Guerra e comunicazione [1] 9788860425331


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Italian Pages 194 Year 2008

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Table of contents :
Diego Lazzarich, Guerra e / è comunicazione, p. 5
Massimo Mori, I filosofi e la guerra, p. 69
Francesca Canale Cama, La guerra prima della guerra, p. 85
Umberto Curi, Il tempo della guerra, p. 121
Alberto Burgio, Divertirsi con gli untermenschen, p. 139
Agata Piromallo Gambardella, Come comunicare la guerra, p. 175
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Guerra e / è comunicazione

L’ISOLA

DI

PROSPERO

Collana di letture politiche diretta da Luigi Mascilli Migliorini 30

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Diego Lazzarich

Guerra e / è comunicazione

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Guerra e comunicazione a cura di

Diego Lazzarich

Guida

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Diego Lazzarich

Collana di elevato valore culturale Ministero per i Beni Culturali e Ambientali L. 5 agosto 1981, n. 416 art. 34

2008 © Alfredo Guida Editore Napoli - Via Portalba, 19 www.guidaeditori.it [email protected]

Il sistema di qualità della casa editrice è certificato ISO 9001/2000

ISBN 978-88-6042-533-1

L’Editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore al 15% del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO). Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - [email protected]

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GUERRA E / È COMUNICAZIONE Diego Lazzarich

Il rapporto guerra-comunicazione attraversa il Novecento innervandosi nella storia dell’Occidente in maniera sempre più intensa e acquistando peso col passare del tempo, fino a giungere ai giorni nostri come nodo problematico imprescindibile capace di porre in discussione e interrogare le stesse categorie politiche moderne. Dalla Prima guerra mondiale in poi il binomio guerra-comunicazione ha fatto la sua comparsa, mostrando una faccia della guerra fino a quel momento quasi del tutto sconosciuta e palesando l’esistenza (e la rilevanza) dell’elemento comunicativo anche nell’evento che, più di ogni altro, rappresenta l’esplosione del muto linguaggio della forza. Anzi, con i conflitti che si sono succeduti – caldi e freddi –, la comunicazione è diventata una componente sempre più significativa degli scontri armati tra Stati, tanto da poter essere considerata una vera e propria parte della fenomenologia della guerra. Proprio la crescente rilevanza del rapporto tra guerra e comunicazione ha richiamato l’attenzione di numerosi studiosi, i quali, da differenti angolature disciplinari, hanno contribuito a moltiplicare il modo di intendere e di coniugare tale legame. In quest’indagine gli studi storici hanno fornito, per esempio, un importante contributo portando alla luce la memoria-

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listica dei soldati della Grande Guerra, svelando in quale modo il tempo della guerra possa riempirsi, nelle pieghe dei combattimenti, di vivide sacche di una comunicazione ricca di emozioni, paure, speranze, sogni e memoria1. A questa configurazione del rapporto guerra-comunicazione, se ne è accompagnata un’altra determinata dalla sempre maggiore importanza dei media nel corso delle guerre. Questa seconda configurazione ha finito col diventare principalmente oggetto di studio delle discipline sociologiche interessate a scoprire in quale modo un conflitto determini i comportamenti sociali o sia percepito dall’opinione pubblica2. 1 Il filone storiografico che ha analizzato gli scritti dei combattenti, con particolare attenzione al rapporto con la memoria, comprende numerosi lavori. Di sicuro rilievo, nell’indagare il rapporto tra Grande Guerra e memoria, sono: P. Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna (1975), il Mulino, Bologna, 1984; E. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale (1979), il Mulino, Bologna, 1985; J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea (1995), il Mulino, Bologna, 1998. In questi testi, particolare importanza è data alle conseguenze della guerra sulla mentalità della società europea novecentesca. Sempre a proposito del rapporto guerra-memoria, ma con particolare attenzione alle lettere dei soldati italiani, si veda: A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, 1915-1918, Sansoni, Firenze, 1998; Id., L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; M. Isnenghi, Le guerre degli italiani 1848-1945. Parole, immagini, ricordi, Mondadori, Milano, 1989; Id., Il mito della Grande guerra, Laterza, Roma-Bari, 1970; M. Isnenghi e G. Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, La Nuova Italia, Milano, 2000; G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993; D. Leoni e C. Zadra, La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, il Mulino, Bologna, 1986. 2 S. Bentivegna, La Guerra in diretta. La copertura televisiva del conflitto del Golfo, Nuova ERI, Torino, 1993; B. Cumings, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra (1992), Baskerville, Bologna, 1994; M. Guidi, La sconfitta dei media: ruolo, responsabilità ed effetti dei media nella guerra della ex-Jugoslavia, Baskerville, Bologna, 1993; E. Katz e T. Peled, Media Functions in Wartime: The Israel home front in October 1973, in J. G. Blumler e E. Katz (a cura di), The Uses of

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Guerra e comunicazione, quindi, non è un binomio nuovo; esso potrebbe essere decifrato come l’inevitabile incontro tra un fatto e un altro, ovvero l’inevitabile intersecarsi della guerra – che da sempre segna la storia del tragitto umano – con la comunicazione di massa – che a seguito di uno sviluppo tecnologico, politico e sociale, sul quel tragitto fa la sua comparsa. Eppure ciò che potrebbe presentarsi come un incontro inevitabile assume sempre più, col tempo, le fattezze di un rapporto forte, stretto, intimo. I succitati studi hanno avuto il merito di tracciare i lineamenti di un nuovo aspetto della guerra moderna, svelando l’esistenza del legame guerra-comunicazione e indagandone le numerose sfaccettature culturali e sociali. Ciò che ancora appare inespressa è, tuttavia, l’invisibile e immateriale tensione che il rapporto guerra-comunicazione racchiude: l’intimità del legame, la tensione filosofico-politica. In questo senso, il rapporto tra guerra e comunicazione appare ancora inarticolato. Negli ultimi anni si sta assistendo al fiorire di una pubblicistica volta a Mass Communication Current Perspectives on Gratification Research, Sage, Beverly Hills, 1974; P. Lalli (a cura di), Guerra e media. Kosovo: il destino dell’informazione, Ombre Corte, Verona, 2003; G. Mazzoleni, Guerra e media, linguaggi dei leader e idiosincrasie mediatiche dei politici, numero monografico di “Comunicazione Politica”, fascicolo 1, 2003; R. Rega, Mediaguerra: raccontare i conflitti contemporanei, Manni, San Cesario di Lecce, 2004; R. Savarese, Guerre intelligenti: stampa, radio, tv, informatica: la comunicazione politica dalla Crimea alla Somalia, Franco Angeli, Milano, 1995. Di particolare interesse, anche se non direttamente collegato al tema della guerra, è anche il libro D. Dayan e E. Katz, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Baskerville, Bologna, 1994. In questo testo, gli autori analizzano in quale modo la televisione influenzi la società trasmettendo la “storia in diretta”, codificando un nuovo linguaggio comunicativo e, al contempo, autolegittimandosi e accrescendo il potere sociale dei mezzi di comunicazione di massa. Con un taglio più storico c’è la raccolta di saggi di P. Ortoleva e C. Ottaviano (a cura di), Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, Liguori, Napoli, 1994.

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sottolineare il rapporto, soprattutto negli Stati Uniti, tra potere e comunicazione e quindi, indirettamente, anche tra quest’ultima e la guerra. Questi lavori, fortemente stimolati dall’opera di Noam Chomsky3, sono orientati da un impegno politico atto a rimarcare le contraddizioni e i limiti dell’unica super-potenza rimasta4. Sebbene tali opere contribuiscano a mettere in evidenza la delicata questione del rapporto tra guerra e comunicazione, spesso esse sono fortemente condizionate dalla matrice politico-civile, difettando di un approccio scientifico. Il presente lavoro punta a inserirsi in questo vuoto interpretativo, proponendo una chiave di lettura del rapporto tra guerra e comunicazione, così come si è configurato in questi ultimi anni. Per fare ciò, è qui proposto un percorso in quattro tappe: il ruolo della comunicazione nella guerra moderna; la Guerra del Golfo e la nascita di un nuovo discorso sulla guerra; il precedente grande discorso sulla guerra della Kriegsideologie dal quale tenta di distanziarsi il discorso del 1991; analisi e interpretazione del rapporto guerracomunicazione.

3 Il tentativo di far emergere i rapporti di potere che sottendono al legame tra guerra e comunicazione è uno sforzo disseminato praticamente in tutte le opere di impegno politico dell’intellettuale statunitense. Tra queste, esplicitamente dedicate al tema sono: N. Chomsky e E. Herman, La fabbrica del consenso (1988), Marco Tropea Editore, Milano, 1998; N. Chomsky, Letters from Lexington. Reflections on Propaganda, Common Courage Press, Monroe (ME), 1993; Id., Media Control. The Spectacular Achievements of Propaganda, Seven Stories Press, New York, 1997; Id., Propaganda and the Public Mind, South End Press, Cambridge (Mass.), 2001. 4 Soprattutto dopo le guerre intraprese dagli Stati Uniti in seguito all’11 settembre, il legame guerra-comunicazione è stato reso oggetto di una particolare ‘vigilanza politica’ da parte della società civile.

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La comunicazione come agente mobilitante 1. Se con la Prima guerra mondiale il rapporto guerra-comunicazione si manifesta in tutta la sua potenza, ancor prima, in realtà, si assiste alla nascita, con la Rivoluzione francese, di ciò che lo storico Mosse ha chiamato il “Mito dell’esperienza di guerra”5 ovvero un ‘racconto’ sulla guerra in cui questa, narrata come esperienza politica ed esistenziale positiva, inizia ad attirare l’attenzione di una parte dei giovani colti europei nel tentativo di perseuaderli ad arruolarsi volontariamente (dando vita a un fenomeno praticamente sconosciuto prima d’allora). Dunque, guerra e comunicazione ovvero comunicazione come narrazione, racconto, elaborazione discorsiva in grado di coinvolgere la popolazione; o, anche, comunicazione come mito, a patto che si utilizzi la definizione di Barthes, per il quale “il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio [...], un modo di significare, una forma”6. È questo l’aspetto comunicativo, in rapporto alla guerra, di cui vorrei trattare, che vorrei approfondire e sviscerare: il modo in cui la comunicazione si sovrappone alla guerra per mezzo di una narrazione che dona forma significando l’evento narrato e veicolando uno specifico messaggio. Se, da una parte, i conflitti attuali sembrano essere il miglior trampolino per un’analisi che voglia gettare uno sguardo all’interno del rapporto tra guerra e comunicazione; dall’altra, essi ci restituiscono un quadro già molto complesso e problematico: uno scenario già esploso, già dis-teso, in cui a fronte dell’estrema ricchezza di materiali da indagare si perde il nocciolo del discorso... la sua tensione originaria. Per attingere a questa tensione – e per meglio poter indagare le forze che la determinano prima del 5 G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti (1990), Laterza, Roma-Bari, 2002. 6 R. Barthes, Miti d’oggi (1957), Einaudi, Torino, 1994, p. 191.

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loro esplodere – occorre compiere un passo indietro nel tempo e arrivare ai primi intrecci del legame tra guerra e comunicazione, ovvero occorre ritornare al tempo in cui prende forma per la prima volta il Mito dell’esperienza di guerra proposto da Mosse. Certo, il rivoluzionario Mito dell’esperienza di guerra non può essere pienamente ricondotto all’interno del rapporto tra guerra e comunicazione per il deficit tecnico dei media o, meglio, a causa della portata sostanzialmente ristretta dei media utilizzati all’epoca (dovuta sia alla loro scarsa diffusione, sia alla scarsità di ‘pubblico’ in grado di decifrare il messaggio in essi veicolato). Tuttavia, sebbene non si possa parlare in senso stretto di comunicazione di massa, è da quel Mito dell’esperienza di guerra che dobbiamo partire per rintracciare le prime componenti di un legame che troverà nel Novecento la sua maturità e per comprendere il nocciolo filosofico-politico in esso contenuto. E qual è questo nocciolo filosofico-politico destinato a rimanere inalterato nel corso dei secoli, fino a giungere a noi? Per rispondere a questa domanda occorre comprendere il contesto storico con cui coincide, di cui è figlio, il Mito dell’esperienza di guerra. Esso è una narrazione elaborata e destinata a circolare nella sfera pubblica, ovvero in quel neonato spazio economico-politico-comunicazionale che per Habermas si apre con l’ascesa della borghesia in Europa7; pertanto, esso rappresenta la gemmazione di una narrazione di rilevanza politica destinata a influenzare l’opinione pubblica sulla guerra. Il mito descritto da Mosse, quindi, può essere identificato come l’origine del rapporto tra guerra e comunicazione, perché con esso si compie una narrazione rivolta alla sfera pubblica e destinata a orientare e rafforzare l’opinione pubblica. Detto altrimenti, con il rivoluzionario Mito 7 Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, Roma-Bari, 2001.

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dell’esperienza di guerra nasce la prima grande narrazione per il popolo – fatto di citoyens – e finalizzata a muovere il popolo alla guerra: una narrazione per il popolo, per una guerra di popolo (quello stesso popolo che tanto avrebbe impressionato il generale prussiano Carl von Clausewitz nel corso delle campagne napoleoniche8, convincendolo a includerlo nella sua celebre teoria della guerra9). Tenuto fermo il nocciolo filosofico-politico racchiuso nel Mito dell’esperienza di guerra, si comprende quale importanza esso ricopra con il crescere della rilevanza politica delle masse, dettata dal clima progressista dell’Europa otto-novecentesca10. La Grande Guerra raccoglie l’eredità rivoluzionaria e ne sancisce semplicemente la definitiva consacrazione, inglobandone i principi e amplificandone la portata, trasformando il rapporto tra guerra e comunicazione in un punto centrale dell’architettura bellica. Non è un caso che proprio in quel periodo nascano i ministeri preposti all’informazione in molti dei Paesi belligeranti e la comunicazione acquisti un ruolo centrale per il sostegno morale alla popolazione, 8 Come osserva Luigi Mascilli Migliorini, Clausewitz comprese che quello di Napoleone era “un modo nuovo di fare la guerra, puntando alla distruzione assoluta dell’avversario”, solo quando se lo trovò di fronte, solo quando lo vide operare. In L. Mascilli Migliorini, Napoleone, Salerno Editrice, Roma, 2001, p. 86. 9 C. von Clausewitz, Della guerra (1832), Mondadori, Milano, 1970, libro I, cap. 1, § 28. Per quanto riguarda la teoria generale e più specificatamente, sull’analisi storica della Guerra di popolo, cfr. il libro VI, cap. 26. 10 Con i moti rivoluzionari del 1848, in Europa si impone definitivamente la questione politica delle masse, richiamando l’attenzione di molti pensatori politici dell’epoca. La natura problematica del ruolo delle masse emerge già in autori come Tocqueville o Burckhardt, fino a essere analizzata, con tutto il suo carico di inquietudine, da Sighele, Le Bon e Tarde. Ben testimoniano, questi autori, di quale drammaticità e conflittualità si rivestano le istanze di un sempre più pressante ‘quarto stato’, ma anche la necessità di fare i conti con una realtà ormai non più trascurabile o ignorabile.

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tanto che Hitler imputerà proprio alla sottovalutazione della propaganda, da parte della Germania rispetto ai Paesi dell’Intesa, la causa principale dello sgretolarsi del fronte interno tedesco nella Prima Guerra mondiale11. 2. Non è possibile comprendere fino in fondo il ruolo svolto dalla comunicazione nella prima guerra del Novecento se non si coglie il radicale stravolgimento storico dettato dallo scoppio di ciò che il generale tedesco Ludendorff definì la guerra totale12: un conflitto in cui non solo gli eserciti ma tutto lo Stato, in tutte le sue articolazioni e senza più alcuna distinzione tra militare e civili, è spinto nella sfera del combattimento. In questo senso, la guerra novecentesca porta con sé il collasso di ogni linea di separazione, di ogni ‘spazio sicuro’, svelando la crisi della spazialità statale, travolta dall’emergente guerra aerea13, e sancendo la progressiva sostituzione di un fronte lineare con un nuovo tipo di fronte: quello disseminato. Per cogliere fino in fondo la discontinuità dettata dal conflitto del 1915-18, prendiamo in prestito – come ricorda Carlo Galli14 – uno degli sguardi più lucidi che siano stati gettati sulla Prima guerra mondiale, quello di Ernst Jünger. Lo scrittore tedesco scri-

11 Cfr. A. Hitler, Mein Kampf (1925), Kaos, Milano, 2006, Vol. 1, cap. 6. 12 E. Ludendorff, Der totale Krieg, Ludendorffs Verlag, München, 1936. In questa opera, come in Conduzione della guerra e politica (Id., Kriegführung und Politik, E. S. Mittler & Sohn, Berlin, 1922), il generale tedesco è tra i primi a porre la questione, cruciale nella guerra moderna, del rapporto tra guerra e politica, denunciando l’incapacità della seconda di stare al passo della prima in un processo bellico sempre più industrializzato e totalizzante. 13 C. Schmitt, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum” (1950), Adelphi, Milano, 1991, Cap. 7, § c. 14 Cfr. C. Galli (a cura di), Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. XXIV.

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ve nel 1930 un saggio intitolato La mobilitazione totale15 in cui, a distanza di molti anni, ritorna sul conflitto che lo ha visto attivamente partecipe e traccia un profilo estremamente illuminante della prima guerra totale dell’umanità. Egli osserva che le guerre precedenti erano mosse dai monarchi, i quali inviavano al fronte “centomila sudditi arruolati [...] agli ordini di un comandante fidato”, senza il bisogno di avere il consenso della “rappresentanza del popolo”, quindi senza coinvolgere né il parlamento né, tanto meno, il popolo. Se si somma, inoltre, “una certa calcolabilità degli armamenti e dei costi”16, ben si comprende come queste guerre richiedessero una mobilitazione parziale, un limitato utilizzo delle energie di uno Stato. Con la scomparsa di una “casta guerriera”, con la difesa della nazione rimessa nelle mani di “tutti coloro che in generale sono atti alle armi” e con l’enorme aumento dei costi di guerra, il funzionamento della macchina bellica necessita in misura sempre crescente di “coinvolgere nell’armamento le forme astratte dello spirito, del denaro, del ‘popolo’, in breve le potenze della nascente democrazia nazionale”, per mezzo dell’“atto della mobilitazione”17. Volendo incarnare le forme astratte jüngeriane, potremmo dire che la guerra, precedentemente mossa dal sovrano e da altri pochi uomini da lui controllati, scompare al sorgere di una ‘guerra quantitativa’ che necessita della partecipazione attiva di tutte le componenti dello Stato e di tutti i settori della società. La guerra, che fino al 1914 era concepita esclusivamente come “un’azione armata”, osserva Jünger, si ritrova nel Novecento con una nuova architettura strut15 E. Jünger, La mobilitazione totale (1930), traduzione di Carlo Galli, “il Mulino”, 301, anno XXXIV, n. 5, settembre-ottobre 1985. 16 Ivi, p. 755. 17 Ivi, pp. 756-757.

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turale paragonabile a “un gigantesco processo di lavoro” dove, in modo molto più articolato, “accanto agli eserciti che si affrontano sui campi di battaglia sorgono eserciti di nuovo tipo, l’esercito dei trasporti, dell’approvvigionamento, dell’industria degli armamenti: in generale, l’esercito del lavoro”. Il passaggio da una guerra parziale a una totale fa sì che tutti, all’interno dello Stato, si ritrovino coinvolti nel processo bellico e che, come scrive suggestivamente lo scrittore tedesco, “non vi è più alcuna attività – neppure quella della lavoratrice domestica alla sua macchina per cucire – che non sia collegata, in forma almeno indiretta, alla produzione bellica”. Ogni energia è coinvolta in modo assoluto nel processo bellico trasformando tutta la società in una officina di Vulcano, facendo sfumare qualsiasi confine tra civile e militare (fattore che sancirà il definitivo tragico accesso della popolazione civile tra gli obiettivi militari). “Per dispiegare energie di questa misura – scrive sempre Jünger – non è più sufficiente armare il braccio che porta la spada: è necessario essere armati fino nelle midolla, fino nel più sottile nervo vitale. Porre in essere quelle energie è il compito della mobilitazione totale, di un atto cioè attraverso il quale è possibile, impugnando un unico comando su di un quadro di controllo, far confluire la rete d’energie – tanto ramificata e diffusa – della vita moderna nella grande corrente d’energia bellica”18. La mobilitazione totale è la vera chiave del successo militare, il reale strumento grazie al quale è stata vinta la guerra: uno strumento che sembra essere prerogativa dei Paesi progressisti che meglio dialogano con le parti che concorrono alla guerra. Jünger afferma: “In questo conflitto è contato non tanto il grado in cui uno Stato era o non era uno Sta18

Ivi, p. 757.

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to militare, quanto piuttosto il grado in cui era capace di mobilitazione totale”19. 3. La lucida analisi dello scrittore tedesco ci dice che la guerra, nel suo essere totale, è intimamente legata alla capacità di uno Stato di convogliare tutte le energie che lo attraversano verso il processo bellico (e contro il nemico). In questo fondamentale processo, che sta alla base della guerra moderna, la comunicazione si riveste di una luce del tutto nuova, poiché essa appare uno dei mezzi più adatti per muovere la popolazione e coinvolgerla in un disegno politico; anzi, la comunicazione si rivela essere lo strumento indispensabile per realizzare una mobilitazione totale. La comunicazione, pertanto, diventa un agente che iniettato nella società riesce a destare la popolazione (smuovendone e orientandone le energie) verso un fine, man mano che compie il suo percorso. In particolar modo, a rendere la comunicazione efficace è la formazione di una narrazione che crei un disegno, un fine dentro il quale far ricadere, donando loro senso, le persone coinvolte, tramutandole in attori (protagonisti) del racconto. Se tutto un Paese è stretto nello sforzo bellico, tutto il Paese deve partecipare e per farlo occorre che si compiano due condizioni: ognuno deve dare il suo contributo lavorativo all’interno di una dimensione sistemico-industriale in grado di finalizzare ogni sforzo in funzione del combattimento; occorre creare un tessuto narrativo capace di far percepire la natura sistemica del singolo sforzo, ovvero di far prendere coscienza a tutti del modo in cui anche una balia stia, in verità, combattendo nello stesso istante in cui pensa di star cullando un bebé. Per fare ciò è indispensabile mostrare il modo in cui ciò si compie, palesare i passaggi, perché se non 19

Ivi, p. 761.

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si prendesse visione del sistema nel quale si sta operando, non ci si sentirebbe coinvolti, quindi non ci si mobiliterebbe. Proprio per questo motivo, nel suo lavoro sul Mito dell’esperienza di guerra, lo storico Mosse scrive: “A misura che le masse, largamente analfabete, venivano integrandosi nella società e nella politica, l’Ottocento era sempre più divenuto un’epoca visiva. La Prima guerra mondiale fu combattuta nell’età della cartolina illustrata [...] I giornali illustrati [...] trovarono anch’essi durante la guerra un pubblico di massa”20. Il visuale diviene la chiave della “partecipazione di massa”, come, d’altro canto, di una sempre crescente “estetizzazione della politica”, utilizzando la felice espressione di Mosse21. 4. Allo stesso modo, la visione del processo bellico diviene la chiave della mobilitazione totale, una visione che dia il senso dell’attualità, quindi della natura com-partecipativa di ogni singola azione che si sta compiendo in quella fase. In questa nuova esigenza storico-politico-narrativa, come non si può non pensare alla sorprendente coincidenza con la comparsa del cinema? Esso sembra oggettivare lo ‘spirito del tempo’, tanto che Kevin Brownlow, in uno dei lavori fondamentali sull’argomento, afferma che il cinema diventa maggiorenne proprio con la Grande Guerra, e alla fine del conflitto il suo ruolo sociale si consolida in tutto il mondo22. La nuova esigenza narrativa trova il suo perfetto medium proprio nel cinema che, come nota Benjamin23, riesce a scardinare la prassi elitaria 20

G. L. Mosse, Le guerre mondiali, cit., pp. 189-190. Id., La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimento di massa in Germania, il Mulino, Bologna, 1975, p. 17. 22 Cfr. K. Brownlow, The war, the West and the Wilderness, Knopf, New York, 1978. 23 Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino, 1991. 21

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di fruizione dell’arte rivolgendosi direttamente alle masse, quindi è in grado di rivolgersi a tutti i cittadini, accogliendo in pieno le esigenze mobilitanti della guerra moderna. Con il cinema, il processo narrativo si trasforma in una comunicazione realmente efficace, capillare e in grado di raggiungere gli strati sociali anche più periferici e solitamente meno permeabili ad una comunicazione persuasiva. Il cinema, rileva Louella Parsons, assume una vera e propria funzione centrale per il rafforzamento e per la mobilitazione ideale del fronte interno24. Esso diviene lo strumento con il quale supportare il morale di milioni di spettatori, di militari e civili, sparsi in tutti i continenti e anche uno straordinario strumento di reclutamento in grado di muovere i civili trasformandoli in volontari25. Con il proseguire della guerra, in tutti i Paesi, le sale cinematografiche si riempiono di spettatori dando la sensazione, osserva Alfred Döblin, che il cinema sia “cibo per le masse” e dia loro la dose quotidiana di panem et circenses, dove per circenses “si intende soprattutto la comunione periodica laica coi corpi e il sangue vivo di vittima e di sciagure civili e militari, fatto circolare in dosi massicce nei giornali illustrati e nelle piccole sale di periferia”26. Il cinema spalanca le porte a una partecipazione pienamente popolare, per mezzo di una narrazione coinvolgente e in grado di restituire il senso dell’attualità, del tempo presente, dell’ora. In questo modo si abbatte anche il muro percettivo: l’ultima frontiera tra il fronte 24 L. O. Parsons, Propaganda!, “Photoplay”, Vol. XIV, n. 4, settembre 1918, pp. 43-46. 25 I. Van Dooren e P. Kramer, The Politics of Direct Address, in K. Dibbets e B. Hogenkamp (a cura di), Film and the First World War, Amsterdam University Press, Amsterdam, 1995, pp. 97-107. 26 G. P. Brunetta, Cinema e prima guerra mondiale, in Id. (a cura di), Storia del cinema mondiale. Volume primo: l’Europa. Miti, luoghi, divi, Einaudi, Torino, 1999, p. 255.

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e le retrovie, tra i militari e i civili, restituendo la natura sistemica del conflitto moderno, grazie alla quale poter operare una piena distensione della mobilitazione totale. 5. Se il cinema svela la perfetta funzione della narrazione per immagini, quale mezzo per raggiungere una piena partecipazione popolare, esso non manca di suscitare, a conflitto ormai finito, sia interrogativi circa la natura della realtà rappresentata nello schermo sia dubbi sullo statuto di verità di cui può farsi portatore. Scrisse Ejzenπtein, nel suo libro incompiuto Teoria generale del montaggio27, che il cinema è il montaggio di frammenti di vissuto, ovvero è il luogo dove la “rappresentazione” (la semplice restituzione visiva e lineare dei fenomeni) acquista significato divenendo “immagine”, essendo questa “nient’altro che un modo di comporre la rappresentazione”28. Come sottolineato dal regista russo, il cinema si poggia su un processo di significazione di frammenti sparsi, su un’opera di montaggio destinata a donare senso agli eventi narrati. Ciò significa che ogni rappresentazione filmata, per quanto si realizzi con immagini che ripropongono e attestano una data realtà, è sempre la risultante di un processo di montaggio; ricombinando le immagini, tale processo è in grado di produrre un senso, dei fatti riproposti nelle immagini, potenzialmente differente rispetto a quello reale. Lo strumento che dona la piena maturità alla mobilitazione totale, per mezzo di una narrazione che sembra rendere miracolosamente trasparente tutte le divisioni interne allo Stato (incluse quelle fra governanti e governati) svela, nella sua più intima essenza, 27 S. M. Ejzenπtein, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia, 1985. 28 P. Montani, “Pathos”: l’estetica dell’ultimo Ejzenπtein, in Id., Fuori campo. Studi sul cinema e l’estetica, Quattroventi, Urbino, 1993, p. 12.

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un’endemica vocazione a riproporre una verità soggettiva nello stesso istante in cui sembra riproporre una verità oggettiva. Diviene più chiaro perché assumere come centrale (e problematico) il legame tra guerra e comunicazione nella guerra moderna29, poiché se quest’ultima non è più pensabile senza una mobilitazione totale (con tutto ciò che significa) e se la mobilitazione totale non si compie senza l’elaborazione di una strategia comunicativa efficace, ciò significa che non è più possibile pensare alla comunicazione come a un accessorio, bensì occorre pensarla come elemento strutturale della guerra. Senza comunicazione non ci sarebbe una mobilitazione totale e senza una mobilitazione totale non sarebbe possibile sostenere un processo bellico, ma non c’è processo bellico che sia sostenuto senza un ‘montaggio’, senza un processo di significazione degli eventi endemicamente esposto alla manipolazione, all’asimmetria informativa. Nel ricostruire il percorso che unisce guerra e comunicazione, ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma che ci consente di modificare la copula di “guerra e comunicazione” in verbo: “guerra è comunicazione” o, quantomeno, guerra è (anche) comunicazione. La comunicazione è, pertanto, un agente mobilitante. Tutte le volte che per mezzo di una comunicazione pubblica si incita alla “mobilitazione”, altro non si fa che attingere a un lessico bellicista, ribadendo la profonda natura che lega la guerra e la comunicazione. Nell’accrescere il potere mobilitante di una narrazione bellica, come abbiamo visto, l’irruzione dell’immagine, e di una narrazione per immagini, ha giocato un ruolo del tutto centrale, segnando la traccia di un 29 Sul collegamento tra la Grande Guerra (e il suo tempo) e il tema del montaggio, cfr. S. Catucci, Per una filosofia povera, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, capitolo 4, “L’età del montaggio”.

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lungo e florido legame. Dalla Prima guerra mondiale in poi ha preso forma, infatti, ciò che Paul Virilio ha chiamato una “logistica della percezione”30, un utilizzo strettamente strategico delle immagini: un legame che – fermo restando l’eccezionalità del passaggio totalitaristico – ha trovato nel periodo della Guerra Fredda un humus ricchissimo, consentendo ciò che alcuni teorici, come Joxe31, hanno chiamato una “guerra semiotica” – in riferimento a una strategia militare che deve includere l’immaginazione dei possibili scenari post-termonucleari come arma di dissuasione –; o riportando l’attenzione, come nel caso del generale Poirier32, sul come una rappresentazione per immagini finisca per spostare la guerra su un versante virtuale, in cui si susseguono visioni e scenari di guerra, nel far figurare, nel caso di una guerra nucleare, l’impossibile (parafrasando il titolo, e il senso, del libro dei uno dei massimi teorici della guerra fredda, Herman Kahn33). Con i nuovi scenari aperti dalla Guerra Fredda il rapporto tra guerra e comunicazione segna un passaggio qualitativo che colloca al centro della guerra il ruolo assoluto della comunicazione e della sua rappresentazione. La messa in opera di un racconto marziale diviene il punto centrale della guerra moderna, anzi, di una guerra che, per certi versi, si trova già più in là della Modernità, ponendo in crisi le categorie di quest’ultima e rilanciando nuovi fondamentali interrogativi su che cosa sia realmente e quali forme assuma oggi la guerra. 30 Cfr. P. Virilio, Guerra e Cinema. Logistica della percezione (1996), Lindau, Torino, 2002. 31 A. Joxe, Stratégie de la dissuasion nucléaire, in P. Fabbri e E. Landowski (a cura di), Explorations stratégiques, “Actes Sémiotiques, Bullettin”, n. 25, Paris, Institut National de la Langue Française, 1983. 32 L. Poirier, Essais de stratégie théorique, “Les Cahiers de la Fondation pour les Études de Défense National”, n. 22, 1982. 33 H. Kahn, Thinking about the Unthinkable, Horizon Press, New York, 1962.

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La guerra del Golfo e l’impossibilità della guerra 1. Nonostante la genealogia di questa nuova dimensione della guerra-e-comunicazione attraversi il Novecento assumendo numerose forme e acquisendo sempre più forza lungo il suo corso, il punto in cui il legame tra guerra e comunicazione appare combinarsi in una modalità nuova, palesando una netta e perturbante interconnessione, è sicuramente la guerra del Golfo Persico. Il 17 gennaio 1991 una coalizione di venti Stati, guidata dagli Stati Uniti d’America, diede inizio ai bombardamenti contro l’Iraq in risposta all’invasione di quest’ultimo nei confronti del Kuwait (avvenuta nell’agosto del 1990). Alle 2 e 38 ebbe inizio l’operazione Desert Storm (conclusasi nel marzo dello stesso anno con la vittoria della coalizione internazionale) e, nello stesso istante, grazie al segnale del canale televisivo statunitense, Cable News Network (CNN), tutto il mondo poté ascoltare il suono dei bombardamenti commentato dai reporter Bernard Shaw, Peter Arnett e John Holliman mentre sullo schermo del video le loro fotografie si stagliavano su una cartina geografica del Paese attaccato. I tre reporter, dall’Hotel Al-Rashid di Baghdad, assistettero al bombardamento e lo trasformarono in trasmissione televisiva sancendo la prima cronaca in diretta di un evento bellico e la definitiva spettacolarizzazione del conflitto34 e divenendo, così, profeti di un sodalizio che avrebbe caratterizzato l’intera operazione militare. La prima guerra in diretta aveva preso il via e alla prima telecronaca audio seguirono in breve i primi video dei bombardamenti aerei. I canali televisivi di tutto il mondo rilanciavano le immagini provenienti dalla CNN in cui si vedeva una spettrale Baghdad 34 Un’ottima ricostruzione cinematografica di questo evento è stata fatta dal regista Mick Jackson nel film Live from Baghdad, 2002.

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notturna, resa verde dalle telecamere a infrarossi, in cui i traccianti della contraerea squarciavano il buio della notte innalzandosi verso il cielo alla caccia degli aerei statunitensi e, di tanto in tanto, forti bagliori e fragorose deflagrazioni indicavano l’esplosione dei missili che dagli aerei e dalle portaerei d’istanza nel Golfo Persico giungevano sulla capitale irachena. Per la prima volta nella storia, lo sviluppo tecnologico consentiva di vedere, in tempo reale e nella forma della mediazione, un conflitto grazie alla (velocità assoluta)35 ovvero ciò che Paul Virilio riconosce come un annullamento dello spazio a opera di 35 In un’intervista, Virilio così spiega la “velocità assoluta”: “le comunicazioni hanno cominciato a usare la velocità limite. Tutte le società antiche avevano sviluppato delle velocità relative. Anche la rivoluzione dei trasporti nel XIX secolo è evidentemente legata alla velocità relativa del treno, dell’aereo, e, in seguito, dei mezzi di trasporto supersonici. La rivoluzione delle trasmissioni, delle telecomunicazioni, usa, generalmente parlando, la velocità assoluta, cioè la velocità delle onde elettromagnetiche. Era già avvenuto con la radio e con il telefono, ma ormai avviene anche con la teleaudizione, con la televisione e con la tele-azione o interattività. Ora l’interattività è, in un certo senso, la nascita di un mondo unificato, di un mondo unico. Unito da che cosa? Dal tempo reale, dall’immediatezza, dall’ubiquità, dall’istantaneità. Viviamo dunque un tempo ineguagliabile, un tempo mondiale, che non trova equivalenti nel passato, se non nel tempo astronomico. Tutta la storia delle società si fa nei tempi locali, di un paese, di una regione. La storia di domani, la storia che oggi comincia, si fa in un tempo unico, il tempo mondiale, il tempo dell’immediatezza, quello che si chiama ‘live’, ‘tempo reale’. Questo comporta un trauma, a mio avviso. Il tempo reale, il tempo mondiale ha il sopravvento sullo spazio reale, sullo spazio tempo locale, sullo spazio-tempo della storia.” È di estremo interesse osservare che Virilio attribuisca alla “velocità assoluta” anche una funzione politico-sociale, oltre che storica. Nella stessa intervista egli afferma: “Il fatto di aver messo in opera, per la prima volta nella storia, su scala mondiale, la velocità assoluta, la velocità delle onde elettromagnetiche, comporta infatti una inerzia. Farò un esempio: l’uomo andava incontro all’evento o all’informazione spostandosi nel mondo, verso l’evento... Ma, poiché ormai l’evento viene a lui, non ha più bisogno di spostarsi. [...] La passività, l’inerzia, è già un grosso problema” in P. Virilio, “La velocità assoluta”, European IT Forum, Parigi - 5 settembre 1995 (http://www.mediamente.rai.it/HOME/bibliote/intervis/v/ virilio.htm#link001).

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tecnologie che consentono una tele-presenza, una presenza a distanza. Milioni di spettatori si trovarono improvvisamente catapultati nel campo di battaglia, senza per questo essere in pericolo di vita e godendo della stessa prospettiva che in quel medesimo momento aveva un iracheno. “Così l’umanità intera si è accomodata davanti al piccolo schermo per assistere al più grande spettacolo di tutti i tempi, alla ‘guerra in diretta’ ”36. Accanto alla rivoluzione data, appunto, dalla messa in onda LIVE del teatro di guerra, la svolta mediatica coinvolse in pieno anche le forze armate che diedero vita a conferenze stampa sempre più orientate a fornire descrizioni particolareggiate ai giornalisti37. Nel corso di una delle prime conferenze stampa fu descritto, ad esempio, in modo meticoloso il nuovissimo apparato bellico dell’esercito statunitense. La tecnica comunicativa utilizzata puntava a suscitare una reazione di ammirato stupore di fronte ad armi quali l’F117 Stealth, il primo aereo al mondo invisibile agli occhi del radar; o alle bombe teleguidate al laser, anche definite “bombe intelligenti”; oppure al sistema di rilevamento satellitare in grado di avere una mappatura costantemente aggiornata e minuziosa del territorio. “Le prime conferenze stampa del comando alleato assomigliavano a una fiera delle meraviglie tecnologiche: aerei ‘invisibili’, missili capaci di imboccare le più recondite vie di accesso ai ben muniti bunker nemici, apparecchiature elettroniche in grado di of36 C. Formenti, La guerra senza nemici, in P. Dalla Vigna e T. Villani (a cura di), Guerra virtuale e guerra reale: riflessioni sul conflitto del Golfo, Mimesis, Milano, 1991, p. 35. 37 Come scrive Claudio Fracassi: “I generali venivano mandati alle conferenze stampa come gli attori ad un’audizione. Chi non offriva una buona prestazione veniva rispedito dietro le quinte”. In C. Fracassi, Sotto la notizia niente, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 120 (prima ed. 1997). Il libro è anche consultabile on-line nel sito di Megachip all’indirizzo web: http://www.lombardia.megachip. info/vis_cont.php?id_art=31.

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frire in tempo reale tutti i minimi dettagli delle operazioni in corso. Lo scenario della guerra reale replicava in grande stile gli scenari computerizzati delle guerre simulate”38. Ci fu, inoltre, l’utilizzo, da parte dei militari, di un linguaggio atto a ribadire costantemente una certa fredda neutralità delle operazioni belliche, quasi un’asetticità del conflitto, se non addirittura un potere taumaturgico delle operazioni militari evocato da definizioni quali “azioni chirurgiche”, in cui implicitamente si esprimeva un intento volto alla guarigione e alla liberazione da un male39. In sostanza, all’opinione pubblica occidentale fu spiegato analiticamente tutto il percorso delle operazioni di guerra e, contemporaneamente, fu mostrato con foto e video il modo in cui il percorso si compiva; quasi come a voler dare la sensazione che tutto era visibile poiché non c’era nulla da occultare, nulla da nascondere. Si poteva addirittura assumere il punto di vista di una bomba, grazie al video proveniente da una telecamera installata sulla testata di un missile, che ci svelava il modo preciso in cui questo colpiva e neutralizzava il suo target. Veniva presentata una guerra pulita, in cui l’infallibile logica razionale del calcolo computerizzato generava modelli previsionali in grado di anticipare i possibili scenari bellici e in cui ogni errore era fugato, incluso quello più sgradevole: la morte. Infatti, per indicare le vittime delle operazioni di guerra fu adoperato il termine “danni collaterali”, prosciugando l’ultimo filo di sangue dalla comunicazione di 38

C. Formenti, La guerra senza futuro, cit., pp. 35-36. Una breve analisi sull’utilizzo delle metafore mediche nella comunicazione dell’esercito lo si ritrova nello studio di George Lakoff, Metaphor and War: The Metaphor System Used to Justify War in the Gulf, “Viet Nam Generation Journal Online”, Vol. 3, N. 3 (http://www3.iath.virginia.edu/sixties/HTML_docs/Texts/Scholarly/Lakoff_Gulf_Metaphor_1.htm). 39

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una guerra che già aveva incoronato, sull’altare massmediatico, il suo eroe immortale: la tecnica – e si sa, le macchine non sanguinano, quindi, non possono neanche morire –. La Guerra del Golfo, col suo sistema tecnologico, fu presentata come il paradigma della guerra del futuro in cui, “software, optronica, microchip, computer e così via diventano [...] i nuovi protagonisti del campo di battaglia”40. Ma la caratteristica più significativa del conflitto, rispetto alla linearità storica, si giocava non tanto in direzione del futuro, ma nel verso opposto. La Guerra del Golfo, infatti, sembrava tagliare definitivamente i ponti con le guerre moderne del passato. Il senso di questo cambiamento lo troviamo nelle parole di Eric Hobsbawm che in un’intervista del 1999 parla dello sviluppo delle tecnologie militari e del modo in cui queste hanno modificato le azioni belliche affermando che “dalla guerra del Golfo in poi, sappiamo [...] che l’alta tecnologia produce una capacità di distruzione molto più precisa e discriminante”, evitando, in questo modo, “conflitti sanguinosi e devastanti”. Lo storico britannico descrive la Guerra del Golfo come un conflitto caratterizzato dall’impronta tecnologica, in cui le “bombe intelligenti sono in grado di scegliere particolari obiettivi e di evitarne altri”. Il fattore tecnologico è letto da Hobsbawm non come apporto formale, ma sostanziale e destinato, pertanto, a trasformare il conflitto stesso: l’alta tecnologia, di fatto, “ripristina la distinzione – scomparsa nel XX secolo, quando sempre più le guerre furono dirette contro i civili – tra combattenti e non combattenti.”41 Le osservazioni di Hobsbawm ci spingono al cuore del problema. Egli ci dice di intravede40 J. P. Husson, Programmi di Guerra. Scenari e tecnologia nel conflitto del Golfo, Vallecchi, Firenze, 1991, p. 99. 41 E. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo (1999), a cura di A. Polito, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 12.

