Gli uccelli 8804298820, 9788804298823

Con Gli Uccelli, opera di vibrante lirismo e straordinaria fantasia, Aristofane mette in scena un grande sogno collettiv

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Italian Pages 386 [393] Year 1992

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ARISTOFANE

GLI UCCELLI A CURA DI GIUSEPPE ZANETTO INTRODUZIONE E TRADUZIÒNE DI DARIO DEL CORNO

FO

DAZIO

E LORE

ZO VALLA l ARNOLDO MO

DADORI EDITORE

Due ateniesi lasciano la loro città tediosa, divorata dal­ la passione vendicativa della giustizia. Reggono sul pugno chiuso un gracchio e una cornacchia; e se ne vanno in cerca di un luogo senza seccature, per trascor­ rervi il resto della vita. Così comincia Cii Uccelli di Aristofane, la più bella commedia di tutti i tempi, che la collana

«

Scrittori greci e latini» presenta nella tra­

duzione lievissima di Dario Del Corno e col commento ricco e scrupoloso di Giuseppe Zanetto. Laggiù i due ateniesi cercano e trovano un grande sogno utopico: una città morbida e soffice

«

come una pelliccia», che

rinnova la perduta età dell'oro, quando gli uccelli, più antichi di Crono e dei Titani, erano sovrani della terra; una patria dolce e materna, senza leggi né violenza, dove gli uccelli non vengono venerati nei templi, ma nei cespugli, sui lecci, sugli ulivi, tra i corbezzoli e gli oleandri, e in cambio assicurano agli uomini

«

felicità,

lunga vita e pace, giovinezza, risate, danze e festini» - ciò che gli indifferenti dèi deli'Olimpo non ci hanno mai dato. Quanto poco dura questa lieve ventata di uto­ pia! Solo per un attimo gli uomini diventano uccelli, e battono le ali nel cielo puro. Pisetero, il cittadino di Atene, non ama che il potere; e ristabilisce il regno della legge, stravolgendo l'aerea NUbicuculia in un doppio del mondo reale, dove gli uccelletti sorpresi a cospirare contro la democrazia vengono trasformati in un arrosto succulento. Eppure, malgrado questa cadu­ ta, il cerchio non si chiude del tutto. Agli uccelli, per quanto sconfitti, restano le ali, il volo -l'emblema della libertà assoluta. Il mondo nuovo manterrà la loro im­ pronta nel trionfo del nonsense - che rivela il migliore dei mondi possibili o forse l'unico ancora possibile nella cosiddetta società civile. Aristofane venera e ce­ lebra tutti i miti, quelli antichi e quelli moderni, che crea instancabilmente nel proprio linguaggio; e di tutti i miti si prende gioco, con la beffa più erppia e dissacra­ trice, che· s'accende come un razzo, sale verso il cielo, deflagra senza fine nell'aria, superando tutti i limiti e le misure della mente umana.

Dario Del Corno insegna Ìetteratura greca all'Universi­ tà degli Studi di Milano. Ha pubblicato un'edizione critica di Menandro, Commedie, vol. I (I965), una rac­ colta di frammenti e testimonianze sull'interpretazione del sogno nel mondo classico ( Graecorum de re onirocri­

tica scriptomm reliquiae), e numerosi articoli di filologia e critica letteraria, in particolare sul teatro greco. Ha tradotto il Libro dei sogni di Artemidoro (I975)

e

la

Vita di Apollonia di Tiana di Filostrato (I 978), e sta cu­ rando la traduzione di una scelta dei Maralia di Fiutar­ co, in corso di pubblicazione. Per la Fondazione Lo­ renzo Valla, oltre a scrivere l'introduzione alla Cro­

nografia di Psello (I984), ha curato l'edizione delle Rane di Aristofane (I985). Giuseppe Zanetto è ricercatore di letteratura greca al­ l'Università degli Studi di Milano. Ha curato per la Bibliotheca Teubneriana l'edizione delle Epistole di Teofilatto Simocatta (I 98 5). Oltre che di epistologra­ fia (in particolare Aristeneto), si è occupato di narra­ tiva, come coautore del Lessico dei romanzieri greci, di cui è comparso nel I98 3 il primo volume. Ha scritto ar­ ticoli su Archiloco e Paolo Silenziario.

