Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un'alternativa 8865484527, 9788865484524

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha colto tutti di sorpresa. Mentre gli analisti geopolitici si affannano in improbabi

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Italian Pages 144 [148] Year 2022

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Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un'alternativa
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Maurizio Lazzarato

Guerra o rivoluzione Perché la pace non è un'alternativa

Input

Input è una collana di formazione politica. Con pamphlet e volumi agili, attraverso un linguaggio rigoroso e accessibile, si pone alla continua ricerca degli strumenti teorici per sfidare il presente

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Input, collana a cura di Gigi Rogg ero

Maurizio Lazzarato

Guerra o rivoluzione Perché la pace non è un'alternativa

I edizione: settembre 2022 © 2022 DeriveApprodi srl tutti i diritti riservati DeriveApprodi srl via Pesaro 25, 00176 Roma [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico: Andrea Wohr

Finito di stampare nel mese di settembre 2022 presso la tipografia Legodigit srl - Lavis (TN)

I ntroduzione

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La guerra in Ucraina ha messo in evidenza tutti i li­ miti politici di quel che resta dei movimenti e delle teorie critiche. Entrambi hanno espulso la guerra (e le guerre) dal dibattito politico e teorico producendo una pacificazione del capitalismo e dello Stato. Si discute e si teorizza di produzione, lavoro, rapporti di potere (dell'uomo sulla donna, del bianco sul razzializzato, del padrone sul lavoratore) ma in un quadro in cui le guerre di conquista e di assoggettamento, la guerra ci­ vile e la guerra tra Stati, sembrano appartenere al XX secolo. Le rivoluzioni e i rivoluzionari appaiono anche loro chiusi in un passato che li rende inutili e ci impe­ disce di utilizzare il loro sapere strategico sull'imperia­ lismo e le guerre. Il risultato di cinquant'anni di pacificazione è lo smarrimento di fronte allo scoppiare della guerra tra imperialismi, sballottati dalla cronaca, in balia dell'o­ pinione, senza un punto di vista di classe, perché nel frattempo anche le classi erano state fatte scomparire, confondendo la sconfitta della classe operaia storica con la fine della lotta delle classi. Al contrario questa si è intensifica, anzi infuria, ma condotta con piglio stra­ tegico solo dal nemico di classe. Il problema che abbiamo di fronte è un lungo lavo­ ro per reintegrare le guerre e le lotte delle classi come 1 / I primi due capitoli sono stati pubblicati nel marzo 2022 su «Machi­ na»; gli altri tre sono stati scritti in giugno. Le citazioni presenti nel vo­ lume sono tratte dalle edizioni francesi, le traduzioni sono dell'autore.

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elemento strutturale del capitalismo, cercando di rico­ struire su queste un punto di vista di parte. Le teorie critiche hanno tutte sviluppato un nuovo concetto di produzione (desiderante, affettiva, cognitiva, biopolitica, neuronale, pulsionale) rimuovendo nello stesso tempo il fatto che prima di produrre delle mer­ ci, bisogna «prendere e dividere» producendo le classi. La produzione, il lavoro, i rapporti di potere razziali e sessuali presuppongono le guerre di conquista e di as­ soggettamento che producono le donne, gli operai, i co­ lonizzati, i razzializzati, i cittadini che non esistono in natura. La guerra civile di appropriazione dei corpi deve affermare, nello stesso tempo, la divisione tra proprie­ tari e non proprietari, tra chi comanda e chi obbedisce. La «pace» che ne consegue è quella che i vincitori impongono ai vinti ed è la continuazione della guer­ ra di assoggettamento con altri mezzi (l'economia, la politica, l'eterosessualità, il razzismo, il diritto, la cit­ tadinanza). L'accumulazione del capitale non farà che accentuare i dualismi che la fondano creando delle dif­ ferenze sempre più accentuate di reddito, patrimonio, potere all'interno delle classi di ogni paese, e delle disu­ guaglianze crescenti di potere militare, politico e di po­ tenza economica tra Stati che condurranno alla guerra tra imperialismi che è, a sua volta, la continuazione del­ la «pace» della politica, dell'economia, della biopolitica con altri mezzi. La guerra non è l'interruzione delle lotte di classe, ma il loro proseguimento sotto altreforme. In estrema sintesi questo è il ciclo economico-politi­ co del neoliberalismo che comincia con la guerra e fi­ nisce con la guerra, di cui ci si occuperà nel terzo e nel quarto capitolo assieme alla formazione delle classi: è la grande impasse delle teorie critiche contemporanee perché cancellano la parola d'ordine di Marx, «espro­ priare gli espropriatori», condizione di ogni cambia­ mento radicale. Si pensa che si possa imporre il «co6

mune», le forme di vita, le vite liberate, la produzione di soggettività, le politiche del desiderio senza passare per il rovesciamento delle espropriazioni originarie. Il quinto capitolo affronta il rapporto tra accumula­ zione nel mercato mondiale, Stato e guerra imperialista, di cui la scontro in Ucraina è una perfetta illustrazione. Lenin ci dà una buona indicazione di metodo su come leggere la guerra in corso spiazzando il discorso ripetuto ossessivamente dell'aggressore e dell'aggredi­ to : «Il filisteo non capisce che la guerra è "la continua­ zione della politica" e quindi si limita a dire "il nemico attacca", "il nemico invade il mio paese", senza doman­ darsi per quale motivo si combatte la guerra, con quali classi, per quale fine politico [...]. E, come per valutare la guerra si è ricorsi a frasi assurde sull'aggressione e sulla difesa in generale, così per valutare la pace si ri­ corre agli stessi luoghi comuni filistei, dimenticando la situazione storica concreta e la concreta realtà della lotta tra le potenze imperialiste». Il motivo e il fine politico sono sicuramente l'egemo­ nia del mercato mondiale che, dopo la caduta del muro, gli Stati Uniti pensavano di poter dominare facilmen­ te. Le guerre perdute per esportare la democrazia era­ no già un segno che non tutti volevano vivere sotto la «pax americana». Molto più preoccupante per lo zio Sam è la crescita del grande Sud (il primo capitolo si occupa delle sue formidabili rivoluzioni e della loro trasformazione in capitalismi comunque irriducibili al capitalismo occidentale) e in particolare la Cina e la Russia che anche loro non gradiscono che gli america­ ni, non si capisce con quale legittimità, se non tramite la forza, comandino il mondo. Il Sud legge la guerra in Ucraina come la punta di diamante del progetto del «secolo americano» (i neoconservatori), del «Make America Great Again» (Trump), del «Far sì che l'America, ancora una volta, 7

guidi il mondo» (Biden), che ha come primo obiettivo indebolire la Russia, ma mira poi alla Cina e a tutto il Sud. Ragion per cui, per motivi diversi, si sono rifiutati di seguire !'«Occidente» che vedono come un imperia­ lismo molto più pericoloso dell'imperialismo russo. Lo fanno da paesi che spesso escono da secoli di colo­ nizzazione e che vedono nell'America il pericolo prin­ cipale. Non è il sentire dei governi, ma una coscienza generalmente diffusa nella popolazione, come posso testimoniare per l'America Latina. Mi sembra che il Sud colga meglio dell'Occidente e della sciagurata Eu­ ropa la posta in gioco della guerra. Ma se abbandoniamo il punto di vista dei rapporti internazionali e adottiamo il punto di vista di classe, gli imperialismi del Nord, del Sud e dell'Est si assomi­ gliano perché tutti sfruttano donne, operai, migranti, colonizzati e reprimono le minoranze all'interno dei loro Stati e all'esterno si appropriano di risorse umane e materiali. Sono governati da oligarchie mafiose e non solo all'Est (in Italia non si vota da anni perché le oli­ garchie finanziarie hanno occupato lo Stato, in Francia si sono organizzate meglio e hanno fatto eleggere un banchiere presidente della Repubblica), tutti hanno distrutto quel poco di democrazia che non era una con­ cessione del potere, ma era stata strappata, come il suf­ fragio universale, dalle lotte. Eliminato il conflitto, è sparita la democrazia perché non è assolutamente una creatura del capitalismo. I più ipocriti come sempre sono gli occidentali che per esportare il loro modello non hanno esitato a demolirlo al proprio interno, con il risultato che abbiamo il fascismo, il razzismo e il ses­ sismo in casa, riuscendo a far arrivare alla Casa Bianca Trump che è già pronto a prendersi la rivincita (o chi per lui), mentre in Francia, patria dei diritti dell'uomo, l'estrema destra ha raggiunto il 42% dei suffragi nell'e­ lezione presidenziale di quest'anno. 8

L'Ucraina non è in niente differente dagli altri Stati dell'ex patto di Varsavia (Ungheria, Polonia ecc.): go­ verno istituzionale di destra (con componenti fasciste), governo ombra delle oligarchie, politiche neolibera­ li, repressione della «sinistra», omofobia, sessismo, privatizzazione delle terre agricole, le più importanti ricchezze del paese vendute a multinazionali agroali­ mentari, legislazione contro il lavoro. Il tutto sotto il controllo e la direzione della Nato, degli Stati Uniti e dell'Inghilterra. Lenin, molto attento alle lotte di liberazione nazio­ nale, diceva che bisogna difendere il diritto all'autode­ terminazione delle nazioni e delle minoranze nazio­ nali anche se sono governate dalla destra, tranne se si fanno lo strumento di imperialismi. Ma quali classi sono in gioco? Le classi che dirigono gli imperialismi hanno operato una progressiva inte­ grazione strategica del capitale e dello Stato. Il libro, invece di pensare lo Stato e il capitale come due entità separate, utilizza il concetto di macchina bicefala Sta­ to-capitale. Insieme costituiscono un dispositivo che produce, «governa», fa la guerra, anche se con delle tensioni interne, in quanto la potenza sovrana e il pro­ fitto non coincidono. Progressivamente si integrano ma senza mai identificarsi. Per analizzare il funziona­ mento di questi imperialismi e le classi che li dirigono bisogna ritornare (se ne occuperà il quinto capitalo) sulla definizione del capitale e dello Stato e sul loro rapporto, che è stato caricaturato dai discorsi sulla glo­ balizzazione: supremazia del primo sul secondo, sfora­ mento delle frontiere, superamento dell'imperialismo, crisi della sovranità, automatismi della finanza. In ogni paese, pur avendo tutti adottato il capitali­ smo, il rapporto politica/economia, Stato/capitale è ge­ stito differentemente. Anche gli obiettivi e i mezzi che si danno per raggiungerli non sono gli stessi. Abbiamo 9

quindi a che fare con una molteplicità di centri di pote­ re politico-economico che con l'acutizzarsi delle crisi e delle catastrofi ecologiche, sanitarie, economiche sca­ tenate dalle politiche neoliberali, si battono come un secolo fa per appropriarsi di mercati, risorse materia­ li e umane, per imporre le proprie regole e la propria moneta. Insomma, abbiamo ancora a cha fare con gli imperialismi, che si stanno scontrando con le armi, con l'economia, con la comunicazione, con la logistica, con la cultura, dunque con la guerra «totale». Ma tota­ le era già il conflitto del 1914-18, anzi è ancora lui che costituisce la matrice di ciò che sta succedendo (analisi sviluppata nel secondo capitolo). Il grande problema degli oppressi è che l'abbando­ no della rivoluzione e della guerra, che erano invece al centro del dibattito politico del XX secolo, è stato accompagnato dalla rinuncia al concetto di classe, que­ stione capitale che non può essere affrontata in questo libro (rimando al mio Intollerabile presente, urgenza della rivoluzione). Quello che possiamo dire è che le classi non comprendono solo capitalisti e operai, ma anche uomini e donne, bianchi e razzializzati. Questi dualismi che funzionano da focolai delle lotte e dell'or­ ganizzazione sono diversi e quindi si differenziano i punti di vista, anche sulla guerra. I movimenti femmi­ nisti sono piuttosto interessati alle violenze, ma se le guerre sono senza dubbio violente, i due concetti non coincidono. La violenza sessuale, razziale, classista deve essere compresa e politicizzata come individua­ lizzazione della guerra di conquista. Il dibattito che cresce all'interno del femminismo sulle «violenze» potrà aprire un discorso sulla guerra che certe femmi­ niste hanno già problematizzato per quanto riguarda la guerra di conquista e assoggettamento (Wittig, Co­ lette Guillaumin e tutto il femminismo materialista, Silvia Federici, Veronica Gago). Al centro della guerra IO

ci sono sicuramente le pulsioni maschili, ma se questo è vero dalla guerra di Troia fino a quella dell'Ucraina, si tratta allora sempre di una sola e stessa guerra e si rischia così di perdere la specificità e la ragioni delle guerre all'epoca degli imperialismi e della loro mo­ struosa capacità di distruzione. La teoria e la politica ecologica non considerano lo stretto legame che unisce le guerre totali alla catastrofe climatica e ambientale (nel secondo capitolo si affronta il rapporto di identità e reversibilità tra produzione e distruzione inaugurato dalla Prima guerra mondiale). Il movimento operaio, che non è praticamente so­ pravvissuto alla sconfitta storica subita a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, se non con i sindacati, fun­ ziona come una istituzione completamente integrata alla macchina Stato-capitale. Questa situazione in cui l'iniziativa è in mano al nemico, in cui i movimenti politici sono in piena ri­ costruzione dopo il ciclo di lotte del 2ou, non poteva generare un grande dibattito sulla guerra, il pacifismo, il riarmo, la rivoluzione, come si era sviluppato prima e durante la Grande guerra. Un punto di vista di classe significativo sembra emergere con grande difficoltà. Essere per la fine della guerra non vuol dire essere pacifisti, nella storia degli oppressi niente è mai stato conquistato con la pace. La pace non è una cosa che va da sé, deve essere interrogata. Che pace si vuole? Quella che ha preceduto la guerra e che l'ha causata? La pace degli ultimi cinquant'anni di controrivoluzio­ ne e che è stata, al Nord, un massacro delle conquiste ottenute da un secolo di lotte, e al Sud la continuazione delle guerre per esportare la democrazia occidentale (in realtà guerre di rapina, di appropriazione, di estra­ zione)? Una pace che assomigli a quella che si è instau­ rata dopo la Prima guerra mondiale e non ha fatto altro che preparare la Seconda? II

I rivoluzionari avevano una formula che nella sua semplicità dovrebbe farci riflettere: «La guerra è la continuazione della politica di pace e la pace è la con­ tinuazione delle politica di guerra». Tradotto signi­ fica che volere la pace senza abolire il capitalismo è un'assurdità o un'ingenuità, perché il capitalismo non elimina la guerra ma la intensifica come nessun altro sistema economico e politico ha mai fatto, e la diffon­ de su tutta la società. Sono proprio i concetti di guerra e pace che nella loro opposizione sono problematici: dopo la Prima guerra mondiale questa separazione non ha più molto senso, perché, «ciò che è nuovo è lo stato intermedio tra guerra e pace». L'affermazione «abbiamo la pace quando non c'è la guerra», è vera solo nel caso della guerra milita­ re, ma il «passaggio alla guerra totale consiste precisa­ mente in questo, che i settori extra-militari dell'attività umana (l'economia, la propaganda, le energie psichiche e morali dei non combattenti) sono impegnati nella lot­ ta contro il nemico». In ogni modo, «battersi contro gli effetti (la guerra), lasciando sussistere le cause (il capi­ talismo)», era considerato dai rivoluzionari un «lavoro infruttuoso», e noi siamo con loro. La guerra rischia di continuare perché né i russi né gli americani possono perdere. Ma anche se firmano la «pace» vivremo dentro un neoliberalismo ancora più «autoritario» gestito da oligarchie ancora più predato­ rie, sostenuto da forze fasciste, razziste e sessiste che prepareranno la prossima guerra contro la Cina, come la folle corsa al riarmo dimostra. La stessa cosa possiamo dire della rivendicazione pacifista del disarmo: l'industria bellica e il militari­ smo sono degli elementi costitutivi del capitalismo. Stato, capitale, militarismo costituiscono un circolo virtuoso: il militarismo favorisce lo sviluppo del capita12

le e dello Stato da sempre, e questi ultimi, a loro volta, finanziano lo sviluppo del militarismo. Dopo la Prima guerra mondiale, l'industria bellica costituisce un investimento imprescindibile per l'accu­ mulazione. Ha la stessa funzione di stimolo degli in­ vestimenti produttivi (keynesismo di guerra) e assorbe l'aumento della produzione in modo che non vada al «consumo». In questo l'industria bellica è un regolato­ re del ciclo economico, ma soprattutto del «ciclo politi­ co». L'economia di guerra in cui siamo entrati aumen­ terà ancora la parte della ricchezza prodotta che andrà all'armamento e ridurrà ulteriormente il consumo. Al Sud non si tratterà soltanto di una contrazione del po­ tere di acquisto, ma di carestie ed esplosione del debito per molti di questi paesi, default per altri, miseria per tutti gli oppressi, irrigidimento delle gerarchie (sessua­ li, razziali, di classe), chiusura di ogni spazio politico. Anche qui vale la massima rivoluzionaria secondo cui «battersi contro gli effetti (l'industria bellica e il militarismo), lasciando sussistere le cause (il capitali­ smo)» è sbagliarsi di obiettivo. Allo scoppiare della Prima guerra mondiale il punto di vista rivoluzionario «trasformare la guerra imperia­ lista in guerra civile rivoluzionaria» era assolutamente minoritario. La maggior parte del movimento operaio aveva aderito alle guerre nazionali votando i crediti di guerra e inneggiando alla difesa della patria. È una rottura da cui il movimento operaio europeo non si ri­ solleverà più, mentre la parola d'ordine della politiciz­ zazione della guerra, perché di questo si tratta quando si dice di trasformarla, porterà alla prima vittoriosa rivoluzione nella storia degli oppressi. Non si tratta di ripetere, copiandolo, questo formida­ bile sapere strategico, ma di usarlo come postura, pun­ to di vista, attualizzandolo, riconfigurandolo, ripensan­ done i contenuti, anche perché è l'unico che abbiamo

sulla guerra. Qui posso solo porre delle domande, a cui risponderemo collettivamente se ne saremo capaci: cosa vuol dire oggi politicizzare la guerra? Nel XX seco­ lo era considerata un terreno privilegiato dello scontro di classe, per ribaltare relazioni di potere e gerarchie di sfruttamento. Non possiamo pensare di trasformare la guerra come hanno fatto in Russia, Cina, Vietnam, ma dovremmo dare un nuovo contenuto e una nuova vita al verbo trasformare. «Trasformare» la guerra mi sembra ancora un compito politico urgente. Per poter attualizzare questa trasformazione dobbiamo riconqui­ stare ciò che abbiamo perso, il principio strategico (se ne occuperà il quarto capitolo) con cui interpretare la guerra di conquista delle classi, la loro messa al lavoro e l'inevitabile conclusione di rapporti di potere inconci­ liabili nella guerra imperialista. Non è tanto la poten­ za produttiva del proletariato di cui abbiamo bisogno, quanto del principio strategico capace di interpretare la lotta delle classi, la guerra civile e la guerra imperiali­ sta, di nominare il nemico e batterlo. Lenin diceva, forse saggiamente, «cercare di impedi­ re la guerra in ogni modo», ma se arriva «rovesciare» i signori della morte. Se non ci si riesce, si rimane schiac­ ciati dalla distruzione generale operata dalla guerra.

La guerra in Ucraina, l'Occidente . e no1 1.

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La catastrofe è la condizione di vita e il modo normale di esistenza del capitale nella sua fase finale.

Rosa Luxemburg (1913)

Le parole d'ordine «No alla guerra», «Pace», «né con Putin né con Biden» sembrano deboli e impotenti se non trovano la loro forza in un «contro Putin e contro Biden». L'opposizione alla guerra deve fondarsi su una feroce lotta contro le diverse forme di capitalismo e so­ vranità in lizza tra loro, tutte capaci di dominio, sfrut­ tamento e guerra. L'appello dei partiti socialisti alla conferenza inter­ nazionale di Zimmerwald del 1915 ci ricorda una verità molto semplice, sebbene attivamente dimenticata. La guerra «nasce dalla volontà delle classi capitaliste di ogni nazione di vivere dello sfruttamento del lavoro umano e delle ricchezze naturali dell'universo» - per cui il nemico principale è, o è anche, nel nostro stesso paese. Siamo sorpresi, siamo disorientati, come se que­ sta guerra fosse una novità arrivata come un fulmine nel cielo sereno della pace. Eppure, da quando il Di­ partimento di Stato nel 1989 ha annunciato la fine della storia, la pace e la prosperità sotto la benevolen­ za dello Zio Sam, il Pentagono e l'esercito degli Stati 1/

Il testo è stato pubblicato su «Machina» il 7 marzo 2022.

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Uniti si sono impegnati in una serie impressionante di «missioni umanitarie per la fratellanza tra i popoli»: Panama 1989; Iraq 1991; Kuwait 1991; Somalia 1993; Bosnia 1994-95; Sudan 1998; Afghanistan 1999; Ye­ men 2002; Iraq 1991-2003; Iraq 2003-15; Afghanistan 2001-15/21; Pakistan 2007-15; Somalia 2007-8, 2011; Yemen 2009-11; Libia 2011, 2015; Siria 2014-15. Senza competere con un tale palmares, dopo che la Cecenia e la sua guerra di sterminio passò (con la com­ plicità dell'Occidente) attraverso il filtro del terrorismo come principale nemico dell'umanità, è la Russia che ha preso il sopravvento per annientare ogni traccia del­ la primavera siriana e salvare il regime di Assad, men­ tre persegue «operazioni militari speciali» nella sua area di influenza (Georgia, Moldavia, Ucraina ecc.). Ma le guerre tra potenze non esistono senza il pro­ seguimento delle guerre di classe, delle guerre razziali e delle guerre contro le donne che ogni Stato conduce per proprio conto. Il fatto è che i movimenti politici contemporanei si sono completamente separati dalla tradizione che poneva al centro del dibattito e dell'azio­ ne politica le questioni della guerra e della rivoluzione. Tanto che ci si può chiedere se la più grande vittoria della controrivoluzione non sia stata quella di farci cre­ dere che tali questioni fossero da mettere in soffitta per sempre, mentre fintanto che regneranno capitalismo e Stato saranno sempre d'attualità. Come siamo arrivati a questo? Per capire la guerra in corso, bisogna risalire alla caduta del muro di Berlino e spiegare i cambiamenti strategici che, all'epoca, non sono stati realmente com­ presi, per mancanza di un'analisi delle rivoluzioni del XX secolo. Gli occidentali rappresentano il più grande perico­ lo per la pace nel mondo perché sono ben consapevoli del doppio declino che li minaccia: quello dell'Europa, 16

a partire dalla Prima guerra mondiale, e quello degli Usa, a partire dalla fine degli anni Sessanta. Essi pro­ ducono incessantemente disordine politico ed econo­ mico, diffondono il caos e la guerra anche perché si sono pesantemente ingannati sulla nuova fase politica aperta dal crollo dell'Unione Sovietica. Gli occidentali (e soprattutto i governi americani con tutto l'establishment industriale, finanziario, la bu­ rocrazia armata del Pentagono ecc., da distinguere dal popolo americano diviso da una latente guerra civile in corso) erano convinti di aver trionfato, mentre avevano perso, anche se in modo diverso dai sovietici. Questo è un punto molto importante che spiega tutte le scelte catastrofiche che hanno compiuto in trent'anni, com­ presa quella dell'allargamento della Nato verso la Rus­ sia, all'origine della guerra in Ucraina, che non sarà certo l'ultima. Scriveva in questi giorni Alberto Negri: «Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell'Unione Sovietica nel 1997: "L'allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della Guerra fredda [... ] questa decisione spingerà la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo"». Per capire perché gli americani continuano a fare scelte catastro­ fiche, portandoci dritti al disastro, dobbiamo tornare al XX secolo, perché esso non è stato né «breve» (Hob­ sbawm) né «lungo» (Arrighi), ma è stato il secolo delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, le più importanti delle quali, quelle che hanno configurato la nostra at­ tualità, sono avvenute nel Sud del mondo. Per gli occidentali, l'economia di mercato e la de­ mocrazia avevano vinto la battaglia di «civiltà» del XX secolo. Non restava che capitalizzare la vittoria impo­ nendo il «neoliberalismo» e i diritti umani in tutto il mondo. In realtà, il XX secolo è stato il secolo della «ri-

volta contro l'Occidente», il secolo delle guerre contro il suo imperialismo, il secolo delle guerre civili mondiali (e non solo europee) che sono continuate dopo la Se­ conda guerra mondiale. Ed è da qui che bisogna parti­ re per capire qualcosa della situazione contemporanea. Gli occidentali, concentrati sullo scontro Est/Ovest, non hanno compreso che le guerre anticoloniali, in meno di un secolo, stavano rovesciando gli equilibri di potere tra Nord e Sud. I «popoli oppressi» avevano attaccato la divisione economica e politica tra centro e periferia che dal 1492 governava il funzionamento del capitalismo. Il potere europeo si basava sulla separa­ zione del proletariato mondiale, tra i lavoratori che for­ nivano lavoro astratto al Nord e i proletari, i contadini, le donne, gli schiavizzati, i servi ecc. che garantivano un lavoro svalorizzato, gratuito o malpagato al Sud, e un lavoro domestico gratuito sia al Nord che al Sud. Il grande merito della Rivoluzione bolscevica è stato di aprire la strada alla rivoluzione dei «popoli oppres­ si», che cambierà radicalmente i rapporti di forza sul «mercato mondiale». E tuttavia gli Stati Uniti avevano condotto un'aspra guerra politica ed economica con­ tro il Sud (all'epoca «Terzo mondo») dopo la Seconda guerra mondiale. Sono effettivamente riusciti a scon­ figgere la rivoluzione mondiale, ma questa ha sedi­ mentato dei cambiamenti così radicali nell'organiz­ zazione del mercato mondiale e nelle società liberate dall'imperialismo, che le rivoluzioni anticoloniali, pur avendo abbandonato il progetto comunista o socialista, sono all'origine della distribuzione contemporanea del potere politico e dello spostamento dei centri del capi­ talismo dal Nord al Sud e all'Est del mondo. La grande novità non è da ricercare nella rivoluzione digitale, nel capitalismo cognitivo, nella biopolitica, nel­ la bioeconomia ecc. (tutti questi concetti riflettono un ristretto punto di vista eurocentrico), ma in questo cam18

biamento dei rapporti tra forze economiche e politiche su scala mondiale. La riconfigurazione del capitalismo non ha avuto luogo principalmente al Nord ma nel Sud del mondo, come ora appare sempre più evidente. Per Giovanni Arrighi, il cuore dell'antagonismo del­ la seconda metà del Novecento «non è altro che la lotta di potere durante la quale il governo americano cercò di contenere, con l'uso della forza, il doppio fronte della sfida che rappresentavano il comunismo e il naziona­ lismo nel Terzo mondo». Arrighi dimostra che la con­ trorivoluzione monetaria, iniziata con la dichiarazione dell'inconvertibilità del dollaro (r97r), costituisce una risposta diretta alla più importante guerra anticolo­ niale dopo la Seconda guerra mondiale, quella che ha dato l'indicazione della mobilitazione generale contro l'imperialismo a tutti i paesi del Sud. «Dobbiamo fare come Dien Bien Phu», proclamava Fanon dall'Algeria ancora sotto l'occupazione francese. Mentre i marxi­ sti europei collegavano la riorganizzazione capitalista esclusivamente alle lotte tra capitale e lavoro e alla con­ correnza tra i capitalisti, Arrighi afferma che le politi­ che americane a cavallo degli anni Sessanta e Settanta miravano «a strappare ai vincoli monetari la lotta per il dominio che gli Usa conducevano nel Terzo mondo». I costi (esterni e interni) della guerra guidata dagli ame­ ricani contro i Vietcong «non solo hanno contribuito alla riduzione dei profitti, ma sono stati la causa fonda­ mentale del crollo del sistema dei cambi fissi stabilito a Bretton Woods, e la conseguente forte svalutazione del dollaro Usa». La colonia è «moderna» quanto la fabbrica di Man­ chester fa parte della catena del valore come Detroit o Torino e si rivelerà il luogo più favorevole alla soggetti­ vazione rivoluzionaria, mettendo così in crisi il centro a partire dalle periferie. «Come per la liquidazione del­ la parità oro/dollaro, furono le guerre e le rivoluzioni

nel Sud, e non la concorrenza tra i capitalisti delle tre grandi economie mondiali, a essere il motore princi­ pale della controrivoluzione monetarista del 1979-82». Lo stimolo più forte per liberare la moneta dai vincoli economici (l'oro) non viene dalla «crisi di profittabili­ tà», ma dalla crisi di «egemonia statunitense nel Terzo mondo». Le differenze tra Nord e Sud alla fine dell'Ot­ tocento e alla fine del Novecento «sono più importanti di quelle dei rapporti tra lavoro e capitale». Anche nella prima metà del secolo, le cose essenzia­ li sono accadute all'Est e al Sud, perché l'organizzazio­ ne delle rivoluzioni, che si affermeranno dopo la Se­ conda guerra mondiale, si definisce e si consolida dopo i massacri della Grande guerra. Al cuore di queste lotte che hanno rovesciato alcuni secoli di dominio colonia­ le, i comunisti hanno avuto un ruolo fondamentale, perché sono riusciti a trasformare la «piccola guerra» di Clausewitz in guerre rivoluzionaria, in «guerra partigiana». Invenzione strategica, di un'importanza paragonabile all'oblio di cui è stata oggetto da parte di coloro che vorrebbero cambiare il mondo, ha fatto defi­ nitivamente cadere gli imperi europei e coloniali e ha determinato uno sconvolgimento dell'ordine mondia­ le, che spiega anche quello che stiamo vivendo. Il grande conservatore Carl Schmitt (a suo tempo nazista e sempre anticomunista) ha il merito di ricono­ scere l'enorme energia e potenza politiche sviluppate dalle rivoluzioni anticoloniali, mentre il suo ammi­ ratore, Mario Tronti, che l'ha introdotto nella sinistra italiana, esprime indifferenza per queste rivoluzioni «contadine». «L'irregolarità della lotta di classe orga­ nizzata dalla lotta partigiana, articolata alle forme più classiche del combattimento condotto dalla Armata Rossa o dall'esercito del popolo mette in discussione non soltanto una linea ma l'intera costruzione dell'or­ dinamento politico e sociale.[...] L'alleanza della filoso20

fia col partigiano, compiuta da Lenin, [...] ha provocato nientemeno che il crollo del vecchio mondo eurocen­ trico, che Napoleone aveva sperato di salvare e il Con­ gresso di Vienna di restaurare». Clausewitz, «ufficiale di professione di un esercito regolare, non avrebbe po­ tuto sviluppare fino in fondo la logica insita nel parti­ giano come invece [era] in grado di fare Lenin[...] la cui esistenza era sempre stata quella del rivoluzionario di professione. Ma il partigiano del bolscevismo russo è poca cosa -voglio dire nella sua realtà concreta -para­ gonato al partigiano cinese. Mao stesso ha creato il suo esercito di partigiani e la sua élite di partigiani». In una conversazione del 1969 con un maoista (Joachim Schickel), Carl Schmitt afferma che la di­ mensione globale della lotta è stata introdotta dalla guerra dei partigiani: «il problema del partigiano non è soltanto un problema internazionale, ma anche globale». E aggiunge che, nel 1949, dopo la proclama­ zione della Repubblica popolare cinese «si pensava di poter avere finalmente la pace mondiale, e meno di un anno dopo è cominciata la guerra di Corea», senza di­ menticare Dien Bien Phu, l'Algeria, Cuba ecc. È una si­ tuazione che definirà, nel 1961, contemporaneamente ad Hannah Arendt, «guerra civile mondiale». Raymond Aron ha espresso lo stesso pregiudizio eurocentrico degli operaisti, quando scriveva a Schmitt «che il problema del partigiano era il problema dei po­ poli poveri» e senza industria, gravati dai ritardi tecno­ logici e organizzativi, potremmo aggiungere noi. Evocare la «guerra partigiana» non è una semplice commemorazione storica, perché essa continua, ani­ mata da altri «popoli poveri» e da altre forze politiche, riuscendo a sconfiggere gli imperialisti anche dopo la sconfitta del socialismo.