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re, nella Guerra del Golfo, un conflitto ad alta tecnologia in cui questa modifica e invalida il paradigma jüngeriano della guerra totale, facendo tornare indietro le lancette del tempo fino all’epoca delle guerre tra eserciti; all’epoca dell’ordinata guerre en forme – non assoluta – descritta da Carl Schmitt42; all’epoca in cui la popolazione civile era colpita solo occasionalmente o accidentalmente e, comunque, non per fini strategici. La Guerra del Golfo fu presentata all’opinione pubblica occidentale come una guerra nuova: scremata dalle rozze imprecisioni delle armi primo-novecentesche – che tanti morti hanno lasciato sui campi di battaglia europei –; ripulita dalla divorante volontà di potenza che aveva alimentato le precedenti guerre moderne; sottratta alle insidie paludose di una guerriglia campale. In pratica, quella del 1991 fu pensata come una guerra in cui la precisione tecnologica rendeva nuovamente possibile la distinzione tra nemico e civile; dove la possibilità di attaccare dall’alto impediva ogni inutile spargimento di sangue; dove la razionalità calcolante ingabbiava le azioni belliche impedendo ogni mortifera sbavatura della forza. La Guerra del Golfo fu presentata esattamente come la guerra del suo tempo. Non solo perché sembrava essere la figlia perfetta del mondo dell’alta tecnologia, ma anche (e soprattutto) perché appariva, in questo modo, l’unica guerra possibile, l’unica accettabile. 2. Fu davvero così? La Guerra del Golfo rappresentò realmente una nuova fase nella storia della guerra moderna? Per rispondere a queste domande dobbiamo entrare là dove il conflitto si è guadagnato il suo status di guerra pulita, rafforzandosi e autolegittimandosi nel corso stesso del suo dispiegarsi; inserirci nel discorso della guerra; penetrare nel globo comu42

Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, cit.

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nicativo in cui fu immersa la Guerra del Golfo per verificarne la perfezione geometrica, alla ricerca di una crepa da cui partire per sollevare il velo mediatico che ricoprì il conflitto. In un articolo tratto dal Collier’s Year Book del 1992, il giornalista americano Bill Kovach43 racconta la sua esperienza come inviato di guerra durante l’operazione Desert Storm, riuscendo a far comprendere il reale grado di libertà di cui godevano i giornalisti. Nel descrivere le condizioni operative in cui si trovavano i corrispondenti, egli scrive: “Fatta eccezione per la possibilità di osservare i [bombardamenti] su Baghdad, i giornalisti che dovevano riferire sulla Guerra del Golfo ebbero scarsissimi contatti sia con le operazioni militari sia con i soldati.” Kovach spiega che i reporter erano accompagnati dalla scorta militare nei siti stabiliti seguendo un percorso guidato/forzato e una volta sul posto veniva raccontata loro la versione dei fatti. Ogni libertà di movimento era negata e i militari, inoltre, erano presenti “per regolamento a tutte le interviste” operando spesso tagli quando queste risultavano “troppo critiche nei confronti della politica ufficiale. [Inoltre, i] pezzi scritti dai luoghi a cui i giornalisti avevano accesso erano soggetti poi ad un’ulteriore censura, nella maggior parte dei casi politica, che mirava a eliminare le informazioni imbarazzanti per l’esercito [...]. Quasi 50 giornalisti americani vennero trattenuti e alcuni di loro anche arrestati per aver tentato di eludere le limitazioni imposte dall’esercito.”44 Il racconto di Kovach apre un primo scollamento tra la comunicazione della guerra, operata dai militari, e la guerra stessa, spiegando come la presunta 43

Kovach è stato caporedattore a Washington del New York Times e direttore, recentemente, della Fondazione Nieman per il Giornalismo dell’Università di Harvard. 44 B. Kovach, Guerra e comunicazione di massa, in “Collier’s year book”, 1992, riportato in Microsoft Encarta 2006, voce “Guerra del Golfo”.

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trasparenza e libertà dell’informazione giornalistica fossero, in realtà, pesantemente condizionate. Nella stessa direzione va quanto riportato da un inviato italiano, il quale spiega che dal centro in cui si svolgevano i briefing, a Dharhan, gli ufficiali selezionavano i ristretti pool di giornalisti, tutti anglosassoni, che avrebbero riferito, preventivamente censurati, ai loro colleghi circa le missioni esterne con l’esercito. Egli scrive: “I giornalisti del pool venivano accompagnati al fronte, scrivevano le loro corrispondenze che venivano trasmesse a Dhahran, dove i censori cancellavano le frasi troppo azzardate. A noi, cioè ai giornalisti di tutte le altre parti del mondo, non restava altro che affittare una casella nella grande bacheca americana e comprare notizie censurate e di seconda mano”45. Le testimonianze degli inviati di guerra concordano nello svelare che, con un’attenta politica di controllo, di censura e di finte rappresentazioni, l’esercito riuscì a organizzare una strategia comunicativa atta alla creazione di una descrizione totalmente realistica degli eventi bellici, ma parzialmente falsa, il tutto senza che i giornalisti si rendessero conto di ciò che accadeva e senza che ponessero in discussione l’attendibilità delle fonti. Come ha commentato Lucio Manisco, “l’amministrazione Bush ha dedicato alla diffusione di menzogne e alla mimetizzazione della realtà della guerra risorse umane ed impegno organizzativo certamente uguali a quelli dei Capi di Stato Maggiore e del Pentagono nella preparazione e nella conduzione dell’intero conflitto”. E i mass media – nota Serge Salimi – “si misero sull’attenti”46. 45 T. Fontana, Hotel Palestine, Baghdad, nelle mani degli iracheni, Il Saggiatore, Milano, 2004, p. 124. 46 Osservazione di Serge Salimi, cit. in C. Fracassi, Sotto la notizia niente, cit. p. 120.

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La perfezione geometrica del globo comunicativo in cui fu immersa la guerra del 1991 si crepa e lo scollamento tra il fatto e la sua narrazione si allarga ulteriormente nel momento in cui si viene a sapere che “a causa delle restrizioni imposte ai media – è Kovach la fonte – il pubblico aveva ricevuto una versione dei fatti oculatamente distorta. I costi e le reali conseguenze del conflitto divennero chiari solo in seguito; per esempio solo dopo la guerra si seppe che il 90% delle bombe sganciate sull’Iraq non erano teleguidate e che per lo più avevano mancato il bersaglio; o che i missili Patriot lanciati per intercettare gli Scud iracheni avevano causato a Israele danni maggiori degli stessi Scud”47. La manipolazione e la censura delle notizie di guerra non è, tuttavia, l’unica manovra operata all’interno di un disegno strategico-comunicativo, vi è un orizzonte più ampio che rende il rapporto tra guerra e comunicazione ancor più intricato e problematico, svelando l’assoluta centralità dalla comunicazione pubblica nel 1991. Il periodo che va dall’invasione irachena nell’agosto del 1990 fino all’attacco di Schwarzkopf del 16 gennaio 1991 fu dedicato, come si fa per le campagne pubblicitarie, a un’attenta azione di “marketing” e di preparazione dell’opinione pubblica. La Casa Bianca – con a capo Bush e i suoi più fidati collaboratori, soprannominati anche la “Gang of Eight” – divenne il quartier generale dal quale coordinare la strategia politica, militare e informativa48. Un ruolo estremamente importante fu giocato da quella che in quel periodo era la più grande agenzia di pubbliche relazioni al mondo: la Hill & Knowlton ingaggiata dal governo kuwaitiano in esilio per sensibilizzare l’opinione pubblica americana e mondiale nei confronti di una 47 48

B. Kovach, Guerra e comunicazione, cit. Cfr. C. Fracassi, Sotto la notizia, cit., p. 122.

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guerra di liberazione del Kuwait occupato dall’Iraq49. La prima manovra dell’agenzia fu quella di creare il gruppo “Citizens for a Free Kuwait”50 e successivamente iniziò a organizzare numerose operazioni mediatiche finalizzate alla creazione di consenso per un’operazione militare. La Hill & Knowlton iniziò una campagna mediatiche senza precedenti, organizzando eventi destinati ad essere al centro dell’attenzione di tutti i mass media del pianeta e, inoltre, la sua azione si spinse fino alla creazione di vere e proprie notizie. Il 10 ottobre del 1990, per esempio, l’Assemblea congressuale per i diritti umani tenne un’audizione a Capitol Hill51 “presentando ufficialmente per la prima volta le violazioni dei diritti umani dell’Iraq”52. Una ragazza kuwaitiana di 15 anni, identificata solo col nome di Nayirah, testimoniò che durante un periodo di volontariato presso l’ospedale al-Addan vide i soldati iracheni “entrare nell’ospedale con i fucili e dirigersi nella camere dove si trova49 Citizens for Free Kuwait Files with FARA After a Ninemonth Lag, in O’Dwyer’s FARA Report, Vol. 1, n. 9, ottobre 1991, p. 2. 50 Con una tale operazione si intendeva celare il diretto coinvolgimento del governo in esilio del Kuwait e dell’Amministrazione Bush. In questo modo, il governo kuwaitiano stanziò circa 12 milioni di dollari per il gruppo “Citizens for a Free Kuwait” che, in realtà, finirono quasi tutti alla Hill & Knowlton (10.800.000 dollari) per i suo i servizi. Per un approfondimento cfr. Arthur E. Rowse, Flacking for the Emir, “Progressive”, maggio 1991, pp. 21-22. 51 Come ha osservato John MacArthur, sebbene l’Assemblea dei diritti umani fosse presieduta dai due deputati Tom Lantons e John Porter, essa non era una commissione ufficiale del Congresso “quindi è libera da quelle implicazioni legali che farebbero esitare un testimone prima di mentire”. “Mentire sotto giuramento di fronte a una commissione congressuale è reato; mentre dietro l’anonimato di fronte a una riunione al vertice è soltanto diplomazia”. J. MacArthur, The Second Front: Censorship and Propaganda in the Gulf War, Berkeley, University of California Press, 1992, p. 58. 52 S. Rampton e J. Stauber, Vendere la guerra. La propaganda come arma di inganno di massa, Nuovi mondi media, Ozzano dell’Emilia, 2003, p. 61.

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vano i bambini nelle incubatrici. Hanno tolto i bambini, hanno portato via le incubatrici e li hanno lasciati morire sul pavimento gelido”53. La notizia fece il giro del mondo e fu ripresa anche dal Presidente Bush per giustificare la necessità di un attacco contro Saddam Hussein. Come osserva MacArthur: “Di tutte le accuse mosse contro il dittatore, nessuna ebbe più impatto sull’opinione pubblica americana di quella secondo cui i soldati iracheni avrebbero tolto 312 neonati dalle incubatrici lasciandoli morire sul pavimento gelido dell’ospedale di Kuwait City”54. All’Assemblea nessuno aveva precisato che la ragazza era un membro della famiglia reale kuwaitiana, il cui padre era ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti e che aveva raccontato di Kuwait City nonostante mancasse da tempo dalla capitale e, ancora, che, in realtà, ella era stata istruita dalla Hill & Knowlton sul racconto da fornire55. Al termine del conflitto, furono svolte alcune indagini da parte di numerosi investigatori senza che si trovassero le prove di quanto detto da Nayirah. Il giornalista John Martin della ABC si recò nell’ospedale in cui sarebbero stati perpetrati i crimini e intervistò i responsabili del reparto di ostetricia del nosocomio i quali sostennero che le accuse erano false56. Da tali affermazioni partì la spinta per un’indagine indipendente di Amnesty International che fece emergere che non si trovavano “prove credibili” in grado di confermare la storia della ragazza kuwaitiana57. 53

J. MacArthur, The Second Front, cit., p. 58. Ivi, p. 84. 55 Per un approfondimento sul lavoro di pubbliche relazioni svolto in questa circostanza dalla Hill & Knowlton si veda S. Rampton e J. Stauber, Toxic Sludge Is Good for You!, Hoover Institution Press, Monroe (Maine), 1995, pp. 167-175. 56 ABC World News Tonight, 15 marzo 1991. 57 Cfr. R. L. Jackson, Former U.S. Envoy, Two Others Charged in Gulf War Scheme, “Los Angeles Times”, 8 luglio 1992, p. A1; M. R., Doubts Cast on Girl’s Account of Iraqi Atrocities in Kuwait, “Los Angeles Times”, 7 gennaio 1992, p. A8. 54

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La storia delle incubatrici fu scritta da alcuni autori della Hill & Knowlton, gli stessi che, pochi giorni dopo l’invasione, avevano scritto la sceneggiatura delle riprese fatte a Hollywood, e poi fornite gratuitamente alle tv di tutto il mondo, sulle prime immagini dell’invasione del Kuwait, riprese da un turista. La stessa agenzia fece girare più volte la scena in cui i marines liberavano l’ambasciata americana a Kuwait City, il tutto ben due giorni dopo la reale liberazione della capitale e, cosa ancora più importante per non infastidire l’opinione pubblica occidentale, impedì sistematicamente che fossero ripresi circa duecentomila iracheni morti nel corso degli attacchi della coalizione58. 3. La visione d’insieme ci mostra che durante il conflitto del Golfo Persico non fu operata solo un’azione censoria, ma una complessa strategia comunicativa, tanto elaborata da creare notizie sempre più slegate dai fatti fino al punto di piena dissociazione, in cui una notizia (anche se creata in studio) diventa fatto. Nella diafana ontologia dell’universo mediatico, il primato della narrazione diventa il vero punto denso, l’effettivo centro di gravità attorno al quale far prender forma al reale. Rudyard Kipling sostenne che la prima vittima della guerra è la verità, ma qui siamo posti di fronte a qualcosa di diverso, in cui la vittima della guerra non è solo la verità, ma la guerra stessa, un’immagine della guerra, una sua narrazione, una sua concezione. In Guerra e Cinema Paul Virilio scrive: “Siamo nell’era di una de-realizzazione dello scontro militare, in cui l’oggetto viene soggiogato dalla sua immagine, in cui il tempo ha la meglio sullo spazio e la rappresentazione degli eventi domina sulla presentazione dei fatti”59. 58 59

S. Rampton e J. Stauber, Vendere la guerra, cit., p. 60 ss. P. Virilio, Guerra e cinema, cit., p. 9.

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Come osserva Federico Montanari: “Non è più sufficiente dire che la guerra è manipolazione e propaganda”. Si potrebbe dire, infatti, “che sin dalla Prima Guerra Mondiale (con il regista Griffith mobilitato per realizzare film ‘sulle trincee’, con scenari e assalti in parte ricostruiti nella nascente Hollywood), si aprì il campo della propaganda e della disinformazione di guerra; ed è vero che da allora gli uffici di comunicazione e propaganda, poi di ‘Special operation services’ o i servizi dei ‘Signal corps’, sino alle PsyOps, stanno al centro della pianificazione bellica”60. Ciò che si verifica con la Guerra del Golfo – e successivamente, nota Montanari – è qualcosa di diverso, un passaggio qualitativo sostanziale. Il “salto viene compiuto nel momento in cui tutti i diversi strumenti, le diverse leve del marketing di guerra, vengono orchestrati, messi in forma, pianificati in una logistica strategica della comunicazione: pianificandone spazi e scenari di attuazione, tempi e attori. [...] Non più la guerra che viene comunicata, propagandata, di cui ci si convince della giustezza e opportunità: la comunicazione in tempo di guerra. Ma la guerra nel tempo della comunicazione: la guerra che si trasforma e assume le forme testuali della comunicazione, ma all’interno delle sue stesse pratiche concrete”61. Il 1991 rappresenta un vero spartiacque nel rapporto tra guerra e comunicazione, perché le nuove tecnologie della comunicazione, i mezzi di comunicazione di massa, le tecniche per le pubbliche relazioni e il lessico militare sinergicamente operano per decostruire un’estetica della guerra e costruirne una nuova poggiata, in realtà, sulla necessità di mostrare una guerra de-sostanzializzata. Anzi, ancora più diffusa60 F. Montanari, Semio-guerre. La narrazione come forma attuale della guerra, postfazione in S. Rampton e J. Stauber, Vendere la guerra, cit., p. 167. 61 Ivi, pp. 168-169.

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mente, si può affermare che linguaggio, immagini e rappresentazioni furono usate per creare un nuovo discorso sulla guerra, un discorso – per attingere all’apparato categoriale foucaultiano62 – più appropriato per la guerra nell’epoca della mobilitazione, un discorso forte in grado di marcare una discontinuità storico-epistemologica63. Jean Baudrillard pubblica un libro nel ’92 – dal titolo esplicativo La guerre du Golfe n’a pas eu lieu64 – in cui sostiene che la caratteristica principale della Guerra del Golfo è di non essersi verificata per il consumatore-spettarore occidentale, poiché delle nonbombe (attacchi chirurgici) hanno colpito dei nonuomini (danni collaterali) in nome di un non-ideale contraddittorio (non fare del male ad altri) che nascondeva dei non detti (controllo del petrolio e sicurezza di Israele). Le parole del sociologo francese ricalcano il linguaggio comunicativo utilizzato dall’esercito per 62 Il riferimento è all’utilizzo del termine “discorso” operato dal filosofo francese in M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), BUR, Milano, 1996. 63 L’utilizzo della categoria foucaultiana di “discorso” si è affermato con forza anche negli studi post-coloniali e negli studi culturali rimarcando in modo ancora più persistente la rilevanza politica del concetto di “discorso”. Uno dei massimi teorici degli studi culturali, Stuart Hall, pone al centro del suo impianto teorico il termine “discorso”, poiché laddove “Saussure e Barthes si occupano di unità di rappresentazione relativamente piccole, (sistemi linguaggio/segno), Foucault si occupa di sistemi più ampi di rappresentazione (discorso); un intero insieme di narrazioni, affermazioni e/o immagini su un argomento specifico che acquistano autorità e diventano dominanti in un determinato momento storico. L’enfasi sul concetto di ‘dominante’ e sulla contingenza storica evidenzia la scelta di Hall di utilizza il termine ‘discorso’, proprio in quanto esso offre un’accezione della rappresentazione più specificamente storica e politicizzata rispetto allo strutturalismo (che si limitava all’analisi della produzione del significato) in termini di produzione di sapere e potere.” J. Procter, Stuart Hall, Routledge, London and New York, 2000, p. 60 (trad. it. di Marta Cariello, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007). 64 J. Baudrillard, La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, Galilée, Paris, 1991.

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enuclearne la paradossalità, ma per farlo ha bisogno di ricorrere continuamente alla negazione: non-bombe, non-uomini, non... ma a che cosa allude il non costantemente ribadito nel testo? Che cosa è stato di fatto negato dall’orgia comunicativa della Guerra del Golfo? Quale tipo di discorso sulla guerra si è tentato di riscrivere? L’ideologia della guerra 1. Per comprendere quale concezione del conflitto sia stata negata, ritorniamo al tempo in cui più forte, nella storia dell’Occidente, si è levato il discorso sulla guerra, e, in particolar modo, occorre tornare agli inizi del Novecento dove in Europa, crepando il clima progressista dominante in quel periodo – poggiato su un discorso di pace – prende corpo un dibattito volto a rivalutare la funzione positiva della guerra nello sviluppo degli assetti storico, filosofico, politico, culturale e sociale65. Così, il “pensiero politico europeo, che per secoli aveva fatto della pace il termine di riferimento ideale del percorso dell’umanità, muta allora direzione, e recupera il tema della guerra”66. 65 Indirizzi diversi per prospettive, portata teorica e cornice filosofica si ritrovano lentamente a convergere sulla volontà di rilanciare il tema della guerra: in Italia, il dibattito coinvolge tanto il neoidealismo di Croce e Gentile, quanto il nazionalismo di Corradini e Prezzolini e, in una maniera del tutto originale e ricca di componenti estetiche, il Futurismo di Marinetti e Papini; in Germania, il tema della guerra si riveste di una forza del tutto peculiare, acquisendo forza col tempo e finendo col coinvolgere un enorme numero di intellettuali e filosofi con l’ascesa del Nazismo, così autori come Spengler, Jünger, Schmitt contribuiscono a creare una vera filosofia della guerra fortemente incentrata su una critica radicale della Modernità; in Francia, il pensiero contro-rivoluzionario pensa alla guerra in chiave reazionaria con Barrès e Maurras e in chiave rivoluzionaria con Sorel; in Portogallo, il tema della guerra finisce col coinvolgere autori come Pessoa; in Spagna, per opera di Unamuno. 66 A. Jellamo, Una nuova filosofia della guerra, “Parole chiave”, 20/21, 1999, p. 53. Nel saggio, l’autrice compie un’attenta ri-

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A questo nuovo discorso sulla guerra, l’Italia contribuisce intensamente ospitando un diffuso dibattito per mezzo di riviste come il Leonardo67, il Regno, Lacerba e La Voce68. Su Lacerba, ad esempio, sono stigmatizzati e fatti scivolare in una luce grigia i “trippai amanti del quieto vivere”69, mentre si parla apertamente di avvenimenti che avrebbero riscritto la morfologia statuale dell’Europa, dando una lettura positiva della guerra, paragonandolo a un evento che “deve purificare la vita italiana”70; sulle pagine de La Voce si respira lo stesso clima delle altre riviste e la guerra diviene “l’ideologia dominante di un energico rinnovamento”71. L’esaltazione della guerra si trasforma in uno dei tratti distintivi della cultura dell’avanguardia, in parcostruzione della filosofia della guerra del primo Novecento, ben restituendo il clima e il contesto teorico in cui si inscrivono anche le nuove teorie della guerra sviluppatesi in quel periodo. 67 Nel 1903 Prezzolini tratteggiava sul Leonardo i motivi che avevano portato alla nascita della rivista e il ritratto dei fondatori, i quali, come si legge, erano accomunati “più dagli odi che dai fini comuni[:] Positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, varietà borghesi e collettiviste della democrazia – tutto questo puzzo di acido fenico, di grasso e di fumo, di sudor popolare, questo stridor di macchine, questo affaccendarsi commerciale, questo chiasso di réclame – son cose legate non solo razionalmente, ma si tengon tutte per mano, strette da un vincolo sentimentale, che ce le farebbe avere in disdegno se fosser lontane, che ce le fa invece odiare perché son vicine”. Prezzolini G., Alle sorgenti dello spirito, “Leonardo”, 3, 1903, in Frigessi D. (a cura di), La cultura italiana del Novecento attraverso le riviste: “Leonardo”, “Hermes”, “Il Regno”, vol. I, Einaudi, Torino, 1960 e 1961, p. 14. 68 Per una visione di insieme circa il clima culturale che accomunava le riviste cfr. N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano, 1990, cap. 3. Per un’analisi più dettagliata si rinvia a, La cultura italiana del Novecento attraverso le riviste: “Leonardo”, “Hermes”, “Il Regno”, vol. I a cura di Frigessi D.; “Lacerba”, “La Voce” (1914-16), vol. IV, a cura di Scalia G., Einaudi, Torino, 1960 e 1961. 69 Dichiarazione, “Lacerba”, 19, 1914. 70 Cfr. “Lacerba”, 20, 1915. 71 P. Febbraro (a cura di), I poeti italiani della “Voce”, Marcos y Marcos, Milano, 1998, p. 18.

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ticolar modo nel segmento irrazionalistico, grazie al fervido attivismo di figure quali Filippo Tommaso Marinetti e Giovanni Papini. Col Futurismo la guerra ricade pienamente in una semantica salvifica, poiché essa è “sola igiene del mondo”72, un momento di pulizia dal quale anche i singoli ne escono rigenerati perché liberi di dar sfogo ai loro istinti più profondi e arcaici. Se il mondo borghese ingabbia gli uomini coi suoi legacci sociali, di paura e di convenienza, la guerra, allora, può, con la sua percussione di violenza, ridestare gli istinti vitali che traggono nutrimento dal sangue che scorre nel corpo accendendo la fiamma dell’erotismo negli uomini. Accanto agli accenti declamatori, idealizzanti, c’è l’“adesione muscolare ed emotiva alla guerra come esuberante ginnastica, spazio-tempo ludico e agonale, match sportivo [...] slancio vitale [...] dimostrazione d’esistenza: la guerra per la guerra”73. La guerra si trasforma in un inno alla vita, poiché essa è “potenza di gioventù, eroismo, slancio, resistenza [...] violenza di istinti sanguinari”74. Si compie, così, il passaggio che traghetta la guerra da un evento temuto, pauroso e fugato ad uno benvenuto, ricercato e agognato: “Noi andremo alla guerra danzando e cantando”75. Accompagnato a un sentimento e a una dimensione di significazione positive della guerra, si trova anche un’estetica futureggiante, in cui la guerra si trasforma in un evento nuovo, non più assimilabile alle categorie classiche della politica e dell’economia, ma un’azione innova72

F. T. Marinetti, Guerra sola igiene del mondo, Edizioni Futuriste di poesia, Milano, 1915, p. 9. 73 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari, 1970, p. 23. 74 F. T. Marinetti, Taccuini, (1915-21), a cura di A. Bertoni, il Mulino, Bologna, 1987, p. 496. 75 Id., La battaglia di Tripoli, in Id., Guerra sola igiene del mondo, cit., p. 19.

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trice che è essa stessa futuro, oltre che creatrice di futuro. Non a caso, Marinetti richiama a sé la simbolica della Modernità e la utilizza per la creazione di un nuovo mito di guerra, come nel caso della “guerra elettrica”76: la ‘guerra del futuro’. Anche Papini contribuisce ad orientare la cultura della guerra, salutando il conflitto come un evento necessario, attingendo ad un lessico carico di tinte suggestive: “Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne”. E ancora: “L’avvenire, come gli antichi Dei delle foreste, ha bisogno di sangue sulla sua strada. Ha bisogno di vittime umane, di carneficine”. La guerra non è un qualcosa da disprezzare, ma da accogliere con naturalità, perché ci rende “ciò che siamo – cioè superiori ai figli delle bertucce”. La guerra è indispensabile affinché la civiltà vada avanti nel suo cammino. “Conquista di terre e di ricchezze – conquista di verità e di libertà: vittime, vittime e vittime. Vittime assolutamente necessarie”77. Parte dall’Italia di inizio Novecento un nuovo modo di pensare alla guerra, un nuovo modo di immaginarla e significarla, creando le basi per una cultura della guerra che capillarmente si diffonde dando origine ad un discorso nuovo che irrompe col fragore di un tuono nella civile Europa dell’“età d’oro della sicurezza”78. Ciò che poteva apparire come l’iso76 Per la guerra elettrica cfr. Id., La guerra elettrica (visioneipotesi futurista), in Id. Guerra sola igiene del mondo, cit., pp. 127135. 77 G. Papini, La vita non è sacra, “Lacerba”, 20, 1913, in G. Scalia (a cura di), La cultura italiana, vol. IV, cit., p. 207. 78 L’espressione è di Stefan Zweig, il quale riassume in modo, quanto mai breve ma esaustivo, il tempo che precedette la Prima guerra mondiale. Per lo scrittore austriaco, infatti, prima dello scoppio del conflitto, l’Europa era dominata da un crescente stato di sicurezza sorretto da una ferrea fede nel progresso: in pratica, il migliore dei mondi possibili. Cfr. S. Zweig, Il mondo di ieri (1942), Mondadori, Milano, 2005.

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lato canto di uno sparuto manipolo di artisti d’avanguardia finisce col creare immagini, significati e simboli inaspettatamente popolari tra i giovani italiani79 e, inoltre, fornisce i termini giusti per le ‘impolitiche’ istanze dei movimenti conservatori80. 2. Il discorso sulla guerra approda in Germania acquisendo un peso politico e filosofico senza precedenti, fino ad assumere le fattezze di una vera e propria Kriegsideologie. Il termine fu coniato nel 1928 da Thomas Mann81 per prendere le distanze da quell’“ideologia della guerra” – che egli, in realtà, contribuì a far nascere nel 1918 con le sue Considerazioni di un impolitico – che sorge all’accendersi della Prima guerra mondiale in Germania, Paese in cui prende sempre più vigore una “trasfigurazione in chiave spiritualistica della guerra e della vicinanza alla morte, in contrapposizione alla banalità, alla povertà spirituale, alla dispersione e al filisteismo propri della vita quotidiana”82. Lo scoppio della guerra è vissuto da molti intellettuali tedeschi come la prova della crisi, da una parte, del sistema filosofico e politico dell’Occidente; dall’altra, del materialismo storico, entrambi rei di richiudere il mondo in gabbie economicistica e materialistica prive di ogni apertura alla dimensione spirituale della vita. Nell’asfissiante clima del mondo moderno, la guerra è vista come la sola grande opportunità per ridisegnare gli assetti non solo 79

Cfr. G. L. Mosse, Le guerre mondiali, cit., cap. IV. Per una ricostruzione del dibattito storiografico sulla così detta “Rivoluzione conservatrice” e per un’analisi del ruolo della guerra in questo movimento, cfr. S. Breuer, La rivoluzione conservatrice (1993), Donzelli, Roma, 1995, in particolare modo pp. 3-34. 81 T. Mann, Kultur und Sozialismus (1928), in Id., Essays, vol. 2 (a cura di H. Kurzke), Frankfurt a. M., 1986, p. 96, riportato in D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra”, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 6. 82 Ivi, p. 10. 80

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politici, ma anche filosofici. Il conflitto, pertanto, è sempre più diffusamente vissuto e interpretato come una contrapposizione netta di due antitetiche visioni del mondo e di ideali: una guerra di religione e di fede, una Glaubenskrieg83. La guerra offre finalmente l’opportunità di liberarsi dalle riduttive visioni materiali e di compiere uno scarto di qualità verso una dimensione spirituale altrimenti prosciugata dalla Modernità. La guerra si trasforma in un’esperienza straordinaria che, come sottolinea Marianne Weber, segna “l’ora della disinvidualizzazione (Entselbstung), del comune rapimento nell’Intero (gemeinsame Entrückung in das Ganze). L’amore ardente per la comunità (Gemeinschaft) spezza i limiti dell’io. Ognuno diventa un solo sangue e un solo corpo con gli altri, tutti uniti in fratellanza, pronti ad annullare il proprio io nel servizio”84. Ci troviamo, insomma, al cospetto di una corrente di pensiero che, posta di fronte allo scoppio della Grande Guerra, non reagisce elaborando una strategia di ridimensionamento del fatto o di edulcorazione; al contrario, la guerra è elevata a evento benefico per la vita e come tale esaltata. Uno degli autori riconducibili alla Kriegsideologie, Max Scheler, scrive: “La guerra ristabilisce nella nostra coscienza il rapporto vero, adeguato alla realtà, tra vita e morte”. La guerra mette fine al comune non vedere, anzi non voler vedere, la morte, mette fine alla sua “rimozione e oscuramento” mediante “il velo ingannatore di una prassi vitale divenuta ottusa abitudine”85. Dalle parole 83 W. Sombart, Händler und Helden. Patriotische Gesinnungen, München-Leipzig, 1915, citato in D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit., p. 3. 84 Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild (1926), citato in D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit., p. 5. 85 Cfr. M. Scheler, Der Genius des Krieges und der deutsche Krieg (1915), citato in D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit., p. 13.

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di Scheler immediatamente si coglie il cambio di registro concettuale in cui si inscrive il conflitto. E subito il termine guerra si inserisce in un campo semantico mortifero, perdendo le tinte chiare e scintillanti che abbiamo trovato nella comunicazione della Guerra del Golfo. Si sbaglierebbe, però, se si pensasse che tali tinte furono un’esclusiva di una ristretta cerchia di pensatori, poiché anche autori pur lontani dall’ideologia della guerra si trovarono immersi in una meditatio mortis indotta dal clima del conflitto. In Husserl86 e in Wittgenstein87, per esempio, si riascoltavano gli echi dello stesso tema, così come in Freud che in un saggio del 1915 scriveva: “C’è in noi l’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di metterne a tacere il pensiero [...] Insistiamo in genere sulla causa accidentale della morte: incidente, malattia, infezione, tarda età, rivelando così una tendenza ad abbassare la morte da fatto necessario a fatto casuale”. E poi aggiunge: “è chiaro che la guerra doveva spazzare via questo modo convenzionale di considerare la morte. La morte non può più essere negata [...] non è più qualcosa di casuale ormai”88. Le ‘parole chiave’ dell’ideologia della guerra sono: comunità, pericolo, destino, storicità: tutte, però, catturate nell’orbita della morte. Se dovessimo attribuire, all’estetica di questa visione del conflitto, un livello termico, questo sarebbe sicuramente il caldo. Il caldo del sangue che batte nelle vene infiammando la vita, una vita rinvigorita dal dolore, dalla sofferenza e dalla vicinanza alla morte (che solo la guerra pareva 86 Cfr. E. Husserl, Fichtes Menschheitsideal (1917), in Aufsätze und Vorträge (1911-1921). 87 L. Wittgenstein, Diari segreti, a cura di Funtò, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 112 e 114. 88 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 52.

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riuscire tanto perfettamente a sintetizzare). La morte diviene il tema centrale, lo snodo da cui partire anche per edificare un universo simbolico che finisce col mescolare le tinte mortifere con quelle militaristiche e, facendo da base per la futura simbolica e mitologia dei totalitarismi di destra89. Si sbaglierebbe, tuttavia, se non si ricordasse che un tale discorso – tanto contrario, nelle sue articolazioni, alla ratio della Civiltà – è, in realtà, un discorso intimamente politico, che si muove e si orienta bellicosamente, nel suo dispiegarsi, contro la Modernità politica90. Il discorso sulla guerra non è il discorso della politica moderna perché questa è incapace, come scrive Roberto Esposito, di rappresentare il conflitto: Non esiste filosofia del conflitto che non lo riduca al proprio ordine categoriale e dunque che in definitiva non lo neghi proprio mentre lo rappresenta e attraverso tale rappresentazione [ciò avviene perché] è originariamente il conflitto a negare la 89 Per un approfondimento del concetto di mito e sulle manipolazioni dei materiali mitologici da parte della cultura di destra si possono confrontare F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del Novecento, Silva, Milano, 1967; Id., Mito e linguaggio della collettività, in Id., Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1969, 19773, pp. 33-44; Id., Il mito, Isedi, Milano, 1973; Id., Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1979. 90 Più di ogni descrizione, la complessa trama di legami filosofico-politici impliciti nel discorso sulla guerra della Kriegsideologie è enucleabile da un breve passo delle Considerazioni di un impolitico: “Ma cos’è poi questo sviluppo, questo progresso di cui parlavo? Bisogna ricorrere a una masnada di parole maledettamente odiose e artificiose per spiegare di che si tratta. Si tratta della politicizzazione, della letterarizzazione della Germania, del suo intellettualizzamento, della sua radicalizzazione, della sua ‘umanizzazione’ in senso politico e latino e del suo disumanarsi in senso tedesco... Si tratta, tanto per usale la parola d’ordine, il grido di battaglia e l’osanna del civil-letterato, si tratta della democratizzazione della Germania o meglio, per riassumere il tutto e ridurlo a un comune denominatore, della sua degermanizzazione... E io avrei parte in un simile obbrobrio?”. T. Mann, Considerazioni di un impolitico (1918), Adelphi, Milano, 20053, p. 86.

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rappresentazione nel senso che esso è appunto irrappresentabile [...] Eppure il conflitto [...] non è altro che la realtà della politica, il suo factum, la sua fattività [...] Tale fatticità reale, tale realtà fattuale, non entra negli schemi rappresentativi della filosofia politica, non è pronunciabile nel suo linguaggio concettuale, è quel linguaggio stesso, anzi, in quanto fondato sulla legge di non-contraddizione, a respingere dal proprio lessico ogni elemento antinomico. Ma se l’antinomia è fuori dal linguaggio filosofico-politico è perché ne costituisce il fondo irrappresentabile, intraducibile nel suo nomos universale, e tuttavia sempre emergente dai margini e dalle smagliature della trama filosofica91.

In questo senso, quello della Kriegsideologie è un altro discorso: un discorso impolitico o politico, ma di una politica pensata già costitutivamente come guerra92, quindi, un discorso altro non più riproponibile oggi, perché troppo connesso a una realtà storica, perché troppo identificabile con un pensiero totalitaristico di destra che già da sempre si proponeva come l’altro della Modernità93. Lo slittamento semantico 1. Quello che prende forma nella prima metà del Novecento tra Italia e Germania è l’ultimo grande discorso di guerra e contro di esso si è battuto l’Occidente. La Guerra Fredda, poi, è calata sull’Europa, congelando i termini del discorso occidentale – di au91 R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna, 1993, p. 17. 92 Come nel caso di Carl Schmitt che riconduce le azioni politiche alla basilare distinzione amico-nemico. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico” (1932), in Id., Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna, 1972. 93 Per un approfondimento sul rapporto tra filosofia e guerra nell’Italia e nella Germania del primo Novecento, cfr. F. Vander, Metafisica della guerra. Confronto fra la filosofia italiana e la filosofia tedesca del Novecento, Guerini, Milano, 1995.

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torappresentarsi come sistema della razionalità, dell’ordine... della pace e dei buoni –, in vista della battaglia col nuovo nemico dell’Est, facendoli giungere fino al 1989 ormai vecchi alla luce degli assetti geopolitici post-sovietici e delle nuove sfide della politica nell’epoca della globalizzazione – la quale anziché configurarsi come il completamento delle logiche ‘moderne’ (compimento dell’Occidente, fine della storia94) si è presentata come esplosione di conflittualità e contraddizioni. Non a caso, Carlo Galli sostiene che “la globalizzazione è l’insieme dei processi in cui tutte le tensioni della Modernità esplodono, in configurazioni compiutamente post-moderne; e che tutte le contraddizioni spaziali inerenti il rapporto fra universale e particolare, tutte le difficoltà a far coesistere spazio chiuso e spazio illimitato, qui si manifestano come aporie”95. La fine dell’assetto geopolitico bipolare ha causato il collasso dell’ordine politico internazionale, aprendo nuovi possibili assetti – quindi nuove possibili aree di intervento –; ma, ancor più, con l’avvento della globalizzazione si assiste alla caduta degli “assi spaziali attraverso i quali è stato costruito lo Stato moderno – interno/esterno, pubblico/sociale/privato, particolare/ universale, centro/periferia, ordine/disordine”96. Tale stravolgimento ha posto in discussione le fondamenta stesse della politica moderna facendo emergere le sue contraddizioni e rilanciando il tema della guerra al centro del dibattito politico. In una tale situazione, prende forma un nuovo tipo di conflitto che Galli chiama guerra globale ovvero “una guerra di tipo nuovo, postmoderna; [la guerra globale] è una guerra sen94 Come (erroneamente) profetizzato in F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. 95 C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna, 2001, pp. 132-133. 96 Id., La guerra globale, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 4748.

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za frontiere, in cui non ci sono avanzate o ritirate, ma solo atti che concentrano logiche di guerra, logiche economiche e logiche tecniche (tecnologiche) in spazi ‘puntuali’ e in tempo reale”97. Come testimoniato da Galli e dalle analisi di altri autori attorno al mutamento dell’attuale ordine del conflitto98 – alle quali vanno aggiunte, con una prospettiva molto diversa, anche le tesi del movimento Neo-conservatore statunitense99 – l’età della globalizzazione sembra rilanciare il tema della guerra ponendo al centro della politica non più la neutralizzazione del conflitto – come è avvenuto nel dopoguerra con le posizioni kelseniane e con la ripresa delle istanze razionalistiche e universalistiche che hanno dato l’anima alla nascente O.N.U. nel tentativo di giuridificare la guerra100 –, ma il suo utilizzo, la sua riaffermazione. Un tale mutamento richiede pertanto un nuovo discorso sulla guerra capace di sostenerla e rilanciarla 97

Ivi, pp. 54-55. Centrale, in tale direzione, è il lavoro di Agamben che ha ripreso il concetto schmittiano di stato di eccezione (cfr. C. Schmitt, Teologia politica (1922), Giuffrè, Milano, 1992; Id., Teoria del partigiano (1961), Adelphi, Milano, 2005) dando l’impulso a numerosi riflessioni su questo tema. Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; A. Burgio, Guerra. Scenari della nuova “grande trasformazione”, DeriveApprodi, Roma, 2004, in particolar modo il capitolo “Cause ed effetti di una “guerra senza fine”; M. Hardt e A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004, tutta la parte 1 “Guerra”, in particolar modo pp. 29-35. Con una prospettiva diversa cfr. G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano, 2002. Mi permetto, inoltre, di rinviare anche al saggio, di Umberto Curi presente in questo volume. 99 Per un’introduzione alle tesi neoconservatrici di autori quali Max Boot, Thomas Donnelly, Reul Marc Gerecht, Robert Kagan, Charles Krauthammer, William Kristol, Michael A. Ladeen, Richard Perle, Daniel Pipes, Gary Schmitt e del PNAC (Progetto per il nuovo secolo americano) cfr. J. Lobe e A. Oliveri (a cura di), Il pensiero dei neoconservatori americani, Feltrinelli, Milano, 2003. 100 Cfr. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto (1944), Giappichelli, Torino, 1990. 98

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in Occidente, ma che sia anche in grado di smarcarsi dai forti discorsi novecenteschi. Non a caso, ponendo in controluce il discorso di guerra della Kriegsideologie e quello della Guerra del Golfo abbiamo il senso di una modificazione profonda, radicale, del modo di rappresentare la guerra. Se questa, infatti, fino alla metà del Novecento ricadeva all’interno di un orizzonte composto dal dolore, dalla sofferenza, dal sangue, dalla morte, nel 1991 si apre, invece, uno scenario del tutto nuovo, in cui la guerra si accosta ad una dimensione pulita, asettica, calcolata (ma pur sempre benefica, seppur per motivi diversi rispetto al passato). Attingendo al lessico della linguistica, possiamo dire che il significante (la guerra) è sottoposto a un processo di significazione che punta a restituire una rappresentazione pulita del conflitto. Bisogna pensare, quindi, alla guerra come a un segno che, come tutti i segni, sta per altro, rinvia ad altro. “Quando ci si trova dinanzi a qualcosa che appare come segno si può presupporre che significhi, ma si determina quel che significa se lo si pone in una struttura contestuale che lo rende significante”101. Riuscire a creare un insieme di regolarità in grado di fissare a che cosa rimandare il segno (la guerra) è la posta in gioco, è l’obiettivo del discorso, anzi è, in senso stretto, il discorso102. Mentre la guerra della Kriegsideologie rimandava alla morte, al pericolo, alla sofferenza, la guerra del 1991 rimanda alla freddezza del calcolo razionale e all’asettica precisione della tecnica. Tenendo fermi i due punti del nostro percorso e unendoli con una linea si coglie, immediata, l’inclinazione a cui è sottoposta la guerra. Se con la Kriegsideologie essa acquista un dato significato, con la Guerra del Golfo si tenta di elabo101 S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 116. 102 Il discorso è “un insieme di regolarità in base a cui i segni sono raffigurabili”, in ivi, p. 117.

