Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti 8857518345, 9788857518343

Viviamo oggi in tempi politicamente interessanti: tempi in cui vecchie parole d'ordine, significanti di appartenenz

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Italian Pages 286 Year 2014

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Table of contents :
Preludio - Coccoli, Lorenzo ; Tabacchini, Marco ; Zappino, Federico
Ringraziamenti -
Bene comune : e beni comuni : le ragioni di una contrapposizione - Marella, Maria Rosaria
Costituzione : crisi della mediazione e nuovi processi costituenti - Amendola, Adalgiso
Crisi : del giudizio dei viventi - Zappino, Federico
Democrazia : crisi e ricerca di altri modi di essere democratici - Bazzicalupo, Laura
Destra / sinistra : ragioni di una persistenza - Remotti, Francesco
Eccellenza : selezione, distinzione, differenza - Giardini, Federica
Eguaglianza : farla e disfarla - Zanetti, Gianfrancesco
Governabilità : della resistenza irriducibile del governato - Chignola, Sandro
Legalità : oltre il cretinismo e il romanticismo - Mattei, Ugo ; Spanò, Michele
Movimento : riscattare l'insalvabile - Tabacchini, Marco
Popolo : destituzione e filosofia - Amato, Pierandrea
Povertà : appunti per una politica dei poveri - Coccoli, Lorenzo
Precarietà : della cattura biopolitica delle vite, e della loro potenza - Morini, Cristina
Responsabilità : perchè darsi in-pegno - Giacomini, Bruna
Sacrificio : sulla matrice religiosa della relazione tra debito e credito - Esposito, Marianna
Società : potere, dominio, ordine - Ricciardi, Maurizio
Trasparenza : una tirannia della luce - Pinto, Valeria
Futuro : (e)scatologia del tempo della crisi - Bernini, Lorenzo
Autori/Autrici -
Indice dei nomi -
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Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti
 8857518345, 9788857518343

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ETEROTOPIE

N. 254 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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GENEALOGIE DEL PRESENTE Lessico politico per tempi interessanti A cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini

MIMESIS Eterotopie

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© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Eterotopie, n. 254 Isbn 9788857518343 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

PRELUDIO di Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini, Federico Zappino

9

RINGRAZIAMENTI

23

BENE COMUNE. E BENI COMUNI: LE RAGIONI DI UNA CONTRAPPOSIZIONE di Maria Rosaria Marella

25

COSTITUZIONE. CRISI DELLA MEDIAZIONE E NUOVI PROCESSI COSTITUENTI

41

di Adalgiso Amendola CRISI. DEL GIUDIZIO DEI VIVENTI di Federico Zappino

53

DEMOCRAZIA. CRISI E RICERCA DI ALTRI MODI DI ESSERE DEMOCRATICI di Laura Bazzicalupo

69

DESTRA / SINISTRA. RAGIONI DI UNA PERSISTENZA di Francesco Remotti

81

ECCELLENZA. SELEZIONE, DISTINZIONE, DIFFERENZA di Federica Giardini

95

EGUAGLIANZA. FARLA E DISFARLA di Gianfrancesco Zanetti

103

GOVERNABILITÀ. DELLA RESISTENZA IRRIDUCIBILE DEL GOVERNATO di Sandro Chignola

113

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LEGALITÀ. OLTRE IL CRETINISMO E IL ROMANTICISMO di Ugo Mattei e Michele Spanò

125

MOVIMENTO. RISCATTARE L’INSALVABILE di Marco Tabacchini

135

POPOLO. DESTITUZIONE E FILOSOFIA di Pierandrea Amato

151

POVERTÀ. APPUNTI PER UNA POLITICA DEI POVERI di Lorenzo Coccoli

165

PRECARIETÀ. DELLA CATTURA BIOPOLITICA DELLE VITE (E DELLA LORO POTENZA) di Cristina Morini RESPONSABILITÀ. PERCHÉ DARSI IN-PEGNO di Bruna Giacomini

179

195

SACRIFICIO. SULLA MATRICE RELIGIOSA DELLA RELAZIONE TRA DEBITO E CREDITO

207

di Marianna Esposito SOCIETÀ. POTERE, DOMINIO, ORDINE di Maurizio Ricciardi

219

TRASPARENZA. UNA TIRANNIA DELLA LUCE di Valeria Pinto

231

FUTURO. (E)SCATOLOGIA DEL TEMPO DELLA CRISI di Lorenzo Bernini

249

AUTORI / AUTRICI

265

INDICE DEI NOMI

271

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Dici: «Per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era appena cominciato. E il nemico ci sta innanzi più potente che mai. Sembra gli siano cresciute le forze, ha preso una apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori, non si può più mentire. Siamo sempre di meno. Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili. Che cosa è ora falso di quel che abbiamo detto? qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi? O dobbiamo sperare soltanto in un colpo di fortuna?» Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua. Bertold Brecht, A chi esita (1948)

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Non possiamo più permetterci il lusso di prendere quel che andava bene in passato e chiamarlo semplicemente retaggio, di scartare il cattivo e considerarlo semplicemente un peso morto che il tempo provvederà da sé a seppellire nell’oblio. Ecco la realtà in cui viviamo. Ecco perché tutti gli sforzi compiuti per evadere dall’atmosfera sinistra del presente nella nostalgia per un passato ancora intatto, o nell’oblio anticipato di un “futuro migliore”, sono vani. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (1951) La censura imbavaglia. Riduce al silenzio. Ma non violenta la lingua. Solo l’abuso del linguaggio violenta, snaturandola. Il potere borghese fonda il suo liberalismo sull’assenza di censura, ma è costantemente ricorso all’abuso del linguaggio. Bernard Noël, Le sens, la sensure (1985)

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LORENZO COCCOLI, MARCO TABACCHINI E FEDERICO ZAPPINO

PRELUDIO

1. Pare che un’antica maledizione cinese – richiamata di recente con indubbia suggestione nel titolo di un libro di Slavoj Žižek1 e, ancora prima, in quello dell’autobiografia di Eric Hobsbawm2 – auguri ai propri nemici di «vivere in tempi interessanti». Cosa sono i tempi interessanti? Tempi caotici, mutevoli, sfuggenti. Tempi di depressione, di crisi, di povertà – tempi in cui gli antichi dei sono fuggiti e quelli nuovi ancora tardano a fare il loro ingresso; in cui i punti d’appoggio consueti sfuggono alla presa e tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Un’immagine potente. Un’immagine, soprattutto, che sembra rappresentare alla perfezione il passaggio storico che stiamo attraversando. Ma attenzione a lasciarsene irretire. Ogni rappresentazione, per essere veramente tale, richiede di essere contestualizzata in un determinato regime di senso, un preciso ordine del discorso che le conferisca intelligibilità e verosimiglianza. In altri termini: si badi a non trasformare un effetto di potere in una condizione oggettiva, in un orizzonte destinale. Anche il disordine e lo spaesamento, per quanto possa sembrare paradossale, devono essere decostruiti. Nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito a mutamenti epocali nella costituzione materiale della realtà istituzionale, economica e sociale: su tutti, la crisi della mediazione e della rappresentanza; l’affermarsi del paradigma postfordista e di politiche neoliberali (e neoliberiste); infine, la progressiva erosione del progetto egualitario, che pur non essendone l’unico fattore, inevitabilmente confluisce nella progressiva erosione del progetto storico della sinistra. Mutamenti che hanno indubbiamente indotto un forte disorientamento tanto nella teoria quanto nelle pratiche politiche. Cionondimeno, non saremo così sprovveduti da ritenere che tutta l’entropia del nostro mondo abbia cause, per così dire, “naturali”. Ciò a cui assistiamo, piuttosto, è la creazione artificiale di un surplus di confusione come instrumentum regni, attra-

1 2

S. Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Ponte alle Grazie, Firenze 2012. E. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2004.

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Genealogie del presente

verso cui governo della crisi e governo del linguaggio sembrano coincidere: un accecamento indotto al fine di spostare l’attenzione e la sensibilità politica sul terreno di conflitti immaginari, consentendo il mobilitarsi, di volta in volta, e secondo geometrie variabili, di popoli e fronti antagonistici diversi. 2. I “tempi interessanti” sono costitutivamente ambigui. Sono maledizione, e al contempo augurio. La maledizione ci espone al rischio costante della falsa coscienza, del trompe-l’œil dell’ideologia, tanto più ingannevole nel momento in cui la forma oggi dominante dell’ideologia è quella che sancisce la fine di tutte le ideologie, celandosi dietro alla tecnica e alla presunta oggettività dei saperi economici. L’augurio ci invita invece a non sottovalutare il potenziale di rinnovamento che pure abita i tempi interessanti, la loro ostilità alla sclerosi delle ortodossie e alla fissità delle tradizioni etico-politiche: un kairós, che è soprattutto occasione per dotarsi di altre categorie di analisi, per liberarsi di quelle rese inservibili, per ricalibrare quelle fuori asse, per ri-significare quelle de-significate. Genealogie del presente vuole allora assumere una postura diversa sul contemporaneo. Una postura che tenti innanzitutto di portare un contributo all’esigenza, in questo momento particolarmente diffusa, di strumenti di comprensione che siano al contempo strumenti di lotta3. Il desiderio che ha animato questo lavoro, fin dalle prime battute, era che ciascuno dei percorsi che avremmo proposto potesse contribuire a cartografare, o a esplorare, una piega del linguaggio che informa le nostre esistenze. A mano a mano che il lavoro procedeva ci pareva sempre più chiaro che le singole voci concorressero nell’insieme a un’impresa di nomadismo intellettuale, a un tentativo collettivo via via più limpido di sottrarsi, per quanto possibile, a ogni territorializzazione dogmatica, inteso come presupposto per un pensiero del presente. Un sottrarsi che, per certi versi, sembra richiamarsi a ciò che Hannah Arendt definisce «pensare senza ringhiera»: un modo di pensare, cioè, il cui potenziale trasformativo espone a veri e propri «pericoli» e che, paradossalmente, «non fa chissà che bene alla società», dal momento che «non crea valori, non scopre una volta per tutte cosa è “il bene”, e non conferma ma semmai dissolve le regole conso3

Testimoniata peraltro dalla singolare quantità di lessici (tra loro assai diversi) che hanno di poco preceduto il nostro. Cfr., a mero titolo d’esempio, F. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013; L. Pepino, M. Revelli (a cura di), Grammatica dell’indignazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013; G. Roggero, A. Zanini (a cura di), Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente, ombre corte, Verona 2013; M. Tronti, Per una critica del presente, Ediesse, Roma 2013.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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lidate di comportamento»4. Un modo di pensare la cui «rilevanza politica», scrive ancora Arendt parafrasando W. B. Yeats, «balza in primo piano solo nei rari momenti della storia in cui le cose si perdono, il centro non tiene più | la pura anarchia si scatena nel mondo»5. A ben vedere, del resto, questo «pensare senza ringhiera» costituisce l’unico strumento effettivamente adeguato all’indagine della contingenza, che, per sua definizione (contingentia, “ciò che tange”), sfugge alle sussunzioni dei giudizi determinanti. E questo suo aspetto non può essere afferrato appieno se non si è disposti a rinunciare a qualunque approccio che tenti al contrario di irretirla, iscrivendo i suoi aspetti nel quadro di logiche deterministiche, o anche solo di rapporti di causa ed effetto – e pensiamo in primo luogo a quei nodi che maggiormente destano preoccupazione, sconforto, indignazione, finanche rabbia, perché sono luoghi fisici e politici sovraccarichi di conflitto «reso latente con la violenza»6. Non esistono più, d’altronde, leggi naturali o storiche la cui necessità appare irrinunciabile per la comprensione di tutti quei fatti politici che puntellano i contorni di questa contingenza. Fino a un passato relativamente recente, ogni tentativo di comprensione che pretendesse di appellarsi alla sicurezza della “ringhiera”, costituita di volta in volta da formule coniate da altri – per fini del tutto spiegabili –, ha poi dovuto fare i conti con il proprio fallimento drammatico, se non proprio tragico. Nonostante i reiterati sforzi di rinvenirne il cadavere, abbiamo dunque salutato senza troppi rimpianti, e senza reclamarne alcuna eredità, l’idea di una Natura Umana, così come ci siamo lasciati volentieri alle spalle quell’opulenza ontologica della Storia fondata sulla mutilazione delle sue premesse antropologiche e sul desiderio ardimentoso di scindersi dall’azione, per congiungersi metafisicamente con l’essere – senza con ciò rinunciare, paradossalmente, ad assurgere a Tribunale del Mondo! 3. Un pensiero della contingenza non può riporre alcuna fede nel presunto “senso delle parole”, quel senso – celebrato e fossilizzato a un tempo 4

5 6

H. Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali (1971), ora in Ead., Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2010, p. 162. L’espressione «pensare senza ringhiera», tuttavia, è reperibile solo in Ead., Quaderni e diari 1950-1973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, Neri Pozza, Vicenza 2007: «Ho una metafora che non ho mai pubblicato, ma conservato per me stessa, la chiamo pensare senza ringhiera. In tedesco Denken ohne Geländer. Si va su e giù per le scale, si è sempre trattenuti dalla ringhiera, così non si può cadere. Ma noi abbiamo perduto la ringhiera, questo mi sono detta». Ead., Il pensiero e le considerazioni morali, cit., p. 162. F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), a cura di S. Giametta, Rizzoli, Milano 1997, p. 129.

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Genealogie del presente

– mediante il quale i tentativi di governo del linguaggio liquidano ogni forma di politica a venire. Genealogie del presente, di conseguenza, si propone di spostare l’accento dalla dimensione semantica delle parole a quella performativa7; ciascuna delle singole voci tenta infatti di circoscrivere e seguire le tracce, sedimentatesi nella lingua comune, dei cambiamenti e delle metamorfosi, ma anche delle ambigue risignificazioni, degli svuotamenti e delle forzature a cui è stato sottoposto il linguaggio politico, così come, di conseguenza, il “politico” tout court. Al fine di denunciare la rimozione subìta da alcune parole – rimozione che si verifica ogniqualvolta si privilegia un loro presunto senso “obiettivo” rispetto al loro compito “operativo” –, e affinché il pensare senza ringhiera potesse accogliere le aporie del linguaggio, abbiamo scelto di svolgere un lavoro di genealogia; lavoro del resto diametralmente opposto a quello di quanti pretendono di svelare il senso “autentico”, “vero” delle parole, finendo irrimediabilmente col consegnarle a una ipostatizzazione ideologica o, in maniera speculare, nell’ancorarle a un’utopica origine. A questa “origine” di cui va in cerca da sempre la filosofia, Michel Foucault, volgendo lo sguardo a Nietzsche, propone di contrapporre due altri termini che meglio delineano le coordinate del lavoro genealogico: «provenienza» (Herkunft) ed «emergenza» (Entstehung). Il primo termine individua, dietro l’apparente unità e fissità dei concetti, il proliferare degli avvenimenti attraverso cui essi sono andati formandosi: chi fa genealogia, di conseguenza, non si pone l’obiettivo di risalire alla radice di un tempo colto nella sua presunta continuità, o per mostrare come quel che era originariamente si sia mantenuto inalterato sotto la coltre dell’oblio, magari truccando le carte della storia, imponendo «a tutte le traversie del percorso una forma disegnata sin dall’inizio»8. Chi fa genealogia, al contrario, mira a reperire gli scarti, le frizioni, le deviazioni da quella linea retta che si pretenderebbe di tracciare a partire dall’origine; mira a «scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente»9. 7

8 9

Similmente, Georges Bataille ebbe a sostenere che il progetto di un «dizionario» prende le mosse nel momento preciso in cui non si dà più il senso, ma i «compiti delle parole», alludendo alla specifica posta in gioco che presiede a ogni enunciazione (G. Bataille, Informe [1929], in Id., Documents, a cura di S. Finzi, Dedalo, Bari 1974, p. 165). M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 35. Ivi, p. 36.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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Fare una genealogia del lessico politico contemporaneo significa mostrare come i concetti attorno a cui si articola, spesso presentati alla stregua di verità naturali e indubitabili, si siano in realtà formati a partire da strategie discorsive molteplici, traiettorie di pensiero di epoche diverse, rappresentazioni persuasive o falsamente universali; significa anche dar conto delle opposizioni, delle tensioni, delle rotture e delle inversioni che i loro significati, prima di diventare egemoni, hanno dovuto vincere e superare; significa infine comprendere come essi non vadano a comporre una figura monolitica, solida e coerente, bensì «un insieme di faglie, di crepe, di strati eterogenei che la rendono instabile»10. Ecco perché la genealogia «non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile, frammenta quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che s’immaginava conforme a se stesso»11. La provenienza, inoltre, ha a che fare con i corpi, luoghi privilegiati d’iscrizione degli effetti della storia. Quali campi di battaglia per segni in lotta, superfici di espressione recanti «lo stigma degli avvenimenti passati»12, è ancora sui corpi e attorno a essi che questi avvenimenti saranno ogni volta rilanciati e contraddetti, infinitamente aperti a nuovi sviluppi. È proprio a un simile gioco di forze, a questa scena sulla quale i corpi son chiamati a comparire, che allude il secondo dei termini proposti da Foucault in opposizione al concetto di “origine”: l’«emergenza» (Entstehung), quale prodotto dei rapporti di forza che proprio con essa si manifestano. Nessuna visibilità senza dei corpi che se ne prendano carico e tuttavia nessuna visibilità senza i rapporti di potere che forzano quei corpi a mostrarsi. Fare la genealogia del lessico politico contemporaneo equivale allora a riportare lo strumentario concettuale oggi dominante alle circostanze contingenti della sua “emergenza”, al suo ruolo nel gioco contrapposto delle interpretazioni, all’opaca stratificazione degli avvenimenti da cui in realtà “proviene”. Si tratta, in altri termini, di reintrodurre «nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale»13, mostrando al contempo la fallacia di una rappresentazione che tende a fossilizzare l’esistente in un tempo senza storia, in un orizzonte immobile senza possibilità di evasione. Solo così è possibile portare alla luce le tracce di usi alternativi della lingua per contrastare l’ipostatizzazione dei significati in forme necessitate e necessitanti, svelando come essi possano in realtà essere anche ben diversamente da

10 11 12 13

Ibid. Ibid. Ivi, p. 37. Ivi, p. 42.