In sopracoperta: Coreuta travestito da uccello particolare oi una oinochoe databile intorno al 500 a. C. Londra, British Museum

SCRITTORI GRECI E LATINI

ARISTOFANE LE COMMEDIE

Piano dell'opera

Gli Acarnesi a cura di Roberto Pretagostini traduzione di Dario Del Corno

I Cavalieri a cura di Bernhard Zimmermann traduzione di Dario Del Corno

Le Nuvole a cura di Dario Del Corno e Giulio Guidorizzi

La Pace a cura di Dario Del Corno

Gli Uccelli a cura di Giuseppe Zanetto introduzione e traduzione di Dario Del Corno

Lisistrata a cura di Franca Perusino traduzione di Dario Del Corno

Le Tesmoforiazuse a cura di Carlo Prato traduzione di Dario Del Corno

Le Rane a cura di Dario Del Corno

Le Ecclesiazuse a cura di Massimo Vetta traduzione di Dario Del Corno Le altre commedie seguiranno

ARISTOFANE

GLI UCCELLI a cura di Giuseppe Zanetto Introduzione e traduzione di Dario Del Corno

FONDAZIONE LORENZO VALLA ARNOLDO MONDADORI EDITORE

Questo volume è stato pubblicato con il contributo del CREDIOP Consorzio di credito per le opere pubbliche

ISBN 88-04-29882-0

Grafica di Vittorio Merico © Fondazione Lorenzo Val/a 1987 I edizione ottobre 1987

INTRODUZIONE di Dario Del Corno

I La sola specie animale che gli uomini da sempre invidiano è il li­ bero popolo degli uccelli. Il loro canto è la musica spontanea della natura; le infinite screziature delle piume li rendono simili a fiori dell'aria 1; col volo ascendono verso quei reami celesti che religio­ ni e filosofi additano come futuro compenso alla prova della vita; dall'alto proiettano uno sguardo che ha per limite soltanto la cur­ va dell'orizzonte. Essi sono la metafora della gioia nel palpito vi­ tale dell'universo. Avere le ali! Prerogativa suprema che l'imma­ ginazione umana ha donato alle creature angeliche, nelle quali es­ sa vagheggia di avere un tramite con il divino. L'ingegno versati­ le dell'uomo e la sua folle arroganza hanno pur escogitato gli arti­ fici per reggersi nell'aria: ma che goffa parodia dell'ilare levità che appartiene agli esseri nati per volare! Meglio sognare da lon­ tano la loro ebbrezza di luce e di spazio con la fantasia della paro­ la, sfruttare il privilegio con cui i sommi reggitori hanno ripagato l'uomo del dono dolce-amaro di bramare l'impossibile. «Io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.» Cosl ter­ mina l'Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi, sospirando l'uni­ ca metamorfosi che gli uomini sarebbero unanimemente disposti a subire con gioia; e la figura dell'uomo-uccello è l'immagine in cui I' arte ha prestato la sua particolare realtà al loro sogno. Il Vo­ gelfiinger Papageno ha, oltre che piumaggio2, spirito d'uccello; e il

1 2

Maxime du Camp, in G. Flaubert, Voyages (Siout, 27.2.1850). Mozart·Schikaneder, Die Zauberflote, A. I, se. 3: Tamino: Ich zweifle ob du Mensch bist. Papageno: Wie war das? Tamino: Nach deinen Federn, die dich bedecken, balte ich dich Papageno: Doch /iir keinen Vogel?