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rare un discorso atto a rovesciare il precedente significato, a far slittare la guerra (che è segno, in greco sêma) da un campo semantico a un altro. Con la Guerra del Golfo, pertanto, si è dato vita a un discorso sulla guerra atto a compiere uno slittamento semantico della guerra ovvero si è creato un nuovo discorso di legittimazione dell’intervento militare. Nella stessa scia è possibile collocare anche l’azione della NATO del 1999 in Kosovo, passata con l’espressione di “guerra umanitaria”. Come scrive Danilo Zolo: La disponibilità a dar credito alla motivazione umanitaria, in questo come in altri casi, è ovviamente condizionata dalla prospettiva filosofica che si assume di fronte al fenomeno della guerra. [...] Il problema è un altro: cogliere la funzione persuasiva che una motivazione etica della guerra può svolgere nell’ambito stesso del conflitto. Ebbene, da questo punto di vista la qualificazione della guerra come “intervento umanitario” è un tipico strumento di autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo. Come tale è parte della guerra stessa: è, in senso stretto, uno strumento di strategia militare diretto ad ottenere la vittoria sul nemico103.

A ben pensarci, che la guerra sia sottoposta a uno slittamento semantico è riscontrabile anche nella stessa espressione di “guerra umanitaria” che, a parte il problematico utilizzo di un’universale così ampio come quello di “umanità”104, sembra far convivere due pa103 D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino, 2000, pp. 43-44. 104 Su questo, resta sempre valida la riflessione di Schmitt: “Se uno Stato combatte il suo nemico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità: è una guerra nella quale lo Stato cerca di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del suo avversario. In modo analogo si possono usare, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico, i concetti di pace, di giustizia, di progresso o di civiltà. Il termine ‘umanità’ è uno strumento particolarmente adatto alle espansioni imperialistiche ed

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role opposte secondo l’apparato categoriale della Modernità: un vero ossimoro concettuale. Ancora in Afghanistan, nel novembre del 2001, “prende forma un uovo tipo di guerra umanitaria”: questa volta, però, umanitaria non più (non solo) nella missione, ma nella forma stessa del bombardamento. “È così che nel medesimo territorio, e nello stesso tempo, insieme a bombe ad alto potenziale distruttivo, vengono sganciati anche viveri e medicinali”105. Partendo dal 1991, si scorge una linea che svela un moto che trova nel paradigma dello slittamento semantico la chiave esplicativa degli ultimi conflitti106. L’affermazione che si stia compiendo uno slittamento è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: ‘chi dice umanità cerca di ingannarti’. [...] tutto ciò manifesta soltanto la terribile pretesa che al nemico deve essere tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra deve essere portata sino all’estrema disumanità”. C. Schmitt, Le categorie del “politico”, cit., p. 139. 105 R. Esposito, Bíos, Einaudi, Torino, 2004, p. VIII. Il filosofo napoletano pone la categoria di biopolitica come paradigma esplicativo della politica moderna (in grado, pertanto, anche di spiegare una serie di fenomeni apparentemente contraddittori se guardati con la lente delle categorie classiche del pensiero politico moderno). Esposito compie, per la prima volta, un grande lavoro di ricostruzione dei significati ricoperti dal concetto di biopolitica e svela l’intimo e perturbante legame che intercorre tra vita e politica restituendone con forza i due possibili sbocchi: quello di una “tanatopolitica” (che ha trovato la sua massima espressione con nazismo) e quello attuale che sembra assumere una configurazione più affermativa. 106 Guerra del Golfo (1991); Somalia (1992); Kosovo (1999). L’11 settembre 2001 rappresenta un ‘dosso’, nel processo di slittamento semantico della guerra, proprio perché si è presentato come un evento talmente eccezionale che, come dice Derrida, “forse non disponiamo di nessun concetto e di nessun significato per chiamare altrimenti questa cosa” se non con la data: “11 settembre” (J. Derrida, Autoimmunità. Suicidi reali e simbolici, in G. Borradori (a cura di), Filosofia del terrore, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 93). In questa prospettiva, l’11 settembre può essere letto come un nuovo evento presentato come epocale e bisognoso di una nuova politica di guerra, tanto che l’amministrazione Bush ha proposto il

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semantico della guerra, però, più che offrire una conclusione, riapre immediatamente un nuovo interrogativo che ci porta a domandare che cosa stia dietro a un tale slittamento e perché esso si compia. 2. Rispondere a una tale domanda non è semplice, perché diversi sono i piani di lettura dello slittamento semantico; ve ne sono due, tuttavia, che rappresentano, sicuramente, gli snodi principali: il primo, di carattere filosofico-politico; il secondo, più ampiamente teoretico. Queste due interpretazioni dello slittamento semantico della guerra non possono essere meccanicamente assimilate, ma vanno lette come due correnti che si muovono a profondità diverse e con diversa intensità. Le contingenze storiche del Novecento, tuttavia, hanno contribuito a far incontrare queste due correnti, operando una deriva della guerra, nella sua fenomenologia lessicale, e contribuendo a produrne uno slittamento semantico. 2.a. La prima spiegazione dello slittamento semantico della guerra trova una sua risposta molto semplice e immediata: esso si compie perché la guerra e una sua simbolica – strettamente connesse al vecchio dinuovo paradigma della guerra preventiva prefigurando la possibilità di uno stato di guerra permanente. L’11 settembre, pertanto, può essere letto come l’evento da cui si è tentato di lanciare un nuovo discorso di guerra (più forte sicuramente della guerra del 1991); ma nonostante il 2001 abbia inizialmente fatto intravedere il risorgere di una simbolica tragica e mortifera, in grado di orientare l’opinione pubblica e di mobilitare una nazione verso una condotta “eccezionale” (capace di legittimare il ricorso alla guerra), successivamente la “normalità” è tornata ad essere la linea di condotta politica. Ciò significa che se l’11 settembre ha inizialmente rappresentato una possibile interruzione del processo di slittamento semantico, quest’ultimo ha ripreso il suo cammino trasportando nuovi lemmi nel suo campo semantico (per es. “democrazia”, divenuta un qualcosa da esportare per il bene di un Paese che la deve ricevere, facendo così sparire l’idea di “invasione” nella guerra in Iraq del 2003).

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scorso forte sulla guerra – sono mal tollerate dalla società civile occidentale, rendendo un certo tipo di guerra inaccettabile per l’opinione pubblica. Una tale affermazione è facilmente supportabile da un dato empirico, emerso in questi ultimi anni, che vede la crescente opposizione civile nei confronti della guerra, organizzata con manifestazioni di piazza che hanno raggiunto un’enorme partecipazione e diffusione globale107. Tale dato testimonia la crescente opposizione politica nei confronti della guerra, non meno importante, per spiegare lo slittamento semantico della guerra, ma risulta essere la crescente sensibilità (e idiosincrasia) verso la guerra e il suo universo simbolico. Per dare il senso di questo cambio di sensibilità culturale, vorrei fare un esempio, curioso e interessante, ricavandolo dal confronto di due episodi relativi alla carta stampata – uno degli strumenti principali attraverso cui prende forma l’opinione pubblica – ma a distanza di circa mezzo secolo e in due continenti diversi. Il primo episodio risale al 22 maggio 1944 e fa la sua comparsa negli Stati Uniti, sul popolarissimo settimanale Life, in cui si trova stampata la fotografia di una giovane donna che seduta dietro a una scrivania è in procinto di scrivere una lettera mentre fissa, con sguardo sognante, un teschio, come per trarne ispirazione. Nella didascalia della fotografia si può leggere: “Souvenir dal teatro pacifico, Natalie Nickerson prova a scrivere una sincera lettera di ringraziamento al fidanzato, per il teschio giapponese che lui le ha mandato”108. La fotografia apre uno squarcio su una delle tante pagine sanguinose della Seconda guerra 107 Esemplare è la reazione all’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte dell’opinione pubblica di molti Paesi del mondo, con il riversarsi di milioni di persone nelle strade di molte capitali. 108 Mia la traduzione. “Pacific Theater Souvenir, Natalie Nickerson tries to write a sincere thank you note for the Japanese skull her boyfriend sent to her”. In “Life”, 22 maggio 1944.

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mondiale: la conquista delle isole pacifiche da parte dell’esercito statunitense contro i soldati giapponesi. In quell’occasione furono perpetrate numerose atrocità e scempi su cadaveri109: il teschio mandato in dono ben racconta e ripropone la crudeltà dei combattimenti e costituisce un perfetto simbolo della guerra, del combattimento sanguinoso, del sanguigno, del dolore, del mortifero. In pratica, quel teschio che la ragazza placidamente guarda sorridendo, racchiude perfettamente il campo semantico della guerra dell’epoca. La rivista Life, inserendo tra le sue pagine una simile immagine, mostrava come il “volto inumano della guerra” e la crudeltà intenzionale110 fossero caratteristiche del conflitto tranquillamente socializzabili, accettate dall’opinione pubblica e fatte circolare sui giornali senza causare turbamento. Dal Nuovo, ci spostiamo ora al Vecchio continente, facendo un passo in avanti nel tempo fino a giungere al 25 ottobre 2006, data in cui il quotidiano Bild pubblica, sulla prima pagina, la fotografia di un soldato tedesco (reso non identificabile) che sorride nell’atto di mostrare a chi gli scatta la fotografia un teschio mentre lo regge con la mano. La fotografia, che fa riferimento a uno dei soldati inviati dalla Germania in Afghanistan per l’operazione “Global War on Terrorism”111, è pubblicata sulla Bild accompagnata dal commento: “I soldati del contingente tedesco hanno diso109 Cfr. G. F. Lindermann, The World Within War. Combat Experience in World War II, Free Press, New York, 1997. 110 J. Keegan, Il volto della battaglia (1976), Mondadori, Milano, 1978, p. 320. Lo storico inglese identifica tre caratteristiche che compongono il “volto inumano della guerra”: la crudeltà intenzionale, la coercizione e la impersonalizzazione. In ivi, pp. 320-331. 111 La “Global War on Terrorism” (o GWOT) è il nome dell’operazione intrapresa dall’Amministrazione Bush in seguito all’attacco dell’11 settembre 2001. L’azione militare iniziò contro l’Afghanistan nell’ottobre 2001 e fu intrapresa da una coalizione composta dai paesi N.A.T.O., tra i quali anche la Germania.

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norato un cadavere in modo ripugnante”. L’articolo racconta di come alcuni soldati, di pattuglia nelle vicinanze di Kabul, abbiano trovato gli scheletri dei ‘nemici’ sul ciglio di una strada e abbiano deciso di fare una foto ricordo. La reazione della Bild non si discosta da quella del ministro della Difesa, Franz Josef Jung, cha ha subito annunciato l’apertura di un’inchiesta e ha commentato: “È chiaro che un tale comportamento da parte di militari tedeschi non può in nessun caso essere tollerato”. Egli ha, inoltre, definito le immagini “detestabili e assolutamente incomprensibili”, oltre ad aver ipotizzato “misure disciplinari con conseguenze anche penali”. Su Repubblica on-line si legge: “Le fotoscandalo apparse oggi sulla Bild – e che aprono tutti i notiziari radio e tv nel paese – hanno suscitato sdegno e condanna in seno al governo e a tutte le forze politiche e sociali”112. Posti in controluce i due esempi ci danno il senso di un mutamento sociale profondo nel modo di percepire la guerra, e la sua fenomenologia, da parte dell’opinione pubblica, quindi dei cittadini delle democrazie occidentali. Che cosa ha determinato un tale mutamento? Quale evento può aver, nel giro di mezzo secolo, rovesciato in modo tanto radicale la sensibilità nei confronti della guerra? Una risposta più di altre si presta come chiave esplicativa di un tale cambiamento ovvero quell’enorme trauma collettivo rappresentato, in Europa, dalla Seconda guerra mondiale: una tragedia di tali proporzioni, da suscitare un orrore in grado di propagarsi per tutta la cultura europea post-bellica, dando vita ad una generalizzata reazione alla guerra tale da trovare spazio in molte carte costituzionali successive al conflitto (che nel 112 Foto ricordo con il teschio in mano. È bufera sui soldati dell’esercito tedesco, “La Repubblica on-line”, 25 ottobre 2006, http://www.repubblica.it/2006/10/sezioni/esteri/afghanistan9/soldatitedeschi-teschio/soldati-tedeschi-teschio.html.

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nostro paese prende forma nell’Articolo 11 della Costituzione113). Lo stesso passaggio culturale è avvenuto negli Stati Uniti, ma non con la Seconda guerra mondiale, bensì con il conflitto del Vietnam che, trasformandosi in una vera e propria sindrome114 per la politica e l’opinione pubblica statunitense, ha rappresentato il modello di conflitto da evitare, tanto che il Presidente Bush in occasione dell’inizio dell’intervento Desert Storm ebbe a dichiarare: “I’ve told the American people before that this will not be another Vietnam, and I repeat this here tonight. Our troops will have the best possible support in the entire world, and they will not be asked to fight with one hand tied behind their back. I’m hopeful that this fighting will not go on for long and that casualties will be held to an absolute minimum”115. Il trauma della Guerra del Vietnam si trasformò, nel 1991, nello spettro da esorcizzare tanto che, al termine del conflitto il Presidente Bush potette finalmente 113 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. 114 Sugli effetti della “Sindrome del Vietnam” sulla cultura della guerra statunitense cfr. H. Sitikoff, The Postwar Impact of Vietnam, “The Oxford Companion to American Military History”, Ed. John Whiteclay Chambers II, New York: Oxford UP, 1999. Sul confronto della guerra del Golfo come evento per esorcizzare la Guerra del Vietnam cfr. G. C. Herring, America and Vietnam: The Unending War, “Foreign Affairs”, Winter 1991/92, vol. 70, n. 5 (http://www.foreignaffairs.org/19911201faessay6116/george-c-herring/america-and-vietnam-the-unending-war.html). 115 George Bush – 16 gennaio 1991. “L’ho già detto agli americani che questo non sarà un altro Vietnam e lo ripeto questa sera. Le nostre truppe avranno il miglior supporto possibile al mondo e a esse non sarà chiesto di combattere con una mano legata dietro la schiena. Sono fiducioso del fatto che questa guerra non durerà a lungo e che le perdite saranno ridotte al minimo.” Mia la traduzione. È importante sottolineare che “la mano legata dietro la schiena” menzionata da Bush è un richiamo polemico nei confronti dei mass media i quali, nel corso della guerra del Vietnam, rappresentarono, nella sua prospettiva, un ostacolo per il pieno dispiegamento della forza militare.

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esclamare: “By God, we’ve kicked the Vietnam syndrome once and for all!”116. Che il Vietnam sia stato il modello negativo da evitare nel 1991 è confermato anche da Michael Walzer il quale afferma che negli “anni Cinquanta e nei primi Sessanta [...] il realismo era la dottrina imperante nel campo delle relazioni internazionali. Il riferimento standard non era alla giustizia ma all’interesse. [...] Il Vietnam ha cambiato tutto”. In questo modo, la guerra iniziò a essere “ampliamente osteggiata”117 e si iniziò a parlare di guerra giusta. “Ecco allora lo strano spettacolo di George Bush (padre) che, durante la guerra del Golfo, parlava come un teorico della guerra giusta”118. Agire secondo le linee della dottrina della guerra giusta, tuttavia, significa che una guerra abbia inizio per una iusta causa, quindi che ci sia uno ius ad bellum, che il nemico sia uno iustus hostis e che i combattimenti avvengano secondo le prescrizioni di uno ius in bello: insomma, la dottrina della guerra giusta si presenta come un tessuto di prescrizioni che imbrigliando la cieca esplosione della forza codificano la violenza depotenziandola e limitandola119. Una limita116 George Bush – 1 marzo 1991. “Dio sa che abbiamo cacciato via una volta e per tutte la Sindrome del Vietnam!” Mia la traduzione. 117 M. Walzer, Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 8. 118 Ivi, p. 12. Per un approfondimento sui discorsi di Bush si vedano i documenti raccolti da Micah L. Sifry e Cristopher Cerf (a cura di), The Gulf War: History, Documents, Opinion, Times Books, New York, 1991. 119 Per un approfondimento del redivivo tema medievale della guerra giusta, cfr. M. Walzer, Guerre giuste ed ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche (1977), Liguori, Napoli, 1990. Per una sintetica ma esaustiva ricostruzione del dibattito sulla guerra giusta cfr. S. Maffettone, Guerra giusta e intervento armato in Iraq, nel sito web della Società Italiana di Filosofia Politica (http://www.sifp.it). Di particolare interresse è anche la riedizione, curata da Carlo Galli, di uno dei massimi teorici medievali della guerra giusta, cfr. F. de Vitoria, De iure belli (1539), Laterza, Roma-Bari, 2005.

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zione auto-imposta per soddisfare l’allineamento (tutto democratico) tra azione militare e sentimento popolare. Come ricorda ancora Walzer: “Queste necessità erano a loro volta definite dalla copertura mediatica della guerra – ossia, dall’immediato accesso dei media ai campi di battaglia e di tutto il mondo ai media. Bush e i suoi generali credevano che tutte queste persone non avrebbero tollerato un massacro di civili, e probabilmente avevano ragione”120. Lo slittamento semantico della guerra, evidenziatosi nelle strategie comunicative dal 1991 in poi, sarebbe, pertanto, la reazione a un moto di opposizione della società civile occidentale nei confronti della guerra distruttiva, mortifera e sanguinolenta. Tale moto trova la sua accelerazione nel trauma collettivo indotto dall’insopportabile esperienza della Seconda Guerra mondiale, per gli europei, e dalla guerra del Vietnam, per gli statunitensi. Tuttavia, una tale elaborazione sarebbe impossibile senza una traccia filosofico-politica già presente e operante nel tessuto occidentale: una traccia che può essere ritrovata nelle trattazioni filosofiche illuministiche che hanno “inventato” la pace121 respingendo la guerra sempre più in un alveo valoriale negativo fino a farla coincidere, come fece Kant, né più né meno che col “crimine”122, con un’azione in alcun caso giustificabile, quindi sempre deprecabile. La nascita di una definizione positiva di pace – e non esclusivamente come un periodo di non-guerra – origina un discorso sulla pace che assolutizza il valore negativo della guerra assumendolo come punto di partenza per un discorso razionale che aspira alla pace, ma non, come ricorda Bobbio, a una pace qualsiasi – come una pace 120

M. Walzer, Sulla guerra, cit., p. 13. Cfr. M. Howard, L’invenzione della pace (2001), il Mulino, Bologna, 2002. 122 Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico (1795), Feltrinelli, Milano, 2003. 121

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di equilibrio o una “pace d’impero o di egemonia che si regge su un rapporto fra superiore e inferiore” –, bensì ad una “pace di soddisfazione, cioè una pace che è il risultato di un’accettazione consapevole”123. Letta in altro modo, si può dire che una pace di soddisfazione richieda, da parte degli Stati, la consapevole accettazione che si stia rinunciando alle altre forme di pace, quindi che si stia rinunciando anche al ricorso alla forza, sempre e a prescindere dai singoli casi. Il pacifismo pone la pace, pertanto, oltre gli interessi particolari, proponendo un discorso il cui grado di penetrazione è inversamente proporzionale all’utilità di ricorrere alla guerra. Maggiori sono gli interessi da tutelare per mezzo della guerra, minore è la convenienza di ricorrere alla pace. Detto altrimenti, la portata universalistica del discorso pacifista cozza con le istanze particolaristiche degli Stati. È proprio questo fondamento razional-universalistico del pacifismo, tuttavia, ad aprirlo a una pratica discorsiva fatta di una comunicazione capillare che parla ai singoli più che ai gruppi, ai cittadini più che agli Stati. Il discorso della pace è inevitabilmente destinato a essere più facilmente recepito da coloro i quali già hanno rinunciato al potere su se stessi, già hanno abdicato – attingendo alla concezione politicoteorica hobbesiana – il loro diritto di ricorrere alla forza a favore del sovrano; il tutto in nome di un paradigma (già) razionalistico. Per i singoli, il discorso della pace è congeniale, oltre che opportuno e utile. Non lo stesso si può dire per gli Stati che sono tra di loro – ricorrendo sempre all’immagine di Hobbes – in uno stato di natura, quindi non assoggettati a nessuna altra forza che non alla loro. Il discorso della pace parla a quegli uomini e donne che dalle due guerre totali sono usciti perdenti in 123 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace (1979), il Mulino, Bologna, 1997, pp. 138-139.

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ogni caso e a prescindere dalla vittoria o sconfitta dello Stato che li aveva mobilitati. Il discorso della pace parla ai singoli che hanno incontrato l’orrore della guerra e che da questo evento hanno solo avuto qualcosa da perdere. Per costoro, la guerra è direttamente riconducibile al sangue, alla sofferenza, alla morte di massa, allo smarrimento personale e alla crisi esistenziale, quindi è direttamente riconducibile a un universo simbolico in cui il sanguigno, il macabro e il militaresco sono i tasselli del mosaico guerra. La diffusione di una filosofia della pace ha fatto da humus per la formazione di una cultura di pace che ha orientato l’opinione pubblica occidentale determinando una crescente idiosincrasia verso la guerra (e il suo universo simbolico), quindi un’indisponibilità ad accettare un discorso di guerra che riproponga le stesse forme e termini del passato. Da questo punto nasce la necessità di sviluppare un discorso di guerra che tenti di affermare l’esistenza di un nuovo tipo di guerra: differente rispetto a quelle passate. La comunicazione è stata utilizzata per creare questo nuovo discorso sulla guerra, rappresentando, però, una guerra che non c’era. Ciò significa che con la comunicazione si è creato un falso discorso per legittimare la belligeranza di uno Stato124 di fronte agli occhi dei suoi cittadini, rendendola accettabile laddove non lo sarebbe stata. Si compie, in questo modo, uno scarto rispetto a ciò che la guerra è e ciò che essa dovrebbe essere per l’opinione pubblica occidentale. La comunicazione 124 Escludo, da questa mia indagine, quelle che Mary Kaldor ha definito le “nuove guerre” ovvero le guerre sfuggite oramai al monopolio dello Stato e quelle non più decodificabili secondo il classico paradigma clausewitziano della guerra come continuazione della politica con altri mezzi. Per questo altro tipo di guerre, il discorso della comunicazione qui elaborato risulta non calzante. Per un approfondimento del concetto di “nuove guerre” nella guerra dell’ex Jugoslavia, cfr. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma, 1999.

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interviene in questo scollamento, colma questo scarto e trasforma la guerra in ciò che essa dovrebbe essere, e lo fa nel terreno della rappresentazione, nello spazio della mediazione mediatica ovvero in quella fetta di realtà che sempre più peso ha assunto nella società tardo-capitalistica. Si svela così la profonda tensione racchiusa nel rapporto tra guerra e comunicazione. Se da un lato la comunicazione è diventata il ponteggio ineliminabile attraverso il quale tirar su la guerra moderna; dall’altro, la comunicazione si rivela essere, oggi, lo spazio in cui si proietta, a ben vedere, la crisi dell’intera architettura democratica125. Interrogandosi sul ruolo della comunicazione nella nostra epoca, Mario Perniola scrive: “Di tutte le mistificazioni della comunicazione indubbiamente la più grande è stata quella di presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione compiuta dell’oscurantismo populistico”126. Dando voce a Jean-Paul Fitoussi, Perniola sostiene che l’economista francese, “opponendo la comunicazione all’informazione, la considera come il mezzo privilegiato delle ideologie, le quali costituiscono appunto un insieme di opinioni e di dottrine già pronte, assunte acriticamente a sostegno dell’azione politica”. Adottando il taglio prospettico proposto da Fitoussi, emerge, scrive Perniola, che la “nostra età non sarebbe perciò affatto caratterizzata dal tramonto delle ideologie (cioè dei cosiddetti grandi racconti che come il comunismo, il liberalismo, il fascismo ecc. pretendono di fornire una spiegazione totale del mon125 Sulla centralità del rapporto tra trasparenza nella comunicazione e democrazia, cfr. A. Mattelart, L’invenzione della comunicazione (1994), Il Saggiatore, Milano, 1998; T. Terranova, Cultura del network. Per una micropolitica dell’informazione, Manifestolibri, Roma, 2006, cap. 5 “Il biopotere della comunicazione”. 126 M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004, p. 6.

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do), ma semmai da una loro semplificazione e banalizzazione estrema che fa cadere l’aspetto concettuale a favore dell’emozionalità”127. Nella celebre contrapposizione tra apocalittici e integrati ideata da Eco128, Perniola e Fitoussi ricadono a pieno titolo nella prima, ma non senza ragione. Il fatto che la comunicazione sia stata usata per disegnare una meta-realtà col fine di legittimare l’intervento militare del 1991 (e i successivi) svela un collasso del principio di rappresentanza: l’utilizzo della comunicazione per far vedere che si sta utilizzando la potente macchina dello Stato in nome di tutti (l’unica modalità teoricamente ammessa in democrazia), nell’istante in cui, invece, la si usa per altri fini. 2.b. Oltre a questa possibile lettura filosofico-politica (passando per lo psicologico) dello slittamento semantico, ce n’è un’altra teoretica, la cui portata è talmente ampia e complessa da rendere il presente accenno irrimediabilmente sommario e incompleto; tuttavia indispensabile per liberare lo slittamento semantico della guerra da una sua troppo stretta specificità e per ricollocarlo, quindi, in una più ampia corrente e tracciato storico-filosofico. L’analisi semantica della comunicazione della Guerra del Golfo svela un centro di gravità attorno a cui ruota l’intera orbita comunicativa: liberare la guerra dalle strette briglie della morte, poiché ciò che offende l’opinione pubblica, ciò che rende oscena la guerra non è tanto la guerra in sé, ma la morte che la funesta. La strategia comunicativa è sembrata esprimere un elementare sillogismo: “Se la guerra va ripudiata perché produce morte, eliminando i morti, allora posso fare la guerra!”. 127

Ivi, p. 7. La contrapposizione tra apocalittici e integrati fu tracciata da Umberto Eco in Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964. 128

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Una tale strategia è solo figlia del trauma collettivo delle distruttive guerre precedenti oppure essa risponde a una tensione insita nel tessuto occidentale? Pulire il linguaggio della guerra dal suo negativo e scegliere sistematicamente di non far vedere i cadaveri degli iracheni (e, in generale, la morte) risponde all’esigenza di nascondere l’utilizzo, da parte degli alleati, di vecchie tecniche belliche o manifesta una più complessa repulsione verso il mortifero? Il tentativo di estromettere la morte dalla guerra discende dal rigetto per la guerra oppure nasconde un più ampio gesto di rimozione della morte? Per quanto i termini si incrocino, si sovrappongano smarrendo i confini e rendendo difficile trovare una risposta netta, a venirci in aiuto, nel tentativo di trovare una traccia dominante, una linea di continuità storica, oltre ad alcuni importanti studi storici sul tema della morte129, troviamo anche una riflessione condotta da Michel Foucault. Nei suoi studi sul rapporto tra vita e potere, lo studioso francese ha affrontato il tema della morte attraverso un’articolazione in chiave biopolitica130 – in riferimento al rapporto tra potere e vitamorte –; ciò che invece ci interessa maggiormente, ora, è parte di quella riflessione che Foucault articola nei suoi corsi, in cui sostiene che già a partire dal XVIII secolo un moto centrifugo attraversa l’Europa sospingendo la morte dalla sfera pubblica alla sfera privata operando una ridefinizione di entrambe le sfere. Foucault non identifica, quindi, la marginalizzazione della morte come un passaggio legato alle guerre, ma lo associa a una trama profonda che opera da secoli nel tessuto occidentale trasformando la morte nella “cosa più privata e più vergogno129 Sul tema cfr. P. Ariés, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi (1977), Laterza, Roma-Bari, 1989; M. Vovelle, La morte e l’occidente. Dal 1300 ai giorni nostri (1983), Laterza, Roma-Bari, 1986. 130 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 119-142.

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sa”, fino a ridimensionare pienamente il suo ruolo nella sfera pubblica, non facendola essere più “una di quelle cerimonie sfolgoranti a cui partecipava, insieme agli individui, alla famiglia e al gruppo, quasi tutta quanta la società”; bensì “oggetto di tabù” fin’anche più del “sesso”131. La “svalutazione della morte” sarebbe, quindi, un “fenomeno di lunga durata, che abbraccia l’intera Modernità e coincide con lo scadimento delle forme rituali che ne facevano un evento socialmente condiviso”132. Non una reazione alla guerra, pertanto, starebbe alla base dell’allontanamento della morte dalla vita, bensì una torsione, interna all’Occidente, atta a ridisegnare il ruolo della morte nella sfera pubblica per mezzo di una sua ‘privatizzazione’, di uno svuotamento della sua natura pubblica attraverso il lento declino dei riti. Sottratta alla meccanica comunitaria della circolazione del condiviso – i processi di ritualizzazione –, la morte è destinata a esaurire la sua faccia pubblica e il suo tratto comune. Sulla medesima direzione si muove anche Baudrillard il quale – riprendendo l’idea foucaultiana dell’esclusione della pazzia come “gesto” alla base della nascita della ragione nell’epoca classica133 – sostiene l’esistenza di “una esclusione che precede tutte le altre, più radicale di quella dei pazzi, dei bambini, delle razze inferiori, un’esclusione che le precede tutte e serve loro da modello, che è alla base stessa della ‘razionalità’ della nostra cultura: quella dei morti e della morte”134. Acquista consistenza l’idea che alla base dell’esclusione della morte dalla vita ci sia un gesto 131 Id., Bisogna difendere la società (1997), Feltrinelli, Milano, 1998, p. 213. 132 S. Catucci, Per una filosofia povera, cit., p. 157. 133 Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), BUR, Milano, 1976. 134 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1979), Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 138-139.

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intimamente connesso alla Modernità, un gesto della Modernità. Baudrillard usa la morte come matita per tracciare una linea di confine attraverso cui porre al di qua il razionale e al di là l’irrazionale; non trascurando di aggiungere che proprio quella linea è utilizzata per definire i confini della Modernità stessa. Un rapporto costitutivo e funzionale per la definizione di uno spazio proprio legato alla vita (vitale e vivifico) e uno spazio altro destinato alla morte (mortale e mortifero): paradigma enunciativo di altre definizioni, di altri spazi, di altri “discorsi”135. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. In una sorta di processo progressivo, si restringe lo spazio per la morte e per tutto ciò che a essa si collega, sia come spazio fisico, sia come spazio concettuale. La manichea contrapposizione tra vita e morte porta con sé la formazione di un universo composto da due opposti: da un lato, la coincidenza tra razionalità e vita – è razionale voler vivere ed è dal presupposto della vita che si genera un discorso razionale –; dall’altro, la morte col suo insieme di valori negativi e irrazionali – è irrazionale voler morire e dalla morte non può che formarsi un discorso irrazionale e, come tale, da respingere –. Dalle società selvagge alle società moderne, l’evoluzione è irreversibile: a poco a poco i morti cessano di esistere. Sono respinti fuori della circolazione simbolica del gruppo. Non sono più esseri a pieno titolo, partner degni di scambio, e glielo 135 La centralità del rapporto tra vita e morte, per la definizione di uno spazio “vitale” e culturale, è espressa anche da Derrida il quale dice: “La differenza tra natura e cultura, cioè tra biologico e cultura, o più precisamente tra l’animale e l’uomo, è, in base a quanto si pensa comunemente secondo la stessa doxa filosofica, il rapporto con la morte. Con la morte come tale. Il vero confine starebbe qui.” In J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità” (1996), Bompiani, Milano, 1999, p. 39.

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si fa vedere proscrivendoli sempre più lontano dal gruppo dei vivi, dall’intimità domestica al cimitero, primo raggruppamento ancora al centro del villaggio o della città, poi primo ghetto e prefigurazione di tutti i ghetti futuri, respinti sempre più lontano dal centro verso la periferia, infine in nessun posto come nelle città o nelle metropoli contemporanee, in cui nulla è più previsto per i morti, né nello spazio fisico né nello spazio mentale136.

Nel testo, Baudrillard sottolinea un ulteriore aspetto della marginalizzazione della morte ovvero l’esclusione dal circuito simbolico dei morti, negando a essi la possibilità di far parte dello stesso sistema di scambio – un qualsiasi tipo di scambio – dei vivi. Ciò si traduce in una rimozione, dalla comunità, della morte e di una simbolica della morte, negando alla morte una libera circolazione nella sfera pubblica. Un processo di lunga durata che si è infiltrato nelle città anche sottoforma di progetti urbanistici sempre più impreparati ad accogliere i morti, respingendoli nelle periferie dello spazio – secondo uno schema della ghettizzazione tipicamente occidentale – seguendo una logica che afferma che al giorno d’oggi non è normale essere morti. La marginalizzazione della morte, come base del discorso filosofico della Modernità, si traduce nella rimozione dalla vita pubblica della morte (e un insieme simbolico alla morte riconducibile) e, contestualmente, nell’individuazione della vita come centro del discorso filosofico e politico137. La morte non 136

J. Baudrillard, Lo scambio simbolico, cit., p. 139. Per quanto non intenda proporre una piena coincidenza tra la marginalizzazione della morte e la nascita della biopolitica, è di interresse notare che nella riflessione sul paradigma biopolitico operata da Agamben, egli sostiene che la nascita della biopolitica sia precedente al moderno: fino a giungere alla polis greca e fin’anche sovrapponibile alla stessa metafisica occidentale (cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Tori137

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deve più circolare nella società moderna né sottoforma di discorso, né sottoforma di simbolo. In questa fissazione concettuale si ritrova il confine entro il quale si pensa e si identifica il progetto moderno che pone l’altro al di fuori di esso, come l’hostis, il pericolo, la morte. La morte, quindi, si trasforma nella traccia originale per la formazione di un campo semantico del negativo in cui, inevitabilmente, ricade anche la guerra per la sua irriducibile natura tanatopoietica, per il suo essere produttrice di morte. Lo slittamento semantico della guerra risente della sotterranea traccia di ripulsione nei confronti della morte e coinvolge, pertanto, non solo la guerra ma il negativo, creando la tensione per un più ampio slittamento semantico del negativo, in quanto traccia – o fondamento, secondo il lavoro teorico di Nancy138 – impronunciabile della Modernità e dell’Occidente. 3. Se secondo la celebre definizione clausewitziana – la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi139, il conflitto, che è un evento tantatopoietico, in che rapporto può mai stare con la politica moder-

no, 1995). Sulla stessa linea si muove Esposito, per il quale la biopolitica sarebbe tutt’altro che una curvatura moderna: essa coinciderebbe con la stessa nascita del politico. Esposito individua nel paradigma dell’immunizzazione una chiave interpretativa dentro e oltre la biopolitica, poiché attribuisce all’immunità il potere di conservare la vita, ma mescolando i termini e non separandoli come avviene in Foucault, per il quale il potere è esterno alla vita. Nell’interpretazione di Esposito, inoltre, gli stessi termini vita e morte perdono il confine, contribuendo a dare maggior slancio all’ipotesi di una coincidenza tra marginalizzazione della morte e nascita della biopolitica. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002; Id., Bíos, cit. 138 Cfr. J. L. Nancy, La comunità inoperosa (1986), Cronopio, Napoli, 1992 e 1995; ma anche R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, 1998. 139 C. von Clausewitz, Della guerra (1832), Einaudi, Torino, 2000, p. 38.

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na? La guerra non può che essere destinata a rappresentare il punto d’ombra della politica, il suo lato oscuro. La guerra riesce a racchiudere ed esprimere le contraddizioni dell’Occidente, presentandosi sempre più come evento limite: all’inizio del tracciato politico moderno (che tenta di neutralizzarla), ma già oltre, già da sempre fuori dalla Modernità, punto critico, bordo esterno. In uno dei suoi corsi, Foucault dice che “con la crescita e lo sviluppo degli Stati [...] le pratiche e le istituzioni di guerra hanno subito una evoluzione assai marcata e ben visibile”, durante la quale la guerra è finita sempre più nelle mani di un potere centrale, fino alla sua completa statalizzazione, in modo che “di fatto e di diritto, solo i poteri statali hanno potuto intraprendere le guerre e controllare gli strumenti della guerra.” Così facendo, si è cancellata quella “guerra privata” sempre pronta a esplodere nel “corpo sociale”, nel “rapporto tra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo”. Allo stesso tempo, le “guerre, le pratiche di guerra, le istituzioni di guerra tendono sempre di più a esistere in qualche modo solo alle frontiere, solo ai limiti estremi delle grandi unità statali”140. Con il rafforzamento degli Stati, la politica si è impossessata del diritto di fare guerra, facendola scomparire dal tessuto sociale e, contestualmente, ha operato una manovra di marginalizzazione del militare ovvero ha portato lungo i confini, ai margini di uno Stato, gli apparati e le strutture militari, determinando la sottrazione del militare dallo scambio simbolico sociale. La guerra è, quindi, da sempre il bordo esterno della Modernità, il suo spazio di affermazione e, a un tempo, di negazione: di contraddittoria affermazione. La guerra è uno spazio di crisi, ed è la natura mortifera della guerra a essere profondamente inaccettabile in Occidente, perché centrata sul ruolo positivo 140 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., corso del 21 gennaio 1976, p. 47.

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(affermativo) della morte (vince chi sa uccidere meglio) e su una “simbolica del sangue” inconciliabile con una “società” incentrata su un’“analitica della sessualità”141, che trova nella vita il baricentro del suo paradigma filosofico-politico142, progettuale, organizzativo, di governo143. La concessione alla guerra, senza cadere in contraddizione, può avvenire solo restando all’interno dell’architettura del bíos, solo se la guerra si muove in nome della sicurezza144 e per la vita riesce ad annullare o ridurre il suo portato critico. Ricordava Foucault: “Le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere; si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere. I massacri sono diventati vitali”145. Solo se la guerra resta nell’ambito del vitale (dalla motivazione, alla sua fattualità) riesce a non mettere in crisi il sistema filosofico e valoriale occidentale.

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Id., La volontà di sapere, cit., p. 131. Osserva Francesca Izzo: “Con Hobbes – in maniera esemplare per il progetto moderno – politica e vita [...] vengono in contatto. La vita a rischio chiama in campo la politica, l’arte o il sapere ‘architettonico’ per eccellenza, il solo in grado di costruire non più solo ‘argini’ ai colpi della Fortuna, ma strutture capaci di rigenerare la vita, conservandola e sviluppandola. E la politica, significativamente, assume a suo telos non la promozione della perfezione, della gloria e della potenza dei cittadini (alcuni uomini) e della comunità, ma la salvaguardia della pace e della vita di tutti i sudditi” in F. Izzo, Forme della modernità. Antropologia politica e teologia in Thomas Hobbes, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 13. 143 Anche il modo di fare le guerre testimonia il passaggio dal paradigma del potere sovrano a quello che disciplina la vita. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 121. 144 Sul rapporto tra guerra-sicurezza-biopolitica, cfr. L. Bazzicalupo, Democrazia strategie guerra, relazione tenuta al Secondo Convegno della Società Italiana di Filosofia Politica, “Democrazia, sicurezza e ordine internazionale” (Monte Giove, 19-20 ottobre 2005), consultabile sul sito web della Società Italiana di Filosofia Politica. 145 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 121. 142

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Per fare ciò, però, la guerra deve passare dal negativo al positivo, deve slittare dal campo semantico del mortifero a quello del vivifico: deve essere mossa non, per esempio, per annientare il nemico, ma per liberarlo o per esportargli la democrazia. È per questo motivo che la comunicazione diviene un terreno centrale nell’equilibrio filosofico e politico dei Paesi occidentali, perché è lì che si definiscono i campi semantici, i confini del positivo. Lo spazio della comunicazione è, in questo senso, il campo di una battaglia continua e permanente.

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1. Spiegare la guerra? – Se consideriamo con il senno del poi il fatto che i filosofi hanno da sempre cercato di dare una spiegazione esaustiva della guerra, dobbiamo ammettere che i risultati sono stati piuttosto deludenti. A seconda delle premesse concettuali dalle quali si partiva si è giunti a due diverse, se non opposte conclusioni. Da un lato le premesse erano tali da concludere alla necessità della guerra, e quindi la spiegazione si traduceva in una giustificazione. Dall’altro esse portavano alla sua assurdità, e la spiegazione si volgeva in condanna. Né in un caso né nell’altro si è data, né si poteva dare, una spiegazione imparziale, avalutativa del fenomeno bellico. Alla necessità e alla giustificazione della guerra sono pervenuti tutti coloro che hanno riconosciuto nel conflitto, nella tensione, nella lotta e nella continua distruzione un elemento costitutivo della realtà, di cui la guerra non sarebbe che un’applicazione particolare. Il modello di riferimento è quasi sempre Eraclito (“Polemos è il padre di tutte le cose”) declinato in chiave metafisica, teologica, morale e storica. “La terribile legge della guerra – dice efficacemente Joseph de Maistre nelle Soirèes de Saint-Pétersbourg – non è che un capitolo della legge generale che pesa sul-

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l’universo”1. Le filosofie della storia otto-novecentesche non fanno che trasportare questo assunto dal piano sincronico della struttura del reale a quello diacronico del processo storico. Anche qui le varianti sono molteplici. Si va dalla classica interpretazione idealisticodialettica di Hegel, per cui la storia è il Weltgericht nel quale si decide, anche attraverso la guerra, sulla leadership dei popoli, a quella positivistico-tecnologica di Spencer, che vede nella guerra un fattore essenziale dello sviluppo industriale moderno, oppure ancora a quella naturalistico-vitalistica di Spengler, per cui la “vita è lotta” e il fatto “che interi popoli diventino pacifisti è un sintomo di debolezza senile”2. Si va dall’evoluzionismo rozzo che interpreta anche la guerra in termini di “selezione del più adatto” a una sua applicazione più raffinata, in chiave etologica, per cui “la guerra, esasperando le condizioni selettive, ha anche accelerato l’evoluzione biologica e culturale” (come sostiene Iräneus Eibl-Eibelsfeldt, l’allievo più noto di Konrad Lorenz)3. A cavallo tra filosofia della storia ed etica è la spiegazione/giustificazione morale della guerra come condizione dello sviluppo delle energie spirituali dell’uomo, minacciate dall’edonismo e dal materialismo che accompagnano periodi di pace troppo lunghi. È celebre un passo che Hegel ripete due volte nelle sue opere: “La guerra mantiene la salute etica dei popoli... come l’agitarsi dei venti preserva dalla putredine cui una calma duratura ridurrebbe i laghi, e una pace duratura o addirittura eterna i popoli”4. Che la guerra 1

J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, Milano, Rusconi, 1971, p. 395. 2 O. Spengler, Ist Weltfriede möglich? Telegraphische Antwort auf eine amerikanische Rundfrage (1937), in Reden und Aufsätze, München, Beck, 1951, pp. 292-293. 3 I. Eibl-Eibelsfeldt, Etologia della guerra, Torino, Boringhieri, 1983, p. 129. 4 G.W.F. Hegel, Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, a cura di A. Negri, Roma-Bari, Laterza, 1971, p.