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Nuova distribuzione del potere sul mercato mondiale All'uscita dalla Guerra fredda, questa potenza rivoluzio­ naria, trasformata in potenza produttiva neocapitalista, contenuta e diretta da uno Stato sovrano, il cui miglior esempio è la Cina, si impone rapidamente. Alla fine del­ la rivoluzione culturale i «marxisti» riformisti conver­ tono l'energia della macchina rivoluzionaria in lavoro, scienza e tecnologia. Ma anche se nella forma di un ca­ pitalismo di Stato («socialismo di mercato» in cinese), si impone un rovesciamento geopolitico tra il Nord e il Sud che si manifesta anche attraverso la sconfitta di ogni guerra neocoloniale condotta dagli Usa (Iraq, Libia, Af­ ghanistan) e, ancora, attraverso gli inarrestabili flussi migratori verso il Nord di cui sono attori le soggettività figlie delle lotte di liberazione dal colonialismo. Le rivoluzioni (violente o pacifiche, come in India) hanno creato un mondo multipolare dove le ex colo­ nie e semi-colonie giocano un ruolo centrale, che gli Usa non possono né vogliono accettare. Gli Stati Uniti continuano a sognare di essere un Impero anche se non hanno la forza economica e politica, né esterna né interna (malgrado l'esercito più forte del mondo), per imporre la loro volontà unilateralmente. Alla fine della Guerra fredda non abbiamo più lo scontro tra so­ cialismo e capitalismo (la rivoluzione mondiale è stata sconfitta ben prima del 1989), ma differenti capitali­ smi e forme di sovranità che si battono tra di loro per l'egemonia economica e politica sul mercato mondiale. Gli Usa si raccontano un'altra storia, che non corri­ sponde ai reali rapporti di forza tra potenze economi­ co-politiche contemporanee. Il capitalismo e lo Stato, nemici giurati delle rivoluzioni del XX secolo, sem­ brano aver vinto, ma il capitalismo e lo Stato non sono uguali dappertutto e, soprattutto, non tutti sono sotto22

messi al controllo degli americani. Al contrario, esatta­ mente come poco più di un secolo fa, la vittoria del ca­ pitalismo sul comunismo, scatena una concorrenza (la «vera», non quella del neoliberalismo) sempre pronta a tracimare nella guerra. A differenza di quella del 1914, questa potrebbe essere nucleare e alimentare una defi­ nitiva catastrofe ecologica. Gli errori e le responsabilità degli Usa sono grandi, come grande è la vigliaccheria e la servilità degli euro­ pei manifestate dopo la caduta del muro di Berlino. Primo «errore»: una volta sparita l'Urss, non ci sa­ rebbe che una sola potenza, gli Usa, segno delle fine della storia (in realtà, segno della fine dell'egemonia americana). Curiosamente il libro Impero è caduto nel­ la stessa ingenuità dei suoi nemici, poiché le trasfor­ mazioni compiute dalle rivoluzioni avevano consolida­ to una molteplicità di forze impossibili da sottomettere all'unilateralismo della politica americana. Sveglian­ dosi dal sonno trasognato durato anni, gli Usa dichia­ rano la Cina nemico principale assieme a tutti gli Stati (Russia, Iran ecc.) che non fanno opera di sottomissio­ ne a questo Impero in bancarotta. Secondo «errore»: associata a questa illusione di Im­ pero, ce n'è una seconda che deriva direttamente dalla prima. Una volta sconfitto il comunismo, soltanto i ter­ roristi resistono all'egemonia americana. Il terrorismo islamista è innalzato al rango di nemico principale contro il quale scatenare una guerra infinita. In realtà il terrorismo non era che un epifenomeno, alimentato anche dagli Usa e dagli occidentali, della crescita della potenza delle ex colonie, altrimenti consistenti, solide e minacciose. Terzo «errore»: il Pentagono e l'esercito americano non soltanto non hanno capito granché della congiun­ tura politica, ma non hanno neanche fatto tesoro delle «guerre partigiane» che avevano tuttavia combattuto 23

(e perso), poiché hanno continuato a essere sistemati­ camente sconfitti da tutti i «popoli poveri» che han­ no cercato di sottomettere alla loro volontà. Anche se la guerra partigiana del post-socialismo non aveva la grandezza del progetto e dell'organizzazione di quella condotta dai comunisti, era sufficiente per mandare a casa («yankee go home») il più potente imprenditore militare-tecnico-politico del pianeta. Quelli che con un eufemismo ho chiamato «errori» (in realtà una strategia suicida per gli Usa e omicida per il resto del mondo) hanno prodotto, vale la pena ripeterlo, diciassette guerre dal 1989, milioni di morti, la distruzione di città e paesi, consumato e sperperato immense fortune e risorse naturali, minato uno Stato di diritto già sufficientemente discreditato di suo.

L'economia, arma di distruzione di massa L'imperialismo americano è dotato di un'altra arma di distruzione di massa che sarà utilizzata sistemati­ camente contro tutti i popoli del pianeta: l'economia. Arma a doppio taglio, perché è all'origine di un caos «economico» che, aggiungendosi e moltiplicando il disordine della lotta tra Stati, fa sprofondare il capitali­ smo nella guerra e nel fascismo. Noi paghiamo da più di cinquant'anni i tentativi, destinati all'insuccesso, di bloccare il declino della po­ tenza americana. Dopo il 1945 gli Usa rappresentava­ no il 50% della produzione mondiale. A partire dalla fine degli anni Sessanta questa percentuale non cessa di diminuire, rosicchiata prima dalla Germania e dal Giappone e, trent'anni dopo, dalle potenze economi­ che nate dalle rivoluzioni (Cina, India ecc.). L'economia vittoriosa del comunismo non ha niente a che vedere con la narrazione sovraccarica di ideologia

che economisti, media ed esperti di regime chiamano neoliberalismo (mercato, domanda, offerta, autore­ golazione, imprenditore di sé ecc.). La Prima guerra mondiale ha prodotto un'integrazione dello Stato, dei monopoli, della guerra, della società, del lavoro, della scienza e della tecnica che nessuna governance (né quella di Foucault, né quella dei liberali) potrà mai far ritornare al «mercato» della libera competizione. Quello che erroneamente è stato chiamato neolibe­ ralismo non produrrà la concorrenza, ma il rafforza­ mento dei monopoli (il solo monopolio che sarà sman­ tellato sarà quello dei sindacati, mentre i monopoli statali saranno privatizzati); non produrrà l'autorego­ lazione, ma lo sviluppo selvaggio di tutti gli squilibri; non produrrà la democrazia, ma uno Stato «forte», autoritario, compatibile con nuove forme di fascismo; non produrrà una nuova produzione «biocognitiva», ma l'egemonia di una finanza che funziona attraver­ so la spoliazione, il furto, la rendita, l'estorsione. Un imprenditore della Silicon Valley, Peter Thiel, spiega la natura del mantra di questa economia predatrice, la libera concorrenza: «in fondo il capitalismo e la con­ correnza sono antagonisti. Il capitalismo è fondato sull'accumulazione di capitale ma, in una situazione di concorrenza perfetta, tutti i profitti sono annullati. La lezione per un imprenditore è chiara, la concorren­ za è una cosa per perdenti». La stessa cosa possiamo dire dell'equilibro - altro grande significante dell'ideologia neoclassica e neoli­ berale. Il raggiungimento dell'equilibrio implichereb­ be la morte del capitale, da cui si evince la sua continua e necessaria produzione di «differenze» (di ricchezza e di miseria, delle diseguaglianze di reddito, patrimo­ nio, di accesso ai servizi - salute, formazione, abitazio­ ne ecc.). La dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro fa della moneta un'arma micidiale che la politica

del debito, a partire dal 1979, trasforma nel più grande programma di esproprio della ricchezza, di distruzio­ ne della natura e di imposizione di privatizzazioni del­ la storia del capitalismo. Questa strategia (finanziarizzazione, mondializza­ zione, neocolonialismo, concentrazione monopolisti­ ca) ha prodotto la forma contemporanea delle guerre di conquista coloniale, iniziata con il saccheggio dell'Afri­ ca negli anni Ottanta, continuata con l'America Latina, passando per i paesi del Sud-Est asiatico, per arrivare, alla fine del secolo, in Europa Qa Grecia come esempio per tutti del vero programma capitalistico che non ha niente di liberale ma molto di rendita, «prima i credito­ ri»). L'economia trionfante ha creato le condizioni della sua impossibilità: enormi profitti e debiti colossali, ric­ chezze inaudite concentrate nelle mani di pochi indi­ vidui e miseria per milioni di persone. Gli Stati Uniti detengono la più alta concentrazione dei profitti, frutto del saccheggio finanziario, e il più alto indebitamento del pianeta, frutto della «Americain way of life», il più grande spreco della storia dell'umanità. Il capitalismo non riuscirà a ridurre lo squilibrio creato tra profitti e debiti se non attraverso la guerra e il fascismo. Di que­ sto «assioma» della tradizione rivoluzionaria non resta più alcuna traccia. L'estorsione operata dal capitalismo finanziario per contrastare il declino degli Usa funziona anche sul proletariato dei paesi del centro, provocando forme di guerra civile a bassa intensità. La guerra civile stri­ sciante che li divide non è stata creata da Trump, che si è limitato a nominarla e a consolidarla. Le fondamenta della più grande potenza mondiale poggiano sulla sab­ bia. Si tratta di un altro segno evidente del suo declino, della corruzione delle sue istituzioni, del fallimento di un sistema politico basato, sin dal suo inizio, sulla divi­ sione razziale della società.

L'economia libera ha rapidamente svelato dove anda­ va a parare: il sedicente «neoliberalismo» sarebbe stato pensato per evitare gli inconvenienti del liberalismo classico, cioè la guerra tra potenze imperiali, le guer­ re civili, il fascismo, il nazismo che il laissezfaire aveva prodotto tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del XX secolo. In realtà, in modo allo stesso tempo identico e differente, ci troviamo oggi nella stessa impasse cata­ strofica: crisi economica e politica permanente, Stato «forte», nuove forme di fascismo, sessismo, naziona­ lismo, guerre e guerre civili che non hanno assunto i colori del genocidio della crisi del primo liberismo solo perché non c'è niente di paragonabile alla Rivoluzione sovietica, niente di paragonabile alle insurrezioni ope­ raie nel Nord, niente di paragonabile alle guerre di lun­ ga durata condotte dai comunisti nel Sud. Se l'economia non sta molto bene, la democrazia è, da anni, convalescente. La centralizzazione del potere politico nell'esecutivo, la messa fuori gioco del parla­ mento, lo stato di emergenza permanente, sono l'altra faccia della centralizzazione dell'economia. Le due concentrazioni del potere (economico e politico) sono convergenti, e l'una rafforza l'altra. Separare l'econo­ mia e la politica, separare cioè la politica dello Stato dalle lotte delle classi può produrre solo confusione, ambiguità, connivenza con forze politiche più che sospette, ciò di cui Giorgio Agamben ha fatto sfoggio durante la pandemia. La guerra in Ucraina segna un passo ulteriore verso il divenire fascista del mondo e soprattutto dell'Europa che, di fronte al «nemico», ha ritrovato l'odio e il raz­ zismo, le politiche identitarie di cui è stata la culla a partire dal XIX secolo. La guerra ha liberato le pulsio­ ni aggressive rimosse dopo l'esperienza nazista e fa. scista: la Germania ha deciso di accelerare il riarmo e

il Giappone apre all'installazione dei missili nucleari Usa sul suo territorio. Il «fascismo» è un'opzione sempre presente per l'e­ conomia di mercato. Uno dei fondatori del neolibera­ lismo riassume, in un titolo di un articolo del 1929, la realtà che sta prendendo forma sotto i nostri occhi: La dittatura nei limiti della democrazia. Di fronte all'im­ possibilità di trovare una via di uscita dal vicolo cieco in cui si sono infilate, economia e politica si affidano ai rimedi di un secolo fa. Perché Putin ha invaso l'Ucraina È in questo quadro multipolare devastato dalle guerre economiche, che gli Stati Uniti non vogliono ricono­ scere, che è scoppiata la guerra. Non possono accettare un nuovo ordine mondiale richiesto da Cina, India e persino dalla Russia, perché non sarebbero in grado di competere con loro e in ogni caso il loro capitalismo sfrenato non consente compromessi e regolazioni. Al contrario, gli americani, spinti da enormi profitti e debiti illimitati, lo stanno ostacolando in tutti i modi possibili, sviluppando il caos come strategia politica. Gli americani hanno tutto da guadagnare nel mante­ nere la guerra e il disordine perché solo il caos, la su­ periorità militare, può garantire loro un primato che la propria economia non è più in grado di assicurare. Lo scontro che si stava preparando da anni tra l'Al­ leanza atlantica e la Russia è un caso da manuale di questa strategia. Lascio agli ambasciatori e ai militari il compito di delineare il crescendo del conflitto nei trent'anni successivi al crollo dell'Urss. Un ambascia­ tore italiano che ha letto i documenti diplomatici clas­ sificati, fino a poco tempo fa, come «segreti», risalenti al tempo del crollo dell'Urss, scrive: «Da documenti

americani, tedeschi, inglesi e francesi declassificati, è chiaro che i dirigenti del Cremlino avevano ricevu­ to una serie di assicurazioni dall'Occidente (François Mitterrand, Giulio Andreotti, Margaret Thatcher e lo stesso Helmut Kohl): la Nato non si sarebbe mossa di un centimetro verso Est, "not one inch estward", per usare la formula di James Baker, segretario di Stato americano dell'epoca. Baker disse che non aveva al­ cuna intenzione di mettere in pericolo gli interessi sovietici e non una, ma ben tre volte confermò che l'Alleanza atlantica non si sarebbe mossa [...]. Questo è ciò che fu ribadito a Gorbaciov e a Shevardnadze, e quando il ministro della difesa russo, il maresciallo Jazon, chiese al successore della Thatcher, John Major, se pensasse che alcuni paesi europei sarebbero potuti entrare nella Nato, gli fu risposto che nulla del genere sarebbe potuto accadere». Nel 2003, la decisione catastrofica della Secon­ da guerra del Golfo con le sue migliaia di morti per vendicarsi del «nemico principale» degli Usa, portò a una seconda decisione altrettanto problematica. Nes­ suno dei paesi del Nord volle impegnarsi in questa folle avventura in Iraq, di conseguenza solo alcuni paesi dell'ex Patto di Varsavia inviarono truppe. Gli Stati Uniti, come ricompensa per la loro partecipazio­ ne all'operazione, li fecero immediatamente entrare nell'ovile della Nato. Nel 2007, Putin chiese la costituzione di un nuovo ordine mondiale. Indubbiamente questo significava per lui la possibilità di condurre liberamente la sua politica interna (schiacciamento delle minoranze vedi la distruzione della Cecenia -, smantellamento dell'opposizione, controllo dei media, condivisione del potere e della ricchezza tra oligarchie, eliminazione fi. sica degli oppositori ecc.), ma anche un riconoscimen­ to dei nuovi rapporti di forza da parte degli Stati Uniti.

I russi si allarmarono veramente solo quando nel 2008 la Nato cercò di far entrare la Georgia e l'Ucrai­ na nell'Alleanza atlantica. Il 2008 fu anche l'anno di un'altra catastrofe, sempre originatasi negli Stati Uni­ ti, la più importante crisi finanziaria dal 1929, semi­ nando il panico in tutto il mondo e determinando l'in­ tensificazione delle tensioni tra potenze. L'economia che aveva trionfato sul comunismo aggiungeva caos a caos, disordine a disordine. Nel 2014 la Nato e l'Europa hanno favorito e ricono­ sciuto il colpo di Stato in Ucraina con il solo fine di pro­ seguire l'espansione verso est, militarizzando la zona (da allora armano l'Ucraina). Gli Stati Uniti sono gli specialisti insuperabili dei colpi di Stato «democrati­ ci». Tra il 1947 e il 1989 ne hanno organizzati, diretta­ mente o indirettamente, settanta, i più importanti dei quali sono stati probabilmente quelli che hanno colpito l'America Latina. Adesso stanno sperimentando nuo­ ve tipologie, come il colpo di Stato contro il Partido dos Trabalhadores in Brasile, che ha aperto le porte a Bolsonaro. Quest'ultimo è stato organizzato principal­ mente, grande novità, dal Ministero della Giustizia. Nelle reti sociali italiane sta circolando una sintesi di una dichiarazione molto significativa rilasciata da un ufficiale italiano sulla strategia della Nato alla tele­ visione italiana (RaiNews). Leonardo Tricario, ex capo dello Stato Maggiore dell'Aeronautica e delle forze ar­ mate italiane durante la guerra del Kosovo, pur invo­ cando un processo a Putin per crimini di guerra, man­ tiene una lucidità che manca ai nostri media e politici: - il segretario generale della Nato «parla troppo» e senza consultare gli alleati; - la Nato rappresenta e si identifica con il punto di vista degli Stati Uniti; - la Nato non ascolta l'Italia, più interessata al versan-

te sud del mediterraneo, ed è presa da isteria anti­ russa e ossessionata dall'allargamento a Est; - gli Stati Uniti hanno scelto di assecondare in tutto gli alleati Nato dei paesi baltici, fortemente antirussi; - La Nato ha promesso all'Ucraina di entrare nella Nato con la prospettiva di una protezione che non poteva garantire; - «è stata gettata benzina sul fuoco e questi sono i risultati». Putin ha reagito seguendo la logica «folle» (ma non è il solo «pazzo» in questa storia) che governa le relazioni strategiche tra le potenze. La morte dei civili rappresen­ ta l'ultima delle sue preoccupazioni e il rischio di una escalation incontrollata è ben presente. Sleepy J oe tra un sonnellino e l'altro parla di «Terza guerra mondia­ le», Putin mette in allerta i militari responsabili delle armi nucleari e i rappresentanti della Nato parlano della possibilità di uno scontro con armi non conven­ zionali, come se niente fosse. Ci vorrebbe un Kubrick per convertire in immagini questo delirio. Con un'an­ goscia in più, perché gli attori contemporanei di questo dramma sono sicuramente più pericolosi! Non si può che essere con gli innocenti che muo­ iono in Ucraina sotto i bombardamenti, presi tra due cinismi che giocano grosso e sporco per determinare il funzionamento futuro del mercato mondiale (India e Cina si sono astenute nel voto alle Nazioni Unite contro la Russia perché sanno qual è la posta in gioco). I russi non vogliono cedere alla volontà egemonica americana che si manifesta con l'installazione di missili nucleari in Romania, Polonia e (a venire) in Ucraina, mentre la strategia statunitense del caos è abbastanza «raziona­ le»: isolare la Russia (per poi isolare la Cina) e rompere così l'alleanza in gestazione tra le due potenze ex co­ muniste, raggruppare gli europei dietro gli Usa che, attraverso la Nato, continuano a dettare la loro «politica

estera e politica economica», e risollevarsi dopo l'enne­ simo crollo in Afghanistan. Questo raggruppamento compatto dietro il padrone americano potrebbe anche essere utile per ostacolare la «via della seta» cinese. Contrariamente a quanto ci è raccontato, lo scontro tra Usa e Russia, che è lo sfondo di questa guerra, non è tra democrazia e autocrazia, ma tra oligarchie econo­ miche simili per molte cose, la prima delle quali risie­ de nel fatto di essere «oligarchie della rendita». «È più realistico considerare la politica economica ed estera degli Stati Uniti in termini di complesso militare-in­ dustriale, di complesso petrolifero, minerario e del gas e del complesso bancario, finanziario e immobiliare, che in termini di politica di repubblicani e democra­ tici. I principali senatori ed eletti del Congresso non rappresentato tanto lo Stato e i distretti quanto piutto­ sto gli interessi economici e finanziari dei principali contributori al finanziamento delle loro campagne politiche» (Michael Hudson). Due di questi tre mono­ poli fondati sulla rendita, quello militare-industriale e quello del petrolio e del gas, hanno largamente contri­ buito alla strategia che ha portato alla guerra. Il primo è il fornitore principale della Nato, men­ tre il secondo vorrebbe prendere il posto della Russia come erogatore di gas all'Europa ed eventualmente ap­ propriarsi di Gazprom.

Lenin, guerra e rivoluzione Inutile avanzare delle proposte per una risoluzione del conflitto (evitare che l'Ucraina sia la preda dell'Est o dell'Ovest, dargli uno statuto simile a quello della Fin­ landia ecc.). Non servirebbe a nulla e, anche potendo, entrare in questo gioco strategico tra Stati e monopoli non ci interessa, perché il nostro problema è un altro: 32

trovare e definire una posizione in questo quadro «mo­ struoso» che si stava annunciando da anni e che non abbiamo avuto il coraggio di guardare dritto negli oc­ chi. La guerra in Ucraina rischia di fare della guerra e delle guerre di classe, razza e sesso, il nostro quotidia­ no dei prossimi anni La presa di posizione più chiara di fronte alla guerra è ancora quella dei socialisti rivoluzionari citata all'i­ nizio del testo durante la Prima guerra mondiale. La situazione assomiglia, per molti versi, a quella affron­ tata dai bolscevichi nel 1914: guerra economica per la suddivisione del potere e delle ricchezze del mondo (Lenin diceva spartizione del numero di schiavi), Stati governati da «criminali» disposti a tutto (oggi Biden e Putin), e una debole opposizione disorganizzata dal tradimento dei partiti socialdemocratici (oggi l'opposi­ zione è proprio inesistente). I partiti socialisti, votando i crediti di guerra, si erano schierati con i differenti Sta­ ti, determinando così l'impossibilità della rivoluzione in Occidente e l'inizio dell'integrazione del movimento operaio nella macchina a doppio comando: Stato-capi­ tale. Dunque, la prima cosa da evitare è di riprodurre il comportamento dei socialisti dell'epoca, prendendo partito per una delle potenze in lizza, integrandosi alla logica di uno degli Stati in guerra e fare propri degli in­ teressi che sono esclusivamente quelli dei nostri nemi­ ci, perché tanto Biden quanto Putin sono dei «nemici del proletariato». Lenin, dall'inizio della Grande guerra, aveva lan­ ciato il suo programma che risulterà vincente solo alla fine: trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, invitando i soldati a non mirare altri proletari che stavano dall'altra parte del fronte, ma a puntare i fucili contro i propri ufficiali, i propri capita­ listi e il loro Stato. La situazione è profondamente cambiata, però la pre33

sa di posizione dei rivoluzionari della prima metà del XX secolo conserva delle verità che vanno riattualizza­ te: inventare un nuovo punto di vista internazionalista che possa circolare tra il proletariato di «tutto il mon­ do», anche se non si ha la possibilità di puntare i fucili contro la macchina da guerra in azione. Non c'è altra alternativa per rovesciare le potenze economico-poli­ tiche, cacciare quelli che ci comandano e costruire or­ ganizzazioni politiche autonome. Ciò che deve stupire non è l'apparente irrealtà di queste parole d'ordine, ma il fatto che il pensiero critico da cinquant'anni a questa parte abbia accuratamente evitato di confrontarsi con la «guerra» e la «rivoluzione». È tale stupore che nel 2016 ci aveva spinto (Eric Alliez e io) a pubblicare Guerres et Capitai, ed è sempre lo stesso sconcerto per l'irrespon­ sabilità del pensiero contemporaneo che è all'origine del mio ultimo libro sulla rivoluzione (L'intollerabile pre­ sente, l'urgenza della rivoluzione). Guerre e rivoluzioni, nonostante il diniego di cui sono oggetto da parte del pensiero critico, continuano a determinare l'inizio e la fine delle grandi fasi politi­ che. La guerra fa parte integrante della macchina Sta­ to-capitale, allo stesso modo del lavoro, del razzismo e del sessismo. A partire dalla Prima guerra mondiale tutti questi elementi sono integrati in maniera indisso­ lubile e funzionano insieme come un tutto. E come un secolo fa non possono non produrre situazioni come quelle che stiamo vivendo. Il marxismo della prima metà del XX secolo, quel­ lo che ha organizzato e praticato la «guerra partigia­ na», ha ancora qualcosa da trasmetterci, anche se molti dei suoi concetti e delle sue parole d'ordine sono invecchiati e sono oggi impraticabili. Ma il suo pen­ siero strategico, capace di opporsi al capitalismo e alla guerra (quello che tutte le teorie che abbiamo cercato di sostituirgli sono incapaci di proporre), è stato com34

pletamente ignorato, anche se potrebbe costituire un orientamento del pensiero e dell'azione, se avessimo la capacità di riqualificarlo nella situazione attuale. Il poststrutturalismo, la biopolitica, lo spinozismo, il pensiero ecologico, le teorie femministe, la micropo­ litica, la microfisica del potere ecc., cioè tutto lo sforzo che, a partire dagli anni Sessanta, è stato prodotto per cercare di costruire un'alternativa alla lotta di classe marxista (senza trovarla!), se non si articola a un pen­ siero strategico della guerra e della rivoluzione, rischia l'impotenza, perché guerre e rivoluzioni sono ancora e sempre lo sbocco «naturale» dell'azione del capitali­ smo e dei suoi Stati. Senza l'invenzione di un pensiero strategico rivo­ luzionario all'altezza della macchina da guerra dello Stato e del capitale contemporanei, le alternative sono piuttosto deprimenti e minacciose: distruzione istan­ tanea attraverso una guerra nucleare (ma basta anche una guerra convenzionale - nel 2021 gli Stati hanno speso poco più di 2000 miliardi di dollari in arma­ menti, di cui la metà da parte degli Usa e dalla Ue, la Cina e la Russia sono ancora lontani dallo spendere tanto); distruzione dilazionata nel tempo attraverso il riscaldamento climatico; implosione delle classi in lot­ ta, come Marx aveva anticipato nel Manifesto del partito comunista. In assenza di un pensiero e di una pratica capaci, con realismo, di articolare - lo ripeto - guerra e rivo­ luzione, nelle nuove condizioni del capitalismo, degli Stati, dei movimenti politici contemporanei, quello scenario è ciò che ci attende.

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Guerra, capitalismo, ecologia, 2.

Sui limiti di comprensione della filosofia ecologista Di fronte alla guerra scoppiata in Ucraina, il filosofo ecologista Bruno Latour è smarrito, sopraffatto dagli eventi: «Non so come tenere insieme le due tragedie», l'Ucraina e la tragedia del riscaldamento globale. L'u­ nica cosa che afferma è che l'interesse per l'una non deve prevalere sull'interesse per l'altra. Non riesce a cogliere la loro relazione, eppure sono strettamente legate perché hanno la stessa origine. La­ tour, per capirci qualcosa, dovrebbe prima ammettere l'esistenza del capitalismo, che è il quadro nel quale le due guerre emergono e si sviluppano. La guerra tra Stati e le guerre di classe, di razza e di sesso hanno da sempre accompagnato lo sviluppo del capitale perché, dai tempi dell'accumulazione originaria, sono le condizioni della sua esistenza. La formazione delle classi (degli operai, dei colonizzati, delle donne) implica una violenza extra-economica che fonda il dominio e una violenza che lo conserva, sta­ bilizzando e riproducendo i rapporti tra i vincitori e i vinti. Non c'è capitale senza guerre di classe, di razza e di sesso, e senza Stato che abbia la forza e i mezzi per condurle! La guerra e le guerre non sono delle realtà esterne ma costitutive del rapporto di capitale, anche 1/

Il testo è stato pubblicato su «Machina» il 28 marzo 2022.

