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Italian Pages 176 [131] Year 2018
Riccardo Panattoni Giorgio Agamben La vita che prende forma
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2018 da prima edizione in “Eredi” marzo 2018 Ebook ISBN: 9788858831281
In copertina: illustrazione di Alberto Fiocco. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Una nota
Nel preambolo al suo L’uso dei corpi, il libro che chiude la ricerca complessiva di Homo sacer,1 Agamben ricorda che un’opera, sia questa di poesia come di pensiero, non può mai considerarsi davvero terminata; tutt’al più essa può chiedere al suo autore di essere abbandonata all’autonomia del proprio destino. E rispondere a questa richiesta non è un gesto di disaffezione o di stanchezza, di rinuncia dovuta alla consapevolezza che rispetto a ciò che si è scritto non si è più capaci di andare oltre: è piuttosto qualcosa che si avvicina a un atto d’amore, è forse l’unico vero gesto di profonda attenzione per il momento della nascita dell’opera stessa, per la sua inaspettata originalità. Tra l’opera e l’autore esiste d’altronde, fin dall’inizio, una tensione, che non si risolve con il trascorrere dei giorni dedicati al lavoro, al desiderio di rispondere all’urgenza che in quell’opera si sente aver preso forma, perché in fondo l’urgenza non può che mantenersi tale. Almeno finché lascia intendere l’intensità del suo timbro. Essa si conserva nell’ordine dell’intuizione e della veggenza, e l’opera che nel frattempo si va costituendo non è altro che un paziente lavorio di cucitura, che non può che continuare a girare intorno ai lembi aperti da quell’urgenza. Abbandonare l’opera comporta allora una doppia separazione: significa separarsi dal lavoro quotidiano intorno al suo darle forma e significa anche separarsi dalla propria urgenza, lasciare che qualcosa di sé sopravviva senza che questa contraddizione del tempo – l’ordine dei giorni contrassegnato da un’impellenza non facilmente contenibile – si sia potuta risolvere. Così l’opera, anche nel momento in cui sembra aver raggiunto la propria autonomia, rimane comunque in attesa di essere eventualmente continuata da altri. Il timbro di quell’urgenza diventa un tono di fondo che essa assume in sé, e fa sì che l’opera chieda un incontro a qualcuno che non potrà mai conoscere il segreto dei suoi giorni; qualcuno che, tuttavia, soltanto in quell’incontro, che continuerà a rivelare il proprio mancare a se stessa dell’opera, ne potrà ereditare il destino. Così, come lo stesso Agamben riprende in Che cos’è l’atto di
creazione?,2 dopo tanti anni passati a leggere, scrivere e studiare, accade di capire quale sia il proprio modo speciale di procedere nel pensiero e nella ricerca. Per lui consiste nell’introdursi in una “capacità di sviluppo”, come la definiva Feuerbach, contenuta nell’opera degli autori che ama. Raccogliere l’opera ormai abbandonata da questi autori e saperne sviluppare quegli elementi che sono rimasti o sono stati volutamente lasciati non detti. È un tendere a una forma di familiarità (come scrive Maurice Blanchot)3 con dei contenuti senza intaccarne l’estraneità, un riferirsi al tutto mediante l’esperienza stessa dell’interruzione dei rapporti. Significa ascoltare il momento unico in cui accade di prendere la parola sulla parola dell’altro. Viene in questo modo a determinazione uno scrivere che si fa misura dell’incommensurabile voce dell’altro e l’assenza di relazione si trasforma in un reale rapporto a più voci. Scrivere sulle parole dell’altro significa allora mantenere, nella pluralità essenziale della parola, una necessaria discontinuità. Consentire alla propria espressione di prendere forma non comporta infatti dire in altre parole il medesimo, quanto piuttosto ribadire lo stesso orizzonte di senso restando al contempo sulle tracce di una disuguaglianza che permetta alla ricerca di procedere. Sulla dissimmetria e irreversibilità di ciò che è stato detto prorompe in questo modo una pluralità di voci che mantiene in atto un implicito rapporto d’infinità, un movimento ininterrotto orientato alla ricerca di una nuova capacità espressiva. Il flusso continuo della scrittura lascia così lo spazio a un intervallo, a un’interruzione, che permette di evidenziare come il linguaggio posto nell’interrogazione del proprio senso sia già di per sé un linguaggio interrotto, o, ancor meglio, come tale linguaggio mantenga sempre in sé il vuoto irriducibile del proprio cominciamento. Accade dunque che in questa apertura inaugurale si arrivi fino al punto in cui non è più possibile distinguere a chi appartengano realmente le parole che vediamo susseguirsi nell’espressione a cui stiamo dando forma: appartengono a noi o sono piuttosto un ritorno della voce dell’altro, voce a cui stiamo dando parola? Perché è proprio questo il movimento paradossale che mettiamo in atto: siamo noi a dare la voce alle parole che dicono la voce dell’altro, a dare suono a quei segni impressi nella stampa che necessariamente sono risuonati anche in un altrove impossibile da conoscere. Si crea così ogni volta una tensione indecidibile tra lo stile e il timbro della voce; se infatti lo stile appartiene all’espressione dell’altro, il timbro è ciò che
di quello stile si ripercuote in colui che lo evidenzia con la propria voce. È come se lo stile dell’altro ottenesse un suono che lo differenzia da se stesso sul timbro della voce che gli permette in quel momento di essere; allo stesso modo, il timbro della singolarità della voce che legge è come se vibrasse differentemente grazie allo stile che lo fa nascere come una pura novità, lo fa esistere in quel modo solo grazie all’esistenza di ciò che ha incontrato nel campo dell’altro. Tensione che lascia affiorare il fondo di un tono impersonale che confonde l’annodarsi di un incontro, pur mantenendo in evidenza le singolarità, è l’aprirsi di una zona indifferenziata in cui ogni pretesa d’autore o di originalità viene meno, riempiendoci di gioia. Non si tratta necessariamente, almeno per chi ora sta scrivendo, di proseguire il lavoro di ricerca di un autore che si ama, è piuttosto un permanere in prossimità delle opere di alcuni autori che si desidera tenere vicini, affinché la propria urgenza trovi finalmente udienza, abbia un proprio spazio dove soggiornare, si riconosca in un rizoma all’interno del quale muoversi, spostandosi con destrezza da una stanza all’altra di quella tana sotterranea. Perché rispetto a qualsiasi punto in cui ci si trovi nel rizoma c’è sempre una stanza accanto,4 una soglia d’intensità da varcare senza che sopraggiunga alcuna idea di via di uscita; può capitare semmai di sorprendersi nel trovare una stanza di cui non si conosceva l’esistenza e all’interno della quale siamo a nostro agio, come in una tana che, pur senza averne avuto piena coscienza, abbiamo contribuito anche noi a costruire. Così, nello spirito della collana in cui il presente lavoro trova la propria collocazione, rimarrà deluso il lettore alla ricerca di un’introduzione al pensiero di Giorgio Agamben o di una monografia impegnata a darne una visione d’insieme, se non addirittura a fornirne una sistematizzazione. L’intenzione che ha mosso la stesura del libro è stata, bensì, quella di far emergere come il prendere forma della vita, il momento aurorale in cui ogni singolarità si trova presa in tutto il motivo della propria componente impersonale, s’intrecci, in modo più o meno marcato, con l’intera produzione di Agamben. Inoltre, da una parte si è scelto di lasciar cadere ogni riferimento diretto alle implicazioni relative alla biopolitica (sebbene così importanti, tanto da avere decretato in buona parte la fortuna internazionale del suo pensiero); dall’altra si è preferito non seguire Agamben nelle argomentazioni all’interno del movimento archeologico da lui abitualmente adottato, per
portare invece i riferimenti teorici acquisiti dal suo percorso su un piano di pura superficie, facendoli poi interagire con alcuni passi, assunti all’interno dello stesso campo tematico, presi da una costellazione di autori contemporanei che per chi scrive si sono rivelati nel tempo essenziali. Si è creata in questo modo una trama, dove i fili, fondamentali, offerti dall’opera di Agamben sono ricamati insieme con i fili costituiti da altre voci; il tutto non solo per dare forma a uno stile, ma per cercare di lasciar affiorare come lo stile che ha preso forma sia, almeno per chi scrive, una proposta di che cosa significhi fare filosofia. Note 1
La ricerca si sviluppa nei volumi: I, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; II, 1, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003; II, 2, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino 2015; II, 3, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma-Bari 2008; II, 4, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007; II, 5, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Neri Pozza, Vicenza 2012; III, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998; IV, 1, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011; IV, 2, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2015. 2 Giorgio Agamben, Che cos’è l’atto di creazione?, in Id., Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014. 3 Maurice Blanchot, L’Entretien infini, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977. 4 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Minuit, Paris 1975; tr. it. Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
Una vita del tutto personale
Nel già citato preambolo a L’uso dei corpi Agamben invita a soffermarsi sulla contraddizione che emerge quando Guy Debord analizza la vita privata: mentre, con estrema lucidità, ne mette in luce tutta l’insufficienza, al tempo stesso conserva la convinzione che l’esistenza di ciascuno, così come quella di ognuno dei propri amici, preservi qualcosa di unico e di esemplare che dovrebbe essere ricordato e comunicato. Questa contraddizione, a cui i situazionisti sembra non abbiano trovato soluzione, per Agamben rimane un passaggio prezioso che chiede ancora di essere pensato. L’incommensurabile clandestinità a cui soggiace la nostra vita privata, presa in tutti i suoi risvolti, anche quelli più ridicoli, sembra presentare un passaggio essenziale per cogliere il legame costitutivo che persiste tra la politica e la vita. Si potrebbe anche pensare di ricostruire una unicità della vita che ne certifichi l’esclusività, magari documentandone i punti salienti o i momenti ritenuti topici, ma ciò che in realtà è da ricercare è piuttosto la singolarità impersonale della vita stessa, l’unica in grado di metterne in evidenza tutta l’esemplarità. È proprio in questo punto preciso, però, che si evidenzia tutta la difficoltà nel dare adeguata espressione a tale esemplarità, perché ogni puntualizzazione si rivela in effetti del tutto insufficiente a restituire l’inapparente intimità di una vita. È il tema che Gilles Deleuze affronta nel suo ultimo scritto, L’immanence: une vie.1 Potremmo dire che riprendere la singolarità di una vita significhi aprirsi a un campo trascendentale come a una pura corrente di coscienza a-soggettiva, a una coscienza pre-riflessiva, impersonale, una coscienza senza io e che tuttavia mantiene ogni tratto di quella singolarità. Così, per quanto la tensione tra queste due affezioni di sé, l’impersonale e la singolarità della vita, possa costituire un intreccio, ciò che conta rimane il passaggio dall’una all’altra, in grado di farsi sentire come un aumento o una diminuzione delle corrispettive soglie d’intensità; significa in altri termini dare espressione a tutta la portata permanente di una qualità virtuale della vita.
È lo stesso orizzonte tematico di Agamben quando chiede di pensare il virtuale come uso,2 come ciò che sta al di là della dicotomia tra essere e prassi, tra sostanza e azione. Il virtuale non è infatti ciò che si oppone al reale, ma piuttosto – ritornando ancora al testo di Deleuze – la pura immanenza di una vita. Questa singolarità, assunta nell’impersonalità del suo articolo indeterminativo, afferma che vi è sempre un’immanenza dell’immanenza, una soglia d’intensità che non si lascia definire nei suoi confini e nella sua struttura, ma su cui ogni soggettivazione permane attraverso l’uso del proprio corpo come pura potenza, completa beatitudine. Certo, questa forma-di-vita, afferma Agamben, risulta esserci così intima e vicina che se provassimo ad afferrarla non ci lascerebbe tra le mani altro che il senso della nostra tediosa quotidianità. È proprio all’interno di questo contrasto che lo stesso Debord sembra muoversi; lui, che era stato così abile e attento nell’analizzare e descrivere le implicazioni inerenti la società dello spettacolo, diventava praticamente inerme nel momento in cui doveva esporre e rendere evidente la forma della propria vita, quando cioè doveva fissarla in volto per sfatare, prosegue ancora Agamben, il clandestino con cui aveva condiviso fino all’ultimo il viaggio nella singolarità della propria vita, contrassegnata, ogni volta, da questo tratto indeterminativo. Quella che si dipana nell’ordine dei giorni è un’intimità con un essere destinato così a rimanere in noi nella sua particolare estraneità,3 e quel che importa non è tanto cercare di avvicinarlo, di farlo proprio, di carpirne sempre più profondamente i segreti, i modi di pensare e di sentire, quanto riconoscerlo ogni volta come tale, lasciarne vivo il respiro. Si tratta di un’estraneità che, pur mantenendosi in tutta la sua inapparenza, non smette mai di farsi sentire, rimane sempre attiva come la percezione di fondo di una non completa aderenza a ciò che ci accade; una potenziale non aderenza nei confronti di noi stessi che aleggia sia nella nostra solitudine, sia quando siamo insieme agli altri. Questo luogo di non-conoscenza di sé non è tuttavia lo spazio della rimozione, non è ciò che sposta e disloca il fondo inespresso di un’esperienza dalla coscienza all’inconscio, dove sedimentandosi essa diventa il sostrato di un passato inquietante, pronto, in qualsiasi momento, a riaffiorare in sintomi e nevrosi. L’intima estraneità con questa zona di nonconoscenza è piuttosto una pratica mistica quotidiana,4 attraverso la quale la singolarità della vita diviene del tutto nostra proprio perché sentiamo come in realtà non ci appartenga affatto.
Qualcosa di molto simile lo ritroviamo in quello che Martin Heidegger, nel suo corso del 1929-1930,5 ha indicato come il sentimento fondamentale della noia, un sentimento che non corrisponde semplicemente in noi a un senso di vuoto nel tempo che scorre. Quando in stazione viene annunciato il ritardo del treno che stiamo aspettando, siamo costretti a doverci intrattenere più a lungo con noi stessi, senza avere la reale possibilità di fare qualcosa di diverso da ciò in cui eravamo già impegnati: non possiamo fare altro che continuare ad aspettare, almeno per tutto il tempo che ci serve per introiettare l’effettiva novità di quell’evento. Eppure, sebbene tutto stia procedendo come prima, la situazione sembra ormai essere mutata, o comunque non riusciamo più a percepirla nello stesso ordine; un senso d’impotenza prende in noi il sopravvento e un fondo di noia inizia inevitabilmente a farsi sentire. Questo sentire è dovuto in parte a un inaspettato prolungarsi dell’attesa, ma soprattutto al fatto che in modo altrettanto imprevisto avvertiamo più forte in noi la presa di quel tempo in cui ci troviamo sospesi. È come se il tempo dell’attesa rivelasse solo in quel momento, e solo a noi, tutta la struttura effettiva della temporalità; è come se di colpo si instaurasse una relazione esclusiva tra noi e il tempo. Sentiamo che quell’evento che ci arriva dall’esterno, e rispetto al quale ci troviamo in una posizione di pura passività, ci pone davanti a un accadimento che sembra invece riguardarci intimamente e che non corrisponde affatto al semplice contenuto di quell’annuncio di cui abbiamo colto perfettamente il significato. È un attimo in cui sprofondiamo in una presenza a noi stessi senza che nulla sia apparentemente cambiato, e accade prima di mettere in campo la nostra capacità riflessiva riguardo all’annuncio di quel ritardo (prima che proviamo per esempio a valutare quali effetti porterà questo dover procrastinare il nostro arrivo, magari decidendo se sia opportuno o meno avvisare chi ci stia eventualmente aspettando). Quando iniziamo a introdurre dei contenuti, riprendiamo la nostra capacità reattiva e induciamo in questo modo la noia profonda ad “addormentarsi”. Secondo Heidegger, cerchiamo costantemente di sfuggire a questo sentimento, che egli definisce come fondamentale, vogliamo rassicurarci del fatto che, se riusciamo a rimanere presenti a noi stessi, possiamo fare come se la noia non esistesse: tutto dipende da quanto ci lasciamo avvincere dal nostro stato d’animo. In effetti della noia non vogliamo sapere nulla, anche se questo non significa che non vogliamo averne coscienza, perché in definitiva, scrive ancora Heidegger, lei
è sempre desta e con gli occhi ben aperti; anche se getta il suo sguardo all’interno del nostro esserci da molto lontano, si tratta comunque di uno sguardo che ci compenetra e ci pervade completamente. Lo sforzo che portiamo nei confronti del suo aleggiare consiste nel ricondurre il suo scaturire in noi a un contrattempo e non a un reale sentire l’incidenza del tempo che pur connaturandoci non ci appartiene. Un tempo che porta con sé la forza di un’intensificazione capace di farci sentire tutta l’evanescenza della totale presenza a noi stessi. Un momento in cui l’esitazione si fa pregnante, come se la noia emergesse dal fondo di una nebbia silenziosa. Questo emergere silenzioso dal fondo di noi stessi ci porta a quella particolare esperienza in cui percepiamo come il tratto che maggiormente ci impegna, nel nostro rapporto con il tempo, non sia tanto il nostro sentirlo interno a noi, quanto piuttosto, così almeno ci fa osservare Deleuze,6 il nostro essere interni alla sua struttura: è questa differenziazione per immersione a ingaggiarci effettivamente. Lontani dalla percezione dell’inarrestabile scorrere di una successione cronologica, è proprio attraverso l’esperienza di essere nel tempo che ci troviamo continuamente separati in noi stessi dai termini di questa stessa affezione. È come se la nostra interiorità si trovasse ingaggiata in sé da questo tempo fuori di sé, è come se fosse scissa, tagliata, continuamente sdoppiata, sebbene l’unità della nostra soggettivazione permanga ugualmente in atto; si tratta infatti di uno sdoppiamento, scrive ancora Deleuze, che non va mai fino in fondo poiché, nella sua esteriorità, continua ad attraversare, con differenti gradi d’intensità, la nostra interiorità, in un processo che non ha fine. Siamo presi da una vertigine che impregna tutta quanta la nostra singolarità, determinando in noi un’oscillazione che ci rivela la nostra appartenenza costitutiva e impersonale al tempo di cui siamo fatti parte. Potremmo allora pensare quella nebbia silenziosa che è la noia come un sentimento fondamentale, come quella impersonalità che permane al fondo della nostra soggettivazione connaturandola in ogni suo aspetto, analogamente a quanto accade, per esempio, nella consonanza dei mondi percettivi del ragno e della sua preda. Il ragno, infatti – come ricorda Agamben in L’aperto,7 richiamandosi alle ricerche di Jakob von Uexküll –, non sa nulla della mosca: non può prenderne le misure come fa un sarto con il proprio cliente. Eppure la sua tela è costruita proprio sulle dimensioni del corpo della mosca, i fili che la compongono sono esattamente tarati, nella
loro elasticità, sulla forza d’urto con cui la mosca vi si scontra in volo. La cosa più sorprendente, poi, è che i fili della tela sono commisurati all’occhio della mosca, la quale non è in grado di vederli, e per questo vi rimane impigliata senza neanche accorgersene. Così, sebbene i due mondi percettivi della mosca e del ragno siano del tutto incomunicanti, risultano tuttavia perfettamente accordati, come se l’immagine originaria della mosca, il suo archetipo, svolgesse un’azione su quella del ragno: in questo modo, la tessitura della sua tela potrebbe essere qualificata come “moscaria”. Il vibrare in noi della noia profonda mostra come un’eco dello scuotimento essenziale che all’animale proviene dal suo essere assorbito in un mondo che gli si rivela come non-svelato. Per Agamben, l’uomo che è attraversato dal sentimento fondamentale della noia viene a trovarsi in una situazione molto vicina – anche se si tratta di una prossimità soltanto apparente – allo stordimento dell’animale, così come delineato da Heidegger – che a sua volta si rifà alle ricerche di Von Uexküll – in Die Grundbegriffe der Metaphysik.8 In questa circostanza, uomo e animale, nel gesto che è loro proprio, rimangono rivolti a quello che per Agamben è un essere aperti a una chiusura, completamente consegnati a qualcosa che ostinatamente continua a rifiutarsi. Questo non rifuggire, questo permanere nel proprio sentire di fondo senza la necessità di misurarsi con la forma del suo mero accadere, richiama il modo del masochista di misurarsi con la struttura del tempo, così come delineato da Deleuze.9 Il masochista si mantiene infatti nell’esperienza di una costante attesa e sospensione, la sua azione tende essenzialmente a cristallizzare scene che rispondano poi in realtà all’inaggirabile morosità che gli appartiene. Il suo profilo è quello di chi si sente ingaggiato ossessivamente dalla necessità di ritardare, di rinviare ogni forma di presa d’atto rispetto a qualcosa che appare comunque destinato a realizzarsi, resistendo così alla dinamica della vita che tende in ogni modo a proseguire, ad andare oltre, facendosi una ragione di ciò che ormai è da considerarsi accaduto. È proprio in nome di questa ossessività che la perversione del masochista viene comunemente intesa come una ricerca del piacere che passa attraverso una forma di dolore. Se infatti la forma del masochismo consiste nel mantenersi in una permanente situazione d’attesa, questa chiede di essere vissuta allo stato puro, non come fosse una mera stazione momentanea – necessaria, sì, ma oltrepassabile. Per Deleuze accade così che la forma
dell’attesa del masochista non possa che sdoppiarsi in due flussi simultanei, il primo dei quali rivolto a ciò che il soggetto dichiara effettivamente di attendere e che tuttavia continua a tardare, a non arrivare, a essere, per motivi apparentemente del tutto indipendenti da chi lo attende, sempre rinviato. L’altro flusso invece è rivolto a qualcosa di cui si aspetta l’inevitabile sopraggiungere, l’unico arrivo che davvero possa, nel punto massimo della sua intensità, far finalmente precipitare la presenza di ciò che si dice di attendere. Un tale ritmo di tempo a costante doppio flusso non può che intrecciarsi in una combinazione di piacere e dolore. Dal momento che è proprio il dolore che, arrivando, può consentire la soddisfazione dell’attesa, la realizzazione del proprio piacere, è il dolore a rimanere l’unico reale fantasma del piacere. Il masochista desidera il dolore per far arrivare un piacere che deve rimanere nel suo avvenire; più forte è la capacità di desiderare il dolore, di misurarsi ossessivamente con il suo fantasma, più intenso sarà il piacere della stessa attesa, all’interno della quale ci si vorrebbe perdere per sempre. Il masochista attende un piacere che rimane essenzialmente ritardato e si aspetta di conseguenza il sopraggiungere di un dolore come la condizione necessaria perché sia reso possibile l’arrivo del piacere. Rinvia dunque il piacere per tutto il tempo necessario affinché un dolore, anch’esso atteso, lo renda infine possibile. L’angoscia masochista assume in questo modo la duplice determinazione di attendere infinitamente il piacere aspettandosi intensamente il dolore. Ecco perché, scrive Agamben,10 si dice che la conoscenza, quella suprema, giunge sempre quando ormai è troppo tardi e non ci serve più. È un tono che sopravvive all’esclusività delle nostre opere, forse il frutto più estremo e prezioso della nostra vita, e tuttavia, proprio in nome di questo scorcio temporale, del suo sopraggiungere in un tempo che resta disarticolato dalla sua corrispondenza a un’azione possibile, sembra non riguardarci più, come la geografia di un paese che stiamo per lasciare definitivamente e di cui teniamo soltanto la fugace aleatorietà del paesaggio. Eppure il fatto che si dica rimane abitualmente dimenticato dietro a quel che si dice rispetto a ciò che si è creduto d’intendere, così almeno scrive Lacan in L’Étourdit.11 La frase, sebbene si mostri nell’aspetto assertivo della sua enunciazione, e come ogni enunciato appaia quindi assumibile nella sua forma universale, in realtà si presenta all’interno di una struttura modale, come del resto l’uso
grammaticale del congiuntivo “si dica” mette bene in evidenza. Si tratta di un modo che permette alla frase di prendere forma senza che sia semplicemente riconducibile ai criteri della sola memoria; è piuttosto l’insorgenza temporale di una vita che si evidenzia in tutta la portata contingente della sua sola singolarità. Per questo, riprendendo di nuovo Agamben, la conoscenza sopravviene in un tempo in cui rispetto alla propria opera e alla propria vita non vi è più nulla da aggiungere: rimane soltanto la fugacità di un momento festivo, l’emergere di un vissuto che non chiede altro che il distendersi di un tempo non dato per il proprio constatare che così è stato. Note 1
Gilles Deleuze, L’immanence: une vie, in Id., L’Île déserte. Textes et entretiens 1953-1974, Minuit, Paris 2002; tr. it. L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Einaudi, Torino 2004. 2 Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, cit. 3 Giorgio Agamben, L’idea di prosa, Quodlibet, Macerata 2013. 4 Giorgio Agamben, Genius, in Id., Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005. 5 Martin Heidegger, Der Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, in Id., Gesamtausgabe, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt am Main 1983, voll. 29-30; tr. it. Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il Melangolo, Genova 1992. 6 Gilles Deleuze, Sur quatre formules poétiques qui pourraient résumer la philosophie kantienne, in Id., Critique et clinique, Minuit, Paris 1993; tr. it. Quattro formule poetiche che potrebbero riassumere la filosofia kantiana, in Id., Critica e Clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996. 7 Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 8 Martin Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt –Endlichkeit – Einsamkeit, in Id., Gesamtausgabe, cit. 9 Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch. Le froid e le cruel, Minuit, Paris 1967; tr. it. Il freddo e il crudele, SE, Milano 1991. 10 Giorgio Agamben, Creazione e salvezza, in Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2009. 11 Jacques Lacan, L’Étourdit, in Id., Autres écrits, Seuil, Paris 2001; tr. it. Lo stordito, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013.
Una vita del tutto impersonale
Nel saggio Sull’impossibilità di dire Io,1 riprendendo i due progetti di prefazione che Furio Jesi aveva improntato per la raccolta La macchina mitologica,2 Agamben sottolinea come, nel secondo progetto, Jesi sembri scusarsi per avere a volte presentato le sue ricerche come formulazioni teoriche di carattere generale e sistematico. In realtà per Agamben Jesi si trovava impegnato in una complicata operazione mimetico-teatrale in cui l’autore, come lo stesso Jesi scrive, aveva assunto, per mimesi, le sembianze e il comportamento dello studioso contemporaneo convinto di dire comunque immancabilmente il vero e il giusto, collocando però questo sosia di se stesso, sempre loquente in piena sicurezza, di fianco all’altro suo io, disposto invece, nell’articolazione delle proprie esposizioni, ad accettare soltanto temporanee parvenze di probabilità. Una tensione indecidibile in cui un soggetto sicuro del proprio discorso non poteva che intrecciarsi, come in una trama a doppio filo, con un soggetto non solo carico di tutte le proprie insicurezze, ma profondamente consapevole di non poter realmente corrispondere a quella trama che con sicurezza sembrava trovare la propria limpida esposizione. La presenza delle due voci nell’opera di Jesi non si risolve tuttavia all’interno di una struttura dialettica: sembra piuttosto che il contrappunto di quell’incertezza, di quell’esitazione, di quelle temporanee parvenze di probabilità dell’“altro” autore, risuoni come il vuoto inaggirabile dell’ordito che, con maggiore o minore abilità, si è riusciti a ricamare per dare ordine a quella determinata trama. Per Jesi infatti, nonostante tutta l’insufficienza di ciò che direttamente denotano i due aggettivi, la struttura compositiva dell’opera rimane scientifica e artistica allo stesso tempo. L’esitazione drammatica delle proprie insicurezze del resto non comporta la necessità di lasciare, pur momentaneamente, i canoni di un sapere scientifico per inoltrarsi nella libertà dell’espressione narrativa, non si tratta del bisogno di dover rispondere alle esigenze di due generi differenti. Lo stesso Jesi afferma che se qualcuno gli avesse chiesto se non aveva mai sentito il desiderio di
scrivere un romanzo gli avrebbe risposto che in realtà non aveva mai smesso di scriverlo. Le due voci che connotano l’autore non sono allora destinate a trovare una loro soluzione, ma a permanere in una coappartenenza nella quale il gesto della scrittura si determina proprio nel passaggio indecidibile in cui l’una non si risolve mai nell’altra, così come l’una non esprime mai una piena emancipazione dall’altra; e qualcosa di sé permane, forse il solo tempo di un sospiro, tra le pieghe di quelle pagine, nonostante tutta la precisione espressiva che si sente di aver raggiunto rispetto alle proprie capacità. Affrontando il testo poetico di Mallarmé, Maurice Blanchot3 evidenzia come da una parte l’opera, con la sua presenza a se stessa, non affermi altro che la propria luminosa evidenza di esistere, mentre dall’altra, nel suo punto centrale, mantenga una “presenza di mezzanotte”, un al di qua, a partire dal quale in realtà non comincia mai niente; si tratta piuttosto di una regione, così la definisce Blanchot, senza sbocco e senza riserva, nella quale l’opera, attraverso la permanenza inoperosa dell’artista, diventa soltanto la preoccupazione e la ricerca senza fine della propria origine. È una parabasi muta, il punto in cui l’avvento dell’opera si risolve in sé come il ricordo di ciò che per un attimo ne ha colto la forma. D’altra parte la dichiarazione della parabasi nella tragedia greca non era soltanto, ricorda Agamben in Pulcinella,4 un’interruzione o una deviazione, quanto piuttosto un taglio, l’avvento che scompaginava lo svolgimento prevedibile dell’azione, la sua concatenazione continuativa. Essa lasciava apparire il momento originario dell’atto creatore, inteso non come ciò che rimane impresso nel suo solo incipit, ma come un respiro che continua ad attraversare l’opera in ogni punto, anche se rivela proprio lì, nella sua costitutiva diacronia, quella presenza di mezzanotte che non aveva mai smesso di accompagnarla. Si tratta di un doppio movimento dell’opera verso se stessa, dell’opera che non smette mai di raggiungere il proprio stato di opera, e nel suo continuo movimento lascia permanere in sé quella presenza di mezzanotte che rimane il suo incipit. Non si tratta tuttavia del momento che le ha dato origine, ma della presenza in essa di un atto di creazione che ha un’origine in sé, perché tiene insieme il divenire dell’opera e la soggettivazione dell’artista che ancora l’attraversa in ogni suo punto come quel vuoto centrale. Così il campo dell’opera, come quello della soggettivazione, è percorso da due forze coniugate tra loro, ma di direzione opposta. Agamben5 indica i due poli antitetici di questa tensione con Genius e Io, dove l’uno va dall’individuale
all’impersonale e l’altro va invece dall’impersonale all’individuale. Due forze che convivono, s’intersecano, si separano, ma non possono né emanciparsi compiutamente l’una dall’altra né identificarsi perfettamente. Il soggetto è in grado di sentire la presenza in sé di Genius nel momento in cui, ad esempio, sorge in lui il desiderio di scrivere: non tanto quando pensa di aver trovato la giusta idea per realizzare quella determinata opera, ma quando sente il bisogno di scrivere e basta. La presenza di questo desiderio, il suo sintomo, dice che Genius esiste, e che in quella soggettivazione vi è quindi una potenza impersonale che la spinge verso la scrittura. Ciò di cui Genius non ha invece alcun bisogno è proprio la realizzazione di quella determinata opera; così, prosegue Agamben, sebbene si scriva per lasciarsi attraversare dall’esperienza della propria impersonalità, per dare spazio alla propria genialità, nel momento in cui si diventa autori di quella determinata opera si perde il proprio rapporto con Genius, il quale non può mai rispondere ai semplici tratti di un autore. Nel quarto libro dell’Etica6 Spinoza definisce l’essere in potenza come acquiescentia in se ipso; Agamben, in L’uso dei corpi, declina questo riferimento spinoziano dell’acquiescenza in se stessi come una letizia che ha il proprio punto di insorgenza nel fatto che l’uomo si trova nelle condizioni di contemplare se stesso e la propria potenza di agire. È possibile così intendere l’acquiescenza come una figura dell’inoperosità, perché l’atto della contemplazione di ciò che non avviene risulta essere un paradigma dell’uso. Come possiamo leggere anche in Signatura rerum,7 vi è infatti sempre uno scarto costitutivo tra l’archè e l’origine fattizia in quanto tale, così che ogni atto genealogico non potrà che rimanere in contrasto con la ricerca di un’origine in quanto tale. Dunque la contemplazione, allo stesso modo dell’uso, da una parte non ha un vero e proprio soggetto, in quanto nell’atto del proprio contemplare questo si perde e si risolve integralmente, dall’altra non ha neppure un vero e proprio oggetto, perché l’opera non contempla altro che la propria potenza a divenire se stessa. È così che la vita, che contempla nell’opera la propria potenza di realizzazione, si rivela in tutta la sua inoperosità, vive soltanto per il tempo indeterminato dell’uso di sé, della propria esclusiva virtualità. Agamben non può che scrivere “propria” e “sua” tra parentesi, perché nei modi della contemplazione dell’essere in potenza si rende in realtà inoperosa ogni presa d’opera, così che le esperienze di un “proprio” e di un “sé” si rivelano poi in effetti impossibili. Se l’architetto e il
falegname restano tali anche quando non costruiscono, questo non è dovuto al fatto che rimangono comunque titolari della loro potenza di costruire – qualità che in qualsiasi momento possono decidere anche di mettere in opera –, ma al fatto che essi vivono abitualmente, comunque sia, nell’uso di sé come architetti o falegnami, e l’uso abituale non è altro che una contemplazione, una virtualità della propria potenza, in cui la vita insorge nell’atto stesso del suo prendere forma. Per questo la contemplazione deve essere intesa come un uso di sé; si deve inoltre tener presente che ogni uso di sé comporta, nella propria articolazione, una zona di non-conoscenza con cui è necessario mantenersi in relazione. È bene tenerla intima e vicina nello strutturarsi dei nostri stessi processi di soggettivazione, in quanto non si tratta di una presenza inerte, ma della risonanza di una contro-effettuazione e di una disattivazione nei confronti di ogni diretta attribuzione identitaria rispetto alle opere che il nostro fare porta a termine. Sebbene questo gesto di disappropriazione sia destinato a fallire, perché rimaniamo comunque in relazione a un mondo che tende immediatamente ad attribuire tale proprietà, e l’atto della contemplazione, come uso di sé, non possa che naufragare nel punto preciso in cui prende forma questa sua modalità. In fondo l’esistenza dell’autore non fa altro che portare la testimonianza di come l’opera, attraverso un gesto che in lui la revoca a se stessa, sia riammessa continuamente al proprio uso. Rimane allora decisivo che contemplazione e conoscenza siano colte nella loro disarticolazione, così come la possibilità di essere affetti e la personalità. In modo tale che, contro il prestigio che la nostra cultura attribuisce regolarmente alla conoscenza, si sia chiamati ogni volta a ricordare come la sensazione e l’abitudine, che l’uso di sé comporta, si articolino anche attraverso una zona di non-conoscenza. Il che non significa pensare a questa zona come a una nebbia mistica in cui accade irrimediabilmente di perdersi, ma come alla dimora in cui la nostra soggettivazione, presa anche nei suoi processi irrisolvibili, si trova perfettamente a suo agio. È un essere in potenza che non ha mai in sé il bisogno di passare all’atto, di mettersi in opera, perché già da sempre in uso nel farsi stesso che le opere ancora mostrano. Questo caratterizzarsi dell’uso comporta la necessità di cogliere come l’opera non sia il risultato di una potenza giunta al proprio compimento, ma come nell’opera permanga un divenire se stessa, un essere in potenza che le rimane consustanziale. Ogni volta che la si incontra, il suo essere in uso