-

X

DARIO DEL CORNO

disegno estroso e vagabondo del suo canto è immedesimazio­ ne profonda nella natura delle sue tenere vittime. È l'istinto ar­ cano e primordiale del volo che Virginia Woolf desta in Orlan­ do, allorché errante in solitudine ha raccolto sei penne di corvo: «Una penna ancora tremolò nell'aria, cadde nel mezzo dello sta­ gno. Allora una strana estasi invase Orlando. L'assall un selvag­ gio impulso di seguire gli uccelli fino all'estremo limi tare del mondo». Condividere l'esistenza degli uccelli è una nostalgia antica quasi quanto la poesia stessa. Agli albori della lirica corale del­ l'Ellade le aveva dato fantastica espressione un passo celebre di Alcmane: «Fossi, oh fossi il cerilo che sopra il fiore dell'onda vola insieme alle alcioni, con intrepido cuore!». Quest'anelito nasceva dalla consapevolezza della propria fragilità senile: tra il malinconico e il giocoso, il sospiro del vecchio poeta era un im­ possibile rimpianto di giovinezza, non disgiunto fors'anche da una coloritura erotica; ed esso suona come la trasposizione in termini soggettivi di un impulso universale, ridotto a segno del­ l'irreversibile fuggire del tempo. Ma altre dimensioni si conquista il motivo quando sarà la tragedia a riprenderlo, nei versi di Euripide. Con il lamento del­ l'alcione rivaleggia il coro delle prigioniere greche nell'Ifigenia fra i Tauri, «uccello senz' ali» che leva il compianto sulla patria per­ duta; ma esso poi immagina di ripiegare le sue penne frementi dopo il volo che lo renderà alla sua casa e alla sua terra. Altre prigioniere, il coro deli'Elena, vorrebbero alzarsi nel cielo come le gru, o almeno affidare ad esse il loro messaggio, che lo procla­ mino alle rive dell'Eurota. Ma esiste anche il tragitto inverso; non più un ritorno altrimenti vietato, ma la fuga dalla propria dimora, quando è in essa che si annida il dolore. Trasformarsi in uccello alato per raggiungere l'Adriatico e le rive del Po, dile­ guarsi ai confini del mondo, presso Atlante e i giardini delle Esperidi: sparire da Trezene dove le donne del coro dell'Ippolito sono nate e hanno la loro vita, non vedere la disperazione di Fe­ dra, la sua morte che non si può evitare! 1 La metamorfosi in uccello realizza la sua valenza definitiva nello spazio: nell'uno e nell'altro percorso essa diventa l'emble-

1 Rispettivamente, Euripide, Iph. Taur. 1089 sgg., 1137 sgg.; Hel. 1479 sgg.; Hipp. 732 sgg.

INTRODUZIONE

XI

ma dell'evasione. Il topos percorre tutto il teatro di Euripide 1, come un motivo fertile di effetti decorativi, ma soprattutto co­ me il sintomo di un disagio della realtà, che si traduce in spasi­ mo di lontananza. Staccarsi dalla terra: dalla miseria di una fru­ strazione o di uno scoramento contingenti, ma anche da una condizione di natura onde è vietata all'uomo la felicità che egli intuisce di meritarsi, e da cui dolorosamente si vede escluso. È questo dramma dell'esperienza che costituisce il cuore della tra­ gedia; ed esso ne ispira anche gli sviluppi episodici, come l'aneli­ to di sottrarsi a questa dannazione assimilandosi alle creature dell'aria - ma è ancora l'esperienza che brutalmente lo proclama irrealizzabile. Ma c'era, per fortuna, la commedia. In essa si schiude il ter­ ritorio solare, dove alla contemplazione dell'impossibile è dato di violare i brumosi confini del sogno per assumere, nel luogo ed entro la durata dell'evento scenico, i connotati di una realtà con­ creta e al tempo stesso arbitraria quanto i prodotti dell'immagi­ nazione. Con un'adesione totale Aristofane s'impossessa della verità profonda che aveva trovato voce nei balenanti aneliti eu­ ripidei - al punto che, eccezionalmente, negli Uccelli il poeta tragico esce immune dai lazzi consueti del suo denigratore-ammi­ ratore. Tuttavia l'impresa di prendere come tema della comme­ dia un motivo che trascendeva la prospettiva municipale d'Ate­ ne per raggiungere la portata di un sovvertimento cosmico non era facile2• Trasformare degli uomini in uccelli, fare di questi la potenza egemone del creato: che cosa significava, al livello della realizzazione scenica e a quello dei valori artistici e concettuali? Era necessario inventare una serie di peripezie significative, sotto entrambi gli aspetti. Occorrevano un viaggio, per trasmi­ grare dai panorami terrestri a uno spazio che è il vuoto; un in­ termediario, l'Upupa, che avesse già sperimentato il trauma della doppia natura di uomo e d'uccello; un'iniziazione, in cui alla pa­ rola e alla ragione umana fosse conferito il compito arduo di sco1 Prima e dopo gli Uccelli, come si evince dagli esempi sopra citati. Cfr. inoltre Med. 1297, Her. fur. 1157 sg.; Supp. 620 sgg.; Or. 982 sgg. (dove peraltro la metamorfosi in uccello è implicita, mentre in Phoen. 163 sgg. il motivo del volo si risolve nell'augurio

