è Ralph Touchett in Ritratto di signora, il quale si aggira ai confini dell’azione e della situazione, resta emarginato perché non ha il coraggio o la forza di porsi in gioco, e contribuisce col suo lascito a porre le condizioni che rendono Isabel oggetto di preda. Come tanti altri ‘superflui’ è malinconico e malato, non partecipa, resta fuori dall’agone del mondo. O Winterbourne, in

Daisy Miller, incapace di salvare la ragazza ‘compromessa’, e anzi artefice in certo qual modo, con la sua irrisolutezza e i suoi dubbi, della sua rovina. In un tardo romanzo come The Sacred Fount abbiamo un Narratore anonimo che vive soltanto, o meglio non vive, nella ricostruzione cervellotica e abusiva delle vite altrui. Nel casa degli ultimi, intensi e perturbanti racconti di James abbiamo ‘uomini superflui’ allo stadio dell’assoluta rinuncia alla vita e marginalizzazione, al limite dell’alienazione: Stransom in ‘The Alter of the Dead’, dedito morbosamente al culto dei morti; John Marcher, in ‘The

Beast in the Jungle”, ‘l’unico al mondo a cui non succede nulla’; il derelitto stremato che va a sedersi sulla ‘panchina della desolazione’ nel racconto di quel titolo, e tanti altri,

prigionieri della propria inadeguatezza, della mancanza di un ruolo sociale o di una vera relazione col mondo. Qui Shakespeare c’entra solo lontanamente per il prototipo amletico spesso invocato: eppure le vie e i fili della lettera-



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tura si allungano e si intrecciano in modi sinuosi in quella direzione, fino a riportarci al suo ascendente.

Quadro e scena

Ricordiamo che il giovanile incontro di James con Shakespeare, prima ancora che sulla scena, avviene con le illustrazioni: ‘una grande riserva [...] di volumi illustrati,

dedicati in gran parte alle eroine romantiche, con uno, in particolare, che presentava quelle di Shakespeare’ — così vivide e colorate, quelle immagini, da restar delusi di non ritrovarle così sul palcoscenico. L'impatto visivo, sulla scena, era però assicurato da quei primi drammi visti da bambino, più spesso pageants e tableaux vivants — grandi spettacoli processionali e illustrativi — che non azioni sceniche drammaticamente compresse, come Enrico VIII, Il sogno d’una notte di mezza

estate, lo stesso Amleto, per molte sue parti: caratteristiche che venivano accentuate dalle macchinose e raffazzonate messe in scena dell’epoca. ‘L’intensità del nostro periodo è quella dell’“impresario” [producer] e del macchinista’, un tipo di ‘articolo derivativo’, scriveva nell’ Autobiografia. La sua prima poetica narrativa è quella della picture, del quadro, della tela o dell’affresco illustrativi. L'arte del narratore, sostiene nell’importante saggio del 1884 ‘The Art of Fiction’, è analoga a quella del pittore, ‘la loro ispirazione è la stessa, il loro procedimento (pur conside-



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rando la differente qualità del veicolo) è lo stesso’; il narratore ‘compete col suo fratello pittore nel suo tentativo di rendere l’aspetto delle cose [...] di cogliere il colore, il rilievo, l’espressione, la superficie e la sostanza dello spettacolo umano’. Analoghe affermazioni sono ripetute in altri saggi. C'è quasi invidia e senso di inadeguatezza rispetto alla pittura, la sfida e la volontà di competere con quella forma artistica (un termine che R L. Stevenson gli avrebbe contestato).