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sia un “bagno morale” vale tanto per uno spirito neoclassico come Schiller quanto per un ‘filosofo col martello’ come Nietzsche5. Queste argomentazioni ritornano, condite con una buona dose di nazionalismo, nell’“ideologia della guerra” – per dirla con Thomas Mann – che fa da sfondo culturale, soprattutto in Germania ma non solo, ai due conflitti mondiali. Naturalmente basta cambiare il quadro concettuale di riferimento perché si ribaltino i criteri di spiegazione e di valutazione. Se consideriamo ad esempio le coordinate categoriali di quel peraltro complesso movimento che per mera comodità può essere denotato come “illuminismo”, tutto cospira a proclamare l’assurdità della guerra. La realtà – naturale in primis, storica e sociale di conseguenza – è interpretata in termini di ordine razionale (realizzato nella natura, da realizzare nella società), ordine che si riflette in una natura umana di per sé socievole e aperta alla colla94. Ripreso nei Lineamenti di filosofia del diritto, p. 324 (trad. it. G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 257). 5 Cfr. F. Schiller, La sposa di Messina, atto I, scena VIII, in Teatro, Torino, Einaudi, 1969, p. 928: “Bella è la pace... Ma anche la guerra merita lode, essa che muove gli umani destini. Amo la vita vivace, amo il perpetuo altalenare e salire alle stelle e star sospesi sulle onde della fortuna che ora s’innalzano e ora si avvallano. Nella pace l’uomo intristisce e l’ozioso riposo è la tomba del coraggio. La legalità è l’amica del debole; a lui piace compiere solo ciò che è piano, ed egli vorrebbe far ristagnare tutto il mondo; la guerra invece mette in luce la forza, e innalza tutto a un livello inconsueto; persino nel vile essa crea coraggio”. – Per quanto riguarda Nietzsche cfr. Umano, troppo umano (Milano, Adelphi, 1979, vol. I, p. 265): “È vana fantasticheria e utopia di anime belle aspettarsi dall’umanità ancora molto (o addirittura: solo allora veramente molto), quando essa avrà disimparato a far guerre. Per ora non conosciamo altri mezzi mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’esistenza propria e delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell’anima, in modo altrettanto forte e sicuro come lo fa ogni grande guerra”.

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borazione. In questo quadro il conflitto in generale e la guerra in particolare appaiono manifestazioni innaturali, irrazionali e patologiche, come forme di malattia o di pazzia: di questa posizione l’eroe eponimo è sicuramente Voltaire, dalle cui opere si potrebbero trarre numerose quanto salaci citazioni6. Anche nella versione diacronica di questa concezione armonicistica – la filosofia della storia nasce appunto con gli illuministi francesi – il conflitto non trova posto in un progresso storico fondato, anziché su uno schema dialettico, su un modello meccanico-accumulativo: sempre più ragione, più libertà, più benessere, più pace. E nelle versioni più ottimistiche di queste filosofie della storia, come quella di Condorcet, è già possibile scorgere all’orizzonte un futuro privo di guerra7. 6 “È senza dubbio una bellissima arte questa, che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa perire in media ogni anno quarantamila uomini su centomila... Un genealogista dimostra a un principe che discende in linea diretta da un conte i cui parenti tre o quattro secoli fa avevano stretto un patto di famiglia con una casata di cui non si ha neppure più memoria. Questa casata aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è morto d’apoplessia: il principe e il suo Consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino... Egli trova immediatamente un gran numero di uomini che non hanno niente da fare né da perdere; li veste con un grosso panno azzurro a centodieci soldi il braccio, orla i berretti di grosso filo bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia alla gloria... Ma lo straordinario di questa impresa infernale è che ciascun capo di queste bande di assassini fa benedire le sue bandiere e invoca Dio solennemente prima di andare a sterminare il suo prossimo” (Voltaire, Dictionnaire philosophique, voce Guerre, Paris, Garnier-Flammarion, 1964, pp. 217-218). 7 Cfr. J.-A. N. Caritat de Condorcet, Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, a cura di G. Calvi, Roma, Editori Riuniti, 1995, p. 204: “I popoli più illuminati rientreranno in possesso del diritto di disporre del loro sangue e delle loro ricchezze, apprenderanno a poco a poco a considerare la guerra come il flagello più funesto e come il più grande dei crimini. Si vedranno dapprima sparire quelle guerre in cui gli usurpatori della sovranità delle nazioni le hanno trascinate per pretesi diritti ereditari... Come infine i popoli si avvicineranno nei princìpi della politica e della morale, come ciascuno di essi, per il proprio vantaggio,

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Le valutazioni che i filosofi hanno dato della guerra dipendono quindi sempre degli orizzonti concettuali che definiscono il loro pensiero. E le cose non vanno meglio quando si cerca di spiegare la guerra in base alla natura dell’uomo anziché a quella della realtà in generale e, sincronica o diacronica che sia. Infatti anche in questo caso i filosofi giustificano o condannano la guerra a seconda che accettino o respingano il pessimismo antropologico che si esprime, ad esempio, nella dottrina religiosa del peccato originale o nelle sue versioni laicizzate, delle quali la più nota è l’hobbesiana concezione dell’uomo come homo homini lupus. L’interpretazione freudiana della guerra come risultato ineludibile della duplice azione nell’uomo di una pulsione erotica e una mortale (Eros e Thanatos) è una delle più recenti riedizioni di questo pessimismo, e gli opposti atteggiamenti con cui è stata accolta sono ulteriore conferma del fatto che la questione sia insolubile al di fuori di un quadro di riferimento assiologico. Col che non si vuol dire che le spiegazioni (e valutazioni) che della guerra furono storicamente date dai filosofi siano state ininfluenti: al contrario esse hanno spesso esercitato un forte (e a volte nefasto) influsso sugli ambienti culturali, sociali e politici in cui sono state espresse. Ma sul piano teorico, pur avendo avuto un’importante funzione nella chiarificazione dei concetti (ma a volte anche nella loro complicazione e mistificazione), non hanno prodotto nessun risultato indipendente dal contesto storico. Poco meglio sono andate le cose quando i filosofi hanno rinunciato a spiegare la guerra e a definirne l’essenza in rapporto alla natura delle cose o dell’uochiamerà gli stranieri a una divisione più eguale dei beni che esso deve alla natura o alla propria operosità, tutte le cause che producono, inaspriscono, perpetuano gli odi nazionali svaniranno a poco a poco; esse non forniranno più al furore bellicoso né alimento né pretesto”.

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mo, ma si sono accontentati di chiarire la relazione che la guerra intrattiene con altre specifiche condizioni o attività umane. Che la guerra abbia un rapporto essenziale con la politica, ad esempio, è un insegnamento che emerge chiaramente dalle opere di Machiavelli, dove lo strumento bellico è considerato un mezzo essenziale per realizzare la finalità dello stato, cioè l’autoconservazione e la potenza. Che la guerra sia “la continuazione della politica con altri mezzi” è uno degli assunti fondamentali di Clausewitz, il quale ha voluto con ciò affermare sia che le armi devono intervenire là dove le note diplomatiche risultano inefficaci (e quindi la politica dipende dalla guerra), sia che – eccetto nel caso della guerra assoluta – la guerra non ha un fine proprio, ma deve realizzare con mezzi militari soltanto finalità politiche (e quindi la guerra dipende dalla politica). Carl Schmitt, infine, ha radicato il conflitto (e quindi anche la guerra) nella stessa definizione del concetto di Politico, inteso come rapporto amico/ nemico. Tutte queste affermazioni, e molte altre dello stesso tenore, sono quindi concordi nell’affermare l’indissolubile connessione della guerra con la politica, e quindi, indirettamente, l’inevitabilità della guerra, visto che la politica è parte essenziale della convivenza umana. Tuttavia esse intendono la politica come attività volta alla gestione della naturale ostilità (almeno potenziale) tra gli individui o i gruppi, cioè partono da un concetto di politica che – pur essendo largamente diffuso e forse molto plausibile – non è universalmente condiviso. Un discorso analogo vale per i pensatori che hanno sottolineato la contrapposizione tra guerra ed economia, questa volta con intento polemico nei confronti della guerra: un preciso filone concettuale, che partendo da Montesquieu attraverso Benjamin Constant giunge a John Stuart Mill, Saint-Simon e Spencer, sostiene infatti che sviluppo del commercio (il doux commerce) ed esercizio della guerra sono inversamente proporzionali, lasciando presagire che l’af-

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fermazione moderna dell’economia commerciale avrà come effetto una progressiva riduzione del fenomeno bellico. Ma non sono mancate interpretazioni opposte che hanno fatto dipendere l’estendersi e l’intensificarsi della guerra proprio dal fattore economico. Se già in Marx l’espansione dell’economia capitalistica conduce a “contraddizioni” interne al sistema foriere di conflittualità tra le classi, Lenin – innovando completamente il quadro del materialismo storico marxiano – sosterrà che queste contraddizioni conducono a una politica imperialista che sfocia nello scontro per la dominazione dei mercati e, in prospettiva, nella reciproca distruzione degli stati imperialisti. E, anche se i politologi odierni tendono a riservare all’economia una funzione soltanto marginale nell’eziologia bellica, è innegabile che sia spesso storicamente esistito un rapporto di causalità tra determinati fenomeni economici e lo scoppio di certe guerre. 2. Esiste la guerra giusta? – Finché si gioca sulle interpretazioni filosofiche della guerra, il confronto tra pensatori che giustificano o almeno accettano la guerra e filosofi che la condannano o la criticano si risolve dunque in partita patta. Le cose vanno decisamente meglio, quando i filosofi rinunciano a spiegare (e a giudicare) la guerra in generale, limitandosi a cercare criteri di valutazione per le singole guerre. Si rinuncia cioè a dire che la guerra è strutturalmente buona, perché risponde alla natura necessaria delle cose, o è strutturalmente cattiva, perché contraddice alla natura necessaria delle cose, ma si sostiene che può essere buona o cattiva a seconda delle cause che la motivano, di chi la conduce e del modo in cui viene condotta. È questa la teoria della “guerra giusta”, che nasce con il giusnaturalismo antico e medievale – soprattutto nel pensiero di Agostino e di Tommaso – per essere poi ripresa nel mondo moderno dalla scolastica cinquecentesca e dal giusnaturalismo del Sei-Set-

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tecento. Non che la teoria della guerra giusta faccia a meno del riferimento alla “natura delle cose” e a una struttura oggettiva della realtà. Al contrario, è presupposto del giusnaturalismo che esista un diritto inscritto nella natura – intesa ora come ordine del reale ora come natura umana, cioè ragione – che definisce in maniera oggettiva le relazioni giuridiche interindividuali (suum naturale cuique, dice Gottfried von Achenwall, il giusnaturalista il cui Jus naturae in usum auditorum servì a Kant da manuale per le sue lezioni di diritto naturale). La guerra tuttavia non è uno di questi rapporti, ma è uno strumento per la loro conservazione o, nel caso di un’infrazione, per la loro restaurazione. Giusta è dunque la guerra che assolve a questa funzione, ingiusta quella che nasce da altre motivazioni (conquista, usurpazione, ecc.). Le causae iustificae della guerra sono riconducibili a tre: l’autodifesa (vim vi repellere licet aveva già sostenuto Ulpiano), la ripetizione del dovuto e la punizione di chi ha infranto il diritto. Enunciate chiaramente da Tommaso d’Aquino8 e riprese dalla riflessione scolastica cinquecentesca (soprattutto Francisco de Vitoria), queste tre cause di legittimità si ritrovano in Grozio e attraverso di lui passano al pensiero giusnaturalistico moderno (Pufendorf, Vattel)9. La teoria della guerra giusta presenta alcuni vantaggi rispetto a una semplice giustificazione o condanna filosofica della guerra. Essa evita infatti tanto il bellicismo quanto il pacifismo assoluti – sempre fondati su basi ideologiche difficilmente condivisibili dal campo avverso – e propone un concreto protocollo di valutazione e di comportamento. Non è un caso, mi 8

Cfr. T. d’Aquino, Summa Theologiae, II-II. Quaestio XL,

art. 1. 9 S. Pufendorf, De jure naturae et gentium, VIII. VI, p. 3; C. Wolff, Jus gentium, p. 617 e Institutiones Juris naturae et gentium, IV, VII, pp. 1169-1171; E. Vattel, Le droit des gens, III, I, pp. 3-4 e III, III. pp. 25-26.

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sembra, che dopo un declino durato secoli, essa sia stata recentemente ripresa da un filosofo-politologo del calibro di Michael Walzer che ha ridotto a due le causae iustificae del ricorso alle armi: “una guerra di autodifesa da parte della vittima e una guerra di rivendicazione del diritto violato da parte della vittima e da parte di ogni altro membro della società internazionale”10. Ma la riproposizione oggi di questo modello rivela in modo anche più macroscopico i limiti della teoria, già emersi del resto nel periodo della sua massima affermazione dal Cinquecento al Settecento. In primo luogo: cosa si deve intendere per diritto di autodifesa? Che cosa fa nascere questo diritto? L’aggressione reale di un paese da parte di un altro (del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam), come pensava ad esempio la maggior parte degli illuministi, che della guerra giusta dette l’interpretazione più restrittiva; oppure il semplice pericolo, magari presunto, di una minaccia esterna (la convinzione di Bush jr. che l’Iraq di Saddam minacci l’integrità degli Stati Uniti), come, nello stesso ambiente illuministico, pensava ad esempio Montesquieu? È ovvio che le soluzioni sono ben diverse: mentre nella prima la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva è molto chiara, nella seconda diventano incerti i confini tra difesa e aggressione. In secondo luogo: in base alla coscienza etico-giuridica contemporanea, che cosa si deve intendere per violazione di diritto? Soltanto le violazioni territoriali o economiche ai danni di uno stato indipendente, come nel Sei-Settecento, o anche la violazione dei diritti umani da parte di uno stato indipendente? Fino a che punto uno stato può quindi essere sovrano sul proprio territorio, esercitando anche il diritto di violare i diritti fondamentali o di compiere genocidio interno? In terzo luogo, e soprattutto: in 10

p. 91.

M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Napoli, Liguori, 1990,

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una società internazionale di stati indipendenti, come era l’Europa moderna o come è ancora in gran parte il nostro pianeta oggi (e come ritiene debba essere Walzer), a chi spetta di constatare le violazioni del diritto, che secondo la teoria della guerra giusta, da Tommaso a Walzer, costituiscono ragione di intervento per qualsiasi membro della società internazionale? Quale garanzia si può avere che lo stato che si erga a poliziotto internazionale non si serva di questo suo “diritto naturale” per perseguire invece i propri interessi (accaparrarsi il controllo del petrolio iracheno o rafforzare la propria egemonia internazionale anziché difendere gli interessi dell’Iraq)? Alcune di queste difficoltà, soprattutto quelle legate alla individuazione concreta delle causae iustificae nei singoli casi, emersero già quando la dottrina della guerra giusta era pressoché universalmente accettata: il caso cruciale era infatti quello in cui le cause della guerra apparivano giuste, seppure per ragioni diverse, da entrambe le parti. Per questo nella definizione di “guerra giusta” spesso l’accento va spostato dalle cause alle forme di conduzione della guerra, le quali comunque, da Tommaso d’Aquino in poi, hanno sempre rappresentato la seconda componente costitutiva della teoria. Perché la guerra sia giusta, infatti, non deve solo essere motivata da cause giuste, ma deve anche essere “guerra solenne”, intrapresa da un soggetto autorizzato (cioè uno stato internazionalmente riconosciuto) e condotta secondo determinate regole formali stabilite dal diritto internazionale di guerra. Più che sulla legittimità della guerra (cioè sul fatto di essere fondata su iustae causae) si insistette quindi sulla sua legalità formale (sul fatto che i contendenti si riconoscano reciprocamente come iustus hostis)11. In questo modo la guerra veniva riconosciu11 Riprendo la distinzione tra legittimità e legalità della guerra da N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, il Mulino, 1978, p. 58.

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ta come una sorta di procedura giudiziaria indispensabile laddove, come nel campo internazionale, non esiste una legislazione positiva che regola le vertenze. Ma è chiaro che questa concezione legalistica della guerra si esponeva al pericolo di trasformare la “guerra giusta” da strumento di garanzia del diritto mediante la forza a strumento di produzione del diritto mediante la forza: in altri termini, non vince chi ha ragione, ma ha ragione chi vince, come ha osservato Norberto Bobbio. In questo modo la pretesa di definire una teoria che discriminasse le guerre giuste da quelle ingiuste rischiava di diventare una teoria per giustificare le guerre più infondate, a condizione che fossero “solenni” e, naturalmente, vittoriose. Inoltre questo riferimento all’aspetto formale della guerra, per quanto riguarda sia il soggetto che la intraprende sia le modalità con cui è condotta, non ha più nessun senso in una società come quella contemporanea: in essa il soggetto della guerra – o almeno della violenza organizzata che talvolta prende il posto della guerra – spesso non è lo stato, ma il popolo rivoluzionario, la nazione (che dall’Ottocento in poi non ha più coinciso con lo stato), la comunità etnica, il gruppo sociale o la formazione terroristica; analogamente, sul piano formale, sono venute meno condizioni essenziali della “solennità” della guerra, ad esempio il fatto che le ostilità vengano aperte con una dichiarazione di guerra attraverso i canali diplomatici. 3. In difesa del giusglobalismo – Cerchiamo di tirare qualche somma. In primo luogo si è visto che una teoria che si proponga di fornire criteri di valutazione delle singole guerre è più utile di una riflessione filosofica sulla natura della guerra in generale, difficilmente generalizzabile a causa degli specifici presupposti concettuali o ideologici che la condizionano. In secondo luogo si è constatata la difficoltà di individuare un soggetto politico (ed eventualmente anche militare)

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che, pur disponendo di criteri relativamente oggettivi, possa valutare la guerra in una condizione internazionale in cui manca un terzo super partes (il bobbiano “terzo assente”)12. Ne consegue che il problema da risolvere per uscire dall’impasse è elaborare un modello teorico che preveda un’agenzia internazionale nella quale si possano riconoscere tutti gli stati e dalla quale dipenda la soluzione delle vertenze, eventualmente anche impiegando la forza contro i riottosi, come unica possibilità di “guerra giusta”. Questo modello teorico ha trovato – com’è noto – le sue realizzazioni storiche nella Società delle Nazioni voluta da Woodrow Wilson dopo la prima guerra mondiale e nell’Organizzazione delle Nazioni Unite dopo la seconda. L’esercizio concreto della politica internazionale non è stato generoso nei confronti di queste due istituzioni: la prima ebbe vita molto breve e la seconda, ancorché tuttora funzionante, presenta gravi deficit di efficacia, come dimostrano le recenti guerre locali, dal Corno d’Africa al Kosovo, e soprattutto la ancora inconclusa guerra in Iraq. Ma proprio su questo punto, laddove la politica mostra i suoi limiti, può intervenire propositivamente la riflessione filosofica con i suoi modelli teorici. L’unica possibilità teorica di soluzione del problema consiste nella progressiva estensione del modello contrattualistico a livello planetario. Originariamente, nei filosofi che lo pensarono nella sua forma moderna – soprattutto Hobbes, ma anche Locke e Rousseau – il modello contrattuale si applicava esclusivamente agli individui e aveva la funzione di garantire la pace interna allo stato scaricando la violenza verso l’esterno. Ma anche l’estensione del modello contrattuale a un certo numero di stati, come avveniva nella tradizione dei progetti di pace perpetua, obbediva alla stessa logica. Il famoso Projet pour rendre la paix perpétuelle en Euro12

Cfr. Id., Il terzo assente, Torino, Edizioni Sonda, 1989.

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pe (1714) dell’abate di Saint-Pierre aveva il duplice obiettivo di garantire lo status quo interno e di accrescere la potenza europea verso l’esterno. Più esplicitamente Leibniz proponeva una lega degli stati europei che, distogliendoli dalle loro guerre reciproche, consentisse di unire le loro forze contro i Turchi. Con Kant, invece, il modello contrattualistico assume dimensione planetaria, perché il Progetto di pace perpetua del 1795 prevede la progressiva estensione della “federazione per la pace” a tutti i popoli della terra. A questo punto è facile, troppo facile, gridare all’utopia. Un disegno del genere – si dirà – non ha nessuna possibilità di essere realizzato, come dimostrano appunto il fallimento della Società delle Nazioni e la costitutiva debolezza dell’ONU. Ma anche su questo Kant ha ancora qualcosa da dire. Infatti egli non è affatto un utopista. Sa bene che lo stato di natura tra le nazioni è, hobbesianamente, uno stato di guerra. Ancor meno si aspetta dalla natura dell’uomo, che è un “legno storto” corrotto da un originario e irredimibile “male radicale”. Per questo Kant non si fa illusioni neppure sulla pace perpetua, che giunge a dichiarare “certamente una idea irrealizzabile”13. Tuttavia egli ritiene che esista una normatività assoluta dell’agire che impone di operare nella direzione del federalismo universale e della pace da esso garantita, indipendentemente da ogni considerazione di ordine contingente. “Dunque non si tratta più di sapere se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso, [...] ma noi dobbiamo agire sul fondamento di essa come se la cosa fosse possibile, il che forse non è...”14. Certo, quando Kant pone la ragione alla base di questa normatività, pensa in primo luogo alla ragione 13 I. Kant, Princìpi metafisici della dottrina del diritto in Scritti politici e della filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1965, p. 542. 14 Ivi, p. 546.

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morale (la “ragion pura pratica universalmente legislatrice”), la quale comanda perentoriamente: “non ci deve essere nessuna guerra, né tra te e me nello stato di natura, né tra noi come Stati”15. Ma in questo modo la proposta filosofica tornerebbe a dipendere, come le interpretazioni della guerra in generale, da un presupposto teorico non universalmente condiviso. Andando al di là di Kant, senza tradirlo troppo, la ragion pura deve quindi esser declassata a “ragione strumentale”, a quel calcolo utilitaristico che consiste semplicemente nello stabilire il giusto rapporto tra mezzi e fini. È Kant stesso del resto a sostenere la sufficienza di questo tipo di ragione nella costituzione della società civile, che presuppone non già una “società di angeli”, ma una “società di diavoli” che sappiano soltanto ragionare, cioè considerare il loro vero utile e i veri mezzi per conseguirlo. La stessa cosa può valere per la società internazionale. La normatività assoluta può nascere semplicemente dal carattere perentorio che detengono le prescrizioni volte alla realizzazione di scopi universalmente condivisibili. L’autoconservazione, l’incolumità e la sicurezza (non la libertà e la democrazia) sono valori che possono e devono essere generalmente riconosciuti (anche se in condizioni eccezionali possono venire sacrificati per valori ritenuti superiori): da ciò consegue l’assolutezza del dovere di agire in modo da estenderne al massimo la realizzazione e il godimento, indipendentemente da ogni altra considerazione. Occorre dire però che Kant stesso, condizionato dal suo senso realistico, non ha spinto fino in fondo il suo impegno in difesa della normatività assoluta. Figlio del suo tempo, egli non ritiene che gli stati possano rinunciare alla loro sovranità e indipendenza, o anche soltanto a una parte di essa. Così, di fronte all’alternativa tra uno “stato di popoli”, fornito di poteri coercitivi centrali, e una “federa15

Ivi, p. 545.

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zione dei popoli”, in cui l’alleanza non tocca la sovranità dei singoli stati – cioè tra federalismo vero e proprio e confederalismo – sceglie la seconda soluzione, indebolendo radicalmente l’efficacia dell’organismo internazionale per la pace16. (Un paio di decenni prima, invece, gli autori del Federalist avevano spiegato agli americani, seppure limitandosi a un discorso “locale”, che soltanto il federalismo perfetto può garantire la pace). Questa debolezza teorica è alla base della scarsa efficacia politica di istituzioni come la Società delle nazioni o l’ONU. Per porvi rimedio, nel Novecento si è sviluppata una riflessione filosofico-politica che – sempre facendo riferimento a Kant – mira a restituire all’organismo internazionale per la pace la sua analogia perfetta con la società statale, assegnandole un potere esecutivo centrale più o meno esteso: mi riferisco al dibattito iniziato nella prima metà del Novecento da Hans Kelsen – che pur riconoscendo nello “stato mondiale” un irrinunciabile ideale normativo, ha realisticamente proposto come obiettivo realizzabile in tempi brevi l’istituzione di corti di giustizia internazionale che abbiano efficacia operativa17 – e ripreso negli anni Novanta dalle importanti riflessioni di Jürgen Habermas18 e da Otfried Höffe19. 16 Cfr. Id., Per la pace perpetua. Un progetto filosofico in Scritti politici, cit., pp. 297-301; Id., Princìpi metafisici della dottrina del diritto, cit., pp. 541-542. 17 Cfr. H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale (1920), Milano, Giuffré, 1989; Id., La pace attraverso il diritto (1944), Torino, Giappichelli, 1990. 18 Cfr. tra l’altro J. Habermas, “L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo”, in L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 1998; Id., Die post-nationale Konstellation. Politische Essays, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1998; Id., L’Occidente diviso, Roma-Bari, Laterza, 2005. 19 Cfr. tra l’altro. O. Höffe, “Völkerbund oder Weltrepublik”, in Immanuel Kant. Zum Ewigen Frieden, a cura di O. Höffe, Berlin, Akademie Verlag, 1995, pp.109-132; Id., “Eine Weltrepublik als Minimalstaat. Zur Theorie Internationaler politischer Gerechtigkeit”, in “Zum ewigen Frieden”. Grundlagen, Aktualität und Auss-

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La strada da percorrere per ampliare progressivamente, a livello internazionale, forme di giuridicità coercitiva che vanifichino o limitino il conflitto è dunque duplice: per un verso estendere quantitativamente le forme di unione tra gli stati, per l’altro verso promuovere qualitativamente il loro passaggio da accordi di collaborazione culturale, strategica o economica ad autentiche costituzioni federali. Naturalmente il processo di federalizzazione non può che essere graduale, per quanto riguarda sia l’estensione – che inizialmente può avere solo carattere regionale – sia il processo di costituzionalizzazione. Oggi la realtà politica europea, malgrado molti momenti di incertezza e di rallentamento, si sta irreversibilmente muovendo in questa direzione, in forme e tempi assolutamente impensabili solo sessant’anni fa. Ma al “modello europeo”, nel quale gli stati progressivamente rinunciano a pezzi sempre più consistenti di sovranità per dar vita a un organismo superiore, si contrappone il “modello americano”, fondato sul dogma della sovranità assoluta dello stato (come ai tempi di Bodin) e su una concezione anarchica della società internazionale, nella quale la “giustezza” della guerra dipende soltanto dalla potenza della nazione che la intraprende. Da un lato l’“idealismo”, dall’altro il “realismo” politico. Da un lato la norma, dall’altro il dato di fatto. Da un lato Kant, dall’altro Hobbes. Da un lato una visione dei rapporti internazionali basata sulla fiducia di poter trasformare progressivamente la realtà, dall’altro una concezione che considera definitiva l’anarchia internazionale, nella quale ciò che muta è soltanto la diversa distribuzione della potenza. Decidere di orientare gli stati verso l’una o l’altra direzione spetta ai politici e ai governanti. Creare una coscienza a favore dell’una o dell’altra soluzione spetta ai filosofi e agli intellettuali. sichten einer Idee von Immanuel Kant, a cura di R. Merkel e R. Wittmann, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1996, pp. 154-171.

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LA GUERRA PRIMA DELLA GUERRA Il socialismo europeo e l’immagine della guerra in tempo di pace 1911-1914 Francesca Canale Cama

Pensare la guerra in tempo di pace Nell’attuale equilibrio militare mondiale ci appare impensabile una decisione premeditata di guerra. Quello che si teme è un incidente imprevisto, un calcolo errato, un collasso di nervi, una perdita di controllo di tecnologie o un comportamento di rischio spinto troppo avanti – insomma una guerra non voluta1.

Nel 1987, quando Gian Enrico Rusconi introduceva con queste considerazioni la sua originale ricostruzione della “crisi di luglio” che nel 1914 condusse allo scoppio della Prima Guerra mondiale, il congelamento pluridecennale delle posizioni internazionali che garantivano una pace – benché ‘armata’ –, unito al rischio ancora percepito di un’apocalisse nucleare rendevano davvero impensabile una decisione di guerra. Probabilmente, lo stesso timore dell’inevitabile devastante intensità di un possibile conflitto e la memoria sempre coltivata della dimensione totale dell’ultimo, la guerra mondiale che aveva coinvolto l’Europa e il mondo intero, avevano contribuito ad allontanare anche dal pensiero una simile eventualità. 1

G. E. Rusconi, Rischio 1914, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 15.

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Ma gli abbondanti quindici anni che ci separano da queste considerazioni hanno significato in qualche modo la perdita di questa certezza acquisita. Il disordinato scomporsi dell’equilibrio mondiale nel corso degli anni Novanta, l’irrequietezza dello scacchiere mediorientale dove prolificano le crisi, più o meno circoscritte, risoltesi in conflitto e la questione della ex Jugoslavia, che ha riproposto il pensiero della guerra nel cuore dell’Europa, hanno reso nuovamente immaginabile, pensabile l’eventualità della guerra. Certo, non una guerra delle dimensioni bibliche dell’epoca nucleare ma, sì, seguendo la lezione di Clausewitz, un mezzo per risolvere controversie. Anche se ancora oggi appare impensabile per la maggioranza degli europei l’eventualità che un conflitto possa coinvolgerci da vicino, l’idea di esso, del rischio di esso, coltivata da un flusso continuo di notizie e immagini, ripropone il problema all’attenzione della riflessione di studiosi e gente comune. È questa nuova dimensione di insicurezza che giustifica la riscoperta del “problema guerra” come categoria del pensiero, la necessità di porre nuovi interrogativi, di riconsiderare eventi noti da prospettive differenti che costituisce, in ultimo, la ragione del continuo e profondo rinnovamento degli studi al quale si assiste negli ultimi anni. Il caso delle guerre mondiali è a questo proposito esemplare. Pur a fronte di una sconfinata e spesso notissima tradizione di studi, negli ultimi anni si è tornati a una ricorrente domanda di approfondimento degli studi storici, filosofici e politici su questi particolari momenti di crisi. Non solo studi per così dire scientifici ma anche opere più semplicemente divulgative. Perché un numero ormai significativo di generazioni senza esperienza diretta della guerra guardano quasi istintivamente a questi eventi topici per cercarvi parte delle spiegazioni alle domande del presente.

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Con uno sguardo rinnovato e ben coltivato, allora, si scopre che la guerra e in questo caso le guerre mondiali pongono problematiche che vanno ben oltre la, pur fondamentale, classica dimensione politicodiplomatica per toccare il rapporto tra l’uomo e l’evento bellico. Non a caso, negli ultimi venti anni si sono susseguiti numerosissimi tentativi da parte della storiografia di arrivare a una comprensione globale dell’esperienza della guerra per sviscerare quella dinamica dell’“uomo in guerra e l’uomo nella guerra” cui si riferisce con tanta insistenza parte dell’attuale dibattito francese sul primo conflitto mondiale2. Questo, naturalmente, ha portato a un enorme allargamento dei punti di osservazione e delle tematiche oggetto di studio arrivando anche a includere il tema culturale della violenza della guerra, le dinamiche delle società belligeranti o poste davanti al conflitto (mobilitazione, opinione pubblica, union sacrée), il problema del consenso e dell’accettazione del linguaggio e della cultura di guerra, le conseguenze ‘brutalizzanti’ della guerra sulla società civile, ma anche i ‘dimenticati’ della guerra (il coinvolgimento delle popolazioni civili, gli studi sui combattenti) e gli eventi traumatici del conflitto (ad esempio gli studi sui bombardamenti, sul corpo come mezzo e campo di battaglia). Se per la Seconda Guerra mondiale le ragioni di questo interesse si capiscono istintivamente, va detto che esse non sono meno giustificate per quanto riguarda il primo conflitto mondiale. Infatti, come ben sottolinea George Mosse, nel suo studio sulla Grande Guerra e che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento di appassionati dibatti2 Cfr. A tale proposito per una visione di insieme J. J. Becker / S. Audoin-Rouzeau, Encyclopédie critique de la Première Guerre Mondiale, Paris, Bayard, 2004; S. Audoin-Rouzeau/A. Becker, 14 18, Retrouver la Guerre, Paris, Folio, 2003. Mentre, per fare il punto sul pluridecennale dibattito intorno al primo conflitto mondiale si vedano le pagine introduttive di F. Rousseau, La guerre censurée, Paris, Sueil, 1999.

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ti3, la Prima Guerra mondiale non fu solo l’evento che ha liquidato il sistema europeo delle potenze e che ha stroncato l’Europa come forza mondiale, ma spiega anche e soprattutto ‘come gli uomini hanno fatto fronte alla guerra moderna e le conseguenze politiche di questo confronto’4. Perché il conflitto del 1914-18 fu la prima realtà di guerra che interruppe quella lunga prassi di pace, prolungatasi per tutto l’ultimo quarto dell’Ottocento, in cui le società europee avevano potuto cambiare rapidamente. Un evento inatteso che ha improvvisamente messo di fronte alla guerra moderna, quella tecnicamente e militarmente nuova, che, come mai prima, avrebbe coinvolto simultaneamente tutte le società europee. Una cartina di tornasole ideale, dunque, per osservare le conseguenze politiche e culturali dell’incontro tra l’uomo e la guerra. Non stupisce che questo punto, declinato oggi sia nella forma soggettiva che in quella collettiva, del come le società vadano in guerra e come poi ne escono sia tra i temi più dibattuti riguardo al primo conflitto mondiale5. D’altronde, l’enorme suggestione del tema dell’incontro improvviso con l’evento-guerra è testimoniata fin 3 Si tratta, naturalmente, di G. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990. Negli ultimi anni, la ripresa del tema delle società in guerra, soprattutto ad opera degli storici francesi, deve molto alle annotazioni di Mosse in particolare sul tema della brutalizzazione delle società civili. Cfr. ad esempio A. Prost, Brutalisation des sociétés et brutalisation des combattants, in B. Cabanes/E. Husson (a cura di), Les Sociétés en guerre 1911-1946, Paris, Colin, 2003 e l’intervista di B. Cabanes a George Mosse, “Du Baroque au nazisme: une histoire religieuse de la politique”, in Revue Européenne d’Histoire, n.2, 1994. 4 “L’incontro con la morte di massa – afferma Mosse nell’introduzione – è forse la più fondamentale delle esperienze della guerra. [...] La prima guerra mondiale costituisce il centro di questo libro perché qui l’incontro con la morte di massa assunse una dimensione nuova”, G. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, cit. p. 3. 5 Come è noto, il tema della memoria, della successiva elaborazione dell’esperienza della guerra rappresenta forse il più robusto filone di studi sul primo conflitto mondiale fin dalla metà de-

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dall’infinito dibattito sulle responsabilità della guerra6 che ha per decenni animato la storiografia classica, assai diversamente da quanto è accaduto nel caso degli studi sulla Seconda Guerra mondiale dove lo scoppio delle ostilità era non solo atteso ma generalmente ritenuto inevitabile. Lo scoppio della Grande Guerra, dunque, improvviso e imprevisto, rappresentò il primo incontro della società europea con la guerra moderna. Un’esperienza simultanea e traumatica che catalizzò immediatamente l’attenzione e spazzò via ogni riflessione ‘mediata’ investendo di senso solo il momento presente. “Une vulgate étabilie par la suite”, afferma al proposito Becker, “a fait croire que la guerre était attendue en 1914. Ce fut au contraire une immense surprise qu’en à peine une semaine, à la fin du mois de juillet, toute l’Europe ait été précipitée dans la guerre”7. gli anni Ottanta quando apparvero più o meno simultaneamente le opere di P. Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984 e di E. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1985 che rappresentarono una svolta innovativa non solo nelle scelte tematiche ma anche nell’utilizzo delle fonte e nella metodologia di studio rispetto a una più ortodossa e tradizionale impostazione storiografica. Per l’incidenza di questi studi nel panorama italiano si può vedere G. Rochat, La Grande Guerra negli studi di Fussel e Leed, in “Rivista di storia contemporanea” , n . 2, 1987 e l’introduzione italiana alla nuova edizione dello studio di Fussel a cura di Antonio Gibelli in P. Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit. 6 La questione delle responsabilità della prima guerra mondiale è da sempre un punto su cui si sono spese teorie tese a dare ragioni esclusive. Tuttavia, va sottolineato il tentativo di alcuni di ricostruire su questo punto una teoria più organica. Citiamo, a titolo di esempio, il celebre lavoro di F. Fisher, Assalto al potere mondiale: la Germania nella guerra 1914-18, Torino, Einaudi, 1965 e il più recente J. Joll, Le origini della prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1985; Di diversa impostazione metodologica sono invece gli studi sull’entrata in guerra delle società di cui un magistrale esempio resta J.J. Becker, 1914: comment les Français sont entrés dans la guerre, Paris, 1977 e l’interessante tentativo di confronto in Id., Les entrées en guerre, in B. Cabanes E. Husson (a cura di) cit. 7 J.J. Becker, 1914: comment les Français sant entrés dans la guerre, cit., p. 29.

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Il fatto ormai acquisito che la guerra avesse colto tutti impreparati, però, non equivale a dire che il pensiero di essa non fosse già presente nelle società europee prebelliche. Esistono, infatti, contingenze storiche, e il momento attuale ne è una testimonianza, in cui, nonostante le perduranti condizioni di pace, la minaccia, più o meno avvertita consciamente, del rischio di un conflitto impone di pensare alla guerra, di immaginarla. Ma come si pensa la guerra quando per diverse ragioni non se ne ha pratica effettiva? Come viene immaginata quando si vive in assenza di essa, cioè in una realtà di pace, ma con la sensazione diffusa del rischio di un conflitto? E, soprattutto, riguardo ai movimenti di dissenso, per quale ragione nonostante una riflessione insistente in tempo di pace, la realtà della guerra rappresenta sempre una sorpresa? In questo senso la storia della Grande Guerra fornisce una grossa lezione di modernità. La società europea del 1914, infatti, aveva incontrato la guerra prima della guerra, del suo divenire realtà. Negli anni precedenti il conflitto, il progressivo instaurarsi di un nuovo equilibrio internazionale aveva generato ben più di una crisi e, sebbene la contesa tra gli Stati restasse circoscritta in ambito coloniale e la stessa eventualità di un conflitto militare non sembrasse implicare alcun coinvolgimento diretto delle popolazioni europee, la sensazione diffusa della possibilità di un conflitto era fortemente avvertita. Addirittura, era almeno a partire dal 1905 che l’idea dell’inevitabilità di un conflitto trovava più di un sostenitore8. Soprattutto, il binomio guerra e pace era diventato il tema di riflessione ossessivo del movimento socialista che, fin dal congresso inaugurale della Seconda Internazionale nel 1893 a Bruxelles, aveva sentito 8 A tale proposito si veda ad esempio la ricostruzione di J. Joll, in Le origini della prima guerra mondiale, cit., cap. IV.

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il bisogno di definirsi come il “vero e solo partito della pace”9. Infatti, l’opposizione alla guerra e la difesa della pace, benché non figurassero tra i caratteri della sinistra europea di matrice ottocentesca, erano diventati elementi fondanti della politica di tutti i partiti socialisti che, come è noto, riscontravano nel carattere intrinsecamente aggressivo della società capitalistica un’attitudine, un’inclinazione alla guerra anche in circostanze di pace apparente. Nei quindici anni che precedettero il conflitto mondiale, questa convinzione non solo venne ribadita a scadenze fisse nei Congressi della Seconda Internazionale (soprattutto quelli di Stoccarda 1907, Copenaghen 1910 e Basilea 1912)10 ma animò una vera e propria tradizione di politica antibellicista fondata sul principio assiomatico dell’esistenza di una naturale predisposizione internazionalista, antimilitarista e antipatriottica delle masse proletarie. L’impegno a fare della pace un valore in nome del quale mobilitare l’opinione pubblica, che per la maggior parte dei leader secondinternazionalisti equivaleva a dichiarare la propria opposizione alla guerra e a tutte le ragioni che ne costituiscono la premessa, era dunque completamente indipendente dall’effettivo profilarsi della realtà di un conflitto, ma, allo stesso 9 Per una sintesi efficace del tema della guerra e della pace nel movimento operaio e socialista si veda A. Agosti (a cura di), Enciclopedia della sinistra nel XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 2000, p. 848 e ss. 10 Il Congresso di Stoccarda del 1907 è ritenuto ancora oggi il punto più alto dell’elaborazione teorica e politica della Seconda Internazionale sul tema della guerra e della pace. La risoluzione approvata in quell’occasione, frutto di un acceso dibattito e, soprattutto, del compromesso franco-tedesco su una delle tre mozioni presentate, quella di Jaurès e Vaillant, aveva cercato di esporre analiticamente, nel rispetto degli ideali fondamentali del socialismo, il rapporto tra guerra e classe operaia, non mancando di definire il militarismo, l’imperialismo e un’alternativa agli eserciti permanenti – il sistema di milizie organizzate democraticamente – che rendesse impossibile le guerre aggressive.