di trasformarsi in nube). Una commedia intitolata Uccelli era già stata composta da Magnete (1, p. 8 Kock): di essa resta soltanto il titolo, con ogni probabilità derivato dal coro, ma sembra da esclu­ dersi che il suo tema anticipasse quello aristofaneo. Il titolo è attestato ancora per l'e­ nigmatico Cratete junior menzionato dal Lessico Suda (PCG IV, p. lll). 2

XII

DARIO DEL CORNO

prire il punto d'intersezione e d'integrazione fra le due nature; un canto, che trasportasse nella musica inventata dall'uomo i trilli prodigiosi di cui traboccano l'aria e le selve. S'imponevano un annientamento radicale dell'ordine antico, e il progetto rivo­ luzionario di un mondo nuovo; la strabiliante, fulminea edifica­ zione di una sede che fosse baluardo e simbolo del potere riven­ dicato e conquistato; la destituzione del sovrannaturale preesi­ stente. Soprattutto era necessario travestire l'assolutamente fan­ tastico nelle strutture del rigorosamente reale - obbligo indero­ gabile per il genere comico -; e abbracciare in un'appassionata apologia l'esistenza che sarà il modello del vivere futuro, amare gli esseri lievi e irresponsabili che essa soltanto conoscono, in­ tendere il senso per cui la loro vita s'oppone ai logori costumi della terra. Nella commedia s'articolano cosl diversi piani - a cominciare da quelli, non coincidenti, del poeta stesso che dall'esterno pre­ sta all'autonoma natura degli uccelli il tono di un encomio asso­ luto, e di Pisetero che nel corpo dell'azione li avvilisce a stru­ menti di una palingenesi pur sempre attinente in prima istanza alla società degli uomini. Il risultato è la più complessa e proble­ matica fra le commedie di Aristofane. Forse anche la più bella, o comunque la più fascinosa: quella in cui il genuino spirito dioni­ siaco, ammaliatore della mente umana, opera con tanta energia da stendere sul teatro il velo di un incantamento totale, fin dal momento in cui due vecchietti fuggiaschi da Atene fanno la loro comparsa sulla scena ...

II Due vecchietti fuggiaschi da Atene fanno la loro comparsa sulla scena del teatro di Dioniso nella primavera del 414 a.C.1 La cit­ tà sta vivendo un momento strano, sul filo dell'esaltazione e del­ lo sgomento. La guerra contro Sparta, almeno formalmente, son­ necchia all'ombra della precaria tregua conclusa da Nicia nel

1 Come avverte la didascalia, gli Uccelli furono rappresentati nelle Dionisie urbane di quest'anno con la regia di Callistrato, e ottennero in suo nome il secondo posto. Vinci­ tore riuscl Amipsia con i Komastai (di cui rimane soltanto il titolo), forse da mettersi in rapporto con l'episodio delle Erme. Terzo fu Frinico con il Monotropos (frr. 17-25 Kock), in cui la fuga del protagonista dalla società era pure motivata dallo scontento e dal disp,usto per la vita pubblica di Atene all'epoca della spedizione di Sicilia.