Ciò conduceva al cosiddetto ‘metodo illustrativo’, e tenendo presente la predilezione di James per le grandi tele — anzi, i grandi teleri — di Tintoretto e Tiziano comprendiamo come tutta la sua narrativa fino a The Tragic Muse si collochi nel solco di un realismo illustrativo campito su ampi panorami, minuziose descrizioni di interni ed esterni, personaggi e motivazioni interiori. I modelli sono quelli che egli stesso dichiarava gli equivalenti moderni di Shakespeare: Balzac, in primo luogo, lo stesso Zola, così appassionati alla rappresentazione del reale. Il possibile modello shakespeariano, insomma, è indiretto, filtrato dai suoi ‘corrispettivi’ moderni nel campo del romanzo, e strutturalmente è quello del quadro con la sua grande evidenza visiva, del tableau vivant piuttosto che della scena teatrale. Questa predilezione è installata in James fin da bambino Nell’ Autobiografia una pagina descrive come da piccolo si esercitasse a scrivere drammetti, ma sempre poi illustrati. ‘Ogni scena aveva la sua illustrazione esplicativa’;



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‘Avevo cara la “scena” [...] ma anelavo alla tela su cui

scagliare i miei quadri’; ‘aspiravo a questa forma di disegno a discapito di qualsiasi altra’; ‘il quadro, il disegno rappresentativo, mi attraevano direttamente e fortemente, e mi avrebbero attratto per tutti i miei giorni [...] 11 quadro [the picture) fu sempre dopotutto essenzialmente il mio scopo’. Abbiamo visto come fosse affascinato dalla scena dell’ Amleto dipinta da Maclise, e ancora nel 1890, quando va a visitare a Londra il pittore Edwin Austin Abbey, impegnato in una delle sue grandi tele ispirate a Shakespeare, ‘diabolicamente sagaci ed efficaci, col successo appollaiato su ogni vessillo. Me ne venni via mangiandomi le dita, naturalmente, con la sensazione che mi bruciava nelle orecchie di come questa non sia l’epoca per il mio oscuro mestiere. Ma c’è qualcosa di più indicativo ancora, nell’ Auto-

biografia: la constatazione che il pittorico (the pictorial, ben diverso dall’aborrito picturesque) ‘fu sempre per me l’aspetto effettivamente drammatico, sociale, umano.’ Anche quando James, a partire dagli anni ‘90 dell'Ottocento, elabora per i suoi romanzi della fase mediana il cosiddetto ‘metodo scenico’, per vari aspetti oppositivo a quello ‘illustrativo’ e del quadro, svolto cioè sul seguito e il montaggio di scene brevi e intense, dove l’esibizione dell’animo deve avvenire soltanto attraverso il dialogo e l’azione (non l’analisi psicologica), non lo fa avendo in mente i drammi di Shakespeare, ma piuttosto il cosiddetto — e tanto inferiore! — ‘dramma ben fatto’, la pièce bien faite di Scribe,



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Sardou e Dumas fils. (A questo tipo di dramma si sarebbe rifatto anche per i suoi tentativi di scrivere per il teatro, con risultati in ogni senso deludenti e talvolta disastrosi.) L’ispirazione che poteva trarre dai drammi del Bardo, messi in scena e recitati a tutto scapito del loro valore intrinseco, era allora nel senso del realismo illustrativo e pittorico, del tableau vivant e della quasi esasperata interiorizzazione dei dilemmi e drammi dei personaggi, non nel modello strutturale o drammatico. Troppo macchinose e affastellate erano le rappresentazioni del periodo: si è visto che la loro intensità era quella dell’impresario e del macchinista, e la loro resa teatrale gli era apparsa fin da piccolo ‘così volgare, così barbara — provinciale’, fornendo tutt'al più una ‘fosca immagine istrionica’. L’ispirazione poteva venire perciò solo dalla lettura, delibazione e assimilazione dei testi shakespeariani, nel senso della costruzione incardinata e controllata dei temi e delle strutture profonde. Il vantaggio della forma drammatica stava nel fatto che implicava una masterly structure, un lavoro di costruzione e architettura narrativa: ‘il vero dramma [...] più di

ogni altra forma letteraria abbisogna d’una struttura da maestro. Va formato e modellato e messo assieme”. Altrove James si sarebbe riferito al bisogno di un chiaro ordine e di una sequenza espressa (‘a clear order and expressed sequence’), di ‘una qualche economia di chiara condensa-

zione [summarization]", di una ‘padronanza dell’ asserzione fondamentale”. Nei due casi, il drammaturgo, e il narra-