mostra e lascia danzare in sé il vuoto centrale che la lega al proprio autore, legame che la mantiene costantemente aperta verso se stessa, sempre attesa al possibile uso di sé, alla propria inoperosità. L’uso di sé come messa in opera è un gesto inoperoso che disattiva il primato dell’atto sulla potenza, è un principio che permane all’interno della sola potenza e non permette a quest’ultima di esaurirsi nell’atto, ma la spinge a ritornare verso se stessa, a farsi potenza della propria potenza. In modo tale che l’inoperosità dell’opera, che risulta da questa sospensione della potenza in se stessa, continua a esporre nell’atto la potenza che l’ha portata in essere. Così, in una poesia rimarrà esposta la potenza della voce, in un quadro o una fotografia la potenza dello sguardo, in un’azione la potenza del gesto. In questo modo l’inoperosità dell’opera mostra che cosa può un corpo. Nel punto d’insorgenza in cui la vita si costituisce nella sua forma, ogni forma costituita, presa cioè all’interno dei criteri della sua unicità, viene destituita dall’intensità di una soglia d’inoperosità a lei stessa immanente. Questo perché ogni forma di vita non può che costituirsi nella simultaneità temporale del suo stesso vissuto; rimane implicata in un momento sorgivo che non viene mai meno, che agisce sospensivamente come revoca di tutte le vocazioni rispetto alle quali quella determinata singolarità cercherà la propria identificazione. Puro vissuto di una vita che depone quella singolarità a girare su se stessa, riavvolgendola costantemente sulla propria immanenza. Non si tratta infatti d’introdurre una consapevolezza in grado di portare quella vita verso una forma espressiva più autentica, come se la revoca di ogni vocazione non fosse altro che un passaggio inoperoso necessario per rivolgersi a un principio superiore. In realtà l’inoperosità coincide integralmente e costitutivamente con la stessa struttura temporale del vivere una vita, ed è proprio in questo punto di coincidenza tra vita e vissuto che ogni vocazione fattizia trova la propria destituzione, sebbene il suo timbro rimanga temporalmente in atto. In questo senso è molto interessante la posizione che Roland Barthes assume in quello che poi risulterà essere il suo ultimo corso universitario: La préparation du roman.8 Nelle prime righe della lezione inaugurale afferma che all’origine di ogni corso bisogna sempre porre il fantasma che lo ha determinato, che lo attraversa al momento della sua presentazione e che con ogni probabilità continuerà ad attraversarlo anche durante il suo svolgimento. Fantasma che ovviamente può variare di anno in anno, ma che per Barthes
non può non esserci. Certo, rimane il fatto che del fantasma, proprio in quanto tale, non si può che accogliere la presenza; eventualmente si può provare a contrastarne l’insistenza, l’ostinazione, la forza, ma comunque il suo aleggiare non potrà che trattenerci sull’intensità di una soglia di permanenza che mette in gioco la singolarità di una vita, l’espressione attraverso cui tale singolarità è chiamata a prendere forma. Per questo è molto meglio rischiare gli inganni della soggettività, la portata contrastante del suo immaginario, piuttosto che le imposture dell’oggettività. Barthes sente di appartenere a una generazione che ha troppo censurato le istanze della soggettività, e ritiene sia arrivato il momento di cambiare. Il fantasma del corso è proprio questo: che cosa vuol dire introdurre nella singolarità di una vita un cambiamento, che cosa significa dare inizio a qualcosa che non si è mai fatto prima e in quale modo ci si prepara a questo? Come si può dare espressione al fantasma di una predisposizione che desidera imprimere una nuova forma alla singolarità della propria vita? Il tema della preparazione può tuttavia trarre in inganno: essa potrebbe essere intesa come la ricerca dei requisiti di conoscenza e delle qualità necessari per potersi inoltrare con successo verso il cambiamento; al contrario, il cambiamento permane nella preparazione stessa, è un atto di creatività verso l’essere in potenza della propria vita. Per Barthes, prendendo il suo caso come esempio, non si tratta infatti di attrezzarsi adeguatamente per essere in grado di scrivere al meglio un romanzo; ciò che gli interessa è il fantasma che permane in questo desiderio di annunciare a se stessi di voler cambiare, di voler fare qualcosa che risulta essere una pura novità, in grado di trasformare le modalità di quella stessa vita singolare. È intraprendere una vita nova – così il romanzo ipotizzato si sarebbe dovuto intitolare –, significa inoltrarsi nell’interrogazione su che cosa comporti trovarsi “nel mezzo del cammin di nostra vita” (anche se Barthes sa, come lui stesso dichiara, di essere ben oltre quella ipotetica metà). Questo riferimento diretto a Dante gli interessa perché trova fondamentale che una delle più grandi opere al mondo inizi proprio con una dichiarazione del soggetto e instauri con estrema chiarezza un legame costitutivo tra chi scrive, chi si predispone a un atto creativo, e la propria età. Sarà così, come vedremo, anche per Giandomenico Tiepolo quando si ritirerà nella sua villa di Zianigo per realizzare l’album di tavole dedicato alla figura di Pulcinella. L’età non può dunque che incidere, nella potenza del suo farsi sentire,
l’atto creativo in quanto tale, il suo momento sorgivo; del resto la metà non può certo essere considerata in senso strettamente matematico; essa è determinata piuttosto dalla consapevolezza che ogni età non combacia mai perfettamente con se stessa, ha una metà che la taglia sul proprio presente, su ciò che direttamente la riguarda, ma che non le appartiene. Arriva tuttavia un momento nella vita in cui l’incidenza della propria età si evidenzia in tutta la sua portata; è un punto di capitone che risignifica ogni istanza di significazione del proprio tempo. Quest’incidenza lascia insorgere una faglia costitutiva della vita, ne diventa una presa di coscienza totale, così almeno la definisce lo stesso Barthes. È il momento in cui si coglie la necessità d’intraprendere un viaggio all’interno del rapporto costitutivo tra il tempo e la vita, come accadde a Dante nella Divina Commedia. Si tratta di dare un inizio fantasmatico a un pellegrinaggio in un continente del tutto sconosciuto, d’introdursi in una pura novità, senza che tuttavia niente sia effettivamente mosso, senza che nessun movimento sia realmente compiuto. È piuttosto un’iniziazione verso una forma di staticità nei confronti di se stessi, sorretta dalla portata complessiva del tono impersonale che innerva la vita che si sta vivendo. Trovarsi nel mezzo del proprio cammino è una sensazione che sfiora la certezza di essere impegnati in un’avventura, consiste nell’attraversare una soglia che imprime l’esigenza di un’intensità interrogativa rivolta alla propria età. Proust definisce questo passaggio come il trovarsi sulla cima del particolare,9 là dove le acque sembrano separarsi in due direzioni divergenti, che rimangono tuttavia l’una nel solco dell’altra. È la virtualità di un puro immaginario che riflette la vita in se stessa e lì ne incontra il registro reale. Questa presa di coscienza porta Barthes ad affermare che i giorni sono contati: il che significa che i giorni contano, che li si può contare, senza che dobbiamo sentirli come un susseguirsi continuo che scorre veloce verso la nostra fine. Ciascuno diventa l’uno che conta uno, uno dopo l’altro, e ci si allontana dall’angoscia giovanile che vede i giorni finiti che fanno tutt’uno. Essi diventano piuttosto comunemente unici, come accade a chi tiene un diario e magari annota qualcosa anche quando non c’è niente di particolare da ricordare. Kafka10 a questo proposito cita Goethe, che nei suoi diari, in data 11 gennaio 1797, afferma di aver trascorso tutto il giorno in casa a riordinare varie cose. È l’affiorare indimenticabile di un giorno qualsiasi, perso in se stesso, contrassegnato in quelle parole non tanto da un atto di necessaria
memoria, quanto da una perfetta consapevolezza d’oblio. I biografi o i curiosi, arrivati a quel punto della lettura, non potranno che scorrere velocemente oltre, dove pensano di trovare il senso di una vita, la specifica identità di quel nome proprio che vanno tratteggiando. Secondo Kafka soltanto qualcuno che tiene un diario può capire la portata fondamentale di quella annotazione, che cosa voglia dire scrivere di un giorno qualsiasi riconoscendolo, nella sua unicità, come tale, come quel nervo che sorregge sulla sua corda tesa una vita intera. Emerge in quelle parole, che schizzano la pagina del proprio inchiostro, un giorno assunto e perso con la propria vita, ma che si trova ancora lì, impresso sulla carta di una memoria che non appartiene più a nessuno. In questo gioco alla conta con il tempo, il tempo del giorno si dilata e lascia emergere il ricordo di un momento di pura vita, di un tempo che è sopravvissuto a se stesso, di un vivere sopra il giorno nel giorno in cui il gesto è parte della vita stessa, e non ne rappresenta affatto il termine. È un conto che continua a rovesciarsi su di sé, un conto alla rovescia sui giorni che non scorrono più, ma vengono incontro, sono contati, ognuno con la propria casella ben definita, contrassegnata dai tratti della sua ultimità. Ed è sulla loro soglia che ancora risuona, nel tempo sospeso in cui Oreste si trova davanti al corpo di Clitemnestra, la formula: “Che fare?”. È il dramma della vita, che prende forma e scivola via dall’azione, da ogni finalità, per permanere nella sola modalità del suo uso. Accogliere quella casella come la designata, senza un particolare perché, vuol dire perdere ogni riferimento a ciò che la può significare da un fuori che non le appartiene affatto. Significa piuttosto portare la propria forza immaginativa in tutto ciò che solo quella casella può connotare e sentirne il fondo inesauribile; per Barthes, comporta guardare in faccia ciò che di noi fa l’uso del tempo: la nostra età. Questa presa di coscienza implica la consapevolezza che tutto ciò che si è fatto fino a quel momento, ogni tipo di impegno che si è regolarmente assunto, è un materiale che si ripropone, intriso di una coazione a ripetere, avvolto dal tedio di essere in fondo sempre il medesimo. Ci sarà sempre un altro articolo da pubblicare, un altro corso all’università, una conferenza da tenere chissà dove e nel migliore dei casi, con un po’ di fortuna, ancora un libro da scrivere. Pur potendo variare i soggetti su cui incentrare il lavoro, il cambiamento rimarrà comunque sempre limitato. Si è posti di fronte a una forclusione dell’avventura, a una condanna alla ripetizione: Sisifo è infelice a
causa non tanto della vanità del suo lavoro, quanto della sua perenne ripetizione. Arriva così un momento, immediato anche se a poco a poco, in cui si evidenzia la necessità di scegliere la propria ultima vita: una vita nova. È tornare a sentirsi irreversibilmente aperti al connaturarsi in noi della sua presenza, al timbro della sua espressione, al suo tono, cogliendola in tutta la sua esposizione in noi stessi e nel medesimo tempo in tutta la sua inappropriabilità. Indulgere Genio, è questa l’espressione latina che Agamben riprende per sottolineare il segreto che ognuno intrattiene con il proprio Genio. Infatti nei confronti di Genius non possiamo fare altro che accondiscendere e abbandonarci al suo farsi sentire, non possiamo che concedergli tutto quello che ci chiede, perché il farsi sentire della sua esigenza è la nostra esigenza, l’estraneità della sua felicità è la nostra felicità. Nella conferenza-dibattito del 22 febbraio 1969 presso il Collège de France,11 Michel Foucault si impegna a elaborare il tema dell’eclissi dell’autore, prendendo spunto da Beckett: “Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla”. Più che a una frase, siamo posti di fronte a una vera e propria formula, dello stesso tipo di quella pronunciata da Bartleby, il protagonista del romanzo di Melville12 – “Avrei preferenza di no” –, e come ogni formula può essere ripetuta ad libitum oppure pronunciata una sola volta per tutte, e allo stesso tempo presenta anche diverse ambiguità o contraddizioni intrinseche. Agamben, in L’autore come gesto,13 sottolinea come il “qualcuno” che viene evocato, pur restando anonimo e senza volto, è comunque colui o colei che ha proferito l’enunciato, e la sua evocazione nella frase, in cui si nega l’importanza di chi parla, rimane tuttavia anche un riferimento fondamentale perché lo stesso enunciato possa essere detto. Un gesto che sottrae all’autore la sua centralità, la sua rilevanza referenziale, e al tempo stesso ne certifica l’irriducibile necessità. Non solo, potremmo anche aggiungere che la frase suona all’interno di una doppia valenza: se non importa chi parla, tuttavia qualcuno ha detto che invece importa chi parla, proprio perché non lo si può sapere. Vi è dunque una vita infame dell’autore, il fondo di un vissuto, la tonalità irripetibile di una voce, che non rimarrà mai contrassegnata nei registri polverosi delle varie attribuzioni biografiche. È il caso delle biografie raccolte da Krafft-Ebing nella sua Psychopathia Sexualis.14 Si tratta di ritratti di persone miserabili, riportati dallo psichiatra al solo scopo di dare conto del loro carattere patologico; vite del tutto infami, perse nella composizione delle loro perversioni. Tuttavia, esattamente questa
aderenza al proprio vizio è ciò che per Agamben testimonia di un’esperienza in cui la vita che è stata vissuta ha coinciso beatamente con la vita per cui è stata vissuta. Dal lato del loro puro anonimato, dal tono della loro schietta impersonalità, si possono seguire parti di vite vissute in ogni istante dal motivo stesso per cui hanno vissuto. Vite perse, senza alcuna riserva, nei tratti di un piacere che ha lasciato cadere ogni forma di dignità e rispettabilità. In quel determinato comportamento perverso, utile ai fini di una tassonomia, si è giocata la singolarità di una vita che nella particolarità di quel gesto ha ogni volta incontrato l’oblio irrinunciabile del proprio desiderio. Se chiamiamo gesto ciò che resta sospeso in ogni atto espressivo, potremmo allora dire che, esattamente come ogni vita infame, la vita dell’autore è presente nell’opera soltanto nel punto in cui, lasciando che l’espressione si renda possibile, insedia nello stesso corpo dell’opera un costitutivo vuoto centrale. Note 1
Giorgio Agamben, Sull’impossibilità di dire Io, in Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005. 2 Furio Jesi (a cura di), La festa. Antropologia, etnologia, folklore, Rosenberg & Sellier, Torino 1977. 3 Maurice Blanchot, L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1973; tr. it. Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1975. 4 Giorgio Agamben, Pulcinella, ovvero Divertimento per li regazzi: in quattro scene, Nottetempo, Roma 2015. 5 Giorgio Agamben, Genius, in Id., Profanazioni, cit. 6 Baruch Spinoza, Etica, Neri Pozza, Vicenza 2014. 7 Giorgio Agamben, Signatura rerum, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 8 Roland Barthes, La préparation du roman, I et II. Notes de cours et de séminaires au Collège de France 1978-1979 et 1979-1980, Seuil, Paris 2003; tr. it. La preparazione del romanzo. Corsi (I e II) e seminari al Collège de France (1978-1979 e 1979-1980), Mimesis, Milano-Udine 2010. 9 Marcel Proust, Choix de lettres, Plon, Paris 1965. 10 Franz Kafka, Tagebücher 1914-1923, in Id., Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt am Main 1992; tr. it. Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972. 11 Michel Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur?, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, 63, 3, luglio-settembre 1969; tr. it. Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971. 12 Herman Melville, Bartleby, the Scrivener, in Great Short Works of Herman Melville, Perennial, New York 2004; tr. it. Bartleby, lo scrivano, Feltrinelli, Milano 2015. 13 Giorgio Agamben, L’autore come gesto, in Id., Profanazioni, cit. 14 Richard von Krafft-Ebing, Psychopathia Sexualis: eine klinisch-forensische Studie, F. Enke, Stuttgart 1886; tr. it. parziale Biografie sessuali. I casi clinici della Psychopathia Sexualis di Richard von Krafft-Ebing, prefazione di Giorgio Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2006.
Quale esperienza?
Ogni processo di soggettivazione sembra doversi sospendere sulla soglia di una non-conoscenza che sente come il contrassegno inaggirabile della propria singolarità. Ogni unità sintetica della coscienza si trova così costretta a deporre le sue proprietà e non le rimane altro, nel tempo indeterminato in cui permane su questa soglia, che commuoversi. Agamben1 indica questa passione come una corda tesa fra noi e la nostra genialità su cui la nostra vita cammina sospesa come un funambolo. Tra gli schizzi che Didi-Huberman ha recuperato nei suoi scavi fra i manoscritti warburghiani, vi è un disegno a penna che mostra un funambolo, contrassegnato con la lettera K, che in precario equilibrio cammina su un’asse sorretta da altre due figure. Quella K, ipotizza Agamben, sta forse a indicare l’artista (Künstler), che si tiene in sospeso fra le immagini e il loro contenuto, ma potrebbe anche essere la cifra dello studioso che, in piena coscienza, evoca gli spettri che minacciano il suo equilibrio.2 Prima ancora del mondo fuori di noi, ciò che meraviglia e stupisce è dunque la presenza di una parte di noi che permane, in precario equilibrio su quella corda tesa, nei tratti di una presa dal tono infinitamente adolescenziale. Questo non significa semplicemente che in ogni soggettivazione permanga un lato regressivo sempre pronto a riemergere, quanto piuttosto che ogni soggettivazione è attraversata dal contrappunto di un’esitazione sulla soglia permanente della propria individuazione. Sebbene rispetto al mondo adulto il bambino soffra in effetti di una certa impotenza motoria, è proprio grazie a tale impotenza che egli si trova ancor più capace di vedere e di sentire, come chiarisce anche Deleuze.3 È la stessa cosa che accade nella semplicità della vita quotidiana adulta, la quale, proprio grazie al fatto di scorrere attraverso schemi senso-motori automatici, è ancor più incline, alla minima occasione d’incertezza, nell’equilibrio che si articola tra l’eccitazione e la risposta, a sfuggire di colpo alle leggi di questo schematismo e a rivelarsi in una nudità in grado di conferirle l’andamento veggente di un sogno. È l’effetto che Roland Barthes4 attribuisce al rapimento amoroso, a quello
che comunemente intendiamo come il momento in cui si cade nell’innamoramento. Che non corrisponde alla costruzione di una possibile storia amorosa, ma come a un precipitare nell’incontro del tutto imprevisto e sorprendente con un volto, con una figura, con il carattere improvviso e brusco di un’immagine, la quale, nonostante si presenti in tutta la sua intempestività, sembra averci atteso sulla soglia di quell’incontro, anche se in realtà non ci stavamo affatto pensando e ci appare effettivamente per la prima volta. Barthes associa questa cattura amorosa allo stato ipnoide, riprendendo lo schema di Breuer e Freud,5 che presenta l’ipnosi come uno stato sognante con l’innesto di un’affezione improvvisa e brusca. Si tratta di una definizione dello stato ipnotico che colpisce in modo particolare, perché comunemente si tende a pensarlo come lo scivolare in uno stato che associamo per similitudine più o meno al sogno, o a una situazione che comunque si colloca tra il sogno e la veglia; una situazione a cui in ogni modo ci si abbandona, a differenza di quella che tendiamo ad associare al momento del risveglio, un’affezione improvvisa e brusca, uno schioccar delle dita. Lo stato di ipnosi descritto da Freud e Breuer, così come quello dell’innamoramento indicato da Barthes, sembra allora essere un’intensificazione, attraverso una forte affezione, dello stato di sogno. Questo ci dice innanzitutto che non dobbiamo ridurre il sogno all’esperienza che ci accade durante il sonno o al sogno a occhi aperti che ci capita di giorno, ma dobbiamo intenderlo come uno stato immaginativo, più o meno intenso, che attraversa continuamente la nostra soggettivazione; tramite esso veniamo percorsi da reificazioni involontarie d’immagini mentre continuiamo a restare regolarmente impegnati in quello che stiamo facendo. Dunque lo stato immaginativo, anche inconscio, rimane caratterizzante del nostro permanere nella realtà; può accadere tuttavia che l’irrompere improvviso di una forte emozione ci porti per un istante non tanto a coincidere con la nostra parte sognante – come quando ci capita di abbandonarci alla nostra stessa immaginazione, magari in un momento di profonda noia –, quanto a subirne un’improvvisa intensificazione. Ci accade cioè di avere di questo stato di sogno un’esperienza reale coincidente con la sua perfetta virtualità. È come se a un vago stato di sogno immaginativo, da cui la nostra soggettivazione è costantemente attraversata, subentrasse una sua intensificazione per aderenza tale da creare una forma di trance, un’esperienza reale dove quel sentire vago viene a coincidere, in perfetta
sovrapposizione, con il nostro sentire immaginativo. Barthes associa questo scivolare nello stato ipnotico del rapimento amoroso a quello che accade a un bambino tenuto in braccio dalla madre davanti allo specchio: il vago sognare se stesso del bambino s’impressiona, in quel momento riflesso per aderenza amorosa, nell’affezione improvvisa e brusca di vedersi un tutt’uno con quel legame che lo sorregge; il bambino rimane così incollato allo specchio, come accade a un animale che, pur senza identificarsi in quell’atto riflesso, senza essere cioè nelle condizioni di riconoscersi come “io”, scruti l’altro se stesso, rivelando di avere in quella forma di rapimento ipnotico un proprio immaginario. Il rapimento amoroso si rivela così come una cristallizzazione, come un cristallo di tempo che risponde della forma più cruda delle ipnosi, quella animale. Non si tratta quindi di un riconoscimento di tipo ontologico, ma di un divenire temporale a cui si accede attraverso un processo ogni volta incentrato sull’ordine dell’incontro, senza che subentri ancora il contenuto di uno svolgimento: ogni volta il solo divenire del proprio inizio, della propria insorgenza paradigmatica. È così che quell’elusivo fanciullo, come lo definisce Agamben,6 che si è impressionato nel riflesso di un’immagine che è ancora lì ad attenderlo, si sente spinto verso l’incontro, verso il ricercare di nuovo quell’emozione che per lui è rimasta incomprensibile, nella speranza che nello specchio del volto dell’altro, come per miracolo, nello stesso miracolo di quell’esperienza ipnotica, quel sentimento di fondo si possa chiarire ai suoi occhi e possa finalmente trovare il riscontro della propria vivibilità. In Infanzia e storia7 Agamben riprende un racconto autobiografico di Montaigne.8 Un giorno, mentre stava andando a spasso non lontano da casa su un cavallo piccolo e malfermo, venne travolto da un altro possente cavallo condotto a tutta briglia. A causa del violento impatto si ritrovò disteso a terra, incapace di compiere qualsiasi movimento, praticamente privo di conoscenza. Mentre le funzioni dell’anima si riprendevano grado a grado insieme a quelle del corpo, per prima cosa iniziò a vedere, sebbene ancora indistintamente, il riverbero di una forma di luce. Sentiva la propria vita come appesa alla sola punta delle labbra: decise così di chiudere gli occhi e di lasciarsi andare. A seguito di questo movimento di abbandono avvertì inaspettatamente irrompere in lui un profondo senso di piacere, un languore che gli invase tutta quanta l’anima e tutto il corpo. Era come il corrispondere a un momento immaginativo in cui stesse nuotando sulla superficie della propria anima:
tutto gli appariva avvolto da un tono fioco e tenero, con quel fondo di piena dolcezza tipico di quando ci si lascia scivolare nel sonno. Uno stato simile, gli pareva, a quello che possiamo osservare nelle persone che passano da uno stato di profonda debolezza all’agonia della morte. Persone che tendiamo senza ragione a compiangere, immaginandole in preda a chissà quali dolori o pensieri angosciosi, quando in realtà sono semplicemente immerse, come lui in quel momento, nell’istante preciso in cui il sogno inizia a balbettare la sua melodia senza però avere ancora preso alcuna forma, senza avere ancora impresso alcun contenuto. È il momento in cui ci si sta per addormentare, in cui il sonno non ci ha ancora invasi del tutto, ma ci sentiamo comunque già avvolti come in un sogno che ovatta e trascina lontano tutto ciò che ci circonda. Quella caduta porta così Montaigne in uno stato crepuscolare simile a quello in cui immagina si trovino i moribondi. Qui l’anima non ha più alcuna capacità di riconoscere se stessa; i gesti, anche quando ci sono, risultano del tutto involontari, come quelli delle sue mani che erano corse verso lo stomaco oppresso dal sangue coagulato. Il racconto mette così in evidenza come ci siano esperienze che ci accadono ma che non ci appartengono, che non possiamo riconoscere in senso vero e proprio come nostre, sebbene sia precisamente a noi e a nessun’altro che accadono. Questa inappropriabilità dell’esperienza è per Montaigne un attraversamento che ci può avvicinare all’esperienza della morte, rispetto alla quale nella vita non si può fare altro che mantenersi prossimi al suo momento attraverso l’abitudine di un’espropriazione di sé, come quella che avviene ad esempio nel passaggio indecidibile dalla veglia al sonno. Agamben accosta questo racconto di Montaigne a quello molto simile, di due secoli successivo, riportato da Jean-Jacques Rousseau,9 il quale, investito un giorno da un grosso cane danese, precipitò a terra privo di coscienza. Racconta di essersi trovato nel suo rinvenire in uno stato talmente particolare da imprimersi in lui in modo praticamente indimenticabile. A notte avanzata, la prima cosa che vide fu il cielo, poi qualche stella e un po’ di vegetazione. Questo momento iniziale, sorgivo, in cui rivedeva ciò che già conosceva come se lo vedesse per la prima volta, suscitò in lui una sensazione del tutto piacevole; non solo, era anche la sola cosa attraverso cui sentiva di percepire se stesso. Era come nascere alla vita in quel preciso istante e riempire della propria leggerezza tutto ciò che lo circondava. Di se stesso non ricordava
assolutamente nulla, non aveva alcuna nozione distinta della propria individualità, non sapeva più chi fosse né dove si trovasse, eppure non si sentiva attraversato da alcuna forma d’inquietudine. Anzi, percepiva in tutto il suo essere una calma inebriante, un profondo senso di beatitudine. Anche in questo caso, fa notare Agamben, come in quello descritto da Montaigne, uno stato crepuscolare e inconscio diventa il modello di un’esperienza del tutto particolare, che tuttavia qui non corrisponde a quella che potrebbe essere l’anticipazione della morte, ma, al contrario, a un’esperienza di nascita. Rousseau afferma infatti di essere nato alla vita precisamente in quell’istante e associa questa nuova nascita a un piacere che non ha confronti. Questi due episodi sono stati ripresi da Agamben, all’interno del libro che abbiamo citato, come due staffette in grado di annunciare l’emergere e il dilagare del concetto di inconscio che ha caratterizzato il diciannovesimo secolo, a partire da Schelling, passando per Schopenhauer, fino ad arrivare alla formulazione del tutto originale che ne ha operato Freud. Il concetto di inconscio, almeno all’interno di questo contesto, interessa però ad Agamben esclusivamente per le sue implicazioni con la teoria dell’esperienza. Perché è proprio grazie all’idea di inconscio che essa, almeno nell’approdo che ha avuto all’interno della modernità, fondata sul principio di un soggetto di tipo cartesiano, trova il punto più profondo della sua crisi. L’esperienza inconscia infatti non è più considerabile in senso stretto un’esperienza dell’io, un’esperienza soggettiva. Per certi versi non è nemmeno possibile considerarla un’esperienza vera e propria, almeno per quelli che sono i termini kantiani, in quanto manca di ogni forma di unità sintetica, non vi si può applicare alcun riferimento diretto all’autocoscienza; viene cioè meno ogni garanzia su cui basare la stessa possibilità che ciò che quel determinato avvenimento ha comportato possa essere assunto effettivamente per se stesso. Tuttavia, prosegue ancora Agamben, ciò che la psicoanalisi ha reso evidente è proprio che le esperienze più importanti sono quelle che non appartengono direttamente al soggetto, ma al fondo impersonale che lo costituisce. Il movimento dell’analisi non è quindi tanto nell’ordine di una regressione verso l’infanzia, quanto piuttosto in quello di una ricapitolazione del momento sorgivo in cui la soggettività perde se stessa nei processi che la determinano; è in questo senso che la possiamo indicare come una ricapitolazione a vuoto, perché risponde a una struttura temporale aperta sulla continuità del proprio eventuarsi e non soltanto come un ritornare après coup
sui contenuti della propria significazione. Si tratta dunque di un movimento di ritorno automatico, di un puro automatismo, automatismo che, non va dimenticato, si struttura temporalmente sul fatto che ogni incontro è sempre, come sostiene Lacan,10 un incontro mancato. Di qui il legame che per Lacan si istituisce tra la tyche e il reale: recuperando la coppia concettuale tyche (fortuna)/automaton (caso) dalla terminologia aristotelica – ma stravolgendone tuttavia integralmente la lettura –, Lacan indica il reale come ciò che giace sempre dietro l’automaton di un incontro che ogni volta si determina come un mancare se stesso. Il concetto di automaton è così preso nel suo necessario movimento di ripetizione, perché si struttura su un’inevitabile nevrosi da fallimento, sulla tyche assunta come caso, come buona o cattiva sorte. Se però l’appuntamento, l’incontro con la propria vita, è sempre mancato, la tyche ci dice anche la vanità della ripetizione, ci mostra cioè come il senso costitutivo dell’esperienza permanga in questo solo evitamento di se stessi. Dovrebbe allora risultare evidente come in realtà, nel progetto fondamentale della scienza moderna, si abbia invece una vera e propria espropriazione del concetto di esperienza. Ciò che deve essere eliminato è proprio il caso, tutto ciò che è casuale deve risultare inessenziale rispetto alle effettive cause necessitate. La spontaneità di ciò che si determina nell’occasione contingente non può che muoversi sulla materialità di una superficie, che non sarà mai in grado di cogliere la sostanza metafisica che la sorregge nel profondo. L’esempio di un puro accadimento, avvolto in tutta la sua esclusiva singolarità, non avrà alcun legame con il vero criterio portante della conoscenza, che risiede invece nella ripetibilità meccanica dell’esperimento. In questo senso Agamben, sempre in Infanzia e storia, riprende Francesco Bacone,11 che paragona chi si muove sull’accidentalità del contingente a colui che nella notte procede a tentoni nella speranza di imboccare la via giusta, quando farebbe meglio ad aspettare il giorno o accendere un lume. L’esperienza infatti per Bacone inizia soltanto nel momento in cui il lume è acceso: è solo attraverso la luce degli assiomi che ci si pone nelle condizioni di rinvenire l’ordine metafisico della conoscenza, che si è in grado di procedere a nuovi esperimenti, che ci si allontana dalla condizione di vittime designate della mera casualità, della buona o della cattiva sorte. L’essere convinti che domani sorgerà ancora il sole, basandosi sulla
constatazione meramente empirica che finora è sempre andata così, per Leibniz non dipende da un qualche principio di ragione, su cui si fonderebbe piuttosto la certezza dell’astronomo. La scienza moderna nasce di conseguenza da una radicale diffidenza proprio nei confronti dell’esperienza, rispetto alla quale è sempre necessario mettere ordine, stabilire delle regole portanti, derivate da un’attenta ripetizione su base sperimentale. Solo così si potrà reintrodurre quel dovuto atto di fiducia nei confronti dell’esperienza, si potrà spazzar via la possibilità che un qualche genio maligno si stia divertendo alle nostre spalle ingannando i nostri sensi. Se esiste un luogo in cui il soggetto può ingannare se stesso, questo è la sfera della fantasia: è soltanto nel registro dell’immaginario che possiamo ingannarci completamente attraverso il riflesso perfetto in cui pensiamo di rispecchiare noi stessi. Eppure, ricorda Agamben, nella formula in cui l’aristotelismo medioevale riassumeva questa funzione mediatrice dell’immaginazione, l’omologia tra fantasia ed esperienza è ancora perfettamente evidente. È soltanto con la nascita della scienza moderna che viene meno la necessità di mediazione tra res cogitans e res extensa e la fantasia viene del tutto espropriata del suo registro reale; se fantasia c’è, essa risponde soltanto a un ordine soggettivo e non può più essere vissuta come punto di coincidenza tra soggettivo e oggettivo, interno ed esterno, sensibile e intellegibile. Il suo carattere allucinatorio, tenuto nell’antichità come sfondo, ora emerge totalmente in primo piano. Da reale soggetto dell’esperienza, il fantasma diviene sintomo dell’alienazione mentale, legato a visioni e fenomeni del tutto irrazionali; è l’espressione di tutto ciò che deve rimanere assolutamente escluso da quella che dovrà essere considerata un’esperienza autentica. L’obiezione più perentoria contro il concetto moderno di esperienza è stata per Agamben sollevata nell’opera di Marcel Proust, poiché l’oggetto della Recherche non è un’esperienza vissuta ma, al contrario, qualcosa che non è stato vissuto né esperito. Anche il subitaneo affiorare delle intermittenze del cuore non costituisce una vera e propria esperienza, perché esse affiorano unicamente attraverso un vacillamento delle categorie kantiane di spazio e di tempo, che rimangono alla base del concetto moderno di esperienza. Questo revocare le condizioni dell’esperienza comporta anche l’inevitabile messa in dubbio del concetto stesso di soggettività, poiché non ci si può più riferire direttamente a quello che abbiamo inteso come il soggetto
moderno della conoscenza. Tanto è vero che Proust sembra avere in mente, nel tratteggiare questa esperienza della soggettivazione, piuttosto certi stati crepuscolari, come il dormiveglia o la perdita di coscienza, là dove non vi è più propriamente alcun soggetto, ma solo, nell’immanenza di un singolare materialismo, un infinito e casuale scontrarsi di oggetti e di sensazioni. Non si tratta tuttavia di una vera e propria negazione dell’esperienza (e dunque neppure di una vera e propria negazione della soggettivazione), quanto dell’esigenza di lasciar affiorare un’esperienza che si riveli senza soggetto né oggetto, un’esperienza assoluta, attraverso cui il soggetto può accadere a se stesso. Quello a cui si deve rinunciare è semmai il concetto di origine, è la convinzione di poterla collocare all’interno di una cronologia, come una causa iniziale che separa nel tempo un prima e un dopo di ciò che di sé è stato. Mentre la stessa espressione linguistica che ne rende conto non può che situarsi in un punto di frattura, in un continuo scarto tra diacronia e sincronia del tempo. L’evento infatti non si presenta tanto in quel che accade, quanto nella struttura del suo stesso eventuarsi: collocandoci al di là della dinamica corrispondente della rassegnazione o del risentimento, ci impegna piuttosto nell’avventura di amare il trauma in cui, all’interno della nostra stessa singolarità impersonale, la vita si separa da se stessa. Quella vita che ci fa sentire il suo respiro che ancora continua a prendere forma. Note 1
Giorgio Agamben, Genius, in Id., Profanazioni, cit. Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 3 Gilles Deleuze, Cinéma 2. L’Image-temps, Minuit, Paris 1985; tr. it. Cinema 2. Immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017. 4 Roland Barthes, Le discours amoureux. Séminaire à l’École pratique des hautes études 19741976, suivi de Fragments d’un discours amoureux (pages inédites), Seuil, Paris 2007; tr. it. Il discorso amoroso. Seminario a l’École pratique des hautes études 1974-1976, seguito da Frammenti di un discorso amoroso inediti, Mimesis, Milano-Udine 2015. 5 Josef Breuer, Sigmund Freud, Studien über Hysterie, Franz Deuticke, Leipzig-Wien 1895; ora in Sigmund Freud, Gesammelte Werke. Werke aus den Jahren 1892-1899, Fischer, Frankfurt am Main 1999; tr. it. Studi sull’isteria, in Sigmund Freud, Opere. 1886-1895, Bollati Boringhieri, Torino 1967. 6 Giorgio Agamben, Genius, in Id., Profanazioni, cit. 7 Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978. 8 Michel de Montaigne, Essais, Gallimard, Paris 2009; tr. it. Saggi, Adelphi, Milano 2005. 9 Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes. Tome 20, 1776-1778. Les rêveries du promeneur solitaire, Cartes à jouer, Garnier, Paris 2015; tr. it. Le fantasticherie del passeggiatore solitario, SE, Milano 2014. 10 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, 2
Seuil, Paris 1973; tr. it. Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 1975. 11 Francis Bacon, Novum Organum, Laterza, Bari 1968.