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Genealogie del presente

come sono. In tal modo, e a dispetto di quanti vorrebbero ridurlo a mera questione metodologica, il gesto genealogico si ritrova gesto politico proprio laddove riesce a raccogliere la sfida posta dal movimento delle parole, dalla loro risemantizzazione più o meno consapevole, più o meno polemica, che ne sancisce l’iscrizione all’interno di precise battaglie discorsive. Del resto, accanto all’aspetto repressivo – e al di là del mero disciplinamento dei corpi – non è possibile ignorare l’esistenza di quel controllo e di quella gestione, altrettanto efficaci, che interessano il corpo stesso delle parole, i loro orizzonti di senso, la loro dicibilità. È stato già ampiamente illustrato, d’altronde, come proprio un simile governo del linguaggio abbia accompagnato e perfino giustificato alcuni tra i principali misfatti di cui la contemporaneità sia stata testimone. Basterebbe qui pensare al ruolo svolto dalla risemantizzazione di precise parole nell’opera di fondazione delle neolingue totalitarie. O, per altri versi, al recupero del termine “bandito” per denominare quella nuova figura di combattente, il “partigiano”, che ha segnato le ultime fasi della guerra civile europea. Oppure alle nuove declinazioni del concetto di “terrorista”, sempre più strategicamente indeterminato con quello di “criminale” all’interno dell’interminabile conflitto tra Stati virtuosi e Stati canaglia. Ma basterebbe anche solo pensare, com’è stato fatto notare di recente, alla sorte singolare toccata all’aggettivo “moderato”, di cui si fregiano schiere di intellettuali e di esponenti politici. Lungi dall’intrattenere un qualche rapporto ideale con la sagacia politica del moderatismo ottocentesco, questa etichetta intrattiene oggi rapporti assai più prosaici con dinamiche politiche, economiche e sociali che di “moderato”, “mite” o “misurato” hanno poco. Piuttosto, osserva Piero Bevilacqua, quali difensori dell’ordine esistente gli odierni moderati «assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come terreno di un conflitto in cui intervenire e schierarsi, ma come un principio di realtà da rispettare»14: sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari che l’umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul “senso comune” neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste […] che siano state pensate e diffuse nell’età contemporanea15.

4. Poniamo inoltre in evidenza un altro importante aspetto delle intenzioni che hanno presieduto a questo lavoro. Ciò che ha accompagnato, scandendone disordinatamente i tempi, la selezione delle parole che abbiamo 14 15

P. Bevilacqua, Elogio della radicalità, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 5. Ibid.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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scelto (nella consapevolezza che molte altre avremmo potuto sceglierne) è stata la costante sensazione che quelle specifiche parole patissero, oltre che di un processo di mirata risemantizzazione, anche di un costante processo di degradazione: è come se il loro corpo si ritrovasse, a ogni nuovo utilizzo, svuotato dalla propria materialità e dalla propria densità specifica. Più volte riscritte o rimodellate, più volte brandite alla stregua di vessilli o armi nel combattimento, queste parole hanno spesso dovuto soffrire le conseguenze di una cristallizzazione strategica, mirante a farne nient’altro che puri simboli riposanti in se stessi, parole d’ordine o emblemi la cui estensione coincide con il «dispiegamento metastorico dei significati ideali»16 che si presume esse veicolino. Avvalendosi di una certa retorica della necessità di un determinato lessico, del suo uso come del suo senso più proprio, il governo del linguaggio inscena un’operazione di trasparizione delle parole: obliterandone il significante, così gravido di stratificazioni opache, travagliato dai continui abusi e dalle peripezie della storia, le parole vengono rese trasparenti, conformi a se stesse e al loro utilizzo, e in tal modo funzionali a un preciso orizzonte di senso. A un preciso rapporto di potere. Questa usura, tuttavia, in apparenza scriteriata o irragionevole, pare piuttosto perfettamente funzionale alla logica propria della società dello spettacolo. Così come in essa le immagini appaiono svuotate di qualsiasi intensità, ridotte a mere comparse il cui rapido avvicendamento non lascia spazio a una storia o a un uso17, similmente il discorso politico odierno pare intenzionato ad avvalersi della proliferazione di determinati concetti, carichi di una precisa tradizione e di un altrettanto preciso orizzonte, ma che una volta convocati restano come muti, vittime di un processo di esaustione che ne preclude qual16 17

Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, cit., p. 30. Come mette bene in risalto Susan Sontag (in Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003), «vi sono casi in cui la ripetuta esposizione a ciò che sciocca, rattrista o atterrisce non logora una reazione profonda. L’assuefazione non è automatica, perché le immagini (portatili, inseribili) obbediscono a regole diverse da quelle a cui è soggetta la vita reale» (p. 80); questa sua considerazione è funzionale all’analisi di «due idee molto diffuse»: «la prima idea sostiene che l’attenzione del pubblico sia manovrata dai media – e dunque, in maniera preponderante, dalle immagini. Se ci sono fotografi, una guerra diventa “reale”»; la seconda idea «sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini, diminuisce l’impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine, tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza» (p. 99). Su questo punto, cfr. anche le riflessioni di Adriana Cavarero in Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli, Milano 2007), in cui proprio l’invenzione del concetto di «orrorismo» (distinto da «terrorismo») consente di articolare un nuovo pensiero in grado di affrontare la violenza ipermoderna, disattendendone così i processi di sensura.

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Genealogie del presente

siasi carica critica. Consegnate in tal modo a questa forma neutralizzata di circolazione, impossibilitate a recare quanto ancora in loro resta inascoltato o incompiuto, tali parole sembrano così colpite da quella che Bernard Noël definisce (inventandosi per l’occasione un neologismo) «sensura»18. Accanto alla pratica consolidata della censura, infatti, l’epoca a noi contemporanea avrebbe assistito secondo Noël all’emergere di un’altra, inaudita, forma di privazione: una privazione che lungi dal reprimere l’uso di una data parola, ne produce al contrario una forma di dicibilità che si esplica nell’erosione della sua ricchezza di senso. Una privazione che, formalmente, non contraddice alla costituzionale libertà di parola: «poter dire tutto», infatti, è «una delle più sottili astuzie della SENSURA»19. Una genealogia del lessico politico contemporaneo, di conseguenza, non può che prendere le mosse da istanze che a questo processo sono del tutto antitetiche: il suo compito – ma ve n’è più d’uno – è anzitutto quello di riconoscere nello stesso lessico politico uno degli strumenti privilegiati della retorica della dominazione, e dunque il terreno su cui è possibile attivare delle resistenze. Si tratta, in altre parole, di porsi all’interno di questo spazio di circolazione discorsiva per recuperare ciò che deborda dalla pronuncia ufficiale e ordinata, rintracciando così in quell’apparente armonia con cui le parole sembrano risuonare, le saldature dei montaggi che le sorreggono, così come i brusii prodotti dalla loro costruzione. Un simile lavoro genealogico renderà forse possibile aprire le parole – il loro uso, la loro disseminazione – anche al di là di se stesse, restituendole alle incertezze, alle inquietudini e alle aporie da cui sono emerse. 5. Il gesto di interrogazione che qui proponiamo non deve dunque essere confuso con una immissione nell’ordine del discorso di parole d’ordine “alternative” che, a fronte della crescente opacità del mondo, mirino a offrire una qualche leggibilità ad eventi altrimenti consegnati alla catastrofe. Tendenza, questa, ben esemplificata da quella fiducia, spinta fino al parossismo, che spesso permea la circolazione di parole dal sapore mitologico quali Sacrificio o Trasparenza, Costituzione o Legalità20, e che condiziona lo stesso orizzonte di attesa con cui ogni nuovo discorso è ascoltato e accolto, come se non si trattasse più di condividere o comunicare, bensì di rispondere a un’ineludibile richiesta di orientamento e guida. Investite pro18 19 20

B. Noël, Le sens, la sensure (1985), in Id., L’outrage aux mots, P.O.L., Paris 2011, trad. nostra. Ivi, p. 163. Rimandiamo ai saggi, rispettivamente, di Marianna Esposito, Valeria Pinto, Adalgiso Amendola e di Ugo Mattei e Michele Spanò.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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grammaticamente del compito di porsi quali strumenti per una lettura del mondo “rassicurante”, queste parole lavorano nella direzione di una reductio ad unum del mondo, come se la garanzia di un senso e la conservazione di valori procedesse giocoforza con la squalifica e la stigmatizzazione di quanto a esse pare opporsi. A fortiori, lo stesso effetto viene prodotto da quei termini che, investiti di una certa carica emotiva, si pongono come efficaci catalizzatori di consenso: basti pensare ai tentativi di riunire un corpo sociale frammentato attraverso l’utilizzo sistematico di parole come Responsabilità o Governabilità, Eccellenza o Bene comune21, che hanno lo scopo di erigere un totem a cui legare gli attaccamenti appassionati dei singoli, stendendo un velo di apparente omogeneità su una realtà che è invece attraversata da molteplici conflitti e rapporti di potere. A questo occultamento fa al contempo da contraltare una produzione discorsiva così parodica del conflitto sociale da veicolarne un’immagine spesso pervasa da un vistoso alone di irrealtà. Una parodia, è utile sottolinearlo, che non ha qui nulla di ironicamente sovversivo. Il sottotesto parodico della narrazione del conflitto sembra semmai funzionale a una duplice logica: da un lato, quella dell’offuscamento delle tensioni che effettivamente squarciano, in maniera sotterranea, le strutture e le relazioni sociali – tensioni che, non appena affiorano in superficie, vengono prontamente stigmatizzate, sia con la forza dei media sia con quella dell’ordine. Dall’altro lato, la logica risponde a una lenta, ma progressiva, demonizzazione del conflitto tout court. Benché la lotta di classe non si sia affatto estinta ma si sia semmai riterritorializzata, ciò a cui si assiste è al contrario la forclusione dal discorso pubblico di qualunque traccia di questo fardello (a partire innanzitutto dall’eliminazione stessa del concetto di “classe” e dalla ridicolizzazione di quello di “lotta”). Al suo posto, ecco acquisire un incommensurabile valore le dicotomie “conflittuali” casta/società, partito/movimento, palazzo/popolo, vecchi/giovani ecc. E il modo attraverso cui si procede al disciplinamento di questi conflitti consiste proprio nell’immissione di specifiche parole d’ordine, la cui densità semantica viene del tutto subordinata alla duplice logica offuscamento/demonizzazione. La Società (chiaramente quella “civile”) assurge così acriticamente a luogo irenico in grado di porsi come riserva di energia positiva alternativa alla casta, che è irrimediabilmente corrotta. Il Popolo viene prodotto – e invocato – come l’emblema autentico di quella genuinità e di quella immediatezza che si perde lungo i corridoi e 21

Che sono qui esplorate, rispettivamente, da Bruna Giacomini, Sandro Chignola, Federica Giardini, Maria Rosaria Marella.

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Genealogie del presente

nelle stanze fumose del palazzo. Il Movimento si propone come ciò che è in grado di rinunciare agli automatismi dei processi decisionali e di aprirsi al di là dei meccanismi della rappresentanza22. Questa operazione, infine, funziona anche in direzione opposta. Accanto alla creazione di falsa conflittualità attorno a significanti vuoti artatamente messi in circolazione nel discorso pubblico, il governo del linguaggio lavora anche attraverso la neutralizzazione e il depotenziamento di concetti che, se non accuratamente disciplinati, rischiano di rivelarsi potenzialmente esplosivi. Affinché il dispositivo di pacificazione e amministrazione controllata del conflitto possa risultare efficace, si rende cioè necessario cancellare le tracce dei possibili usi linguistici che minacciano di eccedere e far saltare quel meccanismo; possibilità già storicamente realizzate o ancora solo potenziali, ma comunque alternative all’ordine socio-simbolico vigente. Ogni profondità semantica deve essere appiattita a superficie retorica: così, la Democrazia viene immunizzata da ogni componente di radicalità e processualità e ridotta a strumento di naturalizzazione della governamentalità neoliberale. Il binomio Destra/Sinistra, indicatore tradizionale di una lotta tra istanze economiche e sociali irriducibili, viene portato a coincidere con la sola politica istituzionale, svuotandolo di senso e rendendolo inutilizzabile. L’Eguaglianza, la cui rivendicazione sul piano materiale rischierebbe di portare a una messa in discussione effettiva delle forme dominanti di distribuzione della ricchezza, viene silenziata e presa in considerazione esclusivamente nei suoi aspetti formali. La Povertà, che come potenziale fattore di soggettivazione politica potrebbe minare alla base gli sforzi di conservazione dell’esistente, viene catturata in un dispositivo di potere/sapere che la oggettifica e la riduce a bersaglio dell’azione di governo, così come la Precarietà viene privata del suo potenziale trasformativo e ipostatizzata in una condizione destinale sostanzialmente vittimizzante. E infine la Crisi, la cui pervasività linguistica è forse comparabile soltanto con la portata delle torsioni semantiche che ne hanno reso possibile non già la sterilizzazione, bensì la riconversione in instrumentum attraverso cui la dominazione potesse, per forza di cose, legittimarsi23. 6. Genealogie del presente è dunque un luogo di analisi e di lavoro del concetto, un laboratorio di ricerca – con tutta la sua dimensione operativa –,

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Parole qui affrontate, rispettivamente, da Maurizio Ricciardi, Pierandrea Amato e Marco Tabacchini. Cfr. i saggi di Laura Bazzicalupo, Francesco Remotti, Gianfrancesco Zanetti, Lorenzo Coccoli, Cristina Morini e Federico Zappino.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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che si apre all’intersezione di più piani, in cui teoria e prassi si sovrappongono e si potenziano reciprocamente. Non è un caso, allora, che è proprio là dove il momento propriamente conoscitivo si innesta su quello pratico dell’agire, che sembra dischiudersi il terreno più appropriato dal quale domandarsi «che fare?», come se proprio lì si desse, finalmente, la possibilità di una nuova declinazione politica, affinché leggibilità del mondo e suo cambiamento possano felicemente coincidere. La questione, se declinata nel senso della specifica prospettiva genealogico-concettuale del volume, diventa più precisamente: che fare per sottrarsi alla presa delle parole d’ordine del governo del linguaggio? Come immaginare delle contro-condotte linguistiche capaci di interrompere e rovesciare questo ordine e di riaprire uno spazio di conflitto? Non abbiamo però alcuna pretesa di dare delle risposte. Se queste esistono, non potranno che darsi nella sperimentazione quotidiana delle pratiche, individuali e collettive – così come in quell’amalgama costante tra azione e riflessione che già caratterizza gran parte delle esperienze di movimento (in Italia e nel mondo)24. Il compito non è certo semplice. E tuttavia, anziché farci profeti del Futuro25, anziché fornire previsioni (o implicite prescrizioni) che ci consentirebbero di aggrapparci a quell’«oblio anticipato di un futuro migliore»26, preferiamo tenere a mente l’intuizione di Walter Benjamin davanti all’Angelus Novus di Klee27 e, in linea con l’impostazione genealogica di tutto il libro, volgere un selettivo sguardo al passato. Anche solo al recente passato. È infatti già accaduto – e continua ad accadere – che per una felice alchimia di saperi e pratiche si sia riusciti a trovare le parole attorno a cui organizzare il lato dei governati in un fronte antagonista reticolare, decentrato, ma insieme terribilmente efficace. Il caso dei beni comuni è in questo senso esemplare. Qui l’invenzione (o la risignificazione), e la messa in circolo 24

25 26 27

E in questo senso è necessario riconoscere l’immenso debito che la politica di movimento ha contratto con il femminismo e, in particolare, con il pensiero della differenza, che ha spostato l’accento sul piano delle pratiche creatrici di senso e di relazioni e sulla loro eccedenza rispetto a ogni ordine già costituito. Un pensiero (e un agire) che poco o nulla ha a che fare con l’immagine acritica e strumentalmente redentiva delle “donne”, veicolata e sfruttata dalla narrazione neoliberale. Concetto che abbiamo scelto non a caso di collocare al termine del lessico, aggirando l’ordine alfabetico delle altre voci. Il compito di esplorarlo è stato accolto da Lorenzo Bernini. H. Arendt, Prefazione alla prima edizione de Le origini del totalitarismo (1951), Einaudi, Torino 2009, p. LXXXII. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, pp. 75-86.