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tempo, indissolubilmente legato al pensiero di esso. La consuetudine sempre più in uso di attribuire al Primo maggio anche un carattere di manifestazione per la pace, l’impegno assiduo a studiare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie internazionali come l’arbitrato e l’attribuzione di un carattere stabilmente antimilitarista alla politica dei partiti socialisti dei singoli stati, sono validi esempi della continuità di queste preoccupazioni in tempo di pace. In queste condizioni, il pensiero della guerra era divenuto centrale senza mai aver attraversato la prova del fuoco, vale a dire senza mai essersi trovato di fronte alla necessità di gestire un reale conflitto. Eppure, come è noto, negli anni precedenti il conflitto numerose crisi (crisi marocchina, guerra di Libia, crisi balcaniche) avevano preparato all’incontro con la guerra e abituato al pensiero di essa. Il tempo per riflettere sulla guerra come possibilità dunque ci sarebbe stato. Allora perché lo scoppio del conflitto si pose come un evento inatteso e soprattutto perché i movimenti di opposizione, pacifisti in qualche modo, non riuscirono efficacemente a opporvisi? Senza voler con questo sminuire le ragioni di spiegazioni più propriamente politiche che argomentano il fallimento della politica socialista11 né l’indubbio fa11 A tale proposito, va detto che esiste una sterminata letteratura che ha avuto per oggetto il fallimento del movimento socialista europeo alla vigilia della guerra che, però, si può sostanzialmente condensare in due filoni di ricerca. Il primo postula che le masse, disorientate dall’accordo tra dirigenti socialisti e governi all’inizio della guerra, siano state costrette a ripudiare la loro fede internazionalista appunto dal tradimento dei dirigenti; mentre il secondo, invertendo l’ordine dei fattori, ipotizzerebbe che l’ondata nazionalista abbia improvvisamente preso il sopravvento e travolto le masse, costringendo i dirigenti a ripiegare. È stato un indubbio merito di George Haupt tentare di riportare il problema fuori da questi termini, già agli inizi degli anni ’70, indicando una fertile direzione di ricerca nella contaminazione di più campi di indagine, come la psicologia sociale, gli studi metodologici sul

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scino seduttivo e l’enorme presa sull’opinione pubblica delle teorie nazionaliste e delle correnti di pensiero che esaltavano la guerra come avvenimento rigeneratore, va forse anche considerato che una risposta a queste domande sta proprio nel fatto che gli intellettuali e i leader del movimento socialista avevano pensato alla guerra in tempo di pace. Probabilmente, dunque, il punto non è tanto il fatto che nessuno si fosse posto il problema della guerra, ma piuttosto come ciò fu. Perché la guerra immaginata doveva necessariamente avere a che fare con un altro termine, cioè appunto quello della pace. Si può dire, dunque, che rispetto alla situazione individuata da Mosse, la relazione tra uomo e guerra si arricchisce di un nuovo elemento: la pace, come condizione reale e come valore da salvaguardare. Alla vigilia del 1914, infatti, la pace fu allo stesso tempo alternativa di pensiero e premessa (si pensi alla condizione diffusa in tutta l’Europa della pace armata) allo scoppio del conflitto. Le radici più prossime di questa condizione vanno ricercate negli avvenimenti dei due anni che precedettero il conflitto mondiale, in come, ancora in tempo di pace, il dissenso socialista affrontò e interpretò le crisi che avrebbero condotto a esso, poiché proprio in questo frangente si evidenziano con maggiore efficacia tutti gli elementi, a volte anche contraddittori, che delineano la complessa problematicità dell’incontro con la guerra.

movimento operaio e le congiunture economiche che, combinati, darebbero luogo a spiegazioni più articolate, o almeno a nuove prospettive di indagine. “Nazionalismo e internazionalismo” – afferma Haupt – non sono né concetti né sentimenti astratti, dicotomici; il vero problema consiste nel sapere in quale congiuntura sociale e politica l’ambiente operaio è più ricettivo all’uno o all’altro”. G. Haupt, L’internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Torino, Einaudi, 1978, p. 270.

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Il rischio della guerra e la posizione della condanna tout court Quando, dunque, a partire dal 1911 le prime nubi arrivarono a turbare l’equilibrio internazionale, la sola ipotesi di un conflitto che coinvolgesse direttamente l’Europa era del tutto inimmaginabile. La crisi marocchina, seguita a breve distanza dalla guerra di Libia, riproponeva il rischio di una guerra in società decisamente poco avvezze alle problematiche poste dal conflitto ma, come si è accennato, dove esso aveva sempre rappresentato un tema di riflessione, se non altro per coloro interessati a come evitarlo. Insomma, nonostante la relativa stabilità internazionale e l’aspirazione dei partiti nazionali a indirizzare la propria politica soprattutto verso il conseguimento di una solida e duratura tranquillità sociale all’interno dei singoli stati europei, furono proprio gli animatori del dissenso, e i socialisti più di tutti, a reintrodurre di fronte alle crisi coloniali la riflessione sul tema della guerra. Nell’ estate del 1911, l’impulso, presto tradotto in teoria, fu quello di prendere una posizione forte e netta sulla scorta di quanto già assunto come punto fermo al congresso di Stoccarda, momento fino ad allora culminante del dibattito internazionale socialista sulla guerra e sulla pace12. Le guerre, si leggeva infatti nel documento, 12 In quell’occasione i francesi (e segnatamente Jean Jaurès ed Edoard Vaillant) pur con enorme difficoltà riuscirono a far prevalere una linea che, conscia degli eventuali pericoli di guerra posti dal momento contingente, imponeva una radicale opposizione alla guerra tout court. Se in senso estremista il problema era rappresentato da Gustave Hervé che arrivava a proporre come mezzo di contrasto l’insurrezione armata delle masse popolari, in senso moderato un più preoccupante problema era posto dai socialdemocratici tedeschi e austriaci. Sulla falsariga della mozione presentata dal leader socialista tedesco August Bebel, infatti, essi rifiutavano una condanna totale della guerra escludendo il caso della guerra difensiva e guardavano con sospetto a qualunque soluzione portasse il partito fuori dai termini della legalità parlamen-

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sono favorite dai pregiudizi nazionalisti che vengono sistematicamente sfruttati, nell’interesse delle classi dominanti, al fine di distogliere la massa proletaria dai suoi doveri di solidarietà internazionale.[...] La classe operaia, nella quale soprattutto si reclutano i combattenti e che deve sopportare in via principale i sacrifici, è l’avversario naturale delle guerre, poiché esse sono in contraddizione con lo scopo che essa persegue; la creazione di un nuovo ordine economico, fondato sulla concezione socialista destinata a tradurre in realtà la solidarietà dei popoli13.

Il principio della “guerra alla guerra”, ossia della radicale opposizione a tutti i tipi di guerra, diveniva in tal modo una linea guida del movimento socialista europeo, anche se essa appariva forse più finalizzata a eludere che a fronteggiare la guerra. Di fronte alla nuova crisi coloniale fu innanzitutto la Section Française de l’International Ouvrière (SFIO) ad ancorarsi saldamente alla risoluzione di Stoccarda, soprattutto laddove erano elencati con chiarezza i doveri che spettavano ai partiti socialisti nazionali in caso di guerra. Il Congresso ritiene che tutti i lavoratori ed i loro rappresentanti nei parlamenti abbiano l’obbligo di lottare con tutte le loro forze contro gli armamenti di terra e di mare, segnalando il carattere di classe della società borghese ed i movimenti che spingono alla conservazione degli antagonismi nazionali, di rifiutare ogni appoggio finanziario a tale politica ed anche di applicarsi affinché la gioventù proletatare così faticosamente conquistata. Per un’esposizione articolata della posizione di Bebel si veda F. Andreucci, Socialdemocrazia e imperialismo, Roma, Editori Riuniti, 1988, mentre per le tesi di Hervé, G. Hervé, Le Congrès de Stuttgart et l’antipatriotisme, Paris, Ed. La Guerre Sociale, 1907. 13 VII Congrès socialiste international. Compte rendu, analytique, Bruxelles, 1908, cit., pp. 179-182. Per la traduzione italiana, si veda: C. Pinzani, Jean Jaurès, L’Internazionale e la guerra, Bari, Laterza, 1970, pp. 128-129.

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ria sia educata nelle idee socialiste della fraternità dei popoli e sistematicamente richiamata alla coscienza di classe14.

La pace, o più correttamente la difesa della pace, rappresentò da subito un facile punto di aggregazione per tutto il socialismo europeo e per questo divenne implicitamente sinonimo di opposizione alla guerra. Basti considerare che persino Jean Jaurès,15 artefice della recente unificazione del partito francese e tra i principali animatori del dibattito sulla guerra precedente al 1914, non esitava a ribadire, il giorno stesso dell’incidente di Agadir, apice della crisi marocchina, che “il faut donc négocier dans un esprit de paix car le feu de cette guerre absurde et odieuse, déterminerait de terribles explosions révolutionnaires. Le prolétariat européen ne veut pas d’aventures, et il n’y 14

Idibem. Fondatore del quotidiano L’Humanité (1904) ed eletto ininterrottamente come deputato dal 1902 alla sua morte, Jean Jaurès fu l’ artefice dell’unificazione del partito socialista. Membro del BSI fin dal 1900, rappresentò una delle voci più ascoltate del dibattito sulla guerra in tempo di pace. Da sempre una costante della sua riflessione, la preoccupazione e l’azione politica in difesa della pace europea divenne, a partire soprattutto dalle crisi balcaniche, il suo impegno prioritario. Nel luglio del 1914 fu sostenitore, fino all’ultima, drammatica riunione del BSI, dello “sciopero simultaneo ed internazionale contro la guerra”. Ma, il 31 luglio, la sua morte violenta ed improvvisa gli impedirà di assistere allo scoppio del conflitto mondiale. Sulla complessa figura di Jean Jaurès esiste una immensa produzione storiografica di cui sarebbe difficile dar conto brevemente. Si suggerisce, ad ogni modo, uno studio della sua recente biografia: J.P. Rioux, Jean Jaurès, Paris, Perrin, 2005. Sulla linea politica del leader socialista francese e la posizione all’interno del partito, si veda: L. Figueres, Sur la position de Jaurès et du jaurèssisme dans le mouvement ouvrier français avant 1914, in “Chaiers du communisme”, gen-feb 1956; M. Reberioux, Le socialisme français de 1871 à 1914, in “Histoire generale du socialisme”, 1875-1914, diretto da J. Droz, Paris, PUF, 1974. Quasi inesistente, invece, è la traduzione italiana delle opere di e su Jaurès, se si eccettuano alcuni classici lavori tra cui si segnalano: F. Venturi, Jean Jaurès e gli altri storici della Rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 1948; C. Pinzani, Jean Jaurès, l’Internazionale e la guerra, cit. 15

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a pas de régime assez fort pour résister à la secousse”. Ma era vero che il proletariato europeo non voleva quelle “avventure” portate inevitabilmente dal coinvolgimento delle nazioni in un conflitto? In effetti, un ormai vasto accordo storiografico sottolinea il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione non volesse la guerra e anche più tardi non la accolse con favore. A riprova di questo c’è il fatto che mai come in questi anni le manifestazioni indette dall’ esecutivo dell’Internazionale, il BSI (Bureau Socialiste International), in favore della pace furono così gremite e popolari. E proprio forte di questa realtà tangibile, esso poteva imporre alle sezioni una linea politica ispirata alla più netta intransigenza con la convinzione di ottenere un consenso generalizzato: All’occorrenza, il proletariato non può avere né due opinioni né due politiche. La sua azione contro la guerra deve essere UNA. [...] Le risoluzioni di Stoccarda e Copenaghen non hanno due interpretazioni. Nel caso in cui la guerra scoppi comunque – ed è il caso – i partiti operai, i loro rappresentanti parlamentari ed il Bureau International “hanno il dovere di agire per farla cessare immediatamente”16. Ricordiamo questo passaggio della risoluzio16 La citazione si riferisce a una parte della risoluzione di Stoccarda, risultata dagli emendamenti dei bolscevichi e di Rosa Luxemburg, che, con una certa preveggenza, capirono i limiti di una strategia orientata esclusivamente in senso preventivo e troppo ottimista nei riguardi delle possibilità del socialismo di agire tempestivamente per correggere la politica dei governi. “Il Congresso dichiara: se una guerra minaccia di scoppiare, è un dovere per la classe operaia nei paesi interessati, è un dovere per i suoi rappresentanti nei parlamenti con l’aiuto del BSI – forza di azione e di coordinamento – di fare ogni sforzo per impedire la guerra con tutti i mezzi che appaiono opportuni e che, naturalmente, variano a seconda dell’acutezza della lotta di classe e la situazione politica generale. Qualora una guerra scoppiasse egualmente essi hanno il dovere di adoprarsi per farla cessare e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare le masse e precipitare la caduta del dominio capitalista”. VII

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ne di Stoccarda specialmente ai nostri compagni d’Italia e di Turchia, così come a quelli della Bulgaria, Serbia, Romania e Grecia, ma senza eccezione per gli altri socialisti dei paesi europei a capitalismo avanzato dove i conflitti sembrano latenti17.

Era la scelta della via della “guerra alla guerra”, della condanna assoluta e forse una delle posizioni più nette e categoriche assunte dalla Seconda Internazionale nei confronti della guerra18. L’equazione socialismo/pace contro capitalismo/guerra, declinabile nelle numerose, diverse versioni di binomi oppositivi (internazionalismo/patriottismo, classe/nazione) veniva riconfermata almeno teoricamente nella sua validità. Per gli animatori del dissenso antibellicista dunque, l’immagine della guerra in tempo di pace si nutriva in gran parte di queste contrapposizioni in virtù delle quali si trovava frontalmente opposta al binomio socialismo/ pace. Per questo, negli anni prebellici la lotta in difesa della pace veniva spesso vista come equivalente dell’opposizione attiva alla guerra, divenendo il vero e proprio obiettivo politico da perseguire. Ma allora perché, come inconfutabilmente dimostreranno i fatti allo scoppio del primo conflitto mondiaCongrès socialiste international, cit. (versione italiana in C. Pinzani). 17 G. Haupt, Le congrès manqué. L’Internationale à la veille de la première guerre mondiale, Paris, Naspero, 1965, p. 120 Interessante a questo proposito anche il carteggio tra Camille Huysmans, segretario del BSI, e quello del PSI Pompeo Ciotti che rendono bene l’inasprimento dei rapporti tra l’esecutivo del BSI e la sezione italiana, e che Haupt riporta nella sezione dedicata ai documenti. 18 La presa di posizione del BSI è stata oggetto di un intenso dibattito storiografico. Secondo alcuni studiosi, il documento era espressione di una semplice protesta verbale e, dunque, del senso di profonda inconcludenza che animava il socialismo europeo. Cfr.: R. Hostetter, Il socialismo francese e la guerra, in “Rivista storica del socialismo”, parte I, n. 10, 1960; parte II, n. 13-14, 1961; parte III, n. 20, 1962. Di diversa opinione è Pinzani, secondo cui non si poneva tanto un problema di concretezza, quanto di riuscire a rendere operativa la strategia elaborata a Stoccarda nel merito dei singoli problemi. Cfr. C. Pinzani, Jean Jaurès, l’Internazionale e la guerra, cit., p. 220 e ss.

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le, questa categorica presa di posizione non equivalse nella pratica a una politica di efficace opposizione? Da un punto di vista estremamente pratico, va considerato innanzitutto che, come espresso già in più di una occasione negli anni precedenti, si intravedeva la preoccupazione, comune a tutto il movimento socialista europeo, di non riuscire a intervenire sulla politica dei governi così tempestivamente da scongiurare l’esplosione del conflitto. Questa eventualità, a quel tempo per certi versi già reale nel caso del conflitto italo-turco, minava alla base il senso di sicurezza infuso con la scelta della linea della guerra alla guerra e cambiava notevolmente il senso dell’equazione opposizione alla guerra = difesa della pace perché faceva di questo ultimo un obiettivo più facile, più raggiungibile in virtù del quale si riusciva a procrastinare il momento delle scomode domande sull’evento reale. In questo, il fatto che in Europa si potesse contare ancora su una prospettiva di pace anche se armata aiutava notevolmente, permettendo, al di là di ogni dubbio, di mantenere l’apparenza della condanna unanime alla guerra. Inoltre, a livello politico, alcuni problemi cronici rendevano vacillante la posizione che abbiamo visto così nettamente espressa dal BSI. Innanzitutto, c’era l’irrisolta questione della socialdemocrazia tedesca che si attestava su posizioni sempre più morbide e compromissorie e che sottraeva una notevole base di consenso a qualsiasi slancio rivoluzionari o anche più semplicemente qualsiasi asserzione intransigente. Per salvaguardare l’unanimità della linea politica del movimento dunque, la Seconda Internazionale era costretta a rivedere le decisioni in senso sempre più moderato e perciò resta l’attenzione sul mantenimento della pace piuttosto che sulla prospettiva dell’opposizione, anche strenua, alla guerra aiutava a persuadere i socialdemocratici ad aggregarsi senza troppi problemi a una lotta internazionalista.

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Nel caso in cui poi i socialisti avessero voluto davvero concordare l’opposizione nell’ipotesi di un conflitto, tornava a ripresentarsi l’ineludibile dibattito sui mezzi da impiegare per manifestare il dissenso e evitare la guerra. La questione era naturalmente spinosa poiché non solo implicava una sfibrante trattativa con gli elementi moderati come la socialdemocrazia sull’eventualità di minare la pace sociale con azioni eversive come lo sciopero generale, ma riproponeva importanti questioni di principio come quella dell’opposizione alla guerra tout court, che sorvolava più o meno volutamente sulla differenza, invece diffusamente percepita nell’opinione pubblica delle diverse nazioni, tra guerra offensiva e guerra difensiva. Infine, sempre sul piano delle questioni fondamentali, la “guerra alla guerra” (al contrario della più confortante intenzione di mantenere la pace) implicava la preliminare conferma della schiacciante prevalenza del sentimento di appartenenza di classe nell’alternativa classe/nazione che il socialismo prebellico poneva come postulato per dimostrare la naturale propensione del proletariato contro la guerra. Ma, proprio negli anni del consolidamento della Seconda Internazionale, il proletariato era arrivato a sentirsi sempre più parte delle nazioni, soprattutto quando la pratica quotidiana della pace aveva progressivamente cancellato la necessità di una scelta di campo. E anche in quel momento, di fronte a conflitti localizzati che per quanto acuti non avevano mai seriamente minacciato di coinvolgere le società europee, la prospettiva del mantenimento della pace rendeva possibile conservare un’armonica unità, essere a un tempo socialisti e patrioti come teorizzava il leader francese Jean Jaurès e come voleva ostinarsi a pensare la socialdemocrazia tedesca quando tentava di conciliare il trionfo del socialismo internazionalista con il ruolo del partito all’ interno della nazione.

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È un fatto abbastanza assodato che, nei due anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, anche se per diversi motivi, entrambe le sezioni leader dell’Internazionale avevano interesse a non porre la scelta tra il rispetto solidarietà di classe internazionalista e le ragioni dell’appartenenza nazionale. Se infatti la socialdemocrazia tedesca, per le ragioni che abbiamo visto, si manteneva attenta a non mostrare inclinazioni troppo marcatamente filointernazionaliste, il partito francese, guidato dall’imponente personalità di Jean Jaurès, insisteva nel tentativo di una sintesi tra l’identità di classe e quella nazionale. Questo naturalmente influenzò la linea di condotta di tutto il movimento europeo. L’enorme popolarità di Jaurès che, già da anni ma ancor più dal 1912 con il profilarsi delle crisi balcaniche, rappresentava uno dei più validi punti di riferimento nelle riflessioni socialiste sulla guerra, fu il facile mezzo con cui queste idee trovarono una diffusione ben oltre i confini della Francia. E proprio Jaurès, in maniera probabilmente involontaria, fu uno degli elementi determinanti della transizione dell’opposizione socialista alla guerra da un’ottica dottrinale a una più segnatamente eticomorale. Questo, se non poneva problemi dal punto di vista del rispetto degli ideali socialisti che ispiravano la stessa avversità, risultava però un pericoloso terreno comune con quanti, governo e partiti, condividevano al di là della politica questi principi ma con profonde differenze di impostazione. Già dal 1911, ad esempio, la generalizzazione della condanna alla guerra in senso interclassista, aveva portato la SFIO a concepire come possibile un accordo con il governo sulla base della comune condanna morale. Naturalmente, avventurarsi nella discussione di come evitare la guerra avrebbe rapidamente messo in luce le incolmabili differenze di impostazione tra la concezione secondinternazionalista e quella dettata dagli interessi di governo di una singola nazione. Per-

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ciò , ancora una volta, il momento imponeva di testare il consenso esclusivamente sul tema della difesa della pace che, in questo caso, trovava una solida base comune sulla fiducia incondizionata nell’‘essere francese’. Emblematico il caso dell’istituzione del protettorato francese sul Marocco verso la fine del 1911. “Il est temps – affermava Jaurès alla conclusione del trattato – si nous ne voulons pas empoisonner l’atmosphère où nous vivons, de reprendre notre liberté morale et de reconquérir le droit d’être la France”19. La sicurezza che il governo francese avrebbe agito come paladino dei diritti dell’uomo era indubbiamente poco ortodossa da un punto di vista strettamente dottrinale ma già più comprensibile se si considera il fatto che per Jaurès era lecito sperare nella possibilità di un accordo, soprattutto se ispirato a quei principi della Rivoluzione dell’89 dei quali, peraltro, il proletariato rappresentava l’erede diretto e ideale20. Nel momento in cui si ‘esportava’ uno schema del genere oltre i confini francesi, la tradizione rivoluzionaria non aveva più lo stesso senso e la stessa capacità di pacificazione interclassista. Ma l’imprescindibilità del legame tra proletariato e patria caratterizzava anche le altre società europee. In Germania l’integrazione del partito era ormai talmente avanti che la questione avrebbe posto un serio problema di appartenenza nel caso in cui fosse scoppiato un conflitto. 19 La Dépêche de Toulose, 28 novembre 1911. Per un’analisi più approfondita delle idee di Jaurès sulla questione coloniale, si veda J. Jaurès, Contre la guerre et la politique coloniale (testi scelti da M. Rebèrioux), Paris, Ed. Sociales, 1967; J. Jaurès, Contre la guerre au Maroc, Paris, 1907. 20 L’idea egemone del pensiero jaurèsiano era che il proletariato fosse portatore di un ‘sentimento nazionale ’ e che, una volta divenuto classe dominante, dovesse far coincidere la politica nazionale con la politica democratica. Cfr. J. Jaurès, Histoire socialiste de la Révolution française, Paris, 1923. Sulla questione si vedano anche le riflessioni di M. Rebèrioux in Actes du Colloque “Jaurès et la nation”, Toulose, Association des publications de la Faculté des Lettres et Sciences Humaines de Toulose, 1965.

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In Italia, nonostante dal 1912 la corrente intransigente avesse preso la guida del PSI, una situazione simile si verificava proprio nei mesi della crisi con la Libia. Su la Critica Sociale, settimanale di orientamento turatiano, si commentava: Come esiste la nazione. Questa verità è ancora ostica: e non solo ai rivoluzionari. E pure la nazione esiste. E pur si muove: e lo abbiamo veduto. E raccoglie, comprende, assimila quanti ci vivono dentro: inclusa la classe proletaria. La classe non supera la nazione, fino a quando, almeno, la nazione esiste; o, se la supera, proclamandosi internazionale, diventa teoria, fede, “umanità”, cioè qualcosa di impalpabile, di evanescente, in cui rispuntano le categorie, e la classe – essa stessa – si dissolve. Nel fatto, nella storia, classe e nazione coesistono; al pari delle lotte di classe e dei conflitti internazionali. Lotta di classe è dinamica interiore, fisiologia nazionale. La quale dà tono alla nazione: talora inavvertito, ma immancabile; ed influisce – “sotterraneamente” – sui rapporti internazionali. Classi non esistono che nella nazione; ma fra nazioni non esistono che nazioni: e qui la classe non può valere che quando possa parlare ed operare in nome della nazione21.

Qui, smorzando notevolmente i toni della contrapposizione proletariato/nazione, Tullio Colucci, animatore tra gli altri di un confronto a mezzo stampa sul tema, approdava per altre vie alla stessa convinzione di Jaurès e cioè che fosse possibile essere a un tempo socialista e patriota e che la dinamica della lotta di classe andasse inserita nella nazione. Nel momento stesso in cui si ipotizzava la ricomposizione della frattura tra nazione e classe rispetto al problema della guerra, però, emergeva la delicata e spinosa questione della difesa nazionale. Ammettere, infatti, la legittimità della cosiddetta “guerra di dife21

“Critica Sociale”, 15 ottobre 1912.

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sa” produceva inevitabilmente una relativizzazione della condanna della guerra. Se l’Austria o la Francia (fa lo stesso) minacciasse di invadere l’Italia, cosa dovrebbe fare il proletariato e, per esso, il partito socialista? A rigor di logica tale questione nazionale, essendo una questione borghese, il proletariato dovrebbe infischiarsene. La vera e sola nemica è la sua borghesia e non l’Austria o la Francia. Se le condizioni del proletariato sotto gli invasori fossero migliori o dovessero affrettare in qualche modo l’emancipazione proletaria, il partito socialista non dovrebbe dare – neppure per una guerra di difesa – né un uomo né un soldo. Ma io metto pegno che l’uomo politico che sostenesse una simile tesi sarebbe fischiatissimo dai più autentici, dai più coscienti proletari socialisti. Non dico con ciò che la fratellanza degli sfruttati contro gli sfruttatori – in altre parole la solidarietà proletaria internazionale – non sia sentita, e non debba essere valorizzata sempre più e meglio dal socialismo. [...] Ma è certo, per una suggestione psicologica la quale profonda le sue radici nelle suggestioni esercitate su ogni uomo dal suolo in cui nacque, dall’aria che ha respirata, dal focolare presso cui si è riscaldato, dal cimitero in cui sono sepolti i suoi morti, che il sentimento di solidarietà di classe non può distruggere il sentimento nazionale22.

Va ulteriormente sottolineato che, al contrario di quanto le idee così espresse possano portare a credere, il movimento socialista europeo (la cui guida era palesemente passata da mani tedesche in mani francesi) esprimeva, ancora al tempo delle crisi coloniali, l’intenzione di una totale condanna alla guerra tout court. Ma, per l’articolato insieme di motivi che abbiamo visto, la “guerra alla guerra” poteva restare valida solo in via teorica cioè sul piano della condanna verbale perchè essa rappresentava una soluzione al pro22

Ibidem.

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blema della guerra posto in tempo di pace. Come si è accennato, il perdurare di una realtà di pace almeno all’interno dell’Europa, permetteva di non dover affrontare apertamente questo compromesso e soprattutto di non doverlo risolvere in stretta relazione con l’ipotesi di un conflitto. Già nell’autunno del 1912, però, una minaccia più ravvicinata rinnovava la paura di un conflitto che travolgesse l’Europa e faceva emergere le fragili basi del consenso sulla difesa della pace. La dichiarazione di guerra del Montenegro alla Turchia e la progressiva estensione dello stato di belligeranza in tutti i paesi balcanici ponevano un grande dilemma politico all’opinione pubblica europea pacifista: intervenire militarmente per contenere il conflitto o desistere, aumentando in questo caso, il rischio di una generalizzazione del conflitto? Come testimonia la fretta con la quale si riunirono i delegati dei parti socialisti della Seconda Internazionale al Congresso di Basilea (novembre 1912), il rischio profilato dalla nuova crisi faceva vacillare l’immagine della “guerra alla guerra” costruita negli ultimi anni23. Lo sforzo generale e l’enorme eco suscitata nell’opinione pubblica di tutta Europa dall’assise socialista testimoniava la volontà di spingersi al di là dei problemi posti dalla contingente crisi balcanica per ragionare su un unico e chiaro obiettivo: l’esame della situazione internazionale e l’intesa tra le sezioni per un’efficace azione contro la guerra. Lo stesso Jaurès, tra i principali sostenitori dello sforzo di reindirizzo teorico e politico, manifestava apertamente questa preoccupazione nel discorso inaugurale affermando: 23 Sul Congresso di Basilea in relazione al tema della guerra si veda A. Panaccione, Socialisti europei tra guerre, fascismi ed altre catastrofi (1912-1946), Milano, Franco Angeli, 2000, p. 11 e ss.

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L’heure est sérieuse et tragique. Plus le péril se précise, plus les menaces approchent, et plus urgente devient la question que le prolétariat nous pose, non, se pose à lui-même: si la chose monstrueuse est vraiment là, s’il sera effectivement nécessaire de marcher pour assassiner ses frères, que ferons nous pour échapper à cette épouvante? Nous ne pouvons répondre à cette question dictée par l’effroi, attendu que nous prescrivons un mouvement déterminé pour une heure déterminée. Quand les nuages s’accumulent, quand les vagues se soulèvent, le marin ne peut prédire les mesures déterminées à prendre pour caque instant. Mais l’Internationale doit veiller à faire pénétrer partout sa parole de paix, à déployer partout son action légale ou révolutionnaire qui empêchera la guerre ou sinon à demander des comptes aux criminels qui en seront les fauteurs24.

Già da questo intervento introduttivo è possibile cogliere l’angosciante preoccupazione che tornava a riproporsi. Che fare, insomma, se, come affermava Jaurès, malgrado tutti gli sforzi non si riuscisse a impedire lo scoppio di un conflitto25? Il problema posto in questa nuova ottica non poteva rifugiarsi nell’alibi della difesa della pace. La 24 Congrès International extraordinaire de Bâle, compte rendu analytique, Bulletin périodique du BSI n. 10. Sul piano del metodo, invece, l’analisi puntuale della situazione internazionale e delle sue cause spingeva ad attribuire, forse per la prima volta, compiti precisi ai socialisti delle diverse nazioni, tutti in un modo o nell’altro toccati dalla questione. Infine, è da apprezzare il tentativo di superare i limiti di astrattezza più volte rilevati nelle mozioni socialiste. L’indicazione conclusiva dei mezzi di lotta, infatti, voleva rappresentare un superamento dell’impasse storica del socialismo tra pensiero ed azione. 25 Cfr. “La Dépêche de Toulouse”, 30 novembre 1912. La risposta dello stesso Jaurès a questo interrogativo lasciava trasparire una certa dose di ambiguità sintomatica della difficoltà a definire nettamente una politica di vera opposizione alla guerra: “En vérité il n’est pas possible de donner une réponse à cette question formidable. Il n’est pas possible de dire en avance: partel acte déterminé que dans l’heure trouble de la tempête les prolétariats feront sentir leur force”.

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questione dei mezzi, così come quella dei compiti delle singole sezioni in caso di guerra, doveva essere affrontate. Nonostante lo sforzo delle sottocommissioni che lavorarono all’elaborazione di una mozione finale che riassumesse le necessità poste dal dibattito sulla guerra e le soluzioni elaborate, il testo finale finì in pratica col limitarsi a ribadire quanto già era stato espresso nei precedenti congressi. Ancora una volta, la risoluzione delle controversie che dilaniavano il movimento era stata sacrificata alla causa dell’unanimità. In particolare, riprendendo testualmente la parte conclusiva della risoluzione di Stoccarda, la mozione finiva con il rappresentare, come ha scritto suggestivamente Carlo Pinzani, “le colonne d’Ercole oltre le quali non era possibile spingere la socialdemocrazia tedesca”26. Ma, se dal punto di vista dell’elaborazione il Congresso di Basilea non si discostava molto dai risultati e dalle modalità degli incontri precedenti, l’impatto che esso ebbe sull’opinione pubblica fu invece insolitamente travolgente. L’immagine della cattedrale di Basilea gremita di gente accorsa per schierarsi in difesa della pace (la pubblicistica dell’epoca non esitò a parlare di ‘cattedrale della pace’)27 alimentò le speranze e l’autorappresentazione dei socialisti europei ben oltre lo scoppio del conflitto mondiale mentre nell’immediato creò un vastissimo consenso intorno alla posizione della “guerra alla guerra”. La decisa riaffermazione della condanna assoluta, la sicurezza con la quale fu decretato il trionfo dell’internazionalismo sul legame con la nazione, portarono i socialisti europei a nutrire un’immagine integerrima della loro opposizione alla guerra; e in effetti le enormi mobilitazioni di massa in difesa della pace 26

C. Pinzani, Jean Jaurès, l’Internazionale e la guerra, cit., p.

254. 27 Cfr: J. Jaures, Guerre à la guerre, Paris, Librairie du Parti Socialiste, 1913.

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che caratterizzarono quel periodo non poterono che rafforzarla. Era, come è stato suggestivamente notato, l’apogeo del ‘discorso mitico’ mobilizzatore intorno alla guerra, quello cioè che, più o meno consciamente, sorvolava su qualsiasi mediazione per affermare che tutte le guerre sono condannabili in quanto frutto inevitabile del capitalismo28. Questa entusiastica riaffermazione degli ideali socialisti nel senso più fedele all’identità internazionalista non solo riusciva ad affrancare anche il più recente passato dalle durezze di molte sconfitte – attraverso la costruzione di un passato mitico e di una tradizione gloriosa di lotta – ma incoraggiava a portare avanti una posizione di netto dissenso verso la politica militarista dei singoli stati, recentemente confermata dal successo delle manifestazioni di contestazione in tutta Europa29. Vigilia d’armi in Europa: l’accettazione progressiva dell’idea della guerra Come spiegare allora la differenza tra il clima esaltante del 1912 e la flebile risposta, anche in termini di mobilitazione, dell’Internazionale alla vigilia della guerra nel 1914?

28 I. Muller, De la guerre. Les discours de la II Internationale 1889-1914, Genève, Ed. ind., 1982. Al contrario del discorso mitico, quello realistico (incarnato ad esempio nell’intervento di August Bebel a Stoccarda), affermava apertamente la liceità delle guerre di difesa nazionale approvando una strategia pacifista che non giungesse agli estremi della rivolta. 29 Per i commenti dei principali leader presenti a Basilea e in generale per la ricostruzione del clima dell’evento ben oltre il compte rendu politico, si vedano i documenti raccolti in G. Haupt (a cura di), Histoire de la II Internationale, vol. 22, Ginevra, Minkoff, 1980 e la ricostruzione di Haupt nell’ introduzione al volume. Per una valutazione ‘problematicizzata’ del congresso si veda A. Panaccione, Socialisti europei tra guerre, fascismi ed altre catastrofi (1912- 45), Milano, FrancoAngeli, 2000.

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“C’est sur ce deux courtes années, et non seulement sur les contradictions de longue durée, qu’il faut se pencher pour comprendre la confiance dans la paix que manifestèrent alors tout de dirigeants socialistes et la faible mobilisation des militantes”, afferma a ragione Madaleine Rèberioux30, poichè fu proprio nel biennio 1912-1914 che venne modificandosi velocemente e come mai prima l’immagine della guerra. Volendo azzardare un bilancio, si può dire che a Basilea ancora una volta la sola minaccia di un conflitto non era bastata a sciogliere i nodi del pensiero socialista sulla guerra. Al contrario, la rapida soluzione della crisi balcanica, già a poche settimane dalla conclusione del congresso, risparmiava la prova del fuoco e rendeva inattaccabile l’assolutezza della condanna verbale. Di fatto, ancora una volta, la pace dematerializzava la prospettiva della guerra. La tranquillità ritrovata, però, non poteva soffocare la sensazione di vivere sotto la minaccia incombente di una catastrofe e l’idea della guerra si imponeva nell’immaginario delle popolazioni europee ancor prima di costituire una realtà tangibile. Era la guerra ‘immaginata’, percepita come minaccia perpetua ma condizione improbabile, l’elemento di novità del pensiero socialista degli anni prebellici. Una condizione che poneva in una situazione estremamente contraddittoria poiché, se da un lato rendeva impossibile non affrontare il problema nella politica quotidiana, dall’altro e giustificava il fatto di procrastinare in tempi lunghi il momento del confronto: non c’era fretta di andare al di là del punto più volte raggiunto, cioè la difesa della pace. La recente esperienza di Basilea, considerata come si è accennato, il trionfo dell’opposizione socialista alla guerra, non aveva fatto che confermare questa idea alimentando in più l’illusione di aver finalmente con30 M. Réberioux, in introduzione a I. Muller, De la guerre. Les discours de la II Internationale 1889-1914, cit.

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solidato una posizione intransigente. Ma questo solo perché le condizioni oggettive di pace ritrovata avevano posto i termini per un ulteriore rinvio del problema che ciclicamente si ripresentava e cioè quello di stabilire in che modo e fino a che punto era lecito spingersi nell’azione nel caso in cui il pericolo si fosse materializzato. Su questo punto, infatti, il Congresso aveva ben presto toccato i limiti decidendo di rinviare al prossimo congresso internazionale (a Vienna, nel 1914) la discussione sull’emendamento Vaillant-Keir Hardie appoggiato da Jaurès, che concerneva essenzialmente l’utilizzo dello sciopero generale come arma per combattere la guerra31. La sensazione di avere davanti il tempo per sciogliere i nodi più aspri riguardo alla guerra bilanciava in qualche modo il timore per una crisi imminente, contribuendo a tenere l’opinione pubblica in bilico tra diversi stati d’animo. E fu proprio grazie a questa situazione che si poterono determinare le condizioni per l’accettazione progressiva dell’idea della guerra. Tra il 1912 ed il 1913 la situazione politica europea sembrava lungi dal presentare le problematiche di una società esposta al rischio oggettivo e prossimo di un conflitto. Tuttavia, i governi di tutta Europa, 31 La definizione dei mezzi di lotta da impiegare per arrestare un eventuale conflitto restava uno dei principali nervi scoperti, il motivo che aveva reso spesso inoperante nella pratica la solidarietà internazionalista. In favore di tale inoperosità giocava, a livello internazionale, come si è già accennato, la prudenza dei socialdemocratici tedeschi, per i quali di primaria importanza era conservare una certa integrità e influenza nella vita parlamentare dell’Impero, avallata dai socialisti francesi che, pur se più rivoluzionari, ritenevano imprescindibile l’accordo con l’SPD nell’ambito dell’Internazionale. Inoltre, sia in Italia che in Francia, la preoccupazione della maggioranza dei socialisti era che, approvando simili mezzi di lotta, si facessero ricadere i partiti, ormai entrati a pieno titolo nella vita parlamentare dei due paesi, in quella fase anarchico-insurrezionalista contro cui i leader attuali, dall’inizio del secolo, tanto avevano lottato per guadagnare credibilità politica.

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evidentemente allarmati dalla guerra balcanica, prevedevano per il 1913 un aumento delle spese militari e un grosso investimento, anche di materiale umano, nella preparazione bellica. Necessario appariva dunque valutare, secondo il monito di Jaurès, le condizioni di assenza di conflitto o, in altri termini, la qualità della pace che si preparava alla guerra attraverso la corsa agli armamenti: la pace armata. L’Europe – affermava acutamente Jaurès – a été secouée par tant de crises depuis quelques années, elle a traversé tant d’épreuves périlleuses sans que la guerre éclatât, qu’elle a presque cessé de croire au danger, et qu’elle assiste avec une attention émoussée et une inquiétude amortie aux nouveaux développements de l’interminable conflit balkanique. Et pourtant, si on regarde au fond des choses, le péril ne fut jamais plus grave qu’à l’heure présente. Chaque jour qui passe manifeste plus cruellement l’impuissance de l’Europe et ajoute à son discrédit32.

La corsa agli armamenti poneva dunque i socialisti nella difficile condizione di pensare quotidianamente alla guerra e di manifestare il dissenso all’interno della nazione. Naturalmente, non era la prima volta che si presentava la necessità di combattere idealmente e praticamente la preparazione della nazione alla guerra. Il tema dell’antimilitarismo, ritenuto agli inizi del secolo inscindibile dall’internazionalismo e dall’antipatriottismo, era stato una costante del pensiero della Seconda Internazionale. Ma era ancora vero – come si sosteneva nel 1905 – che “l’organizzazione internazionale dei lavoratori, l’antimilitarismo e l’antipatriottismo sono dottrine inseparabili?”, oppure, nella lunga strada percorsa di democratizzazione della politica, i rapporti tra questi elementi erano in qualche modo mutati? 32

J. Jaurès, Au bord de l’abîme, cit., p. 233.

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L’esperienza della lotta antimilitarista all’interno delle nazioni europee tra il 1912 ed il 1913 quasi paradossalmente rispose nel senso di un rafforzamento della nazionalizzazione del movimento operaio. Infatti, benchè simultanee, le esperienze furono estremamente differenti, raggiunsero risultati variabili e quel che è peggio determinarono nei fatti la rinuncia a prevedere un’azione unanime e coordinata in caso di guerra. Dal punto di vista teorico poi, il problema della gestione delle spese militari all’interno degli stati era strettamente connesso alla questione della difesa nazionale nel caso di aggressione, problema che ritornava prepotentemente di attualità in un equilibrio internazionale dominato dalla rivalità franco-tedesca e dal clima di crescente revanchismo da parte francese. Se si considera che il recente trionfo dell’internazionalismo a Basilea aveva riaffermato entusiasticamente la strategia della “guerra alla guerra” al di là di ogni dubbio, si capisce bene come la questione della difesa della patria, certo non nuova, rappresentasse in quel momento più che mai una notevole contraddizione con l’immagine che gli stessi socialisti nutrivano del loro dissenso. Tuttavia, la questione era ormai ineludibile e molti dei leader della Seconda Internazionale (è il caso anche e soprattutto di Jaurès), erano già persuasi dell’ammissibilità del principio della guerra di difesa. Persino in Italia, dove ormai la guida del PSI era nelle mani degli intransigenti che appoggiavano incondizionatamente la strategia dell’opposizione totale alla guerra, il dibattito era animato e contraddittorio e, negli interventi più popolari, arrivava addirittura a sposare le teorie jaurèsiane: La difesa nazionale contro aggressioni possibili non esclude “anzi integra” e conforta l’ideale della soli-

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darietà e della pace tra i popoli. La migliore guarentigia per la difesa della patria riposa “nella possibilità che tutti, anche le classi più umili, vi partecipino attivamente, abbiano un concreto interesse a parteciparvi, a parteciparvi con entusiasmo, fino al sacrificio volenteroso della vita, quando bisognasse e la chiara e convinta visione di cotesto loro interesse. Non i lavoratori dunque per la patria ma la patria per i lavoratori”33.

In maniera quasi impercettibile la critica alla guerra mutava nella critica alla guerra ‘sbagliata’, quella aggressiva, che implicava in quanto tale anche l’ammissibilità di una guerra giusta, quella difensiva. Così, quasi paradossalmente, nel momento stesso in cui i socialisti europei decidevano di combattere le premesse della guerra con la lotta alle spese militari, finivano con l’accettare i presupposti che potevano giustificarla. Nella sua quasi totalità la Seconda Internazionale, seppur in maniera sommersa e senza evidenziare la palese contraddittorietà di una simile operazione, si indirizzava verso l’accettazione sostanziale di questo principio. Non è esagerato affermare che con questa intrinseca debolezza la lotta antimilitarista sortirà l’effetto opposto a quello sperato e che proprio questa esperienza preparerà il terreno per quell’accettazione della guerra che, allo scoppio della Grande Guerra, a prima vista sembrerà improvvisa ma che a ben vedere era la risultante logica non solo della politica del proletariato fin lì intrapresa ma anche di una revisione ideale che mutava radicalmente i termini del tradizionale rapporto tra socialismo e guerra. Ma, anche se l’operazione di revisione teorica era avvenuta in sordina, fu ancora una volta la situazione internazionale a rendere evidenti nella prassi i mutamenti avvenuti. A pochi mesi dalla risoluzione della 33

“Critica sociale”, 1 febbraio 1913.