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se da molto tempo sembra che ce ne siamo dimentica­ ti. Nel capitalismo le guerre non scoppiano perché ci sono gli autocrati brutti e cattivi contro i democratici belli e buoni. La guerra e le guerre che si trovano all'inizio di ogni grande ciclo di accumulazione, si ritrovano alla sua fine. Nel capitalismo provocano catastrofi e dissemina­ no la morte in maniera incomparabile con altre epoche storiche. Ma esiste un momento nella storia del capita­ lismo, all'inizio del XX secolo, in cui la relazione tra la guerra, lo Stato e il capitale si annoda in tal modo che il suo potere di distruzione, che è una condizione del suo sviluppo (il suo motore, dice Schumpeter definendola «distruzione creativa»), da relativa diventa assoluta. Assoluta perché mette in gioco l'esistenza stessa dell'u­ manità e le condizioni di vita di molte altre specie. La Prima guerra mondiale e la distruzione assoluta I sostenitori dell'Antropocene dibattono sulla data del suo inizio: il Neolitico, la conquista dell'America, la rivoluzione industriale, la grande accelerazione del do­ poguerra ecc. Tutti evitano accuratamente di confron­ tarsi con la rottura che ha rappresentato la Prima guer­ ra mondiale, le cui conseguenze nefaste continuano ad agire nel nostro presente. Il grande cambiamento che strutturerà la macchina bicefala Stato-capitale è avve­ nuto prima della crisi finanziaria del 1929, durante la guerra del 1914. La Grande guerra è una novità assoluta perché è il risultato di un'integrazione dell'azione dello Stato, dell'economia dei monopoli, della società, del lavoro, della scienza e della tecnica. Tutti questi elementi coo­ perano alla fabbricazione di una mega-macchina la cui

produzione è finalizzata alla guerra. Ciascuno di essi ne uscirà profondamente trasformato: lo Stato accen­ tua il potere esecutivo a discapito del potere legislativo e giudiziario per gestire !'«emergenza», l'economia su­ bisce la stessa concentrazione del potere politico con­ solidando i monopoli, la società nel suo insieme e non solo il mondo del lavoro viene mobilitata per la produ­ zione, l'innovazione scientifica e tecnica passa sotto il controllo diretto dello Stato e subisce un'accelerazione fulminea. Ernst Jtinger, «eroe» della Prima guerra mondiale, la descrive come «gigantesco processo di lavoro» piut­ tosto che come un'«azione armata». La guerra è l'oc­ casione per coinvolgere tutta la società nell'organizza­ zione dell'espansione della produzione che concerneva fino allora solo un piccolo numero di imprese. «I paesi furono trasformati in gigantesche fabbriche capaci di produrre, alla catena di montaggio, eserciti per poter­ li mandare al fronte ventiquattrore al giorno, dove un sanguinoso processo di consumo, sempre completa­ mente meccanizzato, giocava il ruolo di un mercato». Il coinvolgimento di tutte le funzioni sociali nella produzione (ciò che i marxisti chiamano la sussunzio­ ne della società nel capitale) nasce in questo frangente ed è segnata, e lo sarà per sempre, dalla guerra. Ogni forma di attività, «fosse anche quella di un operaio domestico che lavora alla sua macchina da cucire», è destinata all'economia di guerra e partecipa della mo­ bilitazione totale. «Accanto agli eserciti che si scontra­ no sui campi di battaglia, nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell'industria militare: in generale l'esercito del lavoro», al quale aggiungere l'esercito della scienza e della tecnica. La logistica fa passi da gigante e si dimostrerà molto più efficace delle reti commerciali del capitale. È in questo senso che la guerra è «totale». Esige la 39

mobilitazione dell'economia, della politica e del socia­ le, cioè una «produzione totale». Tra guerra, monopo­ li e Stato si crea un legame che non potrà più essere sciolto da nessun «liberalismo», nemmeno il neolibe­ ralismo potrà far tornare il mercato della domanda e dell'offerta e della libera concorrenza. La nascita di quello che Marx chiamava il «generai intellect» (la produzione non dipende solo dal lavoro diretto dei lavoratori ma dall'attività e dalla cooperazio­ ne della società nel suo insieme, dalla comunicazione, dalla scienza e dalla tecnologia ecc.) si realizza sotto il segno della guerra. Nel «generai intellect» marxia­ no non c'è la guerra, mentre nella sua attuazione re­ ale è lei che completa e integra il tutto. Il capitalismo riorganizzato dalla guerra totale è diverso da quello descritto da Marx. Hahlweg, studioso tedesco che ha pubblicato l'opera completa di Clausewitz, riassume perfettamente questo mutamento del capitalismo: in Lenin le guerre hanno preso il posto delle crisi econo­ miche in Marx. Keynes a sua volta affermava che il suo programma economico poteva essere realizzato solo in un'economia di guerra, perché solo in questo caso tutte le forze produttive sono spinte all'estremo delle loro possibilità. Questa temibile «macchina», in cui guerra e produ­ zione si confondono, provoca un salto nello sviluppo dell'organizzazione del lavoro, della scienza e della tecnica; il coordinamento e la sinergia delle varie for­ ze produttive e delle funzioni sociali si traducono in un aumento della produzione e della produttività. Ma produzione e produttività sono per la distruzione. Per la prima volta nella storia del capitalismo la produzione è «sociale» e, al tempo stesso, completamente finalizza­ ta alla distruzione. Lo sviluppo delle forze produttive è indirizzato a un aumento della capacità di distruggere. Una corsa folle si scatenerà nella ricerca/innovazione

per aumentare il potere di distruzione: distruggere il nemico, il suo esercito ma anche la sua popolazione, le sue strutture e infrastrutture. Questo processo ha il suo compimento nella costru­ zione della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale. La scienza, massima espressione della cre­ atività e della produttività dell'essere sociale, espande radicalmente il potere di distruzione: la bomba atomi­ ca mette in gioco la sopravvivenza stessa dell'umanità. Gtinther Anders osserva a questo proposito: se fino alla Prima guerra mondiale gli uomini erano indivi­ dualmente mortali e l'umanità immortale, dalla co­ struzione della bomba atomica l'identità di produzione e distruzione, perfettamente incarnata dalla scienza, minaccia di estinguere l'umanità. Per la prima volta nella sua storia, la specie umana è in pericolo di estin­ zione, grazie all'azione di una parte degli uomini (i ca­ pitalisti e gli uomini di Stato, le classi possidenti ecc.) che la compongono. Questo salto nell'organizzazione politico-economi­ ca della macchina bicefala Stato-capitale è una risposta al pericolo del socialismo che incombeva sull'Europa e un'azione di prevenzione rispetto alle guerre di classe, di razza e di sesso che il socialismo conteneva nel suo seno (malgrado le organizzazioni che lo strutturavano) e che si sarebbero sviluppate durante tutto il XX secolo.

La grande accelerazione L'azione di questa nuova organizzazione della macchi­ na Stato-capitale non si fermerà con la conclusione dei combattimenti, perché la «mobilitazione totale» per la «produzione totale», la gestione dell'emergenza, la concentrazione del potere esecutivo ed economico, si trasformano in norme ordinarie della gestione capita-

lista. Gli ecologisti chiamano il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale la «grande accelerazione», all'interno della quale si ritroverà intatta l'identità di produzione/distruzione radicata nel quotidiano del la­ voro e del consumo del «boom economico». La macchina produttiva integrata non è stata sman­ tellata, ma investita nella ricostruzione. Diventerà poi evidente che la riparazione dei danni causati dalla guerra determinerà una nuova e ancora più formida­ bile distruzione: con la grande accelerazione abbiamo fatto un grande passo verso il punto di non ritorno nel­ la degradazione dell'equilibrio climatico e della biosfe­ ra. Il capitalismo del dopoguerra continua a sfruttare l'integrazione della mega-macchina generando tassi di crescita e produttività straordinari cui corrispondono tassi di distruzione delle condizioni di abitabilità del pianeta altrettanto straordinari. La specie umana è mi­ nacciata di estinzione una seconda volta. Non è più la «natura» che «minaccia» l'umanità, ma certe classi e il loro sistema economico e politico. L'identità di produzione e distruzione continua a dispiegarsi nel quadro di una «pace» le cui condizioni di possibilità sono sempre determinate dalla guerra, fredda al Nord e molto calda al Sud, dove si concentra la «guerra civile mondiale» annunciata contemporane­ amente da Hannah Arendt e da Carl Schmitt nel 1961. Soltanto un punto di vista eurocentrico può concepire i «trenta gloriosi» come un periodo di pace. La grande accelerazione è inconcepibile senza il consenso del movimento operaio, che rafforza la sua integrazione con il capitalismo e lo Stato iniziata con il voto dei crediti per la guerra del 1914. Nel Nord del mondo, il compromesso fordista del dopoguerra tra capitale e lavoro si basa su un non detto: l'identità di produzione e distruzione che la «mobilitazione totale» per la «produzione totale» ha ormai lasciato in eredità 42

al funzionamento del capitalismo. Il movimento ope­ raio si limiterà a chiedere salari e diritti dei lavoratori, lasciando il pieno potere alla macchina Stato-capitale di decidere il contenuto del lavoro e gli obiettivi della produzione. Il compromesso agisce come se l'identità di produzione e distruzione riguardasse solo il periodo della guerra, mentre interroga in modo radicale il con­ cetto di lavoro e di lavoratore. Gtinther Anders abbozza una prima revisione di questi concetti alla luce della nuova realtà del capitalismo. «Lo status morale del pro­ dotto (lo status del gas velenoso o quello della bomba all'idrogeno) non influisce sulla moralità del lavoratore che partecipa alla produzione». È politicamente incon­ cepibile «che il prodotto alla cui fabbricazione si lavo­ ra, anche il più ripugnante, possa contaminare l'opera stessa». Il lavoro, come il denaro di cui è la condizione, «non ha odore». «Nessuna opera può essere moral­ mente screditata dal suo obiettivo». I fini della produzione non devono riguardare in al­ cun modo l'operaio, perché - «questa è una delle carat­ teristiche più disastrose del nostro tempo» - il lavoro deve essere considerato «neutro rispetto alla moralità [... ]. Qualunque lavoro si faccia, il prodotto di questo lavoro rimane sempre al di là del bene e del male». I sindacati e il movimento operaio hanno fatto il «voto segreto» di «non vedere e non sapere quel che [il lavo­ ro] fa», di «non avere di mira né l'eidos né il telos ineren­ te al fare». Nelle condizioni del capitalismo contemporaneo la situazione si è ulteriormente radicalizzata, qualsiasi lavoro (e non solo quello che produce «gas velenoso o la bomba all'idrogeno») è distruttivo; qualsiasi consu­ mo (e non solo prendere l'aereo, sprecare l'acqua ecc.) è distruttivo. È ormai impossibile dire se il lavoro e il consumo producano l'essere o lo distruggano, perché 43

sono nello stesso tempo forze di produzione e forze di distruzione. Nel capitalismo gli individui sono «complici», loro malgrado, della distruzione, perché la producono la­ vorando e consumando, e vittime dello sfruttamento e del dominio, perché costretti a produrre e a consu­ mare. Non ci sono altre alternative che rompere questi legami di subordinazione che ci fanno oggettivamen­ te complici e sottrarsi da questi rapporti di lavoro e di consumo, vale a dire perseguire fino in fondo il rifiuto del lavoro coatto e del consumo obbligatorio.

Il sedicente «neoliberalismo» La strategia della macchina bicefala Stato-capitale as­ sume senza nessun complesso le parole d'ordine della «mobilitazione totale» per la «produzione totale» che il compromesso capitale/lavoro aveva praticato ma non riconosciuto. La matrice economico-politica è ancora quella disegnata dalla Prima guerra mondiale: l'in­ tensificazione della finanziarizzazione, l'ulteriore con­ centrazione del potere economico e politico e la nuova mondializzazione non fanno che accrescere la sua dimensione produttiva/distruttiva, esaltando le sue ca­ ratteristiche autoritarie, anti-democratiche. Il «neoliberalismo» non soltanto nasce dalle guer­ re civili in America Latina, ma si alimenta di tutte le guerre che gli americani e la Nato hanno dichiarato nel mondo, prima contro un nemico che avevano essi stessi contribuito a creare (il terrorismo islamico) e poi contro le potenze emerse dalle guerre di liberazione dal colonialismo (il vero obiettivo della guerra in corso è la Cina). La mondializzazione contemporanea è molto diffe­ rente da quella sviluppatasi a cavallo tra il Diciannove-

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simo e il XX secolo. Quest'ultima aveva come obiettivo la divisione coloniale del mondo, mentre l'attuale non può più contare su un Sud sottomesso all'Occidente. Al contrario, le ex colonie sono diventate delle poten­ ze economico-politiche che fanno vacillare un Nord sprovvisto di ogni idea capace di stabilire la sua egemo­ nia, se non con l'uso delle armi. Il Sud pone due nuovi problemi: le modalità dei neocapitalismi adottate dalle ex colonie non fanno che aumentare l'estensione della coppia gemella pro­ duzione/distruzione, dimostrando che l'azione della macchina Stato-capitale non può essere estesa al resto dell'umanità: il capitalismo mondializzato contempo­ raneo porta al punto di irreversibilità la devastazione che la grande accelerazione aveva a sua volta incremen­ tato nel dopoguerra. L'affermazione della loro potenza (paradossalmente originata dalla globalizzazione che doveva invece assicurare l'inizio di un «nuovo secolo americano») ha riacceso gli scontri tra imperialismi che gli Stati Uniti, da anni, programmano di trasfor­ mare in guerra aperta. Accecato da un delirio guerrie­ ro, il Nord del mondo non riesce a vedere che ormai costituisce una minoranza non soltanto da un punto di vista demografico (anche nel caso della guerra in Ucraina la maggioranza dei paesi del pianeta non si è allineata alle posizioni del Nord, perché sanno che sono già stati e sono tuttora nel mirino dell'arroganza dominatrice yankee). C'è un'altra similitudine col passato che colpisce in questi giorni: la violenza che l'Europa aveva esercitato sulle colonie era ritornata sul continente con le guer­ re totali e il fascismo. Il poeta Aimé Césaire amava affermare che ciò che era rimproverato a Hitler non erano i suoi metodi «coloniali» ma il fatto che fossero utilizzati contro i bianchi. Dopo trent'anni di guerre condotte dagli americani e dalla Nato per assicurarsi 45

il loro potere unilaterale, la violenza ritorna in Europa, imposta dagli Stati Uniti con il consenso delle inette classi dirigenti europee completamente succubi della volontà americana (suicidio di un'Europa morente da decenni accelerato dall'inclusione voluta da americani e inglesi di Stati dell'Est che non hanno niente da invi­ diare all'autocrazia russa). La guerra è ormai instaura­ ta per durare, poiché gli americani non diminuiranno la pressione armata fino a quando non riusciranno a costruire l'impossibile Impero, progetto che possiamo già ora definire suicida e omicida. La sventura dell'u­ manità per i prossimi anni è racchiusa in questa frase di Biden, guerrafondaio come tutti i presidenti demo­ cratici, ma forse il peggiore: «far sì che l'America, an­ cora una volta, guidi il mondo», vero programma del­ la sua presidenza. Non a caso quello sbandierato per riassorbire la guerra civile strisciante in corso è stato progressivamente abbandonato. Le parole di Keynes si adattano perfettamente sia alla tragedia della guerra che alla catastrofe ecologica: l'egemonia del capitale finanziario che aveva condotto alla Prima guerra mondiale, ai fascismi, alle guerre civili, a Hiroshima contiene una «regola autodistrutti­ va» che agisce su «tutti gli aspetti dell'esistenza», e che vale anche oggi. La violenza che i capitalisti e lo Stato possono scatenare contiene già la catastrofe ecologica perché pur di non perdere profitti, proprietà, potere sono «capaci di spegnere il sole e le stelle».

La guerra tra potenze e la guerra contro Gaia hanno la stessa origine Credere che la Russia sia la causa della possibile Terza guerra mondiale è come credere che l'attentato di Sa-

rajevo lo sia stato della Prima. Pigrizia intellettuale e politica. Un secolo fa Rosa Luxemburg aveva già colto l'im­ possibilità del compimento della globalizzazione e dunque l'inevitabilità della guerra: «Il capitale ha una tendenza a diventare una forma mondiale che si in­ frange contro la sua propria incapacità a essere questa forma mondiale della produzione». Non può diventare capitale globale perché dipende dallo Stato-nazione tanto per la realizzazione del plusvalore e la sua ap­ propriazione (la proprietà privata è garantita dalla sua legge e dalla sua forza) quanto per la sua «regolazione» perché, senza lo Stato, il capitale invierebbe i suoi flus­ si sulla Luna, dicono Deleuze e Guattari. La macchina dell'accumulazione e la sua tendenza ad allargarsi continuamente (mercato mondiale) è co­ struita su una tensione tra Stato e capitale, anche se entrambi partecipano a pieno titolo al suo funziona­ mento. Il capitale esprime una «tendenza a diventare mondiale» che non potrà mai compiersi perché non ha né la forza militare né la forza politica necessarie alle sue ambizioni. Lo Stato, invece, esercita entrambi que­ sti poteri ma il suo dominio è territoriale, delimitato da frontiere, confrontato a Stati rivali. È inutile opporre il capitale (con la sua immanenza tutta relativa) e lo Stato (con la sua sovranità sempre più autoritaria), perché agiscono insieme. Lo scacco della mondializzazione contemporanea è, per molti aspetti, simile all'«insuccesso» della globa­ lizzazione precedente (tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del XX secolo) e non potrà che sfociare nella guerra, perché, una volta che il capitale finanziario e la sua egemonia crollano, gli Stati e i loro eserciti avan­ zano sulla ribalta del mercato mondiale per disputarsi l'egemonia. Il «disordine» mondiale attuale (molteplicità di cen47

tri di potere costituiti da grandi spazi, ma al centro dei quali ci sono sempre gli Stati) che gli americani vorreb­ bero ridurre a un impossibile ordine imperiale che è già fallito, rischia di sfociare in un caos ancora più grande, qualunque sia il vincitore. La mondializzazione, piuttosto che il cosmopo­ litismo, ha prodotto delle logiche identitarie poiché il capitale, dopo il crack del 2008 ha dovuto, per non crollare e trascinare con sé la «civiltà» capitalista, ri­ fugiarsi sotto l'ala dello Stato che vive solo di identità: nazionalismo, fascismo, razzismo, sessismo. Nel capitalismo le differenze non producono ulterio­ ri e imprevedibili differenze (come crede ingenuamen­ te o in maniera irresponsabile la filosofia della differen­ za). Queste, invece, si polarizzano fino a consolidarsi in contraddizioni. Se le differenze non riescono a tra­ sformarsi in opposizioni alla macchina Stato-capitale, si fissano in identità al centro delle quali c'è sempre l'uomo bianco. Le identità nazionaliste, razziste, ses­ siste sono le condizioni necessarie alla produzione di soggettività per la guerra. L'isteria anti-russa scatenata dai media, l'odio razzista con il quale si distinguono le guerre e le vittime (i bianchi e gli altri), sono stati preparati a lungo dal lavoro di distruzione «simbolica» delle soggettività che, da anni, sta costruendo un «di­ venire fascista» delle popolazioni del Nord, che le ha rese pronte a entusiasmarsi per la guerra. Stiamo vivendo il compimento di un processo, cominciato un secolo fa e che ha conosciuto un'acce­ lerazione alla fine degli anni Settanta, di chiusura di ogni «spazio pubblico», di saturazione da parte della proprietà privata di ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Altro che la dittatura sanitaria (Agamben); altro che denuncia di incostituzionalità dello Stato di emergenza (Cacciari). La riduzione progressiva della già debole democrazia è la condizione politica che deve

necessariamente accompagnare l'identità di produzio­ ne e distruzione perché, dall'inizio del secolo scorso, continua a progredire radicandosi nella macchina Stato-capitale le cui promesse durano il tempo di una «belle époque». Basta anche un'analisi superficiale del capitalismo e della sua storia per capire che dopo corti periodi di euforia (la «belle époque» d'inizio XX secolo e quella di fine secolo, gli anni Ottanta e Novanta), du­ rante i quali il capitalismo sembra trionfare sulle sue contraddizioni, non gli resta che la guerra e il fascismo per uscire dalle sue impasse. La prosperità per tutti si è rapidamente trasformata in una mostruosa concentrazione della ricchezza per pochi, in devastazione finanziaria e in lotta a morte per l'egemonia economica e l'accesso alle risorse. La salvaguardia della vita in cambio d'obbedienza che, a partire da Hobbes, lo Stato doveva garantire contro i pericoli della guerra di tutti contro tutti, è stata dop­ piamente smentita: dall'organizzazione dei massacri delle guerre industriali e dall'estinzione possibile della specie umana che è già sufficientemente avanzata. La biopolitica («fare vivere e lasciare morire») svela tutto il suo contenuto «ideologico» di fronte alla real­ tà della macchina bicefala Stato-capitale che ha prima scatenato la violenza del secondo per poi, in seguito, lasciare libero corso alla violenza del primo. Due vio­ lenze che, congiunte, ci portano molto lontani dalla pacificazione governamentale del «lasciar vivere». La scomparsa possibile dell'umanità a causa della violenza concentrata della bomba atomica che, negli anni Cinquanta, Gtinther Anders annunciava, è oggi rilanciata dalla violenza «diffusa» del riscaldamento climatico, della degradazione della biosfera, dall'impo­ verimento dei suoli, dallo sfruttamento della terra ecc. Due temporalità differenti, l'istantaneo della bomba e la durata della devastazione ecologica, si sono som49

mate perché derivano dalla stessa fonte, l'identità di produzione/distruzione. Le due minacce convivono nell'attuale guerra in Ucraina e noi siamo sottoposti sia al pericolo atomico (che non era mai scomparso) sia a quello ecologico. Ciò che Latour non riesce a vedere, ce lo mostra l'attualità. La guerra sarà almeno servita a rivelare l'in­ consistenza di una grande parte del pensiero ecologico e dei suoi intellettuali più prestigiosi. Post scriptum: la crisi dell'ontologia L'identità di produzione e distruzione segnala la crisi della concezione dell'essere di cui la filosofia afferma la potenza produttiva: l'essere è creazione, processo di differenziazione, costruzione dell'uomo e del mondo. Questa lunga storia dell'essere è sconvolta dalla Prima guerra mondiale perché l'autoproduzione dell'essere coincide con la sua autodistruzione. Le filosofie degli anni Sessanta e Settanta non riconoscono in nessun modo questa nuova situazione. Al contrario rilanciano la potenza di invenzione, di proliferazione e di diffe­ renziazione dell'essere. Il negativo della distruzione è espulso nel momento stesso in cui l'essere diventa, con la «produzione totale», una forza «geologica» (Antro­ pocene) capace di modificare la morfologia della terra e al tempo stesso di distruggerla. La critica del negativo si concentra sulla dialettica hegeliana, mentre non pro­ blematizza la negazione assoluta del nuovo capitalismo. Nel momento stesso in cui l'essere sembra arric­ chire l'uomo e il mondo, attraverso la produzione continua di imprevedibili novità, questo si consuma, sembra esausto, minacciato di degradazione e anche di estinzione. Situazione inedita che la filosofia evita come la peste. 50

L'identità di produzione e distruzione ci obbliga a considerare sotto una nuova luce le categorie di lavoro e di forze produttive che si volevano eredi della potenza dell'essere. Le guerre totali e l'accelerazione imposta dall'azione congiunta del capitale, dello Stato, del lavo­ ro, della scienza e della tecnica hanno reso inoperante la contraddizione marxiana tra forze produttive e rap­ porti di produzione, perché, nelle condizioni attuali del capitalismo, le forze produttive sono al tempo stes­ so delle forze distruttive. Nel XIX secolo il lavoro e la sua cooperazione, la tecnica e la scienza, sembravano costituire una potenza di creazione imprigionata dai rapporti di produzione (principalmente, la proprietà e lo Stato che la garantiva). Bisognava liberarle dal do­ minio di questi ultimi perché potessero sviluppare le loro potenze, frenate dal profitto, dalla proprietà, dalle gerarchie di classe. Nelle condizioni del capitalismo il lavoro è produ­ zione o distruzione, poiché è entrambe le cose. Ragion per cui non può esserci alcuna ontologia del lavoro; ragion per cui le modalità dell'azione politica devono essere ripensate. Lotte, rifiuto, rivolte, cooperazioni, solidarietà, rivoluzioni sono ancora all'ordine del gior­ no, la rottura (rivoluzione) con il capitalismo è ancora più necessaria perché la posta in gioco è la vita stessa della specie, ma in un quadro radicalmente modifica­ to dall'esistenza della distruzione, che è come l'ombra che accompagna la produzione.

SI

3. In che modo il capitalismo è stato pacificato,

Cosa dobbiamo preservare delle rivoluzioni

Non c'era bisogno di essere Lenin per capire che la glo­ balizzazione, i monopoli, gli oligopoli e l'egemonia del capitale finanziario ci avrebbero portato, ancora una volta, all'alternativa tra guerra o rivoluzione, sociali­ smo o barbarie (la guerra è certa, mentre la rivoluzio­ ne, date le condizioni dei movimenti politici contem­ poranei, è altamente improbabile). La stessa situazione si era verificata un secolo fa. Sebbene in modo diverso, il collasso del capitale finan­ ziario contemporaneo, salvato dall'intervento degli Stati, la frammentazione e la balcanizzazione della sua globalizzazione, l'ulteriore concentrazione del po­ tere economico e politico per far fronte alle difficoltà della finanza e del mercato globale, hanno prodotto dei risultati analoghi. La guerra rappresenta una «ca­ tastrofe» in termini tecnici, ossia un «cambiamento di stato». Non possiamo prevedere cosa accadrà, ma sicuramente il vecchio mondo, quello che abbiamo co­ nosciuto negli ultimi cinquant'anni, sta crollando (in realtà, stava crollando già da diverso tempo!). La guerra in Ucraina affonda le sue radici e le sue ragioni in questi processi e non nell'autocrazia o nella follia di qualche individuo. Tutto sarà deciso tra grandi 1 / Il titolo è evidentemente ironico, perché è il capitalismo che ci ha pacificato, ma le nostre teorie hanno contribuito a questo esito.

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macchine statali continentali, diversamente da quanto è accaduto durante la Prima guerra mondiale, quando la rivoluzione, grazie all'iniziativa dei bolscevichi, ir­ rompeva come attore determinante nel cambiamento dell'ordine mondiale, sconvolgendo i piani degli impe­ rialismi in guerra per spartirsi il mondo. Per i rivolu­ zionari della prima metà del XX secolo, il capitalismo era inconcepibile senza guerre tra Stati, senza guerre civili contro il proletariato, senza guerre di conquista. Questo grande realismo politico aveva permesso loro, a differenza dello sgomento e smarrimento del nostro tempo, di non essere sorpresi e impreparati allo scop­ pio della Grande guerra. Ciò che ci manca è un punto di vista di classe sui rapporti tra capitalismo-Stato-guerra: si tratta di rico­ struirlo, appoggiandoci anche sui rivoluzionari che, nel XX secolo, le guerre le hanno fatte e subite.

La guerra di conquista e di assoggettamento Diversamente di ciò che pensano gli economisti, an­ che marxisti, il ciclo economico comincia con le guer­ re di conquista e di assoggettamento e finisce con le guerre tra Stati (o con la rivoluzione). Questo è sicu­ ramente vero per il neoliberalismo, ma era vero anche per il liberalismo classico. Il primo doveva superare le contraddizioni del secondo che conducevano dritti alle catastrofi della prima metà del XX secolo, invece sta pedissequamente seguendo le tracce del suo prede­ cessore, nel suscitare diverse modalità di guerra civile interna e di guerra tra imperialismi. Nel capitalismo la produzione, sia essa materiale o immateriale, affettiva o desiqerante, cognitiva o neu­ ronale, presuppone sempre la produzione extra-econo­ mica, extra-affettiva, extra-cognitiva delle classi sociali. 54

Prima di produrre delle merci, è necessario prendere, appropriarsi, espropriare con la forza dello Stato, terre, popolazioni, corpi, mezzi di produzione, risorse e divi­ dere ciò che è stato preso. Storicamente, il capitalismo è nato da una triplice conquista: la conquista della terra e dei contadini in Europa, la conquista delle donne (la caccia alle streghe è il segno del loro assoggettamento e dell'espropriazione del loro sapere), la conquista delle «terre libere» del Nuovo Mondo, la conquista degli in­ digeni trasformati in colonizzati e degli africani ridotti a schiavi. Senza queste guerre di conquista dei corpi, che dividono i vincitori e i vinti in proprietari e non proprietari, non può essere avviata alcuna produzione. L'espropriazione della terra e dei mezzi di produzio­ ne è accompagnata dall'espropriazione delle conoscen­ ze, della sensibilità e degli affetti della comunità. La guerra di conquista è anche una «apocalisse culturale» (la «fine di un mondo», quello dei vinti). Le due opera­ zioni devono essere ripetute all'inizio di ogni ciclo di accumulazione. L'impotenza politica attuale è la diretta conseguen­ za dell'esclusione delle guerre dalla teoria politica, che a sua volta è il risultato di un'altra esclusione, quella delle lotte di classe. E ciò accomuna tutti i diversi con­ cetti di «produzione» che dagli anni Sessanta hanno arricchito, ampliato, contestato e cercato di superare la teoria marxista: l'economia libidica (Lyotard), l'econo­ mia degli affetti (Klossowki), il discorso del capitalista (Lacan), la produzione desiderante (Deleuze e Guatta­ ri), la biopolitica (Foucault). Tutte queste teorie sembrano compiere un passo avanti teorico (poiché il capitalismo funziona anche con i desideri e gli affetti, e proprio i desideri e gli af­ fetti contribuiscono fortemente alla costituzione delle rotture rivoluzionarie), mentre politicamente fanno due passi indietro, in quanto hanno contribuito, in fon55

do, a pacificare il capitalismo, separandolo dalle guerre e dalle lotte di classe. Le elaborazioni contemporanee della produzione immateriale, cognitiva, neuronale, informativa, della «divisione del sensibile», proseguono questo lavoro di depoliticizzazione che espelle il carattere conquistato­ re e bellicoso della macchina Stato-capitale. Lo stesso si potrebbe dire dei vari femminismi che analizzano le violenze, ma non le guerre. La mappa delle forme di sfruttamento e dominio è stata ampliata e specifi­ cata in modo notevole rispetto al marxismo, mentre la guerra non è un oggetto problematizzato e, di conse­ guenza, il dibattito sulla «forza» non viene affrontato, se non nelle forme dell'autodifesa. In realtà, nella mol­ teplicità delle teorie femministe si può trovare il con­ cetto di guerra, con particolare attenzione alla «guerra di conquista». Il femminismo materialista francese e Silvia Federici attribuiscono un posto centrale alla que­ stione della conquista e dell'assoggettamento: le donne sono oggetto di appropriazione da parte degli uomini nello stesso modo in cui i lavoratori e gli schiavi sono stati «catturati» dalla guerra di conquista dell'accu­ mulazione primitiva. Federici parla della «guerra alle donne» come di un atto originario di appropriazione che deve essere reiterato all'inizio di ogni nuova fase di accumulazione. Veronica Gago cerca di estendere la pertinenza del concetto di guerra al di là dell'appropriazione origi­ naria, dimostrando che questa guerra di conquista si prolunga, una volta ottenuta la vittoria sulle donne, sui lavoratori e sui colonizzati, attraverso una molteplicità di violenze che non è sufficiente quantificare e clas­ sificare, perché rimanda a una strategia di classe e di guerra. «La nozione di guerra permette di far emerge­ re una dinamica conflittuale» piuttosto che «insistere

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sulle patologie degli uomini» ed evitare i discorsi sui «crimini passionali, sulla psicologia individuale». Il capitalismo presuppone ciò che Foucault sem­ bra negare: un dominio imposto con la forza che deve determinare opposizioni, polarizzazioni, dualismi in materia di lavoro, razza e genere. La concezione del potere elaborata da Foucault rifiuta di partire dalle condizioni reali del capitalismo, cioè dalla «divisione binaria, globale e massiccia tra dominatori e domina­ ti» e privilegia invece una «produzione multiforme di rapporti di dominazione», la codificazione di «molte­ plici rapporti di forza». Le divisioni tra proprietari e non proprietari, il do­ minio dell'uomo sulla donna, del bianco sul non bian­ co non sono il risultato della produzione, ma ciò che essa presuppone. Successivamente, questi dualismi si andranno intensificando o indebolendo a seconda del­ lo sviluppo dei rapporti di forza, ma restano comunque la posta in gioco: il capitalismo deve necessariamente riprodurli e i dominati devono farli saltare a partire dalla molteplicità che costituisce le classi dei lavoratori, delle donne, dei colonizzati. La conquista dei corpi si articola a livello di merca­ to mondiale e, fatto molto importante che non coglie l'eurocentrismo delle suddette teorie, si produce e si sta­ bilizza in modo differenziale tra Nord e Sud grazie alla conquista dell'America. Nel Nord, il consolidamento del potere dei vincitori mobiliterà il diritto, il salario, il consumo e tutti gli strumenti che le teorie degli anni Sessanta e Settanta hanno elaborato (affetti, desiderio, godimento ecc.) per integrare i vinti. Al Sud, invece, all'istituzionalizzazione del lavoro, all'integrazione attraverso il welfare, all'azione attraverso gli affetti e al «godimento» del consumo, si predilige la violenza coloniale, la governamentalità attraverso il razzismo e la guerra civile permanente. Questa violenza diffe57

renziale tra centro e periferia emersa dalle guerre di conquista a partire del 1492, costituisce la seconda condizione politica della produzione. La terza condizione è rappresentata dal non detto di queste teorie: le soggettività possono essere mobilitate, le norme di potere interiorizzate, gli affetti implicarle efficacemente, solamente quando la lotta in cui sono coinvolte ha prodotto la separazione tra vincitori e vin­ ti. La governamentalità che continua con altri mezzi la guerra di conquista potrà agire sulla soggettività solo dopo che questa sarà stata vinta, realizzando il pro­ gramma di Thatcher: l'economia non è che il metodo, lo scopo è di catturare lo spirito dell'individuo. Dopo aver conquistato il corpo con la forza, bisogna conqui­ stare l'anima mobilitando gli affetti. Nessuna norma economica, sessuale o razziale può affermarsi in una situazione caratterizzata da un alto livello di lotta di classe. È necessario procedere a una normalizzazione preventiva sia politica che soggettiva con un uso della violenza e della guerra civile che varia a seconda delle circostanze. Solo a queste condizioni le norme e gli affetti possono agire sugli individui, plasmandoli, costruendoli, assoggettandoli. La norma produttiva, come la norma giuridica non sono applica­ bili al «caos», suppongono «una strutturazione nor­ male dei rapporti di vita». Questa normalità non è un «presupposto esterno che si può ignorare; al contrario, concerne direttamente la sua efficacia immanente». Queste tre condizioni, vale a dire la divisione bina­ ria in dominanti e dominati, l'articolazione di tali divi­ sioni a livello di mercato mondiale, la normalizzazione attraverso la forza che precede la normalizzazione tra­ mite le norme e gli affetti, si riscontrano all'inizio di ogni ciclo di accumulazione.