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Genealogie del presente

di un concetto ha consentito l’apertura di orizzonti di senso all’interno dei quali articolare spazi di lotta altrimenti eterogenei e probabilmente incompatibili. Un equilibrio certo precario, mutevole, polivoco, sottoposto a necessarie e costanti revisioni; eppure estremamente fecondo28. Altro caso esemplare: il queer. L’assunzione attiva di quell’abiezione linguistica con cui nella California degli anni Ottanta venivano etichettati, e offesi, gli uomini omosessuali – queer significa infatti “frocio” –, assurge a luogo dal quale la critica alla naturalità e all’universalità dell’egemonia eterosessuale diventa l’occasione non solo per innescare una sovversione nell’ordine del discorso mediante la risignificazione positiva di un insulto, ma anche per inaugurare inedite alleanze politiche tra gli uomini gay, i/ le trans*, gli etero-dissidenti e le donne non-bianche, povere e/o lesbiche, posti rispettivamente ai margini dai propri “gruppi identitari” di riferimento. Alleanze che si rivelano efficaci sul fronte della produzione di nuove possibilità di soggettivazione, da cui scaturiscono nuove relazioni, nuove pratiche e nuove elaborazioni teoriche29. Al di là delle rispettive (e costitutive) aporie, che coincidono d’altronde con la magmaticità stessa delle fondamenta su cui riposano, questi casi ci suggeriscono che a partire dalla creazione di concetti è possibile inaugurare nuovi ambiti di conflitto, sperimentare altre forme di mediazione tra rappresentanza e azione diretta, tra politica e sapere, tra teoria e prassi. Quel 28

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Sarebbe impossibile render conto della vasta e articolata letteratura nazionale e internazionale sul tema dei beni comuni. A mero titolo d’esempio, cfr. P. Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni. Una rassegna, Ediesse, Roma 2010; S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, ombre corte, Verona 2013; L. Coccoli (a cura di), Commons/ Beni comuni. Il dibattito internazionale, goWare, Firenze 2013; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2012; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, Bologna 2013. Anche sul queer vi è una vastissima letteratura. Segnaliamo i testi “fondativi”: J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1990), Laterza, Roma-Bari 2013; Ead., Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, prefazione di A. Cavarero, Feltrinelli, Milano 1996; T. de Lauretis, Queer Theory: Gay and Lesbian Sexualities, n. s. di «differences: A Journal of Feminist Cultural Studies», 3, 2, 1991; E. Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità (1990), a cura di F. Zappino, Carocci, Roma 2011; Ead., Tendencies, Routledge, New York 1993. Cfr. inoltre E.A.G. Arfini, C. Lo Iacono (a cura di), Canone inverso. Antologia di teoria queer, Edizioni ETS, Pisa 2012.

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L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio

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che vediamo all’opera in entrambi è infatti l’attualizzazione, sul piano di immanenza delle pratiche, di una potenza creatrice genuinamente “filosofica”. Una potenza che con esasperante ostinatezza ci ricorda che i concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come se fossero corpi celesti. Non c’è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano30.

Asti, Brescia, Roma, Sassari, Torino, Verona dicembre 2013

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G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), Einaudi, Torino 2002, p. XI.

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RINGRAZIAMENTI

Desideriamo porgere il nostro ringraziamento più sentito alle autrici e agli autori che hanno accolto il nostro invito, pregiando questo insolito Lessico delle proprie voci: Pierandrea Amato, Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Lorenzo Bernini, Sandro Chignola, Marianna Esposito, Bruna Giacomini, Federica Giardini, Maria Rosaria Marella, Ugo Mattei, Cristina Morini, Valeria Pinto, Francesco Remotti, Maurizio Ricciardi, Michele Spanò e Gianfrancesco Zanetti. È solo grazie alla modalità – irriducibilmente singolare – con cui ogni voce dialoga con le altre, che il presente libro può di fatto costituire un tentativo di resistenza nei confronti di un’epoca in cui la produzione intellettuale, spesso irretita nelle maglie di burocrazie illimitate, rischia costantemente di rendere accidentali non solo i propri contenuti, ma anche le proprie modalità di pensiero e condivisione. Per questo, desideriamo esprimere il nostro debito di gratitudine nei confronti di Luca Taddio, che ha accolto e incoraggiato questo progetto con apertura e convinzione fin dal suo stato embrionale. Ciascuno di noi, infine, desidera ringraziare gli altri due, per tutto – e per questo un pensiero particolare va a Gabriella Argnani e a Maurizio Viroli, e al Master di Ethica Forum (Asti – Princeton University), senza i quali non avremmo forse potuto ringraziarci. E poi desideriamo, desideriamo, desideriamo ancora.

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MARIA ROSARIA MARELLA

BENE COMUNE E beni comuni: le ragioni di una contrapposizione

Nel variegato articolarsi dei discorsi intorno ai beni comuni l’aspirazione al Bene comune e, talora, l’indicazione del Bene comune quale obiettivo di un’azione politica collettiva tornano di frequente. Ciò tanto perché i sintagmi Bene comune/beni comuni sono evidentemente assonanti, così da indurre con qualche semplificazione (di troppo) a una loro identificazione, quanto perché si pensa che nella definizione di un progetto politico di trasformazione l’uno implichi gli altri fino a sovrapporsi e coincidere. La relazione di contiguità fra Bene comune e beni comuni si colloca dunque su due piani diversi: da un lato la loro assimilazione è tendenzialmente frutto di un equivoco in cui è facile cada la non addetta ai lavori, dall’altro tale assimilazione è invece il precipitato di un preciso disegno politico.

1. I beni comuni v. il Bene comune La nozione di Bene comune, nell’accezione resa nota dalla dottrina di Aristotele, prima, e di Tommaso d’Aquino, poi, indica il fine della legge, la quale, come Tommaso specifica nella Summa Theologiae, in tanto può dirsi tale in quanto persegua attraverso i suoi precetti la realizzazione del bene comune, ossia di ciò che giova all’intera collettività; di talché il bene comune, potremmo dire, risponde a un’opzione sia metodologica che assiologica, ed è insieme fondamento di legittimazione del giuridico e suo fine ultimo. Ovviamente ciò presuppone una comunità omogenea e coesa al suo interno, fondata su una gerarchia di valori condivisa, poiché il bene comune per essere tale deve essere riconosciuto nella sua qualità da tutti. Ed è altresì evidente, agli occhi dell’osservatore moderno e laico, l’assoluta indeterminatezza di un progetto finalizzato al bene comune, in quanto capace per sua natura di essere piegato ai programmi e alle ideologie più diverse1, ma comunque iscritti nella cornice ideale di una completa pacificazione sociale. 1

Si vedano al riguardo le precise osservazioni di L. Pennacchi, La triangolazione pubblico/privato/comune ai fondamenti della modernità, in L. Pennacchi, A.

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Genealogie del presente

I beni comuni, per contro, almeno per come la nozione è andata configurandosi nel recente dibattito italiano – il quale peraltro, bisognerà pure ammetterlo, rappresenta una punta avanzata in Europa – fanno capo a pratiche politiche e a teorizzazioni filosofiche e giuridiche che trovano nel conflitto sociale la loro cifra. Ricorrente, ad esempio, è l’idea che il conflitto che porta al riconoscimento di un bene comune sia parte integrante del bene comune stesso. Lungi dal celebrare un ritorno a idilliaci scenari premoderni di cui gli usi e i demani civici ancora esistenti costituirebbero il retaggio, i beni comuni sono infatti l’esito di pratiche di resistenza alle politiche neoliberali di spossessamento del comune che trovano oggi anche e forse soprattutto nel pubblico, in considerazione delle massive operazioni di privatizzazione poste in essere dagli stati nazionali, un fattore cruciale di avanzamento. Questo chiarisce l’aspirazione del discorso dei beni comuni a porsi su un piano altro rispetto alla critica scontata alla sempre più pervasiva commodification delle risorse un tempo liberamente accessibili; ad andare oltre il privato e il pubblico, secondo una formula che ha conosciuto qualche fortuna e molte critiche nel recentissimo passato2. Un piano che certamente non esclude, peraltro, che si possa (e anzi si debba, stante il sistema vigente) far ricorso a dispositivi giuridici di diritto pubblico e soprattutto di diritto privato per il riconoscimento, la gestione e la tutela di ciò che si assume comune3. Che anzi nelle pieghe del sistema intende radicarsi e crescere, diffondendosi interstizialmente come spazio di resistenza e di costruzione di comun-e (-ismo). Sono dunque fuori quadro quelle visioni idilliache, pacificatrici, persino bucoliche, dei beni comuni che circolano soprattutto fra i loro detrattori. Anche una pratica comune, apparentemente pacifica come il ricorso a una licenza Creative Commons rappresenta una presa di posizione, un vero e proprio atto di resistenza contro la moderna campagna di enclosure messa

2

3

Montebugnoli (a cura di), Tempo di beni comuni. Studi multidisciplinari, Ediesse, Roma 2013, spec. pp. 62-64. La formula compare nel sottotitolo della versione italiana di Commonwealth di A. Negri e M. Hardt (Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010) ed è ripresa nel titolo del volume collettaneo da me curato (Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2012) attirandosi anche severe censure. Cfr. ad es. T. Seppilli, Sulla questione dei beni comuni. Un contributo antropologico per la costruzione di una strategia politica, in Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., spec. p. 125. Il che non vuol dire rendersi subalterni alla logica neoliberale, come intende invece, equivocando, C. Formenti, Utopie letali. Contro la politica postmoderna, Jaca Book, Milano 2013, spec. pp. 136 ss.; tutto il contrario. Ma vedi infra nel testo.

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M.R. Marella - Bene comune

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in atto a livello globale a sostegno della proprietà intellettuale. Sul web il conflitto in difesa del public domain è agito costantemente, trovando poi momenti di emersione in singole mobilitazioni, occasionate dai molteplici, continui tentativi di spossessamento del comune messi in atto attraverso accordi internazionali fra stati, come ad esempio ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement). Ed è persino inutile sottolineare come la rivendicazione del carattere comune di una risorsa naturale simbolo della vita stessa, come l’acqua, si accompagni a dure lotte popolari, dalla celebre “guerra dell’acqua” di Cochabamba, in Bolivia, alla storia infinita della ripubblicizzazione del servizio idrico in Italia. In fondo gli stessi residui di proprietà collettiva che più di tutto incarnano quella visione bucolica dei commons di cui si alimenta certa cattiva stampa, sono l’esito finale di un aspro conflitto che ha visto prevalere i modelli della proprietà pubblica e della proprietà privata individuale ai danni di «un altro modo di possedere»4. Ancora, affermare che lo spazio urbano è un bene comune è un atto di resistenza – alla disgregazione sociale, alla crescente erosione degli spazi di democrazia – e una rivendicazione di libertà: libertà di stringere legami sociali in spazi lisci, libertà di sottrarsi al controllo dei corpi e alla imposizione di identità che i dispositivi in atto nella metropoli – dalla marginalizzazione originata dalle operazioni di gentrification e di rigenerazione dello spazio pubblico alla creazione di gated communities e quartieri-ghetto, dalla costruzione delle cattedrali del consumo alla messa in opera di politiche securitarie – costantemente producono e ri-producono. Infine, la proposta di riconfigurare come beni comuni istituzioni erogatrici di servizi pubblici finalizzati alla realizzazione di diritti fondamentali come la salute e l’istruzione, dunque sanità, scuola, università, mette in campo l’aspirazione a superare sia l’odierno mix pubblico-privato che dà vita a quei modelli di aziendalizzazione che tanto apertamente si pongono in contrasto con l’originaria vocazione del servizio pubblico a soddisfare in forme tendenzialmente universalistiche i diritti sociali di rilevanza costituzionale, sia il vecchio modello statalista di matrice ottocentesca che rappresenta l’ente pubblico come erogatore del servizio e il cittadino come suddito portatore della pretesa alla prestazione, e che tanto quanto il primo esclude gli utenti dalla programmazione degli obiettivi e dal controllo dei risultati prodotti dal servizio pubblico. Il quadro si arricchisce e si complica se prendiamo in considerazione quelle pratiche di riscrittura “dal basso” delle relazioni fra persone e cose in cui si sostanziano le occupazioni di 4

P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano 1977.

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Genealogie del presente

immobili abbandonati e spazi culturali dismessi che, sempre più di frequente nelle città italiane, si richiamano ai beni comuni aspirando con ciò a superare il modello della proprietà, pubblica e privata, per affermare il valore della cooperazione sociale5. Riassumendo, se identifichiamo i beni comuni con quelle risorse sottratte allo spossessamento del comune e strettamente correlate a – ovvero direttamente costitutive di – una collettività, gestite in comune o quanto meno in modo partecipato, a prescindere dal titolo di appartenenza (sia esso corrispondente a una proprietà privata ovvero alla proprietà pubblica), non possiamo occultare o sottovalutare il potenziale di critica al sistema a essi inerente e, più precisamente, la componente conflittuale che è loro propria, se non al prezzo di mistificarne o equivocarne la sostanza6. Cosicché la distanza da un ideale di pacificazione sociale risulta netta e, in ultima analisi, irriducibile, ed è allora evidente l’ambiguità che si cela dietro l’associazione fra Bene comune e beni comuni.

2. Il Bene comune, i beni comuni e la legalità costituzionale A prima vista, tale associazione parrebbe trovare riscontro nella più nota definizione di “beni comuni” che ricorre nel dibattito italiano, quella partorita dalla Commissione Rodotà nel 2008 all’interno di una bozza di disegno di legge delega volta a riforma della disciplina dei beni contenuta nel libro III del Codice civile. Nell’articolato i beni comuni sono descritti come quelle «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». Ora, il soddisfacimento dei diritti fondamentali e il rispetto dell’autodeterminazione dei singoli sono da ritenersi senz’altro un obiettivo condiviso e sono pienamente in linea con la portata emancipatoria dei beni comuni, tanto per l’effetto di empowerment che realizzano sul piano individuale, quanto per il rafforzamento della legalità democratica che producono sul piano generale. Apparentemente, quindi, questa formula definitoria di carattere giuridico, che ritorna con insistenza nei discorsi “benecomunisti”, presta il proprio suggello all’idea che la tutela dei beni comuni sia in funzione dell’affer5 6

Rinvio sul punto a M.R. Marella, Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza, in «Lettera internazionale», n. 116, 2013, pp. 24-29. Si consenta il rinvio al mio Il diritto dei beni comuni oltre il pubblico e il privato, in G. Allegri, M.R. Allegri, A. Guerra, P. Marsocci (a cura di), Democrazia e controllo pubblico. Dalla Prima Modernità al Web, Editoriale Scientifica, Napoli 2012.

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mazione del Bene comune. Ma in realtà non è così. Come meglio vedremo in seguito, l’arendtiano diritto di avere diritti porta con sé il potenziale conflittuale proprio di ogni istanza autenticamente egalitaria e, ove coniugato all’affermazione dei beni comuni, si colora di spinte antiproprietarie che poco hanno a che vedere con l’ideale di una comunità pacificata nella tensione verso il Bene comune. Il discorso critico richiede tuttavia di essere adeguatamente articolato, poiché, come si è detto, la sovrapposizione Bene comune/beni comuni si gioca a diversi livelli e assume diverse sfumature anche in riferimento al contesto culturale e disciplinare in cui la si ritrova. Ne è un esempio lo slittamento cui i beni comuni vanno incontro quando il Bene comune cui essi dovrebbero preludere viene identificato con la legalità costituzionale. È questa la prospettiva che sceglie Salvatore Settis nel suo ultimo libro, fissando sin dal titolo uno stretto legame fra attivismo dei cittadini, bene comune e attuazione della costituzione repubblicana7. Davanti a «una gestione della crisi economica che ne accolla il peso non a chi l’ha provocata con la complicità dei governi (grande speculazione finanziaria e imprese parassitarie), bensì a tutti i cittadini»8, reclamare la difesa dei diritti individuali non appare più sufficiente: per Settis occorre richiamarsi a forti valori collettivi, al bene comune, appunto. Il ritrovato protagonismo della cittadinanza (da Occupy Wall Street alle acampade spagnole), per Settis, non deve rimanere allo stadio di puro movimentismo – movimentismo che, peraltro, nel nostro paese fatica a trovare una dimensione più generale – ma deve essere convogliato in dinamiche istituzionali. Di qui la proposta di far ricorso all’azione popolare, un istituto processuale risalente al diritto romano, in forza del quale qualunque cittadino era legittimato ad agire in nome dell’intera comunità per chiedere la sanzione di un fatto lesivo dell’interesse generale, che oggi viene riproposto da alcune costituzioni latinoamericane quale strumento di accesso alla giustizia in forma collettiva. Attraverso le azioni popolari i cittadini italiani potrebbero direttamente tutelare i valori costituzionali – la libertà, l’eguaglianza, il diritto al lavoro, ma anche la tutela dell’ambiente, della salute, della cultura, dell’arte – traditi da una politica prona all’assolutismo dei mercati e al ricatto del debito pubblico. È infatti la costituzione repubblicana il manifesto politico destinato a guidare la comunità nazionale oltre la soggezione alle politiche neoliberali verso la realizzazione del Bene comune. 7 8

Cfr. S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino 2012. Ivi, p. 3.

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Nel progetto di Settis ai beni comuni è riservato un ruolo cruciale. Essi sono distinti dal bene comune inteso in senso valoriale, ma sono strettamente connessi ai valori che la costituzione promuove (lavoro, salute, arte ecc.). E, parallelamente ma anche conseguentemente, si pongono in continuità coi beni pubblici. Del resto la teorizzazione di un continuum beni comuni-beni pubblici è in linea con un recupero del ruolo dello Stato, inteso non già come Stato-persona, bensì come Stato-comunità che si identifica nei cittadini e nella concretezza della sovranità popolare. Ecco dunque che il cerchio si chiude: il protagonismo dei cittadini si esplica attraverso la tutela dei beni comuni/pubblici nella prospettiva della realizzazione del bene comune, cioè delle finalità dello stato democratico costituzionale. L’argomento è portato a conclusioni più radicali da chi ricostruisce il comune interamente all’ombra del pubblico e ne contesta l’autonomia sul piano tecnico-giuridico nonché l’utilità sul piano euristico una volta che si assuma la piena attuazione della costituzione del 1948 quale prospettiva di trasformazione, altrettanto rivoluzionaria sì, ma, diversamente dai beni comuni – «un flauto magico verso il nulla» – saldamente radicata nella realtà del diritto9. Sennonché è proprio dall’angolo visuale del diritto dei beni comuni, per la fisionomia che esso è andato assumendo nel dibattito italiano, che progetti di questo tenore non convincono fino in fondo. In primo luogo il discorso del comune si è presto intersecato con una discussione vivace e seria sull’attualità della costituzione repubblicana10. Che la globalizzazione abbia messo in crisi il costituzionalismo moderno è una realtà con cui gli stessi costituzionalisti fanno i conti11. E poiché i beni comuni e le lotte che li accompagnano hanno sempre, direttamente o indirettamente, una dimensione transnazionale e globale, ne consegue che crisi del costituzionalismo e rivendicazione dei beni comuni non sono questioni impermeabili l’una all’altra, ma al contrario hanno significativi punti di contatto. Infatti lo spossessamento del comune è spesso direttamente orchestrato a livello globale dalla partnership fra imprese multinazionali, stati sovrani e istituzioni della globalizzazione (World Bank in testa): ne sono un esempio il land grabbing nell’Africa subsahariana, in molti paesi

9 10 11

Cfr. A. Algostino, Riflessioni sui beni comuni tra il “pubblico” e la Costituzione, in «Costituzionalismo.it», fasc. 3, 2013, reperibile su www.costituzionalismo.it. Per una sintesi cfr. Collettivo Uninomade, La costituzione del comune; e Id., Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria, entrambi reperibili su www. uninomade.org. Cfr. G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, RomaBari 2013.