a dea

tore che a lui si ispira, è come un architetto, o un carpentiere, un joiner: ‘Il drammaturgo deve veramente costruire, è impegnato all’architettura, alla costruzione ad ogni costo’. In questo tipo di romanzo ‘scenico o ‘comportamentista’ a cui James si dedica alla fine dell'Ottocento predomina l’azione, non l’illustrazione, la scena drammatica dove ‘il dialogo è sempre azione’; esso presenta, non rappresenta, è oggettivo, privo di indagini psicologiche, di quell’ ‘andar dietro’ o dentro i personaggi, che è tipico della sua narrativa maggiore. Può avvicinarsi al teatro, ma poco ha da spartire con Shakespeare: proprio dove potremmo aspettarcelo di più, il suo possibile modello drammatico non funziona. E infatti, in un’altra Prefazione, James notava che il ‘quadro’ narrativo ‘è geloso del dramma, e il dramma [...] sospettoso del quadro.’ Mentre in una lettera del 1913 avrebbe notato che il dramma ‘in qualche modo rappresenta solo un Caso, diverso, per così dire da una Situazione; il Caso è sempre una cosa piuttosto priva di connessioni con e nella vita in senso lato, e la Situazione, drammaticamente parlando, è in larga misura interessante proprio perché le ha”. Nel senso dato alla distinzione, Shakespeare è preminentemente autore di Situazioni; e così doveva essere e sarebbe stato per il romanziere, che conquista invece una forma ‘shakespeariana’— anche qui molto indirettamente — nella triade di romanzi della ‘fase maggiore’, dove abbandona il metodo scenico appena sperimentato e sul piano formale e strutturale attua, per sua ammissione, una



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contaminazione fra quello e il precedente metodo illustrativo del quadro o della tela, della picture. Nell’alternanza o simbiosi fra i due metodi riprende fiato la sua grande narrativa. Per raggiungere effetti di unità, scriveva nella Prefazione a The Ambassadors, il dramma ha sentieri assolutamente opposti a quelli del romanzo, eppure il materiale di questo suo romanzo ‘viene preso per materiale del dramma’. Gli è bastato assicurarne la ‘coerenza scenica’, ma mascherata, facendola apparire il meno possibile, dividendolo fra ciò che prepara le scene, e le parti o scene ‘che giustificano e coronano la preparazione [...] tutto ciò che in esso non è scenico [...] è preparazione discriminata, fusione e sintesi di quadro [picture]. In quella a The Wings of the Dove confessa che si può trattare il tema ‘come quadro oppure scenicamente’ — ed esso può ‘mostrare il suo pieno valore nella Scena. Straordinariamente belle, però, le occasioni o parti di un’occasione quando la linea di confine fra quadro e scena sostiene un po’ del peso della duplice pressione”. E in una lettera polemica del 1915 al collega H. G. Wells avrebbe dichiarato recisamente: ‘ritengo la tua distinzione fra una forma che è (simile a) pittura ed una forma che è (simile a) architettura del tutto vuota e nulla. È la coesistenza dei due metodi che esalta il romanzo,

ed è nel segno di quella confluenza di quadro e scena — cioè di illustrazione visiva e intensità drammatica — che si situa la possibile vicinanza dei suoi romanzi ai drammi di Shakespeare, il loro possibile e mediato influsso.



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Strutture profonde

Nei romanzi della fase maggiore a costituire l’elemento drammatico sono quindi i conflitti sotto la superficie, che pur senza esplodere teatralmente spezzano la vita dei protagonisti; così come ad acquistare profondità tragica sono i contorcimenti psicologici, le crisi di coscienza, il denudamento interiore dei personaggi stessi. Da Shakespeare, James mutua allora non tanto il principio o il tema della ‘rivalità mimetica’ evidenziata da René Girard — ossia la ‘struttura trinitaria’ e il triangolo di protagonisti — quanto quello della duplicità, del raggiro e dell’inganno, della practice: termine che il drammaturgo più comunemente usa proprio nel senso di stratagemma, complotto, cospirazione, plot nel duplice significato di trama e intreccio, messa in scena e truffa. Lo si ritrova in tutti i suoi romanzi, ma già notevolmente in The American, che ha un riconoscibile ipotesto,

parallelo o corrispettivo nell’Othello. Com'è stato variamente notato (fra gli altri da Agostino Lombardo), il protagonista Christopher Newman è fin dall’inizio nella situazione dell’uomo fuori ambiente e dislocato, al culmine dell’affermazione e della ‘gloria’ ma accettato controvoglia e ‘messo sotto processo’, quindi ‘insidiosamente ingannato e tradito’, truffato da persone a lui vicine (come James scrive nella Prefazione) — con affinità a quanto succede al Moro.