Testimoniare il proprio corpo
Ogni volta che, nel racconto di Ingeborg Bachmann Der Fall Franza,1 la protagonista prende tra le mani il rapporto sul processo di Norimberga, arriva un punto in cui deve immancabilmente interrompersi; la lettura non può più proseguire, come se sul processo visivo intervenisse un inaggirabile offuscamento. È l’istante in cui sulla scena del processo compare il testimone B.: castrato, ustionato e di nuovo operato ai testicoli durante il suo internamento nel campo nazista. Franza non riesce a non arrestarsi, nonostante dichiari di aver letto negli ultimi anni solo verbali e anamnesi relativi alla Shoah; dunque quell’incapacità a proseguire non può certo essere determinata dal racconto di ciò che B. ha subìto, dalla particolare atrocità del suo contenuto. Si tratta piuttosto di un arresto sopraggiunto su di un altro arresto, come un doppio blocco, uno che precipita sempre nell’altro, ognuno preso nell’insistenza a cedere nello stesso punto, nello stesso modo, nonostante l’inutile tentativo di cercare di andare avanti, di proseguire nella propria azione di lettura o di testimonianza. Lo sguardo di Franza ogni volta si blocca esattamente nel punto in cui il testimone B., nonostante l’invito del giudice a portare la propria testimonianza, non riesce a prendere la parola, e in quell’inciampo, in quel punto di arresto senza alcun inizio, è come se nella visione di Franza si aprisse una voragine, e il timbro di quella testimonianza, insieme al suo interprete, fosse inghiottito dalla carta e dai caratteri stampati, i quali, impotenti, continuano a offrirne soltanto l’impossibile rappresentazione. Parole che rivelano così la loro totale nudità, la propria incapacità di rimandare ad altro, d’introdurre un intento metaforico; ripetono soltanto il nero del loro contenuto, senza che subentri alcuna forza immaginativa. Tutto rimane alla lettera, in una letteralità senza progressione. In quelle macchie di apparente racconto precipitano insieme sia lo sguardo di Franza che la voce senza suono del testimone B., entrambi, sguardo e voce, avvolti nell’inaggirabile immanenza della loro corporeità. Lo sguardo di Franza, mentre precipita nel corpo di quelle lettere, risuona di un’eco basata sul
silenzio di voce del testimone B., in modo tale che quelle singole lettere sembrano non poterle restituire nient’altro che la loro totale nudità. Così il testimone B., muto nella voce della propria testimonianza, lascia essere, nella lettura precipitata di Franza, la sola presenza abbandonata e inerme di un corpo assolutamente autonomo. Due corpi sopravvissuti insieme, come abbracciati, nonostante l’assoluta differenza di tempo e di luogo, tra di loro e a se stessi, alle proprie parole, alle proprie vicissitudini, ma senza che subentri mai la possibilità che si trasformino in metafore vive di un impossibile racconto autobiografico. Quando il pubblico ministero, non ricevendo alcuna risposta dal testimone, lo esorta di nuovo a intervenire, a non avere paura di dire tutto ciò che sa, il testimone B., come lo stesso verbale riporta, rimane ancora avvolto nel più assoluto silenzio. Poi, dopo che la terra ha compiuto una completa rotazione attorno al proprio asse – come se fosse stato necessario un perfetto giro del tempo su se stesso per permettere a quel corpo di ritornare nel medesimo punto da cui si era mosso, perché in quella vertigine il corpo in lettura di Franza potesse precipitare definitivamente nel corpo muto del testimone B. –, solo allora è possibile che una frase si scriva finalmente su quelle pagine: “Mi perdoni se piango”. In L’uso dei corpi2 Agamben nota come sia puntualmente nello stato di bisogno che la relazione con il proprio corpo raggiunge la massa critica della propria natura contraddittoria. Nel momento in cui proviamo un impulso irresistibile, ad esempio il bisogno di orinare, sentiamo come proprio in quel preciso istante il corpo sia ricondotto a se stesso, coincida con la sua stessa realtà, sia una presenza a sé tutta concentrata in quella sua sola parte. È il farsi tutto corpo del corpo che esattamente in quel momento si fa proprio. Tuttavia, puntualmente, nel momento in cui quella realtà corporea si mostra del tutto coincidente con il “proprio”, essa si rivela anche come la cosa che di sé rimane la più inappropriabile. L’istante del bisogno mette cioè a nudo, prosegue Agamben, la verità di ciò che significa avere un corpo, il suo stesso effetto di proprietà, perché più che una perfetta coincidenza con se stesso, il corpo proprio si rivela piuttosto un campo di tensioni polari, i cui estremi sono definiti da un essere consegnati a se stessi nello stato del proprio bisogno e al contempo da un non poter assumere quello stato come ciò che è effettivamente voluto da chi quel corpo sente suo. Il corpo, che mai come in quel momento di bisogno si presenta a sé in quanto corpo proprio, appare
dunque originariamente dato nella sua proprietà solo nella misura in cui si rivela al tempo stesso assolutamente inappropriabile. Questa inappropriabilità del corpo proprio emerge in tutta la sua evidenza nei disturbi della gestualità e della parola, ad esempio i tic, i proferimenti compulsivi, l’impossibilità di portare a termine un movimento o i tremiti della muscolatura, disturbi che lo psichiatra Gilles de la Tourette ha ripreso all’interno di una sintomatologia che prende il suo nome. Si tratta di una sindrome dove il corpo proprio, pur rimanendo tale, cede rispetto alla netta capacità di distinguere fra il volontario e l’involontario, tra il consapevole e l’inconscio. Ma il testimone B. è come se portasse, con la presenza di ciò che di proprio nel suo corpo permane, quell’impossibilità di distinzione all’interno della stessa voce che ne dovrebbe dare testimonianza. Non vi è alcuna coincidenza, pur rimanendo uno, tra il suo corpo e il suo nome di testimone che lo appella. Il suo corpo, sciogliendosi in lacrime, taglia il tempo, così come la terra continua a fare il giro su se stessa, per poi chiederne perdono. B. può testimoniare solo quello, e cioè che il suo corpo è lì e che la terra continuerà a fare il giro su se stessa, continuerà, come il reale, a ritornare sempre sullo stesso punto. D’altronde, quale importanza potrebbe mai avere la descrizione di ciò che il suo corpo ha subìto da parte dei nazisti, di quale suono potrebbero risuonare le sue parole, che voce potrebbero mai assumere? Quel che può rimanere sono l’inappropriabilità del proprio corpo e le lacrime di cui si scusa, le sole a farsi voce di ciò che di unico soltanto a lui è accaduto, ma di cui di fatto non si è mai trovato nelle condizioni di potersi appropriare. In fondo le sole parole proferite, la richiesta di perdono, nascono da qualcosa che al suo corpo sta ancora accadendo, tra il volontario e l’involontario, anche ora, in questo stesso momento, ogni volta che la terra farà un giro su se stessa. Per questo nel suo atto di lettura, tutte le volte nello stesso punto, Franza, anche lei, precipita di nuovo in quell’atto di arresto, precipita insieme a quel corpo castrato. Perché non può esserci memoria di ciò che lì è realmente avvenuto, non può sopraggiungere alcuna testimonianza che porti il dovuto distacco da qualcosa di ormai lontano nel tempo; quel corpo è ancora lì, nelle vesti della sola continua ripetizione di un ricordo. Se si ha la forza di non lasciare questo racconto della Bachmann ai soli canoni della tragedia, è inevitabile coglierne anche un lato comico: d’altronde, come lo stesso Agamben sottolinea in Pulcinella,3 il riso e il
pianto sono due modi in cui l’uomo fa esperienza dei limiti del linguaggio, della sua incapacità di dare corpo alla profondità di un sentire doloroso o alla forza incontenibile di una liberazione gioiosa. Ma in ultima istanza, nel momento in cui il volto disfa i propri lineamenti in una smorfia involontaria e la voce incontra la propria inaggirabile interruzione, il riso e il pianto sembrano confondersi l’uno nell’altro. Che un evento corrisponda o meno al contenuto di ciò che effettivamente è accaduto, ma comunque mantenga inalterata in sé tutta la sua potenza rispetto a ogni criterio di memoria possibile, di questa esperienza non si può dire nulla, se ne può soltanto ridere o piangere. Non si tratta tuttavia di un semplice limite espressivo, dell’irrompere di un necessario abbandono mistico, semmai è l’evidenziarsi di un segreto di Pulcinella. Per questo nella filosofia, com’è testimoniato da un’antica tradizione iconografica, Democrito ridente ed Eraclito piangente sono ritratti insieme, sono presi entrambi in uno specchio che anziché rifletterli li sovrappone l’uno all’altro confondendoli, entrambi colti sul limitare di un tempo in cui nel volto il riso e il pianto si mostrano del tutto indistinguibili l’uno dall’altro. In fondo le lacrime del testimone B., la loro vergogna, mettono in ridicolo la presunzione della giustizia di ristabilire i criteri di una verità retributiva, così come la richiesta di perdono risuona come una parodia di ogni pretesa per una sentenza che creda di ripristinare equilibri ormai dissolti sulla soglia intensiva di quel solo corpo. Infatti, come Agamben scrive in Quel che resta di Auschwitz,4 è proprio l’impossibilità di congiungere insieme il vivente e il linguaggio, la voce di quella determinata singolarità e il contenuto della sua espressione, criteri portanti che connotano l’umano e il non-umano, che consegna la testimonianza alla sua esposizione. Se non vi è una diretta articolazione fra vivente e linguaggio, se il processo di soggettivazione non può che rimanere in parte sospeso all’interno di questo scarto, è allora solo lì, nell’intimità di questa non-coincidenza con se stessi, che la potenza della testimonianza può prendere corpo. La sua esposizione non può che trovare luogo nel non-luogo dell’articolazione, tra le lacrime del testimone B. e la sua richiesta di perdono, lasciando che il proprio corpo, ormai libero, continui a precipitare in se stesso. In fondo il timbro di quelle lacrime è la voce reale di ciò che la scrittura non può trattenere, ma di cui trasuda, ed è esattamente la risonanza di questa traspirazione, l’eco della sua voce muta, che impedisce a Franza di proseguire nella lettura. Sente in sé tutta la vergogna di quel corpo
che non può essere detto nella diretta esperienza di sé; ma è ancora lì, in quel suo farsi resto, che trova anche luogo l’ethos della testimonianza. Così la questione non è più chiedere il riconoscimento della colpa o concedere la grazia del perdono: si può soltanto chiedere di essere perdonati per essersi fatti luogo di ciò che ancora permane tra il vivente e il parlante. È la rivelazione di come l’unica testimonianza reale rimanga soltanto quella del superstite, il quale taglia in sé, con la presenza del proprio corpo, colui che sarebbe chiamato a porsi come terzo e a fornire la propria esperienza nei termini di una narrazione possibile. Se infatti il teste, colui che deve farsi terzo, si sente chiamato a dare conto di ciò che la sua memoria conserva, il superstite è invece colui che ha vissuto qualcosa di cui non ha effettiva memoria: ne va di tutto il suo corpo, di cui continua a esprimere il ricordo di una sempre possibile espropriazione. Ecco perché la testimonianza di ciò che un corpo ha subìto non può dimorare all’interno dei criteri di un processo, il cui fine sarebbe di darne giudizio. Il testimone B. non si trova semplicemente nella difficoltà di comunicare l’intimità di un’esperienza vissuta: il divario in lui tra corpo e parola, tra corpo e memoria, riguarda la struttura stessa della testimonianza. Da una parte allora, come lo stesso Agamben sostiene, ciò che è avvenuto nei campi di concentramento non può che apparire ai superstiti come l’unica cosa vera e assolutamente indimenticabile, dall’altra, questa stessa verità rimane del tutto inimmaginabile, irriducibile cioè agli stessi elementi reali che la costituiscono. Come Lacan ricorda nel Seminario XI,5 il permanere del soggetto presso di sé, il tentativo di una rimemorializzazione della propria biografia, crea un movimento che si rende possibile fino a quando questi non incontri il limite del reale, il quale è ciò che ritorna sempre allo stesso punto e non si presta ad alcuna elaborazione. È un’esperienza reale che non si detta più nei termini di quello che definiamo comunemente “avere un’esperienza”, avere cioè la possibilità di traslarla in un racconto possibile. È invece il ripresentificarsi di un’esperienza inappropriabile del reale che pone il soggetto in quel punto in cui, in quanto soggetto pensante, non la incontra mai, pur essendo ciò che mette in gioco tutto quanto il corpo di quella stessa soggettivazione. Per questo l’interrogazione sui campi di concentramento non potrà fare altro che ritornare incessantemente sulle testimonianze dei superstiti, portare una sorta di commento perpetuo a quelle testimonianze e lì trovare il proprio punto d’arresto. In questo esercizio appare a un certo momento evidente che la
testimonianza contiene in sé una lacuna come parte essenziale, mancanza a cui gli stessi superstiti hanno provato ogni volta a dare forma, cercando di portare a espressione ciò che in realtà non può essere testimoniato. Per portare a espressione i termini del proprio vissuto, l’esercizio della lingua non potrà che cedere in parte il posto a una non-lingua, si troverà cioè preso nella necessità di mostrare tutta l’impossibilità di che cosa possa significare testimoniare. Le parole della testimonianza si rivelano così come una lingua che non ha più alcuna significanza, ma che al contempo, nel suo esercizio, non può che inoltrarsi nei meandri di questa assenza di parole, fino a raccogliere il fondo di un’altra insignificanza, quella che sarebbe del testimone integrale, di colui che proprio in quanto tale non potrà che portare su di sé un silenzio assoluto. Il silenzio si imprimerà nel suo corpo, e il corpo si presenterà in tutta la sua drammatica appropriabilità da parte di altri: è la richiesta di perdono che risuona nelle lacrime mute del testimone B. Per questo il commento ai tentativi di testimonianza portati avanti dai superstiti non potrà fare altro che continuare a interrogarsi sul fondo di questa lacuna, o più semplicemente non potrà che provare ancora una volta, ogni volta, ad ascoltarla. Ma il tema della testimonianza non è soltanto nell’ordine del linguaggio, poiché mette in gioco anche la nostra stessa esperienza del visivo, quella che Agamben indica come l’impossibilità di poter soffermare lo sguardo sulla “figura” del musulmano. Difficoltà confermata in modo eloquente dalla pellicola che gli inglesi girarono nel 1945 nel campo appena liberato di Bergen-Belsen. La pellicola mostra senza riserve migliaia di cadaveri ammucchiati, quegli stessi corpi che per le ss non dovevano mai essere colti come tali, perché si trattava soltanto di figure, di semplici pupazzi che non rispondevano alla dignità di cadaveri e che dunque non potevano neppure reclamare il rituale della sepoltura. Nonostante la chiara difficoltà degli operatori a tenere lo sguardo su quell’inassumibile spettacolo, dovendo i filmati essere utilizzati come prove delle atrocità commesse dai nazisti, vi si trova la lenta registrazione di ogni minimo dettaglio. Soltanto nel momento in cui la camera, nel suo movimento costante, si sofferma quasi casualmente su alcune “figure” che sembrano ancora vive, accovacciate o vaganti come dei fantasmi, l’operatore non riesce a persistere con lo stesso movimento indugiante della ripresa e bruscamente ne interrompe la sequenza, ritornando immediatamente a inquadrare cadaveri. Come se lo sguardo, nella sua
capacità di lettura, riuscisse comunque a reggere i termini della propria pietà, ma sobbalzasse invece nell’insopportabilità di ciò che nel fondo degli occhi si andava impressionando come una completa illeggibilità. Quelle presenze reali, in totale discontinuità rispetto alla relazione dialettica tra vita e morte, si presentavano come la soglia di un’intensità invalicabile e al contempo come un punto in cui era praticamente impossibile anche semplicemente sostare. Un simile sguardo si posa sul mondo della vita che ha per oggetto soltanto la vita corporea, quella stessa vita che nel suo prendere forma Agamben ritrova in Pulcinella.6 Il primo riferimento da scartare è la semplice riduzione a una figura di mera vita naturale: la forma di vita che la figura di Pulcinella porta a espressione è semmai quella che rende inoperose le opere e le funzioni specifiche del vivente, le fa, per così dire, girare a vuoto su se stesse in quel punto di coincidenza in cui bios e zoe cadono insieme, contravvenendo in questo modo al destino della loro inevitabile separazione, alla necessità di voler dare inizio a una vita propriamente umana e di attribuirle una specifica definizione. Pulcinella è quel funambolo che cammina sulla corda tesa del tempo della vita, mimandone, con la sua acrobatica goffaggine, l’inesistente linearità. È in questo scarto, in questa faglia che si apre tra il soggetto e se stesso, che l’idea di una presenza immediata dello sguardo che legge il mondo nel proprio atto riflessivo – su cui la metafisica ha fondato la propria originaria certezza – perde ogni consistenza; i processi di soggettivazione smettono di strutturarsi sull’aderenza al proprio tempo, e sono attraversati dall’esperienza di un ritardo, di un’assenza e di una lacuna che li trattengono sul proprio movimento costituente.7 In questo vertiginoso procedere mimico dell’io su se stesso, quello che Valéry definisce un “Io dell’Io”, un “Antego” ,8 un altro occhio si fissa sulla vita, lasciandosi imprimere di tutta la portata impersonale che quello sguardo angelico comporta e ritrovandosi così semplice limite di un mondo. Valéry, in una lettera a Pierre Louÿs,9 propone in questo senso un esperimento che evidenzia una faglia costitutiva tra lo sguardo e il suo movimento di attribuzione soggettiva, e che l’esperienza dello specchio sembrerebbe dover determinare. Un genio maligno potrebbe decidere un giorno di divertirsi a rallentare drasticamente la velocità della luce, arrivando a ispessire l’etere al punto che chi si trovi davanti a uno specchio riceva la propria immagine riflessa attraverso un ritardo determinante. L’immagine,
pur continuando a obbedire al proprio gesto, sarà tuttavia presa in una sfasatura temporale che le impedirà di restituire una diretta corrispondenza e al tempo stesso le permetterà di articolare l’effettiva esperienza della simultaneità, perché quest’ultima si struttura proprio sullo scarto temporale che avviene tra una cosa e se stessa. È solo attraverso questa esperienza inappropriabile del tempo che è possibile spingersi oltre il soggetto, inoltrarsi verso una sensibilità del corpo che non si limiterà ad abolire semplicemente la soggettivazione, ma la tratterrà nell’immanenza dei suoi soli processi, sulla corda tesa lungo la quale una voce si disarticolerà tra il linguaggio e il corpo, tra la coscienza di sé e il suo sentirsi scivolar via. Note 1
Ingeborg Bachmann, Der Fall Franza. Requiem für Fanny Goldmann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984; tr. it. Il caso Franza. Requiem per Fanny Goldmann, Adelphi, Milano 1988. Cfr. anche Judith Kasper, Il perdono delle lacrime, in Judith Kasper, Enrica Manfredotti (a cura di), Perdonare, le tragedie mancate, Marietti, Genova-Milano 2007. 2 Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, cit. 3 Giorgio Agamben, Pulcinella, cit. 4 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit. 5 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. 6 Giorgio Agamben, Pulcinella, cit. 7 Giorgio Agamben, L’Io, l’occhio, la voce, in Id., La potenza del pensiero, cit. 8 Paul Valéry, Monsieur Teste, Gallimard, Paris 1927; tr. it. Monsieur Teste, il Saggiatore, Milano 1980. 9 Paul Valéry, Rencontre. Paul Valéry et Pierre Louÿs à Montpellier en 1890. Premières correspondances, Babel-Accroc, Mazamet 1990.
Esigere
Riprendendo il concetto di individuazione elaborato da Duns Scoto,1 Agamben si sofferma2 su come tale concetto, il cogliere la singolarità di ogni esistenza, non aggiunga nulla alla forma comune, se non una sua ultima realtà, tratteggiata dai soli termini modali con cui può offrirsi all’ostensione. Non si tratta infatti di una forma di virtù grazie alla quale quella determinata ecceità possa individuarsi, ma soltanto di un’ultimità della forma che non può dire nient’altro che il farsi presente del proprio corpo, portando con sé unicamente la virtù del suo uso. Quest’ultimo, infatti, viene assunto da Agamben attraverso un’ontologia modale, si costituisce in un’affezione che la singolarità riceve dalle sue stesse modificazioni; occorre quindi pensare il virtuale proprio come uso, cioè come qualcosa che sta al di là della dicotomia tra essere e prassi, sostanza e azione. Il virtuale non è ciò che si oppone al reale, ma piuttosto ciò che non cessa mai realmente di disdire e disattivare l’essere in opera dell’opera, la convinzione di poterla cogliere nella sua stessa realizzazione finale. Il concetto di uso che Agamben riprende, indicandolo come una neutralizzazione del tipico movimento per opposizione tra potenza e atto, essere e agire, materia e forma, essere-in-opera e abito, veglia e sonno, risulta sempre virtuoso, ha cioè una virtualità propria a cui niente si deve aggiungere per renderla operativa. Non esiste infatti un essere virtuoso, perché virtuoso rimane unicamente l’uso, il quale virtualmente continua a passare tra l’essere e l’agire. Tutto questo a rivelare non tanto come l’uso, nella propria virtualità, passi in una totale indifferenza rispetto alla singolarità in cui si determina, quanto piuttosto, prosegue ancora Agamben, come l’uso sia già di per sé in essere rispetto a qualsiasi determinazione possa poi giungere in quell’esclusiva unità singolare. Non si tratta quindi di un prendere forma che vale per qualunque singolarità, ma di come in quella esclusiva singolarità permanga l’aspetto qualunque, impersonale, da cui ogni singolarità rimane costituita. Ogni vita presa nella sua singolarità è allora esemplare perché, come
Agamben scrive in La comunità che viene,3 l’esempio è esattamente ciò che sfugge all’antinomia di universale e particolare, vale come riferimento per tutti i casi, ma al contempo è solo una parte di essi, rimane inscritto in quell’esclusiva singolarità fra le altre, anche se è in grado di prendere il luogo di ciascuna poiché vale per tutte. Ogni esempio è colto in nome della sua inaggirabile particolarità, ma al tempo stesso la sua particolarità ne vale l’assunzione paradigmatica. Dal momento che non risponde perfettamente né al particolare né all’universale, l’esempio è ciò che mostra i criteri stessi della singolarità. Una vita, il singolo caso, passando sempre da uno a uno, portano in sé l’indeterminazione del proprio tratto impersonale, così l’esempio mantiene se stesso accanto a ciò che di sé mostra, come accade a una vita che si presenta sempre come inqualificabile e al tempo stesso indimenticabile, perché quella singolarità, nel suo tratto esemplare, non può che mettere in evidenza la sua esigenza, i suoi modi, che sono sì i propri, ma ugualmente sono per tutti. Esigere infatti, ritornando a L’uso dei corpi, non è implicare, non è avvolgere in sé, ma riprendere per lasciare che sia. Precisamente sulla scorta del paradigma di una singolarità esemplare, Benjamin può riconoscere come la vita del principe Myškin esiga di restare indimenticabile anche nel caso in cui nessuno la ricordasse. Ciò significa riconoscere un’esigenza senza che necessariamente debba essere, è uno statuto ontologico che, pur non essendo nell’ordine dell’essenza, non coincide neppure con la pura realtà attuale. Nella struttura onto-logica Agamben colloca questa esigenza modale sulla soglia, nel trattino che unisce nella separazione l’ontico dal logico, così come l’esistenza dall’essenza. Di conseguenza, se l’induzione procede dal particolare all’universale e la deduzione dall’universale al particolare,4 ciò che definisce il paradigma è invece una terza e paradossale specie di movimento, che va dal particolare al particolare. L’esempio costituisce una forma peculiare di conoscenza il cui statuto epistemologico risiede proprio nella capacità di revocare l’opposizione dicotomica tra universale e particolare, permettendo l’affiorare di una singolarità che nessuno dei due termini della dicotomia riesce a ridurre a sé. Il regime del suo discorso, seguendo le orme di Enzo Melandri,5 passa così dalla logica all’analogia, perché è peculiare dell’analogon non rispondere più né del particolare né del generale. L’uso retorico dell’analogia spezza l’utilizzo linguistico della metafora, e le immagini, come viene mostrato in Ninfe, sono la permanenza di quanto gli uomini che ci hanno
preceduto hanno sperato e desiderato, temuto e rimosso. E se è nell’immaginazione che qualche cosa come una storia è divenuta possibile, sarà ancora attraverso l’immaginazione che essa dovrà ogni volta decidersi, perché le immagini non sono delle semplici sostanze,6 quanto piuttosto degli accidenti, o forse meglio, riprendendo la loro prossimità con l’esperienza amorosa, sono degli accidenti in sostanza, così come Dante e Cavalcanti riconoscono essere il sentimento amoroso. All’interno di un’ontologia modale colui che si esprime e ama è attraversato dall’affezione che riceve dalle sue stesse trasformazioni e lascia che l’immanenza del sentito attraversi ogni punto dell’espressione, così come l’essere in potenza permane in ogni punto di coincidenza in cui passa all’atto. Il modo è un’affezione che determina lo stato ultimo della soggettivazione, la sua stessa ragione di esistere, e non aggiunge alcuna nuova essenza al suo eventuarsi, pur modificandola. È questa la paradossalità di uno statuto d’essere che, pur essendo privo di un’esperienza propria, rimane tuttavia distinto da ciò a cui inerisce e porta una metamorfosi al suo prendere forma. Una modalità che si regge ancora sulla relazione e la distinzione fra essenza ed esistenza, ma ne inverte il principio di asimmetria: se in termini strettamente ontologici la separazione di un elemento dall’altro non è reciproca – l’essenza può permanere anche senza l’esistenza, mentre non può accadere il contrario – per un’ontologia modale, invece, un elemento non può sussistere senza l’altro, né essere separato da ciò di cui è modo. Non solo, se si concepisce l’esistenza nella propria modalità, si avrà un rovesciamento gerarchico del primato aristotelico dell’essenza, che rende non necessario il passaggio dall’essenza all’esistenza. Se infatti l’esistenza singolare viene concepita come il modo di un’essenza preesistente, l’individuazione risulterà meramente accidentale, la sua struttura apparirà del tutto inessenziale e non apporterà all’essenza null’altro che una modificazione momentanea ed estrinseca. Infatti, se l’essenza può anche essere priva del suo modo, non vi è alcuna esigenza che l’essenza si porti nell’esistenza, trovi in quel passaggio i termini essenziali delle sue trasformazioni. Se invece l’esistenza non è più soltanto un modo in cui l’essenza prende momentaneamente forma, essa può affiorare in tutta la portata della sua esigenza. Ed è proprio il concetto di esigenza, accanto a quello di immanenza, che per Agamben si rivela prezioso, perché all’interno di un’ontologia modale permette di ripensare gli stessi termini di possibilità e
contingenza. L’esistenza, infatti, investita dall’esigenza, perde la sua fissità e, contraendosi sulla potenza, esige la sua possibilità, la propria potenza. Se l’esistenza diventa un’esigenza della possibilità, allora la possibilità diventa un’esigenza dell’esistenza. Non è più il possibile a esigere di esistere, ma è il reale a esigere la propria possibilità. L’essere stesso, declinandosi alla voce media, diviene esigenza che neutralizza e rende inoperose tanto l’essenza che l’esistenza, tanto la potenza che l’atto. L’esistenza singolare di una vita diviene allora una serie infinita di oscillazioni modali, attraverso le quali ogni volta la sostanza si costituisce e si esprime. Perché l’avverbio modo, che in latino significa “poco fa, or ora, recentemente”, indica nell’ora un lieve scarto temporale, una schisi nella non coincidenza che l’attimo presenta con se stesso. Così or ora, poco fa, recentemente ma ancora or ora, qualcosa di simile a una faglia si presenta nella struttura della continuità temporale: un’esperienza del tempo che porta a una sorta di arresto nella simultaneità della sua ripresa. Negli incontri, attraverso cui la singolarità di una vita tende alla propria forma, qualcosa è sempre perduto e tuttavia, proprio in quanto perduto, esige di permanere in noi come tale e si fa indimenticabile. È quella che in Genius Agamben definisce un’apostrofe del dimenticato, di ciò che non può essere misurato nei termini di una pura coscienza, ma la cui insistenza caratterizza l’insorgenza di ogni forma di sé. È l’esemplare, ciò che non è mai definito da una specifica proprietà, ma che si mostra nella totalità del suo farsi evidente.7 Pur essendo l’esemplarità la proprietà che fonda ogni forma di appartenenza, al contempo essa è anche ciò che ognuna di queste appartenenze è in grado di revocare a se stessa. Da qui la sua costitutiva ambiguità, in quanto, se da una parte l’evidenza fonda la possibilità di ogni criterio di appartenenza, dall’altra, mostrandosi ogni volta nella sua irriducibile ed esclusiva singolarità, revoca anche il principio di quella stessa appartenenza; in altri termini, nel momento in cui ne dà conferma non può che metterla, attraverso il semplice mostrare se stessa, anche radicalmente in questione. Ecco perché l’esemplare viene indicato da Agamben come quel comune che recide ogni comunità reale, l’impotente onnivalenza di un essere qualunque. Queste singolarità pure, che si mostrano attraverso lo spazio vuoto della loro esemplarità, non possono essere direttamente identificate con nessuna delle proprietà che di sé comunque mostrano – ogni concetto di identità ne è semmai l’espropriazione –, e solo così possono divenire le
veggenti di un essere in comune. È come se l’esemplarità mettesse in evidenza, insieme al suo essere detto, una situazione puramente ottica che risveglia una funzione di veggenza,8 in grado di restituire l’evento di ciò che accade simultaneamente in forma di fantasma e constatazione, di critica e compassione. La vocazione, che per definizione sembrerebbe presupporre un’esigenza esclusiva, rispondere a un’unica scelta fra le molte possibili, si rivela in realtà come il tono di una lingua minore, in grado però di vibrare su quella che riconosciamo come una lingua maggiore, quella il cui destino è di significare ogni volta i contenuti di un’esperienza possibile. Per Deleuze9 si può riscontrare questo uso minore della lingua, oltre che in Kafka, anche in Sacher-Masoch, perché nonostante la sua lingua si presenti in un tedesco molto puro, essa, come scrive la moglie Wanda,10 è percorsa da una sorta di tremito di fondo, che non risponde tanto alla caratterizzazione dei personaggi, all’averne dato una particolare coloritura psicologica, ma dipende da un vero e proprio effetto della lingua, da un balbettare del proprio stile. Una lingua chiamata così a incepparsi nei propri processi, a sospendersi su se stessa, a orientarsi verso continue deviazioni, verso biforcazioni che ne presuppongono sempre nuove possibili proliferazioni. È un uso stilistico che porta l’intero linguaggio a essere sospinto verso il proprio limite e a soggiornarvi, senza però di fatto avervi aggiunto nulla. In La comunità che viene Agamben riprende un breve trattato di Tommaso d’Aquino11 sulle aureole, dove si mostra come la beatitudine degli eletti possieda in sé tutti i beni necessari alla perfetta corrispondenza della natura umana, senza che nulla di essenziale possa esservi aggiunto. Vi è tuttavia qualcosa che può apparire in sovrappiù, come un premio accidentale che rende quella beatitudine ancora più splendente. L’aureola è un supplemento che si aggiunge alla perfezione dei beati, come se sulla figura della perfezione si stagliasse un riverbero che fa tremare i limiti del suo irradiarsi. È tuttavia proprio questo tremore che porta la determinazione della beatitudine a individuarsi in quella singolarità, come se soltanto la singolarità di una perfezione potesse risplendere in quell’unico modo, sebbene sia uno splendore che è di tutti i beati. Prova ne è che l’individuazione non comporta tanto l’aggiunta di una nuova essenza o il cambiamento di natura, quanto un’ultimità che presenta quella singolarità come uno sfrangiarsi della determinazione d’essere dei suoi limiti, un individuarsi per pura indeterminazione.
Si può pensare all’aureola come alla presenza di una zona in cui possibilità e realtà, potenza e atto diventano indistinguibili. La singolarità di una vita, giunta sulla soglia della sua fine, in quel punto d’insorgenza in cui ha consumato tutte le sue possibilità, riceve in dote una possibilità supplementare intessuta di tutto il proprio non-vissuto. L’impercettibile tremito del finito sottrae determinatezza ai limiti di quella singolarità e rende quella vita capace di farsi qualunque. La sua beatitudine infatti corrisponde a una potenza che viene solo dopo l’atto, che si è confusa con il suo divenire e per un attimo, un attimo dalla durata del tutto indeterminata, ancora risplende, rimanendo confusa in una sorta di materialità che non resta sotto la forma in cui si crede si sia determinata, ma ancora insorge, si circonda in se stessa e s’aureola. Note 1
Giovanni Duns Scoto, Ordinatio. Commento alle sentenze. Distinzione prima e seconda, Casa Mariana Editrice, Frigento 2010. 2 Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, cit. 3 Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 4 Giorgio Agamben, Signatura rerum, cit. 5 Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004. 6 Giorgio Agamben, L’essere speciale, in Id., Profanazioni, cit. 7 Giorgio Agamben, La comunità che viene, cit. 8 Gilles Deleuze, Cinéma 1. L’Image-mouvement, Minuit, Paris 1983; tr. it. Cinema 1. Immaginemovimento, Einaudi, Torino 2016. 9 Gilles Deleuze, Critique et clinique, cit. 10 Wanda von Sacher-Masoch, Meine Lebensbeichte, Schuster und Loeffler, Berlin 1907; tr. it. Le mie confessioni, Adelphi, Milano 1977. 11 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae; tr. it. La Somma Teologica, testo latino dell’edizione leonina, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014.
Divenire animale
Nella pagina accanto al frontespizio del libro L’aperto1 si trova la riproduzione di una miniatura di una Bibbia ebraica del XIII secolo, conservata presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, che rappresenta il banchetto messianico dei giusti nell’ultimo giorno. I santi sono raffigurati con teste di animali. Tenendo conto del fatto che non si tratta di una semplice simbologia escatologica, in quanto alcune di esse hanno chiari tratti asinini o scimmieschi, siamo posti di fronte all’indice di una vera e propria metamorfosi. È come se in quella raffigurazione dei beati, scrive Agamben, fosse venuta meno la necessità, tipica della nostra cultura, di articolare e dividere incessantemente ciò che in realtà non può essere né definito né articolato, e cioè la vita stessa; o meglio, sembra venuto meno l’impegno della nostra cultura, visto che la vita di per sé non si può mai definire effettivamente, di trovarne continue articolazioni e divisioni. Se la noia si rivela dunque come il sentimento fondamentale di ogni soggettivazione, al punto che per Agamben l’angoscia descritta da Heidegger in Sein und Zeit2 sembra essere una semplice risposta reattiva a essa, il vuoto che in tale sentimento vibra è prossimo allo scuotimento che perviene all’animale dal suo essere esposto a qualcosa che, tuttavia, non gli si rivela mai come tale. Così, proprio nel momento in cui la noia assorbe il sentire di fondo dell’uomo, quest’ultimo è attraversato dall’eco di un simile scuotimento essenziale, che lo pone in estrema vicinanza – anche se si tratta di una similitudine soltanto apparente – a quello che potremmo indicare come lo stordimento animale. Uomo e animale infatti, come abbiamo visto, nel gesto che maggiormente li fa aderire a se stessi, si trovano aperti a una chiusura, consegnati integralmente a qualcosa che ostinatamente gli si rifiuta (cfr. supra, Una vita del tutto personale). Si tratta di una similitudine soltanto apparente perché l’animale, nello stordimento, rimane comunque in relazione immediata con il proprio disinibitore; rispetto a esso resta infatti sempre esposto e come tramortito, nel senso che l’animale sembra del tutto incapace – e con ogni probabilità non ne
sente neppure il bisogno – di sospendere e disattivare la sua relazione col cerchio dei propri specifici disinibitori. L’animale ci appare costituito in modo che mai qualcosa di simile a una pura possibilità gli si possa manifestare in quanto tale, intendendo la possibilità non come un’alternativa all’essere o al non essere, tra ciò che può rimanere in potenza oppure passare all’atto, ma come il puro possibile di ciò che comunque è preso all’interno del proprio accadimento. All’animale, in altri termini, non sembra essere data alcuna esperienza anacronistica, nel senso di un movimento in atto nel divenire stesso del tempo. L’estrema prossimità tra lo stato che nell’uomo subentra attraverso il sentimento fondamentale della noia e lo stordimento animale è tagliata per Agamben da una differenza del tutto irricomponibile; tuttavia, è proprio su come intendere questo taglio che diviene fondamentale misurarsi; si tratta cioè di capire se, come abitualmente pensiamo, esso inauguri un distanziamento sempre maggiore o se invece, come lo stesso Agamben propone, rimanga il luogo di maggiore prossimità possibile tra l’uomo e l’animale. Da una parte l’animale nel proprio stordimento resta in relazione immediata con il suo disinibitore, sebbene quest’ultimo non possa mai rivelarglisi come tale, perché l’animale, almeno per come ci appare, rimane incapace di sospendere e disattivare volontariamente la relazione con esso, che si mantiene così parte costitutiva del suo stesso essere. Dall’altra, la noia che avvolge l’essere umano, colta come sentimento fondamentale, è quell’operatore metafisico attraverso cui per Heidegger avviene il passaggio dalla povertà di mondo dell’ambiente animale al mondo umano; sembrerebbe cioè essere il punto di separazione, di distanziamento irreversibile che si instaura tra l’essere umano e l’animale. Per Agamben, invece, questo punto tangente di scissione non dev’essere colto come l’apertura a uno spazio ulteriore, più ampio e luminoso, in grado di portare l’essere umano al di là della diretta corrispondenza con cui l’animale vive il proprio ambiente. Al contrario, quel taglio, in cui l’essere umano mostra la capacità di sospensione e disattivazione del rapporto animale col proprio disinibitore, permane come il momento in cui lo stesso essere umano è maggiormente tangente con l’essere animale. Quel punto di sospensione non allude tanto a ciò che si inscrive di comune tra l’uomo e l’animale, ma è il passaggio in cui l’essere umano capisce che cosa significhi lo stordimento rispetto al proprio disinibitore e cioè il proprio divenire animale. Per questo si tratta di un
riferimento facilmente fraintendibile: il motivo che lo giustifica non è affatto quello di indicare nell’essere umano, il mantenimento in atto del proprio essere animale, ma di cogliere come la permanenza in lui di quel taglio lo impegni non tanto nella dinamica del suo farsi sempre più umano, troppo umano, quanto nell’esperienza di un proprio divenire animale. L’animalità dell’uomo non è dunque il punto da cui l’uomo proviene e da cui si deve allontanare, ma è ciò che continuamente lo attende. Come Deleuze e Guattari scrivono in Kafka,3 divenire animale significa tracciare una linea di fuga colta in tutta la sua positività. Vuol dire varcare ogni volta una soglia d’intensità espressiva, persistere in un continuum passando però di soglia in soglia, lasciando che il prendere forma delle espressioni sia attraversato dalla costante dissoluzione di segni asignificanti. Se si considera ad esempio Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande,4 si può infatti cogliere come Kafka vi porti un movimento di fuga attraverso la soglia d’intensità di uno slittamento che passa dal soggetto d’enunciazione, colui che sembrerebbe detenere il senso dell’espressione, al soggetto d’enunciato, colui che invece dovrebbe corrispondere all’oggetto del racconto. Per fare questa operazione espressiva è necessario tener conto che, nonostante il fatto che ogni soggetto d’enunciazione non possa che annunciarsi come “io” semantico, lo slittamento si rende tuttavia possibile perché in quel soggetto, proprio nel suo farsi motivo d’enunciazione, rimane attiva l’impersonalità di un “si” che lo pone simultaneamente come soggetto d’enunciato. In modo tale che nel racconto non c’è affatto bisogno che sia effettivamente il soggetto narrante ad andare in campagna per le proprie nozze (prospettiva rispetto alla quale egli dimostra una grande indolenza), ma può anche inviare unicamente il suo corpo vestito, il suo annuncio di carta, mentre il soggetto d’enunciazione può liberamente rimanere a letto come uno scarafaggio o un cervo volante. È una metamorfosi della soggettivazione, un divenire animale che fugge nel taglio, attraversando la soglia d’intensificazione tra il soggetto d’enunciazione e il soggetto d’enunciato. Kafka era costantemente in lotta con il senso metaforico del linguaggio, era sempre alla ricerca di una letteralità della parola, tanto è vero che nei Diari5 scrive espressamente che le metafore rimangono una delle tante cose che lo fanno disperare dei suoi scritti. Vorrebbe liberarsi dall’utilizzo di ogni espressione metaforica, simbolica, svincolarsi da ogni significazione così come da ogni semplice designazione. In fondo, scrivono ancora Deleuze e
Guattari, il processo di metamorfosi rimane di per sé esattamente il contrario dell’elaborazione metaforica. Nel venir meno di ogni legame inscindibile tra il linguaggio e il suo senso figurato, le parole dovrebbero manifestarsi come percorse da intensità di suoni che le deterritorializzano, permettendo loro di scorrere attraverso determinate linee di fuga. Non si tratta più di capire se il linguaggio sia in grado di raffigurare la rassomiglianza tra il comportamento animale e quello umano, dal momento che non esiste più un senso strettamente ontologico di uomo o di animale, ma di stabilire se sia possibile una congiunzione di flusso tra loro dove uno deterritorializza l’altro, un passaggio continuo di soglie d’intensità in un movimento permanente di reciproca reversibilità. Il processo di metamorfosi è un divenire come differenze d’intensità che oltrepassano soglie, in modo tale che non è più l’animale che parla come un uomo, ma è un’animalità della parola che vibra in sequenza, rivelando un uso intensivo asignificante della lingua. Per questo non ci sono più un vero e proprio soggetto d’enunciazione e un vero e proprio soggetto d’enunciato: non è più il soggetto d’enunciato a essere come un cane, mentre il soggetto d’enunciazione rimarrebbe un uomo, così come non è più il soggetto d’enunciazione a essere come uno scarafaggio, mentre il soggetto d’enunciato rimarrebbe un uomo. È piuttosto un circuito di stati momentanei di un mutuo divenire l’uno nella reversibilità intensiva dell’altro. Così, scrivono Deleuze e Guattari riprendendo Wagenbach,6 quando il senso è attivamente neutralizzato e la parola, nella sua letteralità, regna sovrana, è proprio in quell’istante che scaturisce direttamente l’immagine. Se del senso resta soltanto quanto basta per dirigere linee di fuga, non si ha più la necessità di designare qualcosa sulla base di un senso proprio e neppure quella di passare attraverso l’assegnazione di metafore in grado di instaurarne uno figurato. Le immagini che scaturiscono formano unicamente sequenze di stati intensivi, che rimangono percorribili in un senso o nell’altro, ma anche dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto. In questo percorso le immagini si fanno puro divenire di metamorfosi, in cui avviene per esempio il divenir-cane dell’uomo e il divenir-uomo del cane, il divenir-scimmia o scarafaggio dell’uomo e viceversa. Accade così che il termine cane, in questa lingua fattasi ormai minore, non indichi più direttamente un animale, per applicarsi poi per metafora ad altre cose di cui si potrebbe dire che sono come quell’animale.