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dell’Asia e persino in Canada12, così come le operazioni di privatizzazione dell’acqua che hanno colpito intere popolazioni nel Sud del mondo, e non solo. Tuttavia, anche quando il «saccheggio»13 è interamente da imputare all’iniziativa dei governi nazionali e ha dimensioni locali, come nel caso della privatizzazione dei servizi o della svendita del patrimonio pubblico, l’incanto neoliberale della forza emancipatoria del mercato, prima, e le politiche di austerità dettate dall’indebitamento degli stati, poi, ci narrano di una riconfigurazione della sovranità degli stati che cede al livello sovranazionale molte sue prerogative tanto da non poter ormai essere pensata fuori dalle dinamiche della globalizzazione. Tutto ciò comporta necessariamente una perdita di centralità delle costituzioni e una rimodulazione della gerarchia delle fonti, nonché, sul piano dei contenuti, un attacco mirato ai contenuti sociali delle carte del secondo dopoguerra, come messo in evidenza dal tenore dei progetti di revisione della costituzione italiana e dall’introduzione al suo interno del principio del pareggio di bilancio. Con il che promuovere l’orizzonte costituzionale come prospettiva futura (“del bene comune”) rischia di apparire un’operazione di retroguardia se non corredata dalla presa d’atto delle trasformazioni in corso e dal disincanto che ciò necessariamente comporta. Anche perché svalutare i varchi “verso il nuovo” aperti anche nel diritto dai beni comuni per riportare il Bene comune dentro l’orbita della costituzione gioca su un non detto che andrebbe infine svelato: se il bene comune, o comunque voglia chiamarsi l’obiettivo perseguito, sia la costruzione di un’alternativa al capitalismo, come parrebbe di capire dalla vibrante condanna delle devastazioni ambientali e sociali imputabili alle politiche neoliberali e alla finanziarizzazione dell’economia, o sia invece qualcosa d’altro. Perché, nel primo caso, l’orizzonte della legalità costituzionale non appare sufficiente allo scopo, ponendosi il progetto costituzionale non come alternativo al capitalismo, ma al contrario iscritto nel momento «sociale»14 della sua fase fordista. Mentre nel secondo caso, cioè nel caso in cui il bene comune si identifichi con “qualcosa d’altro”, e dunque con la ricerca di una soluzione riformista, l’obiettivo assume il sapore di un’operazione nostalgica, giacché il disegno 12 13 14

Cfr. L. Paoloni, Land grabbing e beni comuni, in Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., p. 139. Cfr. U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Bruno Mondadori, Milano 2010; P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011. Cfr. D. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thought: 1850-2000, in D.M. Trubek, A. Santos (a cura di), The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, Cambridge University Press, New York 2006, pp. 19-73.

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politico consegnato al testo costituzionale fa leva su quelle istituzioni – lo stato sociale, il lavoro, la socialdemocrazia – che sono andate in crisi insieme al fordismo. E che oggi non sono più in grado di realizzare quei valori costituzionali – la libertà, l’eguaglianza, la dignità sociale, la solidarietà – che tutti riconosciamo ancora validi. Provo ad addentrarmi un poco nella complessità del tema per evitare di renderne un quadro eccessivamente banale. Nella costituzione la proprietà è pubblica o privata. La proprietà privata, conformata dalla funzione sociale, è riconosciuta e garantita. I beni comuni non sono contemplati né si fa menzione delle proprietà collettive di cui in sede costituente si discusse per poi decidere di assorbirle nel pubblico (o nel privato). Tanto rende il progetto costituzionale e la dimensione del comune, intesa come dimensione collettiva che scardina in qualche modo la rigidità della dicotomia pubblico/privato, non immediatamente armonizzabili. Il tentativo più fortunato di superare l’ostacolo sta in una rilettura della funzione sociale secondo cui la proprietà dei beni comuni, pubblica o privata che sia, è intrinsecamente limitata dalla facoltà di accesso e uso riconosciute a chiunque abbia un interesse conforme alla natura del bene15. Si tratta di una interpretazione avanzata, distante, almeno in apparenza, da un’impostazione originaria che leggeva la funzione sociale, in piena coerenza con il sistema capitalistico, come quel principio che consente a una società moderna che riconosca la proprietà dei beni di trarre da essa vantaggi adeguati16. Il che induce altri a ridimensionarne la portata trasformativa in riferimento ai beni comuni, riconoscendo tutt’al più la possibilità di un uso tattico di ciò che resta comunque un dispositivo appartenente per intero a una fase ormai passata della cultura giuridica17. Ma questa polarizzazione, se da una lato tiene in considerazione la relatività storica delle regole e degli istituti giuridici, dall’altra trascura l’indeterminatezza ovvero la flessibilità delle forme 15

16 17

In tal senso S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., pp. 311-332. Su questa linea è anche U. Mattei, Una primavera di movimento per la “funzione sociale della proprietà”, in «Rivista critica del diritto privato», 2013 (in corso di pubblicazione). Cfr. S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», fasc. 4, 1960, pp. 1252-1341. Cfr. M.R. Marella, Il principio costituzionale della funzione sociale della proprietà e le spinte antiproprietarie dell’oggi, in G. Alpa, V. Roppo (a cura di), La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 105; L. Nivarra, La funzione sociale della proprietà: dalla strategia alla tattica, in «Rivista critica del diritto privato», 2013 (in corso di pubblicazione).

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giuridiche, la loro intrinseca capacità di dar voce a progetti anche distanti fra loro. Da questo punto di vista, che è quello proprio di una prospettiva critica al diritto18, appare inutile (e sbagliato) denunciare l’egoismo proprietario, quando è possibile – tanto più in presenza della previsione costituzionale della funzione sociale – argomentare in favore di assetti proprietari “altruisti”, che consentano l’accesso alle risorse a chi sia portatore di interessi di una data rilevanza. Non per questo, però, l’identificazione della costituzione con il Bene comune offre soluzioni concrete agli scenari aperti dal capitalismo finanziario. Un approccio non dogmatico (o idealista) impone di guardare senza infingimenti a come la proprietà della costituzione ha preso realmente corpo nel sistema giuridico vigente. Costatiamo allora che le regole operazionali che è possibile desumere dalla giurisprudenza costituzionale hanno di molto ridotto la carica trasformativa del principio della funzione sociale, giacché l’idea giusnaturalista del contenuto minimo intangibile propugnata dalla Consulta ha presto spuntato l’arma della proprietà conformata, con la quale una parte della dottrina e la legislazione d’ispirazione sociale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento avevano tentato di dare voce alle potenzialità marcatamente redistributive della funzione sociale. Come noto, sin dalla metà degli anni Sessanta ogni limite consistente alle facoltà proprietarie è stato letto dalla Corte come una forma di espropriazione indennizzabile e ciò ha portato quasi senza soluzione di continuità a una lettura del dettato costituzionale compatibile con il nuovo scenario europeo, nel quale il ritorno alla proprietà = diritto umano (art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della CEDU) e all’equazione proprietà = libertà (art. 17 della Carta di Nizza) si rinnova nei connotati propri dell’economia neoliberale. Riassumendo, il riconfigurarsi del sistema delle fonti del diritto che accompagna i processi di globalizzazione vede da una parte una perdita di centralità delle costituzioni nazionali e dall’altra, quanto meno nel contesto europeo, una penetrazione al loro interno di nuovi principi, estranei nell’ispirazione all’impianto originario. Il diritto di rango costituzionale che ne risulta è secondo l’opinione maggioritaria poco sensibile a finalità di perequazione sociale, tanto da perdere la vocazione emancipatoria che connotava le costituzioni del dopoguerra. E i beni comuni? Arduo rintracciarli nell’agenda delle democrazie europee, la cui risposta alla crisi

18

Secondo la scholarship ascrivibile al movimento dei Critical Legal Studies, di cui si veda, con specifico riferimento agli istituti del diritto privato, innanzitutto D. Kennedy, Form and Substance in Private Law Adjudication, in «Harvard Law Review», n. 89, 1976, pp. 1685-1778.

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economica continua a essere cercata nella tradizionale tensione fra pubblico e privato, pur rimodulata nelle forme di una partnership fra stato – o agenzie pubbliche di varia natura – e imprese private con trade-offs invariabilmente a vantaggio di queste ultime e a svantaggio della collettività, come creazione di nuova urbanizzazione e costruzione di infrastrutture/ grandi opere bene mettono in evidenza. In questo quadro – e tornando alla vicenda italiana – non sembra che invocare la realizzazione del progetto costituzionale, eventualmente rappresentata come coronamento del Bene comune, sia sufficiente a restituirgli la forza emancipatoria perduta. La crisi del costituzionalismo moderno è in atto e può essere superata solo se esso stesso saprà farsi interprete di nuovi conflitti19. Al momento, insomma, i beni comuni non sono i beni pubblici perché i beni pubblici non sono pensati e gestiti come beni comuni20: a tutto concedere, questa sovrapposizione diverrà plausibile se la costituzione potrà essere riletta e applicata alla luce della conflittualità sociale che si esprime in forme rinnovate anche attraverso le rivendicazioni dei commons. In questa direzione mi pare si muova Rodotà quando propone un’interpretazione dell’art. 42 della costituzione, al secondo comma, che comprime radicalmente le prerogative dominicali in nome dell’accesso ai beni comuni, in ciò segnando però una cesura netta rispetto al regime proprietario che è venuto consolidandosi all’ombra della costituzione. In sostanza, se la dimensione del comune non apre una fase costituente, quanto meno indica il cammino verso una nuova legalità nella quale, per esempio, il riconoscimento della liceità di un’occupazione non sia meramente residuale, cioè configurabile solo quando la proprietà è esercitata illegittimamente; nella quale cioè la funzione sociale e la costituzione nel suo complesso non siano più una tattica di difesa del comune ma diventino strategia. Al momento però il transito verso una nuova legalità costituzionale non è compiuto e non si danno le premesse per una riscrittura del pubblico alla luce del comune. C’è invece il diritto europeo. Da cui bisogna comunque ripartire. Per andare avanti, non indietro.

19 20

Cfr. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, cit., spec. pp. 158 ss. Sul piano operazionale richiamarsi alla cittadinanza democratica progettata dalla costituzione, come fa Algostino (Riflessioni sui beni comuni, cit., n. 83), non cambia, ahimè, il quadro di una virgola.

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3. Beni comuni & Bene comune reloaded: suggestioni neoliberali e neopaternaliste Un altro modo, più aggiornato, di tracciare un rapporto di continuità fra beni comuni e pubblico quale vettore del Bene comune si ritrova nella sussidiarietà orizzontale. Si tratta di una proposta che definisco più aggiornata in quanto maggiormente in linea con le retoriche proprie della fase di globalizzazione che stiamo attraversando. Per sussidiarietà orizzontale si intende un modello organizzativo delle pubbliche funzioni che prevede forme di collaborazione fra settore pubblico e settore privato e, più precisamente, lo svolgimento di attività di interesse generale da parte di privati cittadini sulla base di un accordo con l’istituzione pubblica titolare delle relative competenze. Il principio di sussidiarietà orizzontale è strettamente connesso all’idea di partecipazione e di democrazia partecipativa, ma mentre in quest’ultima la collaborazione dei privati riguarda essenzialmente i processi decisionali, «nel modello della sussidiarietà la collaborazione si spinge fino al piano dell’attuazione concreta delle decisioni, grazie alla promozione di forme di empowerment della società civile»21. Questo principio ha trovato accoglienza in Italia con le riforme amministrative degli anni Novanta ed è poi stato consacrato dall’art. 118 della costituzione – come riformulato dalla riforma c.d. del Titolo V, nel 2001 – che all’ultimo comma dispone che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». In virtù di ciò è dunque possibile l’attribuzione/condivisione di funzioni pubbliche al di fuori del tradizionale contesto istituzionale in linea con la logica della governance multilivello che connota il riconfigurarsi della sovranità statale tipico di questa fase e che nel caso di specie si sviluppa appunto secondo una prospettiva orizzontale, di collaborazione fra istituzione pubblica e cittadinanza. Cos’ha tutto ciò a che fare con il comune? Poco, se si assume una nozione conflittuale di comune, come chi scrive. Al contrario, i sostenitori della sussidiarietà orizzontale individuano in essa la dimensione ideale della tutela dei beni comuni. Concetto chiave in questo contesto discorsivo è quello di “cittadinanza attiva”, che indica chi partecipa in modo consapevole «alla vita politica e sociale del territorio in cui vive, motivato dall’intento di contribuire alla tutela del bene comune (c. n.) e al perseguimento 21

F. De Toffol, A. Valastro, Dizionario di democrazia partecipativa, a cura del Centro Studi Giuridici e Politici della Regione Umbria, 2012, p. 146.

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dell’interesse generale attraverso proprie autonome iniziative»22. Nelle parole di uno dei massimi teorici italiani della sussidiarietà, Gregorio Arena, «è come se i cittadini oggi venissero chiamati in aiuto dell’amministrazione pubblica, delle istituzioni […] perché da sole non ce la possono più fare». È dunque vero che «ognuno di noi può prendersi cura della propria scuola, del proprio quartiere, della propria città, come fossero nostre, ciò che in effetti è»23. Del resto, gli esempi che vengono portati a testimonianza delle potenzialità trasformative della cosiddetta cittadinanza attiva sono poi la cura di un monumento cittadino, la manutenzione stradale, la bonifica del cortile di una scuola (magari cancellando i graffiti fatti dagli studenti “cattivi”): tutte cose che avvengono nel pieno rispetto delle politiche pubbliche e in conformità con le finalità da esse perseguite, sia in termini di individuazione e condivisione degli obiettivi, sia in termini di controllo delle modalità di realizzazione degli stessi da parte delle amministrazioni pubbliche competenti. Ma soprattutto in un clima, anche qui, di comunitarismo rugiadoso, nel quale il conflitto sociale è del tutto obliterato, lo scontro fra valori in conflitto risolto a monte e i cittadini si organizzano e agiscono all’ombra di un paternalismo (statale) di nuova generazione, pienamente conforme alle esigenze della governance neoliberale. Per contro, l’occupazione di appartamenti sfitti da parte di chi è senza casa, la difesa dell’originaria destinazione culturale di un cinema storico che il legittimo proprietario vuole destinare a sala giochi non saranno mai in linea con gli obiettivi indicati dalle istituzioni pubbliche, sebbene perfettamente in linea con l’affermazione dei diritti fondamentali – all’abitare, alla cultura, in questi casi – degli occupanti. Queste pratiche – che alla stregua del dibattito corrente rappresentano esempi di lotta per i beni comuni – risultano invece del tutto estranee ai programmi della cittadinanza attiva. Non saranno mai considerate funzionali alla realizzazione del Bene comune e neppure alla difesa dei beni comuni. Siamo infatti da tutt’altra parte, in una dimensione in cui sono patenti le spinte antiproprietarie ed è patente la dimensione del conflitto, poiché l’obiettivo è non già tentare di porre rimedio alle carenze dell’azione amministrativa nella gestione dei beni pubblici, bensì restituire all’uso comune ciò che è stato catturato dai dispositivi pubblico-privatistici di appartenenza esclusiva.

22 23

Ivi, p. 49. http://www.youtube.com/watch?v=uVHtu4X7WW8.

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4. Per concludere: le sirene della democrazia deliberativa e la tenuta della contrapposizione beni comuni/Bene comune Ci si può chiedere in conclusione se il conflitto di cui i beni comuni sono portatori possa essere gestito con il metodo della deliberazione, se la democrazia deliberativa sia all that participation is about, e se, dunque, non sia questa la via per ricongiungere finalmente i beni comuni al Bene comune. Premetto che il tema è complesso e meriterebbe ben altro spazio. Senza alcuna pretesa di esaustività, mi soffermo brevemente sull’associazione proprietà-deliberazione e sugli sviluppi che essa dovrebbe comportare per il regime dei beni comuni. Di recente si è infatti proposto di leggere l’emergere di nuove tipologie di appartenenza, i beni comuni fra esse, come istituzioni sociali rette da procedure deliberative24. Il tentativo ha il merito di attribuire alla gestione c.d. partecipata dei beni comuni un contenuto sufficientemente definito, cosa che nel dibattito italiano risulta per lo più carente, giacché in proposito ricorrono formule suggestive ed eterogenee fra loro – autogoverno, istituzioni del comune, o semplicemente gestione partecipativa – cui risulta difficile ricondurre un significato preciso. La teoria della democrazia deliberativa propone invece forme di proceduralizzazione delle decisioni collettive alquanto definite e consolidate. E l’idea di un’arena deliberativa25, in cui tutti gli interessi in gioco si confrontano apertamente sulla base di argomenti razionali portati da soggetti che si assumono liberi e uguali, sembra dare concretezza alle istanze di partecipazione che accompagnano le lotte per i beni comuni, dall’acqua al governo dello spazio urbano. C’è però da chiedersi se il progetto politico che fa capo ai beni comuni davvero richieda – o tolleri – il ricorso agli strumenti della democrazia deliberativa e all’ideologia che li supporta. Rispetto ad altri progetti che associano la cura dei beni comuni al Bene comune, il metodo deliberativo ha il pregio di non occultare il conflitto, che invece è assunto come un dato che si ritiene possa essere efficacemente analizzato e amministrato attraverso il confronto fra le ragioni avanzate da ognuna delle parti portatrici di interessi. L’attitudine di ciascuno all’ascolto e la ricerca della razionalità degli argomenti presentati garantiscono, in 24

25

Cfr. A. di Robilant, Property and Deliberation. The Numerus Clausus Principle, New Property Forms and New Property Values, reperibile su www.law.harvard. edu/programs/about/privatelaw/related-content/di_robilant_property_and_ deliberation.pdf. Per una prima informazione cfr. De Toffol, Valastro, Dizionario di democrazia partecipativa, cit., pp. 32-33.