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421; ma nell'estate precedente una colossale spedizione è salpata dal Pireo verso la Sicilia, alla conquista dell'Occidente. L'ha fer­ mamente voluta Alcibiade, l'indecifrabile eroe della rovina ate­ niese, con la promessa di trasformare Atene nella potenza ege­ mone del Mediterraneo, ossia dell'ecumene; e l'assemblea gli ha creduto, soffocando le perplessità del cauto Nicia. Alla vigilia della partenza, l'orrore di un sacrilegio aveva squassato la popo­ lazione: la decapitazione delle Erme, truce affare di terrorismo ideologico-politico, ovviamente destinato a rimanere un mistero per i contemporanei e per i posteri. Il presumibile obiettivo, la destituzione di Alcibiade, era comunque raggiunto; e il mancato condottiero era fuggito - a Sparta! - eludendo la nave di stato, dal nome falsamente augurale di Salaminia, inviata sulla scia del­ la sua flotta per tradurlo in patria verso l'inchiesta e il probabili! processo per empietà. Il presagio suonava nefasto; ma già c'era stato qualcuno a de­ precare l'impresa, per ben più alte ragioni. Tra la fase della deci­ sione e la sua realizzazione, Euripide aveva portato sulla scena le Troiane, impavida ripulsa dell'imperialismo e straziante epicedio sulle sue vittime. E una pagina memoranda di Tucidide descrive gli opposti sentimenti che tumultuavano nella folla allo spettaco­ lo della partenza: l'entusiasmo per la grandiosità dell'apparato bellico, ma anche il timore e le lacrime - puntualmente giustifi­ cate, a posteriori, dal disastro che cancellerà l'invincibile armata nel 413. E di n a poco sarebbe ripresa anche la guerra sul terri­ torio stesso dell'Attica, invaso dai formidabili opliti spartani. Quale risonanza trovino, negli Uccelli, questi umori alterni di speranze e di angosce, non è agevole precisare: certo, a livello esplicito non ricorre che qualche allusione di colore neutro - e siffatta reticenza sorprende. Non dovrà allora riconoscersi nello stesso impero universale di Nubicuculia l'eco profonda di un progetto che mirava ad istituire oltremare uno stile di dominio finora estraneo al particolarismo statale della Grecia? L'ipotesi è stata variamente suggerita e confutata; e in effetti viene da chie­ dersi se Aristofane potesse esigere dal suo pubblico la decifrazio­ ne di un'allegoria a tal punto criptica, da escludere qualsivoglia indizio diretto del proprio intendimento. E d'altra parte: è pos­ sibile che il poeta opponesse tanto riluttante sordità a un even­ to di quell'importanza e risonanza? Non resta che imputare la sfingea refrattarietà del testo a una scelta calcolata: forse al