Non ha quindi più alcuna importanza quanto lentamente questo divenireanimale avvenga, perché, per lenta che possa essere questa metamorfosi, essa costituisce ormai una deterritorializzazione assoluta dell’uomo, che si oppone a ogni deterritorializzazione relativa che l’uomo è in grado di operare su se stesso spostandosi, decidendo di viaggiare. Il divenire-animale infatti non è nient’altro che un viaggio immobile e statico, che può essere vissuto per sole intensità, è un continuo differenziato in cui soglie d’intensità precipitano reciprocamente l’una nell’altra. In questa sospensione, in questo restare inattivo del disinibitore, per Agamben lo stordimento dell’animale e il suo essere esposto in un rivelato possono essere toccati come tali. Ciò che rimane al centro del mondo umano e della sua Lichtung, di quella che Heidegger indica come una radura dell’essere, non è altro che lo stesso stordimento animale, così come la meraviglia che l’essente sia non è altro che l’essere attraversati dallo scuotimento essenziale che proviene dal proprio essere esposti in una nonrivelazione. In questo senso la Lichtung è veramente, prosegue ancora Agamben, un lucus a non lucendo. Di modo che l’aperto non risulta altro che l’apertura a una chiusura e colui che vi guarda non vi vede altro che un nonvedere. Se l’animale non conosce né essente né non essente, né aperto né chiuso, se si pone in un’esteriorità più esterna di ogni aperto e dentro un’intimità più interna di ogni chiusura, questo significherà che nell’animale il divenire se stesso permane al di fuori di quella che definiamo una struttura ontologica. Perché la zona di non-conoscenza che è in questione non può che porsi al di là della distinzione tra il conoscere e il non conoscere, tra lo svelare e il velare, così come tra l’essere e il nulla. Questo trovarsi al di fuori dell’essere, in un puro divenire, non comporta però alcuna negazione o rimozione, non significa affatto affermare qualcosa che si rivela come inesistente, quanto piuttosto tratteggiare un passaggio reale che si pone fuori della differenza costitutiva fra essere ed ente. Sarebbe infatti del tutto inutile provare a tracciare i contorni di una nuova creazione che non sia né umana né animale; questo non farebbe altro, per Agamben, che creare un’ulteriore mitologia. La questione è che l’essere umano è il risultato di una continua divisione sull’articolazione tra uomo e animale. Rendere inoperosa la macchina che governa questa concezione non porterà a cercare nuove e ulteriori articolazioni, quanto a esibire il vuoto centrale che permane all’interno del suo stesso meccanismo; si tratterà di
arrischiarsi in questo vuoto dell’articolazione e sospendervi la stessa sospensione che ne permetterebbe il movimento: sarebbe allora il momento festivo tanto dell’animale quanto dell’uomo. Nella disattivazione della possibilità come tale ciò che emerge in tutta la sua urgenza è dunque l’origine stessa della potenza, è un processo di soggettivazione che prende forma nel proprio poter essere. Ma questa potenza o possibilità originaria ha costitutivamente la forma di un’impotenza, di una potenza di non essere, perché è soltanto a partire da questo non potere, dalla disattivazione delle singole possibilità fattizie, che quella stessa soggettivazione trova il punto essenziale del proprio stordimento. Note 1
Giorgio Agamben, L’aperto, cit. Martin Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970. 3 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, cit. 4 Franz Kafka, Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande, in Id., Gesammelte Werke, cit.; tr. it. Preparativi di nozze in campagna e altri racconti, Mondadori, Milano 1994. 5 Franz Kafka, Tagebücher, 1910-1923, in Id., Gesammelte Werke, cit. 6 Klaus Wagenbach, Franz Kafka. Bilder aus seinem Leben, Erweiterte und veränderte Wagenbach, Berlin 1989; tr. it. Franz Kafka: immagini della sua vita, Adelphi, Milano 1983. 2
Non ora
A questo punto è inaggirabile la domanda su cosa comporti la consapevolezza che il tempo della soggettivazione esiste comunemente nella forma del proprio poter essere; si tratta cioè di capire se questa potenzialità rimanga presa nei soli termini della sua possibilità o se non sia attraverso la disattivazione del criterio stesso di possibilità che l’origine della potenza giunge alla presenza del proprio prendere forma.1 In questo modo l’originario avere la possibilità di essere si manifesterebbe nella forma costitutiva di un’impotenza, di una potenza “di non”, in una disattivazione delle singole e specifiche possibilità fattizie, così che il possibile come tale si presenti nella sola forma di un poter non essere ciò che potrebbe divenire. Questo non significa che la possibilità “di non” esprima un ritrarsi o un procrastinarne i termini della fatticità, è piuttosto un avanzare che mantiene in sé una fase di stallo. Occorrerà allora riflettere ulteriormente su quale sia la struttura temporale implicata in tutto questo, visto che la temporalità del divenire non viene certo meno. Nel Seminario XI2 Lacan afferma che se il soggetto è il soggetto del significante, determinato cioè da una rete sincronica in grado di dare struttura all’espressione di sé, si può allora immaginare che, rispetto alla dinamica di tale rete, si producano dei momenti privilegiati di tipo diacronico. Tuttavia, aggiunge subito Lacan, questi momenti privilegiati non derivano da effetti statistici imprevedibili, ma sono implicati dalla stessa struttura sincronica della rete. Non si è quindi di fronte a una dinamica per cui, rispetto alla rete sincronica presa all’interno della successione cronologica, si hanno poi dei ritorni diacronici privilegiati, come può ad esempio accadere con la memoria involontaria, la quale, in quanto momento diacronico privilegiato, evidenzia il suo legame con la struttura sincronica: tale diacronia non rimane legata all’avvenimento sincronico che quella determinata soggettività sta vivendo, ma è rivelativa di come quel momento sincronico su cui la memoria involontaria ritorna abbia mantenuto nel tempo il suo risvolto diacronico. Per provare a dipanare ulteriormente le non facili implicazioni di questo
passaggio possiamo riprendere lo slittamento che Maurice Blanchot porta al momento privilegiato della memoria involontaria in Proust.3 Il tempo, scrive, è infatti capace del gioco più strano: un incidente insignificante accaduto in un determinato momento – non soltanto ormai del tutto dimenticato, ma vissuto al momento stesso del suo accadimento in tutta la sua insignificanza – viene riportato in presenza dal corso del tempo. Questo ritorno del passato non avviene però nella forma che attribuiamo alla comune dinamica di una memoria involontaria, come accade nella famosa scena della madeleine, dove il ricordo del sapore della madeleine si associa a un altro carico di affettività, ben radicato nella memoria. Al contrario, Blanchot sembra suggerire che siamo alla presenza di un ricordo di per sé insignificante, senza alcun legame diretto con una particolare affettività, almeno per quanto riguarda il suo specifico contenuto; non si tratta neppure di un vero e proprio ricordo, quanto di un fatto reale accaduto di nuovo, in un nuovo momento del tempo. È lo stesso avvenimento, ma un arco di tempo si frappone tra i due eventi della narrazione, che tuttavia nell’esperienza rimangono uno. Si evidenzia qui un’esperienza della temporalizzazione del tempo molto vicina a quella che Roland Barthes riprende dall’haiku.4 Il movimento espressivo che determina l’haiku non tende tanto a ritrovare il tempo perduto – attraverso l’azione sovrana della memoria involontaria, come una certa lettura di Proust potrebbe portarci a pensare –, ma è un trovare, e non tanto un ritrovare, il tempo sùbito, all’istante, attraverso una scrittura che rimane presa nell’atto di ciò che vede. È così che il passo inciampante nel lastricato del cortile di palazzo Guermantes è lo stesso passo che ha inciampato sulle pietre irregolari del battistero di San Marco. È lo stesso passo che mostra tuttavia, simultaneamente, la differenza della forma dei due lastricati, fissi come in una fotografia sovrapposta. Lo stesso identico passo e non un’ombra o l’eco di una sensazione passata, ma lo stesso evento. Un incidente, del tutto insignificante, rompe così la trama del tempo, la fa uscire dai suoi cardini: è una presa reale, certo sfuggente, ma indiscutibile, attraverso la quale Proust dichiara di aver stretto insieme l’attimo di Venezia con l’attimo al palazzo Guermantes nella sovrapposizione differenziata delle due immagini. Non si tratta quindi di una relazione diretta tra passato e presente, ma di una stessa presenza che fa coincidere in una simultaneità sensibile momenti che sono separati nel corso di una durata. È il tempo che sembra essere cancellato dalla stessa esperienza del tempo; ma Proust corregge
immediatamente questa prima affermazione, come fosse stata una svista, e dichiara che quel minuto fuori dal tempo gli ha permesso di immobilizzare ciò che abitualmente non si afferra mai: un po’ di tempo allo stato puro. Quell’esperienza fuori dal tempo, grazie alla simultaneità che ha realmente sovrapposto l’inciampo di Venezia con quello di palazzo Guermantes, permette a Proust di percorrere tutta la realtà del tempo, e di percorrerla come libera dagli avvenimenti che abitualmente la riempiono all’interno della vita ordinaria. Un tempo puro, senza avvenimenti, uno spazio interiore in divenire, dove l’estasi del tempo si dispone in una simultaneità affascinante. Tutto questo, però, non è altro per Blanchot che il reale tempo del racconto, perché il tempo non si è mai effettivamente rivelato come fuori dal tempo, ma come fuori è stato sperimentato. Si mette così in luce lo spazio temporale di un’immaginazione pura in cui l’arte trova le sue risorse e le dispone in sequenza. È l’opposizione significante tra diacronia e sincronia che in Infanzia e storia5 Agamben coglie fra il mondo dei morti e il mondo dei vivi. Si tratta di significanti instabili, dove la morte non produce antenati, ma larve, così come la nascita non produce direttamente uomini, ma bambini. I bambini e le larve rappresentano la discontinuità nel continuo del mondo; non ne sono una vera e propria interruzione, ma un’intensificazione per potenza, esprimono lo scarto differenziale fra sincronia e diacronia su cui si fonda la possibilità stessa di una storia, di un racconto. Così tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti permane la continuità intensiva di un passaggio che lascia sussistere due punti di discontinuità come necessari alla funzione significante. In modo tale che il passaggio fra sincronia e diacronia, fra mondo dei vivi e mondo dei morti, avviene attraverso soglie di cui i significanti instabili sono la cifra. Per Agamben infatti la cifra dell’uomo contemporaneo, colui che vive il proprio tempo, è quella di non riuscire ad avere un’esperienza del tempo adeguata alla sua idea della storia; per questo egli rimane angosciosamente scisso fra il proprio essere nel tempo, inteso come una fuga inafferrabile di istanti, e il proprio essere nella storia, intesa come dimensione originale del suo stesso accadere. Scissione in cui la realtà diacronica e la struttura sincronica sembrano non poter mai coincidere all’interno di una medesima struttura temporale. Sempre nel Seminario XI Lacan sostiene che la faglia dell’inconscio potrebbe essere definita come pre-ontologica, perché la prima insorgenza
dell’inconscio consiste non nel dare adito a un’ontologia, ai termini dell’essere o del non-essere, ma del non-realizzato. Non siamo tuttavia posti davanti a una vera e propria negazione, quanto piuttosto a una forma di disconoscimento della stessa struttura ontologica che si vuole ancorare ai termini di ciò che è stato o non è stato. Certo, come scrive Deleuze in Présentation de Sacher-Masoch,6 il disconoscimento potrebbe sembrare molto più superficiale di una negazione o di una distruzione parziale. Ma non è così, perché si tratta di qualcosa di totalmente diverso: è il punto di partenza, l’insorgenza di un’operazione che consiste nel contestare il giusto diritto di ciò che è stato, nel far assumere a ciò che è stato una sorta di sospensione, una neutralizzazione in grado di aprirci al di là del dato un nuovo orizzonte non dato. Agamben mostra in Signatura rerum7 che l’analogia consente di opporsi all’alternativa drastica “o A o B”, che come principio dicotomico domina la logica occidentale, per far valere un ostinato “né A né B”. L’analogia non interviene a comporre le dicotomie logiche in una sintesi superiore, ma agisce per trasformazione. È un campo di forze percorso da tensioni polari che determina la perdita di una loro identità sostanziale. Il terzo analogico si costituisce così attraverso la deidentificazione e la neutralizzazione dei due termini comparati, diventando il loro punto di indiscernibilità. Per questo è impossibile separare con chiarezza un esempio dalla sua paradigmaticità, dal suo valere per tutti e al contempo essere un caso singolo fra gli altri. È in questi termini che la figura di Bartleby8 si fa per alcuni versi esemplare. La sua formula “avrei preferenza di no” rimane sconvolgente e lascia, come scrive Deleuze,9 il vuoto dietro di sé. Si tratta tuttavia di un vuoto che presenta innanzitutto un carattere contagioso. La lingua minore, che la ripetizione ossessiva di Bartleby impone, costringe la lingua degli altri, la loro lingua ufficiale, a ripercuotersi sul vuoto della propria significanza, a sentire la risonanza di questo vuoto nell’atto del proprio voler dire. Sono ora le loro affermazioni a risuonare vuote, a fronte del pieno senza sostanza della formula. La quale, tuttavia, non è soltanto un dispositivo orientato a disinnescare l’atto performativo del dire dell’altro, perché la sua espressione e la sua ripetizione hanno innanzitutto un effetto diretto sull’esistenza dello stesso Bartleby. Nel momento in cui proferisce la frase, infatti, egli non è più in grado di copiare, di portare avanti il suo compito, anche se questo non lo condurrà mai a trarre le conseguenze logiche dell’espressione, articolando
una nuova enunciazione di senso; Bartleby non arriverà cioè mai a formulare la dichiarazione che preferirebbe non copiare, che desidererebbe smettere di farlo. L’espressione “avrei preferenza di no” è un’evidenza e non un ragionamento, è un’esigenza, tanto è vero che, quando l’avvocato chiede a Bartleby di dargli spiegazione di questa sua affermazione, lui non può far altro che dichiarare la sua evidenza, che chiunque dovrebbe immediatamente cogliere. La formula-blocco, così la definisce Deleuze, non ha soltanto l’effetto di esprimere un rifiuto di ciò che Bartleby preferisce non fare, ma rende direttamente impossibile per lui fare ciò che aveva sempre fatto, ciò che ancora avrebbe potuto preferire continuare a fare. Ciò che gli rimane tra le mani è soltanto la possibilità di insistere a ripetere la formula, e nel respiro che questa comporta continuare a vivere, senza più uscire dallo studio dell’avvocato, rimanendo chiuso per sempre in prigione, lasciandosi morire d’inedia. La formula elimina così dall’orizzonte sia il preferibile sia ogni altro riferimento a un qualunque possibile non preferito, scava una zona d’indiscernibilità all’interno di questa opposizione, che si presenta ormai soltanto come apparente, perché in realtà la formula, che Bartleby non smette di ripetere a ogni interpellanza che gli viene rivolta, lascia evincere come ogni preferenza porti in sé un intervallo che la disattende. Così qualsiasi criterio di una decisione presa nella sua particolarità lascia sul terreno il suo statuto di riconoscimento, ogni referenza viene abolita. D’altronde lo stesso Bartleby è immediatamente apparso all’interno del racconto senza alcuna referenza, si è presentato all’avvocato negli stessi termini, e così è stato assunto. Bartleby non ha un passato da cui proviene e non tratteggia alcun futuro verso cui andare, è tutto preso da una temporalità contingente, ed è sulla contingenza che si misura l’intero racconto, nel momento in cui lo si assuma nel suo criterio assoluto, in tutta la portata della sua paradossalità. Per Deleuze la questione non è neppure quella di preferire niente piuttosto che qualcosa: in Bartleby non sopraggiunge alcun atteggiamento nichilistico, un lasciar avanzare il nulla sul principio di volontà. Al contrario, è proprio su questo sfondo impersonale e ossessivo che Bartleby si è guadagnato il diritto di sopravvivere, è solo grazie a questo paesaggio che può ancora rimanere per un attimo, sempre ancora per un solo momento, ritto e immobile di fronte alla finestra che si affaccia nella trasparenza del suo schermo, là dove ancora potrebbero riflettersi alcuni tratti del suo volto, su di un muro cieco.
Se l’esistenza dell’uomo è contrassegnata, per la maggior parte del tempo, dalla necessità di doversi decidere per un sì o per un no, Bartleby invece è quanto rimane di tempo rispetto a questa alternativa, non è nient’altro che l’espressione della singolarità di una vita, l’accidente assoluto di un’esistenza. Entrambe le scelte – dire di no alle richieste dell’avvocato o dire di sì al proprio impegno lavorativo – comporterebbero la rinuncia a ciò che in lui ancora vive della vita. Grazie alla formula che gli si è rivelata, Bartleby è ormai consapevole che decidersi vorrebbe dire rinunciare alla propria sopravvivenza, varcare la soglia ontologica, manifestare l’essenza della propria sostanza. Meglio allora continuare a girare in circolo su se stessi, in una sospensione che non verrà mai meno. La sua strategia di sopravvivenza è preferire non collazionare i fogli della pratica, ma con questo anche non poter più copiare; la formula, presa tra questi due tempi, non cessa mai di rigenerare se stessa, saltando da uno stadio all’altro di quella sola esistenza singolare. Per questo l’avvocato, colui che personifica la legge del Creatore che guarda amorevolmente la propria creatura, cerca sinceramente di capire che cosa abbia così cambiato Bartleby, al punto da spingerlo in quella sua completa autonomia autistica. Eppure, nonostante tutta la sua dedizione, non può fare altro che riconoscere di essere stato posto di fronte a una decisione senza origine: l’atto onnipotente del Creatore si trova così messo in scacco dalla sua stessa creatura. Ogni volta che Bartleby dà espressione, nell’automatismo di una coazione a ripetere, alla formula, tutto ricomincia da zero; “avrei preferenza di no” è il grado zero della decisione, è il grado zero della scrittura: è un atto di pura immanenza. La formula si impone non tanto nella sua bizzarria – nonostante la sua correttezza grammaticale e sintattica –, con quella conclusione, brusca e inaspettata, quanto nel suo essere interruzione aperta; pur mantenendo attiva la sua precisa definizione, si fa funzione limite, soglia intensiva di un rifiuto che pone Bartleby nella necessità di rimanere lì, fermo sul posto, in attesa che la propria denegazione ritorni a farsi viva. È in altri termini la sola risposta a un’interpellanza che tiene sì conto della domanda e della sua provenienza trascendente, ma che non si definisce in rapporto al riconoscimento che quella stessa trascendenza interrogativa sembrerebbe imporre. È una sorta di semi-risposta basata su un’affermazione che rimane presa dal suo tono sospeso, in parte interrogativo, senza aprire realmente ad alcun rimando. Si trova piuttosto sospesa come sul divenire continuamente se stessa, come se
bastasse poco, ancora una sola ripetizione, una sua semplice ripresa, per poterla finalmente portare a compimento. Ma qualcosa del tempo resiste a quella possibile comprensione: è la capacità di un corpo di mostrare, in chiave immanente, come ogni richiesta trascendente di un atto creativo collochi l’autore nella convinzione di poter gestire la propria creatura letteraria. Così quella formula, che sembra di poter sentire risuonare nella voce atona e paziente di Bartleby, raggiunge in realtà, e in un fiato unico, un irremissibile blocco inarticolato; ha cioè in sé la perfetta funzione di una formula che non diverrà mai una frase, un’articolazione significante, ma continuerà a ballare sulla corda tesa del linguaggio, mostrando il tono minore di tutta la sua necessaria agrammaticalità. Anche per Agamben10 l’equiparazione fra la scrittura e il processo della creazione si mostra in Bartleby assoluta. Lo scrivano che non scrive si rivela infatti come una potenza perfetta, che un nulla separa dallo stesso atto della creazione. Tuttavia, come sappiamo, il concetto di potenza è proprio quello più difficile da pensare, perché non risponde semplicemente al poter fare o non fare qualcosa: se così fosse, non saremmo mai in grado di sperimentare la potenza come tale, rimarrebbe unicamente ciò che poteva essere e non è stato, oppure si rivelerebbe come il solo possibile di quell’atto che l’ha portata a realizzazione. Un’esperienza della potenza è possibile solo se la potenza è sempre anche potenza di non fare ciò che il fare sta realizzando. Ecco perché la negligenza o l’incuria non sono certo sufficienti a mostrarne la portata, che si configura piuttosto come il prendere forma di una passività che permette di rimanere in quella che con Maurice Blanchot potremmo definire la familiarità con il disastro.11 Significa cioè che Bartleby deve fare appello a tutta la sua energia per mostrare di non scrivere pur rimanendo tuttavia uno scrivano, in modo tale che, anche nel momento in cui dovesse riprendere a scrivere, lo farebbe in tutta la sua preferenza di no. Il disastro infatti è ciò che non può essere accolto, fatto proprio, se non come l’imminenza dell’attesa del non poter più, in quel punto in cui scrivere o non scrivere è ormai senza importanza: che la scrittura abbia o non abbia luogo essa non potrà che rivelarsi come la scrittura del disastro. Quella di Bartleby è una formula perché corrisponde all’automatismo di un pensare in potenza e non alla volontà di enunciare l’articolazione sensata di una frase che passi all’atto. La sua agrammaticalità si gioca sul disconoscimento di una grammatica, che viene comunque utilizzata per
interrompersi bruscamente sul vuoto centrale della propria possibile ripetizione. Bartleby, per Agamben, enuncia un pensiero che non può né pensare nulla né pensare qualcosa, che non resta in potenza e non passa all’atto; per questo tocca il punto d’indifferenza tra lo scrivere e il non scrivere. Si è in prossimità di quel pensiero che pensa se stesso su cui si sofferma Aristotele,12 indicandolo come un punto medio tra il pensare nulla e il pensare qualcosa, tra la potenza e l’atto. Questo luogo di medietà è di perfetta beatitudine se rapportato ai termini della trascendenza, mentre rivela tutta la sua drammaticità sospensiva, seppur beata, se viene riportato nei termini reali di una pura immanenza. Credere infatti che la volontà abbia potere sulla potenza, che il passaggio all’atto comporti una decisione che risolva l’ambiguità costitutiva del fare e del non fare, rimane l’illusione da cui ogni forma di morale non riesce a uscire. Bartleby revoca in questione precisamente questa supremazia della volontà sulla potenza. Se Dio, dal lato di una potentia ordinata, può solo ciò che veramente vuole, Bartleby invece è in grado di potere soltanto senza volere, può cioè ordinarsi dal solo lato di una potentia absoluta. Malgrado ciò, la sua potenza è tutt’altro che ineffettuale, non rimane nel solo ordine del possibile a causa di un difetto di volontà; al contrario, la sua formula lo porta sulla simultaneità di un potere e un non potere senza assolutamente volerlo. Non dichiara infatti direttamente di non voler copiare, di non voler lasciare l’ufficio, ma annuncia che preferirebbe non farlo. La formula, regolarmente ripetuta, impedisce che vi sia un rapporto diretto tra potere e volere, tra potentia absoluta e potentia ordinata. In fondo Bartleby non accetta e non rifiuta nulla, il suo avanzare si arresta pur mantenendolo proteso verso ciò che deve avvenire, non ne è mai una semplice negazione. È come se il “no” con cui ogni volta si conclude la formula avesse un carattere anaforico che si assolutizza fino a perdere ogni riferimento possibile, ripiegandosi, per così dire, sulla frase stessa. Si tratta di ciò che Agamben indica come una anafora assoluta, che gira su se stessa e non rimanda più né a un oggetto reale né a un termine anaforizzato. In filosofia prima, un essere che può essere e insieme non essere si chiama “contingente”. Questa è l’esperienza in cui la formula di Bartleby ci arrischia, è l’esperienza di una contingenza che diviene assoluta. Rispetto a questo – senza necessariamente sostenere ciò che suggeriva Avicenna, secondo cui coloro che mettono in dubbio il concetto di contingenza
andrebbero torturati finché non ammettano che avrebbero anche potuto non esserlo –, la questione più incalzante è quella dei “futuri contingenti” che Leibniz elabora nella Teodicea,13 dove al concetto di contingenza subentrano per lui inevitabilmente quelli di necessità o di impossibilità. Proviamo infatti a supporre che domani qualcosa possa accadere o che, secondo l’ipotesi contraria, non accada: se domani quel determinato evento accadrà, allora era già vero l’averlo sostenuto prima, perché l’evento non poteva non realizzarsi, si rivelerà cioè sottoposto al principio della necessità; se invece lo stesso evento non si realizzerà, allora era già vero che non si sarebbe realizzato, che la sua realizzazione era praticamente impossibile. Riprendendo Aristotele14 su questo tema dei “futuri contingenti”, Agamben sottolinea come, pur potendo ipotizzare che quel determinato evento si realizzi o non si realizzi l’indomani, la sua necessità o impossibilità non riguarda il suo verificarsi o non verificarsi in forma disgiunta, ma quest’alternativa intesa simultaneamente. In modo tale che è soltanto l’affermazione tautologica che domani quel determinato evento potrà realizzarsi o non realizzarsi a risultare necessariamente vera, mentre ognuno dei due possibili, colti nella loro alternativa, viene restituito alla contingenza del suo essere o non essere. Il contingente cioè, preso nella sua necessità condizionata, può passare all’atto solo deponendo in sé tutta la propria potenza di non essere. Bartleby nella sua formula espone alla lettera la tesi aristotelica secondo cui la tautologia che qualcosa possa verificarsi o non verificarsi è da ritenersi necessariamente vera nel suo insieme, al di là dell’effettiva realizzazione dell’una o dell’altra possibilità. La sua espressione si sospende nel luogo di questa verità, si misura esclusivamente con una potenza in quanto tale, potenza di qualcosa che può essere e insieme non essere. Questo esperimento è però possibile per Agamben solo se si mette in questione il principio d’irrevocabilità del passato o, ancor meglio, se si disconosce l’irrealizzabilità retroagita della potenza e ci si apre alla verità tautologica dei “passati contingenti”. È un movimento di retroazione sul passato non tanto per riconoscerne la necessità, ma per restituirlo, ancora una volta, a tutta la portata della sua potenza di non essere. Solo così, après coup, il ricordo restituisce possibilità al passato, rendendo incompiuto l’avvenuto e compiuto ciò che non è stato. Il ricordo infatti non è né l’avvenuto, né l’inavvenuto, ma il loro potenziamento, il loro ridiventare insieme ancora possibili. In questo
senso Bartleby revoca in questione il passato, perché lo richiama non semplicemente al fine di redimere ciò che è stato, per farlo essere nuovamente, ma per riconsegnarlo alla sua potenza, alla struttura della sua verità tautologica. La formula è una restituzione integrale ai criteri di un taglio che si mantiene in bilico tra l’accadere e il non accadere, tra il poter essere e il poter non essere. Permette cioè di mantenere vivo e attivo il ricordo di ciò che non è stato in ciò che è avvenuto, senza per questo restituirlo alla sua mera possibilità, ma riconoscendolo in tutta la sua portata reale. Senza la sua potenza di non essere, ciò che è stato non avrebbe potuto essere. Così, come per i mondi possibili di Leibniz, anche per i libri si può immaginare, almeno è quanto ci invita a fare Agamben,15 che esista una “Biblioteca dei destini”, nei cui scaffali siano custodite tutte le varianti possibili di un’opera. I libri che si sarebbero potuti scrivere, cioè, se quella determinata forma non si fosse imposta e noi non l’avessimo riconosciuta adatta per la pubblicazione. Il libro che sembra essere apparso nella sua forma autonoma occupa così la cima di una piramide in cui gli innumerevoli libri che avrebbero potuto essere al suo posto scivolano di piano in piano, fino al Tartaro che ospita il libro che nessuno avrebbe potuto scrivere. Entrare in questa biblioteca non è, per colui che si presenta come un autore, un’esperienza facile, perché è proprio nel rapporto con quel passato che non è mai passato che la consistenza di un pensiero trova l’inassumibile della propria misura. A colui che porta il nome dell’autore non è infatti concesso, come fosse un semplice demiurgo, di attuare una vera e propria ricapitolazione, di contemplare con un solo colpo d’occhio tutti i libri possibili che non sono stati scritti, di osservare, nell’azzurro del cielo, il libro perfetto in grado di contenere in sé tutto ciò che avrebbe potuto scrivere. La ricapitolazione può solo rivisitare ogni singola opera per riconoscervi, come in uno specchio, non soltanto ciò che apparentemente contiene, ma anche ciò che in essa è rimasto in potenza e che continua a portare in salvo, nonostante l’atto che sembrerebbe averne sancito la completa definizione. Uno sguardo retrospettivo non consiste infatti soltanto nel constatare ciò che è stato, ciò che ha trovato in sé la propria forma, il tono definitivo della sua necessità, ma nel riconoscere anche il segreto della sua ripresa, che, pur non potendo cambiare nulla di ciò che è stato, può permanere in quel punto dove il libro poteva non essere così com’è, nel centro vuoto della sua pura contingenza, là
dove ancora vibra l’eco, la risonanza unica di uno stile, la singolarità di una vita. L’atto di creazione non può semplicemente esaurirsi in un processo che va dalla potenza all’atto, ma mantiene in sé quello che Agamben chiama un atto di decreazione, che non ha a che vedere con la negazione, con un semplice atto di distruzione, quanto con la restituzione all’unità originaria di ciò che è stato e di ciò che non è stato. In modo tale che ciò che poteva non essere ed è stato scivola reversibilmente in ciò che poteva essere e invece non è stato. La vita dell’opera risiede nel centro vuoto di quest’atto di decreazione, lasciando così che rimanga aperta la sua sempre possibile rilettura, i suoi movimenti interni di traduzione e di critica. Questo rovescio simultaneo, che l’atto di creazione porta in sé come proprio potenziale disconoscimento, è ciò che sfugge all’autore e tuttavia è anche ciò che gli permette di continuare a scrivere. Cercare di fare proprio quel nucleo decreativo, il centro vuoto che permane in ogni atto di creazione, desiderare, in forma demiurgica, di risolverne definitivamente la potenza nella purezza assoluta del suo atto, non può che condurre l’autore al proprio suicidio creativo. Questo è il bel rischio di chi scrive: incontrare ogni volta la provenienza che ha determinato la possibilità di ciò che si è e si potrebbe non essere. Note 1
Giorgio Agamben, L’aperto, cit. Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. 3 Maurice Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959; tr. it. Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969. 4 Roland Barthes, La préparation du roman, cit. 5 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit. 6 Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. 7 Giorgio Agamben, Signatura rerum, cit. 8 Herman Melville, Bartleby, the Scrivener, cit. 9 Gilles Deleuze, Bartleby ou la formule, in Herman Melville, Bartleby. Les îles enchantées, Flammarion, Paris 1989; tr. it. Bartleby o la formula, in Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993. 10 Giorgio Agamben, Bartleby o della contingenza, in Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione, cit. 11 Maurice Blanchot, L’écriture du desastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La scrittura del disastro, SE, Milano 1990. 12 Aristotele, Metafisica, Laterza, Bari-Roma 2017. 13 Gottfried Wilhelm Leibniz, Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et 2
l’origine du mal, Troyel, Amsterdam 1710; tr. it. Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, Bompiani, Milano 2005. 14 Aristotele, Organon. 1, Categorie, Dell’interpretazione, Analitici primi, UTET, Torino 1996. 15 Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977.