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quest’ottica, una gestione delle opinioni e degli interessi contrastanti che, in virtù delle caratteristiche ora ricordate, necessariamente sfocia nella assunzione della decisione migliore per la comunità, compiuta nel rispetto del pluralismo dei valori che essa esprime. Tanto, senza neppure bisogno di esplicitarlo, porta alla realizzazione del Bene comune che, in ultima analisi, è realizzazione della democrazia stessa. Tuttavia la visione delle relazioni sociali che il metodo deliberativo propone, non diversamente da quanto visto in precedenza, appare poco aderente alla realtà, tanto meno alle dinamiche innescate dalla crisi finanziaria. Sono perciò da condividere le critiche più comunemente rivolte alla deliberative democracy, che mettono in evidenza come, date condizioni di disuguaglianza economica e sociale fra i soggetti potenzialmente riguardati dalla deliberazione, tale diseguaglianza si riproduce nel processo deliberativo, viziandolo. Senza contare che il divario abissale di potere fra haves e have-nots generato dal capitalismo finanziario, la forte ideologizzazione che connota le forme “istituzionalizzate” di accaparramento del comune, la frequente opacità dei portatori di interessi speculativi rendono l’arena deliberativa uno scenario inverosimile (o al contrario, uno scenario cruento, da Thunderdome26). In riferimento ai beni comuni, poi, l’associazione deliberazione-proprietà sembrerebbe tendere a esaltare i valori di cui la proprietà è portatrice, mentre il discorso dei beni comuni e le lotte che a essi si accompagnano tendono piuttosto a delegittimare lo ius excludendi alios, cuore della proprietà. Al di là questi rilievi più generali, deve notarsi che la proposta di governare i beni comuni attraverso i processi deliberativi sembra calibrata principalmente sulle istanze di partecipazione alla gestione di alcuni servizi pubblici, come ad es. il servizio idrico integrato27. E ci si può immaginare che istituzioni che sono volte a soddisfare diritti fondamentali e si declinano come beni comuni, quali la scuola, l’università, il sistema sanitario, possano trovare nel processo deliberativo un metodo di gestione che dia voce alla comunità degli “utenti”, ossia, nel caso soprattutto dell’istruzione pubblica, che attivi la partecipazione di chi – studenti, docenti, personale amministrativo – dà vita all’istituzione meglio dei meccanismi rappresentativi attualmente operanti.

26 27

La suggestione è tratta dal film Mad Max – Oltre la sfera del tuono: nella città di Bartertown le controversie si risolvono nel Thunderdome, sorta di Colosseo in cui le ragioni si fanno valere combattendo fino alla morte di uno dei contendenti. Cfr. di Robilant, Property and Deliberation, cit.

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Ma quando è la proprietà nel suo senso più classico a essere investita dai conflitti ingenerati dai beni comuni, il discorso cambia di registro, perché allora si tratta di incidere sulle prerogative proprietarie, di far valere l’istanza egalitaria che la rivendicazione dei diritti porta con sé, restituendo la concretezza dei rapporti di forza che regolano la società. Di nominare la class violence28 che impone di disarticolare la proprietà29. Vedi anche: Costituzione, Legalità, Sacrificio

28 29

Cfr. D. Kennedy, The Effect of the Warranty of Habitability on Low Income Housing: “Milking” and Class Violence, in «Florida State University Law Review», n. 15, 1987, pp. 485-519. Per una discussione rinvio a D. Kennedy, A. Negri, S. Rodotà et al. in M.R. Marella (a cura di), Disarticolare la proprietà. I beni comuni e le possibilità del diritto (in corso di pubblicazione).

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ADALGISO AMENDOLA

COSTITUZIONE Crisi della mediazione e nuovi processi costituenti

1. Il concetto di costituzione è estremamente stratificato: pur essendo un campo continuamente lavorato dai giuristi, sfugge al loro monopolio, e si distende costantemente oltre i saperi disciplinari. Eppure, è anche uno degli strumenti attraverso i quali la scienza giuridica ha esercitato con più forza la sua pulsione ordinativa, quella spinta alla reductio ad unum che – almeno se intesa come scienza giuridica moderna – ha costantemente segnato il suo metodo. Da questo punto di vista, il tema della costituzione si colloca esattamente all’incrocio tra la funzione di produzione di unità, che il diritto statuale ha avuto costantemente come suo orizzonte, e la costante difficoltà a realizzare effettivamente tale funzione. Nella modernità, la scienza giuridica ha dovuto costantemente fare i conti con un difficile dualismo: da un lato, la propria vocazione centripeta a costruire, progettare, legittimare la costruzione unitaria dello Stato moderno; dall’altro, l’opposta tendenza centrifuga, disordinante, eccentrica dei soggetti che l’edificio statuale pretendeva di ordinare. Il problema della costituzione – almeno nei suoi significati moderni – può essere letto proprio come il tentativo, sempre difficile e continuamente rimesso in discussione, di mediare tra questi due lati: la costituzione moderna è, in sintesi, il tentativo di chiudere la scissione tra movimento dei soggetti e forma politica unitaria. La costituzione è il nome delle diverse soluzioni offerte al problema di questa impossibile mediazione1. La prima scena è quella della “costituzione”, appunto, del corpo politico sovrano. Costituire il corpo politico significa, per Hobbes, affermare la 1

Sulla tensione tra unità del corpo politico e soggetti e sulle aporie della costituzione moderna, è essenziale G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Franco Angeli, Milano 2003; sul rapporto costituzione-costituzionalismo-ordine politico, cfr. P. Schiera, Tra costituzione e costituzionalismo (costituito e costituente). Appunti sul mutamento costituzionale (ricostituente), in M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (a cura di), Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, Polimetrica, Milano 2008, pp. 79-92.

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trascendenza del potere sovrano sulle articolazioni del corpo sociale e chiudere, quindi, attraverso la trascendenza del potere, il dualismo che la crisi della modernità aveva aperto. La sovranità come chiave della costituzione del corpo politico rompe le letture propriamente costituzionaliste – di diverso segno – che si erano sino ad allora affermate: il sistema dei checks and balances, di origine classica e di matrice polibiana, è battuto in breccia in quanto modello statico e ripetitivo, che non può assicurare la forza costruttiva necessaria alla edificazione del nuovo ordine2. Ma la sovranità hobbesiana ha come suo avversario anche il discorso machiavelliano, che aveva tentato di pensare il problema della costituzione del corpo politico secondo una modalità dinamica e immanente alle forze e dalle energie che la stagione umanistica aveva liberato, aprendo per un attimo una strada alternativa rispetto a quella dell’affermazione della trascendenza sovrana del potere. La sovranità si afferma, quindi, contro l’antico costituzionalismo, da un lato, e contro la forza della prudenza machiavelliana dall’altro. Ma non per questo il problema del dualismo tra soggetti e ordine sovrano è risolto. Anche se la forza della sovranità riesce effettivamente a rompere l’antico equilibrio tra iurisdictio e gubernaculum, e così ad archiviare l’originale significato garantistico del costituzionalismo, l’assolutismo non risolve davvero il problema della costituzione. Anzi, il dualismo tra forma politica e soggetti, tra unità e pluralità, eliminato teoricamente dalla forza costruttiva dell’artificio sovrano, si riapre continuamente proprio all’interno di quell’artificio. La sovranità assoluta, come strumento di sicurezza e salvaguardia della vita, proprio per la misura di imprevedibilità che contiene, rischia, infatti, di trasformarsi continuamente in una nuova insicurezza per i soggetti che hanno scambiato la propria obbedienza con la promessa di protezione. Nata per produrre ordine politico e unità, la machina machinarum hobbesiana mostra invece una fortissima instabilità, una tensione continua ad una nuova divaricazione tra vita e forma politica, tra ordine e soggetti3. 2. Il problema della mediazione dei soggetti, degli interessi, quindi si riaffaccia continuamente, contro la presunta soluzione della sovranità assoluta. L’impresa del costituzionalismo garantistico sta, a questo punto, 2 3

Classica ricostruzione dell’opposizione tra costituzionalismo e sovranità è Ch.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1940), il Mulino, Bologna 1990. L’instabilità nel cuore dello costruzione hobbesiana è ben vista, seppure in nome di una malcelata nostalgia per un concetto integrale di ordine comunitario, da Carl Schmitt nei suoi scritti hobbesiani, e in particolare in Lo Stato come meccanismo in Hobbes e Cartesio (1937), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986, pp. 45-59, dove si veda anche l’Introduzione di Carlo Galli.

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proprio in questo: trovare l’equilibrio tra la “costituzione” come soluzione del problema dell’unità della forma politica, così come era stata offerta dai teorici della sovranità assoluta, e la “costituzione” nel suo significato garantistico, così come derivava dall’antico equilibrio medievale tra gubernaculum e iurisdictio. Una prima risposta è far riemergere, appunto, la iurisdictio, e con essa, quel che resta della costituzione come «antica legge del regno», come garanzia, eredità degli antichi privilegi, interpretati come immanenti alla common law e alla sua tradizione storica. In parte, sarà la strada seguita dal costituzionalismo inglese, diviso tra il recupero della common law e le varie soluzioni di mediazione con il contrattualismo giusnaturalista (si pensi, per esempio, per restare ai tempi hobbesiani, all’opera di John Selden e alla sua opera di mediazione tra contratto e ancient law4). Più innovativa, più decisa nel trovare un equilibrio che accogliesse la nuova spinta della borghesia produttiva, è la soluzione trovata dal contrattualismo lockiano, che riscrive decisamente il senso garantistico del costituzionalismo attorno a un nuovo e ben saldo concetto di proprietà, quello prodotto dalla razionalizzazione della produzione agricola, dalle enclosures e dalla conseguente distruzione dei commons5. Il contrattualismo di Locke apre così a un costituzionalismo chiaramente fondato sull’idea di diritti naturali, antecedenti la sovranità e rivendicabili, al limite, anche contro di essa. Ma, perché questa idea di diritti naturali potesse affermarsi senza riaprire quella crisi che neppure l’assolutismo hobbesiano era riuscito a risolvere, occorreva intervenire sul lato dei soggetti. Il costituzionalismo dei diritti poteva costruirsi solo a patto di produrre un suo soggetto, il soggetto giuridico proprietario. È questa esattamente l’impresa lockiana: non poteva esistere, di fronte al problema della costituzione come unità politica nei termini radicali in cui era stata posta da Hobbes e dalla teoria della sovranità, alcuna soluzione che non riprendesse tutta la faccenda non solo dal lato dell’ordine e della forma, ma precisamente dal lato della formazione del soggetto. Ma, per riuscire nell’intento, il diritto doveva, per la prima volta in modo così esplicito, chiamare a protagonista il lavoro. 4

5

Su Selden, ma soprattutto sul difficile equilibrio di transizione tra contrattualismo, sovranità e costituzione come ancient law, cfr. S. Caruso, La miglior legge del Regno. Consuetudine, diritto naturale e contratto nel pensiero e nell’epoca di John Selden (1584-1654), Giuffré, Milano 2001. Su Locke, le enclosures e i commons, cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011, nonché L. Coccoli, Idee del Comune. Un quadro storico-filosofico, in M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2012, pp. 31-42.

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Proprietà e lavoro si definiscono, da questo momento, come i due poli in cui si articola la “costituzione” del soggetto di diritti, quel soggetto che può fungere, in questo modello di ordine costituzionale, sia da fonte della legittimazione del potere – e quindi rispondere al problema della costruzione dell’unità politica – sia da limite del potere stesso, e quindi tracciare la linea dei diritti e delle garanzie. Il lavoro legittima la proprietà, la separazione della cosa lavorata dal “comune”. Ma l’impresa di Locke sta nella chiarezza con cui la legittimazione della proprietà attraverso il lavoro viene ricondotta alla stessa costituzione proprietaria interna al soggetto: il lavoro legittima la proprietà, ma può farlo in quanto il soggetto è concepito esso stesso come proprietario della propria forza psicofisica. È la proprietà sulla propria persona la prima, fondativa proprietà, ed è attraverso di essa che si costituisce l’homo legalis6. Per dirla in breve: la mediazione liberale “forte” tra costituzione come forma e costituzione come garanzia avviene nel segno della proprietà come condizione trascendentale di possibilità del soggetto, e, insieme, del suo “patto” con la sovranità. 3. Neanche la mediazione liberale lockiana può però chiudere la tensione tra costituzione come affermazione dell’unità politica e costituzione come garanzia dei diritti. Le due anime della costituzione – legittimazione/fondazione dell’unità politica da un lato, limite all’esercizio del potere dall’altro – equilibrate nel compromesso liberale, tornano infatti a manifestare la propria tensione all’interno dei grandi momenti rivoluzionari americano e francese. La tensione non può che riesplodere quando il problema della costituzione conosce un’intensa politicizzazione, dovendo essere affrontato come momento di rifondazione dell’unità politica, di reinvenzione del corpo politico. L’equilibrio tra soggetto proprietario e sovrano garante è rimesso completamente in discussione, infatti, quando la dichiarazione dei diritti diventa “legge fondamentale” scritta che è chiamata a sancire l’atto fondativo di una nuova unità politica. Il compromesso che tiene insieme il lato dei soggetti e il lato dell’ordine, il lato della costituzione-garanzia e il lato della costituzione-ordine, si muove allora verso un tentativo di nuova fondazione, di “ritorno ai principi”, di riapertura in qualche misura di quel momento machiavelliano che aveva inteso il costituirsi dello spazio politico come un processo conflittua-

6

Sull’individualismo proprietario e la costituzione della società borghese, cfr. l’oramai classico studio di C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), ISEDI, Milano 1978.

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le aperto, e contro il quale Hobbes aveva costruito il suo modello statuale di neutralizzazione sovrana dei conflitti7. Così tra Paine e Jefferson, tra la costituzione della Pennsylvania e la Dichiarazione, la costituzione sembra rompere una buona volta con il suo destino di compromesso dualistico tra dinamicità della borghesia e sicurezza del comando politico sovrano, e nutrirsi di una nuova creatività repubblicana. Nel momento americano, il lato del movimento delle soggettività sociali e quello della produzione di forma politica sembrano allora finalmente annodarsi in un rapporto processuale aperto: è l’emergere, nel discorso costituzionale, del potere costituente, che inquieta profondamente il costituzionalismo, sino a costituirsi come crisi e rottura dell’equilibrio costituzionalistico stesso. E però, neanche la sua radicale “alterità” rispetto sia alla costituzione-garanzia che alla costituzione-forma politica è forte abbastanza da non riproporre, ancora una volta, nuove figure della mediazione. Il potere costituente viene allora in qualche modo re-inscritto in figure di compromesso “costituzionale”, sia pure di un compromesso costituzionale avanzato, che segnerà profondamente tutta la storia del costituzionalismo contemporaneo. Sul versante americano, il processo costituente democratico, l’emersione del we, the people, il momento jeffersoniano della rivoluzione, deve fare i conti con la costruzione di una progressiva giurisdizionalizzazione dell’equilibrio costituzionale: costituzione scritta, e, soprattutto, una tripartizione dei poteri che affida un inedito ruolo di custode dei diritti alla Corte Suprema, secondo un modello che nel Novecento non tarderà a far sentire la sua grande influenza anche nell’Europa continentale. Sul versante francese, il potere costituente fa i conti con la forza della dottrina della sovranità, all’interno della quale è destinata a riassorbirsi facilmente, una volta svuotata delle sue pulsioni più democratiche, la roussoviana volontà generale; e, soprattutto, acquista una nuova centralità il concetto di rappresentanza, quale difficile mediazione tra massima apertura al dinamismo della borghesia ed esigenza di mantenere l’unità della forma politica8. Nuovamente, dopo l’emersione del potere costituente nel momento rivoluzionario, la costituzione si ristabilisce come equilibrio, anche 7

8

Sull’influenza del repubblicanesimo machiavelliano sulla rivoluzione americana, ancora imprescindibile è J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, vol. II: La “repubblica” nel pensiero politico anglosassone (1975), il Mulino, Bologna 1980. Sulle vicende del potere costituente nelle due rivoluzioni, e sulle varie modalità del suo riassorbimento nell’equilibrio “costituzionalista”, cfr. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, manifestolibri, Roma 2002, in part. i capp. IV e V.