Le guerre civili e il neoliberalismo La maggior parte delle teorie critiche pensano il pas­ saggio dalle società disciplinari a quelle di controllo, dal fordismo al neoliberalismo, dalla logica «sacrifica­ le» del lavoro a quella «gaudente» del consumo, dalla produzione materiale a quella cognitiva, ma di fatto non lo spiegano. Quello che rimane enigmatico è pro­ prio la transizione stessa, perché è in questo passaggio che scoppiano le guerre civili, le guerre di conquista e di assoggettamento, le guerre tra Stati come condizio­ ne necessaria del «nuovo modo di produzione». Le lotte di classe precedono sempre la produzione, rendendola possibile attraverso l'integrazione delle soggettività sconfitte nel lavoro, nel consumo e nella società delle norme. Il neoliberalismo non sfugge a questa genealogia del capitalismo. La sua nascita pre­ suppone una violenza esercitata in modo differenziato su tutto il mercato mondiale, dosata in base ai rapporti di forza instaurati dalle lotte di classe e dalla loro inten­ sità. Nel Nord, l'integrazione del movimento operaio nella macchina dello Stato-capitale, iniziata alla fine del XIX secolo, non ha mai minacciato, dopo la Secon­ da guerra mondiale, di trasformarsi in rivoluzione e quindi non è stato necessario ricorrere alla forza ar­ mata. Alla macchina Stato-capitale è bastato reprimere degli scioperi storici in Inghilterra, Italia e Stati Uniti, infliggendo comunque una pesante sconfitta politica al movimento operaio, il cui risultato fu una soggetti­ vità proletaria vinta, costretta a obbedire e disponibile alle sollecitazioni della governamentalità, obbligata ad adattarsi all'innovazione tecnologica, alle nuove forme di produzione, al nuovo mercato del lavoro, alle nuove norme del consumo. La storia del Sud, dove la rivoluzione mondiale aveva messo radici, è completamente diversa. Qui il neolibe59

ralismo emerge da una serie di guerre civili in Ameri­ ca Latina, organizzate direttamente dagli Stati Uniti, con migliaia di militanti uccisi, torturati, desapareci­ dos, esiliati. Solo la distruzione fisica delle soggettivi­ tà rivoluzionarie può imporre la miseria «libidinale» dell'imprenditore di se stesso, gli affetti del «capitale umano», il «desiderio» di accedere al credito per go­ dere della promessa di felicità fatta balenare dal con­ sumo. La soggettività diventa «disponibile» in quanto sconfitta dalla violenza fascista. La normalizzazione ha poco a che fare con la nar­ razione hobbesiana, non si tratta del risultato di un'i­ potetica guerra di tutti contro tutti, ma di una vera e propria guerra tra classi, tra gruppi sociali ben definiti, con obiettivi e strategie anch'essi ben visibili e dichia­ rati («la guerra dei ricchi contro i poveri, dei proprieta­ ri contro chi non ha nulla, dei padroni contro i proleta­ ri» dice Foucault). Nella storia del capitalismo ciò che spinge al consenso non è il bisogno di sicurezza e di protezione, la garanzia di avere la vita salva se si legit­ tima il potere trasferendo i propri diritti al «sovrano», ma dapprima il terrore della repressione borghese (la «settimana sanguinosa>> della Comune di Parigi che anticipa la violenza delle guerre totali) o una sconfitta meno cruenta, ma dalla quale si esce comunque sot­ tomessi. Nel capitalismo non c'è contratto possibile o, se questo si stabilisce, è tra vincitori e vinti. Le teorie critiche elaborate negli ultimi cinquant'an­ ni riducono il ciclo di accumulazione a un'unica fase, quella economico-politica, in cui il potere dei vincitori si è stabilizzato diventando Stato amministrativo, go­ vernamentalità, lavoro e consumo. Potremmo definire questa fase di consolidazione la «belle époque», in cui, come nella precedente che aveva condotto alla Grande guerra, l'espansione della produzione e della produt­ tività sembra procedere «pacificamente», come avesse

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superato e risolto tutte le contraddizioni dell'accumu­ lazione capitalista. Si eliminano l'inizio e la fine del ciclo, laddove le guerre e le guerre civili decidono chi comanda e chi obbedisce, chi è proprietario e chi è espropriato, e im­ pongono la divisione internazionale del lavoro, l'orga­ nizzazione sessuale e razziale del mercato mondiale, producendo una soggettività sconfitta disponibile (co­ stretta) a obbedire.

L'ideologia come narrazione L'estrema semplificazione introdotta dal «discorso del capitalista» (Lacan) può essere utile per illustrare la ri­ mozione del concetto di guerra e delle lotte di classe, nonché l'ingenuità con cui viene messo in scena un ca­ pitalismo pacificato, consentendoci anche di leggere il ciclo economico da un punto di vista particolare, quel­ lo del consumo e del capitale finanziario, ridiventato egemonico dopo le carneficine prodotte un secolo fa. Nel mondo descritto dal discorso del capitalista «tutto è possibile», nulla è vietato. L'offerta illimitata di merci sembra produrre un consumo il cui godimento è senza legge, senza padre, senza il senso di colpa che nei precedenti periodi di sviluppo capitalistico riduce­ va il lavoro a sacrificio e il consumo a frugalità, incitan­ do piuttosto al risparmio. I consumatori, liberati da questi limiti «protestan­ ti», si sarebbero sostituiti ai lavoratori al centro dell'ac­ cumulazione. Quel «tutto è possibile» sembra corri­ spondere all'immagine di un capitale che non conosce limiti e rappresentare la nuova ideologia e la nuova antropologia del soggetto produttivo (performante, intraprendente, spinto continuamente, come il capitale di cui è la maschera - «capitale umano» appunto - a 61

superare i suoi limiti che sono solo ostacoli con cui mi­ surarsi per spostarli sempre più in là, all'infinito). Ideologia perfetta del potere, perché è la sua mi­ gliore narrazione: separa il capitale dallo Stato, dalla guerra, dalle lotte di classe e celebra il suo essere mo­ vimento incessante, produzione continua del «nuovo», cambiamento perpetuo. In realtà questo divenire fan­ tasmagorico è vuoto e non produce e riproduce che se stesso. Il nichilismo della produzione per la produzio­ ne si incarna negli individui assoggettati alla «mobili­ tazione totale», eredità del primo scontro mondiale che porterà, come sta facendo il neoliberalismo, alla guer­ ra, forma compiuta del funzionamento nichilista della macchina Stato-capitale. Ma il «discorso del capitalista» sembra non sapere che il godimento non si compra con il salario ma con il credito, vivere a credito è la parola d'ordine del potere contemporaneo. Se si oltrepassano i limiti eurocentrici che lo condizionano, si può facilmente scoprire che il consumo/godimento è stato immediatamente affianca­ to, ovunque nel pianeta, dalla coppia sacrificio/distru­ zione imposta dalle politiche finanziarie del debito. L'incitamento al godimento tramite il consumo e l'a­ zione che inibisce, reprime, vieta, colpevolizza, non si riferiscono a due modelli di relazioni di potere ma coe­ sistono, come testimoniano tutte le politiche del debito. Un «potere tollerante» (il neoliberalismo versione Pasolini, ma anche Foucault che lo definisce letteral­ mente in questo modo) che «incita, induce e sollecita» invece che soltanto «sorvegliare e punire», è un'illu­ sione tipica della «belle époque» perché è temporaneo e selettivo (al Nord piuttosto cha al Sud, con i bianchi piuttosto che con i non bianchi, con i ricchi piuttosto che con i poveri, con gli uomini piuttosto che con le donne), perché è rapidamente destinato a rovesciarsi nel suo contrario. Inizialmente in Africa, in seguito in 62

America Latina e nel Sud-Est asiatico, il debito ha fun­ zionato come un'arma di distruzione di massa, met­ tendo in ginocchio interi paesi e imponendo, a partire dagli anni Ottanta, l'austerità a tutto il pianeta, prima di approdare in Europa. Nel Nord, nei paesi ricchi, il «discorso del capitali­ sta» è di breve durata, gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. La congiuntura si inverte rapidamente: le crisi finanziarie si susseguono fino a culminare nel crack finanziario del 2008. Anche in America, origine della crisi, e in Europa, il credito lascia il posto al debito che costringe i più poveri (chiedetelo ai greci) a sacri­ ficarsi perché colpevoli di essere avidi di consumo e di godimento a cui, in realtà, sono stati spinti. Piuttosto che a un nuovo paradigma del potere centrato sul godi­ mento e sul desiderio siamo confrontati a un «double bind» (doppia e contraddittoria ingiunzione) che, allo stesso tempo, incita e reprime, sollecita e vieta, rende possibile e distrugge ogni possibilità, cioè all'irrazio­ nale razionalità del capitalismo. Alla fine della «belle époque», diciamo dal 2001 in poi, si verificano cambiamenti notevoli poiché la tra­ sformazione, iniziata negli anni Settanta, della guerra di conquista e di sottomissione in produzione, welfare, dominazione razziale e sessuale, tende a sua volta a pro­ durre nuove modalità di lotte di classe e soggettiva­ zioni che rompono con questa trappola del potere che non ha più le disponibilità finanziare per comprare il consenso. Le ha tutte investite per evitare il crollo del sistema finanziario. Gli Stati Uniti, che hanno imposto il modello neo­ liberale a tutti, sono drammaticamente confrontati ai suoi risultati: enormi differenze di reddito e di patri­ monio, ascesa del sessismo (leggi che vietano l'abor­ to), del razzismo (esecuzioni di persone razzializzate) e dell'estrema destra che ha persino tentato una par-

venza di «insurrezione». Una volta i rivoluzionari di­ cevano il «fascismo è la guerra» e di fatto ne è ancora l'annuncio! A partire dal 20n, le lotte di classe si sono intensi­ ficate con una differenza Nord/Sud che ricalca quello che si era già prodotto nel XX secolo: il modello di mobilitazione delle «primavere arabe», che parte dalle piazze e non più dalle fabbriche e dalle scuole (anche se scioperi molto duri l'avevano preparato), si diffonde rapidamente sul pianeta, ma non si manifesta con la stessa forza politica in Europa e in America. In Ame­ rica del Sud nasce un potente movimento femminista che mostra la strada al Nord: invenzione di nuove for­ me di lotta (lo sciopero femminista) che si diffondo­ no rapidamente in maniera transnazionale, anche se non hanno ancora la potenza del vecchio internazio­ nalismo operaio. I contenuti del conflitto e le modali­ tà dell'organizzazione si sono diffusi, ma non con la stessa intensità ed energia politica dell'America Lati­ na. Subito prima dell'esplodere della pandemia il sol­ levamento cileno ha messo fine al primo esperimento neoliberale e durante la pandemia grandi lotte contro il razzismo hanno visto mobilizzarsi insieme proletari di «colore» e bianchi. Al Nord quarant'anni di ideologia della mobilità, della «precarietà è bello», della flessibilità degli orari di lavoro, di diminuzione dei salari e il rinforzarsi delle gerarchie del comando, hanno prodotto un rifiuto del lavoro che tocca tutti i settori. La «grande dimissione» negli Stati Uniti e la «grande diserzione dei lavoratori stagionali» in Europa, consistono nel rifiuto, da parte di centinaia di migliaia di lavoratori, di shit jobs ma an­ che di lavori qualificati, tutti erogati senza senso. Però, mentre nel Sud del mondo la ripresa delle lotte e la ri­ costruzione dei movimenti si danno a partire da forme di soggettivazione collettiva che usano anche la forza e

la rivolta, la «great resignation» o «grande démission» è un esodo di massa dal lavoro salariato, costituito da comportamenti individuali che, anche se riguardano milioni di persone, per il momento resta confinato in gesti personali. Il rifiuto dello sfruttamento costituisce senz'altro una rottura radicale con la recente docilità della forza lavoro e il fondamento possibile di una rot­ tura più soggettivamente condivisa. Quello che spinge verso la guerra è anche questa situazione interna dei diversi imperialismi, la loro im­ possibilità di pagarsi la legittimità e il consenso dei cit­ tadini con l'occupazione, il welfare, i consumi, perché la crisi del 2008 ha rotto il giocattolo neoliberale e non si riesce più a farlo funzionare e perché, come abbiamo appena detto, comincia a manifestarsi il rifiuto di farsi comprare per pochi soldi. Dopo la crisi finanziaria, un'enorme creazione mo­ netaria mantiene in vita artificialmente un sistema che, invece di ripartire, si logora. Il ciclo economico non ha solo approfondito le differenze tra le classi ma anche tra gli Stati, generando una grande instabilità nell'ordine mondiale, ulteriore motivo per cui l'op­ zione della guerra diventa reale. Gli Stati che hanno salvato la macchina del profitto/potere si affrontano in una competizione che non è più la concorrenza ne­ oliberale. La guerra che ha dato inizio al ciclo lo sta ora concludendo, ma con una violenza moltiplicata dalla produzione e dalla produttività sviluppate lungo la fase di espansione del ciclo stesso. L'economia desiderante si è trasformata in econo­ mia di guerra, il discorso del capitalista si è convertito in un discorso guerrafondaio, l'intelletto generale si sta rapidamente militarizzando, la sfera mediatica ha messo l'elmetto (in studio e nei giornali), senza che nessuna delle nuove teorie della produzione sia in gra­ do di rendere conto di questa involuzione, perché le

guerre e il loro rapporto con il capitalismo non fanno parte di questi modelli pacificati.

Le rivoluzioni e la guerra Di fronte alla guerra, siamo teoricamente disarmati. I segreti del funzionamento del ciclo economico-politico sono noti da almeno un secolo e mezzo. I rivoluzionari del XX secolo ne erano perfettamente consapevoli. Si possono criticare le rivoluzioni da diversi punti di vista, ma possiamo ancora far ricorso alle loro elaborazioni perché non è vero che la globalizzazione ha relegato l'imperialismo tra i ferri vecchi del capitalismo. Certo, si tratta di un imperialismo differente da quello storico che agisce privilegiando strumenti monetari e finan­ ziari, tuttavia continua a utilizzare l'espropriazione di terre, l'appropriazione di ricchezze (estrattivismo), la messa al lavoro di miliardi di persone al di fuori del salariato (il lavoro svalorizzato, gratuito o sottopagato), pratica guerre di rapina, di sottomissione, ha rimesso di moda anche la schiavitù, diffondendo corruzione su tutto il pianeta. La stessa cosa si può dire della neo-co­ lonizzazione che non ripete i «fasti» del passato, ma continua a catturare ricchezza (e forse più che durante l'ultima colonizzazione) tramite dispositivi extra-eco­ nomici. Lenin associava l'egemonia del capitale finan­ ziario alla colonizzazione. Le nuove modalità della finanziarizzazione contemporanea corrispondono alle nuove modalità della colonizzazione. Globalizzazione non vuole dire granché. In realtà, per chiamare le cose con il loro nome, si tratta dell'ac­ cumulazione del capitale su scala mondiale compo­ sta dall'attività di differenti macchine Stato-capitale, ognuna con la sua autonomia e sovranità, anche se relativa, che non convergono verso un capitale e una

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governance mondiali, ma perseguono politiche e fi. nalità molto differenti, ancorché tutte a partire da un unico mercato. Ad esempio, gli Stati Uniti pensavano la Cina come la loro succursale industriale per la forni­ tura di beni a prezzi stracciati per tenere bassi i salari americani. Lo Stato cinese e il Partito comunista han­ no, sulla stessa industrializzazione, un punto di vista radicalmente eterogeneo rispetto alla logica americana (fare della Cina una potenza economica e politica, to­ gliere dalla povertà milioni di cinesi ecc.). Come un secolo fa, i contemporanei Stati continen­ tali si battono per imporre i loro interessi e la loro ege­ monia, per appropriarsi di risorse materiali e umane, per indebolire o sottomettere i concorrenti all'interno di una logica che non sappiamo definire altrimenti che imperialista. Quindi i rivoluzionari del XX secolo han­ no ancora molto da suggerirci a proposito della pace e della guerra, dello Stato e del capitale, del mercato mondiale e delle strategie per battere queste macchine imperialiste. Non si tratta di tornare a un impossibile e indeside­ rabile «marxismo-leninismo», ma sulla questione del­ la guerra e del capitalismo il loro punto di vista supera di gran lunga le teorie contemporanee che, dopo aver espulso la guerra, si limitano ad affermare un generico «no», quando questa torna a occupare il centro della politica. I movimenti politici dopo il '68 hanno cancel­ lato le rivoluzioni dal loro orizzonte, come se avessero interiorizzato l'ideologia dominante secondo la quale erano solo avventure omicide non necessarie, dal mo­ mento che la stessa cosa si sarebbe potuta ottenere at­ traverso la democrazia. La prima cosa da conservare delle rivoluzioni del XX secolo è la loro visione del capitalismo: la macchina capitalistica è inseparabile dallo Stato e la guerra, l'in­ dustria bellica, il militarismo ne fanno parte a tutti gli

effetti. La società si divide secondo una logica di clas­ se in dominanti e dominati, risultato di una guerra di conquista dei corpi e di formazione delle classi. Le lotte che ne derivano sono una guerra civile più o meno la­ tente che può e, secondo loro, deve trasformarsi in una guerra civile aperta. Per i rivoluzionari era evidente che il capitale, lo Stato e la guerra costituivano un continuum mortale. Engels considera che la guerra sarà sempre all'ordine del gior­ no finché il capitalismo prospererà. La società industria­ le, invece di portare la pace, renderà la guerra ancora più devastante. Nel 1895 metteva in guardia dalla catastrofe che si stava profilando: «una guerra mondiale di un or­ rore inaudito e di conseguenze incalcolabili». Lo scoppio dello scontro tra imperialismi nel 1914 non ha fatto altro che confermare, su larga scala, ciò che già sapevano, cancellando ogni illusione sullo svi­ luppo pacifico della produzione: «la guerra è l'inevita­ bile compagna dello sviluppo capitalistico e il militari­ smo è il suo prodotto» (Lenin). Prima di essere produzione, il capitalismo è una lot­ ta tra classi il cui scontro, inconciliabile, sfocia in una lotta armata tra Stati o nella rivoluzione. Non cogliere nella «pace» della produzione capitalistica le condizio­ ni della guerra era considerato, politicamente e teori­ camente, irresponsabile. «Chi non vede che la lotta di classe porta inevitabilmente al conflitto armato è cieco. Ma non meno cieco è colui che, dietro il conflitto arma­ to e il suo esito, non vede l'intera politica precedente delle classi in lotta» (Trockij). I rivoluzionari mettono a profitto la formula di Clau­ sewitz, la guerra è la continuazione della politica e non la sua interruzione, come credono un po' tutti in que­ sto periodo: bisogna che le armi tacciano e si torni alla politica, ma precisamente la guerra è una politica che continua lo scontro insito nei rapporti di potere del tempo 68

di «pace». La politica che continua nella guerra non è solo quella degli Stati. La guerra in Ucraina, come tutte le guerre globali, è una concentrazione e un'articolazione di guerre tra Stati, guerre neo-coloniali e neo-imperialiste, guerre nazionali, guerre contro le donne, contro i razzia­ lizzati, guerre contro i lavoratori. I rivoluzionari leggono

la formula di Clausewitz da questo punto di vista. Il rapporto di classe era già stato interrotto nella sua versione riformista (patto sociale capitale/lavoro, che esisteva solo al Nord) dal neoliberalismo. Questo aveva organizzato una governamentalità autoritaria che ha favorito da subito il fiorire di nuovi fascismi, l'estin­ guersi progressivo della democrazia, l'instaurazione di uno stato d'emergenza divenuto la normalità, in quan­ to lo sfruttamento operato dal modello di accumula­ zione creava tutte le condizioni di una guerra civile che è un'altra delle ragioni che spingono alla guerra. Le posizioni di Foucault, che ha descritto questa go­ vernamentalità in maniera assolutamente pacificante, trascinandosi dietro l'intellighenzia «rivoluzionaria», tra il 1971 e il 1975 si faceva invece l'eco di un dibattito che aveva attraversato i movimenti post-sessantottini. Le sue posizioni dell'epoca sembravano vicine al mar­ xismo e al pensiero dei rivoluzionari: «la guerra civile è la matrice di tutte le lotte di potere, di tutte le stra­ tegie di potere e, di conseguenza, anche la matrice di tutte le lotte sul e contro il potere». Diversamente da noi, i militanti di inizio Novecento non sarebbero stati sorpresi da quanto sta accadendo in Ucraina, perché Stato, capitale e guerra costituisco­ no la dinamica del capitalismo nel mercato mondiale, la sua macchina politica, indipendentemente dallo sviluppo delle forze produttive (materiali, cognitive, desideranti, digitali ecc.). «Di norma, le guerre tra gli Stati capitalisti sono un effetto della loro compe­ tizione sul mercato mondiale, perché ogni Stato cer-

ca non solo di assicurarsi determinati sbocchi, ma di conquistare nuove regioni e l'asservimento di popoli e paesi stranieri è di importanza capitale», diceva Le­ nin. L'armamento è una necessità politica che deriva direttamente dall'imperativo di sottomettere le classi «pericolose» all'interno (guerra civile) e di vincere la competizione tra poteri statali (guerra interstatale) all'esterno. «In ogni società di classe - sia essa basata sulla schiavitù, sulla servitù o, come oggi, sul lavoro salariato - la classe degli oppressori è armata», secon­ do Lenin. Il militarismo, dice Rosa Luxemburg, «ha accom­ pagnato tutte le fasi storiche dell'accumulazione». Ha svolto un «ruolo decisivo nella conquista del nuovo mondo», in seguito è servito a sottomettere «le colo­ nie moderne e a distruggere le organizzazioni sociali primitive», a introdurre «il vincolo degli scambi com­ merciali in paesi la cui struttura sociale si oppone all'economia di mercato e a trasformare gli indigeni in proletari», a «estorcere concessioni ferroviarie in paesi arretrati e a far valere i diritti del capitale euro­ peo nei prestiti internazionali». Il militarismo è anche «un'arma della concorrenza» tra i paesi capitalisti e, infine, «dal punto di vista puramente economico, è per il capitale un mezzo privilegiato di realizzazione del plusvalore, in altre parole è per esso un campo di ac­ cumulazione», ma può a sua volta diventare il motore dell'accumulazione (keynesismo di guerra). Il loro punto di vista permette di cogliere in tempo reale, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX seco­ lo, i profondi cambiamenti che coinvolgono il capita­ le, lo Stato e la guerra. Quest'ultima diventa «totale», «industriale», «imperialista», mentre la guerra civile europea si trasforma in «mondiale» e «anticoloniale»: i popoli oppressi, entrati nella battaglia, costituiscono la grande novità che avrà delle conseguenze epocali.

Cosa notevole, elaborano nuove strategie e tattiche di lotta che condurranno alle prime rivoluzioni vittoriose degli oppressi nella storia umana. Mentre la macchina da guerra Stato-capitale scatena una violenza distrutti­ va e autodistruttiva senza precedenti, le rivoluzioni, in modo ancora oggi sorprendente, passano all'offensiva e la tengono su tutto il mercato mondiale e a lungo.

Il militarismo e il ciclo economico Torniamo in maniera più estesa sulla funzione del mi­ litarismo perché gli economisti contemporanei, anche marxisti, si occupano di produzione, comunicazione, cooperazione, beni comuni, immateriali, informatici ma ignorano l'importanza dell'industria bellica per il funzionamento del capitalismo, altro sintomo di come è stato pacificato. Il «keynesismo militare - che consiste in una politi­ ca in cui le spese militari generano delle ricette fiscali superiori alle imposte raccolte per finanziarle - non è nato nel XX secolo», secondo Giovanni Arrighi. Il militarismo è un elemento essenziale della macchina produttiva e politica sin dalla sua nascita: «il capitale, lo Stato e il militarismo si concatenano rinforzandosi a vicenda in un circolo virtuoso della ricchezza e del profitto» che è, nello stesso tempo, un circolo vizioso perché la produzione finirà, proprio a causa dell'im­ portanza crescente della guerra industriale, tecnolo­ gica, nucleare per coincidere con la distruzione. L'Eu­ ropa, dopo la conquista dell'America si era lanciata in un ciclo di conquiste coloniali e di sviluppo che si autoalimentava: «la sua organizzazione militare soste­ neva l'espansione economica e politica prima di essere sostenuta a sua volta da quest'ultima, a discapito degli altri popoli e comunità della terra».

Depredando le colonie, l'apparato economico mi­ litare si appropriava con la forza delle risorse neces­ sarie alla crescita e gli introiti fiscali e commerciali alimentavano a loro volta la corsa agli armamenti. La supremazia europea sugli altri popoli era dovuta es­ senzialmente a una superiorità tecnologica che si ma­ terializzava nel militare. A partire dalla Prima guerra mondiale il militari­ smo e l'industria bellica diventano ancora più centrali nei cicli economici, come insegna Michal Kalecki, eco­ nomista di scuola luxemburghiana che Joan Robinson definirà come l'inventore della «Teoria generale» pri­ ma di Keynes. La chiave del suo lavoro («la divergenza tra la tendenza allo sviluppo delle forze produttive e la capacità di assorbimento del mercato») è la stessa che troviamo in Rosa Luxemburg. Contro ogni economici­ smo sviluppa un'importante e originale concezione del «ciclo politico» del capitale («l'istinto di classe» sugge­ risce ai capitalisti che «la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti») in cui l'industria bellica gioca un ruolo determinante. L'accumulazione è notevolmente cambiata dall'epo­ ca di Marx, perché il capitale ha perso la sua «vitalità naturale». Da una parte ha bisogno di un continuo intervento dello Stato, dall'altra è limitato, nella sua «spontaneità», dalla lotta di classe e soprattutto dalla rivoluzione. Secondo Kalecki «la crescita delle spese militari che non sia accompagnata dalle imposte, ha un effetto sullo sviluppo» simile agli investimenti in capitale «produttivo» e può funzionare da stimolo del ciclo economico. Tra le due guerre mondiali i capitalisti avversavano gli esperimenti avviati per garantire il pieno impiego basato su «spese statali finanziate in deficit» anche se il livello più alto della produzione e dell'occupazione, 72

assicurato dalle nuove politiche economiche, avrebbe procurato loro profitti crescenti. Rafforzava troppo la classe operaia: i padroni ragionano politicamente, strategicamente e non solo a partire dal profitto. «Il sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità ecc.) minava "un principio morale" della più grande importanza: le basi dell'etica capitalistica richiedono che "ti guadagni il pane col sudore della tua fronte" (a meno che tu non viva dei redditi del capitale)». L'avversione a finanziare il consumo attraverso la spesa pubblica era generalizzata, tranne che nella Germania nazista, dove è stata superata tramite «la concentrazione delle spese statali negli armamenti». Durante il nazismo «gli investimenti pubblici non sono soltanto un mezzo, ma anche un fine, in quan­ to hanno carattere essenzialmente militare». L'assor­ bimento dell'aumento della produzione generale da parte dell'industria bellica evita (o riduce) un aumento del consumo e quindi la forza dei lavoratori. Il pieno impiego, finanziato con il credito, si imporrà dopo la Seconda guerra mondiale, ma solo per un breve perio­ do. Già negli anni Settanta comincia il suo smantella­ mento perché «i lavoratori, senza la minaccia della di­ soccupazione, diventano "recalcitranti" e i "capitani di industria" diventano ansiosi di "dar loro una lezione"». Il consumo (come nel «discorso del capitalista», ma senza la sua logica disarmata e disarmante che coglie solo una piccola parte del problema) gioca un ruolo centrale nel ciclo del pieno impiego e le spese milita­ ri funzionano da strumento che lo regola. Il periodo 1937-55 comprende la «guerra mondiale, la riconver­ sione e un nuovo ciclo di riarmo gigantesco». Durante questo periodo, attraverso la «militarizzazione dell'e­ conomia americana» l'accrescimento della quota del 73

grande capitale nel reddito nazionale fu «assorbito dal riarmo» a scapito del consumo. La lezione nazista viene rapidamente integrata dalle democrazie. La Se­ conda guerra mondiale e il genocidio hitleriano, «che furono in certa misura il coronamento della congiun­ tura gestita tramite gli armamenti», non sono più, per il momento, necessari. Le politiche del pieno impiego sono favorite dalla congiuntura economica «piuttosto elevata, di cui uno dei pilastri fu il riarmo della Nato», di cui la milita­ rizzazione della Germania federale fu una pedina es­ senziale. Le esportazioni della Repubblica federale erano in larga misura dipendenti dalle spese degli armamenti degli altri paesi, che ora stanno sviluppan­ do una propria industria bellica. Gli inglesi speravano che il riarmo della Germania «avrebbe paralizzato le sue esportazioni di macchinari e permesso loro di impadronirsi di una parte del mercato tedesco». La Germania ha invece piazzato i propri ordinativi mili­ tari nel Regno Unito senza indebolire l'esportazione di macchine, senza perdere i suoi mercati e ottenendo, tramite il miglioramento della bilancia dei pagamenti britannica grazie alle sue spese militari, «concessioni politiche importanti». Kalecki riassume così, nel 1961, la funzione dell'in­ dustria bellica nel dopoguerra: «La militarizzazione della Germania federale è la struttura portante della sua politica, che fomenta la tensione internazionale all'estero e soffoca la lotta di classe all'interno del pa­ ese. E questi due effetti aprono a loro volta all'espan­ sione delle esportazioni della Repubblica federale». La modalità specifica della militarizzazione della Germa­ nia sarà il fondamento della sua rinascita industriale e avrà, dieci anni più tardi, un ruolo determinante nella decisione degli Stati Uniti di lanciare una nuova glo74

balizzazione, perché, con il Giappone, continuano a togliere loro fette di mercato. Arrighi definisce il welfare state del dopoguerra, riprendendo una categoria di James O'Connor dal suo libro del 1973 The Fiscal Crisis of the State, come «warfare-welfare state», cioè come la messa in opera di un keynesismo militare e sociale su scala mondiale: «le enormi spese necessarie al riarmamento degli Usa e dei suoi alleati e il dispiegamento di una immensa rete di basi militari, fu senza dubbio alcuno l'elemento più dinamico e più visibile» del miracolo economico. Di solito si sottolinea con enfasi la natura «welfare» del­

le spese statali, ma si passa sotto silenzio la loro natura «warfare».