Un tempo qualsiasi
La nostra memoria è contrassegnata da immagini che sentiamo, in modo del tutto singolare, appartenerci in termini inequivocabili. Questa particolare appartenenza è dovuta al fatto che tali immagini non sono immediatamente riconducibili a dei veri e propri ricordi; esse assomigliano piuttosto, quando si reificano nella nostra mente, a delle stazioni in cui, senza accorgercene, siamo stati costretti a scendere da noi stessi, dal nostro viaggio, e abbiamo incontrato un’esperienza pura del tempo. È esattamente il movimento inverso, ma anche direttamente corrispondente, a quello indicato da Kafka all’inizio dei suoi diari,1 quando afferma che nel momento in cui il treno passa gli spettatori impietriscono. L’incipit di Kafka è folgorante. Tenere un diario, per uno scrittore, significa paralizzarsi davanti alla promessa di trovare le parole in grado di riportare, su quei fogli già contrassegnati dal tempo, impressioni della propria vita, al passaggio di queste impressioni associare i propri pensieri e intrecciare il tutto con degli appunti, tentativi letterari che continueranno comunque a far parte inalterata dei giorni, ma che potrebbero anche divenire parte integrante di una determinata opera. Ne Il fuoco e il racconto,2 riprendendo l’edizione critica dei Canti di Leopardi pubblicata da Francesco Moroncini nel 1927,3 Agamben evidenzia come l’aver prodotto a stampa non solo il testo critico di ogni poesia, ma il manoscritto con tutti i suoi particolari, con le relative correzioni, le varianti, le annotazioni e le postille, le prime versioni e, quando esiste, anche il cosiddetto “getto in prosa”, porti il lettore, almeno in un primo momento, a trovarsi disorientato. È l’irruzione del tempo dell’opera – che dà conto non tanto del tempo impiegato per realizzarla, ma di come l’opera rimanga contrassegnata dall’ordine dei giorni, facendo emergere il rapporto esistente tra il genio, l’atto creativo e il tempo di una vita. Il diario sembrerebbe destinato a dover sancire l’intreccio tra la nostra vita, tra ciò che sentiamo essere la parte più intima di noi stessi, e il suo tratto impersonale. D’altronde, come dicevamo, Genius è la personalizzazione di ciò che in noi continua, in ogni momento
della nostra esistenza, a superarci e a eccederci. Comprendere la natura del suo irrompere nella semplicità dei giorni significa cogliere come la singolarità di ogni vita non corrisponda affatto alla sola identità di una coscienza individuale, ma sia la tessitura di una trama destinata a convivere permanentemente con un elemento impersonale e preindividuale. Per questo la soggettivazione è un movimento a due fasi, dove l’esperienza individuale, contrassegnata dalla sorte, dalla propria tyche, convive con il vissuto di ciò che ancora permane nei termini della propria non-realizzazione. Ma questo indicare una parte impersonale e non individuata della soggettivazione non significa evidenziare un passato cronologico che ci siamo lasciati una volta per tutte alle spalle e che possiamo, eventualmente, rievocare con la nostra memoria: questa pura potenza permane in noi, e nel bene e nel male è dai noi inseparabile. È quello che intende Deleuze quando, riprendendo la figura di Amleto, parla del tempo che è uscito dai cardini.4 Questo non vuol dire soltanto che per Amleto il tempo non è più dettato dal movimento che misura, ma che è in Amleto stesso che il movimento si subordina al tempo. Non si tratta di un momento sospensivo, non è l’epoché che un soggetto introduce per porsi di fronte all’essere o al non essere, interrogando entrambi sul loro fondamento, ma è tutto il tempo che innerva la soggettivazione nell’esitazione senza fine in cui quell’interrogazione continua a porsi: è il sogno di Cartesio. Amleto infatti non risponde più alla circolarità del pensiero antico e non incarna la certezza del soggetto moderno, è semmai colui che porta in scena l’immanenza affettiva di Spinoza. Se, come Agamben5 ci invita a fare, prendiamo allora sul serio la professione del protagonista del romanzo di Kafka Das Schloss,6 potremmo notare come la lettera K che lo designa sia la stessa con cui la legislazione romana degli agrimensori indicava il kardo – uno dei due assi stradali che, insieme al decumano, organizzava il sistema di suddivisione di un terreno agricolo –, chiamato così perché è “ciò che si dirige verso il cardine del cielo”. D’altronde K. è appunto un agrimensore, il quale non è tanto chiamato a stabilire dei limiti, quanto piuttosto a costituirli. Così, se il Castello è la grazia come governo del mondo, allora K., che si presenta non con i suoi strumenti tecnici, ma con un bastone nodoso che misura l’ordine dei giorni, si trova impegnato con quella realtà celeste in una lotta senza tregua proprio sulla definizione dei limiti, sulla costituzione dei confini che ognuno sarebbe
chiamato inappellabilmente a rispettare. Non si tratta tuttavia semplicemente di porre un netto confine tra una parte e l’altra, tra il mondano e il divino, ma di tratteggiare una zona grigia come spazio intermedio, magari uno spazio sotterraneo, un rizoma, in cui permettere alla vita di dipanarsi senza la necessità di una diretta sottomissione alla legge o di una sua diretta negazione. Il kardo non è tuttavia soltanto un termine relativo all’agrimensura, indica anche il cardine della porta, così come lo abbiamo visto espresso nella figura di Amleto ripresa da Deleuze. Provando a tenere insieme questo doppio riferimento, potremmo sostenere che se la porta della nostra soggettivazione esce dai suoi cardini e non è più orientabile nella propria azione al cardine del cielo, alla misurazione del tempo sul movimento, allora non è più ciò che sta all’orizzonte, ciò che sempre è a venire, a determinare i criteri dei nostri gesti, come se fossero unicamente rivolti al raggiungimento dei nostri fini. La fuoriuscita dal cardine è la perdita del proprio orizzonte. K. infatti non interviene, come agrimensore, portando la forza dei propri strumenti tecnici, non ingaggia una sfida prometeica sull’ordine del sapere, ma lascia che affiori il solo ordine dei giorni, il campo immanente di una soggettivazione che si regge unicamente sul bastone nodoso della vita. Questa immersione nella vita impegna la soggettivazione in una vera e propria metamorfosi e non tanto nella ricerca di riferimenti linguistici che diano la capacità di metaforizzare la propria esistenza, di trasformarla nel contenuto di una possibile storia. Se infatti il cardine è anche il perno su cui la porta si apre e si chiude e che regge la sua portata, se è dunque la capacità di determinare la distinzione di uno spazio interno e uno spazio esterno, nel momento in cui la porta esce dal suo cardine questa distinzione viene meno e la soggettivazione si trova impegnata a cuore aperto. Se la porta è neutralizzata, rimane soltanto lo spazio indecidibile in cui la propria soggettivazione si fa soglia per attraversare differenti intensificazioni del tempo e per aprirsi a un movimento che non trova più nella propria realizzazione l’assunzione finale del tempo che gli ha permesso di essere. È un movimento in stato di stallo, un attraversamento di continue soglie d’intensità, è la figura di Amleto che non s’interroga tanto sul che cosa fare, ma sulla portata del tempo che sorregge l’azione. Un’azione che Amleto osserva, guarda, che sente in tutta la sua potenza; e così, attraversato dal tempo di un’intera vita grazie alla latenza di quest’azione, lascia che di essa
sfumi tutta la portata finalistica, per coglierne invece unicamente il continuo movimento sorgivo. Il modo in cui Freud guarda il Mosè di Michelangelo7 può venirci in sostegno rispetto alle implicazioni di questa lettura. Freud appare infatti particolarmente colpito dall’immagine della statua perché il Mosè seduto sembra non corrispondere affatto al contenuto del racconto biblico, da cui la figura rimane comunque inevitabilmente estrapolata. Certo, potremmo anche pensare che Freud colga la scena nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma come un setting analitico. In fondo Mosè è seduto perché deve raccontare qualcosa che non vorrebbe e che l’analista deve comunque predisporsi a far emergere. La decisione o la necessità di quell’essere seduto di Mosè – che effettivamente nel racconto biblico non si dà, poiché non si presenta mai una diretta interruzione della dinamica dell’azione – potrebbe anche venire intesa come il preciso momento dell’insorgenza di un eventuale sintomo a venire, magari quell’esplosione d’ira che di lì a poco, come sappiamo, lo avvolgerà completamente. Potrebbe cioè trattarsi della raffigurazione di una scena primaria, nel senso che, sebbene Mosè non si sia mai seduto, ciò che in quel preciso momento ha visto lo ha traumatizzato, portandolo quindi alla necessità di sedersi, anche per un solo attimo. Al di là di quella che sarà poi la sua reazione, non si può non pensare che Mosè abbia vacillato, e sedersi è la risposta più immediata, in senso più o meno figurato, in una situazione traumatica. Come sottolinea Joseph Vogl,8 Freud ha rimarcato più volte la potente impressione che la statua destava in lui, soprattutto nel punto esatto in cui questa immagine del Mosè seduto non raccontava chiaramente ciò che invece avrebbe dovuto. Per lui non si trattava semplicemente di un’incongruenza; né quella posizione poteva essere giustificata dal fatto che Michelangelo aveva pensato di inserire la scultura nella struttura d’insieme progettata per il monumento funebre di Giulio II, dove anche le altre figure previste dovevano essere scolpite tutte quante sedute. È come se Freud osservasse la scultura in una sovrapposizione temporale che, a dispetto della sua totale immobilità, ne stabilisce un apparente movimento. Da una parte abbiamo infatti la certezza che questa raffigurazione rimandi comunque all’episodio biblico di un Mosè che è appena sceso dal Sinai con in braccio le tavole della legge, e che si accorge di come il popolo abbia infedelmente abiurato e danzi ora festante attorno al
vitello d’oro. Colmo d’ira di fronte a quella visione per lui oscena, scaglierà per prima cosa a terra le tavole che andranno in frantumi e poi si lancerà sulla folla irriverente per cercare di punirla. Dall’altra parte però, se ci poniamo con Freud direttamente davanti all’opera michelangiolesca, nulla di tutto questo è effettivamente visibile. Innanzitutto Mosè è seduto, è immobile o comunque paralizzato nel movimento; è come se la sua figura si fosse di fatto sottratta al racconto, secondo le parole dello stesso Vogl: sembra non provenire e non essere diretta in nessun luogo, indissolubilmente legata a quelle tavole che continua in modo ostinato a sorreggere o su cui addirittura sembrerebbe appoggiarsi. Tavole che a questo punto appaiono destinate a non venire mai infrante, o forse, ancora, rischiano di scivolare a terra e di portare con sé, in questa loro caduta, lo stesso Mosè. Rispetto a questa duplice tensione, da cui la scultura di Michelangelo sembra attraversata, Freud, per parte sua, non fa altro che dispiegare un’altra sequenza, quella scandita dal suo tipico movimento analitico. Per lui non ha alcuna reale importanza se Mosè si sia effettivamente seduto: quello che la statua sembra indicarci è che qualcosa si è fissato ed è nell’ordine della seduta. Dunque, scendendo dal Monte Sinai Mosè potrebbe essersi seduto, magari per riposare un momento o per meditare su come presentare nel modo dovuto al proprio popolo quelle tavole. Mentre si trova tranquillamente appoggiato, il viso con la barba imponente rivolto in avanti, la mano destra a tenere saldamente le tavole della legge, il sopraggiungere di un rumore improvviso lo porta a volgere il capo alla sua sinistra, da dove proviene il frastuono; ammutolito, osserva la scena: il popolo è tutt’altro che in trepida attesa del suo ritorno; anzi, dimentico di tutto, si raccoglie festante intorno al vitello d’oro. Davanti a quella visione Mosè è preso dall’ira, vorrebbe balzare immediatamente in piedi per cancellare in un solo gesto ciò che gli si para davanti agli occhi; ma è troppo lontano da quel punto festivo, così il suo movimento si ritorce in un gesto rivolto piuttosto contro il proprio stesso corpo, come in un contraccolpo. Desidererebbe essere presente all’istante all’interno della scena che vede, utilizzare il proprio corpo per irrompervi inaspettato, ma rimane avvinto dalla distanza, dai limiti di un corpo che lo divide dalla finalità con cui la sua volontà lo vorrebbe invece immediatamente far coincidere. La mano, che sino a un momento prima reggeva saldamente le tavole, rimane protesa nell’azione, ma nel movimento convulso del corpo s’infila nella barba tirandola nella stessa direzione in cui
si sta muovendo il capo; subito dopo, non ne sappiamo esattamente il motivo, subentra un repentino cambiamento. La mano viene ritratta, imprimendo al volume della barba, cui è intrecciata, un intenso movimento di contrasto, e abbandonando le tavole a un equilibrio precario: è esattamente nella fissazione di questo movimento contrastato che la statua viene scolpita da Michelangelo. E sempre su tale movimento di contrasto Vogl porta un passaggio essenziale, affermando che questo Mosè assume sotto lo sguardo di Freud un senso disnarrativo. Non si tratta tuttavia di un semplice rifiuto della narrazione, quanto di un momento visivo che erompe, nella sua esclusiva singolarità, dalla continuità del racconto, con andamento consequenziale tipico di ogni narrazione, e ne fuoriesce per non lasciarvisi più reintegrare. Per questo Freud approderà alla necessità di far realizzare dei disegni che dispieghino la sovrapposizione, così come con il suo sguardo scompone il contrasto di quel movimento avvolto dalla sua piena staticità. Anche se il Mosè di Michelangelo in effetti non balzerà mai in piedi, esso non può essere neppure inteso, per Freud, come la raffigurazione di una pura immobilità. Le tavole della legge, a loro volta, non precipiteranno a terra e non andranno in frantumi, ma non possono risultare semplicemente mantenute in aderenza al corpo con la forza. Piuttosto, è come continuassero a vacillare in se stesse nel loro essere scolpite pietra nella pietra, portando con sé un moto di oscillazione che si ripercuote su tutta la scultura, la quale rimane così presa nella tensione della propria inaggirabile inerzia. Nonostante il racconto non venga dunque mai meno e non perda mai la forza della sua continuità, tuttavia nella visione che ormai la scultura mostra non è più dato riscontrare il semplice passaggio logico di una diretta sequenzialità. È come se sotto lo sguardo di Freud la scultura di Michelangelo si facesse per il Mosè biblico quasi una soglia d’intensità da varcare, attraverso un movimento trattenuto su quel solo punto di passaggio, non un attimo prima, né un attimo dopo, ma tutto quanto lì: ora. Sotto lo sguardo di Freud, quel movimento di contrasto sembra segnare un punto di sospensione di tutte le azioni possibili. Qualunque sia la direzione che la singola azione può prendere, si configura al contempo la potenza del suo lato opposto, che non consiste nella semplice introduzione di un’altra possibilità, ma nel disconoscimento, nella contro-effettuazione di ciò che sembra precipitarsi verso la propria esclusiva fatticità. Si tratta di
un’esitazione fondamentale e non certo di incapacità di agire; corrisponde piuttosto, come lo stesso Vogl scrive nel suo testo, a un punto coronato, quel segno che viene utilizzato in notazione musicale per aumentare, a piacimento dell’esecutore, il valore di una nota o di una pausa. Così quando il segno figura tra due note o due pause, è come se fosse apposta una corona su ciascuna delle due, in modo tale da rendere necessario prolungare il valore di entrambe. La durata della corona non ha mai una diretta specificazione temporale, è l’irrompere del gesto dell’autore a mantenere in atto la sua stessa sospensione nell’esecuzione. Così se l’ira di Mosè, come si evince dal racconto biblico, è proiettata a lasciare che le tavole della legge vadano in pezzi, la sua realizzazione è contro-effettuata dalla legge che ne contiene la determinazione. In entrambi i movimenti si presenta il contrasto di un medesimo gesto; risulta così che le due azioni si motivino e si sospendano reciprocamente, dando in questo modo intensità al blocco marmoreo della scultura. È la struttura di un equilibrio basato su forze contrastanti, su effetti bilanciati dalla loro simultanea contro-effettuazione. Ciò che da questo contrasto emerge è un centro d’indeterminazione tra percezione e azione, un momento di pura inattività; lo stesso sguardo di Freud, più che mettere in movimento la scultura, evidenzia il punto esatto della sua pietrificazione. Si tratta di una tensione statica che potrebbe coincidere con ciò che afferma il proverbio in cardinem esse: quel trovarsi nel punto decisivo che, per Agamben, non significa essere posti di fronte a una decisione da prendere, bensì accorgersi che in quel punto non è più possibile prendere una decisione, perché non vi può essere niente di più decisivo che questo venir meno di ogni decisione verso se stessi. D’altronde, per prendere quelle che comunemente vengono considerate delle vere e proprie decisioni si deve sempre essere al di qua o al di là di quel punto, ci si deve astrarre in una posizione che permetta di fare previsioni e valutazioni, di mantenersi all’interno di una determinata prospettiva, mentre essere in quel punto decisivo significa non essere mai nel punto stesso della decisione. Significa semmai trovarsi sulla soglia in cui si è decisi, in cui la nostra soggettivazione è tagliata dal frattempo di una vita, in cui cade ogni ricerca di senso a favore della sola singolarità di una vita che prende forma. Deleuze e Guattari9 riconoscono come per Kafka sia molto più importante fare una carta di Tebe anziché recitare Sofocle, tratteggiare una topografia
degli ostacoli anziché decidere di battersi contro un destino. Semmai, se quest’ultimo dovesse continuare comunque a incombere nella sua richiesta di significazione, meglio attuare un disconoscimento, sostituire ogni volta al destino una singola destinataria. Kafka infatti non smette di contrapporre all’ideale dell’opera, all’assorbimento totale del tempo che essa sembra richiedere come rispecchiamento ideale dell’io, il continuo invio di lettere. Scrivere lettere si rivela in questo modo come una contro-effettuazione alla convinzione, assunta anche dallo stesso Kafka, che lo scrittore si debba dedicare esclusivamente alla realizzazione delle proprie opere. Ecco perché non vi è alcun motivo di chiedersi se le lettere facciano parte o meno dell’opera di Kafka, se in esse si possano ritrovare riferimenti a temi presenti nei romanzi o nei racconti. Le lettere non sono altro che un dispositivo incentrato sulla continuità della scrittura, una macchina d’espressione che le fa appartenere pienamente all’atto creativo di una vita, sono l’ingranaggio che destabilizza la finalità di ogni realizzazione possibile, senza che al contempo ci si sottragga al proprio dovere, poiché si continua a scrivere, pur nell’inessenzialità di tutta la sua esigenza. È come se ogni atto di scrittura fosse attraversato dalla potenzialità e dall’insufficienza che si annidano nella necessità di continuare a scrivere l’opera, ma solo senza smettere di scrivere lettere o di tenere un diario. Macchinare lettere infatti non è affatto un problema di sincerità o di insincerità, ma soltanto di mero funzionamento. Sono le lettere inviate all’una o all’altra donna, le lettere agli amici, la lettera al padre; eppure, nonostante tutti questi differenti destinatari, per Deleuze e Guattari all’orizzonte di ogni invio rimane comunque sempre una donna. La vera destinataria è lei, è la vita nella sua singolarità di donna; quella che il padre è accusato di avergli fatto mancare, quella con cui gli amici desiderano che rompa. Si tratta in altri termini di sostituire all’amore l’invio ogni volta di una lettera d’amore, in modo che il sentimento amoroso si riveli del tutto deterritorializzato, fantasmato, e solo così reso almeno in parte vivibile. È un patto diabolico vissuto in piena innocenza, il tentativo maldestro e fallimentare di legare a sé le ragazze attraverso la scrittura. Le lettere sono come una tela di ragno, sono dei pipistrelli inviati a succhiare il sangue della vita di cui Kafka sente tutto il bisogno, lui che è così magro e con un cuore tanto debole da non riuscire a spingere il sangue per tutta la lunghezza delle gambe. Come scrivono Deleuze e Guattari, nelle lettere Kafka mette in scena un
gioco perverso tra il soggetto d’enunciazione (“la forma di espressione che scrive la lettera”) e il soggetto d’enunciato (“la forma di contenuto in cui la lettera parla”). In quelle a Felice, per esempio, invece che essere lui a servirsi della lettera per annunciare la propria venuta, è il “venire” ad assumere un movimento del tutto fittizio o apparente, comunque un movimento fatto tutto di carta, perché in realtà questo venire non si realizza mai. Tutta la corrispondenza con Felice è contrassegnata da una tale impossibilità a venire, e un continuo flusso di lettere le giunge come il disconoscimento del vedersi, della venuta. Un uomo incontra una donna una sola volta, in modo del tutto accidentale, e la sommerge di lettere, non può smettere di scriverle; non intrattiene con lei una vera e propria corrispondenza, ma fa sì che il giorno, che ogni giorno, sia intessuto delle loro lettere e che, grazie ai suoi continui invii, lei gli scriva almeno due lettere al giorno. Lui non verrà, ma non vuole limitarsi a scriverle in sostituzione della sua venuta, le scrive per avere da lei la rispondenza a realizzarne l’attesa. In questo proliferare demente di parole incontinenti, il desiderio reale è di strappare delle lettere alla destinataria, che non sa nulla di tutto questo. Un movimento apparente, un movimento di carta, può così risparmiare al soggetto d’enunciazione ogni movimento reale. Perché in fondo, come Kafka scrive nei suoi diari il 18 dicembre 1910, quando una lettera arriva la si può lasciare per qualche tempo senza aprirla, anche se il suo contenuto è prevedibilmente insignificante, come è per quella che ha lì davanti agli occhi. Non si tratta di debolezza o vigliaccheria, come chi esita ad aprire la porta di una stanza sapendo che dietro vi è una persona che aspetta con impazienza; questo lasciar lì le lettere risponde piuttosto a un senso della precisione; la precisione infatti chiede innanzitutto di non essere precipitosi, e così bisogna prendersi tutto il tempo possibile per le varie operazioni intorno alla lettera: si deve aprirla lentamente, leggerla in modo altrettanto lento e possibilmente leggerla più volte. Poi si deve riflettere a lungo sul suo contenuto, preparare con molte brutte copie la possibile risposta in bella copia e una volta ultimata tardare infine anche a spedirla. Tutto questo procedimento, chiaramente essenziale per sospendere l’azione, non può però evitare l’improvviso arrivo della lettera, che non è in nostro potere. Si può però continuare a tergiversare adottando dei semplici accorgimenti: si tarda ad aprirla, la si lascia lì davanti a sé sulla tavola, lei continua ad arrivare, a offrirsi, la si continua a ricevere, ma non la si prende in mano. Nel testo dedicato a Kafka presente in Nudità,10 Agamben ricorda come
nel processo romano la calunnia rappresentasse per l’amministrazione della giustizia una minaccia talmente grave che il falso accusatore veniva punito marchiandogli sulla fronte la lettera K, come l’iniziale infamante di kalumniator. Il romanzo di Kafka Der Prozess11 è incentrato proprio sulla paradossalità di un presunto atto calunnioso; tuttavia, in questo caso, il falso accusatore sembra essere lo stesso protagonista del romanzo, il quale avrebbe di conseguenza intentato un processo per calunnia contro se stesso. Anche se non importa chi abbia parlato, di fatto qualcuno ha detto qualcosa che poteva anche non dire, e quindi sarebbe di fondamentale importanza sapere chi sia, visto che, avendo proferito tale calunnia senza alcuna necessità evidente, ha dato il via al processo. Questa discrepanza tra “qualcuno” e “un autore”, che non possono essere distinti né semplicemente identificati, rivela in realtà come in fondo ogni singolarità sia destinata, in quanto tale, a intentare, rispetto a ogni propria singola affermazione, un processo calunnioso contro se stessa. Kafka non utilizza tuttavia questo paradosso come incipit, come dispositivo per dare seguito al proprio racconto, quanto piuttosto come il cardine, da cui il tempo è fuoriuscito, che chiude ogni via perché lo stesso racconto possa proseguire, lasciandogli aperta la sola possibilità d’insistere sulla soglia della propria potenza, del tutto dimentico di come il suo svolgimento si dovrebbe distendere sui comuni criteri della consequenzialità. Per questo l’universo kafkiano non deve essere colto come un universo tragico, quanto semmai come un universo comico, preso cioè nella sospensione di una drammaticità in cui la colpa, nonostante il riconoscimento indiscutibile dell’attività ancora in corso dei tribunali, rimane una semplice contraddizione in termini. Infatti, se l’autocalunnia è in fondo un accusarsi di una colpa non commessa, al tempo stesso, visto che qualcuno, non importa chi, ha parlato, determina l’insostenibilità della propria innocenza. È come un gesto di Pulcinella: un gesto drammaticamente comico. Vi è infatti calunnia solo nel momento in cui l’accusatore è consapevole dell’innocenza dell’accusato, è consapevole cioè di avanzare un’accusa che non ha alcuna necessità di essere accertata perché del tutto falsa. Tuttavia, nel caso dell’autocalunnia, non solo questa consapevolezza si mantiene inevitabile, ma allo stesso tempo si rende anche del tutto impraticabile. L’accusato, in effetti, sottoponendosi a un atto di autocalunnia, non può non sapere di essere del tutto innocente ma, avendo accettato di accusarsi
ingiustamente, non può non sapere di essere anche altrettanto colpevole, e dunque di meritare quel marchio che tutti possono vedergli impresso sulla fronte; tutti tranne lui, che rimane però l’unico a sapere di portarlo. Siamo così posti di fronte a quella che ormai possiamo riconoscere come una tipica situazione kafkiana. Il processo per autocalunnia consiste effettivamente nel far ripercuotere su di sé, in forma tautologica, il suo stesso procedimento, perché ciò che viene chiamato in causa sono i criteri che sanciscono la pertinenza della stessa chiamata. Il principio che regge il procedimento di accusa non è rivolto ad altri che a se stesso. La colpa non consiste in altro che nell’aver dato inizio al processo, nel fatto che qualcuno, non importa chi, abbia parlato, e la sentenza non potrà corrispondere che al procedimento con cui il processo non cesserà più di cercare se stesso, il proprio fine. Come se non bastasse, però, oltre alla calunnia per i giuristi romani esistevano anche la praevaricatio, cioè la collusione tra l’accusatore e l’accusato, e la tergiversatio, la desistenza rispetto al procedimento d’accusa. Agamben mette in evidenza come Josef K. si implichi simultaneamente in tutti questi capi d’accusa, perché, oltre ad autocalunniarsi, nel farlo egli collude con se stesso, e al contempo non è solidale con la propria accusa, tanto è vero che tergiversa, cerca continuamente scappatoie e perde tempo. Così non solo attraverso l’autocalunnia si rende inoperosa la risoluzione del processo, ma si assiste alla revoca stessa, al disconoscimento della necessaria implicazione dell’uomo all’interno del diritto. Ancora una volta non si tratta di una negazione diretta, atto che la legge ovviamente non può che prevedere all’interno delle sue procedure – anzi, al contrario su tale possibilità trova il suo stesso fondamento –, ma di una continua messa in questione dei criteri con cui l’implicazione con la legge si articola, avendo la consapevolezza che l’unico modo per affermare la propria innocenza davanti alla legge è proprio quello di accusarsi ingiustamente. Solo così si può mettere in evidenza il punto di cedimento in cui la legge ricerca i propri accertamenti veritativi, che vedono il raggiungimento della loro perfezione nel momento della confessione, la quale in questo caso, come momento decisivo, rimane del tutto impraticabile, in quanto il tribunale potrebbe condannare K. come falso accusatore unicamente se al contempo ne riconoscesse l’innocenza come accusato. Ed è esclusivamente l’impasse di questa contraddizione in termini che K. potrebbe essere in grado di confessare come la sola e unica verità.
Note 1
Franz Kafka, Tagebücher, 1910-1923, in Id., Gesammelte Werke, cit. Giorgio Agamben, Dal libro allo schermo. Il prima e il dopo del libro, in Id., Il fuoco e il racconto, cit. 3 Giacomo Leopardi, Canti, edizione critica ad opera di Francesco Moroncini; discorso, corredo critico di materia in gran parte inedita, con riproduzioni d’autografi, Licinio Cappelli, Bologna 1927. 4 Gilles Deleuze, Sur quatre formules poétiques qui pourraient résumer la philosophie kantienne, in Id., Critique et clinique, cit. 5 Giorgio Agamben, K., in Id., Nudità, cit. 6 Franz Kafka, Das Schloss, in Id., Gesammelte Werke, cit.; tr. it. Il castello, Feltrinelli, Milano 2015. 7 Sigmund Freud, Der Moses des Michelangelo, in “Imago”, 3, 1914; ora in Id., Gesammelte Werke. Werke aus den Jahren 1913-1917, Fischer, Frankfurt am Main 1999; tr. it. Il Mosè di Michelangelo, in Id., Opere. 1912-1914, Bollati Boringhieri, Torino 1975. 8 Joseph Vogl, Über das Zaudern, Diaphanes, Zürich 2008; tr. it. Sull’esitare, ObarraO, Milano 2010. 9 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka, cit. 10 Giorgio Agamben, K., in Id., Nudità, cit. 11 Franz Kafka, Der Prozess, in Id., Gesammelte Werke, cit.; tr. it. Il processo, Feltrinelli, Milano 2014. 2
I ginocchi nodosi dei giorni
Riprendendo, in Che cos’è il contemporaneo,1 una poesia del 1923 di Osip Mandel’štam, Il secolo, Agamben coglie come la riflessione contenuta al suo interno non sia rivolta tanto al concetto di secolo in quanto tale, ma piuttosto al rapporto che il poeta istituisce con il proprio tempo, con il proprio secolo e cioè con la propria contemporaneità, con il proprio essere contemporaneo al tempo che gli è dato di vivere. È su quel punto fisso, e insieme di breve passaggio, che il poeta deve tenere teso il proprio sguardo, cogliendo in questo modo il punto in cui il secolo sembra spezzare in due la propria schiena, il punto in cui il tempo della storia si innesta nel tempo di quella singola vita, come d’altronde lo stesso termine latino saeculum ci ricorda, poiché in origine significava “il tempo della vita”. Il secolo spezza così in due la propria schiena perché indica il tempo della vita come l’incidenza del tempo che attraversa quella peculiare singolarità. Lo sguardo del poeta, la sua vita, come la vita di ogni singolarità, è questa frattura; ma se la singola creatura è sorretta dalle proprie vertebre e le vertebre del secolo sono spezzate, la loro saldatura, il ripristino della loro infantile cartilagine, è l’opera di ogni singolo. In particolare è opera del poeta che a questo compito si consegna, nel suo cercare, con il suono del proprio flauto, di dare inizio nel secolo a un nuovo mondo, tentando di riunire in sé “i ginocchi nodosi dei giorni”. Se il presente della propria contemporaneità ha dunque le vertebre spezzate è perché il nostro tempo, il tempo che ci è dato di vivere, non appare soltanto come il più lontano, ma anche come ciò che in nessun modo può raggiungerci, in quanto noi stessi siamo la frattura del suo avvenire. La sua schiena è proprio in noi che si spezza, ed è esattamente nel punto di quella frattura che siamo chiamati a tenerci saldi. Per questo l’appuntamento, l’incontro, la tyche che ci determina nella nostra contemporaneità non può aver luogo semplicemente nel tempo della cronologia, ne è bensì un processo d’intensificazione, una soglia d’intensità che nel concatenarsi della cronologia si fa urgenza e ne trasforma la struttura. È un’intempestività
portata sul nostro divenire nel tempo storico in modo simile a degli anacronismi, impigliati in un contrattempo che ci permette di riconoscere nella tenebra, come dei veggenti, la presenza di una luce la quale, senza mai poterci effettivamente raggiungere, continua a viaggiare verso di noi. Questo non significa che quella luce rimanga come l’orizzonte di una salvezza possibile, perché il poeta non può che tenere fisso lo sguardo all’interno del proprio tempo, avvolto da tutta la tensione della sua immanenza. Così, il contemporaneo per Agamben non può vedere altro, nel fondo della fissità del proprio sguardo, che una forma di buio, perché per chi vive l’esperienza della propria contemporaneità i tempi non possono che essere oscuri, ed è proprio intingendo la penna in quella tenebra del presente che il poeta trova la capacità di scrivere. Tuttavia, guardare nell’oscurità non significa non avere alcuna visione o arrancare in un buio privo di qualsiasi forma di luce; significa piuttosto che l’autoaffezione della retina, che abitualmente chiamiamo buio, è in realtà il colore della potenza, la potenza di non-vedere. Per dire questo Agamben si appoggia anche alla neurofisiologia della visione, che spiega come in un ambiente privo di luce, o quando chiudiamo gli occhi, si disinibisce una serie di cellule periferiche della retina, dette off-cells, che entrando in attività producono quella particolare forma di visione che riconosciamo come buio. Il buio in questo senso non è pertanto da intendersi come un concetto privativo, ma come un risultato dell’attività della nostra retina. Cogliere l’oscurità della contemporaneità non deve pertanto essere ricondotto a un atteggiamento d’inerzia, quanto semmai a una forma di passività che comporta la particolare abilità di neutralizzare la forza accecante delle luci che provengono dall’epoca, vedendo i punti d’ombra che ne sono del tutto inseparabili. Contemporaneo allora non è tanto colui che riconosce luci e ombre della propria epoca, quanto colui che nel buio del proprio tempo si sente interpellato da qualcosa che sembra rivolgersi direttamente a lui, alla sua esclusiva singolarità. Così, a occhi chiusi, l’autoaffezione della propria retina si trova in accordo con l’affermazione di Aristotele secondo cui l’oscurità, in linea con quanto abbiamo appena detto, è il colore della potenza, la potenza di non-vedere.2 Anche Joyce, all’inizio del suo romanzo Ulysses,3 invita a chiudere gli occhi per vedere, per lasciarsi attraversare dal vuoto di ciò che costituisce il nostro sguardo; del resto, come lui stesso scrive, è del tutto evidente che se ci possono passare le dita sarà un cancello, altrimenti si tratterà di una porta.
Georges Didi-Huberman,4 riprendendo il passo, ci esorta a cogliere come questo invito di Joyce, il chiudere gli occhi per vedere, possa essere rovesciato come un guanto senza per questo minimamente tradirlo. È soltanto aprendo gli occhi che possiamo esperire ciò che in effetti non vediamo, giacché il nostro sguardo tende a essere preso da una grammatica che detta i criteri della stessa visione. È saper cogliere come un reale incontro visivo prenda forma, è saper attraversare la sua evidenza nel momento in cui posiamo lo sguardo su un paesaggio, su un corpo, su un’immagine vera e propria. Michel Foucault, in Naissance de la clinique,5 dice la stessa cosa quando afferma che tutto ciò che è visibile è enunciabile, in quanto tutto ciò che è enunciabile è visibile; postulato su cui si reggono ancora gli stessi criteri del nostro sapere. Eppure, come Agamben riprende in L’uso dei corpi,6 l’esperienza ci offre quotidianamente esempi di cose inappropriabili, e tra queste vi sono sicuramente almeno il corpo, la lingua e il paesaggio. Per quanto riguarda l’esperienza dell’inappropriabilità del corpo, questa sarebbe stata fuorviata dalla dottrina fenomenologica, che definisce l’esperienza del corpo proprio come una donazione originaria. Per Husserl7 l’appercezione del proprio corpo è infatti originariamente la prima e l’unica che sia pienamente tale, ed è solo dopo aver costituito questa percezione del corpo proprio che si sarebbe in grado di percepire ogni altro corpo in quanto tale, anche se l’appercezione del corpo dell’altro rimarrà comunque sempre presa all’interno di un carattere mediato rispetto all’originarietà della prima. Quanto più si affermerà il carattere originario di ciò che risponde alla proprietà del corpo e del suo vissuto, tanto più forte e originaria si manifesterà l’invadenza di qualcosa che permane nella sua improprietà; è come se il corpo proprio, afferma ancora Agamben, proiettasse ogni volta un’ombra che non può in nessun caso essere separata da ciò che di sé mostra. Di conseguenza vi è una corrispondenza tra il corpo e il paesaggio, come se si potesse cogliere lo stesso corpo nel modo del distendersi di un paesaggio, dove quest’ultimo rappresenta uno stadio ulteriore rispetto all’ambiente animale e allo stesso mondo umano. In fondo quando guardiamo un paesaggio, così come quando guardiamo un corpo preso nella sua nudità, vediamo gli elementi che lo compongono; ma questi, se da una parte sono già stati sottratti, nel loro riconoscimento, alla semplice appartenenza a un ambiente animale, dall’altra sono stati anche a uno a uno, dettaglio su dettaglio, disattivati dal loro piano ontologico e percepiti in un insieme che
appartiene alla reale virtualità di una dimensione ulteriore. Pur vedendo ogni dettaglio in tutta la sua intensità, così come ci sembra di non averlo mai visto, non lo vediamo già più, è già perduto, felicemente e immemorabilmente perduto nell’insieme del paesaggio. Il trovarsi in questo stato di paesaggio significa lasciarsi attraversare da una forma di sospensione, da un senso di inoperosità in cui il mondo, divenuto in quella frazione di tempo indeterminata del tutto inappropriabile, non solo non è più nell’ordine dell’animalità, ma non è più neppure nell’ordine dell’umano, perché chi contempla il paesaggio, nell’intensità di un tempo preso in tutto il suo permanere come pura potenza, si fa a sua volta soltanto paesaggio. Non vi è infatti più nulla da comprendere; lo sguardo non deve cercare una grammatica che gli permetta di leggere ciò che vede, esso si fa solo pura visione; non vi è più necessità che subentri alcuna forma di negazione, ogni dialettica dell’oltrepassamento è congedata grazie all’insorgenza di quel solo momento di semplice felicità. È lì che la divisione tra la vita che viviamo e la vita per cui viviamo scompare, magari anche per un solo istante, per il tempo di quel solo respiro. Affiora la singolarità di un gesto autobiografico, in cui l’autos fa un giro a vuoto su se stesso, mentre il biografico si colora dei fatti e degli eventi che ne costituiscono la trama. Si tratta di un processo di soggettivazione, colto come centro d’indeterminazione, in cui ogni tratto biografico trova il tempo di riposare in se stesso e la singolarità della vita incontra l’insorgenza della propria forma. Virginia Woolf8 scrive qualcosa di molto vicino a tutto questo quando nei suoi diari afferma che l’esperienza che la rende cosciente di quel che chiama realtà, di ciò che materialmente le si pone davanti in tutta la sua astrattezza, è qualcosa di incorporato alle brughiere e al cielo, là dove non vi è più nulla che conti. E tuttavia è proprio in quel vuoto di paesaggio impresso negli occhi che sa di poter trovare riposo e ha la consapevolezza che la sua esistenza continuerà comunque a tratteggiarsi nel suo prendere forma. Solo quella visione è ciò che sente di poter chiamare realtà, quello di cui ha più bisogno e che non smetterà mai di cercare. In fondo rimane la sola relazione con il tempo a incidere l’essere contemporanei al mondo della propria età. Si tratta di aderire al proprio tempo e simultaneamente prenderne una sorta di distanza, o, ancor più precisamente, è un’aderenza al tempo attraverso la sfasatura e l’anacronismo sul liminare della nostra stessa accidentalità. Chi coincide troppo pienamente
con il proprio tempo non può che perdere l’aderenza alla propria vita, al tono della sua immanenza; il destino che porta con sé è semmai quello di non vedere nient’altro che delle scene e di non saper cogliere in esse alcun paesaggio, affermerà solo descrizioni plausibili e non riuscirà a distinguere il punto in cui brughiera e cielo si sovrappongono, perdendosi tra di loro sulla stessa superficie di fondo. La “regressione dionisiaca”, come la descrive Melandri9 (vale a dire una regressione liberata da ogni accezione pessimistica, che non allude affatto a uno stadio anteriore o a un contenuto rimosso), è per Agamben10 l’immagine inversa e complementare dell’angelo benjaminiano: quest’ultimo infatti avanza verso il futuro tenendo fisso lo sguardo sul passato, mentre l’angelo di Melandri regredisce nel passato guardando verso il futuro. Tuttavia, entrambi procedono verso qualcosa che non possono né vedere né conoscere. Questa meta invisibile delle due immagini del processo storico della propria età è ciò che possiamo indicare come l’evidenziarsi di un presente, come ciò che appare nel punto in cui un futuro raggiunto nel passato e un passato raggiunto nel futuro per un istante coincidono e gli sguardi dei due angeli sembra si possano incrociare. L’incontro di questo movimento a distanza permane per Blanchot11 all’interno del farsi stesso dell’opera, perché è soltanto scrivendo che ci si espone a mantenere l’opera nel suo fuori assoluto, nella sua radicale esteriorità. Chi scrive è chiamato infatti a compiere quel movimento estremamente arrischiato che lo porta incessantemente a sostare su questo limite estremo in cui l’opera continua a tendere a se stessa, là dove ormai raccontare si è fatto del tutto impossibile. Ciononostante, è proprio sulla puntualità di quella soglia che ogni atto creativo deve, senza cedimenti, trovare la propria posizione, affinché tutto, prima o poi, possa essere ripreso. È una soglia che sembra non presentarsi come totalmente attinente all’opera che ci si è impegnati a scrivere, ne rimane come una terra sconosciuta, un mare tenebrarum, un limite ineffabile, che però ormai ossessiona e anima quella soggettivazione in modo quasi esclusivo. Sarà solo a quel punto che si farà sentire tutta l’esigenza di rinnegare il proprio lavoro, la propria opera, il fine che sembra esserle sempre stato proprio. Si tratta di un momento in cui lo scrittore non può più attendere al compimento della propria opera senza cogliere, almeno anche soltanto come un alibi, la ricerca di un altro punto di vista da applicare alla propria arte. Si rivela lì una piega che occorre assumere in pieno per poter sfuggire al proprio compito, per essere in grado di
dissimulare ciò che si sente di essere e che si ritiene di aver sempre voluto fare. Per questo la scrittura, l’atto creativo assunto in tutta la potenza della sua istanza immanente, è intriso di dissimulazioni. Essa non può che riconoscere l’esigenza di Orfeo: sapere che arriverà il momento preciso in cui si dovrà voltare per guardare Euridice, e che sarà lì che dovrà cessare il proprio canto, dovrà riconoscerne la sola potenza e rinnegare tutto. Perché è solo attraverso il disconoscimento di ogni forma di arte, di opera, di letteratura, che Euridice si rivelerà come l’unica presenza che ha sempre voluto guardare e di cui ha sempre saputo di non poter cantare. Solo al prezzo di questo rinnegamento l’opera potrà continuare a divenire se stessa, potrà perdersi nello sguardo di Euridice, che non si è mai voltata a guardare Orfeo, è sempre rimasta lì ad attenderne lo sguardo, a fissarlo mentre di spalle scivolava via. E così per chi scrive, per chi dedica il proprio tempo all’opera, tenere un diario significa appoggiarsi al bastone nodoso dei giorni, vuol dire contrapporre all’attesa del Regno la scansione di un tempo in cui i giorni semplicemente non si rincorrono più l’uno con l’altro, ma precipitano l’uno nell’altro, ribadendo così, nell’insieme della loro differente intensità, la propria inaggirabile singolarità. Quindi, se l’esigenza dell’opera richiede tutto il tempo di una vita, non si tratta di sottrarre a questa esigenza un tempo da regalare alla sola vita; ciò implicherebbe infatti non riconoscere più all’opera il suo carattere di esigenza, significherebbe introdurre una comparazione di valore, valutare il peso della vita rispetto a quello dell’opera, mentre ciò che bisogna cogliere è come quel “tutto” non sia ancora abbastanza. Non si tratta più di capire se si deve consacrare tutto il proprio tempo al lavoro, alla ricerca di tutto il tempo possibile da dedicare alla scrittura, ma di passare in un altro tempo in cui non c’è più lavoro, ma solo dedizione. Bisogna avvicinarsi al punto in cui il tempo è ormai perduto, dove si entra nella fascinazione e nella solitudine di un’assenza di tempo. In fondo, scoprire di avere tutto il tempo che ancora resta significa non avere più tempo. Tenere un diario intimo vuol dire allora mettersi temporaneamente sotto la protezione dei giorni comuni, non tanto per riconoscerli nel loro movimento cronologico, quanto per la frattura che ognuno esprime come il solo giorno che viene. Così, porre la scrittura sotto questa protezione significa per Blanchot anche salvaguardarsi dalla sua stessa necessità, comporta un assoggettarla all’insignificante regolarità che si è deciso comunque di
rispettare. Tutto quello che viene scritto nelle pagine di un diario, che lo si voglia o meno, rimane radicato sulla soglia che il giornaliero delimita. Ogni pensiero, anche il più remoto o il più aberrante, viene preso nelle maglie aleatorie di un vissuto quotidiano, di ciò che basta a quel solo giorno, di cui non si può violare l’assoluta verità. Il diario infatti, recando in sé il giorno di cui è parte, esige tutta la sincerità della sua contingenza assoluta e porta alla consapevolezza di come questo limite della propria esposizione non possa mai essere oltrepassato. Tanto è vero che nessuno può pensare di tenere un diario senza incontrare la sincerità di ciò che al suo interno vi ha preso forma, perché la sincerità, anche quando è basata su un evidente autoinganno, rimarrà comunque presa nella trasparenza che ciascun giorno porta in sé, nella follia che mai farà calare sulla propria luce l’ombra della successione. Questo è il coraggio o la virtù che il diario lascia affiorare in superficie, movimento che si rivela opposto a quello della profondità, la quale invece presenta diverse agevolazioni, come ad esempio il non dover rispettare il giuramento che ci lega a noi stessi nell’ordine dei giorni, alla verità che quelle parole, scivolate sulla loro superficie, hanno riconosciuto come la propria inaggirabile cadenza. Reggersi sul bastone nodoso dei giorni significa avere la consapevolezza di che cosa porti con sé incontrare il caso, nel momento in cui per Blanchot è lo stesso che incontrare “veramente” un’immagine. Immagine e caso aprono infatti, nella singolarità di una vita, la faglia di un’impercettibile lacuna che conduce alla necessità di rinunciare alla luce di una serena conoscenza, con un possibile ritorno a un utilizzo usuale del linguaggio. Si tratterà di soggiacere all’incantesimo di una luce diversa, di aprirsi a una differente misura della lingua. In fondo l’intensificazione del caso è tutt’altro che una distruzione delle condizioni di realtà in cui siamo immersi. Ecco perché il vero interesse di tenere un diario rimane nel tono di fondo della sua irrilevanza. Scrivere ogni giorno, sotto la garanzia che quel giorno assicura nella propria singolarità, è un modo per sfuggire alla violenza devastante del silenzio e per disconoscere tutta la portata di estremizzazione che ogni singola parola inevitabilmente porta con sé. Ogni giorno è destinato così a far dire di sé qualcosa e ciò che verrà detto rimarrà preservato in tutta l’inessenzialità di quel singolo giorno. È il tono di una contingenza che ci permette, senza introdurre con ciò alcuna diretta utilità, di vivere ogni
evento due volte, in quanto salva dall’oblio del silenzio e dalla disperazione di non aver niente da dire. In Parabola e Regno,12 Agamben riprende il frammento postumo di Kafka dal titolo Von den Gleichnissen,13 dove un interlocutore dice a un altro che le parabole dei saggi risultano del tutto inapplicabili alla vita quotidiana. Quando un saggio invita, nel suo discorso, ad andare “al di là”, non intende al di là della strada, ma un “al di là” in senso lato, un “oltre” rispetto a ciò di cui non si può avere conoscenza e che neppure lo stesso saggio può conoscere; così, è un invito che in effetti non si rivela di nessun aiuto al suo stesso scopo, perché non fa che confermare ciò che il saggio già sapeva: che l’inafferrabile rimarrà inafferrabile e che ciò di cui ci si occupa quotidianamente rimarrà tutt’altro. A questo punto una voce anonima, l’impersonale di uno che parla, suggerisce la soluzione del problema, che sta nel rinunciare a opporre questo tipo di resistenza basata sul principio di ragione. Se ognuno seguisse letteralmente le parabole, diventerebbe lui stesso una parabola e con ciò sarebbe libero dalle preoccupazioni quotidiane. Il secondo interlocutore però obietta che anche questo suggerimento in fondo non risulta essere nient’altro che una parabola. Il farsi parabola e l’uscita dalle necessità della vita non rimangono altro che l’espressione di una parabola, cosa che quella stessa voce impersonale non ha alcuna difficoltà a concedere, riconoscendo al secondo interlocutore la vittoria nella disputa. Ma proprio grazie a questo punto di cedevolezza è anche in grado di chiarire il senso del suo suggerimento e di rovesciare inaspettatamente la sconfitta in vittoria. Infatti al commento scanzonato del secondo interlocutore, che riconosce di aver vinto, ma soltanto nella parabola, il primo, senza alcuna ironia, risponde che non è affatto così, che è solo nella realtà che ha vinto, mentre nella parabola ha perso. Per Agamben dunque chi si ostina a rivendicare una distinzione necessaria tra la realtà e la parabola non ha capito il senso stesso della parabola. Diventare parabola infatti significa comprendere che non vi è più differenza fra la parola del Regno e il Regno, tra il discorso e la realtà. Per questo il secondo interlocutore, che insiste a credere che l’uscita dalla realtà sia ancora una parabola, non può che perdere. Solo chi, alla lettera, nella parola si fa parabola è in grado di cogliere come il Regno sia così vicino da poter essere afferrato senza alcun bisogno di passare al di là della strada.