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se oramai non si tratta più del compromesso di una borghesia sconfitta con lo stato assoluto vincente, ma dell’inserimento della nuova egemonia borghese nelle strutture portanti della statualità sovrana. Ma, questa nuova costituzione liberale – anche nella sua versione di mediazione rafforzata “dopo” il momento rivoluzionario – conserva comunque la traccia conflittuale di un’esclusione. L’esclusione appunto del momento costituente, delle effettive rotture con le mediazioni costituzionaliste che le esperienze rivoluzionarie avevano comportato: che è come dire, più concretamente, l’esclusione di quella lotta di classe che la seconda parte dell’Ottocento getterà nuovamente fra i piedi dei difficili equilibri costituzionali appena raggiunti. 4. La rappresentanza, come veniva fuori dall’esperienza rivoluzionaria francese, diventa ben presto l’asse portante della costituzione liberale. Ma la seconda parte dell’Ottocento, e, soprattutto, la nuova epoca che si apre dopo la Grande Guerra, mostra definitivamente i limiti della mediazione offerta dalla costituzione borghese. Risulta impossibile mediare nelle sue forme le nuove soggettività collettive che emergono dall’avanzare dell’industrializzazione e dalle esperienze organizzative e di lotta del movimento operaio. Il laboratorio Weimar si confronta con particolare forza con il problema della mediazione costituzionale del lavoro9: lo fa appoggiandosi ai soggetti collettivi che emergono nella produzione industriale, nell’ambito di una complessiva trasformazione della costituzione stessa. La dottrina giuspubblicistica abbandona così la soluzione formale e rappresentativa su cui si era attestato il precedente equilibrio e allarga il gioco tra costituzione “formale” e costituzione “materiale”, in modo da accogliere i nuovi soggetti e i nuovi conflitti come elemento interno dell’ordine costituzionale: la stessa lotta di classe va ora assunta come elemento costruttivo, e, alla fine, integrativo dell’ordine costituzionale democratico. Tra le due guerre, l’assunzione di politiche keynesiane, come risposta alla crisi del ’29, approfondisce ancora questa nuova articolazione, e rende possibile lo sviluppo di una cittadinanza costruita attorno ai diritti sociali. Nell’esperienza roosveltiana, la costituzionalizzazione del lavoro e la strutturazione dell’intero equilibrio costituzionale attorno al modello integrativo offerto dal Welfare State diventano elementi essenziali dell’opposizione di un ordine costituzionale avanzato al fascismo e al nazismo. Questo modello di costituzioni del lavoro segnerà poi profondamente il 9

Cfr. G. Arrigo, G. Vardaro (a cura di), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista, Edizioni Lavoro, Roma 1982.

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costituzionalismo del secondo dopoguerra, a partire proprio da Germania e Italia, le nazioni uscite dal nazifascismo10. Queste costituzioni hanno caratteristiche oramai molto lontane dalla costituzione-garanzia: ma, a sua volta, anche la costituzione-forma politica qui è completamente trasformata dalla pressione dei processi di sempre più ampia socializzazione del lavoro. Le costituzioni della seconda parte del Novecento diventano così costituzioni lunghe e rigide: soprattutto, ampliano notevolmente la sfera della cittadinanza, o meglio la intensificano e la trasformano attraverso il riconoscimento dei diritti sociali. La costituzione non serve più a rendere possibile il mercato, a “garantirlo”: anzi, la mediazione costituzionale si rafforza ora introducendo molti elementi di programmazione economica, se non decisamente di pianificazione. La Costituzione italiana del 1946, in questo quadro, si presenta decisamente come una costituzione del lavoro, o, meglio, come un programma di integrazione costituzionale del lavoro da realizzarsi progressivamente. Eppure, anche la mediazione welfaristica delle costituzioni del lavoro non riesce a non riprodurre quel dualismo soggetti/ordine che attraversa tutta la genealogia della costituzione, e ne rompe continuamente la tensione verso la produzione di unità politica: la stessa mediazione del lavoro realizzata dallo Stato-piano genera una trasformazione del quadro costituzionale tale da riattivare spazi di conflitto e di antagonismo. Il processo di socializzazione dello Stato è, infatti, allo stesso tempo, un potente vettore di deformalizzazione delle architetture costituzionali. A leggerla alla luce di quella importante e estremamente stratificata genealogia che Foucault cominciò a tracciare nei corsi sulla governamentalità al Collège de France, la storia del Welfare State è già tutta dentro la deformazione del codice della Legge, e produce la metamorfosi dell’ordine giuridico in una serie diversificata di dispositivi di governo11. Insomma, dal lato del modello di ordine, l’integrazione costituzionale novecentesca è essa stessa l’inizio di un profondo e irreversibile processo di decostituzionalizzazione. Dal lato delle soggettività, le cose non vanno troppo diversamente. Le soggettività collettive, pilastri della mediazione costituzionale novecentesca, sono strettamente legate allo sviluppo e alla trasformazione della modalità di produzione fordista. Ma la crisi del fordismo, la progressiva centralità 10

11

Sulla costituzione del Novecento e sulla sua crisi, una sintesi molto efficace è offerta dalla voce Costituzione e sfera pubblica di S. Mezzadra, in A. Zanini, U. Fadini, Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 80-85. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979), Feltrinelli, Milano 2005.

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assunta dai servizi e dalla produzione cosiddetta immateriale, il progressivo indifferenziarsi dello stesso confine tra vita e lavoro, minano i presupposti stessi della formazione di quelle soggettività collettive. La stessa socializzazione del lavoro, rompendo i confini della fabbrica come luogo centrale della produzione e mettendo in crisi la misurabilità “temporale” del lavoro, produce una scena metropolitana abitata da soggetti e comportamenti non più disponibili alle forme e alle strutture della mediazione costituzionale del Novecento. Se il fordismo permetteva di fondare sull’omogeneità dei tempi e delle identità collettive la mediazione costituzionale, il postfordismo produce al contrario l’estrema eterogeneità delle soggettività, l’ubiquità dei luoghi della produzione, la poliritmia dei tempi di vita. Il lineare evolversi della cittadinanza, progressivo e inclusivo, immaginato da Marshall12, già in realtà profondamente deformato dall’irrompere dei diritti sociali, è definitivamente rotto, prima ancora che dalle politiche neoliberali, dall’irrompere di differenze (a partire dalla rivoluzione femminista) non più contenibili all’interno della figura del cittadino-lavoratore, maschio, eterosessuale, padre di famiglia e disciplinato che era stato, in fondo, il vero architrave soggettivo della mediazione delle «costituzioni del lavoro». Alla rottura delle identità collettive e della norma come momento ricompositivo, il neoliberalismo risponde passando dalla normazione alla regolamentazione: prova a governare queste soggettività centrifughe ed eterogenee attraverso l’interiorizzazione della norma della concorrenza, dell’imperativo della prestazione, del calcolo del rischio. Si cerca così di costruire la soggettività specifica del neoliberalismo, quella che Foucault descrive come trasformazione del soggetto stesso in impresa, in «imprenditore di se stesso». Il neoliberalismo prova così a ricatturare all’interno del quadro della libertà economica e della concorrenza quella pericolosa libertà che, dal Sessantotto in poi, soggettività eccentriche ed eccedenti la mediazione welfaristica e laburista avevano fatto apparire nelle metropoli postfordiste. 5. La mediazione costituzionale a questo punto diventa definitivamente impossibile e il processo di decostituzionalizzazione, già avviatosi nel cuore stesso della costituzione fordista, emerge in tutta la sua portata: del resto, la vicenda delle costituzioni era stata sinora contenuta tutta dentro la dimensione nazionale13. Il tentativo di sintetizzare l’ordine e i soggetti, il go12 13

Cfr. T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Laterza, Roma-Bari 2003. La trasformazione della norma giuridica in dispositivo come tratto fondamentale della crisi del concetto di ordinamento è lucidamente colta in A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008;

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verno e i governati, la garanzia dei diritti e la produzione di unità politica, ha avuto sempre i confini nazionali come ambito costitutivo: nello spazio globale, non c’è più modo di recuperare la sintesi tra governati e governanti, e la prospettiva di produrre unità politica che anima la forma costituzione diventa così inattingibile. Cominciano a svilupparsi, come risposta alla crisi prodotta dai processi di globalizzazione, tentativi di elaborazione di un neocostituzionalismo che estenda la logica della costituzione al di là dei confini nazionali: nasce, a partire dalle carte dei diritti e dai vari frammenti di giurisdizione sovranazionale che abitano l’universo del diritto postsovrano, il progetto di un costituzionalismo globale14. Ma questi tentativi di ripresa in dimensione “allargata” del progetto costituzionale moderno, l’idea, per dirla con Habermas, di compiere il progetto giuridico della modernità15, sembrano non tenere nel dovuto conto i caratteri di lungo termine della crisi della forma costituzionale. Il costituzionalismo post-nazionale, se inteso come replica su più ampia scala della storia costituzionale della modernità, è costretto allora sempre più a presentarsi in una dimensione esclusivamente etico-normativa, per forza di cose astratta rispetto al piano concretamente attraversato dai dispositivi di governo contemporanei. Altri teorici, invece, hanno preso atto con più radicalità della fine della storia delle costituzioni moderne e dell’esaurirsi della stessa architettura stato/società civile che le caratterizzava: le teorie del diritto post-sistemiche, per esempio, hanno da tempo diagnosticato con attenzione i tratti di discontinuità assoluta che il panorama globale presenta rispetto ai lineamenti costitutivi della modernità giuridica. La gerarchia delle fonti normative è sostituita da una riconfigurazione eterarchica e reticolare dei dispositivi giuridici; la decostruzione della forma unitaria degli ordinamenti apre a un «diritto policontesturale» che intreccia relazioni complesse e non lineari con gli altri sottosistemi sociali; la eteronormatività verticale tipica della produzione del diritto moderno cede a un farsi autopoietico dei sistemi sociali. Nessun recupero è possibile, perciò, della struttura classica della

14

15

sulla decostituzionalizzazione come deformazione della legge ed emergere dei dispositivi governamentali, cfr. S. Chignola, In the Shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance: oltre lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 117-141. Una sintesi recente di un ambizioso e rigoroso progetto di costituzionalismo globale è L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Laterza, Roma-Bari 2013. Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), Laterza, RomaBari 1987.

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costituzione, né in versione nazionale, né in versione globale: piuttosto, come sostiene Gunther Teubner, all’interno di questa frammentazione si manifesta l’emergere di un nuovo costituzionalismo societario, la produzione di processi settoriali di autocostituzionalizzazione dei singoli sistemi sociali16. Se non regge più la mediazione costituzionale, esistono però processi di creazione di “costituzioni” economiche, dei diritti umani, della rete, etc. che si innestano proprio su nuove capacità di autonormazione e di autoregolazione, in qualche modo liberate dal tramonto delle vecchie architetture sovraniste. Il limite, per Teubner, è che questo costituzionalismo societario non può superare la natura comunque frammentaria del panorama post-sovrano, riguardando solo processi parziali di costituzionalizzazione di singoli settori sociali. Le cose però assumono un aspetto diverso, se ricordiamo come, secondo la genealogia che abbiamo tracciato, la governamentalizzazione, la deformazione postcostituzionale degli ordinamenti, insomma la fine dell’età delle costituzioni, siano state soprattutto le risposte a una trasformazione radicale delle soggettività, non più incanalabili nelle identità collettive che avevano consentito la grande mediazione novecentesca. Se all’interno del processo di decostituzionalizzazione, ci troviamo a scorgere contromovimenti, capacità di generare anche processi dal basso di creazione istituzionale, è il segno della forza che queste soggettività esprimono all’interno dei nuovi movimenti sociali: nei grandi movimenti di opposizione che sono nati all’interno della crisi finanziaria, da Occupy Wall Street agli indignados spagnoli e, ovviamente, alla straordinaria (per quanto ambivalente negli effetti) stagione delle rivolte arabe, si è manifestata una grande forza non solo di riappropriazione, ma anche di reinvenzione radicale dello spazio pubblico17. In America Latina, nel frattempo, prosegue un intensissimo e contradditorio laboratorio costituzionale, dove il rapporto tra costituzione e movimenti sociali viene continuamente riscritto, tracciando una sorta di dualismo permanente che sembra aprire strade molto diverse dall’idea di forma politica unitaria che ha caratterizzato la storia del diritto moderno euroccidentale18. 16 17 18

Cfr. G. Teubner, Costituzionalismo societario: alternative alla teoria costituzionale stato-centrica, in Id., La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma 2005, pp. 105-138. Una lettura dei movimenti Occupy alla luce dei problemi della crisi costituzionale è offerta in M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012. Cfr. M. Brighenti, S. Mezzadra, Il laboratorio politico latino-americano. Crisi del neoliberalismo, movimenti sociali e nuove esperienze di governance, in M.

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Ciò che deve essere sottolineato è, insomma, che la decostruzione dell’architettonica pubblico/privato avviene non solo e non tanto per consunzione interna, ma anche perché le soggettività contemporanee hanno mostrato la capacità, almeno potenziale, di eccedere le strutture delle mediazioni tradizionali. Il postfordismo, in questo senso, ha sì eroso i fondamenti dell’antica costituzionalizzazione del lavoro, ma è al tempo stesso abitato da una produzione di soggettività dinamica e multiforme, da un forte arricchimento della forza della cooperazione sociale, che incorpora oggi capacità produttive prima assolutamente sconosciute, tutte concentrate, come erano, nella macchina e nella fabbrica. Letta da questo punto di vista, dall’ottica di questa nuova cooperazione sociale e dei movimenti sociali che la esprimono, la crisi del nomos costituzionale può aprire ad altre diagnosi: radicata nell’impossibilità di mediare ancora nelle forme classiche della cittadinanza la produzione di soggettività contemporanea, la crisi della costituzione lascia trasparire, se non il ritorno della figura del potere costituente, anch’esso legato, in fondo, alla forma politica unitaria, la possibilità di inediti e plurali processi costituenti19. La decostituzionalizzazione, insomma sembra non avvenire nel vuoto, ma in campo potenzialmente aperto ad esperimenti di immaginazione istituente che si collocano “dopo” l’esaurimento dell’antica mediazione costituzionale, oltre l’architettura stato/società civile, pubblico/privato. Vedi anche: Bene comune, Legalità, Precarietà

19

Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, ombre corte, Verona 2012, pp. 299-319. All’ipotesi dell’emersione di un possibile “diritto del comune”, in un serrato confronto con le ricordate teorie postsistemiche, è dedicato il dibattito contenuto in S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, ombre corte, Verona 2012.

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FEDERICO ZAPPINO

CRISI Del giudizio dei viventi

Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo. Virgilio, Eneide

1. Più di altre parole, crisi scandisce linguisticamente questi giorni, uno scandire che è al contempo una spazializzazione e una totalizzazione del presente – crisi presiede infatti a un ramificato ordine del discorso al di qua del quale si può prendere parola, desiderare, opporsi o dare inizio a qualcosa di nuovo nel mondo. Questa pervasività discorsiva della “crisi” si leva limpida se si osserva la sua duplice modalità di circolazione nel discorso pubblico. Per usare due recenti definizioni di Giorgio Agamben, la crisi è il «motto della politica» e «di tutte le sfere della vita sociale» e, al contempo, lo «strumento di governo»1. Definizioni, va da sé, che non possono che tenersi insieme in una sorta di moto circolare. La crisi come instrumentum regni assolve infatti alla funzione di «legittimare decisioni politiche ed economiche» particolarmente drastiche, che non a caso abbiamo appreso a sussumere sotto la nozione di austerity; questa operazione, a sua volta, non potrebbe avere successo senza un «motto», senza cioè un insieme di parole d’ordine che rendono la crisi un regime di verità, una singolare miscellanea di parole e discorsi situata al crocevia tra i saperi e i poteri economici, che funge da istanza produttrice di ulteriori pratiche discorsive. Ciò su cui è importante soffermarsi, tuttavia, è che la crisi come motto e come instrumentum sortisce secondo Agamben l’effetto di minare i requisiti basilari delle procedure decisionali democratiche, poiché priva i cittadini, di fatto, «di qualunque possibilità di decisione». Ciò che assurge 1

Cfr. Die endlose Krise ist ein Machtinstrument, intervista con G. Agamben su «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 24 maggio 2013, trad. it. di N. Perugini apparsa su «il lavoro culturale», 2 ottobre 2013, http://www.lavoroculturale.org/lacrisi-perpetua-come-strumento-di-potere-conversazione-con-giorgio-agamben/.

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al rango di “necessario” (le riforme necessarie per far fronte alla crisi, la coalizione di governo necessaria all’uscita dalla crisi ecc.) detiene infatti una forza che gli consente di erodere gli spazi propri della pubblica deliberazione, anche solo a partire dalla progressiva esautorazione di quelli meramente istituzionali delle democrazie liberali, ossia i parlamenti. È la forza della necessità a indicare le misure da adottare, e a squalificare di conseguenza le alternative “ideologiche”: si tratta di una forza che promana in primo luogo dal connaturato alone di oggettività che permea ogni necessità, ciascuna delle quali necessita, propriamente, di essere veicolata come iscritta nell’ordine delle cose, come ineluttabile. 2. Agamben aveva già tratto importanti spunti di riflessione dal brocardo latino necessitas non habet legem, il principio consuetudinario che sta a fondamento dello stato di eccezione2, ossia la sospensione dell’ordinamento costituzionale legittimata proprio da quella necessitas che assume di volta in volta le sembianze di un’emergenza o di un’urgenza tale da consentire di aggirare le normali procedure democratiche, o quanto meno di asservirle ai propri scopi. Non sorprende dunque che tali spunti lo portino a elevare lo stato di eccezione ad autentico paradigma dei nostri giorni: l’eccezione, nella sua analisi, non è che l’interstizio entro cui si annidano indistintamente la politica e il diritto; l’artificio retorico dei pieni poteri, allo stesso modo, non è che l’ostensione dell’essenza della decisione sovrana, che diventa finalmente plateale. Ostensione, questa, che rende vano il sogno liberale di limitarsi a giuridificare il bios, di irretirlo cioè nel quadro acefalo e impersonale di norme che hanno la duplice funzione di regolarlo, così come di metterlo al riparo da se stesso, conferendogli una prevedibilità che altrimenti non gli apparterrebbe. La decisione sovrana, infatti, può affermarsi solo nella possibilità di scardinare questa impalcatura: ciò le consente di invadere, senza alcuna mediazione normativa, il vivente. È evidente la relazione tra l’analisi di Agamben e quella risalente a poco meno di un secolo prima di Carl Schmitt, il quale pone il concetto di stato d’eccezione (Ausnahmezustand) in una posizione centrale nella sua teoria della sovranità3 – lo «stato totale per energia», contrapposto allo «stato totale per debolezza». Nella misura in cui sovrano, secondo Schmitt, è colui che decide dello e sullo stato di eccezione, ne consegue che in esso potere

2 3

Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Cfr. C. Schmitt, La dittatura (1921), a cura di A. Caracciolo, Settimo Sigillo, Roma 2006; Id., Teologia politica (1922), in Id., Le categorie del “Politico”, a cura di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1998.