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Come questi è inerme per sincerità e nobiltà d'animo, e facilmente preso in trappola. All’inganno subentra l’umiliazione e la sofferenza — non la perdita di coscienza e l’esplosione di violenza di Otello (così come Claire, che era stata attratta anch’ella dal suo parlare e dal suo ‘esotismo’, finisce in convento e non vittima della cieca furia omicida). L’ipotesto funziona per il lettore a livello subliminare: che l’una sia detta ‘smaliziata parigina’ come Desdemona era stata definita ‘smaliziata veneziana’ è un richiamo diretto al dramma di Shakespeare, così come l’estraneità dei patrizi europei verso gli americani arrivati in Europa ricalca quella del patriziato veneziano verso i suoi condottieri di ventura (il ‘Western barbarian’ fa il paio con il ‘Moro’). Nei primi prevale il gusto dell’inganno distruttivo e autodistruttivo di uno lago, la volontà di dare e subire la morte che opera in lui. Non conta però la superficiale corrispondenza — Claire è infatti più nella condizione di Ofelia che in quella di Desdemona — , quanto il livello profondo del raggiro e delle conseguenze che ha sugli animi. Altrettanto si può dire di Ritratto di signora, per dare un altro esempio dove il conflitto è tutto romanzesco, reso interiore, non conclamato e drammatizzato. È tragedia psicologica ed esistenziale, quella di Isabel: tuttavia anche lei è vittima innocente e sacrificale di un raggiro e un inganno, anzi di un vero e proprio complotto ordito ai suoi danni da uno specioso beau monde per mire di denaro e possesso. Non so quanto sia una Miranda, una Imogen,



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come adombrava James, una Desdemona piuttosto che un’Ofelia, la cui tragedia è di annichilimento totale, pazzia e morte. Ma alla maniera di Otello e altri personaggi shakespeariani è cieca alla tessitura di menzogne che la circonda, così come Mme Merle è la complice dello Iago di turno, quel Gilbert Osmond che avvelena la mente e chiude tutte le porte al ‘fragile vaso’ che si farà vessillo e vascello di consapevolezza e dolore. Anche qui c’è il richiamo diretto a una frase dell’Ote/lo, a quel ‘mettere denaro nella sua borsa’ (capitolo 18), che sarà la trappola inopinatamente predisposta per la sua rovina. E si può ribadire che affiora il grande tema o motivo tragico di Shakespeare, l’eterogenesi dei fini, il tragico trabocchetto o viluppo per cui nelle esistenze degli uomini le azioni nobili e disinteressate, intese a fin di bene, spesso ottengono risultati opposti a quelli prefissi. In questi romanzi della prima fase i grandi conflitti e scontri tragici sono però presentati e risolti in situazioni più melodrammatiche che tragiche, nel segno di quella che è stata definita la ‘immaginazione melodrammatica’ dell’Ottocento. Tradizione che si afferma ancor più nella fase mediana di James, negli anni 80, nei romanzi realisticonaturalistici come The Bostonians, The Tragic Muse o The Princess Casamassima, dove il riscontro shakespeariano si allenta nella dovizia dei riferimenti sociali e ambientali,

e nella denuncia di particolari storture della civiltà contemporanea. Dell’ultimo, di cui si è già visto un riscontro profondo nella figura di Hyacinth Robinson e del suo de-