Note 1
Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, cit. Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, in Id., La potenza del pensiero, cit. 3 James Joyce, Ulysses, Bodley Head Ltd, London 1967; tr. it. Ulisse, nella traduzione di Gianni Celati, Einaudi, Torino 2013. 4 Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Minuit, Paris 1992; tr. it. Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi, Roma 2008. 5 Michel Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Presses Universitaires de France, Paris 1963; tr. it. Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi, Torino 1969. 6 Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, cit. 7 Edmund Husserl, Husserliana: Gesammelte Werke, Bd. XIV, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität: Texte aus dem Nachlass. 2, 1921-1928, Nijhoff, Den Haag 1973. 8 Virginia Woolf, The Diary of Virginia Woolf: 1925-1930, Hogarth, London 1980; tr. it. Diari 1925-1930, Rizzoli, Milano 2012. 9 Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, cit. 10 Giorgio Agamben, Signatura rerum, cit. 11 Maurice Blanchot, Le livre à venir, cit. 12 Giorgio Agamben, Parabola e Regno, in Il fuoco e il racconto, cit. 13 Franz Kafka, Von den Gleichnissen, in Id., Beim Bau der Chinesischen Mauer, Gustav Kiepenheuer, Berlin 1931. 2
Come immagini attese
Se le immagini contrassegnano in modo inequivocabile la nostra memoria, la punteggiano delle loro impressioni, senza per questo essere immediatamente riconducibili a dei veri e propri ricordi, è forse per il fatto che, come afferma Bill Viola,1 una volta sono entrate in noi e continuano a trasformarsi e a crescere dentro di noi. In fondo, commenta a questo proposito Agamben,2 ognuno di noi si trova a essere un involontario collezionista di immagini. Anche Deleuze, nel secondo volume sul cinema, L’Image-temps,3 si sofferma sulle immagini ottiche pure – quelle che la macchina fissa e il montaggio definiscono un al di là del movimento –, indicandole come quelle immagini che, non essendo più percepite soltanto come passaggio di una concatenazione senso-motoria, sembra che continuino a crescere di dimensione. Se ogni immagine rimane infatti invariabilmente presa nella propria concatenazione, nella struttura narrativa del film, nel momento in cui ci colpisce è come se continuasse, nonostante il suo scorrimento, a ripercuotersi su se stessa nel fondo dei nostri occhi. D’altra parte, come scrive Jean-Louis Schefer,4 non possiamo non tenere conto di come la durata delle nostre passioni si misuri proprio rispetto alla persistenza in noi delle immagini; è il loro potere d’iterazione, di ricorrenza, a dettare la loro forza d’insistenza. Così, la loro fissità cresce e si trasforma perché ritornano come attraversate da una vibrazione interna d’intensità, alla ricerca in noi di una loro vita propria. La trasformazione di un’immagine nel suo doppio mnestico si accompagna infatti a un lento movimento di cancellazione della scena d’insieme che la detiene e che le dà senso. L’immagine emerge unica su uno sfondo d’indeterminazione, si evidenzia senza legarsi al significato che richiama e all’immaginazione che è in grado di suscitare, ma aprendosi piuttosto a un’intensità temporale in cui la memoria rimane avvinta a se stessa. È così che adattiamo i film che nel tempo ci è capitato di vedere, allo stesso modo di ciò che ci è accaduto di vivere, ricordando non soltanto l’insieme delle loro trame, il loro senso, o almeno le emozioni di fondo che ci
sembra ci abbiano regalato, ma anche ritrovando in noi la persistenza di alcune singole immagini che, per essere tali, per rivelare tutta la loro singolarità, si devono stagliare su un’assenza di scena, hanno la necessità di offuscare l’insieme a cui sono appartenute ed emergono come dei puri primi piani, pur senza esserlo in realtà mai stati. Deleuze definisce questo fenomeno il voltificarsi delle immagini. È come se ogni singola immagine potesse assumere la particolarità di un volto che ci guarda, anche se di questo fenomeno abbiamo soltanto un’impressione fugace. Eppure, nonostante questa fugacità, sentiamo in fondo di essere rimasti colpiti dall’apparizione di quella singola immagine, sebbene si tratti sempre di un solo attimo, perché la trama del film prende comunque il sopravvento, la nostra attenzione rimane impegnata nella comprensione del racconto, nel seguire i tratti della sua successione. Le immagini si stagliano sì sulla scena, mantenendo però in sé un paradosso, che viene messo particolarmente in evidenza dalla fotografia. L’immagine fotografica infatti, nonostante la sua perfetta coincidenza con se stessa, con l’esclusiva singolarità che fa di essa quel che è e nient’altro, continua tuttavia ad anticipare virtualmente ciò che dovrà seguirla e a ricordare ciò che ancora continuerà a precederla. È questa sospensione del tempo che l’immagine sembra trattenere senza in realtà riuscirci, è il suo essere perfetta in quello che dovremmo invece riconoscere come un fallimento, come un evidente errore nel continuo del divenire, è questo a renderla del tutto trasparente a se stessa e al contempo a fare sì che si presenti come un puro fantasma. Questo non sta a significare che chi guarda quella singola immagine sia portato a interrogarsi su ciò che l’ha anticipata o su ciò che l’avrà seguita; interrogazione che risponderebbe al solo registro del simbolico, alla necessità di significare attraverso una capacità immaginativa, narrativa, ciò a cui pensiamo possa rimandare la descrizione interrogativa che la grammatica del nostro sguardo porta direttamente sull’immagine. In realtà l’immagine non manca mai di niente, è tutta lì, completamente esposta, si tratta solo di guardarla; ma lo sguardo, che le permette di essere l’immagine che è, precipita, nel suo farsi puro occhio e nel perdere ogni sua capacità grammaticale, in quella perfetta superficie, e proprio in quella precipitazione coglie come in realtà quella singola immagine sia carica di tempo. Del tempo della propria sopravvivenza, dell’aurora immemoriale del momento in cui ha preso luce, di tutto il tempo, altrettanto immemoriale, in cui un numero
indeterminato di altri sguardi si è posato su di lei penetrandone il corpo come una ninfa. Per questo Agamben, volendo attribuire una formula ai video di Bill Viola, suggerisce che essi non ineriscano alle immagini nel tempo, quanto semmai al tempo nelle immagini. Così, se il vero paradigma della vita rimane la struttura temporale che la determina, allora non vi potrà che essere anche una vita delle immagini. Certo, le immagini che vengono a costituire la nostra memoria tendono, nel corso della loro trasmissione storica, sia individuale che collettiva, a irrigidirsi nell’icona della loro spettralità. Si tratterà allora di restituirle, nel momento in cui le si incontra, all’autonomia della loro vita, perché le immagini, pur essendo vive – costituite cioè di tempo e memoria –, sono anche delle sopravvivenze, sono già da sempre esposte alla minaccia di assumere una forma spettrale, di farsi icone di se stesse. Liberare le immagini dal loro destino spettrale per restituirle a tutta la loro forza fantasmatica è ciò che dovrebbe accadere nella schisi tra il nostro occhio e lo sguardo. Ciò che infatti dovremmo aspettarci, nell’osservare quei video, non è che le immagini recuperino una loro fissità assoluta e si ritrovino nel nostro sguardo icone di se stesse, ma che il nostro occhio si faccia specchio di quella immobilità esitante, di quel tremito leggero, quasi impercettibile, che le lascia vivere. La sopravvivenza fantasmatica delle immagini, la loro stessa vita, non consiste perciò né nella loro perfetta fissità, né nel loro movimento, quanto piuttosto nella tensione temporale di cui si caricano nella pausa in cui l’una precipita nell’altro o viceversa, perché il loro cristallizzarsi in monadi non può che continuare a portare impresso in sé l’urto che le ha rese tali.5 La struttura ontologica delle immagini non è allora dell’ordine della sostanza, ma di una continua generazione6; le immagini vengono create nuovamente a ogni istante. Così, se attraverso l’opera di Bill Viola è possibile assistere al passaggio da un museo immaginario a un museo cinematografico, per Agamben accade anche l’esperienza opposta, si può cioè assistere a un passaggio dal movimento cinematografico a una situazione di perfetto stallo dell’immagine, in modo da cogliere il paradosso visivo di un’immagine immobile che mantiene tuttavia in atto il proprio essere di passaggio. Per questo, quando le immagini, nel movimento di reversibilità verso se stesse, sembrano aver ritrovato il loro punto di arresto, in realtà si sono caricate di tutto il tempo di questo continuo divenire se stesse, che non smette di imprimere in loro, anche nell’attimo finale di quello stallo, in quel loro
apparire in una perfetta immobilità, una sorta di tremito. Ed è esattamente l’impercettibilità di questo tremore a caricarle di tutta la particolarità viva della loro aura. Accade così, come Lacan scrive nel Seminario XI,7 che ciò che è luce non può non guardarci, come lui stesso ha sperimentato nella ormai famosa scena della scatoletta di sardine che Giovannino gli indica mentre sono insieme a pesca. Effettivamente la scatoletta non vede Lacan, eppure lo guarda al livello del suo punto luminoso, senza che questo sia assumibile in termini semplicemente metaforici. Grazie a quel punto luminoso che ogni immagine è, qualcosa si dipinge nei nostri occhi e nello sfavillio della sua superficie perde l’oggettività della sua distanza. Interviene cioè un residuo di ciò che comunemente viene eliso nella relazione geometrale, nella percezione di una profondità di campo, ed è quella stessa insorgenza luminosa a prenderci, a sollecitarci in ogni momento e a fare del paesaggio qualcosa d’altro rispetto a una prospettiva, rispetto a ciò che Lacan ha chiamato il quadro. Perché in quell’incrocio luminoso il soggetto che guarda non è più semplicemente un essere puntiforme in grado di orientarsi rispetto al punto geometrale che ne definisce la prospettiva. In fondo all’occhio si dipinge il quadro, il quadro è sì nel proprio occhio, ma quel soggetto è al contempo nel quadro, e lì si fa macchia. In una lettera che nel 1891 scrive a Gide,8 Valéry racconta di come, mentre viaggiava in treno guardando fuori dal finestrino, nel suo riquadro, che fino a quel momento aveva raccolto unicamente il paesaggio, improvvisamente iniziò a profilarsi il suo volto. Anziché continuare a vedere, su quello schermo trasparente, il paesaggio che gli stava di fronte, gli apparvero in sovrapposizione, su quello stesso sfondo, un naso e degli occhi che riconobbe come suoi. In quell’attimo di riconoscimento gli salì alle labbra un’attribuzione riferita a se stesso: “Povero poeta”. All’intensificarsi del proprio rispecchiamento, nel cogliere, sulla superficie che si faceva sempre più opaca, una parte ancora maggiore del suo volto, si ricordò di sé: “Povero caporale”; finché, vedendo l’insieme del suo volto, sentendosi ora più davanti al quadro di uno specchio piuttosto che nell’insieme di un paesaggio, ritrovò il proprio riconoscimento definitivo: “Povero Narciso”. Tutte queste forme di riconoscimento e attribuzione di sé, impresse tra volto e paesaggio, mentre il treno inarrestabilmente proseguiva il suo viaggio, non poterono che intenerirlo.
La via della nostra visione, essendo ordinata attraverso figure della rappresentazione, lascia che qualcosa sempre scivoli via, passi, si trasmetta di piano in piano per restare almeno in parte sempre elusa.9 È proprio in questa costitutiva elusione che contrassegna il nostro sguardo come tale, nel vuoto di questo suo mancarsi, in questo suo elidere se stesso, che si viene a creare lo spazio per una coscienza che si esprime nella convinzione del proprio vedersi vedere. Eppure questo ripiegamento della coscienza su se stessa per Lacan non è altro che un escamotage, in quanto vi si opera una sottrazione della funzione stessa dello sguardo. Quella macchia del proprio volto, impressa nello sguardo, rimane ciò che più segretamente comanda il soggetto verso se stesso e al contempo è ciò che maggiormente sfugge alla presa, a quella forma di visione che pensa di potersi soddisfare immaginandosi come una coscienza di sé. Per questo Valéry non prova altro che un senso di tenerezza nel momento che intercorre tra la percezione dell’immagine del proprio volto riflessa nel vetro e i tentativi di apportarvi una parola in grado di corrispondere a un’esperienza di riconoscimento. Del resto, ciò che in effetti conta, rispetto a quel particolare momento di rispecchiamento, non è tanto la definizione che gli si può attribuire, ma il rapporto che permane tra il quadro e il paesaggio. Lo sguardo si riflette sì nella propria immagine, ma al contempo prosegue il suo percorso scorrendo sui tratti del paesaggio, non tanto come semplice sfondo, ma come ciò che s’imprime sulla stessa superficie della trasparenza del vetro, sul suo schermo; e questa sovrapposizione di sé sul paesaggio, che non fa quadro, non può che intenerire l’esperienza di quella diretta visione sulla trasparenza di sé, rispetto a ogni tentativo di attribuzione che possa credere di ristabilire il riconoscimento di un’identità. La sovrapposizione può essere allora intesa come un inganno dell’occhio, perché ogni volta lo sguardo si sentirà chiamato a dover scegliere, a mostrarsi capace di portare il proprio discernimento su ciò che vede, a trionfare su quello che s’impressiona nel fondo del proprio cristallino. D’altronde per Lacan il rapporto dello sguardo con ciò che si vuole vedere non può che rivelarsi come un rapporto mancato, in quanto il soggetto si presenterà ogni volta all’incontro con il reale come altro da ciò che in effetti è, ed è proprio per questo che quello che gli si darà da vedere non corrisponderà mai a ciò che in effetti ha desiderato vedere. Ecco perché l’occhio può svolgere per Lacan la funzione di quello che egli indicherà come oggetto piccolo a, un
residuo strutturalmente inattingibile, una porzione della realtà irrimediabilmente sottratta; allo stesso modo l’occhio svolge il ruolo di un otturatore, di un livello che viene meno nella sua impressione rispetto a ciò su cui posiamo lo sguardo e che non è mai quello che in realtà abbiamo deciso di voler vedere. Tanto è vero che quando nell’amore, prosegue ancora Lacan, si domanda uno sguardo, non si ottiene altro che di essere guardati proprio là dove non lo si vede. Questo tuttavia non determina, come Agamben scrive in Signatura rerum,10 dei contenuti rimossi che debbono essere riportati a coscienza, perché l’occhio come otturatore, che può avere funzione di oggetto piccolo a, lascia sempre che un’immagine s’impressioni come tale. Si tratterà allora, in funzione della persistenza a cui quell’immagine darà corpo, di evocarne la componente fantasmatica e, simultaneamente a questa evocazione, di lavorarne il fantasma, di dettagliarlo in ogni suo particolare, al fine di liberarlo da ogni pretesa originarietà e perché si mostri in tutto ciò che in effetti non è mai stato. Questa regressione archeologica si presenterà allora intessuta di tutta la propria elusività, non tenderà cioè mai a ripristinare uno stato precedente, ma piuttosto a spostarlo, ad aggirarlo, a risalire non tanto i suoi possibili contenuti, quanto il dipanarsi delle sue modalità, le circostanze e i momenti perduti di una scissione che non può più essere pensata come luogo di un rimosso, come ciò che andrebbe a costituire l’origine ontologica di un sintomo, ma come il lascito su cui la vita è chiamata ancora a prendere forma. È tutto ciò che in realtà non è mai avvenuto, non si è mai realizzato, ma è proprio lì che possiamo essere toccati dalla reale esperienza di un evento, dall’inaggirabile singolarità della nostra vita, colta in tutta la potenza della sua impersonalità. Può accadere allora, come scrive Christian Metz,11 che trovandosi davanti a una fotografia, pur non avendo una conoscenza empirica dei contenuti del fuori-quadro, non si riesca a trattenersi dall’immaginare che cosa componga quest’ultimo, ci si trovi cioè in un modo o nell’altro ad allucinarlo, a sentire il bisogno di sognarne il vuoto centrale. Si tratta di qualcosa di completamente differente da quanto viene sostenuto da Kracauer nel suo saggio sulla fotografia,12 in cui alla fotografia vengono contrapposte le immagini della memoria. Perché se queste ultime selezionano e condensano gli aspetti cruciali di un personaggio, di un luogo o di un evento, così da essere utili alla persona che ricorda, le fotografie al contrario sembrano caricarsi talmente di dettagli, di tutto ciò che si trovava davanti all’obiettivo in quel dato
momento, che nessuna memoria può pensare di farne proprio il ricordo. Così, invece di catturare gli aspetti significativi dell’esperienza, la fotografia ne rivelerebbe tutta la casualità, e la quantità sterminata d’immagini che ci circonda denuncerebbe proprio l’indifferenza verso ciò che le cose dovrebbero invece effettivamente significare. Eppure ogni fotografia non è contrassegnata unicamente dalla somma dei suoi dettagli, ma anche dall’insieme del suo paesaggio, da ciò che in lei si riverbera come pura immagine di se stessa. Ecco perché un’artista come Tacita Dean associa la fotografia al sentimento, espresso in tutta la sua evidenza da Walter Benjamin, dell’obsolescenza: non ciò che è stato, ciò che ormai è passato, ma ciò che sta per trapassare in se stesso rivelandosi così com’è. È il silenzio punzecchiato di un nastro magnetico muto o l’elettricità statica che vibra su di una registrazione.13 Le fotografie sembrerebbero poter mostrare unicamente quello che “è stato”, ma in realtà portano con sé, nel tono denso di quella paradossale corporeità in cui prendono forma, la testimonianza di una stratificazione del tempo. E non soltanto quello necessario alla messa in posa – anche quando essa si fissa nella sola frazione di un tempo rubato al tempo –, ma anche il tempo necessario per la stampa e quello che è stato impiegato per raccogliere le fotografie, custodirle, toccarle e attraversarle ripetutamente con lo sguardo, e che ha conferito loro una sorta di profondità, come se ora fossero dotate di un certo spessore, anche se del tutto indeterminato. Da qui il progetto artistico di Tacita Dean Floh,14 la ricerca e la conservazione in un libro, come nelle pagine di un ipotetico diario impersonale, di fotografie trovate casualmente nei mercatini delle pulci. Dove ciò che tiene insieme quelle singole immagini non è tanto la casualità con cui sono state ritrovate, quanto il modo in cui trattengono ancora in se stesse il tono della propria perdita, la modalità di una sopravvivenza che non è più rivolta a nessuno. Appaiono come dei semplici punti di insorgenza, la cui origine non si è semplicemente dissolta chissà dove, ma si mostra chiaramente per il suo non esserci mai stata. In questo senso Mark Godfrey15 si chiede, a ragione, se il punctum possa essere qualcosa che non necessariamente è soltanto nella fotografia, nei tratti che raffigurano l’immagine, ma forse anche sulla stessa fotografia. Se ci soffermiamo a guardare quelle immagini, che invece potrebbero essere semplicemente sfogliate l’una dopo l’altra, si può cogliere infatti una
sovrapposizione temporale tra la vita che viene esposta e la vita che la fotografia porta in sé, una vita che appartiene e non appartiene alle persone che in essa sono ritratte, qualunque sia stato il destino che ha condotto quelle singole immagini ad approdare alle bancarelle di un mercatino delle pulci, magari raccolte durante gli sgomberi delle abitazioni, oppure semplicemente smarrite e ritrovate poi chissà dove. Eppure, nonostante la casualità della loro storia, tutte le fotografie raccolte in Floh insorgono già come sopravvivenze, conservano questo tratto comune, e solo ora che non sono più per nessuno, e nondimeno sono ancora lì, totalmente esposte, rivelano tutta la potenza di ciò che non sono state. Sono immagini sopravvissute nonostante tutto, senza che sia possibile ricostruirne dei criteri che corrispondano a una precisa volontà; e di questa indifferenza del caso portano in sé tutti i tratti, perché in loro ancora risuona l’attaccamento di coloro che hanno creduto alla realtà di ciò che raffigurano e che la stessa Tacita Dean ha riconosciuto, raccogliendole e restituendole mute al nostro sguardo. Questa è la forza del suo gesto: riconoscere in ognuna di quelle singole fotografie la dimenticanza del loro quotidiano uso amatoriale. Così, se proviamo a trattenere in noi un’immagine, come se fosse una fotografia, ci accorgeremo che, pur mantenendo la sua inaggirabile singolarità, non è mai sola con se stessa, è carica di una memoria fatta tutta di tempo. Non si tratta di una memoria che circonda quell’immagine, che cerca di legarla a ciò che la precede o che l’avrà seguita, ma, come ciò che viene ritratto, si carica di uno spazio fatto di solo tempo. Per questo Roland Barthes16 afferma che le immagini di paesaggio lo coinvolgono soltanto nel momento in cui le coglie come luoghi in cui può immaginare di poter vivere, come quando viaggiando in treno si guarda all’interno di finestre illuminate, dove accadono vite che avrebbero potuto essere le nostre, o come la finestra illuminata nel romanzo di Marguerite Duras Le ravissement de Lol V. Stein,17 in cui Lol guarda consumarsi un amore che è e non è il suo stesso amore. Se ritorniamo allora all’affermazione di Schefer secondo cui ogni singola immagine emerge su uno sfondo d’indeterminazione, possiamo ancora seguirlo quando introduce un ulteriore slittamento, quando cioè afferma che è proprio là dove sembrerebbe possibile accedere a quella che possiamo indicare come una vita interiore che cogliamo come questo accesso non rimanga altro che un’intenzione di mondo: una pura potenza. Anche Deleuze, ne L’Image-mouvement,18 ha costantemente presente
questo centro d’indeterminazione con cui Bergson indica la soggettivazione, perché tra l’azione e la percezione, nei termini di tempo e di spazio, vi è sempre uno scarto. In modo tale che più la reazione a ciò che si percepisce cessa di essere immediata, più l’azione mostra il lato della sua possibilità, rendendo la percezione sempre più distante e anticipante, fino al punto da lasciare irrompere nei propri processi l’azione come pura virtualità. Questo intervallo che si viene a evidenziare tra azione e percezione non si definisce tuttavia soltanto attraverso l’accentuazione del lato percettivo e attivo, ma attraverso l’introduzione, in questa loro divaricazione, dell’affezione, la quale giunge a occupare, senza tuttavia riempirlo né colmarlo, questo stesso intervallo. L’affezione insorge allora nel soggetto, ponendolo in evidenza come centro d’indeterminazione, tra quelle che vengono definite da Deleuze rispettivamente come una percezione inquietante e un’azione esitante. Questa inquietudine della percezione e questa esitazione dell’azione, nel loro creare distanza, impediscono che venga ritenuto soltanto quello che interessa e si lasci cadere tutto quello che risulta invece indifferente; nella loro dilatazione, si mantiene in atto un’anticipazione che porta la soggettivazione ad assorbire dal lato della percezione la sua inquietudine e dal lato dell’azione il suo movimento esitante, senza che si trasformino né in veri e propri oggetti di percezione, né in veri e propri atti del soggetto. Si tratta di un punto, del tutto indeterminato, in cui soggetto e oggetto coincidono in una qualità pura. È così che per Deleuze l’immaginemovimento si trasforma in un’immagine-affezione. Non si tratta tuttavia d’intendere questa trasformazione come un vero e proprio punto di arresto. L’affezione, quella che Schefer definisce una semplice intenzione di mondo, non risponde ai soli criteri di un fallimento nel sistema che si instaura tra la percezione e l’azione, è piuttosto un rovesciamento del concetto stesso di fallimento, è un’impasse che continua a incontrare se stessa. Ecco perché questo assorbimento virtuale del movimento della temporalizzazione di una vita porta l’azione a rispondere semplicemente con una tendenza, con una tensione dove l’azione diventa momentaneamente e localmente impossibile. È un passaggio, in piena forma statica, che Bergson rende in tutta la sua evidenza, nel momento in cui afferma che l’affezione si rivela come una specie di tendenza su di un nervo sensibile. Si tratta in altri termini di un’intensità motoria distribuita su una lastra ricettiva del tutto immobilizzata. Non si ha infatti, per Deleuze, un movimento di traslazione che nella sua
propagazione diretta risulti interrotto da un intervallo, intervallo che da un lato distribuisce il movimento ricevuto e dall’altro il movimento eseguito, perché tra i due vi è l’affezione che li mantiene in rapporto tra di loro. Tuttavia, proprio in quanto affezione, il movimento cessa di essere un vero e proprio movimento di traslazione e diventa un movimento di espressione, quella che Deleuze indica nei termini di una semplice tendenza che agita un elemento immobile. Le immagini-movimento risultano così suddivise in una tripartizione strutturata in un insieme: le immagini-percezione, le immaginiazione e le immagini-affezione. Ogni soggettivazione si consolida nella sua struttura attraverso il collegamento di queste tre differenti forme d’immagini, dove l’immagine-percezione va a costituire soprattutto il piano d’insieme, l’immagine-azione quello che si potrebbe indicare un piano medio, mentre l’immagine-affezione, nella sua espressività, corrisponde a qualcosa come l’affiorare in intensità di un primo piano. Ecco perché per Deleuze19 la questione non è tanto in che modo il tempo si strutturi all’interno di noi stessi, quanto in che modo si determini il nostro essere all’interno della sua struttura. Come, per opera del tempo, ci troviamo continuamente non coincidenti con la nostra stessa interiorità, la quale senza sosta si scinde e ci sdoppia, anche se la nostra unità di fondo permane comunque inalterata. Si tratta in altri termini di una scissione che non va mai fino in fondo, assomiglia piuttosto a una vertigine, a un’oscillazione attraverso cui percepiamo l’affezione del tempo nel punto in cui si costituisce in se stesso. La lettura che in Ninfe20 Agamben fa del concetto di danza espresso da Domenico da Piacenza ci consente di cogliere perché Domenico chiami fantasma un arresto improvviso fra due movimenti, una tensione interna all’insieme della serie coreografica che virtualmente s’intensifica nella singolarità del gesto. Il corpo del danzatore, pur rimanendo coordinato nell’insieme prescritto del suo movimento, incontra punti d’intensità che tendono la sua energia dandogli l’impressione di una forma di stallo. Per questo Agamben può affermare che l’essenza della danza non consiste tanto nel movimento, quanto nelle varie forme che il tempo può assumere, perché l’atto della memoria, che sovrintende alla scena coreografica, non si rende possibile senza l’affezione del fantasma in cui il gesto, come in un’immagine, enfatizza il pathos, dando un’intensità che mette la sensazione visiva nelle condizioni di cogliersi nei termini della propria affezione. Ecco perché il fantasma, l’immagine che intensifica l’atto d’insieme della memoria, è in
grado di caricarsi di un’energia che turba il corpo preso nel suo movimento. Il pathos è l’affezione di una reminiscenza che non risponde più alla sola facoltà d’insieme della memoria, ma insiste in un movimento incentrato sulla ricerca di un fantasma che gli continua a sfuggire. È come se il corpo del danzatore, nel momento d’intensità statica del proprio gesto, fosse alla ricerca non tanto della perfezione del movimento, quanto della vibrazione del proprio corpo, il quale era andato perso nella perfezione coordinata di un movimento che esegue, ma che non gli appartiene. Agamben associa questo punto di arresto intensivo del movimento e della memoria alla visione dell’immagine che Aby Warburg21 propone come Pathosformel. Anche queste sono infatti delle forme d’intensificazione visiva dovute essenzialmente all’esperienza del tempo, costituiscono cristalli di memoria sui quali il passare statico del tempo ha scritto una sua coreografia. D’altronde non è casuale che le ricerche di Warburg siano contemporanee alla nascita del cinema. Tuttavia il suo interesse, anche quando si sofferma sul corpo in movimento, non risponde mai a ragioni strettamente estetiche, quanto al tema, divenuto per lui ormai un’ossessione, di che cosa significhi la sopravvivenza delle immagini nella loro autonomia, la vita postuma che presentano di se stesse, il fatto di non avere una nascita, una vera e propria origine, ma in fondo di essere sempre state lì, nello stesso luogo da dove sono state impresse, delle tautologie fisse di ciò che non è mai trascorso. È grazie a questa fissità nel tempo che le immagini si caricano, nell’incontro con il nostro occhio, di un loro potenziale cinetico, nel momento in cui il nostro sguardo smette di ritramarsi nella significazione attraverso la sua capacità di lettura. Si determina così, grazie alla singolarità di quell’immagine, la dialettica di una costellazione mediante la quale Benjamin vedeva come un istante del passato fosse in grado d’imprimere un’attualizzazione intensiva al proprio presente. L’immagine dialettica appare esattamente là dove il senso si sospende, dove affiora un attimo di oscillazione tra un irrisolto e il ritramarsi del senso; essa è un momento di sospensione che permane come nel vuoto semantico di ciò che le parole continuano a connotare. Questo vuoto è lo spazio che si apre all’immaginazione, luogo dove il pensiero, scrive Agamben, prende forma attraverso un’impossibilità di poter ancora pensare. La nostra storia personale è allora costellata da immagini a loro modo indimenticabili, perché è proprio nello spazio dell’immaginazione che avviene la frattura tra l’individuale e
l’impersonale, nel punto in cui le immagini non sono altro che la permanenza di un resto ininghiottibile dalla trama del senso. Sono solo le immagini, nella loro forma fantasmatica, a rispecchiare l’attesa attraverso cui la stessa immaginazione si troverà in grado di riattraversare quel reale punto d’arresto. Accade infatti che quando un uomo incontra veramente un’immagine, quando si sente avvinto a lei da una strana passione, non potrà che continuare a viverle accanto e sarà proprio il segreto della loro convivenza a definirne l’opera. Note 1
Bill Viola, The Passions, J. Paul Getty Museum, Los Angeles 2003. Giorgio Agamben, Ninfe, cit. 3 Gilles Deleuze, Cinéma 2. L’Image-temps, cit. 4 Jean-Louis Schefer, L’Homme ordinaire du cinéma, Gallimard, Paris 1980; tr. it. L’uomo comune del cinema, Quodlibet, Macerata 2006. 5 Cfr. Walter Benjamin, Angelus Novus. Ausgewählte Schriften 2, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1981. 6 Giorgio Agamben, L’essere speciale, in Id., Profanazioni, cit. 7 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. 8 André Gide, Paul Valéry, Correspondance 1890-1942, Gallimard, Paris 1955. Cfr. Valerio Magrelli, Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry, Einaudi, Torino 2002. 9 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. 10 Giorgio Agamben, Signatura rerum, cit. 11 Christian Metz, Photography and Fetish, in “October”, 34, autunno 1985. 12 Siegfried Kracauer, Das Ornament der Masse, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1963; tr. it. La massa come ornamento, Prismi, Napoli 1982. 13 Tacita Dean, Artist Questionnaire: 21 Responses, in “October”, 100, primavera 2002. 14 Tacita Dean, Floh, Steidl, Göttingen 2001. 15 Mark Godfrey, Photography Found and Lost: On Tacita Dean’s Floh*, in “October”, 114, autunno 2005; tr. it. Fotografia trovata e persa: Floh di Tacita Dean, in Elio Grazioli, Riccardo Panattoni (a cura di), Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti, Moretti & Vitali, Bergamo 2016. 16 Roland Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980. 17 Marguerite Duras, Le ravissement de Lol V. Stein, Gallimard, Paris 1964; tr. it. Il rapimento di Lol V. Stein, Einaudi, Torino 1966. 18 Gilles Deleuze, Cinéma 1. L’Image-mouvement, cit. 19 Gilles Deleuze, Sur quatre formules poétiques qui pourraient résumer la philosophie kantienne, in Id., Critique et clinique, cit. 20 Giorgio Agamben, Ninfe, cit. 21 Aby Warburg, Der Bilderatlas Mnemosyne, in Id., Gesammelte Schriften, Kraus, Nendeln 1969; tr. it. Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno, Torino 2002. 2
Fantasmi d’amore
Rispetto al lutto, la malinconia presenta nell’atto della propria insorgenza una circostanza particolarmente difficile da spiegare.1 Lo stesso accade per il sentimento amoroso, che diamo per acquisito appartenga alla nostra esperienza interiore pur non essendo chiaro che cosa effettivamente sia e in quale preciso momento si sia insinuato in noi, così come succede per un’immagine ottica pura. Per i greci dell’età arcaica, Eros era invece semplicemente un dio,2 un’entità che risiedeva all’esterno della vita dell’uomo, in una sfera che potremmo definire di tipo teologico. Il passaggio da eros ad amore ha comportato di conseguenza la migrazione da una sfera all’altra, da un fuori a un dentro. Ecco perché per Agamben la declinazione stilnovistica dell’amore si colloca sul sottile crinale fra la teologia e la psicologia, e dà luogo anche a frequenti fraintendimenti, non essendo immediatamente chiaro se ciò che stiamo leggendo sia un cerimoniale di tipo religioso-soteriologico o piuttosto una vera e propria avventura amorosa in senso moderno. Certo è, come già veniva affermato da Marsilio Ficino nel De Amore,3 che si è portati abbastanza facilmente a riconoscere una sostanziale prossimità fra la tensione erotica e quella malinconica; si tende cioè ad attribuire al processo dell’innamoramento la capacità di scardinare l’equilibrio umorale, e a far corrispondere alla forte inclinazione contemplativa del malinconico una diretta predisposizione verso la fatale passione amorosa. Lo stesso Freud in Trauer und Melancholie4 ammette che se nel lutto è sempre possibile constatare una perdita realmente avvenuta, nella malinconia invece non è mai chiaro che cosa sia stato realmente perduto, anzi, non si può neppure con sicurezza affermare se ci sia mai stata una vera e propria perdita. O meglio, Freud insiste, pur con qualche difficoltà, nel voler comunque mantenere, come accade per il lutto, una stretta relazione tra la malinconia e la perdita, nel voler sostenere che una perdita in un modo o nell’altro si sia comunque prodotta. E questo nonostante si trovi costretto – probabilmente per cercare di alleggerire la contraddizione rispetto
al fatto che l’oggetto della perdita non sia in ogni caso così facilmente riscontrabile – a parlare di una perdita oggettuale destinata di certo a sottrarsi. L’unico dato evidente rimane che si assiste ogni volta a un chiaro recesso della libido, ma oltre questo sintomo non sembra sia possibile risalire. Questo voler mantenere attiva, da parte di Freud, una relazione tra lutto e malinconia sembrerebbe suggerire per Agamben che il sentimento malinconico offra il paradosso di una predisposizione luttuosa che anticipa la perdita stessa dell’oggetto; saremmo cioè di fronte, potremmo aggiungere, a una perdita in pieno possesso di ciò che non abbiamo mai avuto. È un sentire che si avvicina molto al sentimento della gelosia che Deleuze descrive in Marcel Proust et les signes5 nel momento in cui rivela la contraddizione costitutiva della sua temporalizzazione; la gelosia infatti non corrisponde tanto alla ferita di un tradimento subìto, che sappiamo essere accaduto, ma nasce dal trovarsi di fronte all’interpretazione di segni provenienti dall’essere amato che sentiamo venire da un mondo da cui siamo stati esclusi, e questo anche quando tali segni amorosi vengono rivolti direttamente a noi. L’amante fa tutto ciò che è in suo potere perché l’amato gli dedichi tutte le sue attenzioni, ma anche quando questi gliele conceda l’insorgere di tali gesti rivela poi una sapienza che deriva da un mondo inesorabilmente altro, da cui l’amante non può che sentirsi escluso. Così, aggiunge Deleuze, per Proust l’amante non può che vivere la contraddizione irrisolvibile che ogni preferenza di cui approfitta porti necessariamente con sé l’immagine di un mondo, la sua impronta, dove altri sono stati a loro volta, in un tempo del tutto indeterminato, già preferiti. Per questo il sentimento della gelosia, assunto in questa accezione, non può che intrecciarsi indissociabilmente con il sentimento amoroso, in quanto non desidera affatto controllare l’altro o impedire un suo possibile tradimento; in fondo, pur non sapendone nulla, lo riconosce come già da sempre avvenuto. Ciò che in realtà gli rimane addosso è unicamente il confronto con il fantasma di questo riconoscimento di una non conoscenza. L’amante accentua così, come mostra magistralmente il romanzo di Marguerite Duras Le ravissement de Lol V. Stein,6 il desiderio di vedere, di consumare con il proprio sguardo quella scena da cui da sempre si trova escluso e rispetto alla quale è destinato a rimanere inevitabilmente tale. È la continua ricerca di una capacità immaginativa intessuta del riscontro veritativo d’immagini reali, non tanto rispetto al loro contenuto, quanto