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crisi balcanica con la Pace di Londra, infatti, un nuovo focolaio si accendeva in quelle zone, ponendo la Bulgaria di fronte a una coalizione filo-serba composta da Grecia, Turchia e Romania. Se la velocità di risoluzione della crisi aveva reso poco probabile un ampliamento del conflitto è indubbio che l’episodio, pur nei limiti di un’attenzione più contenuta rispetto alla crisi precedente, contribuì ad attualizzare nuovamente il tema della guerra. Non un’allarmata preoccupazione su questo conflitto quanto, piuttosto, una riflessione più generale sulla guerra che spingeva a considerazioni anche di ordine etico e che affiancava all’antimilitarismo socialista la spinosa questione del ruolo morale dell’Europa. Nell’ambito del socialismo europeo, come si è detto, il ruolo guida in materia di riflessione sulla guerra era indiscutibilmente affidato ai francesi. Soprattutto, si deve a Jaurès gran parte dell’elaborazione politica della Seconda Internazionale fino allo scoppio della Grande Guerra: Tout est perdu si l’Europe attise les ambitions rivales, si elle pratique dans les Balkans une politique étroite de clientèle, si chaque grand État européen veut avoir son État balkanique et sa carte dans le jeu. Là est le véritable péril. Le problème des Balkans n’est que pour une part, et peut-être pour une faible part, un problème balkanique. Il est avant tout un problème européen34.

L’avversità alla guerra, alle prevaricazioni nazionalistiche, era dunque ora individuata come un valore fondamentale della grandezza morale dell’Europa moderna. Dopo aver silenziosamente capitolato all’ammissibilità del principio della difesa della patria, l’ opposizione alla guerra socialista veniva anche snaturata progressivamente dalla sua matrice ideologica. 34

“L’Humanité”, 27 agosto 1913.

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Facendo infatti della volontà di pace una scelta etica dell’Europa, i socialisti francesi rendevano la condanna della guerra un’opzione potenzialmente interclassista, condivisibile con la maggior parte dell’opinione pubblica non nazionalista che temeva il precipitare dell’Europa nella barbarie. Nelle intenzioni di Jaurès, la situazione dei Balcani doveva fungere da monito per le difficoltà che si stavano producendo nel cuore stesso dell’Europa che da ormai tre anni conviveva con lo spettro di un possibile conflitto. Per questo, pur se era poco verosimile un suo ampliamento (ipotesi accreditata soprattutto in Francia), parlando di sinistre lezioni Jaurès si chiedeva se l’Europa potesse comprenderne l’avvertimento. Dans l’Occident européen les mêmes forces cruelles et basses se développent. En France même, le mouvement de la loi de trois ans suscite dans les âmes nationalistes des haines ignobles. Quiconque n’accepte pas sans discussion la loi funeste est dénoncé comme un traître vendu à l’ennemi. Au nom de la patrie on répond la calomnie est l’ordure. Si le conflit naissait de ces manœuvres, si le chauvins de France et le chauvins d’Allemagne réussissaient à jeter les deux nations l’une contre l’autre, la guerre s’accompagnerait partout de violence sauvages qui souilleraient pour des générations le regard et la mémoire des hommes35.

Il tema della guerra, si è detto, entrava così a far parte di un discorso morale più ampio, di una riconsiderazione generale della società contemporanea e della sua degenerazione: militarismo, furore coloniale, pace armata. Un conflitto avrebbe significato la sconfitta di un’ intera civiltà. Fu con questo bagaglio di nuove acquisizioni, dunque, che si giunse alla vigilia d’armi in Europa, la 35

“L’Humanité”, 12 giugno 1913.

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crisi del luglio 1914. Nelle incalzanti settimane che portarono dall’attentato di Sarajevo allo scoppio del conflitto, l’immagine della guerra costruita tra tante contraddizioni negli anni prebellici mostrò tutta la sua natura poliedrica. Sebbene ormai fosse stata tacitamente accettata la prospettiva di una guerra di difesa, a livello enunciativo non era mai stata corretta la condanna assoluta espressa a Basilea, tanto che ancora alla metà di luglio al congresso nazionale della SFIO lo stesso Jaurès appoggiò la proposta dello sciopero generale come mezzo di protesta estremo nell’ipotesi di un conflitto36. L’idea di Jaurès, in verità maggioritaria in ambito socialista europeo, era che l’Internazionale fosse nel giusto cercando di definire degli strumenti preventivi contro la guerra dal momento che solo non arrivando ad un conflitto reale si sarebbe riusciti a salvare allo stesso tempo la pace e le patrie. Ora più che mai, insomma, risultava evidente quanto, per realizzare la sintesi tra internazionalismo e patriottismo la pace fosse una condizione necessaria e imprescindibile mentre nel caso di un conflitto la scelta tra socialismo internazionalista e fedeltà alla nazione sarebbe stata inevitabile. Di fronte a una visione così problematica non deve sorprendere di trovare i dirigenti dei partiti socialisti intenti a domandarsi, come già alcuni anni addietro di fronte alle crisi coloniali, quali sarebbero le attitudini del proletariato davanti all’evento bellico. Quelle sera dans cette crise horrible, la pensée, l’action du prolétariat? Il sera atteint à la fois dans sa 36 Il congresso nazionale della SFIO tenutosi a Parigi il 15 e il 16 luglio 1914 prescindeva completamente dall’allarme generato dall’attentato di Sarajevo e mirava piuttosto a stabilire una posizione unanime sull’emendamento Vaillant-Keir Hardie che, già alcuni giorni prima, era stato approvato dalla Fédération de la Seine riunita a congresso.

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chair et dans sa conscience et plus meurtri qu’aucune autre portion de l’humanité misérable, puisque la guerre lui sera, matériellement cruelle par la ruine du foyer, et moralement intolérable par la rupture de ces liens de solidarité ouvrière qui déjà font du prolétariat européen une famille. Des explosions révolutionnaires se produiront inévitablement, sans qu’on puisse déterminer d’avance en quel point, en quel moment, sous quelle forme. Les détails du drame sont dans le mystère de l’avenir; ils sont, si je puis reprendre le mot biblique sans m’exposer au reproche de prophétisme, dans le secret de la tempête, in abscondito tempestatis. Mais il est certain que le drame éclatera. Et alors le socialisme international ne remplit-il pas le plus haut devoir, ne fait-il pas acte de prévoyance patriotique et humaine, lorsqu’il essaie d’organiser contre la guerre, avant la guerre, la protestation concertée des forces ouvrières qui plus tard, trop tard, se déchaîneraient nécessairement en une révolte chaotique et exaspérée? Ne répond-il pas à l’appel de sa vraie mission historique lorsqu’il se prépare à imposer aux gouvernants, par tous les moyens dont il dispose, propagande, éducation, action parlementaire, grève générale préventive et simultanée, le plein recours à ces procédures arbitrales qui sont si timidement ébauchées?37.

In queste parole di Jaurès è racchiuso tutto il senso dell’azione socialista nel mese di luglio. L’obiettivo principale del socialismo di tutta la Seconda Internazionale stava, e qui lo si esprime fuor di metafora, nel prevenire la guerra, nel far sì che essa non si verificasse. Tutto ciò che esso sa pensare accade avant la guerre, prima della guerra, non dopo, perché dopo sarebbe troppo tardi. Sulla scora di questo, al di là della piega che prenderanno gli avvenimenti di lì a qualche giorno, è evidente che la discussione sui mezzi di lotta rappresentasse, come aveva intuito Jaurès, il necessario tassello 37

“L’Humanité”, 20 luglio 1914, cit., p. 367.

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politico per affrontare – o evitare – il problema della guerra. I socialisti della Seconda Internazionale non potevano sapere che sarebbe loro mancato il tempo per avviare l’analisi sull’imperialismo, né che la prova del fuoco per l’effettiva capacità di mantenere la pace fosse così imminente. E, se una parte di responsabilità va ricercata senza dubbio nella mancata valutazione della situazione internazionale sempre più tesa, va anche detto che fino all’ultimatum austriaco alla Serbia, il 25 luglio, si respirava generalmente un’atmosfera abbastanza tranquilla che suggeriva ai socialisti non solo di essere sulla buona strada nel porre le basi di un discorso di lungo periodo che doveva portare a una rivalutazione del ruolo dell’imperialismo nella società capitalista, ma, soprattutto, di avere tempo per un’elaborazione teorica del problema della guerra39. Questo, a dispetto del precipitare delle relazioni internazionali, alimentò nei socialisti fino alle ultime ore che precedettero il conflitto la convinzione della pace possibile; tanto che, ancora il 31 luglio, Jaurès poteva proclamare con una certa convinzione: A en juger par tous les éléments connus, il ne semble pas que la situation internationale soit désespérée. Elle est grave à coup sûr, mais toute chance d’arrangement pacifique n’a pas disparu.[...] Le plus grand danger à l’heure actuelle n’est pas, si je puis dire, dans les événements eux-mêmes. Il n’est même pas dans les dispositions réelles des chancelleries si coupables qu’elles puissent être; n’est pas dans la volonté réelle des peuples; il est dans l’énervement qui gagne, dans l’inquiétude qui se propage, dans les impulsions subites qui naissent de la peur, de l’incertitude aiguë, de l’anxiété prolongée. A ces paniques folles les foules peuvent céder et il n’est pas sûr que les gouvernements n’y cèdent pas38.

38

Ivi, 31 luglio 1914, cit., p. 397.

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Fino all’ultimo momento, dunque, la pace sembrò un obiettivo concreto e possibile per il quale lavorare poiché la convinzione di dover a tutti i costi evitare la guerra era il frutto di tutta la politica portata avanti nei due anni precedenti. Come abbiamo visto, nel biennio 1912-14 proprio l’aver lavorato esclusivamente guardando al mantenimento della pace, aveva distolto la riflessione dalla seria considerazione della eventualità, anche solo teorica, della guerra. Fu questa premessa che compromise la possibilità di risolvere per tempo, nodi importanti del rapporto tra socialismo e guerra, come l’ambigua questione della guerra di difesa, la sostanziale validità della solidarietà franco-tedesca come chiave di volte del sistema europeo e, non ultimo, il reale grado di coinvolgimento del proletariato nella nazione e che ridusse, come è stato efficacemente scritto, i socialisti al ruolo di “spettatori disorientarti”39. La crisi del luglio 1914 è generalmente descritta come un precipitare di eventi che in breve tempo arrivarono a stravolgere la vita di una società che non aveva recente esperienza diretta della guerra. Una lettura valida a maggior ragione per gli ambienti del dissenso socialista per cui la guerra, pensiero ossessivo e continuo, non era mai stata più che un avvenimento guardato dalla finestra. Per questo, il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto colse tutti alla sprovvista, impreparati ad attuare una strategia. Il principale limite dell’immagine della guerra coltivata in tempo di pace, infatti, era stato quello di ridurre il dissenso per la guerra alla difesa della pace. Il reale scoppio di un conflitto equivaleva alla sconfitta e l’evento - guerra poteva imporsi molto diversamente da come aveva preparato l’immagine di esso. 39 La definizione è di A. Panaccione in Il socialismo e le guerre. Politica e conflitti internazionali in “Il Ponte”, febbraio-marzo 2004.

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1. “Che cos’è la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi con la violenza si manifesta sufficientemente con le parole e con i fatti? Il tempo restante si chiama pace”1. In questi termini, all’alba della modernità, per definire la guerra, e la sua differenza rispetto alla pace, Thomas Hobbes si serviva essenzialmente della nozione di tempo. La non casualità di questo riferimento è confermata da ciò che lo stesso autore scrive nel Leviathan, contaminando deliberatamente la nozione cronologica con quella meteorologica di tempo. Come la natura di una tempesta “non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la qua* Per un approfondimento di alcuni passaggi, solo abbozzati nel presente saggio, mi permetto di rinviare ad alcuni miei lavori: Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999; Polemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Introduzione in R. Caillois, La vertigine della guerra, tr. it. Citta Aperta Edizioni, Troina (En.) 2002, pp. 7-53; Perché la guerra, “Filosofia politica”, 2002, n. 3, pp. 423-434 1

T. Hobbes, De cive, I, § 12; tr. it. Torino 1948, pp. 90-91.

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le non v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace”2. Non si possono confondere, dunque, le “poche gocce” di alcuni combattimenti isolati con “la tempesta della guerra”. La differenza non sta tanto nella quantità complessiva della pioggia, quanto piuttosto nella durata del fenomeno. Perché si possa parlare di guerra, è necessario che l’ostilità fra i contendenti, le operazioni militari, la “volontà di contrastarsi con la violenza”, abbiano rilevanza in rapporto al tempo. Tutto ciò è confermato, d’altra parte, dalla definizione di pace proposta nei medesimi testi. Riprendendo una lunga tradizione di pensiero, complessivamente incapace di “dire” la pace, se non in termini negativo-residuali (“la pace non è altro che un nome” – scrive ad esempio Platone nell’esordio delle Leggi (I, 626 c-627 e), Hobbes fa della pace quel tempo – “ogni altro tempo – che è diverso dalla guerra, perché in esso non si ravvisa quella “disposizione manifestamente ostile”, in cui consiste la guerra. L’una e l’altra, guerra e pace, si definiscono e si contrappongono insomma come tempi. Più agevolmente riconoscibile la prima, in quanto coincide con una “manifestazione” ben visibile di “parole e fatti”, più indeterminata la seconda, perché caratterizzata solo dalla assenza di quelle parole e di quei fatti, entrambe sono tuttavia accomunate dal non essere episodi isolati, ma tempi aventi una “sufficiente” durata. D’altra parte, in perfetta coerenza, e non in contraddizione, con queste affermazioni lo stesso filosofo sottolinea che una guerra così intesa – come stato, dunque, anziché come evento, come condizione universale di belligeranza permanente, e non solo come sporadico combattimento – è in realtà una pura astrazione, una sorta di idea-limite, che tuttavia non corrisponde ad alcuna realtà storica determinata. Difatti, 2

T. Hobbes, Leviatano, tr. it. Bari 1974, I, p. 109.

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ove davvero si desse “uno stato continuo di guerra”, esso renderebbe impossibile “la conservazione, così della specie umana, come di ciascun individuo particolare”3, sicché “non può esservi qualcuno che stimi come proprio bene la guerra di tutti contro tutti”4, che sarebbe per l’appunto la caratteristica naturale di un tale stato. O meglio. Hobbes accenna a qualche raro caso storico, nel quale la condizione puramente ipotetica di una belligeranza di tutti contro tutti si è effettivamente realizzata. Nelle epoche passate, ciò è accaduto presso altre razze che erano allora composte relativamente di “pochi uomini feroci, di vita breve, poveri, sporchi”. Quanto all’età presente – vale a dire al secolo XVII, nel quale vive il filosofo britannico – l’unico esempio che in qualche modo possa essere considerato simile ad uno stato continuo di guerra “ce lo offrono gli Americani”5. Ma l’esiguità e la marginalità dei riferimenti storici, e insieme la constatazione dell’evidente contraddizione, nella quale incorrerebbe chiunque scegliesse di rimanere in quello stato, poiché perseguirebbe consapevolmente il proprio autoannientamento, inducono ad affermare che è comunque necessario “uscire da una simile situazione”. La guerra come stato resta dunque una mera ipotesi, utile a comprendere ciò che occorre in ogni caso evitare, piuttosto che una realtà positivamente definita. Se ne può concludere che, “se si deve avere guerra, non sia contro tutti”6. Se guerra vi dovrà essere, essa non sarà dunque permanente, ma transitoria. Non sarà un tempo, ma un evento, in qualche modo circoscritto. Non sarà contro tutti, ma limitata ad alcuni.

3

T. Hobbes, cit., I, § 13; pp. 90-91. Ivi, p. 92. 5 Ivi, p. 91. 6 Ivi, p. 92. 4

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2. Anche indipendentemente dalle definizioni hobbesiane, dal punto di vista storico e concettuale la guerra è sempre stata concepita non come uno stato, ma come un evento. Per certi aspetti, anzi, essa è stata considerata l’evento per antonomasia, vale a dire la rottura dell’equilibrio nel succedersi “ordinato” degli avvenimenti, l’attivazione o l’accelerazione di processi, in luogo della quiete preesistente. L’abituale scansione delle diverse fasi storiche in periodi distinti, assume spesso quale punto di riferimento una guerra, proprio perché essa si propone come irruzione di una marcata discontinuità, come spartiacque fra un “prima” e un “dopo” caratterizzati precisamente dal precedere o dal seguire l’evento bellico. In termini di teoria delle catastrofi, la guerra si costituisce essenzialmente come fattore morfogenetico, e cioè come quel mutamento di forma che conduce ad una transizione fra due diversi stati di stabilità strutturale. In qualunque modo sia stata giudicata, come la più terribile sciagura, o come promozione morale dell’umanità, la guerra è tuttavia sempre stata assunta come il “senso forte” della politica, poiché espressione di un dinamismo capace di modificare profondamente la situazione esistente. Proprio perché è diretta antitesi di ogni stato, perché sanziona il sopravvento del mutamento rispetto alla continuità, e del processo rispetto alla quiete, la guerra si iscrive in un orizzonte concettuale specificamente segnato dalla sua appartenenza alla sfera dell’evento, e dunque all’ambito del contingente e del particolare. Sul piano empirico, infatti, nessuna necessità può essere ad essa attribuita: risultato di una decisione, del taglio di un problema che discende da un intervento comunque soggettivo, la guerra è altresì anche sempre una guerra determinata, questa guerra qui, e mai una guerra astratta e universale. Quando è stata concepita come forma (universale e necessaria), anziché come evento (particolare e contingente), la guerra è

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stata trattata come principio metafisico, diverso e infine irriducibile, rispetto ad ogni guerra storicamente determinata. Così è stato – per segnalare due posizioni che delimitano il campo non solo dal punto di vista cronologico – per Eraclito e per Hegel, dove la guerra diventa “padre e re di tutte le cose”, o “incarnazione dello Spirito del mondo”, ma con ciò stesso perde inevitabilmente ogni riferimento ad un contesto determinato dal punto di vista storico-politico. Come espressione dell’evento, di ciò che accade hic et nunc, sua più compiuta manifestazione, per essere descritta la guerra esige un lessico adeguato alla sua morfologia, e dunque implica in particolare l’uso di categorie temporali idonee ad esprimerne le caratteristiche peculiari. Di qui l’impossibilità di riferirsi ad essa, se non con termini che ne sottolineino il carattere in ogni senso extra-ordinario, la sua irriducibilità a qualunque stato. Di qui anche la necessità di servirsi di connotazioni cronologiche capaci di situare con precisione nel tempo ogni specifico accadimento bellico. Da questo punto di vista, un segno esteriore, ma non per questo meno significativo, della stretta inerenza della guerra all’orizzonte temporale dell’evento può essere ravvisato nella consuetudine linguistica di identificare una guerra attraverso l’indicazione degli anni in cui essa si è svolta. Nessun altro principio di individuazione è richiesto, salvo quello consistente nel segnalare la “data” in cui il conflitto è cominciato e quello nella quale è terminato. Per definizione, dunque, la guerra ha sempre e comunque un inizio, e altrettanto inderogabilmente una conclusione. Una guerra che fosse sottratta a determinazioni cronologiche, o che fosse descritta senza riferimento a categorie temporali, si porrebbe in contraddizione col suo specifico statuto – quello di essere un processo, non uno stato, un evento, non una forma, una emergenza transitoria, non una condizione permanente.

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3. “Per la maggior parte del XX secolo, il mondo è stato diviso da una straordinaria lotta per gli ideali: visioni totalitarie e distruttive contro libertà e uguaglianza. La grande lotta è finita. Le visioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia, ma davano miseria, sono state sconfitte e screditate”. Con l’affermazione di una netta soluzione di continuità, fra un passato durato quasi un secolo, e la nuova situazione inauguratasi con l’inizio del terzo millennio, si apre il documento sulla National Security Strategy (d’ora innanzi: NSS), reso noto al Congresso il 20 settembre del 2002. Articolato in alcuni densi capitoletti, riguardanti non solo le necessarie trasformazioni nella strategia e nel funzionamento delle istituzioni preposte alla sicurezza nazionale, ma anche le linee di una rinnovata politica economica, e preceduto da una Introduzione dello stesso G.W. Bush, il testo nel suo complesso non dissimula le sue ambizioni. L’obiettivo al quale esso tende è infatti quello di disegnare un nuovo quadro teorico-politico, al cui interno si collocano le opzioni di carattere più strettamente militare, e le stesse linee guida della politica economica statunitense, “per far fronte alle sfide e alle opportunità del XXI secolo”. Atto conclusivo di un processo di elaborazione avviato all’indomani dell’11 settembre, il NSS si propone esplicitamente come documento fondativo di una politica estera totalmente diversa, rispetto a quella a cui gli Stati Uniti si erano attenuti per oltre mezzo secolo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino al crollo del muro di Berlino. Le premesse per questo mutamento strategico erano già state poste nel testo intitolato Nuclear Posture Review (d’ora innanzi: NPR), sottoposto al Congresso il 31 dicembre del 2001. In esso, infatti, si offriva una prima dimostrazione concreta di ciò che lo stesso Presidente Bush intendeva, quando aveva affermato (novembre 2001) che “nella politica di sicurezza, gli USA dovevano procedere oltre il paradigma

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della guerra fredda”. Muovendo dal presupposto (già dichiarato nel rapporto del National Institute for Public Policy di alcuni mesi prima) che “non è possibile prevedere oggi quale sarà lo scenario strategico del 2005, e meno ancora del 2010 o del 2020”, il NPR sostituiva all’idea del graduale smantellamento degli arsenali nucleari, che pure rientrava negli impegni precedentemente assunti dall’Amministrazione, il criterio di una revisione, ispirata ad alcuni fondamentali criteri guida. In sintesi, il documento asseriva la necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle i piani strategici assunti durante la guerra fredda, per adottare invece una “nuova triade”, articolata lungo tre direttive: “a) sistemi di attacco (sia nucleari che non nucleari); b) sistemi di difesa (sia attiva che passiva); c) una rivititalizzazione delle infrastrutture di difesa che consenta di acquisire nuove capacità di affrontare situazioni di emergenza con grande tempestività”. Oltre ad un completo ribaltamento, rispetto alla prospettiva più volte annunciata di una progressiva denuclearizzazione degli armamenti (“le armi nucleari giocano un ruolo decisivo nelle capacità di difesa degli Stati Uniti, dei loro alleati e dei loro amici”), il NPR prefigura già in maniera abbastanza esplicita quello che sarà il baricentro concettuale del NSS, vale a dire la nozione di guerra preventiva. Alla base delle “tre gambe” della “nuova triade”, vi è infatti la convinzione più volte ribadita che il compito principale della strategia americana nel XXI secolo dovrà consistere nel prevenire gli attacchi, più ancora che nel rispondere tempestivamente ad essi. Di fronte al presentarsi anche solo di una semplice minaccia – si legge nel NPR – è dovere primario degli USA impedire anticipatamente con tutti i mezzi, ivi inclusi anche gli armamenti nucleari, la realizzazione di attacchi contro l’America o i suoi alleati.

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4. Fra i documenti che preparano la svolta contenuta nel NSS, un’importanza particolare va riconosciuta al Defense Planning Guidance (DPG), scritto per il Pentagono nel 1990 da tre esponenti della destra radicale, Paul Wolfowitz, I. Lewis Libby e Eric Edelman, destinati a diventare rispettivamente vicesegretario alla difesa, capo dello staff del vice-presidente Dick Cheney e consigliere per la politica estera. Tenuto a lungo segreto, e poi accantonato dall’Amministrazione di Bush senior (perché giudicato troppo radicale), il DPG proponeva una nuova grande strategia americana: “impedire ad ogni potenza ostile di dominare regioni le cui risorse potrebbero consentire agli Stati Uniti di aumentare il loro status di potenza. Scoraggiare i tentativi da parte di nazioni industrializzate di sfidare la leadership americana. Precludere l’emergere di ogni futuro concorrente globale”. Sebbene inizialmente sconfessati dalla stessa maggioranza repubblicana, questi princìpi sarebbero stati rilanciati di lì a poco da Zalmay Khalilzad, attualmente funzionario delegato dal Dipartimento di Stato per l’Afghanistan e l’Iraq, il quale scriveva nel 1995 che “il miglior criterio guida per gli Stati Uniti dovrebbe consistere nel mantenere la leadership globale ed evitare l’emergere di un rivale globale o un ritorno del multilateralismo”. Per quanto indubbiamente significativi, soprattutto per comprendere quale sia la matrice politico-culturale della strategia recentemente adottata dagli USA, i preannunci contenuti in documenti precedenti non sono tali da cancellare e neppure da ridimensionare le straordinarie novità espresse nel NSS, in maniera particolare relativamente alla concezione della guerra. Queste possono essere compendiate in un mutamento profondo dell’orizzonte concettuale, all’interno del quale si è tradizionalmente “pensata la guerra”, mediante l’eliminazione di categorie temporalmente definite e la loro sostituzione con espressioni che al-

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ludono alla permanenza stabile della condizione bellica. Già la nozione stessa di preventive war attribuisce alla guerra una connotazione temporale che rende logicamente insostenibile la formula nel suo complesso. È evidente, infatti, che si potrebbe considerare realmente preventiva solo una iniziativa che scongiurasse la possibilità della guerra, mentre ciò a cui si allude con quella espressione è la necessità di anticipare la guerra possibile (quella contro gli USA) con una guerra effettiva (quella intentata dagli USA). In altre parole, il termine “preventivo” risulta palesemente inapplicabile, poiché lo strumento mediante il quale la prevenzione dovrebbe essere attuata coincide con ciò che la prevenzione stessa dovrebbe impedire, sicché si giungerebbe al paradosso che lo strumento potrebbe funzionare solo a condizione che esso resti disattivato. Ad esiti non meno paradossali, ma non per questo meno significativi, conducono anche le altre locuzioni impiegate nel NSS, oltre che in numerosi altri discorsi pronunciati dal Presidente Bush prima e dopo il 20 settembre 2002. Designare una operazione strategica militare, quale è quella avviata prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq, con l’espressione Enduring Freedom, vuol dire ancora una volta adoperare una categoria che implica la permanenza o la perennità per descrivere qualcosa che, viceversa, dovrebbe essere per definizione circoscritto nel tempo, quale è appunto una guerra. Questa diventa dunque non già un evento, ma uno stato, principalmente caratterizzato dalla durata, e comunque tale da sfuggire alle determinazioni temporali con le quali abitualmente si designano le guerre. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte anche a proposito di molte altre espressioni ricorrenti nei documenti e nelle dichiarazioni dell’Amministrazione americana: da Infinite Justice (con la quale era originariamente designata l’operazione poi definita

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Enduring Freedom) fino a Infinite War, vero e proprio ossimoro, mediante il quale quella che dovrebbe essere per eccellenza un’occorrenza straordinaria e transitoria, massimamente de-finita, assume le caratteristiche improprie di una condizione in-finita - senza fines, dunque, né in senso spaziale, né in senso temporale. Il tutto, accompagnato dall’esortazione ad accettare (come ha raccomandato Bush all’indomani della strage compiuta a Riad il 13 maggio 2003) un dato di fatto, vale a dire che “non conosceremo la pace nel nostro tempo”.

5. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che non si tratta di sottigliezze linguistiche. È evidente, piuttosto, che l’insistenza con la quale locuzioni come quelle citate compaiono nei documenti ufficiali e nei discorsi di esponenti autorevoli dell’Amministrazione Bush dimostra che esse identificano l’asse principale della nuova strategia americana: una concezione della guerra come stato, anziché come evento isolato, come prospettiva durevole, anziché circoscritta nel tempo, come modalità permanente di rapporto non solo con gli “Stati canaglia”, ma con chiunque minacci la leadership a stelle e striscie sul mondo intero. Eliminando ogni rapporto della guerra col tempo, cancellandone il carattere intrinsecamente transitorio, quale passaggio fra stati diversi di stabilità strutturale, attribuendo ad essa il connotato della infinità, ciò che viene attuato non è un mero “aggiustamento” della strategia di sicurezza e di difesa, ma un vero e proprio riorientamento complessivo della politica estera americana, nella quale la guerra assume valore sostantivo e non più meramente strumentale. Gli atti, i documenti, le dichiarazioni dell’establishment statunitense confermano che, almeno a partire dall’inizio del 2002, la guerra (inclusa quella

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con armamenti nucleari) non è più un’opzione estrema, concepita come risposta ad un attacco, e comunque sempre limitata nel tempo e nello spazio, ma è piuttosto una prospettiva stabile, destinata a durare almeno quanto una intera generazione, non già quale supporto di una più ampia iniziativa di politica estera, ma come principio con cui coincide e in cui infine integralmente si risolve la politica estera in quanto tale. Assunta in questa accezione onnicomprensiva e totalizzante, la guerra risuona dei medesimi accenti con i quali compare in Eraclito e Hegel: identificata con la libertà durevole o la giustizia infinita, essa richiama (e non solo per assonanza estrinseca) la definizione eraclitea del polemos come “padre e re di tutte le cose” o la concezione hegeliana dello “Spirito del mondo”. Nell’indagare le cause che hanno condotto a una trasformazione così radicale, non solo nel modo di intendere la guerra, ma soprattutto nelle modalità e nelle finalità concrete di utilizzarla, si può essere anzitutto indotti a ritenere che essa sia semplicemente la conseguenza dell’attacco contro le Twin Towers. Sebbene, come già si è visto, il preannuncio di alcuni elementi fondanti della nuova strategia (in particolare la nozione di preventive war) fosse già contenuto in documenti precedenti la fatidica data dell’11 settembre, il fatto che la guerra al terrorismo sia costantemente menzionata come punto di riferimento in tutte le diverse elaborazioni della politica di sicurezza e difesa degli USA, potrebbe condurre a concludere che la necessità di fronteggiare l’ostilità di Al Qaeda e degli “Stati canaglia” è alla radice dell’assunzione della guerra come stato di permanente conflittualità. D’altra parte, questa conclusione si rivela insostenibile per un duplice ordine di considerazioni. Il primo riguarda la “congruenza” fra la minaccia e la risposta, o più esattamente l’adeguatezza dello

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strumento – la guerra infinita – per sconfiggere l’offensiva terroristica. Dal punto di vista storico-empirico, gli avvenimenti dell’ultimo biennio, culiminati con le guerre portate contro l’Afghanistan e l’Iraq, hanno ampiamente dimostrato l’inefficacia della guerra come mezzo di risposta, e più ancora di prevenzione, rispetto ad eventuali attacchi terroristici. Anche se non si volessero condividere le posizioni di coloro che attribuiscono alle operazioni militari promosse dagli USA un effetto esattamente opposto alle intenzioni dichiarate, resta indiscutibile l’evanescenza e la reversibilità dei risultati conseguiti con le campagne condotte in quelle delicate regioni del mondo. A ciò si aggiunga, inoltre, un rilievo non meno importante, riguardante l’incompatibilità di principio fra l’obiettivo dichiarato – la lotta contro il terrorismo – e lo strumento impiegato per raggiungerlo, vista la totale eterogeneità linguistica fra la violenza di matrice terroristica e operazioni militari come quelle denominate Enduring Freedom. Ancora più importante è, tuttavia, un secondo ordine di considerazioni, dalle quali è possibile desumere quali siano i motivi reali che sono alla base della “rivoluzione culturale” implicita nella strategia della guerra infinita. “Il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile” – questo uno dei passaggi salienti di un discorso tenuto da G.W. Bush nel giugno 2002, sovente riproposto, con trascurabili variazioni, nei mesi successivi. Apparentemente classificabile come concessione puramente demagogica, questa affermazione offre in realtà la chiave di volta per comprendere l’orientamento complessivo della politica estera statunitense e, al suo interno, la concezione della guerra come condizione permanente. In uno scenario generale ormai ben conosciuto, quale è quello di un mondo nel quale 1/5 della popolazione (coincidente appunto con i cittadini del mondo occidentale) dispone dei 4/5 delle risorse dell’intero piane-

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ta, la posizione secondo la quale il tenore di vita degli abitanti più privilegiati non è negoziabile, costituisce di per sé la prima e più importante dichiarazione di guerra nei confronti del resto della popolazione mondiale. Se in presenza dei colossali problemi indotti dai macroscopici squilibri esistenti, lo status di alcuni cittadini è posto come variabile indipendente, è evidente che questo elemento di assoluta rigidità implica di per se stesso il ricorso alla guerra, non già come mezzo per affrontare una singola e circoscritta minaccia, ma come tramite per scongiurare ogni e qualunque mutamento, come strumento per imporre la permanenza, rispetto all’ipotesi di una qualsiasi modificazione dello stato esistente. Si comprende allora, da questo punto di vista, la necessità di sostituire alla tradizionale accezione della guerra come evento straordinario e transitorio una concezione in cui la guerra coincide con uno stato durevole, destinato non a sconfiggere un determinato nemico, ma a impedire che possano essere lesi o limitati i diritti considerati acquisiti e intangibili di coloro che vivono nel mondo occidentale. Di qui, in perfetta coerenza, la mobilitazione di locuzioni e metafore accomunate dall’eliminazione di ogni specifico riferimento temporale. Di qui l’evocazione di una prospettiva che abbraccia la vita di un’intera generazione, e in cui l’obiettivo indicato non consiste in una singola “vittoria” militare, ma nel perseguimento di una giustizia infinita o di una libertà duratura.

6. Che cosa è possibile contrapporre – ammesso che lo sia – a questa trasformazione della guerra in quella condizione di perenne belligeranza, giudicata da Hobbes poco più di un caso-limite, di una mera ipotesi, valida solo (scriveva il filosofo britannico) per

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“pochi uomini feroci” o per “gli Americani”? Quali parole possono contraddire quelle che hanno fatto della guerra, già di per sé terribile come evento, uno stato ancora più spaventoso? Quale alternativa è immaginabile, in un mondo nel quale la nuova macabra liturgia della guerra infinita sta assumendo il definitivo sopravvento? La politica, occorre riconoscerlo, balbetta. Per le molte buone ragioni più volte indicate da studiosi e commentatori. Per la tradizionale subalternità alla politica statunitense. Per la gracilità e l’immaturità politico-militare dell’Europa. Per l’incapacità di disegnare un orizzonte strategico che possegga un respiro adeguato alla molteplicità e alla serietà delle questioni sul tappeto. Sia per queste, sia per altre ragioni, resta il fatto incontrovertibile che la politica non appare oggi in grado di esprimere una propria autonoma prospettiva, diversa, e almeno altrettanto incisiva, rispetto a quella promossa dall’attuale Amministrazione americana. L’unica strada che finora sia stata se non altro abbozzata è quella descritta con parole che non appartengono all’ambito della politica, ma a quello della profezia. Sostanzialmente frainteso, sia pure “con le migliori intenzioni”, nel suo significato più autentico, e comunque non adeguatamente valorizzato, neppure dal composito universo che si riconosce nell’arcobaleno pacifista, l’appello del Papa al digiuno per il giorno di inizio della Quaresima contiene le uniche parole idonee a prefigurare un’alternativa radicale alla “giustizia infinita” preconizzata dal governo Bush. Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Questo il significato profondo di un appello che procede ben al di là di una pratica espiatoria convenzionale e ampiamente disattesa, quale è quella del digiuno quaresimale, e che è altrettanto irriducibile all’espressione di una inoffensiva testimonianza, priva di ogni reale capacità di influenzare la politica mondiale. Muovendo dalle stesse premesse

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che sono alla base della strategia americana, vale a dire l’esistenza di profondissimi squilibri strutturali nella distribuzione delle risorse, quelle parole prefigurano una soluzione esattamente opposta a quella immaginata da Bush. Non la permanenza dei privilegi, ma il loro netto superamento. Non l’assunzione del tenore di vita della quota di popolazione più fortunata come variabile indipendente, ma al contrario un intervento che persegua il riequilibrio proprio attraverso il mutamento di quel tenore di vita. Non la guerra infinita come strumento per la perpetuazione di uno status dei rapporti fra paesi progrediti e paesi poveri giudicato immodificabile, ma la pace come presupposto e insieme obbiettivo di una modificazione radicale di quei rapporti, in direzione dell’equità e della solidarietà. Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Al di fuori di questa prospettiva, la quale implica non un gratuito, ma infine sterile, atteggiamento penitenziale, ma un cambiamento profondo di stili individuali e collettivi di vita, di reperimento e sfruttamento delle risorse, di orientamento delle politiche economiche, di relazioni fra popoli e paesi; al di fuori di questo cammino difficile e perfino penoso, nel quale tuttavia almeno si intravede una giustizia meno iniqua di quella attuale, e una stabilità meno effimera, rispetto a quella oggi concessa, resta soltanto lo scenario di una giustizia declinata nei termini di un’operazione militare denominata Enduring Freedom. Non importa stabilire se, con quell’appello, davvero il Papa intendesse alludere allo scenario così evocato, ovvero se egli si proponesse più semplicemente di richiamare all’ossequio di una consuetudine peraltro usurata. Né importa davvero capire se quelle parole, in quanto essenzialmente profetiche, in quanto dunque “non sono di questo mondo”, né soprattutto appartengano a questo tempo, possano essere accolte anche da chi, vivendo in questo mondo e in questo

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tempo, non si riconosca in alcuna prospettiva di salvezza ultraterrena. Ciò che rimane comunque assodato è che, se vuole sottrarsi all’inquietante scenario dello stato di guerra permanente, se vuole la pace, l’Occidente deve digiunare. D’altra parte, la parola profetica, proprio in virtù della sua trascendenza rispetto al tempo storico, non può in alcun modo sostituire una prospettiva politica che di quella parola sappia raccogliere il “senso”, riuscendo tuttavia a tradurlo in iniziative concrete e mirate. A fronteggiare la strategia che ha al suo centro la guerra infinita, a contrapporsi alla “nuova triade” preconizzata dai consiglieri di G.W. Bush, sono finora scesi in campo due protagonisti che hanno davvero assolto fino in fondo al loro compito: il Papa e il cosiddetto movimento dei movimenti. È mancata finora la “terza gamba” di questa “triade”, quella che avrebbe il compito di dare sbocco allo straordinario potenziale di lotta espresso dalle mobilitazioni di massa, traducendo in politica l’appello del Pontefice. Con tutta la prudenza imposta dalle precedenti esperienze, e perfino con il sano scetticismo dettato dai limiti fin qui emersi, non si vede quale altro soggetto, a parte l’Europa, potrebbe essere il riferimento per la costruzione di una prospettiva complessiva alternativa, rispetto a quella propugnata dall’attuale amministrazione americana. Indubbiamente, non è né facile né immediata la “translitterazione” nel linguaggio politico dell’appello papale. Non può trattarsi della caricaturale proposta del volontario impoverimento dell’Occidente o della rinuncia a promuovere lo sviluppo. D’altra parte, non è neppure concepibile riuscire a contrastare efficacemente l’opzione messa in campo dagli Stati Uniti, limitandosi a ribadire il rifiuto della guerra. Alla “libertà duratura” occorre sapere contrapporre un disegno almeno altrettanto organico, nel quale la pace non sia una vuota parola d’ordine, ma sia piuttosto una for-

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mula che riassume una forte capacità di iniziativa, sul piano delle politiche economiche, nel quadro di una complessiva visione dello sviluppo dell’intero pianeta. Questo il digiuno necessario, se davvero l’Occidente vuole la pace. Una riorganizzazione complessiva delle modalità di produzione e sfruttamento delle risorse, su scala mondiale, in vista di una graduale ma concreta riduzione degli squilibri. Solo in questi termini, si potrà evitare di lasciare campo libero al dilagare della guerra infinita, facendo sì che la pace non sia – come già denunciava Platone – “soltanto un nome”, ma diventi , essa, la “continuazione della politica con altri mezzi”.

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DIVERTIRSI CON GLI UNTERMENSCHEN. Le torture nella “guerra globale contro il terrorismo” * Alberto Burgio

Per cominciare: l’Iraq non è il Vietnam Il rapporto tra guerra e informazione costituisce un tema sconfinato. Un tema classico, benché sia tornato di stretta attualità. Dovendo scegliere, parlerò quasi esclusivamente dell’informazione fornita dai media statunitensi a proposito della guerra scatenata dal governo degli Stati Uniti contro l’Iraq. Può essere utile cominciare con un confronto. Per valutare l’atteggiamento dei media in relazione alla guerra irachena, può essere istruttivo tornare un momento a quanto accadde durante la guerra del Vietnam. Certo le cose sono diverse per tanti aspetti, basti pensare che quella guerra costò agli Stati Uniti circa 65mila morti, mentre oggi le cifre oscillano tra i circa 2000 caduti riconosciuti dal governo e gli oltre quattromila dichiarati da fonti vicine alla resistenza irachena. Si deve considerare anche che allora le truppe americane erano costituite da militari di leva, spediti a forza al fronte e in buona e crescente misura ostili alla guerra, mentre oggi sono fatte di volontari: gente che ha scelto di andare in guerra, anche se spesso queste decisioni nascono da condizioni di bisogno o sono il risultato di vere e proprie truffe: in molti casi si tratta di giovani immigrati irregolari, ai quali è fatta * Pubblichiamo un saggio inedito di Burgio completato nell’aprile 2005.