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stino funesto, possiamo ricordare che vi alita come il vento di un Fato che travolge al di là della volontà individuale, alla maniera della tragedia classica ed elisabettiana. O si può notare come in The Other House (1896) la retribuzione e punizione del delitto sia rigorosamente ristretta alla sfera interiore del personaggio, come faceva Shakespeare in diversi suoi drammi. Ma anche qui è intervenuto il filtro dei suoi riconosciuti eredi ottocenteschi, dei Balzac e dei Dickens — una tradizione che indirizza sul sociale, sul melodrammatico e l’interiore le scelte del romanziere. Dove si potrebbe riscontrate un elemento shakespeariano — la misteriosa origine e collocazione del Male, il modo come esso opera non si sa se dall’ Aldilà o dalle coscienze, se per istigazione diabolica o corruzione tutta interiore — come ad esempio in The Turn of the Screw (1898) — siamo sul terreno minato

delle possibili allucinazioni o delle distruttive turbe psichiche, al limite delle consapevolezze psicanalitiche che stavano emergendo proprio in quegli anni. C'erano anche nel Bardo, loro grande e ignaro precursore: dove sono veramente le Streghe? Ma eventuali raffronti mostrerebbero presto la corda. Practice, inganno e raggiro con potenziali connessioni con lui si riscontrano invece nei tre ultimi romanzi cui ci si è più volte ormai riferiti. Labili — a parte certe connessioni di personaggi, cui si è già accennato — quelle de Gli ambasciatori, dove l’esito, drammatico più che tragico, e nemmeno più melodrammatico, riguarda l’abbandono di Mme



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de Vionnet e la ‘rinuncia’ di Strether al mondo; ma perdono entrambi per il raggiro e l’inganno sociale, mondano, esercitato dal beau monde europeo e dagli interessi economici prevalenti in America. Più probatorio è l’esempio de Le ali della colomba: quello di Kate e Merton nei riguardi di Milly è un complotto in piena regola, di cui saranno essi stessi — come spesso in Shakespeare — artefici e vittime, complici e sacrificati. Il plot ha dirette conseguenze tragiche sull’eroina, e sui cospiratori dopo la sua morte. Ma anche Milly, l’ereditiera, si rende colpevole di una diretta volontà di possesso e dominio (si è detto) in termini che sono tanto più moderni e shakespeariani in quanto non distinguono più nettamente nel personaggio ciò che è buono e ciò che è cattivo: ‘Fair is foul and foul is fair’, come sentenziavano le streghe all’inizio di Macbeth, e sottintende tutto il dramma. La tragedia è sfiorata e per così dire ridimensionata ne La coppa d’oro: la vittima sembra per buona parte del romanzo Maggie, la Principessa, tradita dal marito e dalla ‘matrigna acquisita’, ma poi è proprio questa, Charlotte Stant, l’amante del marito, a diventare vittima sacrificale, a finire stritolata dalla ferrea volontà di Maggie di riconquistare il marito con i mezzi del silenzio, della vi-

cinanza ossessiva e del potere economico. È un’eroina, ricordiamo, che mostra il volto di Medusa, mentre l’altra per il tradimento ed il raggiro è umiliata e relegata nel vuoto della lontana, impensabile e per lei improponibile American City.



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La vittima, nel caso dei due ultimi romanzi, si trasforma in qualche modo in carnefice, il ‘fragile vaso’ si muta in belle dame sans merci: sottili capovolgimenti che hanno come un respiro e un andamento, un’a/lure shakespeariani, anche se, o proprio perché, sono rapporti di distruzione eminentemente psicologica che s’instaurano fra i personaggi del dramma. Come ha scritto con efficacia e persino eccessiva virulenza R. P. Blackmur, ‘In Shakespeare male e bene fanno infinito stridio [endless jar]", mentre in questi due romanzi jamesiani ‘trasmettono l’uno all’altro un’infezione quasi purulenta, che in certo qual modo sembra un’unica malattia. Eppure l’infezione tratta dal bene è peggiore di quella tratta dal male. Maggie ‘distrugge tutto ciò che renderebbe tollerabile la vita fra sé e il marito. Non c’è bellezza nella sua vita quotidiana; e così, come Iago — finché le credono — ne rimuove la possibilità dalla vita del padre, da Charlotte e dal marito.’ Di quanti di questi personaggi lago fa ormai da ipotesto? Il respiro allora è quello di Shakespeare, finendo che vittime e carnefici si confondono o sono le due facce della stessa medaglia; e in ogni caso la loro punizione, o la punizione che infliggono agli altri, è essenzialmente psicologica, la condanna è spesso una privata sanzione morale, una rinuncia accettata o imposta; sono la sofferenza, l’aridità,

il vuoto esistenziale che subentrano alla colpa o se ne fanno veicolo, l’umiliazione e la solitudine, non la violenza e la morte. Le vittime hanno fin dall’inizio spesso ingannato