rispetto ai criteri virtuali della loro esclusione da una realtà effettiva. Grazie alla loro forma fantasmata tali immagini vengono infatti restituite alla determinazione reale della loro effettività virtuale, mantenute cioè attive nel registro reale della loro forma del tutto immaginaria e per questo più forti di ogni riscontro meramente constatativo. Anche Roland Barthes7 ritorna su questa forma di ossessione che caratterizza il sentimento amoroso, cioè sul desiderio più o meno inconfessato di cogliere il soggetto d’amore in una situazione dalla quale colui che ama è escluso: elemento di fascinazione che consiste nel poter osservare quel corpo amato senza che chi guarda sia effettivamente nella scena, anche se è solo attraverso il suo sguardo che ciò che accade diviene la scena che è. Il soggetto che osserva è come se si trovasse, scrive Barthes,davanti a una scena primaria che continua però ad appartenere esclusivamente al suo futuro, al proprio irrisolto avvenire, senza che sia mai stata parte del suo passato. È questo che affascina, che attrae; è avere l’esperienza di un inserimento vivo in un’intimità a cui non si partecipa, è un modo sottile di essere presenti alla propria esclusione. Si tratta di attraversare l’esperienza di vedere il corpo dell’altro preso in una sua usabilità per me, senza che abbia niente da rivolgere al mio sguardo, una sorta di messa in scena di ciò che in realtà non si è mai esibito. Così il geloso, riprendendo ancora il Deleuze lettore di Proust, usa tutte le risorse della propria memoria per ricercare la giusta interpretazione dei segni dell’amore, i quali non corrispondono ad altro che alle menzogne dell’amato. Tuttavia, la memoria, non attivandosi autonomamente su queste sollecitazioni, è in grado di fornire soltanto un apporto volontario e, dipendendo da questa volontarietà, non potrà ogni volta che arrivare troppo tardi rispetto ai segni che ha cercato di trattenere per poterli decifrare. Così la memoria del geloso desidera registrare tutto, non lasciarsi sfuggire il benché minimo dettaglio che potrebbe poi rivelarsi determinante per cogliere come la menzogna gli si sia manifestata direttamente sotto gli occhi; vuole immagazzinare ogni tipo di sfumatura, di particolare, di semplice accenno immediatamente smorzato, in modo che la propria capacità di lettura possa avere a disposizione tutto il materiale necessario per dedicarsi alle sue sottili interpretazioni. Una memoria dunque, quella del geloso, sublime, sempre sul crinale dei propri limiti, impegnata incessantemente nel tentativo di poterli oltrepassare, rimanendo tutta tesa verso l’avvenire di ciò che da qualche parte
sta ormai già accadendo. Ma nonostante tutto questo sforzo, nonostante tutto il suo trasporto veggente, l’amante arriverà comunque sempre troppo tardi, perché in un modo o nell’altro non avrà saputo distinguere l’esatto momento da ritenere della frase pronunciata dal proprio amato. Non avrà saputo cogliere, sebbene abbia cercato di vedere tutto, quel particolare gesto colmo di significato che soltanto il tempo gli permetterà di riconoscere: e soltanto il tempo gli permetterà di comprendere come abbia esattamente incontrato quel gesto nell’atto di un presente che ossessivamente continua ancora a venirgli incontro. Accade così che in ogni amore momenti di reminiscenze perdute, fantasmi e scoperte effettive s’intreccino senza soluzione di continuità, che memoria e immaginazione si intessano l’una con l’altra lasciando affiorare passaggi in cui l’una prende momentaneamente il sopravvento sull’altra, correggendosi così scambievolmente. La sequenza di ogni possibile amore porta con sé la sua inaggirabile peculiarità, ma si tratta di una singolarità già compresa in ciò che da qualche parte l’ha comunque preceduta; ogni amore affiora infatti come la comprensione di ciò che ci ha spinto verso un amore precedente. L’amore per Albertine, come viene scritto nella Recherche, pur differenziandosi, era già inscritto nell’amore per Gilberte. La malinconia del sentimento amoroso porta la psicoanalisi, per Agamben, a delle conclusioni molto vicine a quelle a cui erano giunti i padri della Chiesa nel momento in cui avevano concepito l’acedia come il recedere da un bene che in realtà non era mai stato perduto. Come se questo recedere dell’accidioso non nascesse da un vero e proprio difetto, ma da un’intensificazione del desiderio in grado di rendere inaccessibile il proprio oggetto, garantendosi in questo modo dalla sua inevitabile perdita. È un’aderenza per mancanza d’assenza, allo stesso modo di come il ritirarsi della libido malinconica non ha altro scopo che quello di rendere possibile un’appropriazione in cui nessun possesso è in effetti possibile. Il sentimento malinconico non nascerebbe dunque da una reazione alla perdita dell’oggetto d’amore, quanto dalla trasformazione fantasmatica che fa apparire come perduto un oggetto che di per sé si presenta come inappropriabile. Così, se la libido interviene a sancire una perdita come se fosse realmente avvenuta, anche se in realtà nulla è stato effettivamente perduto, essa sta attivando una simulazione in cui ciò che non poteva essere posseduto si fa ora appropriabile in quanto oggetto perduto. Siamo cioè posti di fronte a una strategia in cui la
soggettivazione può entrare in rapporto con un campo virtuale dell’esistenza che nessun reale possesso può eguagliare e nessuna effettiva perdita insidiare. La perversione del feticista, che secondo Freud nasce dalla percezione nel bambino dell’assenza del pene nella madre, assenza vissuta come una minaccia di castrazione, lo porta a un rifiuto di accettare la realtà così com’è e di conseguenza di prendere coscienza di questa differenza tra sé e la donna. Il feticcio viene introdotto come un elemento sostitutivo di questa mancanza, in modo che continui a esservi, grazie alla sua esistenza, la possibilità di un completo rispecchiamento di sé, un appagamento derivato dal possesso visivo dell’oggetto. Un oggetto certo reiterabile, accumulabile, preso nella miriade di particolarità che lo possono differenziare, ma che per lui resta sempre anche il medesimo. Ciò nonostante, il senso di questo rifiuto rimane per Agamben preso all’interno di un’essenziale ambiguità, perché il gesto che il bambino mette in atto verso l’oggetto, nel conflitto che in lui si instaura tra la percezione della realtà (che lo porterebbe a dover rinunciare al proprio fantasma) e il suo desiderio (che invece lo spinge a negare la percezione di quella stessa realtà e a rimanere così aggrappato al proprio fantasma), non è un vero e proprio movimento di negazione, quanto piuttosto, come Deleuze lo definisce in Présentation de Sacher-Masoch,8 una forma di disconoscimento. Nel bambino infatti agiscono simultaneamente entrambe le esperienze, quella del riconoscimento e quella della negazione; pur smentendo l’evidenza della sua percezione attraverso una perversione feticista, al contempo non potrà che riconoscere, attraverso la coazione a ripetere in cui la propria perversione ritornerà sull’oggetto, il suo continuo eventuarsi. Da qui il sentimento malinconico del feticista, che si relaziona all’oggetto d’amore come inappropriabile e insieme, grazie a questa sua costitutiva inappropriabilità, lo rende imperdibile. Così, se il feticcio è il segno di una presenza per assenza, contrassegnata da uno statuto fantasmatico, l’oggetto dell’inclinazione malinconica risulta allo stesso tempo reale e virtuale, posseduto e perduto, affermato e negato. In questo senso per Agamben non stupisce che Freud abbia riconosciuto nell’affezione malinconica un trionfo dell’oggetto sull’io, perché, sebbene l’oggetto sia stato di per sé soppresso, in realtà la sua permanenza fantasmatica non potrà che rivelarsi più forte di quella stessa negazione. Si tratta tuttavia di un trionfo dell’oggetto d’amore del tutto particolare, perché questa estrema fedeltà nei suoi confronti passa in
realtà attraverso una necessaria abolizione che il malinconico esercita su se stesso, cioè proprio su colui che tale oggetto sarebbe chiamato a preservare in sé. La stessa teoria permette anche di spiegare la genesi dell’amore: per Agamben infatti non è possibile comprendere il cerimoniale amoroso che la lirica trobadorica e i poeti del Dolce stil novo hanno lasciato in eredità se non si tiene conto del fatto che esso si presenta fin dall’origine come un processo fantasmatico. Non è tanto un corpo esterno ma un’immagine interiore, il suo fantasma impresso negli spiriti fantastici, a porsi cioè come origine e oggetto dell’innamoramento. Solo attraverso l’attenta elaborazione e la continua contemplazione di questo fantasmatico simulacro mentale potrà sorgere un’autentica passione amorosa. Per questo, sebbene il feticcio sia un riflesso immediato, esso conduce immancabilmente il feticista a collezionare e a moltiplicare i suoi feticci. A prescindere da quale sia l’oggetto della sua perversione, il soggetto perverso sarà sempre ugualmente soddisfatto e altrettanto insoddisfatto di tutti gli oggetti che presentano comunque le medesime caratteristiche. Proprio perché ogni volta ognuno sarà sempre l’affermazione e al contempo il completamento di un incontro mancato. Il feticcio infatti non può mai incarnare il principio dell’unicum irripetibile, ma, al contrario, deve sempre avere le caratteristiche di essere surrogabile all’infinito, senza che nessuna delle sue successive incarnazioni possa mai esaurire completamente il nulla di cui rimane la cifra. E per quanto il feticista moltiplichi le prove della sua presenza e accumuli una quantità indeterminata di oggetti, il feticcio ogni volta gli sfuggirà dalle mani e, in ognuna delle sue applicazioni, celebrerà sempre e soltanto la propria parvenza fantasmatica. Nella modernità, probabilmente a causa dell’accentuazione dell’aspetto razionale e astratto dei processi conoscitivi, si è cessato di stupirsi della potenza che le immagini interiori esercitano sulla nostra soggettivazione. Di come, senza forse riuscire ad ammetterlo fino in fondo, esse dominino non solo i nostri sogni, ma anche buona parte dei processi della nostra veglia. Per questo facciamo fatica, afferma Agamben,9 a cogliere il posto centrale che la fantasmatica aristotelica, arricchita dagli apporti dello stoicismo e del neoplatonismo, rivestiva nell’epoca medioevale, individuandola come l’esperienza estrema dell’anima. Si tratta di una speculazione, di un riflettersi da superficie a superficie, come luogo della fantasia, capace di immaginare i fantasmi in assenza dell’oggetto. È come se l’uomo medioevale, prosegue
ancora Agamben, nel guardarsi intorno come nel momento in cui si abbandona alla propria immaginazione, fosse comunque sempre davanti a uno specchio. D’altra parte, anche l’atto d’amore è innanzitutto una speculazione, un processo essenzialmente fantasmatico, che coinvolge l’immaginazione e la memoria in un continuo lavorio intorno all’immagine che si mantiene viva in se stessi. Per questo il meccanismo della Verleugnung messo in atto dal feticista non può essere inteso soltanto all’interno dello schema di un ritorno del rimosso, segnalato dall’emergere di un significante improprio. Lo stesso Freud, avvertendo con ogni probabilità l’insufficienza della rimozione per rendere ragione di questo fenomeno, gli attribuisce principalmente il significato di “rinnegamento”. Perché nella Verleugnung del feticista si assiste non tanto alla sostituzione di un significante con un altro, quanto piuttosto a una forma di stallo, attraverso la continuità di una reciproca negazione dell’uno con l’altro. Non si può parlare di una vera e propria rimozione, dunque, in quanto ciò che viene rinnegato non può che essere al contempo anche dichiarato, riconosciuto, senza che per questo sia racchiudibile nei soli canoni della coscienza. Ciò che lo schema del “proprio” e dell’“improprio” impedisce di vedere è che nella metafora in realtà nulla si sostituisce a nulla, perché non esiste un termine proprio, originario, che l’atto metaforico è chiamato a sostituire. Per Agamben è solo il nostro antico pregiudizio edipico, lo schema interpretativo “a posteriori”, che tende a far cogliere una sostituzione dove non vi è nient’altro che un movimento di dislocazione e uno slittamento differenziante all’interno di un unico significare. Solo infatti attraverso un utilizzo linguistico della metafora ormai cristallizzato si è portati all’individuazione di un suo significato proprio e improprio, mentre mantenendosi all’interno di un uso emblematico della metafora risulterà del tutto inutile ricercare la constatazione di un termine originariamente proprio e quindi sostituibile. Per questo il processo della Verleugnung offre allo stesso uso della metafora un modello che sfugge alla riduzione del problema, tanto è vero che la metafora svolge, nel regno del linguaggio, la stessa funzione che il feticcio esercita invece nel regno delle cose. Nella Verleugnung infatti non vi è un “trasporto” da un significato proprio a un significato improprio, ma un processo di disconoscimento mai sostanzializzabile fra assenza e presenza; allo stesso modo nella forma emblematica della metafora non vi è sostituzione né trasporto, ma solo un gioco di slittamenti che rimangono irriducibili al
semplice scambio tra il proprio e l’improprio. Così, se il feticcio può mantenersi in vigore solo a patto di una lacerazione, in quella che Freud ha definito una “frattura dell’Io” (dove due tensioni tra di loro contrastanti costituiscono l’effettività del suo nucleo), la forma emblematica della metafora non potrà che sorreggersi su una vera e propria frattura del “sinolo” semiotico. Ma nel momento in cui la fantasia viene esclusa dall’esperienza comune, collocata completamente nella sua irrealtà, e l’ego cogito ne riempie il vuoto, facendosi esso stesso soggetto di desiderio, il desiderio muta radicalmente di statuto e si rende luogo dell’insoddisfacibile. Se il fantasma, che agiva da mediatore per l’appropriabilità dell’oggetto del desiderio, era ciò che in altri termini ne permetteva l’esperienza, ora invece lo stesso desiderio diviene la cifra di una costitutiva inappropriabilità e il luogo di una altrettanto costitutiva inesperibilità dei suoi criteri. Per questo in Sade l’io desiderante, acceso comunque dal fantasma, non trova davanti a sé nient’altro che corpi, oggetti che possono essere soltanto consumati e distrutti senza che si possa mai raggiungere una vera e propria soddisfazione: in loro il fantasma continuerà comunque a sfuggire e a nascondersi all’infinito. Se tuttavia, accogliendo l’invito di Agamben in Infanzia e storia,10 entriamo effettivamente nell’universo sadiano, possiamo cogliere come la necessità della perversione, pur facendo coincidere desiderio e bisogno, trasformi in godimento la frustrazione essenziale del desiderio e perpetui in tal modo l’espropriazione dell’esperienza, espressa così profeticamente attraverso l’ossessiva reiterazione che i suoi personaggi mettono in atto. Tuttavia, se in questa coincidenza di desiderio e bisogno c’è reale godimento, se nei romanzi di Sade possiamo ancora trovare, anche se in modo del tutto stravolto, il puro progetto edenico della poesia trobadorico-stilnovistica, è proprio grazie all’azione stessa che la perversione instaura. È questa infatti a svolgere, nel teatro erotico di Sade, la stessa funzione che la poesia stilnovistica affidava al fantasma e alla donna angelo. Sembrerebbe essere cioè la sola perversione a fungere ormai da arcangelo salvifico in grado, dal teatro orgiastico di quell’accumulo indistinto di corpi, di sollevare al cielo l’uomo sadiano. Anche il fantasma masochista di cui Deleuze parla in Présentation de Sacher-Masoch11 tende a munirsi d’ali per sollevarsi dal proprio mondo – non tanto per elevarsi alla perfezione di un mondo ideale, quanto per poterlo sognare. A differenza del sadico, infatti, in Sacher-Masoch non troviamo
azioni rivolte a una diretta negazione del mondo; nei suoi testi non affiora mai un desiderio di distruzione; piuttosto il movimento che vi si instaura è quello di un disconoscimento, di una forma di sospensione per disattesa, di un’apertura a un ideale, che risulta però del tutto sospeso nel fantasma. Il gesto del masochista tende cioè a contestare il giusto fondamento del reale al fine di far apparire, in modo completamente inatteso, il puro fondamento ideale di ciò che rimane sospeso. Nei suoi processi il feticismo gioca dunque un ruolo essenziale, in quanto il reale non deve essere colpito da una diretta negazione, ma dalla sospensione di un disconoscimento che lo fa continuamente passare nel fantasma, in modo tale che a proiettarlo in questa forma è l’atto stesso della sospensione colto in tutta la sua pura potenzialità. Il gesto masochista rimane allora integralmente orientato al proprio permanere nell’attesa, che riunisce in sé in modo patetico e indiscernibile l’ideale e il reale, la forma e la temporalità, i termini in cui lo stesso fantasma si lascia sentire. Perché in fondo il masochista gode solo del poter vivere l’attesa allo stato puro, non ha la preoccupazione di riconoscere in sé una presenza fantasmatica che lo condizioni, ma si sente impegnato in un’arte, in un uso continuamente differenziato del fantasma stesso. Ecco perché il masochista anche quando non sogna deve credere di sognare, mentre il sadico, al contrario, anche quando sente di sognare deve pensare che in realtà non lo sta facendo. Tanto è vero che l’uso sadico del fantasma è per Deleuze caratterizzato da una violenta potenza di proiezione, di tipo paranoico, orientata a introdurre nel mondo, che continua a scorrere nella sua presunta indifferente obiettività, un’improvvisa accelerazione destabilizzante. Questo non tanto al fine di interrompere quella presunta monotonia, ma perché si tratta di una monotonia che non è mai abbastanza potente e rimane ancora lontana dalla perfetta indifferenza di cui solo la natura si mostra realmente capace; non è nient’altro che una ripetizione umana, troppo umana per essere adeguata alla radicalità con cui il sadico chiede di sentire la continuità con cui il sangue non smette di scorrere nelle sue vene. È contro l’impotenza a essere tutt’uno con la natura del proprio atto che il sadico combatte la sua battaglia con se stesso. È quanto si può chiaramente evincere dal consiglio di Juliette, l’eroina dell’omonimo romanzo di Sade,12 che suggerisce di rimanere per interi giorni senza occuparsi minimamente di lussuria, di pensare a tutt’altro, poi nell’oscurità, di lasciare libera la propria immaginazione, affinché si distenda senza
inibizioni nelle sregolatezze erotiche più differenziate. Ci si accorgerà che una sola scena avrà preso il sopravvento su tutte le altre, si accentuerà al punto da assumere la forma di una fissità, arrivando a costituirsi addirittura come una sorta di idea delirante connotata da un’assoluta necessità veritativa. A quel punto si dovrà mettere tutto quanto per iscritto e poi, nel più breve tempo possibile, realizzare quella scena così com’è stata immaginata. L’utilizzo del fantasma viene assunto, all’interno di questa modalità, come un intervento aggressivo rivolto verso una presunta normalità che dovrebbe trovare una nuova sistematizzazione nel reale; per questo l’idea deve essere proiettata in tutta la sua violenza realizzativa, senza tergiversare e senza interrogarsi sul motivo che ne sostiene la determinazione: si tratta soltanto di passare all’atto. Ma tra la proiezione immaginativa e la sua effettiva attualizzazione continua a permanere uno scarto inaggirabile: faglia, da una parte, che impedisce al sadico di essere, come vorrebbe, la perfetta corrispondenza di quel solo atto colto in tutta la sua naturalità, dall’altro porta la memoria di ciò che ha immaginato ad aderire perfettamente allo svolgimento della sua azione. Per questo diviene necessario introdurre il dispositivo della scrittura, perché è solo lì, sulla carta, nella forma attiva del pensiero, che il sadico potrà riconoscere come reale la forza proiettiva della propria immaginazione, dove reale e immaginazione non cesseranno mai di anticiparsi l’uno con l’altra, in modo che la vita rimarrà tutt’uno con la propria forza immaginativa. Questo è ciò che de Sade ha lasciato in eredità nei fitti rotoli della sua scrittura. L’uso del fantasma da parte del masochista è invece del tutto differente, visto che la sua ricerca va verso un disconoscimento del reale e una sospensione nell’ideale. Differenza che si può constatare in tutta la sua portata se seguiamo il modo in cui sadico e masochista si rapportano ai feticci, i quali possono corrispondere anche a delle sole immagini. Il sadico ha un rapporto con il feticcio di distruzione proiettiva, misurata sulla ricerca di un’immediatezza realizzativa, in una diretta motivazione di soppressione del sogno; per il masochista invece il feticcio è il riscontro effettivo della forma interiore del fantasma: la sua potenza di sospensione o di fissazione imprime in lui la necessità dell’attesa, in modo tale che l’ideale e il reale si trovino sempre in un continuo assorbimento reciproco. Non a caso il motivo di fondo che muove il masochista non è tanto la ricerca del piacere – e tanto meno la ricerca di un godimento assoluto come accade per il sadico –, quanto
il tema dell’amore; è la permanenza del sentimento amoroso a imprimere la portata del suo problema. È la stessa questione che Agamben ritrova, sempre in Stanze, nella formazione dell’idea medioevale dell’amore, dove un ossessivo vagheggiamento verso un’immagine si mantiene essenziale, dove ogni autentico innamoramento resta sempre un amare per figura, riconoscendone l’inaggirabile carattere fantasmatico. Perché l’amore è, innanzitutto, l’amore di una imago,13 un oggetto non tanto irreale, quanto continuamente esposto al rischio dell’angoscia e del mancamento. In fondo, se le immagini costituiscono l’ultima consistenza dell’umano, rimangono anche il luogo del suo incessante rischio di mancare a se stesso. Questo rischio, tipicamente moderno, nasce dal fatto che l’esperienza viene espropriata della fantasia, in modo tale che quest’ultima, così come il desiderio, si scrive come l’indice di qualcosa di inappropriabile e di inesauribile. Mentre, se torniamo alla cultura medioevale, come Agamben fa in Infanzia e storia,14 troviamo fantasia e desiderio ancora strettamente connessi. Anzi il fantasma, che è la vera origine del desiderio, non è affatto l’indice di ciò che manca, che deve essere raggiunto e che quando sembra di poterlo afferrare ancora sfugge, non è affatto il criterio che sancisce un’inafferrabilità, ma la condizione stessa di una forma della sua appropriabilità. La poesia provenzale e stilnovistica lo mette chiaramente in evidenza, nel momento in cui intuisce che l’amore non ha per oggetto direttamente la cosa sensibile ma il fantasma, nel momento cioè in cui riconosce al sentimento amoroso il suo imprescindibile carattere fantasmatico, in modo tale che la funzione mediale della fantasia porta il fantasma a essere non soltanto l’oggetto, ma anche il soggetto del trasporto erotico. Se l’amore ha come proprio luogo reale la fantasia, il desiderio non avrà mai davanti a sé l’oggetto d’amore nella sua esclusiva corporeità, ma anche il suo corpo in effigie; certo, è l’immagine reale che solo quell’oggetto d’amore può dargli, ma rispetto a cui non potranno che cedere i confini tra soggettivo e oggettivo, corporeo e incorporeo, così come tra il desiderio e il suo oggetto. Se dunque nell’appropriabilità del fantasma viene meno l’opposizione tra il soggetto desiderante e l’oggetto del desiderio, si ha l’esperienza di un amore compiuto che non trova termine al proprio piacere. Se l’amore, come Roland Barthes afferma nel suo corso universitario del 1974/1976,15 trova il proprio inizio sotto forma di un trauma, si tratta di un trauma dalla natura del tutto particolare, perché differisce sostanzialmente
dall’accezione comune in cui questo termine viene assunto; non indica infatti uno stato determinato da un accadimento improvviso rispetto al quale il proprio essere presenti a se stessi non ha retto, per cui si è creata una falla, un vuoto che quella soggettivazione sente in sé come incolmabile o che inconsciamente ha del tutto rimosso. Il sentimento amoroso esprime una forma traumatica sebbene la propria presenza a se stessi sia rimasta sempre attiva, non sia avvenuto alcun black out. Nonostante questa vigilanza, il momento originario del proprio sentimento non mostra alcuna relazione con uno specifico momento iniziale. Anche Deleuze, rimanendo sulle orme di Proust,16 afferma che una differenza originale presiede ai nostri amori. Si ha un’immagine presente, riconosciuta in modo indiscutibile, ma è come se tale immagine ci arrivasse da un punto indeterminato del tempo, si collocasse indecidibilmente tra un passato avvenuto e l’avvenire di un futuro ancora prossimo. Rimane parte essenziale della nostra esperienza e al contempo si mantiene al di là della determinazione dei confini che l’esperienza comunemente delimita. Continua, rispetto alla sua provenienza, a oltrepassarci, pur senza smettere di implicarci, come una specie di archetipo che manchi del proprio centro o che al proprio centro mantenga una sorta di vuoto inevitabile. Immagine che permette così il diversificarsi non solo degli esseri che amiamo e abbiamo amato, ma anche di quella sola singolarità che sentiamo ancora di amare. Immagine che si ripete così sia negli amori che si susseguono, sia in ognuno preso isolatamente nella sua esclusività. Se manteniamo allora la Recherche come riferimento, troveremo che Albertine, pur essendo sempre la stessa persona, viene presentata tuttavia in modi sempre diversi, non solo rispetto agli amori che il protagonista ha precedentemente incontrato, ma anche rispetto a se stessa. Come se il nome di Albertine indicasse ogni volta una figura da scoprire, da intuire attraverso lo sguardo interrogante con cui il protagonista la incontra, cerca d’inquadrarla e di riconoscerla effettivamente, di coglierne i tratti che fino a quel momento forse gli erano sfuggiti. Eppure, nonostante questo continuo differenziarsi, il tema rimane sempre lo stesso: l’unicità del sentimento amoroso, il modo in cui questo sentimento si compone di reminiscenze improvvise e scoperte inaspettate che, intrecciandosi tra loro in quella contingenza che si presenta come assoluta, diventano la sua materia costitutiva, i criteri della sua piena immanenza. Solo all’interno di questa continuità, che non cessa di attraversare soglie intensive, memoria e immaginazione lavorano
simultaneamente l’una con l’altra, assumendo in sé un tono veritativo. Ogni incontro comporta la peculiarità di una differenza già compromessa da un incontro precedente; si tratta di una serie di momenti differenzianti che costituiscono la stratificazione temporale che l’immagine di Albertine continua comunque a incarnare. Ciò spiega il motivo per cui ogni sua reificazione è un’intermittenza del cuore, perché la singolarità di quell’immagine non smette di riprodursi a diversi livelli, stabilendo ogni volta nuove e impreviste intensità rispetto a cui il sentimento amoroso sembra trovare la sua indiscutibile legge. Se il sentimento amoroso, come abbiamo visto con Barthes, inizia in forma traumatica, è perché manca costitutivamente della propria origine. Il suo trauma è di non poter rispondere all’evento effettivo che ha dato origine allo svolgimento della sua storia, ogni ricostruzione après coup non può che ruotare attorno a questo vuoto centrale. L’amore è un sentimento immersivo, rispetto al quale la domanda di come sia potuto accadere di trovarsi in quella contingenza assoluta è letteralmente fuori luogo. È la stessa cosa che capita con il sogno: è soltanto nello stato di veglia che ci si può domandare il motivo che ci ha portati a sognare quel determinato sogno, ma mentre lo si sogna si è al contempo sognati dal sogno che diventa il luogo reale in cui ci siamo da sempre trovati: il sogno non ha un’origine, un cominciamento, è uno stato di pura immanenza in cui ci sentiamo accadere. Infatti, non ha alcuna importanza svegliarsi dal sogno; la questione che lo accompagna, semmai, è come svegliarsi al sogno, così come al proprio sentimento amoroso. Soltanto all’interno di questi riferimenti diviene possibile seguire Barthes quando associa lo stato dell’innamoramento all’ipnosi, in cui la soggettivazione si trova immediatamente impegnata nella scissione di due sistemi. Il primo è quello che rimane incentrato sulla fatticità, sulle dinamiche mondane in cui il suo accadere si svolge, su ciò che va a determinare la costruzione di quella particolare storia e che per certi versi, come tutto ciò che è impegnato nella forma storica, è già orientato a cogliere quale sarà l’esito finale di quel sentimento. Il secondo invece rimane sospeso nel segno della verità in cui si sente preso, impegnato nel testimoniare come il suo evento sia del tutto ineludibile, non si presti ad alcuno sviluppo possibile, sia destinato a rimanere avvolto dall’interrogativo sull’assenza della propria origine, non possa che essere vissuto come una semplice verità di fatto, come l’espressione di un’inaggirabile immanenza.
Il trauma dell’origine, di cui manca la parola per dire il proprio stato, si lega per Barthes a un’immagine. Nel sentimento amoroso vi è sempre infatti implicata una visione, l’apertura inaspettata di un sipario, l’offrirsi improvviso di uno specchio, l’affiorare di un’immagine che si è impressionata chissà quando in quella determinata soggettivazione. Perché l’immagine cattura, avvince, ghermisce, è come portasse ad avere gli occhi incollati alla singolarità di quella visione. Questa immagine produce un transfert improvviso che brucia le tappe, è come nell’ipnosi, appunto, dove, sostiene Freud, avviene un abbandono amoroso totale, senza il bisogno di alcun appagamento sessuale. Immagine-trauma dalla forma pura, automatica e al contempo del tutto imprevedibile, per alcuni versi difficile da rammentare anche per il soggetto stesso. Tuttavia, è proprio grazie all’oscillazione della sua presenza che nel soggetto si determina quella che Barthes definisce una “immobilità agitata”, una forma di deriva in cui si continua a scivolare nella ricerca in se stessi di un alfabeto in sogno.17 Il processo conoscitivo dell’amore può allora essere concepito come una speculazione in senso stretto, come un riflettersi, riprendendo Agamben ancora in Stanze, di fantasmi che passano di specchio in specchio, dove lo specchio e l’acqua rispondono agli occhi e al senso, capaci nel loro insieme di riflettere la forma dell’oggetto, mentre la speculazione in quanto tale rimane la sola fantasia capace di “immaginare” i fantasmi anche in assenza dell’oggetto. Per questo l’uomo medioevale è come fosse sempre davanti a uno specchio, sia quando si guarda intorno sia quando si abbandona alla propria immaginazione. Così, se amare è necessariamente una speculazione, questo è legato al fatto di dover concepire l’amore – al pari di quanto faceva la psicologia medioevale – come un processo essenzialmente fantasmatico, che coinvolge immaginazione e memoria in un assiduo lavoro intorno a un’immagine dipinta o riflessa nell’intimo dell’uomo. La scoperta medioevale resta la certezza dell’irrealtà dell’amore, quindi la sua piena virtualità, e risponde alla capacità di spingere fino alle estreme conseguenze la connessione di desiderio e fantasma come ciò che non smette mai di costituire la propria affezione. Si deve allora innanzitutto tener presente che l’immagine non è mai riconducibile a una mera sostanza.18 Essa rimane sempre presa nella sua pura accidentalità, non si trova in nessun caso nello specchio come in un luogo, ma come parte costitutiva del soggetto stesso, senza per questo essere
qualcosa che direttamente gli appartenga. Il suo essere in un soggetto è insostanziale; l’immagine non esiste per se stessa, ma è sempre presa in qualcos’altro. Così, data la prossimità fra l’esperienza amorosa e l’immagine, non ci si può stupire se Dante e Cavalcanti hanno definito l’amore nello stesso modo: un “accidente in sostanza”. Inoltre non si deve neppure dimenticare che il carattere dell’immagine è quello di non essere determinabile secondo la categoria della quantità; non si tratta mai propriamente di una forma in quanto tale, ma piuttosto di una “specie” di forma. Le sue dimensioni invero non sono mai quantità misurabili, ma soltanto modi di essere e “abiti”, e questo è il significato più interessante di ciò che esprime eticamente il loro essere in un soggetto, perché ciò che è in un soggetto non può che avere la forma di una specie, di un uso o di un gesto. Ed è proprio per questo che il sentimento amoroso rimane l’affezione che si riceve dal suo uso, dal suo rispondere sempre a un uso di sé, in quanto l’uso della cosa amata è ogni volta simultaneamente soggettivo e oggettivo. Dall’uso, dal suo strutturarsi in un’ontologia modale, l’amore, come un’immagine, resta del tutto indiscernibile. In questo modo, se fossimo portati a dover trovare un termine per specificare l’esperienza più propria dell’amore, dovremmo usare la semplice parola “immagine”, perché è solo di fronte a se stessi, come scrive Maurice Blanchot,19 che può capitare d’incontrare un’immagine e rimanervi legati da una strana passione. Dove non sarà più data altra esistenza se non il viverle accanto, in una convivenza che non potrà farsi altro che la propria opera: una vita. Note 1
Giorgio Agamben, Stanze, cit. Giorgio Agamben, Vocazione e voce, in Id., La potenza del pensiero, cit. 3 Marsilio Ficino, Commentarium in Convivium Platonis de Amore; tr. it. Sopra lo amore ovvero convito di Platone, SE, Milano 2003. 4 Sigmund Freud, Trauer und Melancholie, in Id., Gesammelte Werke. Werke aus den Jahren 19131917, cit.; tr. it. Lutto e malinconia, in Id., Opere. 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 1976. 5 Gilles Deleuze, Marcel Proust et les signes, PUF, Paris 1964; tr. it. Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 1967. 6 Marguerite Duras, Le ravissement de Lol V. Stein, cit. 7 Roland Barthes, Le discours amoureux, cit. 8 Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. 9 Giorgio Agamben, Stanze, cit. 10 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit. 2
11
Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. Donatien Alphonse François de Sade, Histoire de Juliette, ou Les prosperites du vice, Pauvert, Paris 1987; tr. it. Juliette, ovvero le prosperità del vizio, Newton Compton, Roma 1993. 13 Giorgio Agamben, Ninfe, cit. 14 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit. 15 Roland Barthes, Le discours amoureux, cit. 16 Gilles Deleuze, Marcel Proust et les signes, cit. 17 Claudio Parmiggiani, Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, Mazzotta, Milano 2002. 18 Giorgio Agamben, L’essere speciale, in Id., Profanazioni, cit. 19 Maurice Blanchot, Le livre à venir, cit. 12
Non-vissuto
Ciò che della nostra vita è rimasto non-vissuto non può certo cadere sotto i tratti della tragedia, ma neppure sotto quelli della commedia: risponde semplicemente a una vita.1 Così il non-vissuto si presenta per Agamben sotto la tensione di due forme, quella del carattere e quella del fantasma. Il carattere svolge essenzialmente la funzione di un guardiano che permane sulla soglia tra la vita e se stessi, in modo da far sì che il non-vissuto resti per sempre tale, lasciando che sul volto di ognuno si formino i segni, le tracce inconfondibili del suo evento: infatti ciò che davvero segna e caratterizza il nostro volto non è tanto quel che abbiamo vissuto, scrive ancora Agamben in Pulcinella,2 quanto piuttosto quello che in noi è rimasto appunto di nonvissuto. Il fantasma invece svolge la funzione di sollecitare il continuo tentativo di vivere proprio ciò che sembra destinato a rimanere non-vissuto, sebbene ogni volta non possa che mancare il suo scopo, perché il non-vissuto può essere compulsivamente evocato unicamente in quanto inaccessibile, ed è ciò, potremmo aggiungere, che serba sul nostro volto i tratti di un’infanzia che si mantiene aperta allo stupore di quanto del mondo rimane non riconosciuto. Dunque, per il carattere ciò che conta è soltanto quello che abbiamo vissuto, è la necessità di lasciare sullo sfondo il non-vissuto come una mera possibilità di quanto avrebbe potuto essere, ma che in realtà non è mai stato; momento che non ha mai preso forma se non nella nostra speranza o fantasia e che con ogni probabilità, se solo riuscissimo a farcene una ragione, non poteva in effetti che rimanere tale. Per il fantasma invece il non-vissuto non è mai riconducibile a una mera possibilità, quanto piuttosto all’effettività del suo essere stato in noi un evento reale, anzi per certi versi l’unico evento reale che abbia contrassegnato effettivamente la nostra soggettivazione. La spinta che il fantasma porta verso il non-vissuto non è tuttavia quella a trasformare tale non-vissuto in un vissuto vero e proprio, perché questo ricadrebbe ancora sotto i canoni del carattere; essa ci porta invece a continuare a vivere il non-vissuto esclusivamente nella sua forma fantasmata.