Una grossa parte di questi enormi investimenti militari fu impiegata dall'esercito americano nella ri­ cerca scientifica, nell'innovazione tecnologica, nello sviluppo delle scienze sociali. Lo Stato, dopo la Grande guerra, lungi da giocare un ruolo subalterno al capita­ le è la forza che lo dinamizza, lo finanzia, gli fornisce le innovazioni e i metodi di produzione. La big science nasce come progetto per la «sicurezza nazionale» du­ rante la Seconda guerra mondiale e si consolida come strumento dell'imperialismo americano dopo. Lo Sta­ to gioca un ruolo centrale non solo come detentore le­ gittimo del monopolio della forza, ma anche come me­ ga-imprenditore innovatore a partire dall'armamento. Fred Turner, in un bel libro (Aux sources de /'utopie numérique. De la contre-culture à la cyberculture), dimo­ stra come l'esercito americano e il Pentagono inventi­ no sia la big science sia una nuova organizzazione del lavoro partendo dalla cooperazione tra gli scienziati per la produzione di armamenti sempre più sofistica­ ti. La big science «si è forgiata sulla necessità di adat­ tare un metodo sistemico globale per sviluppare delle armi, capace di considerare uomini e macchine come 75

elementi abbinati di un apparato di combattimento eccezionale». I metodi di produzione della scienza progrediscono al ritmo delle guerre nel Sud (Corea, Vietnam, Algeria): «per quanto ospitate e finanziate da una burocrazia invadente, queste squadre [di scienzia­ ti assunti o finanziati nello loro università dal Pentago­ no N.d.A.] non funzionano su dei criteri statutari o di rango, lavorano, al contrario, in seno a una struttura sociale senza una vera gerarchia». La trasgressione delle barriere disciplinari e pro­ fessionali è il segreto di questo metodo: «le pressioni impiegate per produrre nuove tecnologie di guerra condurranno questi specialisti a eludere le frontiere della loro professione, a mescolare lavoro e piacere e a costituire nuove reti interdisciplinari in seno alle quali lavorano e vivono». Wiener, il padre della cibernetica, fa notare che questa organizzazione che integra lavoro e vita, lavoro e piacere (altre caratteristiche che si attri­ buiscono di solito al management post-'68), la comuni­ tà scientifica l'aveva sempre sognata e la guerra l'ha re­ alizzata. «Eravamo d'accordo su queste questioni ben prima di aver potuto designare il campo comune delle nostre investigazioni[...]. La guerra ha deciso della sua natura al nostro posto». Durante la guerra, un altro cambiamento fonda­ mentale è generato dalla cooperazione tra scienziati e impresa sotto il controllo e la supervisione dello Stato/ esercito: la trasformazione della figura dello scienziato in imprenditore. Nello sforzo di guerra, «scienziati e ingegneri imparano ad agire come capi d'impresa». Questa organizzazione del lavoro sarà in seguito tra­ smessa dallo Stato ai privati, che non faranno nient'al­ tro che perfezionarla. Conoscenze, sperimentazioni, metodi, una volta liberatesi della loro «filiazione mi­ litare o anche governamentale, sono apparsi agli occhi di tutti come dei motori culturali ed economici», come

se queste forze fossero il risultato di uno sviluppo na­ turale, immanente della scienza. È a partire da questo momento che si è cominciato a costruire la narrazione (ideologia) dell'imprenditore individuale, innovatore geniale, fiducioso nel mercato e scettico verso tutto ciò che sembra di origine statale, capace di prendere dei rischi inventando il computer portatile nel proprio garage. La Silicon Valley non è il frutto dello spirito di iniziativa degli imprenditori finalmente liberatasi dal­ la burocrazia, ma di cinquant'anni di enormi investi­ menti pubblici gestiti dalla struttura più gerarchizzata, disciplinare, distruttrice che sia mai esistita, l'esercito americano. Ancora oggi gli investimenti del Pentago­ no sono il doppio di quelli effettuati dalle GAFAM. Gli scienziati che hanno creato e dato impulso alle tecnologie cibernetiche e informatiche non erano in­ genui. Avevano perfettamente coscienza che le loro ri­ cerche dipendevano strettamente dalla guerra e dai fi. nanziamenti militari. Nel 1950, Wiener prevedeva che le nuove macchine cibernetiche si sarebbero insediate nel giro di dieci o vent'anni, a meno che «dei violenti cambiamenti politici o un'altra grande guerra» accele­ rassero il loro impiego. Con la fine del pieno impiego, gli armamenti diventano ancora più importanti per ri­ assorbire l'aumento della produzione una volta bloccati i salari. Aumentano vertiginosamente da anni e con la guerra attuale superano un'altra soglia, portando il col­ po mortale al modello del «welfare», la cui distruzione è l'obiettivo perseguito dagli anni Settanta. I pacifisti, agitando la parola d'ordine del disarmo, non si rendo­ no conto che ciò che domandano è lo smantellamento puro e semplice del capitalismo stesso perché senza industria bellica crolla, senza gli investimenti in arma­ menti stagna. Imporre il disarmo non è una politica pacifista, ma inaugura una rivoluzione che in ogni caso «non è un pranzo di gala».

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Per finire questa parte sulla guerra di conquista o di assoggettamento bisogna tornare a Marx. Il liberalismo deve cancellare la verità secondo la quale la costituzione violenta delle classi precede e rende possibile la produ­ zione rovesciando l'ordine del processo. Per il pensiero liberale l'appropriazione e la divisione sono questioni che devono essere poste dopo aver prodotto. Gli eco­ nomisti dicono: prima fabbricare la torta e soltanto in seguito si potrà appropriarsene e dividersela. L'aumen­ to della produzione e del consumo assicurati dallo svi­ luppo capitalistico risolveranno la «questione sociale». L'esperienza ha dimostrato che, quale che sia la cresci­ ta della produzione e della produttività, le divisioni di classe, la distribuzione della ricchezza e della miseria, la concentrazione della proprietà e del potere politico, l'appropriazione dei corpi e l'espropriazione dei saperi non soltanto si riproducono, ma si intensificano. Le nuove teorie della produzione, come anche la teoria del «comune», non sfuggono a questa illusione liberale perché operano un'inversione simile: la pro­ duzione del comune già in corso, fondata ontologica­ mente, conterrebbe in se stessa dei nuovi principi di «appropriazione e di divisione», senza dover passare attraverso «l'espropriazione degli espropriatori». Que­ sta parola d'ordine di Marx è ancora valida e significa rovesciare l'esito della guerra di conquista che aveva assoggettato donne, operai, colonizzati e riprendersi il suo «bottino»; riappropriarsi della terra e dei mezzi di produzione (dell'epoca dell'accumulazione primiti­ va e dell'epoca industriale), della ricchezza catturata dalla finanza (dell'epoca neoliberale), e soprattutto ri­ appropriarsi i corpi assoggettati (di ogni epoca). Sono le condizioni soggettive e oggettive della rivoluzione. Senza questa premessa la produzione, che sia affettiva, cognitiva o del comune, non potrà mai soggettivarsi, ma esprimerà solo impotenza.

4. M ichel Foucault: a proposito di un voltafaccia sulla guerra civile Laddove c'è la volontà, c'è una strada.

Lenin

L'affermazione della volontà nel processo di soggettivazione

Vediamo ora più da vicino come le teorie critiche trat­ tano il problema della guerra. Se negli anni Sessanta e Settanta la guerra è ancora presente, anche se mar­ ginalmente, nelle teorie che sono state elaborate nei lunghi anni della controrivoluzione, la guerra è pra­ ticamente scomparsa. Nei testi di Rancière e Badiou, che hanno occupato lo spazio della teoria politica degli ultimi vent'anni, cosi come nel femminismo e nell'e­ cologia, la guerra e le guerre non sono espressamente tematizzate altrimenti che in maniera congiunturale. È una grande differenza con il pensiero rivoluzionario, sintomo che si tratta di interrogare, perché potrebbe svelarci i limiti dei concetti e delle pratiche politiche contemporanee. La posizione di Foucault sulla guerra è tra le più interessanti, perché il filosofo ci si confronta diretta­ mente. Il suo punto di vista sulla guerra evolve negli anni. Dapprima ne fa il modello per la comprensione dei rapporti sociali, per poi abbandonarla. Ma se rifiu­ ta la guerra come modello, vuole conservare il punto di vista strategico come principio di intelligibilità dei 79

rapporti tra forze. Posizione unica e originale tra tutte, ma che svaluta e disprezza la tradizione strategica rivo­ luzionaria del XX secolo (Lenin, Trockij, Luxemburg, Mao, Giap) che è la sola capace di porsi al livello di un Clausewitz, prolungando e innovando in modo radi­ cale concetti che, nel generale prussiano, sono pensati soltanto dal punto di vista dello Stato. L'utilizzazione foucaultiana della guerra sembra seguire l'evoluzione dei movimenti politici: all'inizio degli anni Settanta, sull'onda del '68, adotta il model­ lo della guerra civile permanente come metodo per comprendere le relazioni di potere: «la guerra civile non è in un rapporto di esclusione con il potere», essa «si svolge sul teatro del potere» e coincide con le sue istituzioni e la sua gestione. «Non c'è guerra civile che nell'elemento politico costituito». Il suo lavoro consiste nel mostrare il gioco tra «una guerra civile permanen­ te e le tattiche che si oppongono al potere». Ma molto rapidamente, tra il 1975 e il 1976, rigetta la guerra come analizzatore dei rapporti di potere e adot­ ta la biopolitica e la governamentalità, tecniche che si impongono come principali dispositivi di gestione del neoliberalismo, nel momento stesso in cui i movimen­ ti politici nati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta declinano. La pacificazione teorica corrisponde alla pa­ cificazione politica. L'ordine della macchina Stato-capi­ tale si instaura. Il potere non sarebbe tanto «dell'ordine dello scontro tra due avversari [...] quanto dell'ordine del governo». Una relazione di potere è «un modo di azione che non agisce direttamente e immediatamen­ te sugli altri, ma che agisce sulla loro azione», azione su un'azione (governo politico), e non azione sul corpo (violenza). La relazione di potere perde la sua naturale violenza per ridursi esclusivamente a «sollecitazione, incitazione, impulsione» che agisce pacificamente sul80

la «soggettività» o, secondo un altro lessico, un affetto che agisce su un altro affetto. Quando Foucault tiene il suo seminario sul neolibe­ ralismo, le guerre civili in America Latina che hanno instaurato dei governi dove siedono fianco a fianco mi­ litari ed economisti neoliberali, sono ancora vive nella memoria di tutti. Se non parla della violenza armata che ha permesso l'avvio del primo laboratorio del ne­ oliberalismo, non è perché non aveva letto i giornali, ma perché la violenza armata e il consenso non defini­ scono il principio e la natura del potere. Quest'ultimo, nella sua forma contemporanea dal neoliberalismo, se­ condo lui perfettamente incarnata, «è azione su delle azioni possibili, cioè azione che rende possibile o im­ possibile, facilita o rende più difficile». Al contrario, il caso dell'America Latina dimostra che senza la forza il potere non avrebbe nessuna pos­ sibilità di sollecitare, indurre, incitare una soggettività in rivolta, mossa da altri desideri rispetto a quelli di lavorare, consumare, diventare un «capitale umano».

Gli affetti senza la forza sono impotenti e la forza senza i «desideri» non dura.

Perché la governamentalità possa agire è necessa­ rio che l'esperienza rivoluzionaria sia cancellata. La soggettività che vi si era impegnata aveva potuto fare diverse constatazioni: primo, di non aver più «paura» (affetto cardine per l'assoggettamento al potere moder­ no a partire da Hobbes); secondo di non aver bisogno di «sperare» (affetto inverso della paura che, in qual­ che mode, ne costituisce l'altra faccia solidale), ma piuttosto di aver fiducia nel «presente» del movimento rivoluzionario; terzo di non essere un «individuo», ma di appartenere a una classe (di lavoratori, di donne, di razzializzati) che lottano contro questi dualismi per sviluppare una molteplicità che non è la somma delle individualità. Ha anche scoperto che il desiderio non 8r

è una proprietà dell'individuo, un suo attributo, bensì supera, deborda il soggetto non verso l'inconscio, ma verso quel mondo «sconosciuto» che la rivolta ha fatto emergere e che si tratta di attraversare. Se il neoliberalismo deve «produrre» la libertà dell'individuo, la disponibilità a farsi agire dagli affet­ ti e dalle passioni della produzione e del consumo, è necessario che la molteplicità che si è dispiegata come movimento rivoluzionario sia ridotta a un insieme di individui e che la paura/speranza ritorni perché porta con sé la gerarchia, la colpa, la solitudine, la responsa­ bilità individuale, l'impotenza. Il primo obiettivo della governance, dopo aver vinto, è di cancellare la memo­ ria di quest'altra socializzazione che i movimenti rivo­ luzionari incarnano. Nietzsche spiega la genealogia del potere (da cui in­ vece Foucault sembra allontanarsi) attraverso la stessa successione che abbiamo adottato noi: un potere «dap­ prima conquistatore, in seguito dominatore [organiz­ zante] - regola ciò che doma per la sua propria conser­ vazione e per cui conserva ciò che doma» 1. Si potrebbe dimostrare con Nietzsche, ma anche 1 / il rapporto tra appropriazione e assoggettamento, tra guerra di con­ quista e formazione della «coscienza» dei dominati, che si attua trami­ te la violenza e le passioni, è stata concettualizzata e scritta, una volta per tutte, con delle lettere di fuoco, dal maestro di Foucault, Nietzsche: la cattiva coscienza, anima del dominato, di cui gli istinti «nomadi, sel­ vaggi e liberi [ ...] non si liberano verso l'esterno, si rivolgono invece verso l'interno», ha la sua origine in un «atto di violenza». Lo Stato è «un'orda qualsiasi di bestie da preda bionde, una razza di signori e conquistatori che, dotati di un'organizzazione guerriera, sottomette a una forma sta­ bile una popolazione fino ad allora senza forma e senza freni», posando su essa, senza esitare, «i suoi formidabili artigli». Lo Stato ha esercitato «una terrificante tirannia e un'inesorabile oppressione, fino a quando la materia prima, il popolo, i semi-animali, non abbiano finito non sol­ tanto di diventare malleabili e docili ma anche di essere formati». La macchina Stato-capitale moderna, con una violenza paragonabile, dà una forma specifica alle popolazioni dopo averle conquistate, assogget­ tandole in quanto classi.

con Hegel, che la socializzazione dei vinti operata dal potere conquistatore, diventato dominatore, non è ridu­ cibile all'alienazione impotente o alla «servitù volonta­ ria». «Sotto lo choc dei colpi di martello» della guerra di conquista, «una prodigiosa quantità di libertà» era scomparsa dal mondo per passare «allo stato latente» nell'interiorità del vinto. Il suo «istinto di libertà reso latente dalla violenza» è pronto a riemergere, in modo differente, quando le condizioni politiche sono riunite per rovesciarle nei conquistatori. La resistenza della «soggettività vinta» comincia il primo giorno della conquista. Conserva nella memoria la sconfitta come una «cicatrice» (Adorno), una ferita che non si rimargina, pronta però a cancellarle con la rivolta e la rivoluzione se le condizioni politiche lo per­ mettono. L'«anima» della soggettività vinta si sdoppia, contemporaneamente asservita e ribelle, assoggettata e sediziosa come ci raccontano tutte le esperienze delle vittime della conquista o della sconfitta.

Violenze e rivoluzione La normalizzazione del potere attuata dalla governa­ mentalità è la continuazione della guerra di assogget­ tamento con altri mezzi. Tuttavia, una volta consolidato il potere dei vincitori, i desideri, le passioni e le pulsioni suscitati dalla produzione e dal consumo, dai differenti dispositivi di regolazione o anche dalle tecniche disci­ plinari o biopolitiche, non bastano a governare i vinti, perché lo sfruttamento, il dominio sessuale e razziale possono sempre alimentare la rivolta e le lotte di classe. La governabilità deve necessariamente essere ac­ compagnata dalla trasformazione dell'uso della forza esercitata durante la conquista in una panoplia di vio­ lenze sui vinti (violenza sessuale, violenza dello sfrut-

tamento, violenza poliziesca, violenza del carcere, violenza impersonale dell'espropriazione finanziaria, violenza razziale, violenza contro i migranti, violenza della miseria, violenza di tutti i rapporti gerarchici). La violenza è l'individualizzazione della guerra di conquista. Nei periodi di «pace» lo Stato delega la violenza non soltanto alla polizia, ma a una serie di gruppi sociali che la esercitano quotidianamente in difesa della pro­ prietà, delle divisioni di classe, della supremazia bianca e maschile. La riproduzione dei rapporti di potere non si effettua solo con i dispositivi istituzionali o attraverso il lavoro, il welfare, la cittadinanza, ma passa anche per forme di potere personale, perché l'opera di pacificazio­ ne deve entrare nelle più piccole pieghe della società. Il sistema delle macchine in fabbrica ha bisogno della violenza «dispotica» del capo per funzionare. Da solo, nessun automatismo avrebbe la forza di imporsi. L'appropriazione delle donne, trasformata in «abitu­ dine» all'eterosessualità (altro tipo di automatismo), per riprodurre il rapporto di subordinazione necessita della violenza quotidiana dell'uomo sulla donna. La supremazia bianca richiede un esercizio continuo del rigetto, dell'insulto, del sospetto, dell'assassinio senza alcuna differenza tra chi lo esercita, polizia o cittadino, come mostra in modo esemplare l'America, o meglio le Americhe. La divisione delle classi, nonostante l'a­ zione della produzione, della moneta, del welfare, del diritto, non si riproduce senza una carica di violenza personale sulla quale veglia la polizia. Senza questa violenza personale, diffusa, pervasiva, i dispositivi di assoggettamento non produrrebbero corpi docili. Non c'è mai stata una conservazione della vita per tutti (Hobbes), né un accrescimento della potenza del­ la vita per la popolazione nel suo insieme (Foucault), né una protezione della vita dei cittadini senza discri­ minazione. Le vite sono selezionate tramite le divisioni

di classe, di genere e di razza. Certe vite meritano di essere conservate, altre sacrificate, certe vite devono essere protette, altre esposte alla violenza. L'individualizzazione a cui sono sottoposti gli scon­ fitti (diventare un soggetto) è innanzitutto un'individua­ lizzazione della guerra che diventa violenza invisibile proprio perché individualizzata. La violenza passa da un individuo a un altro individuo e ha il volto del quoti­ diano, del locale, del familiare. Non ha la spettacolarità della guerra, eppure non è che la sua trasformazione. Frantz Fanon ci dice che per battersi contro l'eser­ cizio quotidiano della violenza bisogna riconoscerla come individualizzazione della guerra di assoggetta­ mento, cioè politicizzarla come espressione della di­ visione di classe (bianchi e razzializzati). Le violenze sono la trasformazione della forza di appropriazione dei corpi in esercizio individualizzato del dominio. Il compito politico è trasformare le violenze individuali subite in forza collettiva e usarla in modo offensivo. Tra le forme di violenza che colpiscono la soggettivi­ tà Fanon annovera la violenza semantica, la violenza della parola mediatica, la violenza psichica degli affetti prodotti dalla «radio coloniale» (ordina, minaccia, in­ sulta) sull'anima dell'indigeno sottomesso. L'azione della parola sulle minoranze (razziali, ses­ suali) è al centro di un recente dibattito che la definisce come «parola che ferisce», «discorso odioso razzista, sessista, omofobo» che non si limita solo a descrivere, ma che vorrebbe istituire, attraverso la parola, ciò che il discorso odioso enuncia. «Il corpo può essere alterna­ tivamente fortificato o minacciato dalle differenti ma­ niere con cui gli viene indirizzata la parola», sostiene Judith Butler. I francesi sono sbarcati in Algeria nel 1830 con 150.000 soldati e l'hanno conquistata vincendo gli algerini. Alla conquista del corpo con le armi i colo-

nizzatori vorrebbero far seguire la conquista dell'ani­ ma. Una volta imposta la sua «pace», la radio è parte integrante delle strategie di assoggettamento del colo­ nizzatore francese. Nella colonia, la «dicotomia sociale raggiunge un'intensità incomparabile», in modo che la voce della radio è la «voce dell'oppressore, la voce del nemico». Si tratta di una violenza vissuta individual­ mente, una violenza che ciascuno subisce per conto proprio. «Qualunque parola francese ricevuta era un ordine, una minaccia o un insulto». In Algeria, la radio e i suoi affetti («poteri sensoria­ li») e i suoi poteri «intellettuali» sono oggetto di un rifiuto («la parola non è per niente ricevuta, decifrata, compresa, ma rifiutata»). Il rifiuto è dapprima passivo, non mira a rovesciare i rapporti di forza generali: «non vi è una resistenza organizzata». Il rifiuto della radio e delle sue informazioni non è l'espressione «di una resistenza esplicita, ordinata e fondata», resta ancora individuale. Gli affetti e la violenza della radio sulla soggettività emergono con forza se analizzati da un punto di vista psicopatologico. «Le monografie sui poveri algerini al­ lucinati segnalano costantemente nella cosiddetta fase d'azione esteriore, delle voci radiofoniche fortemente aggressive e ostili. Queste voci metalliche, pressanti, ingiuriose, sgradevoli, hanno tutte verso l'algerino un carattere accusatore, inquisitore». La soggettività vinta non si riduce mai alla «servitù volontaria». Resiste dal primo giorno della conquista, ma nella doppia e contemporanea forma della sotto­ missione e del rifiuto, pronta a socializzarsi quando il «desiderio» di liberazione trova nel punto di vista stra­ tegico la forza per rovesciare l'ordine dei vincitori. Una «vera mutazione» si produce il primo novem­ bre 1954 con il primo appello del Fnl al popolo alge­ rino, che segna l'inizio della guerra di indipendenza, 86

e nel 1956, con l'apertura delle emissioni radiofoniche dell'esercito di liberazione («La Voce dell'Algeria libe­ ra»). La «contestazione del principio stesso della do­ minazione straniera induce delle mutazioni essenziali nella coscienza del colonizzato, nella percezione che ha del colonizzatore, nella sua situazione di uomo nel mondo». Non so se la dichiarazione di guerra rientri nella ca­ tegoria del performativo, con cui si vorrebbero criticare le «parole che feriscono» i «discorsi che insultano». Sono invece sicuro che si tratta di una enunciazione collettiva, un evento che spacca la storia in due, de­ terminando un prima e un dopo il primo novembre 1954. Il soggetto politico non preesiste a questa rottu­ ra, ma si costituisce in essa. La «mutazione soggetti­ va» emerge da pratiche e dispositivi politici che sono strategici perché nominano il nemico, politicizzano le sue violenze come violenze di classe, facendole emer­ gere come modalità della guerra coloniale e mostran­ do come combatterle. L'emancipazione dalla violenza personale, quotidiana, pervasiva del colonizzatore non può limitarsi all'autodifesa, ma passa necessariamente per !'«espropriare gli espropriatori», cioè per il rove­ sciamento dell'esito della guerra di assoggettamento. La resistenza organizzata ostacola e rovescia il fun­ zionamento della violenza «individuale» colonialista. Nella guerra rivoluzionaria, il colonizzato diventa soggetto attivo, anche se non partecipa direttamente all'organizzazione politica, poiché la radio lo include in «una comunità in marcia» di cui si sente «attore». La ricezione dell'informazione non è più personale, non si fa più nell'isolamento e nella paura, ma ha luogo all'interno di una «comunità», di un «corpo sociale» di cui l'ascoltatore è un partecipante attivo. «Alla verità dell'oppressore un tempo rifiutata come menzogna as­ soluta, è opposta infine un'altra verità agitata». Per di-

ventare un «partigiano» dell'informazione c'è bisogno di una rottura politica e di una macchina politica che divide non solo l'informazione, ma la società. Fanon constata un cambiamento radicale anche dal punto di vista psicopatologico. Nelle psicosi allucina­ torie, «le voci radiofoniche diventano protettive, com­ plici. Gli insulti e le accuse spariscono e fanno spazio alle parole di incoraggiamento». Fanon imputa molte di queste patologie prodotte attraverso la violenza non alla macchina tecnica della radio, ma alla macchina da guerra del colonialismo e lavora alla costruzione di un'organizzazione rivoluzionaria, alla quale consegna il compito, se non di curarle, almeno di modificare l'ambiente per renderlo favorevole a un'evoluzione po­ sitiva della psiche ferita. «Ogni algerino si sente invi­ tato e vuole diventare un elemento della vasta rete di significati nata dalla battaglia liberatrice». Il passaggio dalla violenza individuale «micropoliti­ ca» subita alla dimensione dell'organizzazione colletti­ va produce le condizioni per una mutazione soggettiva perché permette di attaccare, di prendere l'iniziativa, di decidere il terreno dello scontro, rompendo il tempo dell'assoggettamento individuale, delle pratiche unica­ mente difensive, facendo migrare la paura nel campo avverso. La difesa o l'autodifesa non è che una delle forme di lotta praticabili. Non si sentono più le voci of­ fensive, minaccianti, perché c'è la possibilità reale di rovesciare l'assoggettamento in soggettivazione politi­ ca tramite pratiche e strategie collettive. La normalizzazione, che non produce solo violenza ma anche la credenza nella governamentalità come or­ ganizzazione dell'equilibrio (omeostasi dice Foucault) tra autonomia e controllo dei soggetti economici, tra imperativi economici e capacità di far crescere la vita, tra potenziamento della forza dei soggetti e loro conte­ nimento, è stata catastrofica. Questo equilibrio è, nel88

la sua pretesa di essere qualcosa di più che precario e temporaneo, una ideologia che il potere racconta di se stesso, perché, al contrario, è destinato necessariamen­ te a saltare. Foucault, una volta abbandonata la guerra civile di appropriazione e di assoggettamento dei corpi attraverso cui le classi sono state formate, non aveva più i mezzi per capire questa impossibilità. La guerra di conquista delle donne, degli operai e degli schiavi impone uno squilibrio tra proprietari e non proprie­ tari, tra dominanti e dominati, che la produzione che seguirà invece di colmare non farà che ingrandire. Il neoliberalismo, in barba all'equilibro tra la molteplici­ tà dei centri di potere, dei dispositivi disciplinari e bio­ politici, dell'azione delle agenzie statali e non statali, farà esplodere le differenze di classe, il razzismo, il sessi­ smo.farà risorgere ilfascismo, rovesciando la «tolleranza per le minoranze» enunciata in Nascita della biopolitica in livore contro i poveri, i perdenti, i non performanti, tutte le minoranze. Qui risiedono contraddizioni insa­ nabili che prima o poi non potranno che sfociare nella guerra, come ben sapevano i rivoluzionari.

La volontà e il principio strategico Foucault abbandona il modello della guerra per la governamentalità, ma non bisogna troppo esagerare l'importanza della sua teoria della guerra, perché tra il 1971 e il 1975 non si occupa che di due tipi di guerra, la «guerra delle razze» e la guerra civile del XIX secolo, due guerre cioè che hanno preceduto la Comune di Pa­ rigi. Non si è mai confrontato con i cambiamenti intro­ dotti dalle guerre mondiali, le nuove forme di integra­ zione della società al capitale e all'economia di guerra che il primo conflitto mondiale realizza, altrimenti che in un corso sul nazismo. E, cosa più importante, non

ha mai analizzato le guerre civili che le lotte di classe impongono all'imperialismo su tutto il globo e trascura le grandi innovazioni che i rivoluzionari fanno subire alla strategia e alla tattica del più importante stratega militare della modernità europea, Clausewitz. Foucault rifiuta la guerra e la guerra civile come ma­ trici del potere e nello stesso tempo vuole conservare il metodo strategico. Una strategia dove si confrontano dei «governanti e dei governati» che stabiliscono un rapporto tra forze già addomesticato e che si esercita in una situazione già normalizzata. Si tratta sempre di un rapporto tra forze ma regolato dal potere, all'inter­ no di coordinate che lui ha deciso e imposto; un rap­ porto di integrazione di una soggettività vinta, sulla quale gli «affetti» neoliberali del mercato, del credito, della competizione, del capitale umano agiscono per garantire una stabilità e una consolidazione del potere dei vincitori. I movimenti politici contemporanei, in seguito alla sconfitta della rivoluzione, hanno completamente perduto il punto di vista strategico con il quale si rap­ portavano al loro nemico storico che è il solo ad averlo conservato e sviluppato, utilizzandolo continuamente tanto in tempo di guerra che di pace. Come Foucault, noi dobbiamo appropriarci del sape­ re strategico, ma ritornando al pensiero e all'azione ri­ voluzionari della prima metà del XX secolo tratti dalle lotte, dalle guerre civili e dalle guerre tra Stati, costru­ iti e perfezionati nei lunghi anni dei conflitti contro le potenze imperiali e imperialiste. È questa la seconda cosa che dobbiamo salvaguardare dell'esperienza rivo­ luzionaria, al di là di tutte le critiche che possiamo fare a queste rivoluzioni. Il confronto con Foucault farà emergere la grande distanza che separa i due concetti di strategia. Tuttavia, il percorso intellettuale attraverso il quale Foucault arriva

alla strategia è particolarmente interessante, anche per una politica rivoluzionaria. Secondo il filosofo fran­ cese, l'analisi delle relazioni di potere non può essere correttamente condotta che facendo «intervenire il pro­ blema della volontà», concetto trascurato dalla tradizio­ ne filosofica occidentale e, al contrario, coltivato dalle teorie orientali che hanno sviluppato, molto presto, dei magnifici pensieri strategici (sfruttati e rinnovati dal­ le rivoluzioni asiatiche - solo in Cina, duemila libri di strategia sono stati scritti lungo la sua storia millenaria, costituendo una valida alternativa al pensiero teologi­ co-politico cristiano e occidentale). Le relazioni di potere sono investite sia da desideri che da schemi di razionalità, ma mettono in gioco an­ che la volontà. Nella «cultura francese attuale è qualco­ sa di cui non si parla mai, si parla di ragione, si parla di desiderio», ma mai di volontà. Più in generale, la filoso­ fia occidentale tratta «di coscienza, di desiderio, di pas­ sione», ma la volontà è la «sua più grande debolezza». È su quest'ultima che si concentra l'analisi di Foucault. Per cogliere il rapporto tra l'azione umana e la volon­ tà abbiamo a disposizione due soli modelli, naturale o morale, ai quali è subordinata. Dal primo è ridotta in «termini di volontà/natura/forza», dal secondo in termini di «volontà/legge/bene o male». Nietzsche in­ troduce un nuovo concetto di volontà, rovesciando «i rapporti tra il sapere, le passioni e la volontà», e fa gio­ care a quest'ultima un ruolo determinante nella costi­ tuzione della soggettività. «Essa �a volontà] non ha per niente bisogno di essere irrazionale. Non ha nemmeno bisogno di essere svuotata di desiderio [... ]. Direi che la volontà è precisamente questa cosa che, al di là di ogni calcolo di interesse e, se volete, al di là dell'imme­ diatezza del desiderio [... ] fissa, per un soggetto, la sua propria posizione. La volontà è l'atto del soggetto. E il soggetto è ciò che è fissato e determinato da un atto di 91

volontà». Soggetto e volontà «sono, di fatto, due nozio­ ni reciproche l'una dell'altra». Foucault trae questa conclusione da Nietzsche: la volontà è «un principio di decodifica intellettuale, un principio di comprensione per cogliere la realtà», che è lotta, conflitto, guerra. Questo principio di un reale che è scontro, conquista, dominio, ha una portata universale tanto per il mondo organico quanto per il mondo inor­ ganico, tanto per il corpo quanto per la società. Faccio notare, en passant, l'affinità di questo «reale» con un altro, più conosciuto, «tutta la storia è storia di lotte di classe». Ciò che li separa è, tra altre cose, la dialettica, ma di questo più tardi. In seguito la filosofia non è riuscita «a determinare chiaramente il metodo che avrebbe permesso di analiz­ zare l'azione dal punto di vista della volontà». Doman­ dandosi sotto quale forma si potrebbe pensare in modo nuovo la volontà, Foucault opera uno spiazzamento stu­ pefacente, ricco di sviluppi possibili. «Curiosamente, per pensare la volontà, non si è preso a prestito il meto­ do della strategia militare. Mi sembra che la questione della volontà possa essere posta in quanto lotta, cioè da un punto di vista strategico per analizzare un conflitto quando diversi antagonismi si sviluppano». L'impiego della strategia può chiarire due cose: in pri­ mo luogo, ciò che succede non si produce né senza ra­ gione né seguendo una causalità, ma può essere spiega­ to tramite il conflitto tra forze; secondo aspetto, le azioni umane implicate in questa lotta sono decifrabili «da un punto di vista strategico, come principio di conflitto e lotta». I concetti di «strategia, conflitto, lotta, evento» possono nominare «l'antagonismo che c'è quando si presenta una situazione dove gli avversari si fronteggia­ no, una situazione dove uno vince e l'altro perde, cioè l'evento». Il punto di vista strategico rende intelligibile tanto gli eventi storici quanto le azioni umane. 92

Ciò che sembra mancare alle teorie di Lyotard, Klossowski, Deleuze e Guattari, Lacan, al rinnova­ mento dello spinozismo, è propriamente una teoria della strategia, un punto di vista strategico. Si fermano al desiderio, all'affetto, alla passione (e alle loro azio­ ni reciproche) che riescono a cogliere solo una parte dell'azione umana e degli eventi storici. La critica di Foucault è più che interessante perché rende conto della pacificazione del capitalismo operata da queste teorie attraverso l'esclusione della volontà e quindi del reale come lotta e guerra delle classi. L'affermazione secondo la quale «la società capita­ lista non può sopportare nessuna manifestazione del desiderio» rischia di non essere vera, perché sarebbe necessario che i concatenamenti di desiderio sviluppas­ sero anche un principio strategico, in quanto il «reale» del capitalismo è lotta tra forze che rimandano alla guerra e alla guerra civile. Senza questo principio stra­ tegico, i desideri sono impotenti e verranno sicuramen­ te catturati e plasmati dalla macchina Stato-capitale. Le forze che agiscono nei e sui rapporti di potere sono affettive e razionali ma fissate e determinate dalla volontà che coincide con l'azione, che è l'azione stes­ sa. Non basta definire il reale attraverso le passioni, gli affetti, i desideri, bisogna anche cogliere chi vuole tramite l'affetto, chi vuole tramite il desiderio, chi vuo­ le tramite la razionalità. E questo chi non rimanda a un soggetto individuale, ma a una molteplicità di for­ ze che comandano e obbediscono. La volontà è il chi che produce la singolarizzazione del rapporto tra for­ ze, cioè le gerarchie tra forze, perché «in ogni volere si tratta soltanto di comandare e obbedire all'interno di una struttura complessa fatta da una molteplicità di anime», dirà Nietzsche. Per quanto riguarda il capitalismo possiamo affer­ mare che se una forza vuole essere obbedita deve vin93

cere la volontà di colui che non vuole sottomettersi con altra cosa che la semplice mobilitazione degli affetti e dei desideri, a meno di non supporre che tutti quanti desiderino e mirino alla «servitù volontaria». Volontà contro volontà, è la forza che decide! Allora, se la strategia militare è il metodo per coglie­ re la volontà come analizzatore dei rapporti di potere, non possiamo ridurre la forza all'affetto, non possiamo semplicemente identificarli. Lo stabilirsi di chi coman­ da e chi obbedisce non può essere ridotto a un gioco di antagonismi che coabitano con il governo di una de­ mocrazia conflittuale pacificamente regolata. Nel capi­ talismo, la governamentalità e la democrazia non sono che un momento di transizione del ciclo economico. È ciò che ci mostra la storia del capitalismo e ciò che sve­ la la nostra attualità se vogliamo guardarla in faccia. Anche in Nietzsche la forza non è soltanto «azione su un'altra azione», non è unicamente affezione di una «volontà su un'altra volontà» come sembra affermare Deleuze, ma è anche forza armata, coercizione fisica, appropriazione, furto, rapina, distruzione fisica, se­ questro, guerra. Foucault indietreggia! Dopo aver rivelato i limiti del­ le teorie fondate sul desiderio, sulla passione e sulla ra­ gione, opera a sua volta, a partire dalla metà degli anni Settanta, un processo di pacificazione delle relazioni di potere. Quest'ultimo viene codificato nel rapporto tra governanti e governati che non si può più definire «guerriero» bensl «governamentale», un potere cioè che non si limita a reprimere, ma positivamente offre delle possibilità all'agire. Questa fase comincia a chiu­ dersi già con la Prima guerra del Golfo, nel 1991.