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rifiuto di fare del disfattismo in antlctpo, pure nella disillusa preveggenza che le ambizioni dell'impresa fossero, appunto, cam­ pate per aria. Resta il fatto che i due Ateniesi fuggono dalla loro città: per­ ché? Qui il testo non può esimersi da una prima risposta: il di­ sgusto dei processi, dietro cui si cela il tedio ormai patologico per l'attivismo di una politica deteriore e per la corruzione che inquina la vita pubblica. Ma questo dato esplicito si risolve in una più generale tendenza della commedia attica, o quanto meno aristofanea: se la tragedia esprime l'aspirazione - perdente - a trascendere la condizione di uomo, il genere comico rappresenta la via per liberarsi dalla condizione di Ateniese. E vince, perché è dall'hic et nunc di «quella» Atene che l'eroe comico vuole ri­ scattarsi; ed è sempre possibile fondare un'«altra» Atene, nel cuore stesso dell'Attica o in mezzo alle nuvole. Non c'è contrad­ dizione fra l'indomito amore di Aristofane per l'immagine ideale della sua città, e la ripugnanza che la lebbra del presente gli ispira. E tuttavia: Nubicuculia è davvero quella città ideale, la mis­ sione che Atene ha tradito? Alla conclusione del dramma non fi­ nisce per trovarsi, insieme al suo fondatore, troppo simile - al li­ mite del ricalco - alla realtà terrena che si voleva esorcizzare? Commedia problematica fra tutte, gli Uccelli, si diceva: e la cri­ tica si compiace di assalire le contraddizioni che minerebbero l'organicità dell'apologo. Vediamo: all'inizio i due compari si ti­ promettono soltanto di individuare grazie agli uccelli, creature d'ampi voli e di lunga vista, una città dove la vita scorra senza l'assillo della politica totale, fra le delizie della gola e del sesso. Ma poi il loro progetto subisce una svolta improvvisa: perché non costruire una città siffatta proprio lì tra le nubi, e dare una sede agli errabondi abitanti dell'aria? Ed ecco che il progetto su­ bito si snatura: altro che paradiso di pace e piaceri! Ci sarà da recuperare il dominio del mondo, che nei primordi possedevano gli uccelli; e la città nasce già in assetto di guerra. A questo pun­ to però essa non appartiene più agli uccelli, ma all'uomo che ha trasformato la loro ilare anarchia in un falansterio: Pisetero. Non ci vuol molto ad accorgersi che da onnipotenti divinità il loro rango è scaduto a quello di sudditi del nuovo signore. Poco conta che egli scacci i postulanti che aspirano a introdurre lo sti­ le di vita e di governo ateniese nella città celeste: è da terrestre

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che Pisetero intende ed esercita il potere. Agli uccelli viene im­ posto di aiutare, sulla terra, gli uomini e persino di corroborare il compromesso con gli dèi tradizionali, punendo gli empi e gli spergiuri: la loro sovranità è ridotta a una vuota illusione. Infine - estrema irrisione! - il benefattore tramutato in tiranno s'im­ bandisce un succulento arrosto di uccelletti sorpresi a cospirare contro la democrazia. E allora, non siamo di nuovo in Atene? Un cumulo d'incongruenze, certo: senza neppure l'attenuan­ te di mettere a disposizione dei dotti lo spasso di fiutare fasi di­ verse di stesura e tracce di rimaneggiamenti, come accade in al­ tri casi. Di qui lo scandalo, e però anche il rimedio: escogitare che questo apparente caos risponda in realtà a una precisa inten­ zione compositiva e ideologica. Si è tentato cosl di dimostrare che, nella progressiva degradazione del piano originario, Aristo­ fane volesse descrivere simbolicamente la storia inevitabile del potere, della sua conquista e delle aberrazioni che l'accompagna­ no, proiettandovi in controluce le proprie nostalgie di reaziona­ rio avvinto a una visione idillica del passato. Ma la seriosità a ol­ tranza è un condimento indigesto per Aristofane, un allappante fastidio; e all'istante quale sollievo par di trovare nell'opposto fronte critico! Si leggano gli Uccelli in chiave di evasione verso i puri reami della fantasia, come surreale libertà dell'arbitrio e del gioco, sublimazione dell'esperienza quotidiana nel riso - e cosl tutto diventa legittimo. Con il rischio, tuttavia, che il refrigerio dell'acqua fresca dilegui senza lasciare segno alcuno, quando sif­ fatti parametri non s'approfondiscano nell'indagine storica della forma teatrale e nell'intrinseca natura del genere comico, oltre che nell'interiorità artistica del drammaturgo. Sarà allora il caso di rigettare la pretesa di una coerenza orga­ nica e assoluta come un arbitrio confutato dalla vicenda del tea­ tro antico: e non soltanto della commedia. Addirittura posteriori agli Uccelli, due tragedie come Filottete e Edipo a Colono di Sofocle, si badi, non del preteso eversore della forma tragica Eu­ ripide - attestano l'insopprimibile tendenza a costruire il dram­ ma, per cosl dire, «a pannelli»: ossia per scene relativamente au­ tonome, al punto di ammettere discordanze e sfasature sia nel rapporto causale degli avvenimenti sia sul piano della Stimmung di situazioni e personaggi. In modo naturalmente più flagrante, secondo quanto legitti­ ma la dimensione comica, negli Uccelli ogni successivo passaggio -