In altri termini, il fantasma non fa altro che chiederci di cogliere come la nostra vita si consumi realmente non solo in ciò che non abbiamo e non possiamo avere, ma anche in ciò che abbiamo desiderato che fosse, indipendentemente dal fatto se quel che abbiamo immaginato si sia poi effettivamente realizzato. Perché il non-vissuto permane inalterato anche in ciò che ha preso una forma perfettamente corrispondente a quanto abbiamo immaginato potesse essere; il non-vissuto infatti non corrisponde affatto a quel che possiamo comparare tra ciò che abbiamo immaginato e ciò che poi è effettivamente accaduto. Non si tratta di una questione di contenuti, ma dell’esperienza di una sfasatura temporale che nel tempo taglia la nostra stessa soggettivazione. È quello che abbiamo visto in Lacan, quando nel Seminario XI3 parla della faglia dell’inconscio come del non-realizzato. Quest’ultimo non va ricondotto al solo piano di una pura immaginazione che non ha poi trovato seguito, di ciò che in potenza poteva essere ma che non ha mai trovato il tempo della sua attualizzazione, ma dev’essere inteso come ciò che va a connaturare ogni accadimento. In Che cos’è il contemporaneo? 4 Agamben parla infatti di un presente che non sarebbe altro che la parte di non-vissuto che permane potenzialmente in ogni vissuto: è ciò che impedisce, magari per il suo carattere traumatico o per la sua eccessiva vicinanza, l’accesso diretto a ciò che siamo portati a considerare il nostro presente. È un presente che nell’incidenza con i processi della nostra soggettivazione spezza la schiena del tempo nella tensione a dover coincidere con se stesso. Per questo soltanto il non-vissuto rimane la reale vita del contemporaneo, perché l’essere contemporanei significa trovarsi impegnati a tornare in un presente in cui non siamo mai stati, e che si rivela così come l’unico presente che ci è dato, in quanto l’evento, che in quella incidenza spezza la schiena del tempo, non è nient’altro che la rivelazione, sempre in quel solo istante, dell’immanenza di un tempo che si è fatto tutto per noi. Un tempo assorbito nel movimento unico, singolare, di una vita, che tuttavia, grazie agli esclusivi contenuti che differenziano tale vita da tutte le altre, è anche, sempre in quel solo istante, un tempo comune, impersonale, un tempo che è nello stesso modo per tutti. Vi è tuttavia sempre una doppia incidenza del fantasma che non lo rende mai, in quanto tale, soltanto ciò che si contrappone al carattere. Questo lo possiamo ritrovare con chiarezza se ad esempio riprendiamo il riferimento che Deleuze, in Présentation de Sacher-Masoch,5 fa all’uso del fantasma in
ambito sadico e masochista. Si può infatti notare che ciò che caratterizza l’uso sadico del fantasma è in realtà una violenta potenza di proiezione, di tipo paranoico, mediante la quale il fantasma diventa lo strumento di un cambiamento essenziale e improvviso, introdotto nel mondo obiettivo. Torniamo allora al suggerimento da poco incontrato di Juliette, che nell’omonimo racconto di Sade6 consiglia di dimenticare la lussuria per interi giorni, di distrarsi, di divertirsi con altro, per poi sdraiarsi nell’oscurità, lasciare che l’immaginazione divaghi liberamente su ogni tipo di sregolatezza che venga alla mente, e, quando una in particolare prenderà la sua chiara fisionomia, quando avrà il sopravvento su tutte le altre trasformandosi in un’idea delirante, metterla per iscritto e realizzarla in ogni suo dettaglio il prima possibile. In questo caso il fantasma acquisirà il suo massimo potere di aggressione, d’intervento e di sistematizzazione nel reale. L’idea troverà tutta la sua forza proiettiva in un delirio che accoglierà il proprio acquietamento unicamente nei termini della sua realizzazione; solo così il fantasma potrà dissolversi, realizzarsi facendosi tutt’uno con la realtà effettiva. Il delirio immaginativo è ciò che deve giungere alla sua effettiva realizzazione per poter dimostrare che ciò che è stato immaginato è del tutto fondato e reale, tutt’altro che una mera fantasia fine a se stessa. Per questo è necessario che l’atto immaginativo passi attraverso la trasformazione di un’idea delirante, dove reale e immaginario trovano la loro indecidibilità; il passaggio attraverso la scrittura risponde poi al fine di rivedere il tutto attraverso un atto di chiara lucidità, come quando si trascrive un sogno per non dimenticarlo, per far sì che non svanisca nella restituzione di una consapevolezza che era soltanto un sogno. L’atto della scrittura ha infatti il compito di legare il sogno, così come il delirio, alla permanenza di una sua effettività. Questa capacità della scrittura di fissare l’idea nella particolarità di ogni suo minimo dettaglio comporta però che la realizzazione che sopraggiungerà non potrà che rivelarsi ormai del tutto secondaria. Perché per metterla in pratica il soggetto non potrà che passare dal fantasma al carattere, dovrà cioè far sì che il non-vissuto reale del delirio si trasformi nei limiti di un semplice vissuto. Essendosi tuttavia il non-vissuto già perfettamente realizzato nella forma fantasmata del delirio, così come la scrittura può con chiarezza certificare, porterà necessariamente il sadico a un’azione dissolutiva della stessa scena reale. Da qui il carattere di fredda indifferenza verso le conseguenze delle proprie azioni che connota il sentire del sadico; ciò che lo
muove è infatti la necessità di restituire la scena intatta alla perfezione del suo delirio immaginativo. Solo così la scena gli apparirà risolutiva, quando sarà ripresa esclusivamente dal lato della sua realizzazione assoluta e non impigliata in un semplice atto secondo, in una struttura temporale che non sarà mai in grado di rispondere a una perfetta immediatezza dell’atto, così come invece accade nel delirio. Il sadico tuttavia non potrà mai accontentarsi della mera aderenza al proprio delirio immaginativo, perché comunque sarà sempre restituito a se stesso, non riuscirà cioè mai a dissolversi in quel puro godimento che è solo di Dio. La necessità di introdursi in un processo temporale si farà inevitabile e questo lo porterà a rinnovare il tentativo di attuare un tutt’uno tra il proprio delirio e l’effettività del reale, dando origine a un movimento ossessivo che viene preso all’interno di una coazione a ripetere. Il dover cercare di realizzare una scena che si riveli risolutiva tra delirio e reale lo porterà a rimanere impigliato in una ripetizione indotta che ogni volta, ossessivamente, vorrebbe distendersi perfettamente, fare cioè uno con l’evidenza del proprio delirio. La pratica masochista, al contrario, opera una neutralizzazione del reale per sospendere l’immaginario in quella che Deleuze indica come l’interiorità pura del fantasma. Questo comporta un differente rapporto con il feticcio: per il sadico deve essere distrutto, dal momento che egli ne utilizza soltanto la resistenza parziale per arrivare al tentativo di una pura coincidenza attuale tra proiezione e realizzazione e per cercare di incarnare il proprio desiderio di essere uno: uno come uno è Dio. La distruzione del feticcio dovrebbe allora avvenire istantaneamente, allo stesso modo di come l’immagine fissata dovrebbe dissolversi in se stessa attraverso la sola forza proiettiva dello sguardo. Ogni forma immaginativa, sognante, dovrebbe essere soppressa dall’irrompere dell’idea di un mondo reale sempre ridestato, mai sopito. Per questo, come abbiamo visto, il sadico deve dimostrare che non sta sognando anche quando sogna, mentre il masochista, al contrario, deve sentire che forse sta sognando anche quando è consapevole di non sognare affatto. È così che il feticcio trova in lui tutta la forza interiore del fantasma e l’attesa si dispiega in tutta la sua lentezza. Ogni cosa si distende in un tempo di pura sospensione, ciò che viene fissato si fa al contempo indimenticabile e inafferrabile, puro immaginario di se stesso. In modo tale che immaginario e reale non possono che compenetrarsi in un movimento continuo d’intensità dove uno viene incessantemente assorbito dall’altro. Per cui, se il sadico
passa attraverso l’immaginario per farlo esplodere come una realtà a tutti gli effetti, il masochista invece salva il reale nel suo fondersi indecidibilmente con l’immaginario. Certo, sia il sadico che il masochista rimangono presi, a causa dell’impossibilità di realizzare il proprio desiderio, in una coazione a ripetere, a dover rispondere della propria ossessività. Ma se il sadico passa attraverso ogni singola ripetizione per cercarne la risoluzione, per farsi tutt’uno con un atto puro, il masochista al contrario riconosce la temporalizzazione di una ripetizione ossessiva rispetto alla quale cerca una misura, si predispone a fare un uso di sé, a fare un uso del proprio fantasma. La questione allora non è soltanto quella di fare della propria vita un’opera d’arte, ma come sia possibile legare questa creazione nei confronti di se stessi con lo stesso atto creativo in quanto tale. La domanda intorno a che cosa sia un atto di creazione si rivela inseparabile dalla stessa problematizzazione del soggetto, in quanto quest’ultimo rimane assumibile, come Agamben riprende mantenendosi in dialogo con Foucault, soltanto attraverso un’originaria posizione costituente. Poiché non si tratta semplicemente di riconoscere l’attività creatrice che un individuo intrattiene con se stesso, ma di legare questo rapporto costituente con se stessi a un’attività in grado di dare forma a un atto creativo fuori di sé. La concezione del soggetto come fondamento o condizione di possibilità dell’esperienza, collocata a questa altezza, non solo viene meno, ma fa sì che ogni esperienza rimanga un processo provvisorio di razionalizzazione, in grado di mantenere la stessa soggettivazione aperta ai propri processi di attualizzazione. In altri termini, non si dà mai l’esperienza di un soggetto in quanto tale, ma si hanno soltanto processi di soggettivazione, dove l’atto non può mai essere separato integralmente dal suo permanere in potenza, per cui, insieme con i propri vissuti,7 ne va ogni volta del vivere stesso. Vi è cioè sempre una vita che permane nell’insorgenza del proprio prendere forma, insorgenza che taglia ogni possibilità di isolare qualcosa come una nuda vita. Nel proprio vissuto ciò che rimane essenziale non è allora il solo ricordo, ma anche l’oblio, come ciò che si manifesta contemporaneo sia alla struttura della percezione che a quella del presente. Mentre percepiamo qualcosa, insieme lo ricordiamo e lo dimentichiamo.8 Ogni presente continua in questo modo a mantenere in sé una parte di non-vissuto come caratterizzazione impersonale della singolarità di ogni vita. Questo significa che non è solo e non tanto il vissuto, ma anche e innanzitutto il non-vissuto a dare forma e
consistenza alla trama di quella soggettivazione, ad assicurarle continuità e consistenza attraverso la forma dei fantasmi, dei desideri e delle pulsioni ossessive che incessantemente urgono sulla soglia di quella coscienza individuale. Parafrasando Nietzsche, per Agamben si potrebbe dire che chi non ha vissuto qualcosa continua a fare sempre la stessa esperienza. L’analogia tra regressione archeologica e psicoanalisi risulta adesso ancora più evidente. In entrambi i processi si accede infatti a un passato che non è mai stato vissuto e che quindi non può neppure essere effettivamente riconosciuto come tale; si tratta semmai di un emergere della stratificazione inapparente che porta a struttura la forma del proprio presente. Certo, nello schema freudiano questo non-vissuto si attesta attraverso i sintomi nevrotici, di cui l’analisi si dovrebbe servire per risalire all’evento originario, mentre nel processo archeologico, e forse oggi anche nello stesso processo psicoanalitico, si è portati, attraverso un paziente lavoro di sostituzione della ricerca dell’origine, all’attenzione verso il punto d’insorgenza che viene a strutturare la stessa soggettivazione. È solo in questo punto che il passato come non-vissuto si rivela contemporaneo al presente di tutto ciò che è stato e apre alla soglia della propria intensità espressiva. La contemporaneità a sé implica infatti sempre l’esperienza di un non-vissuto e il ricordo di un oblio, apre ogni volta a un unico movimento che risale al di qua del ricordo e scivola via, permettendo così l’accesso alla sola struttura temporale dei propri processi di soggettivazione. All’inizio del testo La freccia ferma9 Elvio Fachinelli riporta il caso di un ossessivo, il quale deve incontrare il proprio avvocato per fargli visionare alcuni documenti. Realizza tuttavia che, essendo a casa da solo, dovrà spostare con le proprie mani il settimanale “Il Mondo”, che la moglie ha appoggiato sopra i documenti che gli servono. Osservando di sbieco la copertina del settimanale si può scorgere che si tratta di un supplemento del “Corriere della Sera”, il supplemento di un quotidiano, di qualcosa che non può essere né letto né toccato perché esce, come tutti i quotidiani, anche di domenica e lavorare di domenica, come risaputo, è un peccato mortale. Di conseguenza toccare il settimanale risulterà allo stesso modo un peccato mortale, peccato che tuttavia lui dovrà commettere se vuole prendere i documenti e non rinunciare all’appuntamento con l’avvocato. Decide allora di recuperare i documenti e di andare dall’avvocato, rinfrancato comunque dall’idea che successivamente avrebbe potuto compiere l’“annullamento”.
Avrebbe ripetuto cioè in senso inverso tutte le azioni compiute a partire dal momento in cui aveva estratto i documenti da sotto il settimanale. Una volta uscito dall’avvocato, sarebbe sceso dalle scale guardando all’insù, con la macchina avrebbe fatto in retromarcia il percorso fino a casa, avrebbe poi risalito le scale di casa guardando all’ingiù, e una volta arrivato di nuovo davanti allo scaffale avrebbe rimesso i documenti esattamente nella stessa posizione in cui erano, compiendo così il gesto finale esattamente in forma inversa rispetto al gesto con cui aveva dato inizio all’azione toccando il settimanale. A quel punto, l’azione peccaminosa sarebbe stata annullata. Note 1
Giorgio Agamben, Pulcinella, cit. Ibidem. 3 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. 4 Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, cit. 5 Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. 6 Donatien Alphonse François de Sade, Histoire de Juliette, cit. 7 Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, cit. 8 Giorgio Agamben, Signatura rerum, cit. 9 Elvio Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi, Milano 1992. 2
Un segreto
Tenendo conto, come abbiamo visto, che la nostra soggettivazione sembra annodarsi tra il carattere e il fantasma, allora la figura di Pulcinella per Agamben sfuggirebbe a entrambi; al carattere perché si presenta sempre nella propria maschera, rinunciando così a mostrare un volto contrassegnato dal proprio non-vissuto, al fantasma perché in fondo Pulcinella si affida soltanto alla propria infantile smemoratezza. Questo non significa che Pulcinella sia senza carattere, piuttosto è il congedo stesso da ogni carattere; egli si trova nella prossimità del suo abbandono, dove i segni scivolano sulla forma di una maschera, su ciò che resta di un volto. È colui che riesce a vivere il non-vissuto senza doverlo assumere come un destino o imitarlo comicamente. La vita di Pulcinella, scrive Agamben, è una vita qualunque, che come tutte le vite nasce, gioca, s’innamora, si sposa, ha un figlio, viaggia, esercita diversi mestieri, viene arrestata, processata, condannata a morte, fucilata, impiccata, si ammala, muore, viene sepolta, ma infine, e questo è il suo segreto, contempla la sua tomba. Così quando Giandomenico Tiepolo, il cui lavoro accompagna il libro di Agamben, decide di chiudersi nella propria villa di Zianigo e di realizzarvi le sue centoquattro tavole su Pulcinella, si trova in un momento non di disincanto e delusione nei confronti della vita che ormai volge al termine, quanto piuttosto di attenta meditazione sulla vita che prende forma sul tratto liminare della sua fine. Si tratta di un’interrogazione su quale relazione persista tra la vita e il congedo che la propria singolarità esprime mentre ne è ancora parte attiva; un’interrogazione colta attraverso un incontro momentaneo di tipo visivo, un baluginio del tutto contingente, carico di tutta la sua casualità, come capita a chi è colto di sorpresa da ciò che comunque sapeva di attendere. La sua interrogazione non risponde all’urgenza di un atto meditativo in senso stretto, dal sapore inevitabilmente contenutistico, ma alla necessità di dare forma a una via di fuga come parte essenziale della commedia della vita. Se quando finisce una vita finisce sempre anche un mondo, bisogna allora far sì che questo non accada, che quella vita non
finisca, che non sopraggiunga mai un finimondo. Per fare ciò si deve riconoscere al tempo della fine un tempo corrispettivo della propria ultimità, quello che nella teologia cristiana prende il nome di “ricapitolazione”. Un momento che giunge come la ripresa finale di un’intera vita, che potremmo indicare soprattutto come la ripetizione di ciò che è sempre accaduto nell’atto della “Compieta”, nella Liturgia delle ore, in quello che corrisponde al momento conclusivo nell’ordine dei giorni. Qui la ricapitolazione non fa altro che ripercorrere ciò che ormai è già accaduto, ed è del tutto insignificante che il soggetto che compie l’atto possa pensare di introdurvi elementi di valutazione o nuovi propositi per il futuro; ciò che in esso interessa veramente è la dinamica temporale in cui permette di vivere il tempo di una fine, perché in quel compimento sopravanza un tempo che rimane aperto in tutta la sua intensità immanente: è il tempo di una vita. Nella ricapitolazione è come se si prendesse atto di una ripetizione originaria attraverso l’inaggirabile singolarità che quella stessa ultimità evidenzia. Si tratta di un tempo che trascorre e insieme persiste in questa esperienza ultima continuando ad attualizzarla, un tempo di sopravvivenza impersonale che simultaneamente rimane anche il tono di fondo di quella stessa esclusiva singolarità. Esperienza che si avvicina molto, ricorda Agamben, a ciò che si racconta accada nell’attimo dell’agonia, in cui tutta la vita si riepilogherebbe davanti ai propri occhi. Questo accostamento proposto da Agamben è estremamente interessante perché se nella ricapitolazione, così come nella meditazione di Giandomenico, possiamo riconoscere la libertà di una scelta, di un atto volontario, nell’esperienza del riepilogo visivo della propria vita non vi è invece alcuna volontarietà, la vita si colloca sull’orlo della propria fine e lì non finisce, ma si ripete. Dunque quell’atto volontario rivela l’involontarietà che permane fra tempo e memoria come simultaneità, perché tra ricapitolazione e riepilogo visivo non siamo più in grado di dire a chi appartengano realmente quegli occhi e quelle immagini che in essi ancora scorrono, se siano ancora immagini all’interno di una soggettivazione o se al contrario sia la stessa soggettivazione a trovarsi all’interno di quello scorrere visivo. Non siamo neanche in grado di dire a quale tipo di esperienza quest’intreccio corrisponda e in quale struttura temporale effettivamente accada, perché nessuno è in grado di renderne conto; si tratta soltanto del
trovarsi deposti nell’immanenza della vita. In fondo è sempre nella vita che si muore: anche questo è un segreto di Pulcinella. Come Kant ha mostrato, si deve essere sempre propensi a salvaguardare a ogni costo la libertà del volere, a fornire un criterio fondamentale all’atto della volontà, in modo da poter garantire da parte del soggetto l’assunzione di responsabilità rispetto alle proprie azioni. Il soggetto deve essere cioè in grado di rispondere di sé di fronte alla legge, sia in ambito morale che giuridico, in modo da conferire all’atto della soggettivazione il principio di un assoggettamento al destino impresso sul solco di una libera scelta; occorre ricondurre a colui che ha scelto la responsabilità dei suoi atti, i criteri che lo hanno portato a quella determinata decisione, la quale poteva sempre anche essere un’altra, perché su quel medesimo solco si sarà sempre sicuramente trovata anche una possibilità di scelta differente. Tale legame tra responsabilità e volontà viene ulteriormente accentuato da Schopenhauer1 nel momento in cui afferma che ciò che conta non è soltanto l’aver compiuto o meno quella particolare azione, come ad esempio l’aver mentito, ma è anche la struttura ontologica che deriva dall’aver accettato volontariamente di compiere quell’atto specifico. Per chi l’ha compiuto la questione di fondo rimarrà che, attraverso la volontarietà di quell’atto, in nome della libera assunzione di quella scelta, egli non avrà semplicemente mentito, ma sarà divenuto un mentitore. La responsabilità non può ricadere soltanto su ciò che si è fatto, ma soprattutto su ciò che si diviene in base a ciò che si è fatto, perché la scelta non è mai univoca, si sarebbe sempre potuto agire anche diversamente da come si è poi deciso di procedere. L’uomo può trovare la propria libertà unicamente nel modo in cui partecipa alla determinazione del proprio essere, attraverso l’assunzione di criteri appropriati nei confronti dell’intellegibile, e non nel carattere empirico del puro accadimento. Non conta tanto il modo di operare, quanto i motivi esterni e il carattere interno che hanno mosso quel soggetto a divenire ciò che è, i criteri che il suo operare ha assunto e come sono stati motivati dalla libertà che gli ha fornito determinazione. Di tutto questo la maschera di Pulcinella è la totale messa in crisi, perché come abbiamo visto la sua apparizione è un mantenere aperta, nella struttura temporale di una vita, ogni volta una via di fuga. Siamo in prossimità del gesto che accompagna la figura di Kafka, della sua via di fuga intensiva nel disconoscimento della legge del padre. Come riconoscono Deleuze e
Guattari, il divenire di Kafka permane, nell’intensità di un essere colpevole, in un divenire di pura innocenza, perché la questione reale non rimane mai la colpa, ma quale uso fare del paesaggio della propria innocenza. Dunque se, come abbiamo visto nel primo capitolo, la parabasi nella tragedia greca non era soltanto un’interruzione o una deviazione, ma un taglio che infrangeva lo svolgimento prevedibile dell’azione, in Pulcinella abbiamo invece soltanto la parabasi come taglio in atto. Perché Pulcinella non recita in un dramma, ma è la sua stessa interruzione, è il dramma di ogni messa in scena drammatica; è la fuoriuscita da ogni forma di rappresentazione, sebbene con ogni probabilità essa si snodi sempre per una via traversa. La sua presenza in scena si articola simultaneamente anche come una fuoriuscita dalla scena stessa, un’uscita dalla storia, da ogni vicenda biografica in cui la narrazione lo vorrebbe comunque implicare. D’altronde, se qualcosa conta nella vita degli uomini, sicuramente è il fatto di trovare nonostante tutto una via d’uscita, una fuga verso l’origine, verso ciò che sta sempre nel mezzo, lì dove la stessa parabasi, la sospensione di ogni discorso sulla propria identità, risulta essere la vera soglia d’intensità. La vita che prende forma, la sua insorgenza singolare, non può infatti né riconoscersi in se stessa né essere riconosciuta da altri; il contatto che avviene tra la vita singolare e la forma che prende in tutta la sua particolarità si risolve in un solo momento di felicità in cui ogni principio identitario, ogni attribuzione d’opera cede il proprio passo. Ciascuna forma-di-vita mantiene infatti in sé l’insorgenza del suo prendere forma creando una zona d’irresponsabilità, un passaggio d’innocenza, il momento di un vissuto in cui identità e imputazioni sono sospese e scivolano via da se stesse. Questo concetto d’insorgenza viene evidenziato da Foucault,2 come lo stesso Agamben riprende in Signatura rerum, quando sottolinea il modo in cui Nietzsche si allontana dal termine “origine” inteso come Ursprung e si rivolge invece, per indicare il movimento proprio della genealogia, a Herkunft, inteso il più delle volte come “provenienza”, e a Entstehung, inteso esattamente come “punto di insorgenza”. Il rifiuto da parte di Nietzsche di una ricerca dell’origine come Ursprung deriva dal fatto che questa porterebbe all’essenza esatta della cosa, alla sua possibilità sostanziale più pura, a un’identità accuratamente ripiegata su se stessa, a una forma immobile e anteriore rispetto a tutto ciò che si presenterà invece come esteriore, accidentale e successivo. Ricercare una tale forma di origine significa che
tutte le peripezie che ne saranno conseguite, così come tutte le astuzie e i travestimenti che ne saranno derivati, non potranno che essere considerati meramente accidentali. Significa predisporsi a togliere tutte le maschere, al fine di rendere del tutto esplicita quella sola identità prima. Al contrario, l’operazione della genealogia consiste nell’evocare e nell’eliminare proprio il concetto di origine e nel riconoscere come la soggettivazione trovi la sua insorgenza espressamente in quel non-luogo che la stessa origine diviene. In altri termini, è il concetto di preistoria elaborato da Franz Overbeck,3 che indica in forma assoluta un’intensità più rilevante e decisiva di qualsiasi ricostruzione dei processi storici. Ciò sta a significare, secondo Agamben, che ogni fenomeno si scinde necessariamente in preistoria e storia, in forme che rimangono tra loro connesse, ma che non si presentano all’interno della medesima struttura e che richiedono metodologie e precauzioni del tutto differenti. Il concetto di preistoria infatti non indica ciò che cronologicamente risulta essere il più antico, ciò a cui non apparterrebbe ancora il riscontro di una completa capacità riconoscitiva, perché il carattere fondamentale della sua non ricostruttività risiede proprio nei termini stessi della sua insorgenza. Agamben avvicina piuttosto questo tipo di esperienza a quella del déjà vu, almeno per come ne parla Henri Bergson4 nel momento in cui afferma che il ricordo non segue semplicemente la percezione, ma gli è contemporaneo. Per questo, appena l’attenzione della coscienza si allenta, può ingenerarsi quel falso riconoscimento di un ricordo del presente che per quanto concerne la forma continua ad appartenere chiaramente al passato, ma rispetto alla materia rimane preso direttamente nell’esperienza del presente: il virtuale risulterà così essere simultaneamente in atto nella stessa percezione del reale. Di conseguenza, la condizione di possibilità che l’archeologia cerca di raggiungere non solo è contemporanea al reale e al presente, ma è e resta a essi del tutto immanente. In modo tale che il gesto singolare dell’archeologo retrocede in realtà per Agamben verso il presente, potremmo dire che lo intensifica cogliendone i punti d’insorgenza. Ogni fenomeno storico sembra scindersi in un prima e in un dopo, in una preistoria e in una storia, che però in effetti, nel campo trascendentale della loro faglia, coincidono per un attimo nel loro punto d’insorgenza e si rivelano del tutto simultanei. È ancora una volta il passaggio che abbiamo visto in precedenza, dove la regressione “dionisiaca” dell’angelo della storia di Melandri risulta essere l’immagine inversa e complementare dell’angelo benjaminiano, e l’intensificazione del
presente appare nel punto sfuggente di un’insorgenza in cui i loro sguardi s’incrociano. È unicamente così, in questo non fare uno senza tuttavia essere due, che il futuro è raggiunto nel passato e il passato è raggiunto nel futuro per il solo istante della loro simultaneità. Tutto il tempo di una vita sembra allora vacillare nel perfetto momento sospensivo dell’esitazione. D’altronde quest’ultima, in quanto prolungamento in sé del proprio atto sospensivo, è da considerarsi come un potenziamento e un’intensificazione dell’azione, anche se in pura staticità. È un lasciare emergere l’azione in tutta la sua portata fantasmatica. Una sospensione drammatica rimane interna alla stessa messa in scena di quello che possiamo considerare un atto drammatico; è il soffio di un’esitazione in una sospensione che si enfatizza nell’insorgere stesso dell’evento. Perché il tempo di un’esitazione, il suo distendersi, non è facilmente racchiudibile nella sola forma di una rappresentazione, in quanto non è mai una vera e propria interruzione dell’azione: ne è piuttosto un’intensificazione attraverso una sottile forma d’arresto, anche se tutto sembra procedere regolarmente. Potremmo indicare il tempo di un’esitazione come un momento di forte inattività in ciò che tuttavia non smette di accadere. Si tratta come di un’ellissi che ritorna su se stessa mentre continua a far parte dell’azione come tale, è il dramma di un grado zero dell’azione che ogni tipo di svolgimento porta comunque con sé. Movimento di ritorno che mette in questione la possibilità che l’azione si stabilizzi sulla propria definizione, si attesti definitivamente sul fine raggiunto dalla sua irrevocabile compiutezza. L’esitazione non si risolve mai infatti nella semplice incertezza di agire o non agire, ma si instaura nel punto esatto in cui le stesse implicazioni dell’agire si strutturano, amplificando per intensità i presupposti che le portano a determinazione. Di modo che l’azione non viene più colta nei soli termini della sua possibile esecuzione, ma innanzitutto nel punto della sua insorgenza, che in quanto tale non passa mai completamente alla risoluzione dell’atto. È ciò che avviene con le sticomitie usate nella tragedia greca, nel loro essere un puro contrappunto rispetto a ogni diretto atto discorsivo, un processo che si rivela nel suo non essere di fatto nient’altro che una sospensione intensiva all’interno dello stesso intervallo drammatico.5 Così, l’eroe tragico risponde di un destino che non ha mai scelto, che non ha mai effettivamente voluto, ma dove precipita a causa di un errore che non potrà non commettere, perché da sempre già inscritto nella determinazione di
quella singola azione di cui non può conoscere con esattezza né il tempo né il modo, se non quando ormai sarà troppo tardi. La commedia invece, così almeno come Agamben la riprende ancora in Pulcinella, mette in evidenza un errare che non ha la forma di una vera e propria azione, quanto piuttosto quella di un lazzo, di una breve scena in cui prevale il gioco mimico destinato comunque a non avere seguito. Quest’ultimo si presenta senza alcuna consequenzialità, destinato quasi immediatamente a esaurirsi in se stesso, affiorando come un’interruzione improvvisa che si mantiene in atto come un potenziale elemento estemporaneo, volto a mettere soltanto in evidenza l’inutile monotonia del preordinato. Così il carattere, l’espressione di fondo che caratterizza la commedia, se è in grado di mostrare il lato comico di quello che si vorrebbe considerare un destino, al contempo non può che riconoscere, nella contingenza della sua apertura assoluta, anche l’ombra tragica che esso, in ogni sua forma, continua a portare con sé. Ecco perché Pulcinella, la sua maschera impersonale, non può che collocarsi al di là del destino e del carattere, oltre la tragedia così come oltre la commedia. Se infatti il carattere è l’attitudine chiamata a ricondurre a sé i criteri della scelta, sia nel senso di ciò che si decide di portare avanti sia di ciò che invece si vuole rifuggire, Pulcinella all’opposto non entra mai nel campo puro della decisione; se qualcosa connota la sua maschera, è proprio l’impossibilità di ricondurla a un determinato essere o fare, nemmeno se accadesse per sbaglio. Giandomenico Tiepolo non può infatti che sottolineare il contrasto che affiora nel proprio gesto creativo, nell’aver dovuto disegnare delle semplici immagini, mentre Pulcinella in realtà in quei tratteggi non trova affatto il proprio agio, perché lui ha vissuto tutto quel che ha vissuto e non ha vissuto tutto quel che non ha vissuto senza alcuna necessità di doversene fare un’immagine, né tragica né comica. In Pulcinella, nella sua maschera, non ritroviamo né il problema del ricordo che assilla la singolarità di una vita, né la fissità che l’immagine gioca di riverbero con le strutture del tempo, con la simultaneità in cui i segni dell’età fanno capolino. Solo per questo quei disegni possono essere guardati come un vero e proprio gesto autobiografico, perché, al pari di tutto ciò che va a connaturare i criteri di un’autobiografia, in realtà non fanno altro che mettere in evidenza l’inutile gioco di appropriazione che la memoria cerca di esercitare su se stessa. Ciò che in effetti sopravvive non è che un puro ricordo, il lembo di un passato
immemoriale preso in tutta la sua virtualità; per questo, ciò che su quel foglio prende forma è soltanto l’indizio di un disegno che rimane ancora a venire. La vita di Pulcinella, che le centoquattro tavole narrano, risulta allora, come Agamben sottolinea, anche il riflesso della stessa vita di Giandomenico. Una ricapitolazione che quei tratti disegnati sulla carta cercano continuamente di dire attraverso l’opaca trasparenza della maschera. La vita dovrebbe essere vissuta solo così come sembra averla vissuta Pulcinella, senza interrogarsi su quale senso abbia avuto, a quale esito sia giunta, su quali fallimenti sia scivolata. Eppure tutto questo, nonostante la sua limpida evidenza, non sembra essere completamente possibile per la vita umana. Mentre infatti Pulcinella vive, Giandomenico disegna, si limita a tratteggiare, sulle orme del proprio desiderio, che cosa voglia dire essere solo pura vita, così come ora la si può vedere lì, raffigurata su quei fogli: unicamente la persistenza intensiva di una singolarità impersonale di una vita del tutto personale. La vita, la propria vita, non riesce mai a essere solo pura vita, perché il suo distendersi non può che imprimersi nel riflesso della propria constatazione singolare. Nel momento stesso in cui Giandomenico sente che la propria vita avrebbe dovuto essere pura vita, il suo sentire non può che distinguersi irreparabilmente da quella stessa perfetta coincidenza. La singolarità di una vita, la sua inaggirabile immanenza non smette mai di far sentire la propria esigenza. Il carattere continua a mantenere un’incidenza sull’impersonalità di quella sensazione geniale: che si sarebbe potuti essere – e che forse si è stati – solo vita; che si sarebbe potuto – e forse lo si è fatto – viverla così, in tutta la sua immediatezza, avvolta nella sua completa immemorialità. Possiamo sentirlo, basta chiudere gli occhi per un momento sulla nostra vita e lasciarsi avvolgere dalle sole immagini che provengono da una memoria di ciechi. È solo così, a occhi chiusi, che i disegni di Giandomenico restituiscono i tratti di una vita che prende forma, non solo al fine di disegnare la storia di una commedia dell’arte, ma per rivelarne anche il segreto, il segreto di Pulcinella, secondo il quale per ogni istante della propria vita c’è sempre una via d’uscita, c’è sempre una stanza accanto in cui lasciarsi scivolare nel flusso reversibile del tempo. Accade che l’autore, preso nel proprio gesto, segni “il punto in cui una vita si è giocata nell’opera. Giocata, non espressa; giocata, non esaudita. Per questo l’autore non può che restare, nell’opera, inappagato e non detto. Esso
è l’illeggibile che rende possibile la lettura, il vuoto leggendario da cui procedono la scrittura e il discorso. Il gesto dell’autore si attesta nell’opera cui, pure, dà vita, come una presenza incongrua ed estranea, esattamente come, secondo i teorici della commedia dell’arte, il lazzo di Arlecchino incessantemente interpone la vicenda che si svolge sulla scena, ostinatamente ne disfa la trama. E, tuttavia, proprio come, secondo quegli stessi teorici, il lazzo deve il suo nome al fatto che, come un laccio, esso torna ogni volta a riannodare il filo che ha sciolto e allentato, così il gesto dell’autore garantisce la vita dell’opera solo attraverso la presenza irriducibile di un bordo inespressivo. Come il mimo nel suo mutismo, come Arlecchino nel suo lazzo, egli torna instancabilmente a richiudersi nell’aperto che egli stesso ha creato. E come in certi vecchi libri, che riproducono, a fianco del frontespizio, il ritratto o la fotografia dell’autore, noi cerchiamo invano di decifrare nei suoi enigmatici tratti le ragioni e il senso dell’opera, così il gesto dell’autore esita sulla soglia dell’opera come l’esergo intrattabile, che pretende ironicamente di detenerne l’inconfessabile segreto”.6 Note 1
Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Insel, Frankfurt am Main 1996; tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani, Milano 2006. 2 Michel Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994. 3 Franz Overbeck, Kirchenlexicon Materialen. Christentum und Kultur, in Id., Werke und Nachlass, VI, I, Metzler, Stuttgart-Weimar 1996; tr. it. Cristianesimo e cultura, Trauben, Torino 2000. 4 Henri Bergson, L’Énergie spirituelle, PUF, Paris 1919; tr. it. L’energia spirituale, Raffaello Cortina, Milano 2008. 5 Joseph Vogl, Über das Zaudern, cit. 6 Giorgio Agamben, L’autore come gesto, in Id., Profanazioni, cit., pp. 77-78.
Indice
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