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balenare la possibilità di ottenere la cittadinanza in cambio di un periodo trascorso al fronte; o di proletari ai quali si promettono prestiti per proseguire gli studi. Senza contare che le informazioni che vengono fornite a questi giovani volontari circa la reale situazione in Iraq è a dir poco edulcorata. Basti dire che il Pentagono rifiuta di definire “guerra” l’attuale stato di cose, soprattutto dopo le elezioni di gennaio. Tuttavia esiste qualche significativa analogia tra la guerra del Vietnam e quella in corso. Anche questa è una guerra in senso proprio imperialistica, scatenata per puntellare il dominio americano in un teatro lontano; anche questa guerra è combattuta – come si dirà – con mezzi abominevoli; anche i marines spediti in Iraq fanno esperienze atroci, che segneranno molti reduci per tutta la vita. E qualcuno comincia anche a raccontarle. Tuttavia, a differenza di quanto accadde a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si può dire che oggi non c’è l’ombra di una reazione critica. Né (a quanto è dato saperne) da parte dei soldati che tornano dai fronti di guerra, né (fatta eccezione per alcune minoranze politicizzate, che riescono a mobilitarsi solo in occasione di qualche scadenza simbolica) da parte dell’opinione pubblica. Come si spiega questa differenza? Naturalmente le ragioni sono molte. C’è il peso dell’11 settembre (costantemente rievocato dalle autorità, che fanno di tutto per mantenere alta la psicosi da “terrorismo internazionale”). Com’è stato autorevolmente sostenuto, la cosiddetta “guerra globale contro il terrorismo” è combattuta ogni giorno anche negli Stati Uniti, nel senso che la si rievoca costantemente, ossessivamente, al fine di “camuffare la continua militarizzazione delle istituzioni civili” che viene attuandosi per mezzo della legislazione speciale varata (con massiccio ricorso a decisioni segrete) dopo l’11 settembre1. 1 M. Chossudovsky, I piani Usa per il dominio militare globale, http://globalresearch.ca/articles/CHO503A.html

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C’è poi anche la sindrome vietnamita (che non deve essere sottovalutata, perché rimane una delle grandi fonti del risentimento e della sete di revanche presso vasti strati popolari degli Stati Uniti). Per strano che possa sembrare, durante la stagione elettorale del 2004 è stata la guerra del Vietnam, non quella in Iraq, a dominare gli spot elettorali e i dibattiti nazionali2. Ma una delle ragioni di questo inerte consenso che sostiene la guerra in Iraq chiama in causa la qualità dell’informazione che raggiunge la massa dei cittadini americani, e quindi il comportamento tenuto dai giornali e soprattutto dalle televisioni (che costituiscono la primaria fonte di informazione per l’86% della popolazione americana). Durante la guerra del Vietnam i resoconti forniti da stampa e televisione da inviati indipendenti ebbero l’effetto di alimentare una opposizione diffusa e sempre più radicale contro la guerra. La perdita di consenso nei confronti della guerra contribuì allora in misura decisiva alla sconfitta americana. Il governo americano si trovò a un certo momento a non controllare più le proprie truppe, poiché la guerra che si combatteva aveva ormai perso qualsiasi legittimazione nel Paese. Oggi le cose stanno in modo diverso, e ciò è dovuto al controllo strettissimo dell’informazione da parte delle autorità militari, per cui si può dire che gli americani hanno un’idea molto imprecisa di quanto il loro Paese sta facendo in Iraq da due anni a questa parte (così come hanno un’idea assai vaga delle conseguenze che le leggi speciali varate dopo l’11 settembre vengono generando negli stessi Stati Uniti, sul loro stesso Stato di diritto). Quasi nessuno sembra consapevole del fatto che negli Stati Uniti ci sono almeno tremila persone – cittadini statunitensi – dei quali non si sa più nulla, 2

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M. Davis, Gli impantanati, “Alias”, n. 17, 30 aprile 2005,

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dopo che sono stati arrestati in base al Patriot Act o a uno dei decreti presidenziali in tema di Homeland Security3. E la stampa si guarda bene dal sollevare il caso di questi desaparecidos. Osservava di recente Amy Goodman, giornalista e leader del movimento pacifista americano, che “l’immagine simbolo della guerra in Vietnam – la bambina che fugge nuda bruciata dal napalm – oggi non sarebbe trasmessa”4. È una riflessione che conviene tenere ben presente in tutto il nostro discorso. Prove tecniche di totalitarismo Dicevo del ferreo controllo a cui sono sottoposti gli inviati delle reti televisive e dei quotidiani che si trovano in Iraq e negli altri teatri di guerra in cui si trovano impegnate truppe statunitensi. Il discorso dovrebbe essere affrontato in una prospettiva ben più generale. La crociata contro il “terrorismo internazionale” richiede il ferreo controllo delle informazioni e quindi un’azione preventiva di contrasto nei confronti delle voci indipendenti e critiche. Facciamo alcuni esempi. Di questa esigenza di controllo delle informazioni ha fatto duramente le spese, nell’ottobre del 2004, Indymedia, la più grande rete giornalistica alternativa del mondo. Nel corso di un’operazione “anti-terrorismo” in grande stile, davvero all’altezza della “globalizzazione”, sono stati sequestrati i quattro server di Rackspace, provider della rete, situati a San Antonio (Texas) e a Londra. Nello stesso tempo sono stati oscu3 Cfr. A. Burgio, Guerra. Scenari della nuove “grande trasformazione”, DeriveApprodi, Roma 2004, pp. 95 ss., 130-131; Id., La guerra contro i diritti, in A. Burgio – M. Dinucci – V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 228 ss. 4 S. Cossu, Amy Goodman: “La mia radio sola contro Bush”, “Liberazione”, 10 dicembre 2004.

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rati tutti i siti Indymedia locali, attivi in mezzo mondo, dall’Amazzonia all’Italia, da Andorra e alla Polonia, e ancora in Belgio e in Uruguay, in Brasile e in Serbia, nel Regno Unito, nella Repubblica Ceca, in Francia e in Germania. Il provvedimento si inscrive peraltro in un contesto molto più ampio, connesso alla costruzione di un sistema di sorveglianza globale che la Casa Bianca considera strategico. Il progetto di Bush è chiaro. Gli Stati Uniti debbono disporre di reti informative in grado di tenere sotto controllo tutti i movimenti (di persone, di merci e di denaro) e tutte le comunicazioni (telefoniche e via internet) in ogni parte del globo. In vista di questo obiettivo “totalitario” ha istituito, nel novembre del 2002, il nuovo Dipartimento della Sicurezza nazionale: un apparato dotato di filiali in tutto il mondo, con oltre 170mila dipendenti (rigorosamente privi di diritti sindacali) e un budget di circa 35 miliardi di dollari, e l’incarico di coordinare tutte le attività anti-terrorismo. Il presidente ha contemporaneamente varato il Total Information Awareness System (poi pudicamente ribattezzato Terrorism Information Awareness System), che dovrebbe realizzare una banca-dati in grado di tenere sotto controllo l’intera popolazione mondiale, materializzando – come ha osservato Stefano Rodotà in un articolo dai toni insolitamente allarmati – “il Panopticon di Bentham” e trasformando tutti i cittadini in individui sospetti5. Il progetto è ambizioso e presenta, com’è comprensibile, qualche difficoltà tecnica. Ma la Casa Bianca non sta con le mani in mano. In attesa di coronare il sogno, ha incaricato la National Security Agency – l’agenzia che gestisce il sistema di sorveglianza Echelon – e numerose agenzie private di monitorare quotidianamente le comunicazioni pub5 L’America vuole la totale sorveglianza sul mondo, “la Repubblica”, 23 giugno 2003.

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bliche e private e i movimenti di popolazione in varie zone del mondo. Si inseriscono in questo quadro le iniziative specifiche assunte dal governo per il controllo del sistema mediatico. Lo scorso agosto l’allora segretario alla Sicurezza Nazionale, Tom Ridge, affermò: “Dobbiamo renderci conto che il buon livello d’informazione che abbiamo a disposizione è il prodotto della leadership del nostro presidente nella guerra contro il terrore”6. Benché l’ironia fosse del tutto involontaria, la battuta avrebbe indubbiamente meritato un premio. Come dimostra la decisione di rendere impossibile la permanenza in Iraq dei giornalisti non embedded, Bush e i suoi hanno le idee ben chiare sul ruolo politico dell’informazione, e non intendono certo allentare la presa su un settore chiave ai fini del controllo politico della società. Ma limitiamoci al controllo del sistema mediatico. Molte iniziative sono state assunte su questo terreno, nella consapevolezza che – per citare uno stretto collaboratore dell’ex-sottosegretario alla Difesa Douglas Feith – in tempi di “guerra globale al terrorismo” l’informazione è “una parte importante della vittoria”. Queste iniziative attengono a due versanti. C’è intanto un vero e proprio apparato di disinformazione, gestito dal governo. Rumsfeld si batte da tempo affinché le “operazioni dell’informazione” (come le definisce nell’ordine riservato Information operation roadmap, diramato lo scorso dicembre) siano affidate al Pentagono7. Nel 2001 il ministro tenta la carta dell’Ufficio d’influenza strategica, creato per diffondere notizie false, con cui predisporre l’opinione pubblica e i paesi alleati ad un’accoglienza favorevole nei con6 N. Bailey, L’allarme terrorismo negli Usa e la campagna elettorale di Bush, “Liberazione”, 8 agosto 2004. 7 M. Cocco, Notizie firmate Rumsfeld, “il manifesto”, 14 dicembre 2004.

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fronti delle decisioni governative8. Gli va male perché qualcuno spiffera la notizia, che sarebbe dovuta restare segreta. Ciò non impedisce al capo del Pentagono di perseguire la propria strategia, confidando nella creatività dell’Ufficio Piani Speciali del Pentagono, al quale spetta il compito di fabbricare notizie di intelligence capaci di giustificare le decisioni della Casa Bianca. L’Ufficio dà buona prova di sé, come dimostra la leggenda delle “armi di distruzione di massa” di Saddam. Intanto, pensando ai posteri, la Casa Bianca dà notizia, nel luglio del 2002, dell’imminente istituzione di un Office of Global Communications, incaricato di diffondere la “versione americana della Storia”. Da allora l’attività di produzione in proprio delle notizie da parte del governo di Washington è andata molto avanti. Il 13 marzo scorso il “New York Times” ha rivelato che almeno venti agenzie federali hanno investito circa 250 milioni di dollari per produrre falsi resoconti e documentari inviati poi come autentici a diverse stazioni televisive9. Tra queste agenzie spicca la Freedom House (un nome che non dovrebbe lasciare indifferenti noi italiani...), collegata con la Jamestown Foundation (un importante think-tank neo-con) e con la Cia, e ormai divenuta una vera e propria agenzia di stampa specializzata sugli Stati comunisti e post-comunisti e sulla questione del “terrorismo internazionale”. Per farsi un’idea della sua attività, basterà ricordare le principali pubblicazioni di questa agenzia, che pubblica un settimanale sulla Cecenia (“Chechnya Weekly”, a cura di Lawrence Uzzel, da decenni impegnato nel sostegno della battaglia per la libertà religiosa nel mondo socialista), il bimestrale “China Brief”, a cui è allegata la “North Korea Review”, 8 G. Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Fazi, Roma 2001, p. 19. 9 J. A. Manisco - L. Manisco, Giornalisti da salvare, “il manifesto”, 14 aprile 2005.

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un altro bimestrale intitolato “Terrorism Monitor” (anch’esso dotato di un supplemento, il “Terrorism Focus”, il cui tema centrale è la documentazione dell’incessante operare di al-Qaida e della minaccia che essa rappresenta per tutte le democrazie del mondo) e soprattutto il quotidiano “Eurasia Daily Monitor”, impegnato nella critica più aspra contro le leadership russa e cinese e nell’incondizionato sostegno alle organizzazioni anti-governative in tutta l’area post-sovietica10. Queste pubblicazioni hanno un alto fattore di penetrazione nelle redazioni dei quotidiani e dei telegiornali. Tra quelle che Danny Schechter ha chiamato “armi di disinformazione di massa”11 rientrano anche l’intimidazione e la corruzione dei giornalisti, alla quale il governo ricorre quando teme l’impopolarità delle proprie scelte. In proposito, l’ultimo episodio di cui si è venuti a conoscenza nel gennaio scorso riguarda un noto commentatore televisivo, Armstrong Williams, al quale la Casa Bianca ha versato 240mila dollari (distolti dal bilancio federale) perché facesse un po’ di propaganda a favore della “riforma” scolastica voluta da Bush, che prevede forti tagli alla scuola pubblica e la generalizzazione del sistema dei vouchers, da tempo invocata dagli istituti privati e dai benestanti, che vogliono ritirare i propri figli da una scuola pubblica in stato comatoso12. Tutto questo rischia, però, di essere fatica sprecata. Non per la incorruttibilità o l’indomito coraggio di qualche inviato, ma – al contrario – per la spontanea 10 Jamestown Foundation, la propaganda su misura, “Liberazione”, 2 aprile 2005. 11 Weapons of Mass Deception è il titolo dell’ultimo documentario di Schechter, che ha dedicato alla strategia della disinformazione il suo intervento alla sessione sull’informazione del Tribunale internazionale sull’Iraq, riunitosi a Roma dal 10 al 13 febbraio 2005. 12 G. D’Agnolo Vallan, A scuola di mazzette. Con Bush, “il manifesto”, 9 gennaio 2005.

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deferenza della quasi totalità dei giornalisti americani nei confronti dell’autorità politica e militare. Il che spiega come mai gli Stati Uniti figurino al diciassettesimo posto, tra gli ultimi paesi occidentali, nella classifica sulla libertà di stampa compilata da Réporters sans Frontières. Deferenza significa, in primo luogo, che meno informazione si fa (soprattutto per quel che riguarda la politica), meglio è. Di qui la sostanziale scomparsa dei notiziari dalla gran parte delle reti televisive, e il dilagare della pratica dell’infotainment (cioè del pastiche tra intrattenimento e cronaca spicciola). Deferenza significa, in secondo luogo, un’accurata selezione delle notizie. In sostanza, la stampa sorvola sui presupposti e sulle conseguenze della “guerra contro il terrorismo”: non solo sui contraccolpi delle norme liberticide introdotte da Bush, ma anche sulle pagine più oscure della guerra in Afghanistan e in Iraq. Commentando questa situazione, Helen Thomas, decana dei cronisti accreditati alla Casa Bianca (i giornalisti ammessi alle conferenze stampa del presidente), ha dichiarato in questi giorni che quello americano è “un giornalismo in coma”. Il presidente ha descritto questa situazione con altre parole: ha definito quello attuale negli Stati Uniti un giornalismo “in tempo di guerra”, suggerendo la necessità di evitare critiche e persino informazioni che potrebbero “favorire il nemico” e “indebolire la nazione”. Giornalismo deferente significa in sostanza due cose: informazione tardiva (si danno le notizie quando sono di fatto già note, quando è inevitabile – e innocuo – trattarne) e riduttiva (si evita di restare sulla notizia, approfondendola, scavando e mantenendo desta l’attenzione pubblica). Per capire come si traducano concretamente queste indicazioni, basteranno pochi esempi. Quando esplose lo scandalo di Abu Ghraib, la Casa Bianca pensò bene di mettere la sordina all’informazione sulla

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guerra irachena (su cui, pure, sino a quel momento aveva abbondantemente speculato) per evitare che gli echi della faccenda delle torture potessero nuocere alla campagna elettorale del presidente. Tutti si adeguarono, a cominciare dalle televisioni (comprese le reti “indipendenti” Abc, Cbs, Nbc, e la stessa Cnn). Per favorire una rapida rimozione, il ministro Rumsfeld, principale imputato per Abu Ghraib, scomparve addirittura dalla scena per qualche tempo. Nessuno parla dei morti in guerra: né dei caduti americani, né – tanto meno – delle vittime civili irachene. La stessa Cnn sdoppia il segnale, selezionando attentamente i filmati da mostrare negli Stati Uniti, in modo da non turbare l’opinione pubblica. Il risultato di questa pratica di autocensura è la sistematica disinformazione di una opinione pubblica dalla quale difficilmente potrebbero provenire seri grattacapi per il governo. Basti un esempio. In un sondaggio, qualche tempo fa, venivano posti alcuni quesiti relativi allo scenario politico interno e internazionale. Alla domanda: “Chi ha attaccato le Torri gemelle?”, più della metà degli intervistati rispose: “Saddam Hussein”13. Quanto alle intimidazioni, tutto va bene pur di evitare che i pochi giornalisti indipendenti rimasti forniscano informazioni “non conformi”. Si va dalle aggressioni alle denunce, dalle minacce all’eliminazione fisica dei più riottosi. Come si sa, la disobbedienza alle direttive delle autorità è costata la vita ad almeno quattordici reporter non allineati (e Giuliana Sgrena ha rischiato di essere la quindicesima), trucidati dai militari statunitensi in Iraq14. Come ha scritto Nik 13 F. Pantarelli, Usa, bocciata la Gasparri-Bush, “il manifesto”, 25 luglio 2003. 14 La stima più prudente è fornita da Ann Cooper, direttrice del Comitato per la protezione dei giornalisti; di dodici giornalisti “deliberatamente” colpiti dalle truppe americane ha parlato invece il 27 gennaio scorso, in occasione del World Economic Forum di Davos, Eason Jordan, vicepresidente e direttore responsabile dei

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Gowing nel suo Morire dalla voglia di raccontare la storia, “esistono ormai sufficienti prove che l’attività dei media in questo conflitto viene considerata dai comandanti degli Stati Uniti di ‘significato militare’, il che a sua volta giustifica una reazione militare volta a rimuoverla o almeno a neutralizzarla”15. Il risultato è un efficiente sistema di censura sull’informazione relativa alle operazioni militari e alle loro conseguenze. L’anno scorso, in aprile, un’addetta alla manutenzione degli aerei ebbe la sciagurata idea di fotografare le bare dei marines che riempivano la stiva di un cargo. La foto finì sulle pagine del Seattle Times ma subito scomparve; e lei, naturalmente, perse il posto. Una sorte ancor più dura è toccata di recente a un cameraman iracheno assunto dalla Cbs. Nella sua telecamera sono state rinvenute immagini di attentati compiuti dalla resistenza irachena, e questo è bastato perché venisse licenziato dalla rete e arrestato dalla polizia militare, con l’accusa pretestuosa di suoi presunti legami con i resistenti16. Il fatto è che le autorità militari non tollerano che venga divulgata alcuna notizia o alcuna immagine non filtrata dai comandi. Più in generale, si vuol dare un chiaro segnale a tutti i giornalisti non embedded, che la loro attività e la loro stessa presenza sono considerate di per sé un problema, un elemento non compatibile. Come si dirà, l’argomento più importante, sul quale non si tollera alcuna pubblicità, riguarda la condotta delle truppe statunitensi sul terreno: il comportamento violento, la ferocia immotivata, l’abuso delle armi e i massacri dei civili inermi. telegiornali della Cnn, che per questa rivelazione è stato poi costretto a dimettersi (Ivan Bonfanti, “Giornalisti nel mirino”. Una tempesta alla Cnn, “Liberazione”, 13 febbraio 2005; Lucio e John Manisco, Giornalisti, nuovi bersagli primari, “il manifesto”, 21 febbraio 2005). 15 J. A. Manisco - L. Manisco, Giornalisti da salvare, “il manifesto”, 14 aprile 2005. 16 Ibidem.

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Per tutto questo, e a meno di non giocare sporco con le parole, sembra di poter dire che gli Stati Uniti di Bush hanno decisamente imboccato una strada che porta fuori dalla democrazia, verso un regime che – facendo nostra la terminologia di Colin Crouch – potremmo definire post-democratico17. Un regime nel quale una parvenza di garanzie democratiche (a cominciare dal suffragio “universale” e dalla “libertà” di stampa e di opinione) nasconde la realtà, ben altrimenti concreta, di un sistema di poteri oligarchici sottratti a ogni controllo. Dinanzi a un tale stato di cose si comprende perché le domande degli osservatori più avvertiti si concentrino sulla sua possibile reversibilità, data ormai per acquisita la sua gravità. E perché le prognosi non siano fauste. I “poteri straordinari” accordati a Bush e al suo governo “in tempo di guerra – ha scritto Bruce Jackson nel febbraio del 2004 – sono diventati, senza che né il Congresso né la stampa se ne siano praticamente accorti, poteri permanenti. Bisognerà lavorare duro per liberarsene”, in quanto “accade raramente che un governo restituisca un potere di cui si è appropriato”18. Dello stesso avviso è oggi lo storico Chalmers Johnson, autore di Blowback e de Gli ultimi giorni dell’impero americano, a giudizio del quale “la crescita del militarismo, della censura ufficiale e della convinzione secondo cui gli Stati Uniti non sarebbero più vincolati, come invece afferma il celeberrimo passo della Dichiarazione d’Indipendenza, a ‘un dignitoso rispetto per le opinioni dell’umanità’, è probabilmente irreversibile”, ragion per cui “ci vorrebbe una rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democrati17 Cfr. C. Crouch, Coping with Post-Democrazy, The Fabian Society, London 2000; una versione ampliata di questo testo è apparsa in italiano presso Laterza (Roma-Bari 2004) con il titolo Postdemocrazia. 18 I “desaparecidos” di Bush, “il manifesto”, 26 febbraio 2004.

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co”19. Naturalmente ogni previsione è un azzardo, soprattutto quando ci sono di mezzo eventuali rivoluzioni. Non è dunque il caso di aggiungerne altre. Come cow-boys Torniamo piuttosto al nostro argomento. Si potrebbero addurre innumerevoli esempi del buon funzionamento del controllo governativo sull’informazione, soprattutto per quel che riguarda la guerra in corso. È un mistero il numero dei caduti: non tanto il numero dei militari Usa morti, quanto quello delle vittime militari e soprattutto civili tra la popolazione irachena. Si oscilla tra i 10-15mila morti di cui parlano le fonti ufficiali ai 200mila morti di cui parlano fonti indipendenti. Si pensi a questo riguardo a quanto è accaduto a Fallujah, dove pare siano state impiegate anche bombe chimiche. Come ha scritto uno dei pochi osservatori che hanno potuto entrare in città prima che i bulldozer “bonificassero” la scena del massacro (il medico Salam Ismael, cittadino inglese, aggregato a un convoglio di aiuti umanitari per i sopravvissuti), “gli Stati Uniti hanno assassinato una città”. Ismael parla di migliaia di cadaveri in decomposizione, preda dei cani randagi. Uomini, donne, bambini, vecchi: almeno due terzi della popolazione sembra siano stati massacrati. E la quantità dei morti non deve oscurare l’atrocità del racconto, di cui vorrei citare un breve stralcio: Trovai anche altri sopravvissuti di un’altra famiglia del distretto di Jolan. Mi dissero che alla fine della 19 The Sorrows of Empire: Militarism, Secrecy, and the End of the Repubblic, Metropolitan Books, 2004 (ora anche in italiano: Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, Garzanti, Milano 2005, p. 19).

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seconda settimana di assedio le truppe USA percorsero Jolan. La Guardia Nazionale irachena utilizzava altoparlanti per chiedere alla gente di uscire dalle case portando bandiere bianche, portando con se tutti i loro effetti personali. Venne loro ordinato di raccogliersi fuori vicino alla moschea di Jamah al-Furkan, nel centro della città. Il 12 novembre Eyad Naji Latif ed otto membri della sua famiglia, uno di loro un bambino di sei mesi, raccolsero i loro effetti personali e camminarono in una unica fila, secondo le istruzioni, verso la moschea. Quando raggiunsero la strada principale all’esterno della moschea udirono un grido, ma non riuscirono a capire cosa veniva gridato. Eyad mi ha detto che poteva essere stato “ora” in inglese. Poi iniziarono gli spari. I soldati Usa apparvero dai tetti delle case circostanti ed aprirono il fuoco. Il padre di Eyad venne colpito al cuore e sua madre al petto. Morirono all’istante. Anche due dei fratelli di Eyad furono colpiti, uno al petto ed uno al collo. Due delle donne vennero colpite, una ad una mano e l’altra ad una gamba. Quindi i cecchini uccisero la moglie di uno dei fratelli di Eyad. Quando cadde, suo figlio di cinque anni corse da lei e rimase sopra il suo corpo. Uccisero anche lui. I sopravvissuti fecero ai soldati dei disperati appelli perché cessassero il fuoco. Ma Eyad mi disse che ogni volta che uno di loro tentava di alzare una bandiera bianca veniva colpito. Dopo diverse ore provò ad alzare il braccio con la bandiera. Ma lo colpirono al braccio. Infine provò ad alzare la mano. Così lo colpirono alla mano. Abbiamo visitato case del distretto di Jolan, un’area povera di lavoratori nella parte nord occidentale della città che era stata il centro della resistenza durante l’assedio di aprile. Sembrava che questo quartiere fosse stato scelto per la punizione durante il secondo assedio. Ci spostavamo di casa in casa, scoprendo famiglie morte nei loro letti, o abbattute in soggiorno o in cucina. Tutte le case avevano i mobili fracassati ed i beni sparpagliati. Nella maggior parte delle case, i corpi erano di civili. Molti erano in vestaglia, molte delle donne non avevano il velo, il che significa che nella casa non vi erano

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altri uomini che quelli della famiglia. Non vi era nessuna arma, nessun bossolo. Ci divenne chiaro che eravamo testimoni delle conseguenze di un massacro, il macello a sangue freddo di civili inermi ed indifesi. Nessuno sa quanti sono morti. Ora le forze d’occupazione spianano i quartieri con i bulldozer per coprire il loro crimine. Ciò che è accaduto a Fallujah è stato un atto di barbarie. La verità deve essere raccontata al mondo intero.

Una delle cose che nessun giornale americano racconta (e che pochissimi giornali italiani ed europei dicono) è che gli americani in Iraq si lasciano andare a una violenza brutale contro la popolazione civile. In Europa fece scalpore, lo scorso novembre, l’episodio del marine che a Fallujia sparò su un iracheno ferito giacente a terra. Si evocarono le convenzioni di Ginevra (mai tanto spesso chiamate in causa e tanto platealmente violate come in questa storia) che regolano il trattamento dei nemici feriti. Da parte di alcuni si biasimò, da parte di altri si invocarono attenuanti (lo stress, il timore che in quel ferito si celasse in realtà un “nemico combattente” in piena efficienza). Questo in Europa. In America invece non si prestò più di tanta attenzione al caso, se non da parte della destra, che denunciò con forza “la strumentalizzazione dei media arabi, che usano ogni mezzo per fomentare l’odio antiamericano”20. Non meraviglia apprendere, proprio in questi giorni, che il soldato omicida si avvii, con ogni probabilità, ad essere prosciolto da ogni accusa21. Il 26 febbraio 2004 la televisione pubblica tedesca trasmette due video, girati a Baghdad l’8 aprile e il I dicembre 2003, nei quali alcuni marines (almeno in un caso consapevoli di agire sotto l’occhio della teleca20 A. Farkas, Il marine di Falluja non scandalizza gli Usa, “Corriere delle sera”, 18 novembre 2004. 21 F. Pantarelli, Marine omicida: assolto, anzi no, “il manifesto”, 25 febbraio 2005.

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mera) sparano su iracheni feriti e fuori combattimento. Vi sarebbe ovviamente materia per la Corte dell’Aja, che tuttavia, com’è noto, gli Stati Uniti non riconoscono. Interpellata sul caso, l’amministrazione Usa rifiuta ogni commento. C’è di peggio: comportamenti collettivi a danno della popolazione civile. Lasciamo la parola a uno dei non numerosi giornalisti non embedded sino a qualche settimana fa ancora presenti in Iraq (oggi il blackout è totale, e le uniche notizie sono quelle dettate dai comandi): “Il tragico meccanismo di tante morti è ormai ricorrente: i commando della resistenza attaccano i soldati e si dileguano, e i soldati americani aprono il fuoco all’impazzata contro passanti e automobilisti”. Nelle fasi finali della Seconda guerra mondiale si sarebbe parlato di “diritto di rappresaglia”. Con il rischio di essere falciata senza motivo dalle pallottole e dalle cluster bombs americane la popolazione civile irachena deve fare i conti ogni giorno. Pochi mesi dopo l’articolo di Chiarini, sempre il manifesto pubblica un reportage di Giuliana Sgrena sulla caccia a Saddam nel quartiere Al Mansur di Baghdad, e racconta di “americani che hanno sparato all’impazzata, in una strada affollata, su chiunque si avvicinasse al luogo del blitz”, provocando “un bagno di sangue in cui hanno trovato la morte 11 persone”22. L’ultima novità riguarda la presenza in Iraq di una misteriosa squadra speciale di marines, chiamata Gruppo 27, i cui membri porterebbero sul petto un particolare tatuaggio. Questa formazione segreta, attiva al momento nella zona di Tarmiya, 60 km a nord di Baghdad, sarebbe specializzata nell’uccisione di civili e più precisamente nella tecnica dello sgozzamento. Sarebbero cioè tagliatori di teste. La loro attività si inscriverebbe nell’“opzione Salvador” varata da John Negroponte all’indomani della sua nomina ad amba22

Cercano Saddam, ma uccidono i civili, 29 luglio 2003.

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sciatore Usa in Iraq23. Al di là della fondatezza delle singole informazioni, è indubbio che a fianco delle truppe regolari americane operano molti veri e propri squadroni della morte (formati in parte da personale civili, cioè da mercenari e contractors, in parte da agenti dell’intelligence e della polizia militare) protetti da una totale immunità e quindi dotati della facoltà di uccidere, torturare, stuprare e saccheggiare. Della loro attività non è facile avere testimonianze, anche perché chi osa parlare di ciò che ha visto o subito fa una fine orribile. Da ultimo è successo a Huda Hafez al Azawi, che ha raccontato la propria esperienza ad Abu Ghraib (tra il dicembre 2003 e il luglio 2004) e che per questo è stata nuovamente arrestata. Di lei non si hanno più notizie, e non è molto probabile che se ne avranno in futuro24. Un dato essenziale, legato anche alla privatizzazione della guerra, consiste nell’assoluta segretezza di molte decisioni e pratiche. Di fatto, il potere è detenuto dal presidente e dal Pentagono, e lo stesso Congresso controlla pochissime informazioni. A queste testimonianze si è aggiunta da ultimo quella del sergente dei marines Jimmy Massey, reduce dall’Iraq, di cui riportiamo senza commento due brani: Ho visto l’orrore di quanto stiamo facendo ogni giorno in Iraq, vi ho preso parte. Siamo solo dei killer. Uccidiamo, continuamente, innocenti civili iracheni: niente di più. Penso che tutti i contingenti militari stranieri in Iraq debbano essere immediatamente ritirati. E lo dico agli altri soldati, che per evitare punizioni e rappresaglie, non vogliono parlare e ammettere che la nostra missione non è di uccidere terroristi ma civili innocenti.

23 S. Chiarini, Iraq, marines tagliatori di teste?, “il manifesto”, 17 aprile 2005. 24 Ibidem.

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E ancora: Finivamo per massacrare civili innocenti – uomini, donne e bambini. Quando col nostro plotone abbiamo preso il controllo di una stazione radio non facevamo che inviare messaggi propagandistici diretti alla popolazione, invitandola a continuare la sua routine quotidiana, a tenere aperte le scuole. Noi sapevamo invece che gli ordini da eseguire erano di search and destroy, irruzioni armate nelle scuole, negli ospedali, dove potevano nascondersi i “terroristi”. Erano in realtà trappole tese dalla nostra intelligence, ma noi non dovevamo tener conto delle vite dei civili che avremmo ucciso durante queste missioni25.

Quello che secondo molti osservatori diretti si viene sempre più radicando nelle truppe di occupazione – dando luogo a queste tragiche manifestazioni – è un diffuso senso di impunità che tradisce a sua volta il sentimento di superiorità – anzi di incommensurabilità – degli americani quando il loro sguardo si posa sulla misera umanità del “Terzo mondo”. È stato un alto ufficiale dell’esercito inglese di stanza in Iraq a dire che il comportamento degli americani tradisce un atteggiamento razzista, proprio di chi pensa di avere a che fare con degli esseri inferiori: con degli Untermenschen, ha detto testualmente l’ufficiale. Il razzismo non colpisce solo gli afroamericani, gli ispanici e i nativi sopravvissuti nella metropoli. Coinvolge a maggior ragione i “pidocchi”, gli “scarafaggi”, gli “Ali-Babà” ancora insediati nelle loro “tane”. Nei loro confronti – grazie anche al mancato riconoscimento della Corte penale internazionale – tutto è concesso.

25 P. Lombroso, Io, un marine killer di civili, “il manifesto”, 3 marzo 2005. Massey ha raccolto la sua testimonianza in un diario, Cowboys from Hell, che vedrà la luce, salvo imprevisti, la prossima estate.

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In questo contesto il ricorso alle torture non può destare meraviglia. Di più: da qui il passo poi è breve anche verso la dimensione ludica dell’uccidere o del torturare: con un insetto ci si può anche divertire per ingannare la noia o per stemperare la tensione. L’accenno al divertimento non è casuale. Non lo è sia perché le telecamere sorprendono spesso i marines a “spassarsela” con i prigionieri, sia perché riferimenti ai “giochi” di Abu Ghraib ricorrono nelle inchieste aperte in seguito allo scandalo delle torture. “Seviziavano per divertirsi, per compensare lo stress e sfogare la frustrazione”: così uno degli investigatori militari sintetizza i risultati di un’istruttoria che dovrà condurre alcuni torturatori di Abu Ghraib dinanzi al giudice26. Probabilmente nelle intenzioni del funzionario che ha pronunciato questa dichiarazione il riferimento a propositi ludici implica un giudizio di assoluta riprovazione. Resta il fatto che proprio di giochi si trattava, per i militari che picchiavano, seviziavano, umiliavano e uccidevano. Lo scorso gennaio, durante il processo al soldato Graner, è la difesa dell’imputato ad agitare l’argomento per invocare le attenuanti. Le piramidi umane fatte con i corpi nudi dei prigionieri? “Anche le ragazze pon-pon in tutta l’America fanno la “piramide” seiotto volte l’anno. È tortura quella?” Il guinzaglio stretto al collo di un detenuto dalla soldatessa England, fidanzata di Graner e sua “compagna di giochi” ad Abu Ghraib? “Anche nel Texas i detenuti li prendevamo con il lazo: dov’è lo scandalo?” Non sembri una forzatura polemica: l’abisso di irresponsabilità e di amoralità che si rivela in simili dichiarazioni è tale da richiamare con forza il ricordo dell’ottusa ferocia dei kapò. È un’analogia forte ma pertinente. Tale è apparsa del resto anche a Viviana 26 D. Zaccaria, L’orrore di Abu Ghraib, luna park degli abusi, “Liberazione”, 5 agosto 2004.

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Kasam, che su di essa ha messo un forte accento: “Guardando le foto dei soldati americani in Iraq, soprattutto le ultime con la ragazza che ride sopra il cadavere, ho finalmente compreso (e da ebrea me lo domando da quando ho l’età della ragione) come sia stato possibile quello che è successo nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale. [...] Se giovani americani hanno potuto infierire così brutalmente divertendosi, e questa è l’aberrazione del nazismo – il divertimento nell’umiliare, deridere, togliere la dignità agli esseri umani, trasformarli in oggetti senza valore, senza nome, senza qualità – è possibile comprendere che cosa è successo ai tedeschi, che perdipiù erano vittime di una feroce propaganda antisemita respirata già sui banchi di scuola”27. Abu Ghraib e dintorni Siamo arrivati così alle torture, paradigma dell’orrore e della disinformazione. Anche questo discorso andrebbe contestualizzato. Bisognerebbe ricordare a quanti si stupiscono (o a quanti continuano a credere alla teoria delle “mele marce”) la fondamentale funzione svolta per decenni dalla Escuela de las Américas nella zona del Canale di Panama e dalle sue filiali di Fort Bridge e del North Carolina, nelle quali gli Stati Uniti hanno formato schiere di torturatori e aguzzini, destinati a svolgere la propria attività al servizio delle dittature fasciste nel corso degli anni Sessanta e nel ventennio successivo. E bisognerebbe ricordare quanto avvenne in Vietnam. Non solo stragi a freddo della popolazione civile, ma anche torture pianificate e ricompensate con denaro e onorificenze. Da ultimo Mike Davis ha ricordato come la Cia pagasse anche taglie a chiunque consegnasse la testa o le orecchie 27 V. Kasam, Io, ebrea, ho capito che cosa mosse i nazisti, “Corriere della Sera”, 25 maggio 2004.

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di presunti comunisti, scatenando continue cacce all’uomo (le stesse che oggi hanno luogo in Afghanistan e in Iraq da parte dei contractors dell’esercito americano e degli oltre 30mila “civili armati” – come vengono definiti i mercenari – attivi sui teatri di guerra), i vietcong venivano chiusi nelle “gabbie delle tigri” e torturati con i metodi della Gestapo. Scosse elettriche ai genitali (anche alle donne). Pezzi di legno inseriti nella cavità dell’orecchio e conficcati sino al cervello28. Bisognerebbe tenere conto di questi precedenti anche per capire perché la vicenda delle torture di Abu Ghraib e di Guantanamo non abbia scosso più di tanto l’opinione pubblica americana (ammesso che a questa espressione corrisponda qualcosa di reale, il che è sempre più opinabile, in un Paese in cui la stragrande maggioranza della popolazione non viene raggiunta da alcun tipo di informazione degna di questo nome che riguardi le vicenda politiche nazionali e internazionali). Tuttavia resta decisivo il ruolo svolto dagli organi di informazione. Ma limitiamoci al caso delle torture del terzo millennio, scoppiato alla fine di aprile nel 2004, un anno dopo l’inizio di quello che il presidente Bush e il suo ministro della guerra avrebbero voluto fosse un fulmineo Blitzkrieg. Che cosa fa la stampa dal momento in cui, il 30 aprile del 2004, scoppia lo scandalo di Abu Ghraib, quando la Cbs (una delle grandi reti generaliste americane) mostra alcune foto di prigionieri seviziati dai militari Usa nel carcere di Baghdad, nel quale sono rinchiusi circa diecimila iracheni: scariche elettriche, cani aizzati contro i detenuti e cataste umane di corpi nudi; sullo sfondo, in atteggiamento marziale, militari sorridenti? 29 28

M. Davis, Gli impantanati, cit. Per una dettagliata documentazione si vedano ora: S. Strasser (ed.), The Abu Ghraib Investigations. The Official Independent Panel and Pentagon Reports on the Shocking Prisoner Abuse in Iraq, Public Affairs, 2004; M. Danner, Torture and Truth. Ameri29

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Il servizio scatena un putiferio. Per una decina di giorni i giornali e le televisioni di tutto il mondo non parlano d’altro. La “campagna d’Iraq”, impantanata sul piano militare grazie alla resistenza della popolazione irachena, si direbbe avviarsi al più inglorioso degli epiloghi sotto l’infamia di comportamenti ripugnanti. E la vicenda non accenna a concludersi: alle prime rivelazioni fa seguito un ininterrotto stillicidio di testimonianze sempre più abominevoli: strangolamenti e percosse di detenuti incappucciati; sigarette accese nelle orecchie dei prigionieri; detenuti costretti ad atti sessuali o esposti, nudi, a temperature polari; prigionieri abbandonati in compagnia di vipere e lasciati morire dopo terribili agonie; militari sorridenti accanto ai cadaveri dei prigionieri torturati a morte, esibiti come trofei di caccia. La stampa accredita le reazioni “sconvolte”, le manifestazioni di stupore e di raccapriccio. Le reazioni dei governi dei Paesi coinvolti nella guerra vanno dall’orrore alla stupefazione. Bush si dice “disgustato” e definisce le torture “atti vergognosi e raccapriccianti”. Sostiene che “gli americani sono sconvolti come gli iracheni”, ai quali non esita a promettere “giustizia”. “Scioccato” si dichiara a sua volta Blair. “Addolorato” si mostra persino Berlusconi, naturalmente puntualizzando che l’accaduto “non cambia il senso dell’impegno italiano”. Dopo di che; passata la bufera, le torture tornano nel dimenticatoio, come se si credesse che non vengono più praticate. Si sarebbe dovuta dire invece una cosa molto semplice: che tutto era già da tempo noto; e che tutto era stato da tempo accuratamente pianificato. E oggi si dovrebbe dire: tutto continua come nulla fosse stato. ca, Abu Ghraib, and the War on Terror, New York Review of Books, 2004; Amnesty International, Abu Ghraib e dintorni. Un anno di denunce inascoltate sulle torture in Iraq, ed. Ega, Torino 2004; S. Hersh, Chain of Command: The Road From 9/11 To Abu Ghraib, Perennial, 2005.

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La cosa che più di ogni altra ci interessa è l’esibizione di incredulità da parte degli alti gradi militari e soprattutto dei vertici politici. Come abbiamo visto, quando esplode lo scandalo tutti si dicono sorpresi. Come giudicare queste dichiarazioni? Molto semplicemente: con la più assoluta diffidenza. In realtà tutti sapevano tutto, come è facile dedurre da alcune molto evidenti ragioni. La prima: le voci (e le prove) di torture sono molto consistenti sin da quando (nel gennaio del 2002) entra in funzione il campo-prigione di Guantanamo30. Già in febbraio il generale Michael Lehnert si sente in dovere di smentire che “la tortura [sia] applicata nel corso degli interrogatori”31, ma tali rassicurazioni non impediscono all’avvocato David Cole, editorialista di Nation, di documentare i gravi abusi nei confronti dei prigionieri in un libro che resterà agli atti di questa discussione32. Detenuti catturati senza formulazione di capi d’accusa e tenuti in arresto a tempo indeterminato senza poter incontrare famigliari e avvocati. Prigionieri costretti in gabbie di tre metri quadrati all’aperto, senza difese dalle intemperie, sotto la minaccia dei cani. Prigionieri fatti morire per asfissia nei containers sigillati e poi scaricati nelle fosse comuni “come pesci al mercato”33. Sperimentazioni su prigionieri usati come cavie umane per saggiare la resistenza agli stimoli sensoriali e l’efficacia di sostanze seda30 Sul quale si vedano: Michael Ratner – Ellen Ray, Guantanamo: What the World Should Know, Chelsea Green Publ. Comp., 2004; C. Bonini, Guantanamo, Einaudi, Torino 2004; per una informazione più in generale sul network americano delle torture, cfr. M. Pasquinelli, Torture “Made in Usa”. Viaggio nel Gulag a stelle e strisce, a cura dei Comitati Iraq Libero, Massari, Bolsena 2004. 31 R. Townsend, A Guantanamo, tournés vers La Mecque, “Le Monde”, Dossier Spécial, Les prisonniers, 17-18 febbraio 2002. 32 Enemy Aliens, The New Press, 2002. 33 V. Zucconi, L’America ha bisogno della superiorità morale, “la Repubblica”, 19 agosto 2002.

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tive. Nella primavera del 2002 i Physicians for Human Rights di Boston (l’ultima organizzazione umanitaria ammessa nel campo di Sheberghan, nell’Afghanistan settentrionale) scoprono migliaia di prigionieri malati e denutriti. Il risultato della loro denuncia è il fermo rifiuto di ammettere altri osservatori nelle prigioni disseminate sul territorio afgano. A maggior ragione lo si sarebbe dovuto dire dopo l’inchiesta svolta da uno dei pochissimi giornalisti indipendenti rimasti negli Usa. Il 15 maggio 2004 Seymour Hersh (il grande reporter che nel 1970 rivelò al mondo la strage di My Lai – e i tentativi di insabbiamento compiuti dall’allora giovane Colin Powell – contribuendo a imprimere una svolta all’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei riguardi della guerra del Vietnam) pubblica sul New Yorker un’inchiesta che documenta l’operazione “Copper Green”, “altamente segreta”, varata dopo l’attacco a Ground Zero. Hersh mostra come già all’indomani dell’11 settembre Rumsfeld avesse impartito alla Cia, all’intelligence militare e ai corpi scelti delle forze armate (Navy Seals e Delta Force) l’ordine di ricorrere a metodi estremi (rapimenti, torture e uccisioni) nella lotta contro al-Qaida34. Nell’agosto del 2003 – nove mesi prima del grande rito di pubblica costernazione imposto dalle foto di Abu Ghraib – il capo del Pentagono decide che l’operazione va estesa all’Iraq, allo scopo di sbloccare una situazione che viene evolvendosi in modo ben diverso dal Blitzkrieg messo in conto. Quindi spedisce a Baghdad il generale Miller, comandante di Guantanamo. Miller ha idee molto chiare: si tratta di “guantanamizzare” Abu Ghraib e le altre prigioni irachene. Gli interrogatori debbono essere condotti dall’intelligence e dalla polizia militare con i metodi sperimentati nella base di Cuba. Il 34 M. Dinucci, “Verde rame”, il segreto di Rumsfeld, “il manifesto”, 18 maggio 2004.