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se stesse e ingannano gli altri, si votano alla cecità e alla distruzione di sé, e coinvolgono gli altri nella rovina. (E stato anche notato che come in Shakespeare la cor-

ruzione ha spesso forti connotazioni sessuali, e come nei sonetti e nei drammi egli esprime a forti tinte e con immagini di lercia corporeità e disgregazione fisica il disgusto per la sessualità, per la ‘lust in action’, l’incontro dei corpi, adultèri e tradimenti effettivi o immaginati, così in James l’aria è contaminata, infettata dall’infedeltà delle persone; immagini di bestialità sono egualmente associate ai fantasmi della sensualità — ‘The Beast in the Jungle” — benché in lui, come in quasi tutti i vittoriani, il riferimento alla sessualità sia sempre sotto traccia, come zittito, implicito,

suggerito, mai espresso. Va colto al volo, non ci si sofferma con compiacimento.) Quella di Shakespeare, va ricordato, è ancora tragedia come the fall of princes, la caduta di altolocati ed eccelsi personaggi. Questo modello era stato determinante per Herman Melville, che per esplicita ammissione e prove schiaccianti disseminate in Moby-Dick riscrive modernamente la tragedia del titanismo diabolico o dell’ubris sublime, della catastrofe che tutti travolge. Quella di James è la caduta di personaggi dell’alta società, isolati dalla comune vita di tutti, che per il raggiro il tradimento e l’inganno subiscono principalmente sofferenze dell’animo, versano lacrime di dolore e non più di sangue, e tali infelicità morali, più che sofferenze fisiche, impongono anche



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agli altri. Il modello dell’uno sull’altro è insomma distanziato, seppur sottilmente e profondamente presente.

Sperimentalismo acuto

In comune i due grandi hanno anche la volontà e la capacità di spingere lo sperimentalismo e la scrittura ai limiti estremi, al punto di rottura: ciò riguarda la forma, la struttura, il linguaggio dei rispettivi drammi e romanzi. Comporta in primo luogo la spinta a sperimentare dramma dopo dramma, romanzo dopo romanzo, il modo sempre nuovo del suo farsi, del suo genere, della sua tematica. Per l’uno e per l’altro scrittore ‘Every attempt is a wholly new start’, come avrebbe detto T. S. Eliot; non ci si attesta mai su ciò che si è fatto, non ci si adagia mai sul successo raggiunto, per ripeterlo. Come lo si raggiunge in una data forma o genere o struttura, va subito rimesso in discussione, superato, per sperimentare nuove vie, nuovi sbocchi,

ingaggiando ogni volta una sfida con diverse forme di rappresentazione ed espressione. Onde in Shakespeare la varietà dei generi — commedie, drammi storici, tragedie, romances —, e la varietà al loro

interno tanto che l'elenco potrebbe allungarsi tanto quanto quello burlesco messo in bocca a Polonio. In James ci si è spesso riferiti ai diversi metodi e assunti delle sue varie fasi. La varietà è nei sottogeneri del romanzo ottocentesco,