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Il principio strategico della lotta delle classi I rivoluzionari non avevano certamente il problema fi. losofico di come comprendere il concetto di volontà, an­ che se ne facevano largamente uso nella pratica. Hanno invece immediatamente adottato la strategia militare per cercare di capire «gli eventi storici e le azioni uma­ ne». Il loro «reale» non è una lotta generica delle forze (attive/passive, creative/reattive che agiscono soltanto tramite affetti e passioni), né un potere che è relazione tra governanti e governati, ma è la lotta tra classi stori­ che da cui derivano la politica e le guerre reali. Il punto di vista strategico è il metodo per decifrare comporta­ menti ed eventi che si producono al loro interno. La strategia è stata il metodo che ha permesso loro di leggere correttamente le forze in lotta e di muoversi con sicurezza nel mare in burrasca delle guerre civili per riuscire a prendere le buone decisioni. E la volontà di vittoria e di liberazione li ha spinti a fare dei passi da gigante nella strategia, che Foucault sembra incre­ dibilmente ignorare o sottovalutare. Tre sono le critiche principali che Foucault rivolge al marxismo e alla tradizione rivoluzionaria: di aver pro­ dotto, quando c'è, un sapere strategico approssimativo; di interpretare i rapporti di forza attraverso il princi­ pio della lotta di classe ma all'interno della dialettica della contraddizione; di privilegiare un punto di vista sociologico (la classe) invece di adottare un punto di vista strategico (la lotta). I grandi Stati del XIX secolo si sarebbero dotati, secondo Foucault, di un pensiero strategico, mentre le lotte rivoluzionarie non pensano e non utilizzano la strategia che in un modo congiun­ turale e approssimativo. La critica ha di mira dapprima Lenin e la «sua teoria dell'anello più debole [...] azione locale che, grazie alla scelta della sua ubicazione, agirà, radicalmente, sul 95

tutto». È costretto a riconoscere che Lenin ha permes­ so «di pensare l'imprevedibile per il marxismo>>, cioè la Rivoluzione sovietica, e dunque che si tratta di una posizione strategica e non dialettica - «molto elementare del resto», Foucault aggiunge immediatamente dopo. Il povero Lenin è accusato di aver elaborato una stra­ tegia «a livello del primo addestramento di un sottote­ nente di riserva [...]. Costituisce il minimo accettabile per un pensiero comandato dalla forma dialettica che resta ancora molto vicino alla dialettica». Al problema della debolezza strategica e della dialettica si aggiunge un altro problema: «Ciò che mi colpisce nella maggior parte dei testi, se non di Marx, ma dei marxisti, è che non si dice (salvo, forse, in Trockij) cosa si intende con lotta di classe. Cosa significa qui lotta? Scontro dialet­ tico? Combattimento politico per il potere? Battaglia economica? La società civile attraversata dalla lotta di classe, sarebbe la guerra continuata con altri mezzi?». Foucault ripeterà spesso l'accusa di sociologismo, perché per lui il problema non è per niente «la socio­ logia delle classi, ma il metodo strategico della lotta». Quello che lo interessa sono le forme di lotta: «chi en­ tra nella lotta, con cosa e come? Perché c'è questa lotta? Su che cosa si basa? [...] Poiché si dice lotta, si tratta allora di conflitto e di guerra. Ma come si sviluppa que­ sta guerra?». Contrariamente a quello che Foucault crede, il prin­ cipio strategico e le domande che si fa sono le cose che interessano in modo quasi ossessivo i rivoluzionari. Noi dovremmo conservare molte di queste ossessioni per ridefinire una politica rivoluzionaria, in particola­ re l'uso non congiunturale ma sistematico della stra­ tegia. Basta anche solo sfogliare i testi di Lenin, Mao, Ho Chi Minh, Giap ecc. per accorgersi che la maggior parte sono dedicati a problemi di tattica e di strategia, a una definizione precisa dei differenti tipi di guerra (di

conquista, coloniale, civile, di liberazione, nazionale, imperialista) e di lotta (lo sciopero è considerato come una «scuola di guerra»). Lenin era un grande ammiratore dell'opera di Clau­ sewitz, che legge contemporaneamente a Hegel all'ini­ zio della Grande guerra. Le sue note di lettura di Della guerra costituiscono «uno dei documenti più grandiosi della storia universale e della storia delle idee», dice - esagerando - Carl Schmitt. Il giurista tedesco cita così il pensiero di Hahlweg, specialista dello strate­ ga prussiano, sul rapporto che Lenin stabilisce con Clausewitz: «l'originalità di Lenin è di aver continuato Clausewitz, di averlo fatto passare dallo stadio della rivoluzione (borghese ai suoi inizi) del 1789 alla rivo­ luzione proletaria del 1917 e di aver riconosciuto che la guerra, che da statale e nazionale diventava guerra di classe, ha preso il posto della crisi in Marx ed En­ gels». È un'argomentazione fondamentale per capire il XX secolo. Schmitt cita ancora Hahlweg che affer­ ma: Lenin chiarisce, tramite la formula «la politica è la continuazione della guerra», «quasi tutti i problemi fondamentali del conflitto rivoluzionario: analisi (di classe) della guerra mondiale e problemi connessi, opportunismo, difesa della patria, guerra di liberazio­ ne nazionale, differenza tra guerre giuste e ingiuste, relazione tra guerra e pace, tra rivoluzione e guerra, rivoluzione della classe operaia all'interno dello Stato per mettere fine alla guerra imperialista». Uso Carl Schmitt perché è nello stesso tempo un ne­ mico dichiarato della rivoluzione (il Lenin della contro­ rivoluzione, ma solo dal punto di vista teorico, perché politicamente avrebbe voluto, ma non ha mai contato molto) e quello che ha sicuramente colto meglio la for­ za e il pericolo politico che i rivoluzionari del XX se­ colo rappresentavano per la sua classe. L'insieme del rinnovamento dei concetti politici di Schmitt deriva da 97

un lungo confronto e dal fascino per l'intelligenza po­ litica, organizzativa, strategica di questi rivoluzionari: «Viviamo sous l'oeil des Russes [...] si vive sempre sotto l'occhio di questo fratello estremista che vi obbliga a portare la conclusione pratica fino al suo termine». Il più grande lavoro di studio ma soprattutto di in­ novazione strategica dell'insegnamento di Clausewitz è stato fatto durante le rivoluzioni cinese e vietnamita. Schmitt definisce Mao un «nuovo Clausewitz» perché sviluppa in «modo sistematico dei concetti dell'ufficia­ le dello Stato maggiore prussiano». Mao stesso spiega come, grazie alla politica del Partito comunista, «la guerra partigiana anti-giapponese esce dal quadro del­ la tattica e bussa alla porta della strategia», trasforman­ do la «piccola guerra» del generale prussiano in un pilastro della «guerra prolungata». A ogni momento critico delle guerre in cui erano impegnati, i rivoluzio­ nari fornivano una nuova lettura di Della guerra. Mao organizzerà dei seminari nel 1938-39 a partire dall'o­ pera di Clausewitz. La stessa cosa farà il generale Giap durante la battaglia di Hanoi. I risultati non si faranno attendere: «l'alleanza della filosofia e del partigiano, conclusa da Lenin, libererà delle nuove forze esplosive e inattese», che faranno crollare successivamente gli imperi europei e coloniali. Il loro principio strategico è la lotta di classe, con il quale correggono e completano Clausewitz da differen­ ti punti di vista: l'ostilità non è quella tra Stati, sempre relativa, perché, anche combattendosi, sono dalla stes­ sa parte della barricata (formano tutti una macchina da guerra contro il proletariato anche se sono in con­ correnza tra loro). L'ostilità principale è costituita dalla lotta di classe che fa scoppiare i «limiti» della guerra regolare che il «diritto delle genti europee» aveva stabi­ lito e che il Congresso di Vienna aveva reimposto dopo la fine delle guerre napoleoniche: «la guerra limitata»

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(che è ancora la guerra di Clausewitz) paragonata alla guerra imperialista e alla guerra partigiana scatenata dall'ostilità della rivoluzione, «non è molto di più che un duello tra uomini d'onore». È questa radicalità della guerra e della rivoluzione che Foucault non coglie, per­ ché le «sue» guerre sono ancora quelle del XIX secolo. La politica che la guerra continua non è solo quella degli Stati, ma è anche e soprattutto la politica della lotta di classe che, facendo irruzione con la rivoluzio­ ne francese e soprattutto con la Rivoluzione sovietica, sconvolge le funzioni e la legittimità dello Stato stesso. A loro volta questa economia e questa politica da cui si origina la guerra tra Stati, sono la continuazione della guerra di conquista che ha formato le classi e distribui­ to proprietà e non proprietà ai vincitori e ai vinti. Schmitt è costretto a introdurre un nuovo concetto di politico perché sono sorti nuovi soggetti politici (le clas­ si e le razze, la classe operaia e i popoli colonizzati) che impediscono la sua identificazione con lo Stato, fino ad allora il solo soggetto politico in campo. Questo nuovo concetto è elaborato «sotto l'occhio dei russi», perché è Lenin «che ha spostato il centro di gravità concettuale della guerra sul politico, cioè sulla distinzione ami­ co-nemico». Tale spostamento, che politicizza la guerra, è il presupposto necessario per rovesciare la guerra im­ perialista in guerra civile mondiale. Schmitt è affasci­ nato da come il nemico di classe maneggi la tattica e la strategia per trasformare la guerra del 1914, cominciata «come una guerra convenzionale tra Stati condotta se­ condo il diritto internazionale europeo in una guerra ci­ vile mondiale nata dall'ostilità rivoluzionaria di classe». Il principio strategico è appropriato e arricchito dai rivoluzionari, ma l'«azione umana» che deve spiegare è la lotta di classe.

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La dialettica e la contraddizione

La critica più valida di Foucault riguarda la dialetti­ ca («povera, molto povera») e la contraddizione. «Un rapporto reciproco non è un rapporto dialettico [...] il fatto che il frutto del vostro lavoro sia appropriato da un altro è un fatto, non è tuttavia una contraddizione né un rapporto reciproco; è l'oggetto di un conflitto, di uno scontro». Se «è importante capire che la lotta, i processi con­ flittuali non costituiscono, come presuppone il punto di vista dialettico, una contraddizione nel senso logico del termine», bisogna sottolineare che per i rivoluzio­ nari non si tratta di una contraddizione logica bensì reale, prodotta dallo sviluppo capitalistico. Il suo riferimento è sempre Nietzsche, che descrive gli antagonismi senza riferimento alcuno alla dialettica. Foucault ha pienamente ragione, il rapporto di capitale non è un rapporto dialettico, ma di guerra/produzione perché si tratta, fin dall'inizio, di una appropriazione, di una conquista che continua, trasformandosi, nella governamentalità economica e politica, attraverso cui la guerra civile continua a scorrere. Lo sviluppo di questi rapporti non dipende da «nessuna legge della storia», ma dall'«azzardo» della lotta, dall'imprevedibile del conflitto che può risolversi con la vittoria di una delle classi, ma anche con la loro implosione. Questa critica deve, malgrado tutto, essere sfu­ mata: se il quadro teorico generale resta quello della filosofia della storia (di una rivoluzione mondiale ne­ cessaria e inevitabile!) e della dialettica, l'azione reale è senza dubbio pensata e praticata come un conflitto strategico non riconciliabile, cioè senza mediazione possibile e senza superamento. Foucault rimprovera ai marxisti di «parlare di lotta della classe come motore della storia» e di preoccuparsi di «sapere che cos'è la 100

classe, dove si situa, chi ingloba, ma mai di ciò che è concretamente la lotta». In realtà, questi rivoluzionari analizzano con la lente di ingrandimento, al di là delle possibilità politiche di un intellettuale francese, ogni tipo di mobilitazione2 , la loro natura3 , interpretandole, vivisezionandole in tutte le loro componenti, tenendo conto di una grande quantità di parametri: il tempo, lo spazio, la composizione sociologica, ma soprattutto l'elemento soggettivo, la radicalità soggettiva. La guerra è sempre letta dal punto di vista della guerra civile tra classi, dunque studiano con particola­ re attenzione i comportamenti delle masse poiché sono queste e non gli Stati i veri soggetti politici. Sarebbe più corretto parlare di guerra partigiana piuttosto che di guerra. La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile partigiana opera il rovesciamento della guerra totale, che decreta la «mobilitazione totale» di tutte le forze sociali per la guerra imperialista, nella mobilitazione di ogni forza proletaria dapprima per cercare di impedire la guerra e in seguito per elimina­ re, con il capitalismo, le cause della guerra. Lenin fa notare che !'«entrata nella lotta» dei popoli oppressi è l'evento più importante della prima metà del XX secolo, perché le rivoluzioni che ne derivano rom2/ Già ne La guerra partigiana Lenin smentisce il giudizio del filosofo francese, del resto assolutamente gratuito: «Prima gli scioperi eco­ nomici degli operai (1896-1900), poi le dimostrazioni politiche degli operai e degli studenti (1901-1902), le rivolte contadine (1902), l'inizio degli scioperi politici di massa variamente combinati con dimostrazioni (Rostov 1902, gli scioperi dell'estate 1903, il 9 gennaio 1905), lo scio­ pero politico in tutta la Russia con episodi locali di lotta sulle barricate (ottobre 1905), la lotta di massa, le barricate e l'insurrezione armata (dicembre 1905), la lotta pacifica parlamentare (aprile-giugno 1906), le insurrezioni parziali nell'esercito (giugno 1905-luglio 1906), le insurre­ zioni parziali dei contadini (autunno 1905-autunno 1906)». 3/ La molteplicità delle mobilizzazioni implica la molteplicità delle forme di lotta. Sempre secondo Lenin: «si sono succedute diverse for­ me di movimento, legali o illegali, pacifiche o burrascose, clandestine o pubbliche, circoli o movimenti di massa, parlamentari o terroristici». 101

pono per sempre l'organizzazione del mercato mon­ diale fondata sulla conquista e sull'organizzazione coloniale, e sconvolgono anche per sempre il rapporto tra Nord e Sud sul quale la macchina Stato-capitale era da quattro secoli stata organizzata. Il posizionamento strategico della Rivoluzione so­ vietica, piuttosto che riconoscersi nello slogan dell'«a­ nello più debole», deriva direttamente dall'entrata dei colonizzati nella lotta. «Un singolare concorso di circo­ stanze ha dapprima trainato la Russia nella guerra im­ perialista mondiale dove erano impegnati tutti i paesi occidentali influenti» e ha situato la «sua evoluzione al limite delle rivoluzioni nascenti e delle rivoluzioni parzialmente cominciate dell'Oriente». Proprio al limi­ te tra il Nord e il Sud, «nelle condizioni che ci permet­ tevano di realizzare l'unione della guerra contadina e del movimento operaio, che un "marxista" come Marx considerava, nel 1856, come una delle prospettive pos­ sibili per la Prussia». La rivoluzione mondiale è possibile per la prima vol­ ta e il principio strategico deve adattarsi a questa nuova regola. La guerra è un processo che cambia continua­ mente, ma è l'evoluzione delle masse nella guerra che interessa i rivoluzionari (come ci entrano, come le loro azioni e le loro coscienze cambiano secondo il succe­ dersi degli avvenimenti). È una «competizione di for­ ze, ma nel corso della guerra si modificano esse stesse in rapporto a quello che erano all'inizio del conflitto». Le variabili di cui si deve tener conto nella guerra/rivoluzione sono talmente numerose che sfuggono agli strumenti «grossolani» della dialettica. La diversità degli elementi che entrano in gioco nel processo rivo­ luzionario complica la decisione perché, come ricorda Trockij, l'opposizione tra una situazione rivoluzionaria e una situazione non rivoluzionaria è un'opposizione metafisica. Nel capitalismo «sono le situazioni inter102

medie, transitorie, tra una situazione non rivoluzio­ naria e una situazione prerivoluzionaria, tra una si­ tuazione rivoluzionaria o controrivoluzionaria [...] che hanno un'importanza decisiva dal punto di vista della strategia politica». Foucault rimprovera ai marxisti di non avere un principio strategico per leggere la molteplicità delle lotte, di non sapere cioè dove vanno a parare, mentre invece la rivoluzione è chiaramente definita da Rosa Luxemburg come un processo che deve organizzare il passaggio dallo sciopero alla guerra civile. Quest'ulti­ ma costituisce una fase della lotta di classe, la sua tra­ sformazione in scontro armato: «scioperi economici e politici, scioperi di massa e scioperi parziali, scioperi di dimostrazione o di scontro, scioperi generali di set­ tori particolari o di città intere, lotte rivendicative pa­ cifiche o battaglie di strada, conflitti con le barricate: tutte queste forme di lotta si incrociano, si attraver­ sano o si trasformano l'una nell'altra: è un oceano di fenomeni eternamente nuovi e fluttuanti la cui legge di movimento sta nei rapporti di forza politici e sociali della rivoluzione». Per la «ricca concentrazione delle forme, delle sfumature, dei metodi di lotta di tutte le classi della società» espresse nella Rivoluzione sovie­ tica, gli strumenti della dialettica sono effettivamente largamente insufficienti. Se la filosofia della storia assicura la vittoria fina­ le del proletariato, la vittoria in una rivoluzione non è garantita da niente e da nessuno. Questa celebre frase di Lenin a proposito dell'ottobre 1917, mostra che la dialettica non è di grande aiuto perché il rischio che bisogna assumere nell'insurrezione o nella guerra di lunga durata deve confrontarsi con l'imprevedibilità e con l'incertezza dello scontro, il cui esito non può esse­ re anticipato da nessuna dialettica. «Napoleone ha det103

to "On s'engage et puis... on voit". È quello che abbiamo fatto». Le scelte strategiche non fuoriescono da uno stam­ po dialettico, ma devono essere inventate seguendo il corso degli eventi, ogni volta a partire da una situazio­ ne concreta, da un'analisi precisa delle forze in lizza: una strategia pragmatica piuttosto che una dialettica. Il conflitto e soprattutto la guerra sono degli eventi, o meglio une serie di eventi concatenati che accadono nello stesso tempo, i cui effetti di incrociano, si oppon­ gono e si compongono dando luogo a una molteplicità di rapporti di forza che cambiano di continuo. I com­ portamenti dei soggetti che si lanciano nella lotta sono imprevedibili, le situazioni strategiche cambiano da un giorno all'altro (la guerra è, per Clausewitz, un «ca­ maleonte»), in modo che Lenin può affermare che una parola d'ordine valida oggi può non esserlo più domani. «Riconosciamo che è molto più difficile orientarsi nella guerra che in qualsiasi altro fenomeno sociale perché comporta meno certezze, e cioè, è ancor più una questione di probabilità». Questa citazione di Mao è sicuramente una riflessione fatta a partire da un testo di Clausewitz4 • Per i due strateghi la guerra combina l'analisi razionale delle forze del nemico, del­ le proprie forze, della situazione politica locale e mon­ diale e, ancora, la «nebbia della guerra», dove la parte dell'imprevedibile e del caso («il gioco delle probabilità e del caso») gioca un ruolo cardine. 4/ «La guerra è il dominio del caso. Nessun'altra sfera dell'attività umana lascia tanto margine a questo straniero, poiché nessuna si trova, da ogni punto di vista, in contatto cosi permanente con lui. Accentua l'incertezza in ogni circostanza e ostacola il corso degli eventi. A causa dell'incertezza di tutte le informazioni, di ogni base solida, e di questi interventi costanti del caso, la persona che agisce si trova continuamen· te davanti della realtà differenti da quelle che si aspettava[... ] tre quarti degli elementi sui quali si fonda l'azione restano nella nebbia di un'in­ certezza più o meno grande». 104

Se c'è un'azione dove il rapporto tra affetti e ragione da una parte e volontà dall'altra si rovescia, dove la volontà fissa la posizione del soggetto, è proprio l'azione rivoluzio­ naria: altamente affettiva, guidata dalle ragioni delle situazioni, determinata dalla volontà politica. Da qui l'importanza del processo di soggettivazione per la pratica rivoluzionaria, dell'elemento soggettivo nello sciopero come nella guerra. Se la strategia non può in nessun caso essere dialet­ tica, il quadro generale lo resta per i rivoluzionari, per­ ché la lotta deve risolversi nello scontro dei «contrari», da cui si esce o vittoriosi o vinti. In ogni modo si tratta di una dialettica che non prevede alcuna riconciliazio­ ne, nessuna sintesi. Schmitt fa notare che il «sistema ternario» hegeliano «non ha forza di impatto polemica dell'antitesi dualista» il cui esempio «più eclatante, che ha avuto delle enormi conseguenze, è quello dell'antite­ si del borghese e del proletario formulata da Karl Marx». Per ogni rivoluzionario della prima metà del XX se­ colo la società è divisa («tutto si divide, anche l'atomo», dirà Mao citando Lenin) e questa divisione in classi è non riconciliabile. La «sintesi» dialettica dei contrari, in questo caso il Kuomintang e il Partito comunista, si è effettuata nel modo seguente: «i loro eserciti avan­ zavano e noi li divoravamo, mangiandoli pezzo dopo pezzo [...] la sintesi è che un pesce grosso mangia un pesce più piccolo». In ogni modo è curioso il lavoro sulla dialettica con­ dotto da Lenin e Mao, perché tanto in Russia quanto in Cina non c'erano molte mediazioni possibili, l'inte­ grazione del proletariato nella macchina Stato-capitale era praticamente inesistente. Nessuna dialettica era dunque in atto, ciò che esisteva era piuttosto una ge­ stione tramite una violenza apertamente assunta dal potere. Diversa la situazione nel Nord, dove la rottura

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della dialettica, della mediazione integratrice, era un vero problema. Malgrado il contributo geniale che Foucault porta nel cogliere i limiti di ogni teoria del desiderio, degli affetti, delle passioni, è ingiustificato il suo modo di guardare all'esperienza rivoluzionaria del XX secolo. Tanto più che la strategia che si arrabatta a costruire con Nietzsche è poca cosa confrontata alla «guerra partigiana». La sua svalutazione delle strategie rivolu­ zionarie anticipa l'indifferenza dei movimenti politici contemporanei.

Il rimosso della guerra di assoggettamento La «insuperabilità» del marxismo sta nell'afferma­ zione che la genealogia del capitalismo è radicata in una guerra civile di assoggettamento che stabilisce gerarchie tra chi possiede e chi non possiede, tra chi comanda e chi obbedisce. La differenza non va diffe­ renziandosi, ma si afferma da subito come differenza di potere, differenza tra chi comanda e chi obbedisce, tra chi deve lavorare e chi vive del lavoro altrui. La dif­ ferenza è gerarchia di potere. Le teorie della produzione di soggettività degli anni Settanta, e soprattutto quelle contemporanee, si sono ingegnate a cancellare ogni traccia delle guerre di as­ soggettamento. La cosa è particolarmente piccante in Foucault che, abbandonando la guerra civile e il conse­ guente assoggettamento dei vinti, fa di quest'ultimo la specificità del potere e delle lotte per combatterlo. L'as­ soggettamento, per come lo intende il filosofo, non è la prosecuzione della guerra di conquista con altri mezzi, ma il frutto di tecniche di potere specifiche che, agen­ do nella vita quotidiana, organizzano lo spazio e seque­ strano il tempo, producendo un potere «che classifica 106

gli individui in categorie e definisce la loro individua­ lità, li appende alla loro identità». L'assoggettamento è una relazione di potere a sé stante, che cancella ogni rapporto con la guerra di conquista, ossia nega che la violenza dell'assoggettamento sia l'individualizzazio­ ne della guerra di conquista perché, a differenza di Nietzsche, non riconosce l'esistenza di quest'ultima. Le lotte non hanno più come obiettivo lo sfruttamen­ to, la ricchezza dei pochi e la misera dei molti, le di­ seguaglianze di classe, le guerre, le rivoluzioni. Tutti i vecchi obiettivi politici sono «rimpiazzati da un proble­ ma di eccesso di potere» che si manifesta tramite «una particolare tecnica, una particolare forma di potere», l'assoggettamento individualizzante. Le lotte non de­ vono «attaccare una particolare istituzione di potere, o gruppo, o classe, o élite» perché lo spazio politico è tut­ to ridotto e compreso tra queste tecniche di assoggetta­ mento e l'«invenzione del sé» attraverso le «tecnologie del sé». La lotta contro il potere è limitata a «promuo­ vere nuove forme di soggettività, rifiutando il tipo di individualità che ci è stato imposto per diversi secoli». La strategia etico-estetica che Foucault adotta alla fine della sua vita è semplicemente impossibile perché rimuove il fondamento dell'assoggettamento: l'appro­ priazione violenta dei corpi. Questa rimozione è il li­ mite di tutte le teorie della produzione di soggettività. È chiaro che questa separazione tra lotte delle classi, guerra, rivoluzione e invenzione e produzione del sé attraverso tecniche del sé, è un'eredità di cui dobbiamo sbarazzarci perché è una delle cause del disarmo poli­ tico e teorico che ci ha reso impotenti come non mai di fronte al potere interno (neoliberalismo), lontanissimo dal ridursi alle categorie di Foucault, e altrettanto im­ potenti, se non di più, di fronte al potere esterno della guerra tra Stati, che il filosofo non prende neanche in considerazione. Per riprendere l'iniziativa bisogna al

contrario concatenare quello che questa concezione del potere separa inesorabilmente: la produzione di sog­ gettività, le lotte di classe e le guerre. Se prima abbiamo detto che il marxismo è insupera­ bile, ora diciamo che ha dimostrato di non esserlo vera­ mente: infatti, se il capitalismo comincia effettivamen­ te, a differenza di Foucault, con la presa e la conquista dei corpi, lo fa operando un'appropriazione multipla che non riguarda solo i lavoratori. Il capitale potrà ini­ ziare a produrre profitto solo quando avrà riaffermato il potere sulle donne e quando gli africani saranno di­ ventati schiavi e i nativi americani colonizzati. Questa molteplicità non può essere ridotta al rapporto capita­ le-lavoro, da cui il rapido declino della «lotta di classe», perché le lotte delle donne e dei colonizzati fanno sor­ gere nuovi soggetti politici che chiedono autonomia e indipendenza dal movimento operaio. I tentativi delle diverse produzioni (affettive, deside­ ranti, cognitive ecc.) falliscono perché non assumono il principio strategico (abbandonando sia le lotte di classe che le guerre) per spiegare il reale. Se Foucault lo man­ tiene è per pacificarlo completamente, riducendolo alla regolazione dei conflitti democratici, incapace di spie­ gare l'esplosione delle guerre. Non c'è più guerra civile nella governamentalità ma solo un neoliberalismo di cui Foucault è incapace di pensare i risultati: guerra civile strisciante all'interno e guerra tra imperialismi all'esterno, dentro un quadro generale che è quello del­ la catastrofe ecologica.