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legislativo e potere esecutivo si confondono e che in questa confusione i tratti che predominano sono quelli del decisionismo, con il suo doppio arbitrario: dispotico, o anche benevolo, come quello del buon padre di famiglia che conosce (e decide) ciò che è bene per i propri figli e impiega ogni mezzo per perseguirlo. Ciò che consente a Schmitt di stabilire la coincidenza tra stato di eccezione e sovranità è la distinzione tra “norma” (giuridica) e “decisione” (politica). Pur partecipando entrambe della composizione dello stato di diritto, nei momenti ordinari della vita pubblica la coesistenza tra le due si risolve a vantaggio della prima, relegando la seconda in uno spazio angusto. Nei momenti di crisi la situazione si capovolge: lo stato di eccezione sovverte l’ordine di questa coesistenza, conferendo alla decisione – e dunque al sovrano – piena autonomia. Si tratta di una situazione in cui la norma perde valore di legge e in cui i decreti e i regolamenti di diretta emanazione del potere esecutivo s’impongono in virtù della propria forza di legge. Sintomaticamente, è stato scritto più volte, a distanza di un decennio da queste riflessioni Schmitt offrirà il suo sostegno a Hitler, il cui regime sintetizzerà in maniera esemplare la scissione radicale tra il corpo della legge e la sua forza vincolante, così come l’usurpazione dello spazio della norma dalle decisioni. Il totalitarismo nazista del Novecento, d’altra parte, inteso come figura emblematica dello stato di eccezione, è così impresso nella memoria collettiva da rendere qualunque richiamo ad esso comprensibilmente (e imprevedibilmente) suggestivo, anche ai fini di qualche fosca previsione. Al di là delle suggestioni, mi piacerebbe, tuttavia, fugare un possibile fraintendimento: non credo, infatti, che questa analogia potrebbe offrire validi appigli per non scivolare; al contrario, potrebbe rischiare di adombrare alcuni aspetti del nostro problema. E questa precisazione ne sottintende chiaramente un’altra, relativamente all’esaustività delle teorie dello stato d’eccezione, se intese come schemi interpretativi dei nostri giorni4. Non è qui in dubbio quanto l’affermarsi di poteri che travalicano la legge in nome della crisi alla quale bisogna far fronte ricorrendo all’Unto del Signore, o al Governo della Provvidenza, si riveli nei casi sempre crescenti di sospensione dello stato di diritto e di erosione, talvolta plateale, dei diritti, le quali puntellano i contorni di una società ipersovranizzata, di uno stato d’eccezione permanente in cui il politico assume di continuo sembianze

4

Cfr. anche C.J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Ginn, Boston 1950; C.L. Rossiter, Constitutional Dictatorship. Crisis Government in the Modern Democracies, Harcourt Brace, New York 1948; H. Tingsten, Les pleins pouvoirs, STOCK, Paris 1934.

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autoritarie. Potremmo però questionare l’appropriatezza dell’argomento dell’eccezione, domandandoci se questo non riferisca piuttosto di un problema sistemico. Può ciò che eccede coincidere con ciò che permane? Questo attaccamento alla suggestività delle teorie dello stato d’eccezione non costituisce forse il doppio di quell’idea ben salda nel linguaggio e nel senso comune secondo cui le crisi si verificano a causa di un deficit decisionale e che dunque ad esse si pone rimedio immettendo più decisione – quell’auspicio mai sopito, tra la paura e l’ardore, della venuta dell’Uomo Nuovo che sappia Decidere? 2. Genealogicamente, questa idea va di pari passo proprio con l’emersio(da νω) comne, presso gli antichi greci, della parola “crisi”5. Κ pare già nei resoconti della Guerra del Peloponneso di Tucidide, ad esempio in relazione alle battaglie “decisive” («due per terra e due per mare») che condussero alla risoluzione delle guerre ventennali tra Greci e Persiani del 499-479 a.C.6 Ma compare soprattutto nella Politica di Aristotele, in cui assurge a concetto giuridico e politico di importanza cruciale: infatti designa sia la decisione singola (e anche, significativamente, il “tribunale”), se riferita al processo giuridico di formulazione di una sentenza7, sia tutte le attività di analisi e interpretazione del diritto che riferiscono di quel collante comunitario che faceva sì che i cittadini si sentissero così saldamente appartenenti alla propria collettività. Attività che riferiscono, in sostanza, di quella libertà politica che rendeva possibile «sopportare il fardello della vita» ( ω )8: la partecipazione attiva alla vita della polis (β ο ), «lo spazio delle libere azioni e delle vive parole degli uomini»9, reso tuttavia possibile da una concezione decisamente ristretta della cittadinanza, i cui confini erano garantiti dalla produzione di un “fuori” costitutivo – le donne, gli schiavi, i meteci. Ad Atene, non a caso, era propriamente cittadino chi, tra i maschi-proprietari, avesse accesso alle magistrature di consiglio ( ), ossia alle istituzioni che avevano la funzione

5 6 7 8

9

Per una genealogia esaustiva, cfr. R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità (1972-97), a cura di G. Imbriano, S. Rodeschini, ombre corte, Verona 2012. Tucidide, Guerra del Peloponneso, ad es. in libro I, XXIII, 1: 108. Aristotele, Politica, 1289b, 12. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Einaudi, Torino 2009, p. 326. Arendt allude qui ai «terribili versi» dell’Edipo a Colono di Sofocle, il quale, per bocca di Teseo, «leggendario fondatore di Atene», contrappone alla propria concezione del mero fatto di esistere («Non esser nati è la sorte migliore | o almeno appena nati ritornare | a quel mondo da cui siamo venuti») la vita nella polis. Ibid.

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di rendere tra loro armoniche le norme con le decisioni, le quali dovevano , agli occhi di questi essere prese “per bene”, “caso per caso”10. E la maschi greci, pur comportando un incessante lavoro di deliberazione circa ciò che doveva essere, appariva probabilmente preferibile alla , di cui la costituiva il contrario. Possiamo definire quella paralisi che congelò la vita della polis nel momento in cui gli uomini iniziarono a sentirsi parte di singoli gruppi, anziché della città intera, anteponendo al “bene comune” (o almeno comune ai maschi-proprietari) gli “interessi di parte” e dando così vita alla guerra intestina che appiattì l’irrequietezza, la crisi che le era connaturata. Questo affresco della vita della polis greca è circoscritto e mette in risalto solo le tinte dominanti. Mette però in risalto anche un’importante torsione semantica della parola “crisi”, per come essa circola nel quotidiano esprimersi. La , presso i greci, è il contrario della ; là dove c’è stasi – il ristagno di ogni attività di decisione politica – non può esservi crisi. Al contrario, ciò che l’attuale crisi (economica) produce sulle dinamiche della vita (politica), somiglia più a una sospensione delle attività che a essa sono connaturate11; attività che, chiaramente, sono assai diverse da quelle connaturate alla libertà degli antichi, ma che rientrano a pieno titolo in quella (promessa di) libertà dei moderni suggellata dal celebre discorso di Constant come autentico orgoglio liberale12. Così, al netto del più infatuato (o connivente) ottimismo, delle varie guerre dei numeri e dei rassicuranti – ma ancora sporadici – ceppi di resistenza, il ritratto che si fa via via più nitido vede in primo piano un numero crescente di persone che affermerebbe con riluttanza di vivere una buona vita. E questa riluttanza cela una presa di coscienza, ormai tardiva, di condurre una vita la cui precarietà trascende la sfera reddituale o lavorativa, una vita «dispensabile», che vive nel presente l’ipotesi «forse la mia scomparsa non sarà pianta». Se non ho la certezza di disporre di cibo e di rifugio, o che ci sarà una rete sociale o un’istituzione a soccorrermi nel caso in cui io [crollassi], entro a far parte di coloro che non sono 10 11

12

Attività per la quale, secondo Aristotele, era necessaria un’oscura abilità: la όν . Cfr. Id., Etica Nicomachea, libro VI. Sulla stasi politica connessa alla crisi economica, cfr. The Greek Symptom. Debt, Crisis and the Crisis of the Left, n. s. di «Radical Philosophy», 181, 2013. Cfr. anche J. Butler, A. Athanasiou, Dispossession: The Performative in the Political, Polity Press, Cambridge 2013, in part. cap. 14, Governmentality of “crisis” and its resistances, pp. 149 sgg. B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni (1819), a cura di G. Paoletti, Einaudi, Torino 2005.

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degni di lutto. Questo non significa che non ci sarà nessuno a piangermi, o che le persone non degne di lutto non abbiano modo di piangersi reciprocamente, o che non esisterà da qualche parte un posto dove sarò pianto, né che la mia perdita non avrà alcun effetto. Ma le forme di persistenza e resistenza con cui vengono piante le vite non degne di lutto si manifestano all’interno di una sorta di penombra della vita pubblica13.

E questa «penombra della vita pubblica» sembra rievocare, a distanza di tempo, quell’«oscuramento dello spazio pubblico» che ossessionava Hannah Arendt, quella stasi del mondo in cui questo diventa così incerto «che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata»14, quasi non si desse più nessun’altra prospettiva al di fuori della mera permanenza in essere, al di fuori dei bisogni del mero funzionamento biologico – al di fuori di quella che potremmo chiamare nuda vita. Alla luce di queste considerazioni, ciò che mina dunque l’esaustività delle interpretazioni eccezionaliste, nel quadro di un discorso sulla crisi, o sulla stasi, o su quelli che Arendt, parafrasando Brecht, definiva comunque «tempi bui», è proprio che queste elevano la sovranità a un livello tale di trascendenza da offuscare quali strutture di potere dominano e producono effettivamente e materialmente le vite. Strutture di potere con le quali ci si misura ogniqualvolta ci si interroghi circa la vivibilità della propria vita: da cosa dipende la mia assenza di reddito e questa percezione che la mia vita sia esposta alla più assoluta aleatorietà? Come posso condurre la mia vita che in fondo non è “mia”, se questa vita è una forza-lavoro consumabile e dispensabile, alla quale non è garantita la sopravvivenza economica (e dunque la sopravvivenza tout court)? A queste domande potrebbero esserci buone risposte; faticheremo tuttavia a trovarle se resteremo ancorati alla filosofia politica di Hobbes dello Stato-Leviatano, per la quale la sovranità trascende la società e le sue strutture giuridiche ed economiche, considerate elementi secondari, o al

13

14

J. Butler, A chi spetta una buona vita?, a cura di N. Perugini, nottetempo, Roma 2013, p. 20 e s. Su questo punto rinvio però anche al volume curato da Anna Simone, Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi (Mimesis, Milano-Udine 2014) e, in particolare, al suo saggio introduttivo Il negativo della crisi. Suicidio, anomia, dismisura e désaffiliation: la ringrazio per avermelo fatto leggere in anteprima. H. Arendt, L’umanità in tempi bui (1968), ora in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2006, p. 217.

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servizio della prima15. Contrariamente a questa impostazione, ci sono ottime ragioni per pensare che il potere politico sia oggi del tutto immanente a quelle strutture. Già nel 1951, la stessa Arendt, che pure aveva appena pubblicato quello che sarebbe divenuto uno dei capisaldi sul totalitarismo, metteva in guardia dal pericolo sotteso all’identificazione del potere di Hitler come il peggiore di tutti i mali16: benché fosse convinta che il totalitarismo avesse indotto una crisi maggiore di quella che ne favorì l’emersione (in grado di mandare in frantumi categorie politiche e criteri di giudizio), riteneva allo stesso tempo rischioso «farsene ossessionare al punto da diventare ciechi di fronte ai numerosi mali minori, e non così minori, di cui è lastricata la strada per l’inferno»17. Lo «spaesamento» e lo «sradicamento» assurti a normale condizione esistenziale, «la burocratizzazione e la corruzione dei governi democratici» e infine «la miseria e lo sfruttamento spudorato dell’uomo sull’uomo»18, erano solo alcuni di questi mali minori. 3. Un maggiore sforzo di comprensione, allora, non può che trarre giovamento da una diversa concezione della sovranità rispetto a quella veicolata dalle teorie eccezionaliste. Se da un lato queste disvelano il fallimento degli auspici liberali di uno “stato minimo” – in grado di garantire al contempo libertà economica e liberazione dalla servitù, senza che tra queste due s’innescasse un conflitto letale –, dall’altra non catturano appieno il ruolo che il “deterritorializzato” sistema di produzione capitalistico esercita sulla sovranità proprio “riterritorializzandosi” in essa19. In altri termini, questo significa che se nell’attuale governo della crisi i principali attori sono stati ipersovrani (stati che impongono, valutano, disciplinano, proibiscono, decurtano ecc.)20, ciò non è riducibile al fatto che essi eludono arbi15 16 17 18 19 20

Cfr. M. Guareschi, F. Rahola, Chi decide? Critica della ragione eccezionalista, ombre corte, Verona 2011; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, pp. 17 sgg. H. Arendt, Le uova alzano la voce (1951), ora in Ead., Antologia, cit. p. 73. Ibid. Ibid. Cfr. M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Questo può avvenire anche in forme non necessariamente autoritarie, bensì benevole, paternaliste: si considerino ad esempio le politiche di nudging implementate, a partire dal 2008, dalle amministrazioni statunitensi e britanniche (le quali hanno istituito vere e proprie Nudge Units), ispirate alle teorie del “paternalismo libertario” di Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein. Cfr. Eid., Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute e felicità,

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trariamente la norma facendo prevalere le decisioni. Significa, semmai, che la loro sovranità, dopo esservi stata sottomessa, è stata resa iperbolica dal potere economico, con il benestare di istituzioni la cui legittimità politica è del tutto discutibile, e infatti, non senza difficoltà, discussa. All’interno di questo quadro, il potere politico ha un piglio prettamente amministrativo, ispirato alle logiche dell’efficienza e della competitività, tipiche degli attori privati del mercato; la concezione classica della sovranità, di conseguenza, lascia spazio a una forma residuale del potere politico immanente al diritto e al capitale, e cioè alle grandi “istituzioni” di quella che si definisce ormai comunemente governance neoliberale21. Questa ha la duplice caratteristica di coincidere con l’unica forma di governo della crisi, così come di esserne perpetua concausa; Marx ed Engels, d’altronde, avevano già intuito che la crisi, lungi dall’essere un accidente, un’eccezione, costituisce piuttosto la normale modalità di funzionamento ciclico del sistema di produzione capitalistico. Anche la governance neoliberale, come ogni forma di governo, ha avuto la necessità di produrre una propria forma di suddito dalla quale derivare legittimazione. Si tratta di un suddito la cui soggettività è bifronte. È innanzitutto una soggettività produttiva: la sua vita è assorbita dalla produzione. A differenza dell’homo œconomicus, il soggetto neoliberale si spoglia della tradizionale distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero, al punto che per suo tramite il capitalismo assurge a biocapitalismo22, si insinua molecolarmente – direbbe Gramsci – nei corpi, nei bisogni, nei desideri. È proprio questo aspetto che induce Foucault a concettualizzare il potere come sempre più coincidente con l’economia, intesa proprio come luogo in cui si organizza la vita23. Questo biopotere, che lungi dal reprimere, produce la vita è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili al capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei

21 22

23

Feltrinelli, Milano 2009. Per una prospettiva critica, cfr. J. Soss, R.C. Fording, S.F. Schram, Disciplining the Poor: Neoliberal Paternalism and the Persistent Power of Race, The University of Chicago Press, Chicago-London 2012. Cfr. A. Fischer-Lescano, G. Teubner, Regime Collisions: The Vain Search for Legal Unity in the Fragmentation of Global Law, in «Michigan Journal of International Law», 25, 4, 2004, pp. 999-1046. Su questo punto c’è una vasta letteratura. Mi limito a segnalare F. Chicchi, Soggettività smarrite. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012 e P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, ombre corte, Verona 2013. Cfr. il recente articolo di L. Bazzicalupo, L’economia come logica di governo, in «Spazio filosofico», 7, 2013.

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corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Ma ha richiesto di più; gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento così come la loro utilizzabilità e la loro docilità gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza pertanto renderle più difficili da assoggettare24.