e nella sperimentazione di ogni sua possibile forma, sia



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esteriormente che all’interno: dal romanzo psicologico e ‘analitico’, ancora indigesto e accolto spesso con ostilità nel suo tempo, a quello realistico-naturalistico, a quello puramente dialogué, pittorico e illustrativo ovvero ‘scenico’ e drammatico, ed una combinazione fra i due, il romanzo del silenzio e dell’ambiguità, fino all’anti-romanzo (The Sacred Fount). ‘Di tutti i quadri, il romanzo è quello più comprensivo e più elastico. Si estenderà dappertutto — comprenderà assolutamente tutto. Ha soltanto bisogno d’un soggetto e di un pittore. Ma come soggetto, splendidamente, ha l’intera consapevolezza umana’, scriveva nel 1899, alla vigila dei suoi romanzi più complessi. Lo sforzo di rappresentare, ‘l’arte della rappresentazione completa’, che trovava in Balzac e simultaneamente in Shakespeare, stava nella fusione degli elementi tanto quanto nella varietà della loro configurazione. Lo stesso vale per il linguaggio, che l’uno e l’altro spingono sperimentalmente dalla semplicità all’eccesso, dall’uno all’altro estremo della sua gamma. Semplice e ‘realistico’ il primo di James, che poi per lunghe vie si trasforma in quello complesso e arzigogolato, elusivo e sfuggente, talvolta indisponente, dei suoi ultimi romanzi. Dagli eccessi ‘ornati’ della gioventù alla dizione compressa, pregnante e insieme flessibile, alla grazia poetica e ai contrastanti corti-circuiti di sintassi e immagini, quello di Shakespeare. Come ha scritto T. S. Eliot, anche l’ultimo periodo del drammaturgo (Cymbeline, The Winter’s Tale, Pericles, The



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Tempest) vede l’attuazione dell’ ‘altro compito del poeta — quello di sperimentare per vedere come si possa elaborare e complicare la musica senza perdere del tutto il contatto con il discorso colloquiale, e senza che i personaggi cessino di essere umani. Un compito che sembra porsi anche il romanziere nelle ultime sue opere, benché con qualche rischio sul discorso colloquiale. Sono entrambi spinti

e trascinati,

fin

quasi

a essere

travolti,

dallo

stretching della sperimentazione, da quell’esigenza dell’espressione, su cui abbiamo già visto dilungarsi James proprio a proposito del Bardo, che costringono a infinite prove e instancabili rinnovamenti. James sembra ‘reclutare Shakespeare nei paraggi dell’inesprimibile [in the proximity of the unutterable), ha osservato Rawlings. Che l’uno e l’altro ingaggino una lotta quasi sovrumana e ossessiva con l’espressione, è una caratteristica e un segno della loro grandezza: non ci si stanca e non si demorde mai, la varietà è una stimolo e un’esigenza, lì come nei personaggi, nelle strutture e nei generi. Neanche all’interno delle loro opere sono tranquilli e soddisfatti, grati e appagati con se stessi. Soffrono entrambi della smania di revisione: il loro ultimo, poco appariscente, ma solido e indubbio legame si profila anche in questo. Shakespeare rifà costantemente non solo drammi altrui, ma anche 1 propri. Ci dà due, forse tre versioni del suo Amleto, servendosi di un testo precedente in cui magari

recitava lo Spettro del padre, e ancor oggi non si sa bene quale valga di più, quale egli volesse o preferisse, mettesse



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di volta in volta in scena. Quel testo è una sorta di monstre. Due sono i King Lear che possiamo leggere o inscenare come testi paralleli, l’uno a specchio dell’altro, l’uno in leggera discrepanza con l’altro (come gli Amleti). La revisione è tipica e d’obbligo per il drammaturgo, di programmazione in programmazione, di tournée in tournée, e tanto più nelle ‘sordide condizioni’ dei teatri dell’epoca. James ne fa un’ossessione, oltre che una ragione di vita e d’arte, snervante e persino, per certi aspetti e per certi casi, autodistruttiva. Da testo in rivista a libro, da puntata a volume, da ristampa a ristampa, è un seguito continuo di revisioni — culminanti nell’ultima, drastica, della New York Edition (1907-09), che rivede, rifà, e in

pratica riscrive i primi romanzi e racconti secondo l’ottica, i principî, lo stile e le idiosincrasie dell’ultimo periodo, scrivendoci poi sopra le Prefazioni che ancora rimescolano le carte, a spiegazione, commento, spesso mistificazione, illusione e inganno. Rivede e rovescia il proprio stile e modo di scrittura, la propria Espressione: sarà meglio la prima, l’intermedia (da rivista a prima pubblicazione in volume), o l’ultima scrittura/stesura? Sembrerebbe come se riconoscesse anche qui la lezione di Shakespeare, il primo prototipo e patrono dell’intellettuale moderno per l’insoddisfazione che insinua anche nella maggiore riuscita, per la volontà di superamento di se stesso che impone anche quando il risultato (o il testo) sembra definitivo.