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annulla le tappe precedenti. Ciascun episodio si trova a sviluppa­ re una nuova e peculiare situazione, e ne sfrutta gli specifici ef­ fetti, per poi passare la mano alla prossima situazione cui condu­ ce la capricciosa inventiva dell'autore. Cosl non dovremo più cercare la festosa immagine del paese di Cuccagna che apre la commedia, una volta che essa abbia esaurito le sue potenzialità; né quella del libero regno degli uccelli, quando ad essa subentri un altro motivo fertile di inediti spunti. La trama comica si rin­ nova di continuo, bruciando i residui che l'hanno condotta al punto in cui di volta in volta si trova. Restano un protagonista, proteiforme com'è proprio dell'uomo lungo gli accidenti della vi­ ta; e un'idea portante, quella di un individuo che, trasferito in un oltremondo fantastico, ne esplora successivamente ogni occa­ siOne. Quest'esplorazione è illuminata dalla legge suprema del gene­ re comico: il ridicolo che scaturisce dal paradosso, e si ritorce in meditazione sul destino umano. Ecco perché Pisetero manda ar­ rosto gli uccelli eversori: non perché si dimostri l'orrida logica del potere, ma per la ragione diametralmente opposta: perché è assurdo che sia proprio lui, l'antesignano della loro gloria, ad agire cosl. Fa ridere - e però anche qualcosa di più. Un poeta comico sa che affrontare l'assurdo è il suo successo, e allo stesso tempo la sua più alta nobiltà, la verità del suo mestiere: perché la commedia rappresenta la vita, e la vita è assurda. L'arrosto di uccelletti è soprattutto una risata - ed è anche una metafora, purché la si assuma nell'universalità del suo significato: la meta­ fora di quell'assurdità che è l'esistenza tutta. Qui occorre scopri­ re - non la serietà - il dolore di Aristofane: quello di un Grock meraviglioso che ride e piange, e non si sa se rida o pianga, e par di sentirgli dire, come al fantoccio di neve con gli occhi di cipol­ la: «Vi divertite? Buon divertimento. Io piango per tutti voi» 1•

III «Erewhon», letto pressappoco a rovescio nowhere: ma il roman­ zesco «nessun posto» di Samuel Butler, pur senza arrivare alla parola cruciale utopia - da où-'t61toc;, secondo il conio di Tomma­ so Moro -, è stato Aristofane a inventario, negli Uccelli. Pisete1