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5. Globalizzazione: macchina da guerra, Impero o imperialismo? Come Stato e capitale si integrano senza identificarsi Passiamo ora ad analizzare il punto di vista di Deleuze e Guattari (DG) e di Negri e Hardt (NH) a proposito del rapporto che stabiliscono tra il capitalismo e la guerra, perché possiamo trovare molti argomenti che si intrecciano e perché entrambi decretano il supera­ mento dell'imperialismo. Concentreremo la nostra at­ tenzione sulla loro definizione del funzionamento del mercato mondiale e della globalizzazione (e in modo particolare sul rapporto che lo Stato stabilisce con il ca­ pitale), confrontandola con la situazione determinata dallo scontro armato in Ucraina, che sembra smentire sia le tesi espresse in Mille piani che quelle di Impero. La teoria della guerra di DG è strutturata intorno al concetto di «macchina da guerra», la cui origine è fatta risalire ai popoli nomadi. La sua prima caratteristica è di non essere immediatamente riconducibile allo Stato che dovrà appropriarsela; in principio, la sua natura diverge da quella della sovranità statale. DG cercano in questa «esteriorità» un'alternativa all'esperienza delle rivoluzioni perché i partiti che le hanno condotte «si sono costituiti come embrioni di dispositivi dello Sta­ to, invece di formare delle macchine da guerra irridu­ cibili a questi dispositivi». DG si confrontano a lungo, come tutti i rivoluziona109

ri della prima metà del XX secolo, con le teorie di Clau­ sewitz. Ma mentre DG leggono la guerra teorizzata dal generale prussiano dal punto di vista di una macchina da guerra nomade, i rivoluzionari la interpretavano a partire dalla guerra civile e dalla guerra partigiana del proletariato. I nomadi non attribuiscono alla macchi­ na da guerra la guerra come sua finalità esclusiva, ma piuttosto la capacità di creare un'altra organizzazione del tempo e dello spazio («liscio») rispetto al dominio sovrano del territorio («spazio striato», gerarchizzato, diviso, limitato da frontiere, controllato). Lo Stato sa­ rebbe invece costretto ad appropriarsi di questa «este­ riorità» e a fare della guerra il suo scopo. A differenza di Foucault che le evita, l'analisi si con­ centra sulle guerre «totali» (Prima e Seconda guerra mondiale) che sembrano realizzare il concetto di guer­ ra pura, di «guerra ideale», di guerra assoluta, che Clausewitz aveva contrapposto alle guerre empiriche, le guerre realmente esistenti, il cui funzionamento e le cui finalità sono subordinati allo Stato. Il concetto di «guerra ideale», incondizionata, senza limiti, libera la guerra dalla sua subordinazione allo Stato e tende a fare della guerra una realtà autonoma. Gli Stati che si erano appropriati della macchina da guerra nomade e l'avevano subordinata ai propri scopi di potenza contro altre potenze, tendono ora, attraverso le guerre totali che «conducevano gli uni contro gli altri», a ricostruir­ ne una macchina da guerra mondiale, economico-po­ litica, che corrisponde al mercato mondiale, di cui gli Stati non sono più che «degli oggetti e dei mezzi appro­ priati a questa nuova macchina». La guerra totale ha uno stretto legame con il capitali­ smo, perché diventa guerra industriale, trasformando l'economia in produzione per la guerra e coinvolgendo in essa la società e la popolazione nel loro insieme. L'o­ biettivo che la guerra totale deve distruggere non è solo IIO

l'esercito e lo Stato nemico, ma anche «l'intera popo­ lazione e la sua economia». Non sembra invece avere molti legami con le lotte di classe e le guerre civili. Fer­ nand Braudel faceva notare che alla vigilia della Prima guerra mondiale l'Europa era pronta a passare al socia­ lismo e la distruzione di questa minaccia, che la Rivo­ luzione sovietica farà risorgere come un incubo per la borghesia, costituirà una delle principali ragioni d'es­ sere del fascismo e del nazismo. Molto stranamente, nella storia universale tracciata da DG, la rivoluzione gioca un ruolo minore o addirittura assente, probabil­ mente perché «le rivoluzioni finiscono sempre male». La macchina da guerra che tende a liberarsi dello Stato subordinarlo a sé, si presenta sotto due figure: la prima è quella del fascismo che fa della guerra «un movimento senza limiti che non ha altro scopo» che il suo proprio espandersi. La seconda figura è quella dei «trenta gloriosi», in cui la macchina da guerra non ha più la guerra come scopo principale, ma tende invece verso «una forma della pace ancora più terrificante», la «pace del Terrore e della Sopravvivenza». Ora, si fa carico degli obiettivi che erano propri degli Stati, «la pace, la politica, l'ordine mondiale». «È la pace che li­ bera tecnicamente il processo materiale illimitato della guerra totale», che si realizza nella forma della Terza guerra mondiale (la Guerra fredda). Il mondo ridiventa uno spazio liscio, transnazionale, dove regna «una sola e stessa macchina da guerra» economico-politica. Le guerre non scompaiono, ma sono «diventate parti della pace». Neanche gli Stati spariscono, ma costituiscono ora soltanto delle parti di una sola macchina globale che resta tale anche quando dei suoi Stati si oppongono. Il XX secolo è stato il teatro di scontri di classe che le guerre totali non riescono a domare e a controllare, se non molto parzialmente. Mentre DG leggono la fine della Seconda guerra mondiale come l'imposizione di III

une pace sia pur terrificante, Carl Schmitt e Hannah Arendt parlano nel 1961 di «guerra civile mondiale», definizione che sembra corrispondere meglio alla «ri­ voluzione mondiale» che era in corso. Già alla fine della Grande guerra, la natura del­ la guerra civile mondiale è perfettamente colta da Oswald Spengler (reazionario, nemico della repubblica di Weimar, ammiratore di Mussolini) con una lucidi­ tà che vale la pena di citare: «Non è la Germania ma l'Occidente ad aver perso la guerra mondiale allorché gli è venuto meno il rispetto dei popoli di colore». A vincere è stata la Rivoluzione di ottobre che ha gettato via la «maschera "bianca"», per diventare «di nuovo una grande potenza asiatica, "mongolica"», animata da «odio infuocato contro l'Europa». Gli appelli dei sovietici alla sollevazione dei «popoli oppressi» dal colonialismo e alla rivolta dell'«intera popolazione di colore della terra», mirano a costituire «una resistenza comune» e una «lotta contro l'umanità bianca». È infatti nella lotta contro il colonialismo che si perfeziona la macchina da guerra delle rivoluzioni e la strategia della guerriglia («guerra partigiana») come sua forma di combattimento privilegiata, inaugurata dalla Rivoluzione sovietica. DG identificano nella guer­ riglia la modalità di scontro che la futura macchina da guerra rivoluzionaria deve assumere per opporsi alla «pace» del nuovo spazio «liscio» del mercato mondia­ le, ma senza mai veramente confrontarsi con la guerra partigiana, che ha anticipato, da un punto di vista di classe, l'organizzazione di uno spazio non gerarchizza­ to, né con le guerre anticoloniali, dove queste tecniche fanno un salto di qualità assurgendo a vera e propria strategia. La guerriglia costruisce, con le sue tattiche e strategie di combattimento, quello spazio «liscio» che DG definiscono come compito politico della macchina da guerra rivoluzionaria. Il movimento, la mobilità, lo II2

spostamento incessante che non fissa mai il fronte ma lo determina di volta in volta tramite la propria azio­ ne, sono i prodotti della trasformazione della «piccola guerra» di Clausewitz in guerra partigiana operata dai rivoluzionari del XX secolo. Dobbiamo ancora una volta ritornare a Carl Sch­ mitt, che prende molto sul serio la «piccola guerra» dei rivoluzionari, confrontandola con la configurazione spaziale dei teatri di guerra in mare («spazio liscio») e sulla terra («spazio striato»). «Il combattimento dei partigiani crea un nuovo campo d'azione, uno spazio con una struttura complessa perché il partigiano non si batte su un campo di battaglia aperto, né sulle linee di fronte di una guerra aperta. Al contrario forza il ne­ mico a insabbiarsi in uno spazio nuovo». Il partigiano deterritorializza la guerra regolare, rendendo la ter­ ra liscia come lo spazio marittimo. Pur essendo una forza «tellurica», Schmitt paragona la «dimensione di profondità» introdotta dal partigiano alle forme di combattimento in mare («spazio liscio»). Il partigiano «fornisce una sorta di analogia terrestre inattesa, ma non per questo meno effettiva, del sottomarino»: an­ che lui introduce alla superficie del mare, dove si svol­ gono le battaglie, una «dimensione inattesa di profon­ dità». Questa capacità di imporre un «nuovo spazio» al nemico, di sparigliare il suo territorio non fissando nessun fronte, creandolo continuamente dove si mate­ rializza la guerriglia, è un'altra esperienza e un'altra strategia che val la pena di prendere in considerazione e di ereditare dalle rivoluzioni. Il tentativo di DG di definire una forma di organiz­ zazione alternativa al leninismo e al maoismo, che rischiano di sfociare (e sfociano) nello Stato, è sicura­ mente encomiabile e si dovrebbe continuare la ricerca in questa direzione, affrontando però, nello stesso tem­ po, i rompicapi che la realizzazione di una rivoluzione II3

impone. Ad esempio, DG oppongono la guerriglia alla guerra regolare condotta da un esercito regolare, per­ ché quest'ultimo con la sua centralizzazione e le sue gerarchie è un focolaio capace di generare relazioni di potere sovrane. Tuttavia, né Mao né Ho Chi Minh né Giap, anche se hanno conferito alla guerriglia una dimensione strategica che non aveva assolutamente in Clausewitz, non l'hanno poi opposta all'esercito re­ golare come sembrano voler fare DG, semplicemente perché per battere il nemico non è possibile farlo. La vittoria della rivoluzione presuppone un rapporto tra guerra irregolare e regolare e impone dunque di assu­ mere tutti i rischi che ne conseguono. La vittoria sul nemico richiede l'azione dell'Armata Rossa, anche se «il partigiano è il combattente dei nove decimi di una strategia che non lascia che un decimo alle forze ar­ mate regolari» (Mao). Alla presa del potere, problema cardine attorno al quale girano le strategie rivoluziona­ rie dell'epoca e che DG giustamente criticano perché obbliga ad assumere dispositivi (qui l'Armata Rossa) formalmente omogenei allo Stato, non sono stati capa­ ci di proporre praticamente niente di alternativo e di altrettanto efficace. Quello che sembra mancare nell'analisi della guerra di DG è un metodo che tenga conto della definizione che ne dà Clausewitz, «effetto reciproco prolungato di due (volontà) opposte», che implica l'azione di forze tutte dotate di «potenza» e di azione strategica, anche se asimmetriche. Quando diciamo che in DG c'è un'a­ nalisi delle guerre totali, però sganciate dalla lotta di classe e dalle guerre civili, vogliamo dire che queste non vi giocano una parte attiva. Alla fine del capitolo in cui si confrontano con Clausewitz, fanno un'afferma­ zione di principio che non dà molti elementi per agire: dove c'è potere, dicono, c'è sempre e comunque la pos­ sibilità di «fuga»; la macchina da guerra-mondo (come

si dice economia-mondo) «non cessa di ricreare delle possibilità di risposte inattese, di iniziative impreviste che determinano delle macchine mutanti, minorita­ rie, popolari, rivoluzionarie». A partire dalla Rivoluzione francese si afferma un principio strategico e metodologico che rovescia il pun­ to di vista di DG e sembra più utile: «prima la rivolu­ zione, dopo la macchina Stato-capitale». Sono le lotte di classe a cavallo tra il Diciannovesimo e il XX secolo che obbligano la macchina Stato-capitale alle guerre totali (e al fascismo). Durante tutto il loro svolgersi saranno continuamente rotte dal sorgere delle rivolu­ zioni e delle guerre civili perché i movimenti rivoluzio­ nari riusciranno a mantenere, anche dentro le enormi difficoltà dell'epoca, una politica offensiva. Le guerre totali che avevano impedito, bloccato, represso la rivo­ luzione in Europa, la faranno riemergere dapprima in Russia e più tardi nel Sud; essa si darà, per la prima volta, come possibilità della rivoluzione mondiale. È questo intreccio strategico tra Stato-capitale da una parte e rivoluzione/lotte di classe dall'altra che il riferi­ mento ai nomadi in Mille Piani si lascia sfuggire. L'idea di una sola e grande macchina («il capitali­ smo mondiale integrato») è uno dei miraggi prodotti dai trent'anni che hanno seguito la Seconda guerra mondiale che sono stati, vale la pena di ricordarlo, l'ec­ cezione e non la regola del capitalismo. L'equilibro del terrore (Est-Ovest) aveva temporaneamente congelato l'ordine mondiale (in realtà le guerre civili imperver­ savano nelle colonie). DG teorizzano un'integrazione progressiva di economie e di culture eterogenee (anche tra Est e Ovest), sulla base di uno sviluppo tecnologico che avrebbe appiattito le differenze. «I computer con­ versano da continente a continente, dettando le regole ai dirigenti politici ed economici. La produzione infor­ matica automatizzata non riceve più la sua consistenza n5

dal fattore umano ma da un fattore di continuità mac­ chinica che attraversa, contiene, diffonde, miniaturiz­ za tutte le funzioni e le attività umane». DG operano una sopravalutazione della tecnica (sembrano dimenticare la differenza che loro stessi hanno stabilito tra macchina tecnica e macchina poli­ tica) e una grande sottovalutazione della strategia, at­ teggiamento che si diffonderà durante il periodo della controrivoluzione tra gli amanti degli «automatismi» finanziari, tecnologici e mediatici che ci sovrastereb­ bero rendendoci schiavi. Contro queste affermazioni ingiustamente dedotte dal lavoro di DG bisogna affer­ mare che nessuna macchina tecnica, nessun automati­ smo .finanziario, nessun computer ha mai deciso una guerra e mai lo farà. Una macchina politica potrà essere rovesciata soltanto da un'altra macchina politica. Malgrado uno sviluppo esponenziale della macchina tecnica, con la guerra emerge prepotentemente la real­ tà della macchina politica, che molti non sanno vedere in tempi di «pace». Nel momento stesso in cui l'Urss si sfasciava, si rompeva anche l'ordine mondiale, cioè la possibilità di una sola macchina da guerra. Le lotte tra imperialismi, tra potenze economico-politiche, era­ no già all'ordine del giorno. Ma se si fosse anche solo guardato al Sud del mondo, già nei «trenta gloriosi» si sarebbe capito che la grande macchina mondiale inte­ gratrice era una chimera. Non è che le lotte di classe scompaiano completa­ mente nella macchina da guerra globale di DG, però sono incluse in un divenire senza storia, un divenire senza rivoluzione. Il capitalismo non è un processo in­ finito di sfruttamento e di dominio in grado di susci­ tare flussi che, altrettanto continuamente, sfuggono da tutte le parti in un divenire senza fine, come sembrano suggerire DG. Walter Benjamin ha chiaramente colto l'illusione di un siffatto divenire: «la storia non cono-

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sce il cattivo infinito nell'immagine di due combattenti eternamente in lotta l'uno contro l'altro. La vera politica si calcola in termini di scadenze». La storia dei rappor­ ti di forza tra le classi taglia il divenire, lo blocca, lo fa biforcare, lo fa sfociare nelle guerre, nelle rivoluzioni o anche nell'implosione di tutte le classi in lotta. C'è un punto nello sviluppo del capitalismo dove la dialettica capitalismo/vie di fuga non funziona più, in cui il cat­ tivo infinito sfocia nella guerra. Hic Rhodus, hic salta!

L'Impero Prima di problematizzare il concetto dell'autonomia di «una sola macchina da guerra» e la subordinazione degli Stati al suo funzionamento, che configurerebbe in modo nuovo il mercato mondiale, vorrei introdurre il concetto di Impero di Negri e Hardt (NH), che mi sembra incrociare in diversi punti la macchina-mon­ do di DG. Per NH il «capitalista collettivo» si sarebbe dotato di una nuova strategia, l'Impero, che si oppone in manie­ ra radicale all'imperialismo. Quest'ultimo, con la fun­ zione ancora centrale dello Stato, le divisioni rigide che impone (frontiere, interessi nazionali, logiche sovrane) non favorisce, anzi blocca lo sviluppo del mercato mon­ diale. Da cui la sua necessaria messa in discussione. L'Impero è una macchina globale, transnazionale, non sovrana, che si fa carico dell'ordine mondiale a partire dagli anni Settanta. La sua governance, sop­ piantando i governi nazionali degli Stati imperialisti, «è irriducibile a una gestione fondata sull'unità del comando e sulla legittimazione di un unico centro di potere». L'Impero, come la macchina da guerra, crea uno spazio e un mondo «lisci», sempre aperti, in cui le vecchie frontiere imperialiste «crollano» e gli Stati-na-

zione «entrano in crisi» («lo Stato politico deperisce», dicono DG). Invece di rappresentare dei limiti, le fron­ tiere costituiscono occasioni di libertà perché, nel mo­ mento stesso in cui si creano, l'Impero si fa carico di superarle. È una forma di potere pluralista, fondamen­ talmente pacifica («l'idea della pace è alla base del suo sviluppo e della sua espansione», non nel senso che non ci siano più guerre, ma perché l'Impero è capace di evitare i grandi scontri tra imperialismi dell'ordine mondiale precedente), flessibile e fluida, che si adatta velocemente al cambiamento delle situazioni econo­ miche e politiche. La governance è contrattata tra «soggetti statuali e non statuali» per costruire nuovi dispositivi di pote­ re capaci di innovare, in modo consensuale, le forme della decisione politica. Il potere sovrano è sostituto da una «pluralità di poli» e una corrente continua di atti­ vità transnazionali, finalizzata alla costruzione e alla sperimentazione di nuove norme, pratiche di regola­ zione, procedure di gestione. NH sembrano affascinati da un mondo che sembra retto dal capitale, avvolto nelle sue lunghe catene del valore, percorso dai suoi flussi finanziari liberi, con uno Stato che più che regolare sembra accompagna­ re in modo subordinato questi movimenti. Cadono nell'illusione della «belle époque» che sembra coin­ cidere con tutto il ciclo economico, escludendo le guerre che lo fondano e che successivamente lo affos­ seranno. Questa idea di Impero, smentita, diciamolo subito, dallo scontro tra imperialismi in Ucraina, è fondata sull'opposizione del concetto di «capitale» e del concet­ to di «Stato», sull'incompatibilità tra l'immanenza del­ la potenza del primo e la trascendenza del potere del secondo. Il potere trascendente del «sovrano» sarebbe progressivamente sostituito dall'«assiomatica» del ca-

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pitale, cioè dalla macchina di produzione e di misura del profitto. L'Impero rinvia per molti aspetti alla macchina da guerra di DG, e come questa subordina gli Stati come sue proprie parti. L'incompatibilità tra Stato e capitale si sarebbe risolta con la vittoria della globalizzazione del capitale che impone le sue leggi e i suoi interessi a Stati che, recalcitranti, non vogliono perdere i loro po­ teri e le loro prerogative. Per giustificare la pervicace volontà degli Stati Uniti di imporsi come centro di potere unilaterale sullo scac­ chiere mondiale, NH vedono prodursi un «colpo di Sta­ to» contro l'Impero, gestito dai fautori del progetto di «un nuovo secolo americano» (i neoconservatori). Que­ sto colpo di Stato sarebbe non solo esistito, ma anche fallito. Invece, quelli che non sono riusciti a imporre il secolo americano si sono impegnati, com'è naturale per una forza imperialista, a preparare con il Pentagono l'amministrazione e le varie oligarchie (della produzio­ ne di armi, della finanza, dell'immobiliare), le guerre contro Russia, Cina e tutti quelli che non vogliono sot­ tomettersi alla potenza americana. Insieme neoconser­ vatori, democratici e repubblicani hanno capito che non c'era più altra soluzione per imporre la loro supremazia e la guerra è puntualmente arrivata. Contrariamente a ciò che sta accadendo da anni, NH perseverano nel pensare che dopo la presunta sconfitta degli imperia­ listi all'interno dell'amministrazione americana, inci­ dente di percorso nella costruzione della governance mondiale, la globalizzazione «continua ad andare avan­ ti» e l'Impero resta la sola soluzione praticabile. L a volontà di giustificarne l'esistenza e la necessi­ tà della macchina da guerra imperiale non sovrana impongono a NH delle maldestre teorie su guerra e capitalismo. Guerra e imperialismo sono opzioni che il capitale sarebbe restio a impiegare perché non u9

favoriscono, anzi bloccano la produzione del profitto. Due sono le principali modalità utili per «conservare il controllo» capitalistico sulla globalizzazione e sul profitto: «la guerra e la finanza». La soluzione militare «è stata adottata e in larga misura fallita» (in Iraq, in Afghanistan, nella guerra contro il terrorismo ecc.). Una «società in stato di guerra [può] magari funziona­ re nel breve periodo, ma alla lunga mina la produttività soprattutto in un'economia biopolitica in cui la libertà, la comunicazione e le interazioni sociali sono assolu­ tamente necessarie». L'«aristocrazia globale», l'attuale «capitalista collettivo», che ha «contribuito a porre fine all'unilateralismo» degli imperialismi, sceglie «l'op­ zione finanza, assai più efficace della guerra». Queste righe, scritte nel 2009, sono sorprendenti, perché è successo esattamente il contrario. La finanza, il vettore più importante della globalizzazione, for­ ma egemonica del capitale nella mondializzazione, la «sola capace di seguire i repentini cambiamenti» del­ le reti globali del valore, la «sola capace di imporre la flessibilità, la mobilità e la precarietà alla forza lavoro biopolitica» (NH), è crollata nel 2008. Il capitalismo è stato salvato dall'intervento degli Stati che, malgrado abbiano inondato le imprese di liquidità, non sono ri­ usciti a rimettere in moto l'economia, mentre la guerra si presenta, da allora, come l'opzione più probabile. Una simile successione di eventi si era già prodotta nella grande globalizzazione precedente: la finanziarizzazio­ ne che fallisce, la mondializzazione che perde velocità e comincia a chiudersi, a dividersi secondo logiche più politiche che economiche, la guerra tra gli imperia­ lismi che esplode. Rosa Luxemburg lo aveva anche scritto: il capitale, «avendo la tendenza a diventare una forma mondiale, si spezza contro la propria incapacità a essere questa forma mondiale della produzione». Perché il capitale non può diventare mercato mon120

diale compiuto? Perché non può separarsi dallo Stato, perché uno Stato mondiale è una contraddizione in termini e per questo è nell'impossibilità di creare una sola grande macchina da guerra o di diventare Impero. Ha bisogno del potere «sovrano», all'inizio, alla fine e anche in mezzo del ciclo di accumulazione. Lo Stato è insostituibile, soprattutto nei periodi di transizione, dove lo scontro tra classi e tra Stati si afferma con tutta la sua violenza. Non è il capitale che può organizzare il bombardamento del Palazzo della Moneda o garantire migliaia di arresti, torture, assassinii durante le guerre civili sudamericane. Non è il capitale che può dichiara­ re l'inconvertibilità del dollaro in oro, perché l'origine della moneta non è economica bensì sovrana e stret­ tamente legata alla guerra. L'imperialismo americano era già contenuto nella dichiarazione che recitava «il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema», rivolta al resto del mondo perché le cose fossero chiare fin da subito: noi comandiamo, voi obbedite! La moneta dominante ci segnala immediatamente l'impossibilità della creazione dell'Impero come dispo­ sitivo transnazionale del capitale: il dollaro è la moneta nazionale degli Stati Uniti e funziona contemporanea­ mente come moneta internazionale, creando un'enorme asimmetria di potere tra l'America e il resto del mondo, ovviamente tutta a favore della prima. Ciò che sarebbe necessario al funzionamento della macchina globale del capitale, se mai fosse possibile, è il bancor proposto da Keynes nel 1941, moneta non sovrana che non avrebbe favorito nessun paese a discapito di altri. Furono proprio gli Stati Uniti a rifiutare la proposta e a imporre il dol­ laro al suo posto, facendone una moneta apertamente «imperialista» (indicizzare il debito e la moneta degli Stati più deboli in dollari è un'evidente politica di guerra contro il proletariato di questi paesi!). Gli Stati Uniti non avevano a cuore la costruzione della macchina globale, 121

ma di comandarla e usarla per sfruttare il proletariato mondiale a proprio ed esclusivo favore, per battere i loro concorrenti economici e politici. Non stavano costruen­ do il capitale cosmopolita, ma facendo gli interessi del capitalismo e dello Stato americani. Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale del presidente Carter, non lascia alcun dubbio sulle agen­ zie, istituzioni, organi amministrativi o politici che dovrebbero costituire la spina dorsale dell'Impero: «Anche la rete internazionale di agenzie tecniche, so­ prattutto finanziarie, può essere ormai considerata par­ te integrante del sistema americano. Il Fmi e la Banca mondiale, pur rappresentando interessi globali, sono in realtà pesantemente influenzati dagli Stati Uniti». Quando crolla il dollaro, moneta politica, diventata finanza/debito per contrastare il declino degli Stati Uniti attraverso il saccheggio del resto del mondo, il capitale non ha altra scelta che rivolgersi allo Stato, che a sua volta è costretto a trasformare la sua politica: que­ sta non è mai stata l'universalità del mercato mondiale, ma sempre concorrenza di una potenza «territoriale» (anche se il territorio è quello di un continente) dentro la globalizzazione, in concorrenza armata. Quello che i critici contemporanei non vogliono vedere era l'eviden­ za stessa per rivoluzionari come Rosa Luxemburg. Per NH, invece, la guerra non è una condizione «on­ tologica» dell'esistenza del capitale, indispensabile alla sua accumulazione. Appare in maniera congiunturale, per poi sparire e riapparire se la guerra si manifesta in modo evidente. Nel 1980 Negri scriveva saggiamen­ te: «il crollo del mercato determina una situazione di guerra», «la guerra è la situazione ontologica cui la rottura del mercato conduce». In seguito la guerra si dilegua, per riemergere solo dopo gli attentati del 2001, per sparire di nuovo nel 2009, in quanto non è ritenuta una condizione strutturale del capitalismo, 122

bensì una semplice opzione alla quale viene preferita la finanza, più performante e meno sanguinosa (in re­ altà cruenta in modo diverso).

L'imperialismo e la sua necessità Sia DG (la macchina da guerra globale) che HN (l'Im­ pero) pensano che il capitale non abbia più bisogno dell'imperialismo e delle sue guerre distruttive, rele­ gandolo tra le forme politiche che il capitalismo avreb­ be progressivamente abbandonato. La realtà dell'accu­ mulazione e dello scontro mondiale che ne scaturisce pare però aver deciso diversamente. Anche un semplice sguardo fenomenologico alla guerra in Ucraina sembra confermare il punto di vi­ sta meridionale di Samir Amin, per cui la caduta del muro di Berlino avrebbe fatto emergere un imperia­ lismo che chiama «collettivo». Composto dalla triade Usa-Europa-Giappone, guidata dal primo, l'impe­ rialismo collettivo gestisce le sue dispute interne in vista della spartizione della rendita, mentre combatte spietate guerre sociali contro le popolazioni del Nord per spogliarle di ciò che era stato costretto a concedere nel corso del Novecento, e organizza conflitti armati contro le popolazioni del Sud per controllare le ma­ terie prime e procurarsi manodopera a basso costo. È questo imperialismo collettivo a essere impegnato nella guerra attuale contro imperialismi regionali (la Russia) e un imperialismo che lavora per diventare glo­ bale (la Cina). Lo scontro non sarà tra Stati come un secolo fa, ma tra grandi concentrazioni di territori e di potere: il capitalismo collettivo Usa-Europa-Giappone, l'alleanza Cina-Russia obbligata dalla guerra, il Sud del mondo che esita ancora tra neutralità e ostilità aperta all'imperialismo collettivo. 123

Dal punto di vista teorico, la realtà della globaliz­ zazione sembra confermare l'analisi di Rosa Luxem­ burg, prodotta nel cuore dell'accumulazione mondiale precedente. L'imperialismo e le sue guerre sono una necessità strutturale perché il capitalismo «tende a espandersi sul globo e a distruggere tutte le altre for­ me economiche, non sopportandone alcuna al suo fianco. E tuttavia è, nello stesso tempo, la prima forma economica incapace di sussistere sola, con il solo aiuto del suo ambiente». Per esistere e riprodursi deve necessa­ riamente appropriarsi di realtà economico-politiche non capitaliste e può farlo solo con la rapina, il furto, l'espropriazione, cioè attraverso dispositivi extra-eco­ nomici. È questa appropriazione extra-economica che lo salvaguarda dalla caduta del saggio di profitto. L'affermazione di Luxemburg sembra essere con­ traddetta dalla globalizzazione perché, se la produzio­ ne si allarga impiantandosi su tutto il pianeta, allora non esiste più un fuori di cui appropriarsi e quindi l'imperialismo parrebbe un anacronismo. In realtà, mentre nel Sud globale imperversa la rapina attraver­ so la finanziarizzazione e il neo-colonialismo «estrat­ tivista», nel Nord si produce una «colonizzazione» interna. Quando il capitale ha finito di colonizzare il pianeta, comincia a colonizzare il suo proprio centro, creando le condizioni del vecchio Sud che implicano la svalorizzazione del lavoro, del welfare, delle condizioni di vita del proletariato, obbligando al lavoro gratuito o malpagato miliardi di persone, facendo sorgere cioè un nuovo «fuori» di cui appropriarsi. Il punto di vista di Luxemburg sull'imperialismo è confermato secondo nuove regole (non più un fuori precapitalista di cui ap­ propriarsi, ma un fuori creato dal capitalismo stesso). La forza e la violenza di questa colonizzazione in­ terna sono visibili nella situazione del più potente degli imperialismi, gli Stati Uniti, dove imperversa 124

una guerra civile strisciante che è sempre sul punto di diventare guerra civile aperta. L'estrazione del valo­ re dalle proprie popolazioni da parte della macchina Stato-capitale si attua attraverso dispositivi economici ed extra-economici, creando le condizioni del conflitto interno (la rivolta contro l'esecuzione di George Floyd è una protesta contro le condizioni della colonizzazio­ ne interna che dopo essere stata riservata per secoli ai neri, è stata estesa anche ai bianchi), del nuovo fasci­ smo (Trump), ma anche della guerra tra grandi Stati (Biden). Non soltanto economia e guerra sono le due facce della stessa medaglia dell'accumulazione che funzionano insieme, ma l'accumulazione mondiale del capitale, a partire dalla Prima guerra mondiale, da distruzione relativa è diventata distruzione assoluta. Il capitalismo descritto da Rosa Luxemburg distrug­ geva le realtà esterne al suo dominio per integrarle, il capitalismo contemporaneo vive invece della rovina del mondo intero senza poter integrare questa distru­ zione in un nuovo ciclo di accumulazione (l'impossibi­ le green economy). L'accumulazione distrugge anche le condizioni biologiche e ambientali della vita su questo pianeta, a meno di non credere, come purtroppo face­ vano i rivoluzionari, in una funzione progressiva del capitale (qui Lenin): «sappiamo che i trust e il lavoro delle donne nelle fabbriche rappresentano il progres­ so. Non vogliamo tornare indietro, all'artigianato, al capitalismo pre-monopolistico, al lavoro delle donne a domicilio. Avanti, per mezzo dei trust ecc., più oltre, verso il socialismo!». La visione «progressiva» della globalizzazione fa parte dei retaggi del socialismo che i movimenti fem­ ministi e i movimenti dei colonizzati hanno contestato perché per loro il capitale non è mai stato progressista e si è sempre manifestato come fine del mondo (del loro mondo, della loro cultura). Non li ha fatti accedere 125

ai «fasti» del lavoro salariato, ma li ha condannati alla servitù del lavoro gratuito, svalorizzato o malpagato. Oggi come ieri.