sia ff i

In tutti questi possibili aspetti, impensabili, impervi,

quasi indicibili e problematici, sono i legami di James con il Bardo, il maestro che scuote, il modello che esercita il

richiamo della sfida, con autorità e per vie indirette — ‘by indirection find direction out’. Il romantico, aveva scritto nella Prefazione a L’americano, sta nelle cose ‘che non possiamo mai conoscere direttamente; le cose che ci raggiungono solo attraverso il magnifico circolo e sotterfugio del nostro pensiero e del nostro desiderio. Denis Donoghue vede quello splendido circolo e sotterfugio attuato negli ultimi drammi di Shakespeare, i romances, con il loro esempio di un ordine umano realizzato. Ma è anche il circolo e il sotterfugio perfetto del rapporto di James con Shakespeare.



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EPILOGO

L'occhio fisso

C'è alla fine un dubbio, un’incertezza, una perplessità, espressa in un frammento di lettera del 1911, in riferimen-

to ad una pubblicazione su Significs and Language uscita quell’anno. La tanto decantata e agognata ‘Espressione’ può forse rompersi. James è stupito dalla trascuratezza e dal disonore in cui langue attorno a lui la ‘questione dell’espressione’, e la sua inerente difficoltà l’opprime. Forse ci si deve acconciare a qualcosa di meno. ‘L’universo stesso sembra tanto sforzare la propria espressione al punto di rottura’, e come può ‘una tal fluttuante barchetta [cock/e-boat] di compromesso qual è l’arte pretendere di vivere in quel mare’? Lì è il nodo, l’inghippo (hitch): ‘noi ci rendiamo in certo qual modo conto (almeno io, nella mia debolezza) che l’espressione è, al suo massimo insormontabile, un compromesso’,

destinato, nell’interesse della forma compiuta, a continuare sempre. Così è ‘nel triste — e dopo tutto quanto mai ambiguo — mondo dell’arte; che non è la cosa più grande di tutte, ma solo la seconda più grande!”



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James si umanizza, come aveva fatto Shakesoeare alla fine, scendendo fra le gente, nel mondo. E a lui — e per la prima volta a Dante — è ancora il richiamo diretto, per riaffermarne la forza anche nella debolezza: ‘La poesia sforza l’espressione al punto di rottura. Così, voglio dire, ha fatto la più grande; in Dante e Shakespeare essa si crepa e fende perpetuamente, eppure ci piace così torturata e sofferente. Non significa forse che le sue stesse debolezze [...] possono avere una loro bellezza, un loro valore per la vita?” Il tono per buona parte sembra shakespeariano — la consapevolezza, jamesiana. Lascio che a suggellare il legame sottile e l’arcana equiparazione fra i due scrittori sia Virginia Woolf. In una lettera del 25 agosto1907 racconta di essere andata a prendere il tè con Henry James (e i Prothero) al circolo del golf, e che lo scrittore, anzi ormai The Master, sulla pub-

blica via l’aveva ‘fissata con il suo occhio sgranato e inespressivo — è come la biglia di un bambino [fixed me with his staring blank eye — it is like a childs marble)”, prima di imbarcarsi in una delle sue lunghe, esitanti, balbettanti frasi, a cui la giovane fa memorabilmente il verso, per informarsi se è vero che anche lei scrivesse. L’occhio come la biglia di un bambino. Lo stesso occhio o uno sguardo analogo Virginia affibbia più tardi a Shakespeare, nel suo romanzo

‘androgino’

Orlando, im-

maginandolo proprio all’inizio alla tavola dei servi nel maniero di Knole, al seguito della regina: ‘Teneva una penna in mano ma non scriveva. Sembrava ruminare un



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qualche pensiero [...] Aveva gli occhi fissi, rotondi e velati come una pietra verde di strana grana [His eyes, globed and clouded like some green stone of curious texture, were fixed]. Così li accomuna e fissa nel tempo, nella vitrea fissità dei loro occhi. Ma vedevano bene, e a fondo, tutti e tre.



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