E. Montale, La statua di neve, in Farfalla di Dinard.

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ro ed Evelpide arrivano in una contrada all'apparenza come ogni altra: ma situata in un luogo che non c'è. Vanno in cerca di un mondo migliore; e allora, quale situazione più adatta di questo non-luogo per crearselo? Nel paese che non esiste vivono gli uc­ celli, dunque esso è in un certo senso il cielo: polos. Basterà po­ co, lo scambio di una lettera, a tramutarlo in polis, la città. Condizione di ogni realtà è dunque la parola, quella degli uo­ mini: anche gli uccelli l'hanno imparata dall'upupa che una volta fu Tereo. L'oroscopo è maligno, fa intuire che l'illusione della palingenesi durerà poco: nella nuova città ricompariranno fatal­ mente gli idoli umani del possesso e del potere a cui si voleva sfuggire. Ma il cerchio non si chiude del tutto: agli uccelli resta­ no pur sempre le ali, il volo - l'emblema della libertà assoluta. Il mondo nuovo manterrà la loro impronta nella libertà della paro­ la, nel nonsense. In quest'universo può succedere d'imbattersi in un albero disertore, Cleonimo: al nuovo linguaggio è dato di sot­ trarsi al carcere perverso della logica umana. Il nonsense è il mi­ gliore dei mondi possibili, o forse l'unico ancora possibile: è la premessa e insieme la conseguenza di Utopia, l'uno e l'altra sono l'ultimo rifugio di fronte al disastro della società. Eppure la disperazione che sta alla radice dell'assurdo lascia trasparire un impervio bagliore, che è una memoria e fors'anche una speranza. Il paradosso dell'utopia e del nonsense non è la ne­ gazione occasionale di uno specifico qualcosa, la sua totale con­ sequenzialità ha un eroismo visionario. Qualora si adottino i pa­ rametri della civiltà, esso è il segno del nulla, da cui è vinto an­ che Zeus, il dio delle cose come sono quando hanno un nome: il reggitore della storia. Al piano della storia soggiace Pisetero, che non può evadere dalla sua natura e cultura di uomo: ma in Uto­ pia cantano gli uccelli, e creano un altro piano. Allorché Pisetero alza la sua proterva cinta di mura, nuova Babele, Utopia cessa di esistere, diventa un luogo come tutti gli altri: ma il canto degli uccelli ne ha ormai istituito il paradigma, ne eterna l'aspirazio­ ne. E questo nulla diventa qualche cosa di enorme, l' antistoria. Gli uccelli non nascono, né muoiono. Essi sono sottratti alla maledizione dell'esistenza individuale, la loro misura del tempo è l'eternità della specie: la negazione del tempo. Lo proclamerà Keats, nell'Ode a un usignolo: «Tu non sei nato per la morte, uc­ cello immortale! l Non ti calpestano affamate generazioni; l la voce che odo in questa notte fugace fu udita l in giorni antichi

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dall'imperatore e dal contadino». Ma l'intuizione dell'antico gre­ co ha un sapore più genuinamente vitale, s'addentra nel profon­ do di un'opposizione ancora gravida di senso: non è la contem­ plazione estenuata, pure se espressa in tensione d'alta poesia, del pathos insito al transeunte. In essa risuona un potente appello dinamico: la trepidazione di chi intuisce l'umanità alla soglia di un trapasso decisivo, e paventa che questa soglia sia varcata, ir­ revocabilmente. L'esistenza senza tempo degli uccelli è paradigma di una di­ mensione della natura, che si rivendica come antidoto alla maci­ na spietata della storia. Il richiamo a una vita secondo le leggi e i ritmi dell'universo si contrappone alla corruttela disastrosa susci­ tata dalla volontà d'affermazione, che è stata il retaggio della scoperta dell'individualità. Esso confuta il possesso, il potere, e poi il gioco duro della politica, la chimera del progresso - la cit­ tà, coagulo della degradazione, mostruoso artificio che annienta la primigenia solidarietà con le forze e i cicli della terra. La natu­ ra è orientata dalla norma della ciclicità del tempo. Nel segno della specie, garantita da un tempo ciclico anziché lineare come quello umano, gli uccelli si confrontano con gli uomini nella ful­ gida apertura degli anapesti della prima Parabasi: loro, gli im­ mortali, liberi, autenticamente reali, al paragone con gli indivi­ dui, ombre di sogno, smorti fantasmi della durata di un giorno. E una fantastica Cosmogonia segue a dare immaginosa ragione di questo privilegio, rivendicando la primordialità assoluta della razza degli alati: discesi da Eros e dal Caos in un asessuato, non più che simbolico accoppiamento, che precede ed esclude il pro­ cesso generativo da cui trae origine l'esistenza della persona. Non che, beninteso, si voglia gravare Aristofane di tempra, né tanto meno d'intenzioni di filosofo - a rischio di ricadere in quella seriosità esegetica di cui s'è denunciato l'indigesto tenore. Ma è innegabile che in lui s'agiti una visione drammatica del presente, dei guasti che l'arroganza della volontà individuale sca­ tena nell'umanità, scrutinata allo specchio del suo ombelico, Atene 1• Questa visione sommuove una nostalgia di poeta, e in­ sieme la forza di esorcizzare l'orrore dell'attualità in una metafo-

1 Il peso della realtà straniata e stravolta che imperversa in Atene è sottolineato in un recente saggio di E. Corsini,