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motivo è semplice, intonato a un trattato di antropologia criminale degno del dottor Mengele: i prigionieri catturati come enemy combatants, spiega Miller alla responsabile delle prigioni irachene, generale Janis Karpinski, “sono come cani, e se si permette loro di pensare che non lo siano non si riescono più a controllare”35. Quanto alla pianificazione, alle spalle di questi episodi c’è la febbrile attività del governo, che sin dal dicembre del 2001 lavora per pianificare le torture e le contromisure giuridiche da opporre alle eventuali polemiche: è la storia dei sette memorandum elaborati dall’amministrazione Bush tra dicembre 2001 e settembre 2003. Il 28 dicembre 2001 il Dipartimento della Giustizia fornisce al Pentagono un memorandum che raccomanda l’impiego di una base extraterritoriale e si pronuncia contro l’applicazione delle convenzioni di Ginevra ai detenuti nelle prigioni afgane. Il 25 gennaio del 2002 il capo dei consulenti legali della Casa Bianca, Alberto Gonzales (un avvocato di origine messicana che Bush ha avuto modo di apprezzare in Texas, quando Gonzales, già allora suo consulente, si pronuncia per il rigetto di tutte le domande di grazia presentate dai condannati a morte detenuti nelle prigioni di quello Stato) firma un secondo memorandum che dichiara perfettamente legale “una certa flessibilità” nell’osservanza delle norme internazionali in materia di diritti e doveri delle truppe d’occupazione (norme rese “obsolete” dal “nuovo paradigma” della “guerra contro il terrorismo”), e che rassicura il presidente quanto al “rischio di incorrere in misure legali sui crimini di guerra”. Il 7 febbraio è lo stesso Bush a firmare un terzo memorandum segreto, nel quale dà carta bianca ai torturato35 S. Chiarini, Le torture? I comandi sapevano, “il manifesto”, 16 giugno 2004.

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ri determinando “che nessuna delle convenzioni di Ginevra si applica al nostro conflitto contro al-Qaida in Afghanistan o in qualunque altra parte del mondo”. In agosto un quarto memorandum del Dipartimento della Giustizia fornisce una definizione del concetto di tortura talmente restrittiva da autorizzare tutti i metodi di interrogatorio (compresi gli “atti crudeli, inumani o degradanti”) adottati da militari, agenti dei servizi e mercenari operativi in tutto l’Afghanistan “bonificato”36. E ancora in dicembre e poi nel gennaio del 2003 altri documenti di Rumsfeld descrivono nel dettaglio le torture praticabili, dichiarando il Congresso incompetente a giudicare della condotta del presidente a proposito della detenzione e delle tecniche di interrogatorio. Il 16 aprile lo stesso Rumsfeld invia a Guantanamo ulteriori indicazioni, che raccomandano l’uso dei cani, la tecnica della deprivazione del sonno e del cibo, l’interdizione dei servizi igienici, l’esposizione al gelo. Il 10 settembre il generale Sanchez dirama la Interrogation and Counter Resistance Policy nella quale la condotta da seguire negli interrogatori è così sintetizzata: bisogna usare “l’illuminazione, il calore, il cibo, i vestiti, l’igiene personale, le condizioni delle celle” in modo da “manipolare le emozioni e le debolezze dei prigionieri”37. Al personale incaricato degli interrogatori è data carta bianca. “Rendetegli la vita un inferno”, “fategli desiderare la morte”: queste erano le 36 Secondo il memorandum di Gonzales, “per violare la legge contro l’uso delle torture un atto dev’essere equivalente, per intensità, al dolore che accompagna una ferita fisica grave, il malfunzionamento di un organo, la compromissione delle funzioni fisiche o persino la morte”. Ne consegue che sia considerata legittima, per esempio, la pratica del waterboarding, che consiste nel tenere il prigioniero sott’acqua sin quasi all’annegamento. 37 S. Morandi, Torturare è consentito. Anzi, è un ordine, “Liberazione”, 19 giugno 2004; M. Bartocci, Per le sevizie una difesa preventiva, “il manifesto”, 22 giugno 2004; S. Finardi, I nuovi Pinochet e gli aerei fantasma, “Liberazione”, 14 dicembre 2004.

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consegne per gli “addetti ai prigionieri”, stando alle deposizioni dei torturatori di Abu Ghraib38. Quanto alla presunta fine delle torture, nessuno dice con chiarezza che gli Usa gestiscono un gigantesco e misterioso network delle torture. Nessuno è in grado di dire quante siano le carceri controllate dal Pentagono e dalla Cia nei paesi occupati e sul territorio statunitense. A maggior ragione sfugge a qualsiasi controllo l’universo delle prigioni fantasma collocate sulle navi da guerra, delle carceri segrete direttamente controllate dalla Cia in Giordania, Marocco, Tailandia, Uzbekistan e Arabia Saudita, o ospitate dai paesi amici disponibili ad applicare “metodi estremi” negli interrogatori. Lo stesso Rumsfeld, scampato il pericolo dello scandalo di Abu Ghraib, parlò, nel giugno del 2004, di “prigionieri-fantasma”, mai registrati, lasciando intendere che questi desaparecidos potrebbero essere anche migliaia. Nella stessa Guantanamo si è scoperta, appena lo scorso dicembre, l’esistenza di una sezione supersegreta, e questo dopo che due generali americani avevano dichiarato, in una testimonianza al Congresso, che la Cia aveva tenuto nascoste alla Croce rossa alcune decine di prigionieri (“forse più di cento”), violando anche in tal modo le convenzioni di Ginevra. Se questo accade nella base di Cuba, le cose vanno ancora peggio in Afghanistan (come ha documentato il 18 febbraio scorso il Guardian, dedicando l’apertura ai frequentissimi “abusi in stile Abu Ghraib”) e in Iraq, dove la guerra imperversa da oltre due anni e l’intero paese è un gigantesco campo di battaglia. Mentre scriviamo, ignoriamo tutto della sorte degli oltre 10mila detenuti ospiti delle prigioni irachene e delle migliaia di prigionieri sparsi nella rete delle carceri control38 M. Forti, Era un ordine della Cia: torturateli, “il manifesto”, 9 maggio 2004; M. Farina, Abu Ghraib? Giochi da ragazze pon-pon, “Corriere della sera”, 13 gennaio 2005.

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late da americani e inglesi. Un corollario importante di questo universo è la pratica delle “extraordinary renditions”: un traffico di prigionieri, catturati in giro per il mondo con operazioni di rapimento, e recapitati per mezzo di aereifantasma privati nei Paesi che praticano la tortura senza fare troppe storie. È noto che già dall’ottobre del 2001 un intenso traffico di presunti “nemici combattenti” coinvolge, nell’àmbito della “guerra contro il terrorismo internazionale”, un lungo elenco di paesi compiacenti, notoriamente inclini all’uso della tortura (Egitto, Indonesia, Giordania, Kuwait, Oman, Arabia Saudita, Marocco, Turchia, Nigeria, Sudafrica, Filippine e Pakistan), ai quali gli Stati Uniti affidano detenuti destinati a interrogatori “estremi”. Da ultimo è divenuto materia di scottanti polemiche, di incidenti diplomatici e di interrogazioni parlamentari il programma Extraordinary Rendition, varato nel ’95 ma potenziato dopo l’11 settembre, nel quadro del quale gli Stati Uniti effettuano veri e propri rapimenti di “sospetti terroristi” prelevandoli dai paesi di residenza per torturarli nella base militare più vicina (il 17 febbraio 2003 capitò a un cittadino egiziano, sequestrato a Milano e seviziato ad Aviano) e deportarli a bordo di aerei-fantasma nelle impenetrabili carceri segrete messe loro a disposizione dai paesi amici39. Le “estradizioni speciali” – sul piano giuridico, atti di “pirateria internazionale” – hanno coinvolto diverse centinaia di cittadini di svariati paesi, tra cui Germania, Canada, Australia e Regno Unito. Il loro numero è ovviamente sconosciuto (si sa soltanto che dal solo carcere di Masra Tora, a sud del Cairo, sono transitati tra i centocinquanta e i trecento prigionieri)40. A mag39 S. Finardi, cit.; Carlo Bonini, Il charter dei detenuti per terrorismo. Ecco le indagini segrete della Cia, “la Repubblica”, 21 febbraio 2005; D. J.-D. Johnston, Rule Change Lets C.I.A. Freely Send Suspects Abroad to Jails, “The New York Times”, 6 marzo 2005.

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gior ragione è ignota la sorte ultima della maggior parte di questi detenuti. Quel che si può facilmente prevedere è che il volume di questi “scambi” si accrescerà, poiché – nonostante le polemiche suscitate dalla violazione della sovranità nazionale dei paesi interessati dai rapimenti – l’esternalizzazione della tortura presenta il grande vantaggio di ridurre al minimo il diretto coinvolgimento degli aguzzini americani. Dopodiché, chi potrà chiamare in causa il presidente degli Stati Uniti (o il primo ministro britannico) per qualche “eccesso” compiuto in un carcere di Casablanca o di Karachi? Com’è stato scritto di recente, si tratta di un “traffico mondiale di detenuti”, che gli Stati Uniti gestiscono dall’indomani dell’11 settembre per mezzo di un sistema di centri di detenzione off-shore posti sotto il controllo dell’intelligence civile e militare41. Il sistema della tortura si giova in grande misura anche della privatizzazione della guerra e dell’occupazione a cui si è fatto poc’anzi un rapido cenno. Anche nel caso della privatizzazione ci troviamo al cospetto di un sistema ben collaudato e molto vantaggioso. Da un documento reso noto dal New York Times il 18 marzo del 2004 emerge che i “contrattisti della sicurezza” (i circa ventimila “civili armati” dipendenti delle imprese private che si sono aggiudicate gli appalti del settore disposti dal Pentagono) sono autorizzati a “fermare, detenere e perquisire civili” (oltre che a usare la “forza letale” per difendere “proprietà approvate dalla Coalizione”)42. In pratica, si tratta della licenza di torturare e di uccidere. Ora, è noto che da tempo 40 C. Lai, Ma quanti sono i sequestrati (e torturati) dalla Cia?, “il manifesto”, 19 febbraio 2005. 41 S. Grey, Gli Stati uniti inventano il decentramento della tortura, “Le Monde diplomatique – il manifesto”, aprile 2005, p. 8. 42 M. Dinucci, Guardie private, ecco le regole d’ingaggio, “il manifesto”, 25 aprile 2004.

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molti di questi contractors sono impiegati negli interrogatori dei “nemici combattenti” e molto probabilmente il loro numero aumenterà, considerato che il sistema consente di raggiungere i risultati attesi (le informazioni utili alla “guerra contro il terrorismo”) senza esporre personale direttamente legato alle autorità militari o politiche. Le quali, anche in questo caso, potranno sempre dichiararsi estranee (e ignare) a quanto avviene nelle prigioni, nel corso degli interrogatori. In questo genere di vicende non manca nemmeno lo zampino della più pura etica del capitalismo, quella che spinge le imprese a competere tra loro sul mercato senza troppo disquisire sui mezzi impiegati. Avvalendosi delle opportunità concesse dalle regole d’ingaggio, i dipendenti della Caci e della Titan (due tra le numerose aziende americane specializzate nella fornitura di servizi di sicurezza, logistica, comunicazione e informatica alle agenzie di intelligence e alle forze armate di stanza in Iraq) avrebbero praticato (il condizionale è d’obbligo, visto che è in corso un procedimento penale, nel quale i contractors sono accusati di “associazione a delinquere”) sistematiche torture sui prigionieri di Abu Ghraib con uno scopo ben preciso, che parla dei devastanti “effetti collaterali” della privatizzazione della guerra: le sevizie dovevano servire a estorcere ai detenuti anche informazioni utili a battere la concorrenza nella corsa verso nuovi appalti43. Il “trionfo della democrazia” Dovrebbe bastare per avere pochi dubbi sulla natura della guerra in corso: una guerra terribile, sporca, combattuta per motivi inconfessabili, anche se ben chiari: il controllo del petrolio, il presidio di 43 M. Cocco, La fabbrica delle torture, “il manifesto”, 11 giugno 2004.

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zone strategiche, il mantenimento del circuito di spesa che sostiene gli interessi del militare-industriale e le periclitanti sorti del dollaro come moneta di riserva e come valuta di riferimento per gli scambi internazionali. Senonché l’immagine della situazione irachena che ho cercato di dare non è quella corrente. La rappresentazione di gran lunga più diffusa (a dispetto dell’ininterrotta scia di sangue che continua dal giorno dell’attacco contro Baghdad) è quella di un Paese (l’Iraq “liberato”) che si viene normalizzando (quanti sanno che a Baghdad mancano ancora l’acqua corrente e l’elettricità) e che si viene risvegliando alla democrazia. Vorrei chiudere proprio su questa questione della democrazia, trattando brevemente delle cosiddette elezioni irachene e anche della ricezione della tesi neoconservatrice della esportazione della democrazia. Anche su questi argomenti (anzi su questi argomenti con particolare evidenza) le responsabilità dei mezzi di informazione sono pesantissime, perché trasmettere un’immagine edulcorata di un Paese devastato dalla violenza più estrema è la peggiore delle menzogne. Cominciamo da qualche elementare dato di informazione. Intanto le percentuali dei votanti. In un primo momento i giornali di tutto il mondo hanno diffuso la notizia (diffusa dalle agenzie governative, controllate dalle autorità di occupazione) di una partecipazione oscillante tra l’80 e il 70%. Poi hanno dovuto ridimensionare, parlando del 57-58%. C’è stato poi un black-out. In realtà, stando a Debka File (un sito vicino ai servizi israeliani, quindi certo non interessato a screditare l’operazione propagandistica degli americani), la media nazionale dei votanti sta tra il 40 e il 45%. Ciò che più rileva sono le enormi differenze tra zona e zona. Mentre nelle città sante degli sciiti (Najaf e Kerbala) si è effettivamente arrivati vicini all’80%, in altri centri del sud (come Amara o Qadisiya) non si è andati oltre il 40%. A Bassora si è rimasti sotto il

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30%44. Questi dati significano una sola cosa: che chi è andato a votare l’ha fatto obbedendo alle indicazioni dei capi religiosi. E che il voto ha coronato la vera operazione voluta dagli Usa: la balcanizzazione dell’Iraq, a sua volta tesa a irachizzare il conflitto, in modo da legittimare la permanenza delle proprie truppe di occupazione in funzione di “interposizione”. Quanto alle modalità con cui è stata organizzata questa pretesa festa della democrazia, si tenga presente che non era stato fatto un censimento, che continuavano i bombardamenti americani, che le liste elettorali sono rimaste segrete, che la commissione elettorale (che aveva il potere di escludere qualsiasi lista o candidatura) è stata nominata dal Paul Bremer, l’exproconsole americano, e che si è votato sulla base di un collegio unico nazionale, che ha tagliato fuori tutte le minoranze locali45. Ma tutto questo non è bastato, ovviamente, per scoraggiare i cantori della esportazione della democrazia. Non si è trattato solo dei politici favorevoli alla guerra. E nemmeno soltanto dell’Ocse, che, per bocca di Olivier Roy, ha parlato di “contagio della democrazia”, sostenendo che le elezioni irachene dimostrano che “la democrazia è possibile, anche se in condizioni di estrema difficoltà”46. In Italia si sono lasciati andare a dichiarazioni entusiastiche anche leader del centrosinistra. Si è parlato di otto milioni di votanti (senza mai chiarire da dove avesse tratto questa informazione) e si sono definiti i votanti come “i veri resistenti” (senza spiegare contro chi si opporrebbe tale presunta resistenza). Subito dopo le elezioni, l’on. Rutelli ha dichiarato: “è un giorno di gioia, l’inizio di una 44 S. Chiarini, Ulema all’attacco: Un voto privo di ogni legittimità, “il manifesto”, 3 febbraio 2005. 45 Id., Quelle del 30 non sono vere elezioni, “il manifesto”, 22 gennaio 2005. 46 G. Caldiron, Il contagio della democrazia. Il voto in Iraq e il mondo arabo, “Liberazione”, 5 febbraio 2005.

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nuova stagione per l’Iraq”47. E anche da parte della sinistra si continua a celebrare la strategia della esportazione della democrazia. Ma naturalmente la parte del leone l’ha fatta la stampa conservatrice (e la parte politica più favorevole alla strategia neo-conservatrice o comunque più vicina alla prospettiva americana). All’indomani delle elezioni, dopo avere confessato che “le coscienze si emozionano davanti a milioni di polpastrelli colorati di indaco”, Gianni Riotta ha scritto che le “code intrepide degli iracheni ai seggi” hanno “aperto d’un tratto alla speranza” il dramma della guerra, e si è detto sicuro che con le elezioni “in Iraq si è voltato pagina”48. A caldo si poteva capire la speranza. Meno chiaro è perché Riotta non abbia sentito più il bisogno di tornare sull’argomento per rivedere i suoi giudizi entusiastici. Ancor più significativo – perché pronunciato in questi giorni, a fronte di uno scenario iracheno che smentisce clamorosamente le tesi ufficiali della pacificazione e della democratizzazione – è quanto scrive Emma Bonino per sponsorizzare le attività della Community of Democracy (riunitasi il 28 aprile a Santiago del Cile), per celebrare la condivisione di “valori comuni in termini di democrazia, libertà, Stato di diritto, tutela dei diritti umani”), per sostenere la strategia neo-con della “globalizzazione della democrazia” e per stigmatizzare quanti colpevolmente “continuano a essere sospettosi verso la politica americana, pur se tutti o quasi oggi constatano che qualcosa sta pur succedendo nel mondo arabo”49. Con questo accenno conclusivo alle “elezioni” ira47 R. Zuccolini, Iraq, la sinistra torna a dividersi sul ritiro, “Corriere della Sera”, 1 febbraio 2005. 48 G. Riotta, Bagdad, il voto che cambia tutto, “Corriere della Sera”, 1 febbraio 2005. 49 E. Bonino, Ora globalizzazione la democrazia, “Corriere della Sera”, 28 aprile 2005.

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chene ci siamo spostati da ultimo sullo scenario nostrano, e in effetti anche su questo ci sarebbe molto da dire a proposito del rapporto tra informazione e guerra. Basti pensare a come è stato trattato un caso clamoroso di disinformazione come quello delle presunte armi di distruzione di massa in possesso del governo iracheno, o – per venire a questi giorni – il caso altrettanto significativo dell’assassinio di Nicola Calipari (dove molti giornali “indipendenti” non si sono accontentati di accreditare senza cautele di sorta la tesi americana dell’alta velocità della macchina su cui viaggiavano Giuliana Sgrena e gli agenti del Sismi, ma hanno altresì affidato a firme di punta – come Lucia Annunziata sulla “Stampa” – il compito di propagandare le ricostruzioni americane e le accuse di “ambiguità” mosse dagli Stati Uniti nei confronti dell’intelligence italiana). Anche qui, una massa di false notizie, di opinioni contrabbandate come dati di fatto, e di omissioni (nessuno ricorda che i check-point americani hanno già causato circa trecento “incidenti mortali”, sui quali è stata prontamente stesa una cortina di silenzio). Del resto, a proposito dell’atteggiamento dei giornalisti occidentali embedded è emblematico quanto ha scritto qualche mese fa Tariq Ali a proposito di un documentario canadese su Al Jazeera, intitolato Control Room: “Che dire dei media, pilastro della propaganda del nuovo ordine? Una delle immagini più rivelatrici e disgustose è quella dei giornalisti occidentali “embedded” che facevano i salti di gioia all’annuncio della presa di Baghdad”50. Né esiste soltanto l’Iraq. Un altro capitolo si dovrebbe aprire, per esempio, a proposito della Somalia, e delle oscure vicende (traffici di armi e di scorie radioattive) che hanno visto maturare l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 50

2005.

T. Ali, Delusione imperiale, “il manifesto”, 5 febbraio

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Bisognerebbe parlarne, perché Ilaria Alpi venne uccisa con ogni probabilità proprio perché era una giornalista indipendente e coraggiosa; e perché ancora oggi chi cerca di scoprire la verità sulla sua morte (come Maurizio Torrealta) è messo sotto torchio dalle autorità. Tutto questo per dire che – seppure con minori mezzi e in più ridotte dimensioni – quanto accade negli Stati Uniti avviene anche in Italia (e del resto basterebbe riflettere sulla legge Gasparri; sulle linee di volta della riforma dei codici penali militari, che prevede la reclusione da due a dieci anni per “chiunque si procuri notizie concernenti la forza, la dislocazione o i movimenti delle forze armate”, e ciò in un contesto nel quale si afferma la sostanziale in-distinzione tra stato di pace e stato di guerra; e, da ultimo, su quanto è successo proprio ieri al sito italiano di Indymedia, chiuso d’autorità per – con il pretesto di – una vignetta irriverente sul nuovo Papa). E allora c’è un insegnamento che dobbiamo trarre soprattutto da tutte queste riflessioni, un insegnamento che – se possibile – va persino oltre le preoccupazioni per quanto rimane ancora delle nostre democrazie, delle nostre libertà civili e delle garanzie giuridiche sancite dalle nostre Costituzioni. Le pressioni esercitate sul sistema informativo dicono con chiarezza che la guerra non è solo nei Paesi contro cui è stata scatenata. Certo con effetti di gran lunga meno devastanti, la guerra è davvero ovunque, come teorizzano i più aggiornati studiosi delle “nuove guerre”51, e penetra ben dentro le nostre società. L’attenzione a proposito di informazione e guerra dovrebbe essere focalizzata anche sui contraccolpi interni: le leggi speciali e i loro effetti liberticidi con i quali le nostre società convivono spensierate e ignare. Anche 51 Cfr. Q. Liang e W. Xiangsui, Unrestricted Warfare, trad. it. a cura di Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2004.

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per questo è necessario scegliere tra l’essere favorevoli o contrari alle nuove guerre “democratiche”. Con la consapevolezza che non si tratta solo di una scelta astratta, di puro principio, ma di una questione vitale, che coinvolge comportamenti concreti, nella vita di ogni giorno.

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COME COMUNICARE LA GUERRA OVVERO LA GUERRA DELLE IMMAGINI Agata Piromallo Gambardella

Tra i due termini, guerra e comunicazione, il rapporto non è solo strumentale – la comunicazione “serve” alla guerra per farla penetrare capillarmente negli spazi e nelle coscienze – ma anche d’identificazione – la guerra è comunicazione – in quanto essa è il messaggio per eccellenza, un messaggio totale che mobilita, esalta e atterrisce nello stesso tempo. La modernità ha rafforzato questa identificazione perché essa, ben lungi dal rappresentare un passo avanti verso il contenimento dei conflitti, li ha inscritti in una cornice di razionalità, di organizzazione, di progresso tecnologico che li ha fatti deflagrare oltre ogni limite, dilatandone enormemente l’impatto comunicativo. In particolare, è stato messo in evidenza che “la civiltà aumenta in ugual misura creatività e distruttività”, in quanto “la distruttività non è il prodotto di istinti accecati dall’ira, bensì di una creatività tipicamente umana”1; una “creatività” che spinge la violenza a sconfinare verso forme inedite di terrore e di massacro e, nello stesso tempo, fornisce a essa gli strumenti per renderle più spettacolari e suscettibili d’innescare processi d’imitazione e di autoesaltazione collettive. Tali strumenti sono oggi, in primis, i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto attraverso l’uso 1 W. Sofsky, Il paradiso della crudeltà. 12 saggi brevi sul lato oscuro dell’uomo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 65-67.

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dell’immagine. Essa è già di per sé violenta, ancora prima d’incontrarsi con la violenza della guerra, perché l’immagine è un far violenza alla realtà, squarciare il velo d’invisibile che la ricopre e renderla presente al massimo grado. L’immagine tra assenza e presenza La guerra delle immagini a cui mi riferisco s’ispira a un libro di Marc Augé, La guerra dei sogni2, in cui l’autore sostiene la tesi della colonizzazione dell’immaginario individuale e collettivo ad opera dei media i quali avrebbero sottoposto la realtà a un processo di “finzionalizzazione” crescente, tale da cancellare la linea di demarcazione che distingue quest’ultima, la sua rappresentazione mediatica e l’immaginario degli individui, cioè i loro sogni. Quindi, la guerra dei sogni è la guerra, ormai perduta, per salvare il diritto dei sogni a rimanere tali. Con la guerra delle immagini, più specificamente, Augé fa riferimento alla colonizzazione del Messico da parte degli Spagnoli, quando la Chiesa cattolica spingeva gli indios alla conversione e quindi all’integrazione con i vincitori attraverso il ricorso alle immagini sacre: esse si ancoravano fortemente alla loro esperienza visionaria per cui si verificava una loro parziale sovrapposizione alle pittografie locali in un sincretismo culturale prima ancora che religioso. Quando si passa, invece, alle immagini mediatiche odierne, si verifica una completa sovrapposizione – e quindi con-fusione – con il mondo immaginario dell’individuo, per cui non c’è la guerra di immagini appartenenti a mondi diversi, ma la creazione di un unico scenario virtuale dove la guerra e le sue immagini fanno un tutt’uno, dando luogo alla creazione di situazioni-limite in cui allo scarto fisico può sostituirsi 2

M. Augé, La guerra dei sogni, Milano, Elethera, 1998.

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un puro delirio di annientamento, come avviene, per esempio, in molti videogiochi. La guerra delle immagini, quindi, non è solo la guerra rappresentata attraverso le immagini, ma lo slittamento di senso dalla guerra verso le sue immagini, fino al punto da poter, paradossalmente, affermare che le immagini “fanno” la guerra, la costruiscono per lo spettatore che vede una guerra, non tanto condotta dagli uomini, ma dalle immagini: la guerra, appunto, delle immagini. Tuttavia, a differenza di Augé che parla di un “regime di finzione” in grado di sostituire la realtà, quando affermo che le immagini costruiscono la guerra, non intendo tanto dire che esse presentano la guerra come se fosse uno spettacolo, facendola sconfinare nella fiction (il che accade spesso), ma soprattutto che esse conferiscono ulteriore “presenza” alla guerra. Infatti, l’etimo della parola imago deriva da imitor che, come ci ricorda Jean-Luc Nancy, può avvicinarsi ad aemulus, cioè emulo, rivale, per cui l’immagine, in quanto emulazione, non solo imita la cosa, ma rivaleggia con essa per il maggiore “tasso” di presenza che ritiene di poterle conferire. Afferma Nancy che “l’immagine fa uscire la cosa dalla sua semplice presenza per metterla in presenza, in praes-entia, in essere-davanti-a-sé, rivolta verso il fuori... Non è una presenza ‘per un soggetto’ (non è una ‘rappresentazione’ nel senso ordinario e mimetico della parola), è, invece, per così dire, ‘la presenza in soggetto’ ”3. In altri termini, è l’immagine che rende veramente presente la realtà, perché “l’assenza del soggetto in immagine non è altro che una presenza intensa, ripiegata in sé , che si raccoglie nella sua intensità”4. Essa è l’espressione non linguistica che mostra la cosa nella sua “medesimezza”, una medesimezza che non è quel3

J.L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, Napoli, Cronopio, 2002,

p. 19. 4

Ivi, p. 42.

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la della parola e del concetto, in quanto non deriva né da un atto d’identificazione né da un processo di significazione, “ma che si sostiene solo da sé, nell’immagine e in quanto immagine”5. In questo suo valere per se stessa, l’immagine si lega indissolubilmente alla violenza perché, come questa, si pone senza che sia preceduta o giustificata da nulla, e come la violenza “si mette in immagine” e “si compie sempre in un’immagine”6. L’immagine, a sua volta, lacera ogni intimità, eccede ogni forma, estrae “dalla sua assenza la forma della presenza, vale a dire la forza del ‘presentarsi’ ”7; in una parola, non rappresenta, ma violenta e spesso in maniera “crudele”. “La violenza è sempre un eccesso sui segni”8, come l’immagine, e per questo la violenza ha bisogno delle immagini. Anche la guerra, quindi, per essere comunicata non può farne a meno, pena il venir meno della forza del suo “presentarsi”, della testimonianza della sua inventiva distruttrice. Senza immagini la guerra sembra non appartenerci, non contagiarci, non chiamarci all’appello, perché è solo attraverso l’assenza del loro soggetto che le immagini possono rappresentarlo in tutta la sua intensità e la sua forza implosiva. È opportuno, a questo punto, ricordare anche come la guerra comunicata attraverso la immagini ponga dei nuovi problemi di critica delle fonti alla storiografia. Gli storici, infatti, avranno a che fare sempre più con documenti fotografici e audiovisivi che sono ben diversi da quelli scritti sui quali da secoli essi hanno sempre lavorato. Sui primi, infatti, è più difficile esercitare un’attività interpretativa altamente rigorosa sia perché le immagini per la loro 5 6 7 8

Ibidem. Ivi, p. 17. Ivi, p. 21. Ivi, p. 27.

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stessa natura – in quanto costituiscono un eccesso sui segni – tendono a deformare e a trasformare le cose sia perché l’immagine proprio a causa di ciò, coinvolge emotivamente lo spettatore (Nancy, infatti, parla di “passione dell’immagine”), per cui la dimensione della soggettività dello storico rischia di essere presente con un peso maggiore di quanto di solito non avvenga nel suo lavoro d’interpretazione dei testi scritti. L’immagine tra consumo e produzione A questo punto sorge la prima, inquietante domanda: qual è la posizione dello spettatore dinnanzi alla violenza delle immagini di guerra? Secondo Susan Sontag le uniche persone che hanno diritto di guardare immagini di atrocità reali sono quelle che potrebbero adoperarsi per alleviare le sofferenze di cui diventano spettatori o che potrebbero imparare qualcosa dal dolore rappresentato. Tutti gli altri si limitano a guardare, criticare, discutere al riparo dalla bufera, spesso in bilico tra una malcelata indifferenza e un ostentato fatalismo. Per la Sontag, come per altri autori che hanno riflettuto su questo tema, il rischio dell’esposizione alle immagini violente è l’assuefazione, ma quest’ultima si verifica non tanto per la quantità di immagini fruite che generano un processo di saturazione, quanto piuttosto per l’impossibilità di agire da parte dello spettatore, da cui ne consegue una forma di passività che offuscherebbe le emozioni. E anche se resta la compassione, neanche questa è auspicabile, perché, fino a che si prova compassione, si ha la sensazione di non essere complici di ciò che ha causato dolore agli altri. “La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere... una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe me-

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glio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale”. Come non è auspicabile la compassione, non lo è neanche lo stupore di fronte alle vittime della violenza, anzi esso è addirittura scandaloso perché ci porta a dimenticare che ciascun uomo è intrinsecamente portatore di violenza – homo violens – e che esiste anche una violenza sottile e ambigua fatta nei riguardi della nostra coscienza morale che è quella di non voler vedere. Ma ancora più scandaloso appare quell’atteggiamento che viene definito “la soddisfazione per il proprio stato”. Ciò avviene quando il racconto dei massacri, delle catastrofi naturali o causate dall’uomo, della violenza che cresce sempre più come un contagio fra le diverse etnie, è vissuto in “funzione consolatoria”. Questo vale ancor più per la visione diretta, cioè “in diretta”, di questi eventi e per la tempestività e la frequenza con cui i mezzi d’informazione ce li propongono: ciò potrebbe apparire ossessivo, ma, in fondo, lo “spettacolo” continuo infonde nello spettatore una sorta di rassicurazione circa la propria esistenza che, anche se non pienamente soddisfacente, è di gran lunga migliore di quella di tanti altri. Se queste possono essere alcune delle posizioni degli spettatori dinnanzi alla violenza delle immagini di guerra, quali sono, invece, (e qui sorge la seconda domanda) le posizioni dei produttori di programmi che spesso enfatizzano questo tipo di immagini per provocare nello spettatore lo shock piuttosto che stimolare il suo senso critico? In genere, le ragioni che essi adducono sono essenzialmente tre:

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La prima è che queste immagini hanno un alto valore di testimonianza per due motivi. Innanzitutto, l’ “ostensione” della violenza, sia agita che subita, aggiunge al semplice racconto degli eventi un particolare valore di autenticità: non dimentichiamo che, secondo la lezione di Nancy, “è l’immagine che ostenta veramente la cosa”. Il secondo motivo consiste nel fatto che “mostrare con più forza, più immediatezza, più brutalità le situazioni di violenza – l’immediatezza del sangue, della paura, del corpo colpito e ferito – è considerato un modo per provocare il pubblico, per indurlo a porsi delle domande, per mettere l’emotività o lo sgomento al servizio della riflessione, perché il vedere si trasformi in una domanda, una provocazione, una presa di posizione”9. La seconda ragione, peraltro collegata alla precedente, è che “la violenza mobilita”. In questo caso, l’intento è soprattutto di mettere in crisi le posizioni di chi tende a mantenere o ristabilire l’ordine costituito e di poter quindi operare un qualunque tipo di trasformazione sociale. Si tratta di un intento che potremmo definire etico-politico e che può realizzarsi attraverso la sensibilizzazione dell’opinione pubblica che resta il canale privilegiato e il motore di ogni cambiamento. La terza ragione, implicita e non ammessa dai produttori dei programmi, è che la violenza vende: proporre programmi violenti, infatti, è un modo di fare marketing oltremodo sicuro. Infatti, “la violenza appare come un genere facile da raccontare e facile da vendere a un mercato mondiale, a motivo della sua intelligibilità immediata e anche della sua capacità di integrare i suoi codici narrativi in qualsiasi contesto culturale”10. 9 G. Gili, La violenza televisiva. Logiche, forme, effetti, Carocci, Roma, 2006, p. 156. 10 G. Bettini, A. Fumagalli, Quel che resta dei media. Idee per un’etica della comunicazione, Milano, Franco Angeli, 1998.

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Da quanto detto finora, scaturisce spontanea la terza domanda: è lecito comunicare la guerra attraverso immagini di estrema violenza ovvero come comunicare la guerra? Riprendendo il discorso di Nancy, l’immagine in genere è la presentificazione assoluta della cosa, una presenza al quadrato potremmo dire, e come tale non può non fare violenza alla cosa: essa, come abbiamo già detto, squarcia il velo della realtà e la mostra al massimo grado della sua visibilità, per cui l’immagine non può non essere violenta nel suo stesso porsi e, a maggior ragione, l’immagine che comunica la guerra. L’operazione che, a mio avviso, dovrebbe essere evitata è quella di mostrare le immagini di guerra attraverso il ricorso ad artifici retorico-stilistici che le rendono più agevolmente fruibili, che allentano l’eccessiva attenzione e impediscono il relativo approfondimento, su contenuti “scomodi”. In questo caso, si corre il rischio di scivolare verso una forma di estetizzazione che, lungi dal farci avvicinare maggiormente al reale – “che è senza fondo” – lungi dal rimarcare l’infinità del senso, si risolve in una presentificazione effervescente e rutilante che toglie ai messaggi ogni possibilità di aprirsi verso l’insondabile. Alla fine il processo di estetizzazione servirebbe soltanto a “vendere” meglio la violenza e a farla passare senza che susciti particolari sensi di colpa nello spettatore. L’eccessiva attenuazione o edulcorazione delle immagini violente non si giustifica neanche se ci si riferisce al rischio che può correre il mondo dell’infanzia di fronte alla rappresentazione della violenza. Oltre al fatto che una recente ricerca11 ha dimostrato che per i bambini può essere più deleterio lo spettacolo della violenza legata alla fiction che non quella 11 Cfr. A. Piromallo Gambardella, G. Paci, D. Salzano, (a cura di), Violenza televisiva e subcultura dei minori nel meridione, Milano, Franco Angeli, 2004.

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derivante dalle immagini di eventi di cronaca, sembra veramente strano che ci si interroghi su questo aspetto solo per le immagini di guerra e non per tutto il resto che ci propone continuamente la TV. “Ci sono”, infatti, “trasmissioni pomeridiane che dovrebbero far rabbrividire per l’esplicitezza, la volgarità e la violenza esibita... E viceversa, se c’è un momento in cui il giornalismo mostra il suo volto migliore è appunto in quelle tragedie di sempre che sono le guerre dove emergono il coraggio, il senso morale, la passione per il mestiere”12. È opportuno, invece, riprendere le due motivazioni addotte dai produttori di programmi violenti per ribadire che, per quanto riguarda sia il loro valore di testimonianza sia la loro funzione di mobilitazione, il ricorso a immagini violente appare abbastanza giustificato. La testimonianza diretta, infatti, che spesso vuole scardinare lo status quo, la routine, l’abitudine non può non essere violenta perché essa rappresenta la forma più alta di presentificazione della realtà e, quindi, nell’ottica di Nancy, di violenza fatta alla realtà; non dimentichiamo che, nel corso della storia, spesso i grandi testimoni sono stati messi a tacere e talvolta hanno pagato con la vita lo sconvolgimento che la loro testimonianza arrecava al contesto sociale di appartenenza. Lo stesso dicasi per la mobilitazione delle coscienze che si realizza massimamente attraverso il costante richiamo all’orrore che è vicino a noi, pronto a trascinarci nel suo gorgo se non vi opponiamo resistenza; e quest’ultima viene messa in atto solo se la comunicazione è stata violenta. In tal senso, si può dire che la comunicazione è guerra perché la violenza delle immagini che testimoniano e mobilitano è già un’azione di guerra, è la stessa guerra che ci investe. 12 F. Colombo, Tra dovere di cronaca - Diritti degli utenti, in M. Morcellini, T. Grassi (a cura di), La guerra negli occhi dei bambini, RAI, Pellegrini Editori, Cosenza, 2005, p. 67.

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In questa prospettiva, non possiamo che rispondere affermativamente alla terza domanda circa la liceità della presentificazione estrema della guerra, della sua violenza, del suo trascinarsi infiniti lutti e infiniti dolori, come disse Omero della prima guerra di cui abbiamo avuto notizia che “infiniti addusse lutti agli Achei”. Il racconto della guerra, allora, soprattutto oggi, in cui alla descrizione affidata alla parola si affianca e spesso si sostituisce la comunicazione affidata alle immagini, deve andare avanti senza remore, senza indugi, senza sconti, usando, anzi, la violenza delle immagini come grimaldello per sfondare la porta chiusa di quelli che considerano la guerra un affare che non li riguarda e per trarli fuori da quell’atteggiamento che prima abbiamo definito di “soddisfazione per il proprio stato”, cioè soddisfazione di essere al riparo da una guerra lontana, fatta da altri.

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AUTORI

Alberto Burgio è professore ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Tra le sue numerose pubblicazioni, sulla guerra ha scritto: Escalation. Anatomia della guerra infinita, Deriveapprodi, 2005; Guerra. Scenari della nuova «grande trasformazione», Deriveapprodi, 2004. Francesca Canale Cama è professore a contratto di Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Studi Politici e per l’Alta Formazione Europea e Mediterranea “Jean Monnet” della Seconda Università degli Studi di Napoli. Ha pubblicato: Alla prova del fuoco. Socialisti francesi e italiani di fronte alla prima guerra mondiale, Guida, 2006. Umberto Curi è professore ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Padova. Tra le sue numerose pubblicazioni, sulla guerra ha scritto: Terrorismo e guerra infinita, Città Aperta, 2007; Pensare la guerra, Dedalo, 1999. Massimo Mori è professore ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino. Tra le sue numerose

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Autori

pubblicazioni, sulla guerra ha scritto: La ragione delle armi, Il Saggiatore, 1984; Il problema della guerra nella filosofia della storia di Kant, Saste, 1979. Agata Piromallo Gambardella già professore ordinario di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università degli Studi di Salerno, attualmente è professore a contratto della stessa disciplina all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Tra le sue numerose pubblicazioni: Le sfide della comunicazione, Laterza, 2001; Violenza, e società mediatica (a cura), Carocci, 2004.

Come comunicare la guerra ovvero la guerra delle immagini

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INDICE

Diego Lazzarich Guerra e / è comunicazione

5

Massimo Mori I filosofi e la guerra

69

Francesca Canale Cama La guerra prima della guerra

85

Umberto Curi Il tempo della guerra

121

Alberto Burgio Divertirsi con gli untermenschen

139

Agata Piromallo Gambardella Come comunicare la guerra

175

Autori

185

Guerra e / è comunicazione

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»L’isola di Prospero«

DE CAPRARIIS, Profilo di Tocqueville a cura di E. Paolozzi HAMILTON - CLINTON, Lettere sulla Costituzione federale a cura di P. Varvaro NEHRU, Lo strano paese della falce e martello a cura di M. Griffo ORIANI, Niccolò Machiavelli a cura di G.M. Barbuto ADAMS, Rivoluzioni e Costituzioni a cura di F. Mioni BOLINGBROKE, Sul governo a cura di E. Capozzi CAMPANELLA, Aforismi politici a cura di A. Cesaro TOCQUEVILLE, Viaggio in Inghilterra a cura di S. Mazziotti CONDORCET, Lettere di un borghese di New Heaven a cura di L. Mascilli Migliorini DE SANCTIS, La democrazia ideale e reale a cura di G.M. Barbuto OSTROGORSKI, La costituzione inglese a cura di G. Quagliariello ROSSI, L’Europa di domani a cura di A. Amato CUKOVSKAJA, Sof’ja Petrovna a cura di A. Cristiani MILL, Bentham e Coleridge. Due saggi a cura di M. Stangherlin Il Catechismo di Pasquino a cura di M. Battaglini COLLINGWOOD, Cosa significa civilizzazione? a cura di S. Carbone MAUROIS, Cantieri americani a cura di M. Griffo SALVEMINI, Per la riforma elettorale a cura di P. Varvaro ANTONI, L’avanguardia della libertà a cura di E. Capozzi

DE BELLOY, L’autorità del re e i delitti di lesa maestà a cura di G. Brancaccio MANN, Pace mondiale e altri scritti a cura di R. Bagnoli MAZZINI, Imprese di penna a cura di R.M. Delli Quadri MONTECUCCOLI, Della guerra col Turco a cura di A. Pomella FLORA, Città di Caino. I partiti e la democrazia a cura di U. Piscopo LEVI, MONTANI, ROSSOLILLO, Tre introduzioni al federalismo PSEUDO SENOFONTE, La Costituzione degli Ateniesi a cura di S. Ammendola GUIDO DE RUGGIERO, Lezioni sulla libertà a cura di F. Mancuso SERGIO PISTONE, L’Unione dei Federalisti Europei MATTEO GALDI, Memorie diplomatiche a cura di A. Tuccillo

Guerra e / è comunicazione

«Grafica Bodoni» - Napoli dicembre 2008

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Diego Lazzarich