La globalizzazione, ovvero l'accumulazione capitalista su scala mondiale La gestione di una pace «terrificante» da parte sia del­ la macchina da guerra sia dell'Impero è fondata sul presupposto della subordinazione dello Stato al capi­ tale globalizzato, anche se tra Impero e macchina da guerra ci sono delle differenze significative. DG non pensano, contrariamente a NH, che l'assiomatica, la macchina di produzione di misura, distribuzione del valore possa fare a meno dello Stato: «sembrerebbe che non c'è più bisogno dello Stato, di dominazione giuri­ dica e politica separata», ma superare lo Stato tramite il mercato mondiale non vuol dire che il capitale possa funzionare senza. In realtà, il ruolo dello Stato va ben oltre la semplice funzione che DG gli attribuiscono, cioè di moderato­ re della deterritorializzazione superiore del capitale e semplice detentore della forza e del diritto di cui il capitale ha sempre bisogno per affermarsi. Non è né l'assiomatica di DG né il capitale globalizzato di NH che possono decidere di un cambiamento di fase come quello della guerra. La macchina globale può sollecitare, incitare, indurre alla guerra tramite il suo puntuale scardinarsi, attraverso il suo ricorrente in­ cepparsi (dapprima finanziario, il blocco sgocciola in seguito nell'economia e nella società), ma non è lei che prende le decisioni strategiche. Del resto, la glo­ balizzazione era cominciata nello stesso modo. Non è stata un'impersonale macchina capitalista (fordista) a spingere per una nuova globalizzazione, ma sog-

gettività trasversali all'impresa, all'amministrazione, al Pentagono, ai partiti politici americani che hanno deciso, sotto la direzione dello Stato, di rompere con l'organizzazione del mercato mondiale precedente e di giocare la nuova globalizzazione, tirata dalla finanza e fondata sulla loro moneta, contro altri Stati, contro le loro monete e le loro economie. La finanziarizzazione è una guerra globale lanciata dallo Stato per bloccare il relativo declino Usa facendo confluire in America capitali e risorse per mantenere una potenza militare esterna e una «way oflife» interna, i cui costi ricadano sul mondo intero. Diversamente dalla maggior parte dei paesi del glo­ bo, gli Stati Uniti producono meno di quello che con­ sumano, hanno un tenore di vita che non è giustificato dalla loro capacità produttiva, vivono cioè al di sopra dei loro mezzi, con la bilancia dei pagamenti costantemen­ te in passivo. Sono il paese più indebitato del mondo. Le politiche del credito/debito sono state imposte perché erano le sole capaci di garantire che il loro reddito me­ dio fosse sei volte superiore a quello di un cinese senza che questo corrispondesse a qualcosa nella realtà pro­ duttiva dei due paesi. È l'imposizione del dollaro come moneta internazionale degli scambi che permette alla Fed di finanziare la «American way oflife», cioè il più grande spreco nella storia dell'umanità, trovando ac­ quirenti del debito che continua a crescere. Sia il dollaro che il debito non sono garantiti dalla capacità produttiva, ma dalla supremazia militare. Il primato del dollaro fonda il primato degli Stati Uniti, e la forza del dollaro è garantita dal primato militare. Qui non si tratta nemmeno più di keynesismo milita­ re, ma di semplice sopruso armato sul resto del mondo. Più cadono bombe, più si trucidano popolazioni, più si costruiscono armi, più il valore del dollaro resta alto o sale, e più possono emettere dollari in grande quantità 127

e attirare capitali che sottraggono ai paesi poveri e in via di sviluppo. L'enorme diffusione delle armi all'in­ terno del paese legittima e partecipa di questa logica armata. La guerra e l'armamento sono un elemento vitale per gli Stati Uniti, non solo per l'egemonia mon­ diale ma anche per conservare standard di consumo e di produzione. È per questo che il loro imperialismo è molto più pericoloso di quello della Cina, della Russia o di qualsiasi altro paese, i quali non hanno ancora gli strumenti militari e finanziari per depredare il mondo come fanno gli americani. La cosa straordinaria dei governi e dell'ammini­ strazione americana è che, nonostante questa «tassa» imposta al mondo intero, sono riusciti, creando delle enormi differenze di reddito e di patrimonio, a scate­ nare una guerra civile interna. Il che li rende doppia­ mente pericolosi. Quando qualche paese del Sud pro­ duttore di materie prime decide di scambiarle con una moneta diversa dal dollaro, gli Stati Uniti intervengono immediatamente (vedi la fine di Saddam Hussein e di Gheddafi). In realtà gli Stati Uniti sono ancora più pe­ ricolosi, perché le politiche del credito/debito utilizzate per sopperire al loro declino sono all'origine della crisi finanziaria che è stata l'anticamera della guerra. I paesi del Sud hanno tutte le ragioni del mondo per non appoggiare la coalizione anglo-americana in Ucraina. È quello che dovrebbe fare anche l'Europa se avesse un minimo di capacità politica, invece si sta sui­ cidando per la seconda volta in un secolo.

L'utopia dell'autonomia del capitale globalizzato e la realtà dell'imperialismo DG spiegano l'origine dell'autonomia e dell'egemonia della macchina da guerra, che coincide praticamente 128

con il movimento del capitale nel mercato mondiale, riferendosi al terzo libro del Capitale di Marx: il capita­ le non ha limiti esterni ma solo limiti intrinseci dovuti alla sua stessa natura (la proprietà privata, la divisio­ ne di classe, il profitto ecc.), limiti che continuamente pone e che continuamente supera, per crearli di nuovo e superarli ancora. Questo movimento autonomo e im­ manente è ancora più accentuato in NH, che ne fanno il fulcro della globalizzazione: questa è concepita come la combinazione di due sfere sovrapposte che percorro­ no il pianeta, una riguarda le reti della comunicazione e della logistica, le catene del valore, i circuiti della fi. nanza ecc., l'altra il comando, separando ancora, come fosse possibile, potenza immanente del capitale e pote­ re trascendente dello Stato. Questo movimento immanente e infinito del capitale è smentito da tutta la sua storia e, ancora una volta, dalla guerra in Ucraina. Il che non vuol dire che non sia reale, anzi crea un'instabilità, un'incertezza, un cambiamento continuo. La crisi, invece di annunciare il suo «crollo», è la forma stessa della sua esistenza, che produce conti­ nuamente dei momenti di blocco, degli ostacoli al suo sviluppo. Al contrario di quello che affermano le pagine del terzo libro del Capitale di Marx che DG parafrasano, il capitale non è in grado di rimuovere nessuno degli ostacoli che lui stesso pone senza che lo Stato interven­ ga in tutte le sue crisi. La cosa è ancora più evidente nel passaggio da una forma di accumulazione a un'altra. Lo spostamento dei limiti che impediscono alla «nuova» di emergere e alla «vecchia» di morire non si produce per forza del capitale, ma per l'irruzione della guerra tra im­ perialismi e delle guerre civili. Per passare dal capitale del Diciannovesimo a quel­ lo del XX secolo ci sono voluti trent'anni di immani distruzioni di ogni tipo e genere (guerre mondiali, guerre civili europee, guerra civile mondiale, bombe 129

atomiche), con gli Stati saldamente al comando della catastrofe. La situazione non era comunque ancora pacificata alla fine della Seconda guerra mondiale. La guerra civile che infuriava nel Sud ha impegnato gli eserciti e gli Stati del Nord fino agli anni Settanta (Co­ rea, Vietnam, Indonesia, Algeria ecc.). La stessa cosa si può dire del passaggio, teorizzato da Giovanni Arrighi, da un'egemonia imperialista a un'altra. Come l'egemonia americana ha rimpiazzato quella inglese dopo le catastrofiche guerre della prima metà del secolo, un'eventuale egemonia cinese potrà instaurarsi solo dopo guerre di cui, forse, quella in Ucraina è solo l'inizio. Ora ci troviamo in una situazione simile a quella della prima metà del XX secolo, quando gli imperi dell'Europa centrale e gli imperi coloniali si scannava­ no a vicenda. L'Impero e la macchina globale, se mai sono esistiti, sono fuori gioco. La guerra tra imperiali­ smi ci impone tutt'altro rapporto Stato-capitale. La guerra in Ucraina ci mostra una realtà che strut­ tura da sempre la globalizzazione: Stato, guerra e capi­ tale sono strettamente intrecciati, ma in macchine da guerra diverse che si oppongono strategicamente come all'inizio della globalizzazione. Invece di esserci una sola macchina da guerra globale o un Impero, ci sono una molteplicità di macchine da guerra Stato-capitale (in tensione permanente tra loro) che, dopo un perio­ do di «cooperazione» (la «belle époque») fratturano, frammentano, dividono la globalizzazione perché in concorrenza con altre macchine economico-politiche, dentro un unico «mercato». Durante i «trenta glorio­ si» si producevano anche fratture rivoluzionarie, oggi soltanto imperialiste, condotte da grandi Stati che sono ben altra cosa rispetto a semplici mezzi e parti della grande macchina della globalizzazione. Quest'ultima non produce solo differenze di classe, ma anche di-

sparità tra le varie macchine Stato-capitale («declino» Usa, crescita della Cina e del Sud) che si traducono in un più o meno di potere/profitto sullo scacchiere mon­ diale e conducono alla situazione di guerra attuale. Molti compagni sono attaccati alla mondializzazio­ ne, che giudicano più o meno irreversibile. lo starei un po' più attento: in un dibattito al parlamento francese due anni prima dello scoppio del conflitto del 1914, i deputati erano certi che la guerra fosse impossibile, viste le interdipendenze, considerato il fitto incrocio di scambi economici, finanziari e commerciali tra le nazioni che mai prima di allora erano stati cosi salda­ menti integrati. Conosciamo il seguito di questa bella illusione «liberale» che apparentemente è ancora attra­ ente e contro la quale si sono dovuti battere i rivoluzio­ nari proprio prima dello scoppio della Grande guerra: dove c'è l'economia non c'è la guerra, il «doux commer­ ce» allontana le armi. Allo stesso modo, si crede nell'impossibilità di una forte concentrazione del potere, sia economico che po­ litico, di fronte alla crescente molteplicità e complessi­ tà dei centri di potere e delle reti del valore cha attra­ versano il pianeta. Il neoliberalismo, contrariamente all'ideologia della libera concorrenza gestita dall'im­ personalità del mercato, nasce già con una forte con­ centrazione di potere economico (negli Usa, all'inizio degli anni Settanta, i monopoli e gli oligopoli superano di gran lunga quelli che avevano condotto alla Prima guerra mondiale) e di centralizzazione del potere poli­ tico dello Stato (in particolare nel suo potere esecutivo). Questo doppio processo, cominciato alla fine del XIX secolo, consolidatosi e rafforzatosi nella Prima guerra mondiale, non sarà mai messo in discussione dal neo­ liberalismo, né da quello degli anni Trenta in Germa­ nia, né dal neoliberalismo degli anni Settanta. La mol­ teplicità, la decentralizzazione, la libera concorrenza è 131

sempre stata un'illusione perché non è che l'altra faccia di una concentrazione che è andata progressivamente aumentando (con una grande accelerazione nel 2008, con un'altra soglia superata durante la pandemia) fino ad arrivare alla guerra, dove il potere di concentrazione raggiunge l'apice (militarizzazione dell'economia, del budget dello Stato, della comunicazione). Stato e capitale

Il problema di fondo non è il ritorno dello Stato ma piuttosto il fatto che non è possibile separare il capita­ le dallo Stato: non più i piccoli staterelli europei, ma i grandi Stati - Cina, Usa, Russia, India - la cui sovrani­ tà si esercita su grandi spazi. Questi, insieme, costitu­ iscono una macchina da guerra che però non può mai diventare Impero o una sola macchina da guerra globale in quanto si trova di fronte altre macchine da guerra, tutte armate fino ai denti che, organizzando il rapporto tra capitale e Stato in modo differente, mirano, in con­ correnza tra loro, all'egemonia mondiale. La Cina è un esempio recente e lampante di come si costruisce il rapporto tra capitale e Stato. La lotta di classe sviluppatasi durante rivoluzione culturale (sem­ pre pronta a rovesciarsi in guerra civile) si conclude con la vittoria dei «riformisti» che lanciano il «mercato socialista», confermando ancora una volta che la lotta di classe e/o la guerra civile precede la produzione. Lo Stato cinese stabilisce fin dall'inizio un rapporto dia­ lettico con i capitalisti: secondo la congiuntura lascia loro «libertà» di fare e di arricchirsi, ma può anche re­ primerli molto severamente se mettono i bastoni tra le ruote allo Stato e al Partito comunista (grandi impren­ ditori, favorevoli all'introduzione di pratiche finanzia­ rie occidentali, sono spariti o condannati a morte). È lo 132

Stato che detta i tempi e i metodi, che privilegia questo o quel settore, che controlla la moneta e la tecnologia. Comunque, anche se il ruolo dello Stato (e del lavo­ ro) è accentuato dalla formazione marxista dei cinesi, il capitalismo è una macchina bicefala: capitale e Stato, economia e politica, produzione e guerra, che, a partire dalla formazione del mercato mondiale, agiscono di concerto, anche se con tensioni e contrasti, perché la logica del profitto non è identica alla logica della po­ tenza. Lo Stato è territoriale, il capitale tende continua­ mente a uscire dal territorio ma non può globalizzarsi senza lo Stato, mentre quest'ultimo ha bisogno del ca­ pitale per vivere nella globalizzazione. Senza capitale la sua sovranità è vuota, senza salari e reddito, senza lavoro e welfare la sua legittimità è debole, la sua forza interna ed esterna dipende dalla produzione. L'integrazione capitale-Stato si attua gradualmente senza mai fondersi in un tutto organico, con un'acce­ lerazione a partire dalla Prima guerra mondiale. Dalle nozze dello Stato e del capitale celebrate tra il 1914 e il 1918, dopo un fidanzamento durato qualche secolo, nasce una macchina da guerra che riorganizza sia lo Stato che il capitale. Lo Stato vede modificarsi la sovranità, l'indipen­ denza, l'autonomia che aveva detenuto fino alla Rivo­ luzione francese. Lo Stato non può «stare», non può cioè semplicemente limitarsi a frenare i movimenti che minano l'ordine perché è associato al capitale che è il contrario dello stare, è movimento continuo. Deve diventare esso stesso stimolo economico, scientifico, politico, attore del cambiamento che deve anticipare e produrre. Il capitale, dal canto suo, non è già più la po­ tenza immanente e autonoma descritta da Marx. Non è più vero che «nel segreto laboratorio della produzio­ ne sta scritto: No admittance except on business», perché lo Stato ci entra di prepotenza per cercare di sedare la 133

lotta di classe che il capitalismo ha suscitato ma non ri­ esce a contenere. Insieme Stato e capitale inducono cri­ si, catastrofi, guerre. È sicuramente lo Stato che spinge verso queste ultime, anche se è insieme che esprimono l'identità di produzione e distruzione. Negli anni Trenta, Schmitt definisce questo Stato come «totale» o «economico» perché «dispone di un esteso diritto del lavoro, di una fissazione dei prezzi e di un arbitraggio dei poteri pubblici in caso di conflitto sui salari attraverso cui esercita un'influenza deter­ minante sui salari; assicura delle sovvenzioni gigan­ tesche ai diversi settori dell'economia; è uno Stato del benessere e della previdenza, uno Stato fiscale e che spende». Tutti i settori della società sono implicati in questo processo: già nel 1928, dice Schmitt, il 53% del reddito nazionale è controllato dai poteri pubblici. Lo Stato interviene in una materia che era precedente­ mente definita non politica e la produzione si politiciz­ za perché luogo privilegiato della lotta di classe. Questa perdita relativa di autonomia di entrambi è largamente compensata dall'acquisizione, tramite il loro integrarsi, di una forza di produzione/distruzione inaudita che contiene tutte le catastrofi a venire. Non c'è mai stata «fobia dello Stato» come crede Foucault, né da parte degli ordoliberali, né da parte dei neoliberali. La sola fobia che insieme hanno avu­ to è quella della «rivolta delle masse» che con la lotta strappano allo Stato conquiste di ogni tipo, obbligan­ dolo al compromesso, riducendolo a un «mercato del bestiame» e a perdere parte della sua sovranità politi­ ca cosl indispensabile al capitale se giocata contro la rivoluzione. Il progetto di Schmitt, così come degli ordoliberali negli anni Trenta («economia libera, Stato forte» dice­ va Rtistow nel 1932, richiamando un testo preceden­ te di Carl Schmitt Stato forte ed economia sana) e dei 134

neoliberali contemporanei, non fu mai quello di uno Stato debole ma di uno Stato forte, capace di neutra­ lizzare tutte le «domande» operaie e proletarie che lo assalgono e di investire invece tutta la sua forza e le sue funzioni nello sviluppo della macchina Stato-capitale. Rtistow, uno dei fondatori negli anni Trenta del neo­ liberalismo, annuncia a suo modo il progetto di una macchina Stato-capitale integrante le loro differenze: «uno Stato forte nell'interesse di una politica econo­ mica liberale e una politica economica liberale nell'in­ teresse di uno Stato forte - perché le due esigenze si condizionano mutualmente». L'integrazione di Stato e capitale è spinta al suo limite quando gli ordolibearali domandano di scrivere i principi della produzione del profitto nella costituzione (cosa fatta in Europa duran­ te l'ultima crisi del debito). Questa integrazione senza identificazione produ­ ce un «capitalismo politico» (ma politico lo è sempre stato) in cui la burocrazia amministrativa, militare e politica non si distingue dai capitalisti: insieme costi­ tuiscono la soggettivazione del potere che, tramite la volontà, «fissa» la posizione del «soggetto» collettivo. Burocrati e capitalisti occupano funzioni diverse all'in­ terno della stessa macchina politico-economica, co­ stituendone il punto di vista soggettivo che instaura e regola il rapporto tra guerra di conquista e produzione, tra violenza della colonizzazione e ordinamento demo­ cratico, tra organizzazione scientifica del lavoro (astrat­ to) e saccheggio delle nature umana e non umana. Lenin aveva visto giusto: bisogna abolire lo Stato, perché è inseparabile dal capitalismo. La tesi è dimo­ strata dal fallimento stesso della Rivoluzione sovietica che, dopo la presa del potere, ricostruendo lo Stato ha ricostruito anche il capitalismo. La stessa cosa si può dire della Cina e della funzione del lavoro nelle due ri­ voluzioni. Se il capitale è una relazione, capitale/lavoro, 135

mantenere e glorificare uno dei due termini, il lavoro, non distrugge la relazione, ma la ricostruisce.

Il rapporto tra Stato e capitale negli storici Il rapporto tra Stato e capitale ha una lunga tradizione dietro di sé. Gli storici, più a loro agio nell'analisi del rapporto tra Stato e capitale degli economisti, ci dico­ no che è illusorio e impossibile separare i due termini, pensare cioè sia all'esistenza autonoma dello Stato, sia al capitale come una forza immanente e indipenden­ te. Per Ferdinand Braudel «lo Stato moderno [...] talo­ ra agisce a suo favore, talaltra ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi ne distrugge le risorse[ ...]. A seconda del suo livello di equilibrio e della sua forza, lo Stato è[...] favo­ revole od ostile al mondo del denaro». Questo rapporto ci viene descritto da Otto Hint­ ze come un loro progressivo integrarsi che però non può mai giungere alla loro identificazione. L'egemonia dell'uno sull'altro cambia a seconda delle congiunture, ma in modo tale che è impossibile farne due poteri separati o che diventano uno. In una prima fase, lo sviluppo del capitalismo è sta­ to favorito dallo Stato che vi ha visto uno strumento indispensabile alla propria politica di potenza. In un secondo momento, il rapporto si trasforma fino a ro­ vesciarsi. Il capitalismo rafforzato, che dispone di un mercato nazionale, supera gli ostacoli che lo Stato gli pone, ma senza mai staccarsene. Le guerre totali della prima metà del Novecento, con l'appropriazione dell'economia da parte della guerra, l'enorme distruzione causata dalle guerre e dalla crisi del 1929, lo sviluppo delle politiche sociali a seguito dei conflitti mondiali e della Rivoluzione sovietica,

«hanno fortemente ridotto la precedente attività e auto­ nomia del capitalismo». La Guerra fredda non fornisce «alcuna prova di una evoluzione autonoma del capitali­ smo», poiché si svolge sotto il controllo e le condizioni imposte dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica. Questa affermazione di Hintze è valida anche oggi. A partire dagli anni Ottanta, il capitale sembra, secon­ do l'ideologia liberale, diventare autonomo e avere fi­ nalmente riconquistato la «libertà» che sembrava aver perso durante le guerre totali e la Guerra fredda, da cui l'illusione dell'Impero. Ma questo è vero se astraiamo dalla fase iniziale del ciclo tutta politica (formazione delle classi), ma anche dalla fase di avvio della «belle époque» neoliberale, perché è lo Stato che libera i flus­ si finanziari, che attiva delle politiche fiscali, che rior­ ganizza il mercato del lavoro, e dalla fase finale dove si riprenda la sua sovranità. Quando, come nel 2008, si profila il crollo «sistemi­ co», il capitale ha assolutamente bisogno dello Stato, sia come prestatore di ultima istanza che come sovrano, ca­ pace di esercitare, se necessario, la forza per imporre po­ litiche di austerità: politica ed economia «sono legate fra loro in modo indissolubile[...] cioè sono solo due aspetti o lati particolari di un medesimo sviluppo storico». La moneta prima di essere un'istituzione economi­ ca è un'istituzione dello Stato. L'affermazione di DG, «l'enorme massa monetaria senza patria che circola attraverso i cambi e le frontiere, sfuggendo al controllo dello Stato, formando una organizzazione ecumenica di fatto sopranazionale, insensibile alle decisioni dei governi», è vera solo in parte. Quando lo Stato ha valu­ to controllare la finanza perché considerata una delle cause della catastrofe della prima metà del XX secolo, lo ha fatto e con successo. Cambiata la congiuntura politico-economica, è lo Stato stesso che per lanciare il neoliberalismo ha varato delle leggi che permettono ai 137

flussi finanziari di sfuggire al suo controllo. E in ogni modo questa organizzazione finanziaria sovranazio­ nale si sarebbe semplicemente dissolta nel 2007 se lo Stato non l'avesse salvata a nostre spese. Forse è necessario ritornare sull'affermazione di DG secondo la quale la macchina da guerra si auto­ matizza e diventa autonoma una prima volta con il fa. scismo e in seguito con la Guerra fredda. L'esperienza fascista è interessante perché dimostra come Stato e capitale possano, in un primo tempo, funzionare insie­ me, producendo una macchina da guerra mostruosa che li integra senza identificarli e, a partire da un certo punto, essere entrambi subordinati a un movimento suicida e autodistruttivo. L'esistenza della macchina a due teste, potere sovrano e potere del capitale, trova conferma anche in periodi generalmente considerati dominati dal potere esclusivo della sovranità. La mac­ china da guerra del fascismo diventa autonoma soltan­ to nell'ultima fase, quando diventa guerra dispiegata, quando corre verso l'autodistruzione. Prima di questo salto nel buio è ancora legata alla potenza del capitale, a cui riesce a risolvere alcune contraddizioni altrimenti per lui esplosive. Il nazismo non ha solo introdotto e reso permanente lo Stato di eccezione, come sembra credere Agamben, che ha completamente trascurato la forza e il ruolo che il capitalismo ha svolto in questo periodo nell'ascesa di Hitler. Accanto allo Stato di eccezione, allo Stato discre­ zionale, ha continuato a funzionare quello che Ernst Fraenkel chiama lo «Stato normativo», lo Stato di di­ ritto, secondo la sua teoria del «doppio Stato». L'azione dello Stato normativo, nonostante il desiderio nazista di privatizzare le sue funzioni delegandole ad agenti e agenzie non statali (anticipando così i progetti neolibe­ rali), è confinata in uno spazio definito, anche se molto ampio. L'azione amministrativa è necessaria al «siste-

ma economico capitalista», la cui prosperità dipende da un ordinamento giuridico in grado di garantire sicurez­ za e prevedibilità nel medio e lungo periodo. Solo un or­ dine delle leggi, un ordine delle norme giuridiche, può assicurare la stabilità della proprietà, dell'impresa, dei contratti e del dominio sulla classe operaia. La soprav­ vivenza del «capitalismo tedesco richiede un doppio Stato, arbitrario, discrezionale nella sua dimensione politica e razionale nella sua dimensione economica». Lo Stato normativo garantisce la continuazione dei pro­ fitti, mentre la classe operaia è «soggetta all'intervento illimitato dello Stato di polizia». Il progressivo autonomizzarsi dello Stato di eccezio­ ne nazista è il risultato del rischio che i capitalisti si sono assunti nel sostenere esplicitamente l'ascesa al po­ tere dei nazisti. Con la Seconda guerra mondiale lo Sta­ to di eccezione in Germania si trasformerà in un movi­ mento suicida, autodistruttivo, che rompe con lo Stato amministrativo e anche con il capitalismo, il quale è stato a lungo affascinato dalle possibilità del controllo di classe che permetteva il fascismo. Nel dopoguerra preferirà un compromesso/scontro con lo stalinismo. Il fascismo è una delle opzioni di distruzione e di autodistruzione a disposizione della macchina Sta­ to-capitale, assieme alla guerra nucleare tra potenze imperialiste, all'estinzione ecologica e alle guerre civili più o meno striscianti che già esistono (Usa) e a quel­ le che la militarizzazione dell'economia non tarderà a produrre. Queste opzioni si stanno integrando nella guerra in Ucraina che comprende, come tutte le guer­ re globali, la guerra contro le donne, la guerra contro i razzializzati e contro i lavoratori. È stupefacente come anche sotto la pressione della guerra in continua escalation non si ritorni criticamen­ te su queste teorie ereditate dal '68 (e contemporanee), 139

che, come si diceva in apertura, compiono contempo­ raneamente un passo avanti e due indietro. Il punto di vista di NH è interessante perché cerca di risolvere l'impasse della teoria come della pratica con un escamotage: trasformare la sconfitta politica in vittoria ontologica, sostituendo alla separazione reale prodotta dalla guerra (di conquista, civile, tra Stati), dallo sfruttamento e dal dominio, una innocente sepa­ razione ontologica. I rapporti di forza sono completa­ mente a suo sfavore, ma la moltitudine risulta «sempre più autonoma» e indipendente da un capitale invece sempre più parassitario, ridotto a semplice comando. La moltitudine è la produzione, il capitale e lo Stato sono il comando. Tutta la potenza creativa e produttiva è nella moltitudine, tutto il potere è nello Stato e nel capitale. Un «dualismo di potere» che non corrisponde a un rapporto di forza reale. Il «lavoro biopolitico dimo­ stra la sua autonomia» nella capacità di «organizzare reti e forme di cooperazione», sempre più in grado «di autogestire la produzione». Gli operai sono costretti ad autorganizzare il loro tempo di lavoro perché «la temporalità in vigore in fabbrica - i modi di gestire il tempo, i cronometraggi [...] - non trova più applicazio­ ne». Anche lo slogan maoista «l'uno si divide in due», che voleva esprimere la lotta di classe e opporsi radi­ calmente al suo contrario, «i due si fondono nell'uno» (questo è lo slogan uscito vincitore dalla rivoluzione culturale e a fondamento del capitalismo alla cinese), è trasformato in una divisione ontologica che vorrebbe essere più radicale della divisione di classe, ma che in realtà esprime un'impotenza politica. La sola separazione in atto è quella politica operata dal capitale, ottenuta rinforzando la subordinazione economica, razziale e sessuale, risultato di uno storico rovesciamento dei rapporti di forza, che però lo sta con­ ducendo alla catastrofe economica, bellica, ecologica. Il

proletariato non è mai stato così sottomesso, cosi impo­ tente, così afono (almeno in Europa) di fronte alla lotta di classe che la macchina Stato-capitale ha condotto ne­ gli ultimi cinquant'anni, e oggi di fronte alla guerra im­ perialista. Alla divisione ontologica occorre sostituire la divisione di classe, perché autonomia e indipendenza non sono già date, ma come sempre bisogna conqui­ starle con la lotta, l'organizzazione, la strategia. Nelle teorie che abbiamo analizzato la guerra scom­ pare o perde le sue dimensioni di violenza di classe, perché tali teorie cercano tutte di risolvere un problema reale. La rivoluzione del XX secolo fondata sull'egemo­ nia del rapporto capitale/lavoro è stata sconfitta. Ma la sconfitta della classe operaia come soggetto politico, non implica la scomparsa della lotta di classe. È vero esattamente il contrario. La lotta di classe infuria unila­ teralmente perché la macchina Stato-capitale trova poca opposizione organizzata, in realtà nessun nemico. Postilla. L'evoluzione della Nato da alleanza militare del Nord Atlantico a «Nato globale» manifesta la vo­ lontà di guerra mondiale degli anglo-americani. Il progetto di piegare chiunque non si sottometta al po­ tere americano si precisa e comincia col dare via libera al massacro dei curdi, svenduti a Erdogan insieme ai tanto conclamati valori occidentali. Argentina e Iran chiedono di entrare nei Brics, cogliendo il senso della guerra in Ucraina: l'Occidente non vuole rassegnarsi al suo declino ed è, come sempre, disposto a tutto 1 .

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La postilla è stata scritta il 30 giugno 2022. 141

Indice P5

Introduzione 1. La guerra in Ucraina, l'Occidente e noi Nuova distribuzione del potere sul mercato mondiale P 22 • L'economia, arma di distruzione di massa P 24 • Perché Putin ha invaso l'Ucraina P 28 • Lenin, guerra e rivoluzione P 32

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P 37 2. Guerra, capitalismo, ecologia Sui limiti di comprensione della filosofia ecologista P 3 7 • La Prima guerra mondiale e la distruzione assoluta P 38 • La grande accelerazione P 41 • Il sedicente «neoliberalismo» P 44 • La guerra tra potenze e la guerra contro Gaia hanno la stessa origine P 46 • Post scriptum: la crisi dell'ontologia P 50

3. In che modo il capitalismo è stato pacificato Cosa dobbiamo preservare delle rivoluzioni P 53 ♦ La guerra di conquista e di assoggettamento P 54 • Le guerre civili e il neoliberalismo P 59 • L'ideologia come narrazione P 61 ♦ Le rivoluzioni e la guerra P 66 • Il militarismo e il ciclo economico P 71 4. Miche! Foucault: a proposito di un voltafaccia sulla guerra civile L'affermazione della volontà nel processo di soggettivazione P 79 • Violenze e rivoluzione P 83 • La volontà e il principio strategico P 89 • Il principio strategico della lotta delle classi P 95 • La dialettica e la contraddizione P 100 • Il rimosso della guerra di assoggettamento P 106

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5. Globalizzazione: macchina da guerra, Impero o imperialismo? Come Stato e capitale si integrano senza identificarsi P 109 ♦ L'Impero P 117 • L'imperialismo e la sua necessità P 123 • La globalizzazione, ovvero l'accumulazione capitalista su scala mondiale P 126 • L'utopia dell'autonomia del capitale globalizzato e la realtà dell'imperialismo P 128 • Stato e capitale P 132 ♦ Il rapporto tra Stato e capitale negli storici P 136

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