Si tratta, in secondo luogo, di una soggettività debitrice: la sua vita è irretita in molteplici relazioni creditore/debitore, a partire dalle varie forme di debito di cui sono costellate le esistenze25, fino ad arrivare al debito pubblico, che pende sulle teste anche di coloro che non hanno accesso al credito26. Queste due facce, com’è evidente, sono strettamente interconnesse. Mi sembra, tuttavia, che la seconda consenta una sintesi maggiormente comprensiva della condizione umana nella crisi, poiché riferisce di una condizione autenticamente universale. Se gli attuali tassi di disoccupazione, al di là del consenso attorno all’effettiva attendibilità, fanno comunque vacillare la validità (la si rimpianga o meno) di quella figura emblematica dell’abile imbullonatore di Tempi moderni che quando è fuori dalla fabbrica si sente spaesato, ciò significa che non tutti siamo soggetti produttivi. Sicuramente tutti, invece, siamo soggetti debitori. Il debito traversa diagonalmente, scombinandole, le dicotomie classiche lavoratori/disoccupati e consumatori/ produttori, valorizzando al contempo la dicotomia marxiana proprietari/nonproprietari di capitale. Ciò non significa che il debito, per quanto universale, sia anche egualitario: al contrario, proprio attraverso l’eguale distribuzione sugli individui, da parte degli stati, dei costi connessi al normale funzionamento di una forma di governo transnazionale che ha tra le sue principali istituzioni il capitale, il debito estremizza le diseguaglianze sociali, favorendo il dispiegarsi di una fattiva amministrazione differenziale delle vite. L’universalità del debito, inoltre, si esplica nella sua capacità di trascendere i confini temporali della vita delle generazioni. In questo aspetto sembra ricalcare la trama di un peccato originale da espiare attraverso un comportamento produttivo, e dunque morale, che conduce alla solvibilità, contrapposto a quello improduttivo, massimamente immorale, al quale è da imputare l’insolvibilità27. Ne consegue dunque che il soggetto solvente assurge a luogo fisico 24 25 26 27

M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978, p. 124 e s. Cfr. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2012; Id., Il governo dell’uomo indebitato, cit. Può essere utile ricordare che Marx, nel primo libro de Il Capitale (1867), sostiene che l’accumulazione originaria sia consustanziale al debito pubblico. Cfr., ad es., E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011.

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per mezzo del quale concretamente il potere – che secondo Judith Butler «non è mai soltanto una condizione esterna o antecedente al soggetto», «né può essere identificato solo con il soggetto»28 – si ri-produce: in questa collaborazione con la ri-produzione la ricompensa per il soggetto solvente è costituita dalla possibilità di accedere al credito, e al consumo, con cui sentirsi soggetto di/al godimento (jouissance). Non è forse questa la buona vita dei moderni, l’estensione del godimento invocata da Constant a gran voce?29 Chi, al contrario, è insolvente, chi non può supportare la ri-produzione di questo potere, non è degno di una buona vita: è una vita alla quale è preferibile la morte, che qualcuno piangerà in una qualche penombra della vita pubblica. Sembra allora molto difficile, per il soggetto, immaginare una qualche relazione oppositiva con quel potere al quale non solo offre un luogo fisico per la ri-produzione, ma dal quale si origina, verso il quale è debitore e al quale è appassionatamente attaccato: le «forme di dominio capitalistiche» non meno di quelle «simboliche», nota Butler, sono d’altronde «considerate tali da rendere le nostre azioni “addomesticate” sin dall’inizio»30. Il luogo fisico che il soggetto offre al potere è chiaramente il corpo, ed è il corpo ad averne in cambio una forma. Ma è anche la psiche. Anch’essa riceve in cambio una forma. Così come il corpo al contempo preesiste al potere ed è a sua volta prodotto, lo stesso discorso vale per la psiche e le sue grandi “istituzioni”. La melanconia e la cattiva coscienza, il senso della colpa e quello del dovere: su queste istituzioni fa perno la torsione rimproverante del soggetto, la creazione di quella prospettiva interna dalla quale il soggetto può esprimere un giudizio su se stesso. L’innesto produttivo tra filosofia e psicoanalisi, d’altronde, ha consentito di sondare cosa risieda alla base di questo giudizio rimproverante; non è tuttavia mia intenzione elencare le principali teorizzazioni di questo nodo problematico, né sottolinearne, o risolverne, le aporie. In maniera più circoscritta, mi piacerebbe ipotizzare che uno dei modi attraverso cui la crisi come instrumentum perpetua il circuitare psichico e sociale del debito, ri-producendo anzitutto soggettività debitrici, consista proprio nello svuotare la stessa parola “crisi”, nell’immissione nel discorso pubblico, di uno tra i suoi significati politicamente rilevanti. Mi riferisco proprio al significato di giudizio. 28 29

30

J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 54. Constant, La libertà degli antichi, cit., p. 28. Come osserva Simone, in proposito, «tra le matrici che spingono oggi al suicidio economico non v’è solo il problema dell’impossibilità del saldare il debito, ma v’è anche la negazione di altro credito utile per continuare a sentirsi soggetti del godimento» (Il negativo della crisi, cit.). Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 55.

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4. Torniamo allora alle pagine della Guerra del Peloponneso. Qui Tucidide ricorre alla parola per descrivere la peste che si abbatté su Atene nel 430 a.C. Lo storico narra la diffusione della malattia alludendo ad essa come al dilagare di una crisi: la descrizione dei corpi falcidiati e la conta dei morti si accompagnano nelle sue pagine a un’analisi delle conseguenze che la peste sortisce sulla città, imponendo agli uomini la riformulazione dei criteri di giudizio che dovranno presiedere al nuovo ordine politico31. Tucidide riprende qui il concetto di crisi dalla medicina di Ippocrate, secondo cui la definisce il momento culminante di una malattia, il giorno in cui il medico è chiamato a esprimere un giudizio sul miglioramento o sul peggioramento della salute del paziente. Nel farlo, però, il medico non può appellarsi ad alcun criterio universale o astratto: benché Ippocrate avesse maturato una certa conoscenza del corpo, era anche consapevole che questa incontrasse un limite davanti a quella combinazione di determinatezza e imprevedibilità costituita dalla singolarità di ciascun corpo umano. Di conseguenza, è proprio con ciascuna singolarità che il giudizio del medico ippocratico è chiamato a misurarsi, e da essa deve trarre il proprio criterio; argomento che sembra d’altronde risuonare in quella distinzione che, a distanza di molto tempo, condurrà un altro medico, Franco Basaglia, a sostenere che «una cosa è considerare un problema una crisi, una cosa è considerarlo una diagnosi»: «la diagnosi è un oggetto; la crisi è una soggettività»32. Diametralmente opposta è l’accezione di che possiamo rinvenire dalle versioni greche dei testi biblici, nelle quali si assiste per certi versi a una rivoluzione: la decolla da quelle sedi che sono proprie alle relazioni tra i viventi, il mondo e i corpi, per vaporizzarsi nello spazio celeste. Ed è in questa vaporizzazione che paradossalmente si materializza l’allestimento di una soggettività da sempre colpevole, indissolubilmente legata all’obbligo di prostrarsi al debito mediante la forclusione del giudizio. Non è forse questa l’altra faccia dell’argomento della celebre tesi di Benedetto Croce relativamente all’impossibilità di non dirci cristiani? In tutti quei passi del Nuovo Testamento in cui si parla del giudizio in termini positivi, si fa riferimento al giudizio di Dio sulle azioni umane. Egli è l’unico titolato a esprimerne uno, essendo il miglior conoscitore di quel popolo di cui è 1) produttore, 2) educatore di coscienze, 3) governante e 4) giudice. L’Apocalisse, il Giudizio universale, costituisce nelle Sacre 31 32

Tucidide, Guerra del Peloponneso, cit., libro II, XLIX-LIV, 4: 348. F. Basaglia, Conferenze brasiliane (1979), a cura di M.G. Giannichedda, F. Ongaro, Raffaello Cortina, Milano 2000.

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scritture la più imponente opera di sussunzione umana: nell’emettere il Giudizio, Dio non evincerà il proprio criterio da ciascuna singolarità, ma ricondurrà al contrario le singole condotte a categorie più o meno diadiche calibrate dapprincipio. A questo efficiente Tribunale allude Paolo nella Lettera ai Romani (2, 16), en emerai ote krinei («nel giorno in cui Dio giudicherà»), così come nella Lettera ai Tessalonicesi, in cui l’apostolo restituisce un’immagine del Cristo singolarmente virile, l’Uomo Nuovo «che scenderà dal cielo con grida di comando» (4, 16-17)33. E vi allude soprattutto Giovanni di Patmos, in quel capolavoro postmodernista che è l’Apocalisse, in cui descrive la Κ in modo al contempo destabilizzante ed eccitante, ma in cui a questa generosa offerta di categorie con le quali immaginare il gran Giudizio non fa da corollario la possibilità di comprendere con chiarezza quando esso si compirà. L’Apocalisse, di conseguenza, trasforma il tempo nel tempo teologico dell’Attesa: ai cristiani non è dato conoscere il giorno e l’ora in cui si avvieranno le procedure risolutive di quel Processo la cui istruttoria già pende sulle loro teste. La posticipazione del Giudizio in un futuro ignoto sortisce dunque l’effetto di collocarlo fuori dalla storia: la Κ trascende il tempo e i soggetti, pur tuttavia esercitando su di loro un potere performativo nel presente. Vivere nell’attesa del Giudizio significa adeguare la propria condotta a un certo imperativo, costringere il corpo a conformarsi a un certo ideale. A differenza del giudizio del medico ippocratico, la cui immanenza è resa necessaria dalla crisi che scaturisce dal soggetto, la trascendenza del Giudizio divino – la grande Crisi – produce il soggetto: un soggetto a cui, innanzitutto, è proibito giudicare. La stigmatizzazione del giudizio ricorre infatti più volte nel Nuovo Testamento, costituendo peraltro uno degli assi portanti dell’insegnamento cristiano: «non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato». Gesù per primo si astiene dal giudicare, come ci dice il suo prediletto, Giovanni: «Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo, ma per salvarlo» (3, 17)34. Ma tracce di questa negatività sono reperibili anche nel protovangelo di Giacomo, «chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?» (4, 12) o, di nuovo, nella Lettera ai Romani in cui Paolo, nell’urgenza di screditare il giudizio, sembra lasciare sullo sfondo la questione della proprietà di un uomo su un altro: «chi

33 34

Su questo punto, cfr. A. Agamben, Pilato e Gesù, nottetempo, Roma 2013. Si pensi d’altronde alla compassionevole epoché di Gesù dinanzi alla prostituta che, mutatis mutandis, somiglia proprio a quella di cui ha dato prova il suo vicario, il 29 luglio 2013: «chi sono io per giudicare un gay?»

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sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (14, 4). Saremmo dunque invitati a trarre la conclusione che i servi, ai quali chiaramente non spetta una buona vita, siano passibili di giudizio (forse perché non meritano quello Divino, come le bestie), purché questo sia emesso dal padrone legittimato da quel diritto che promana dalla proprietà privata? La veemenza performativa con cui nella Bibbia si esecra il giudizio (a eccezione di quello nei riguardi dei servi), l’insistenza con cui si esalta per sottrazione una certa umiltà, la costante chiamata alla correità, la nota di derisione che cade sul “tu” nel leitmotiv chi sei tu per giudicare?... – è difficile non leggere tutto ciò come funzionale alla necessità di scoraggiare quella tentazione demiurgica degli umani di essere uguali a Dio fino al punto di rimpiazzarlo. Necessità tanto più urgente se considerata alla luce dell’esempio negativo “storico” di Eva, punita esemplarmente per aver fatto esattamente il contrario di ciò che Dio le aveva imposto. Nella Genesi, in quei versetti che narrano il momento topico dell’umanità, Eva rivendica per sé la capacità di discernere se mangiare o meno il frutto dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male. Ciò non significa che Eva agisca in modo autonomo, o in previsione di uno scopo; piuttosto, Eva formula un giudizio che presiede a un’azione nel contesto di una relazione. È il socratico serpente, l’Altro, come uno specchio deformante, a offrirle delle ragioni che la portano a smascherare l’inganno sotteso alla proibizione: la Legge che Dio ha posto è volta a tutelare un ordine gerarchico, anziché a istituire un ordine della convivenza. La prosecuzione della storia è nota. Una volta che Eva e Adamo acquisirono la capacità di giudicare35, entrando in competizione con Dio, quest’ultimo non poté far altro che cacciarli dall’Eden e tradurli sulla Terra, che nel frattempo aveva reso il peggior luogo per vivere: e proprio “per vivere” Adamo apprenderà di dover lavorare fino alla morte, traendo con fatica il cibo da un terreno che spesso gli sembrerà infecondo; quanto a Eva, la sua punizione consisterà nel partorire con dolore e nell’essere dominata dal marito, verso il quale comunque nutrirà un naturale istinto. Lavoro e famiglia, dunque, vengono ammantati di un alone di naturalità e di necessità al punto da strutturare la vita degli umani sulla Terra, mediante la sostituzione di quella capacità di giudicare acquisita nell’Eden con il dovere di espiare il proprio peccato originale, e dunque con la colpa, la cattiva coscienza.

35

Oltre alla consapevolezza della sessualità, momento che la Bibbia tenta di impoverire riducendolo alla mera presa di coscienza di «essere nudi».

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Genealogie del presente

5. Fin qui la genealogia mi ha portato a parlare indistintamente di «giudizio», lasciando che la polisemia di questo concetto fluttuasse liberamente: ma qual è la differenza tra il giudizio ippocratico e di Eva e il giudizio a più riprese stigmatizzato nel Nuovo Testamento al fine di elevare, per converso, la supremazia trascendentale di quello divino? In entrambi i casi si tratta di ; seguendo la distinzione kantiana, tuttavia, possiamo definire il secondo come «determinante» e il primo come «riflettente». Il giudizio determinante è quella «facoltà trascendentale» «di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola»36; se «è dato l’universale (la regola, il principio, la Legge)», il giudizio determinante «opera la sussunzione del particolare»37. Se è dato soltanto il particolare, però, e il giudizio non ha a disposizione un criterio dalla validità universale, esso è riflettente38. E qui non posso che ritornare ad Arendt: nessuno più di lei, nel corso del Novecento, ha elevato questo giudizio riflettente a una posizione centrale nel quadro di una complessa rifondazione dell’agire politico alla luce della crisi innescata dal totalitarismo, quella novità della modernità la cui minaccia può derivare oggi tanto dall’Uomo Nuovo solo al comando, quanto dal governo di nessuno, la forma di governo policentrica e acefala così tipica della società capitalistica. Il giudizio determinante non esibisce infatti alcuna validità politica, poiché tenta di irretire ciò che eccede, sussumendolo sotto un pregiudizio di tipo gerarchico: «a essere giudicato è soltanto il particolare, ma non il criterio in sé, né il suo essere commisurato a ciò che deve misurare»39. Al contrario, giudicare in senso riflettente, e cioè politicamente, è possibile «ogniqualvolta veniamo confrontati con qualcosa che non abbiamo mai visto e per cui non abbiamo a disposizione alcun criterio»40. Possiamo aggiungere che giudicare politicamente è possibile ogniqualvolta sia in gioco la comprensione della vivibilità, o meno, del mondo e del nostro grado di cooperazione al dispiegamento di dinamiche di invivibilità. E questo può implicare anche la possibilità di sciogliere il debito nei riguardi del mondo – benché la crisi individuale di chi si ritrae dal mondo possa anche essere fatale, al punto da rendergli preferibile una vita invivibile, o la morte, piuttosto che la fine di un’esistenza sociale. 36 37 38 39 40

I. Kant, Critica della ragione pura (1781), a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1976, p. 214. Id., Critica del Giudizio (1790), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 27. Ibid. H. Arendt, Che cos’è la politica? (1950), a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino 2006, p. 15. Ibid.

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Ma è la crisi che potrebbe scaturire da un corpo collettivo, come eccedenza in grado di disfare il mondo, di sottrarre il proprio sostegno e di ricrearne di nuovi, ad aprire prospettive inedite. È d’altronde proprio da questa tensione tra la comprensione melanconica del livello di cooperazione, e tuttavia la spinta desiderante a non rinunciare a pensare altre forme di vivibilità, che può emergere quell’attività che della è consustanziale, recando di essa tracce nel concetto quanto nel segno – la critica.

*** C’è un passo emblematico in cui Arendt spiega che sotto la dittatura coloro che giudicano politicamente sono proprio «coloro che non partecipano alla vita pubblica», gli unici che in effetti gli negano il proprio sostegno, declinando ogni incarico di «responsabilità» in cui tale sostegno è richiesto sotto forma di «obbedienza». E dobbiamo solo immaginare per un istante che cosa sarebbe accaduto a questi regimi se abbastanza gente avesse agito «irresponsabilmente», negando il proprio sostegno41.

E i viventi possono ancora immaginare «per un istante» cosa accadrebbe se agissero «irresponsabilmente»? Possono ancora immaginare «per un istante» cosa accadrebbe se «abbastanza» soggetti produttivi cessassero di produrre, se «abbastanza» soggetti debitori si dessero, all’improvviso, all’insolvenza? Vedi anche: Legalità, Futuro, Sacrificio

41

Ead., La responsabilità personale sotto la dittatura (1964), in Ead., Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2010, p. 40.

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LAURA BAZZICALUPO

DEMOCRAZIA Crisi e ricerca di altri modi di essere democratici

1. Crisi Sono tempi inquietanti questi per la democrazia, ma anche “interessanti”. Il disagio verso le forme democratiche tradizionali si è spinto a un livello tale che si cercano, sperimentalmente, pragmaticamente o teoreticamente, nuovi modi di essere democratici (letteralmente: il potere del popolo di autogovernarsi). E i tempi sono interessanti perché la contingenza e l’infondatezza ultima della politica non sono percezioni sociologiche ed empiriche ma condizioni ontologiche del sociale: impossibile risalire a un fondamento unico, impossibile un’identità piena – tutte quelle cose che nel moderno della Rivoluzione francese avevano offerto alla democrazia “sostanza”, bios etnico, valore, attorno ai quali costruire il comune. I processi di identificazione sono precari e funzionali e dunque quell’universale, o quasi-universale, che è la struttura linguistica che organizza il nostro pensiero, si accampa sì nel discorso democratico, ma è fratturato: è presente nel suo dileguarsi, come in modo raffinato ci dice Claude Lefort. È un gap strutturale che è la condizione stessa della democrazia. Altrimenti impossibile. Tempi interessanti, dunque, perché irrisolti: cumuli di macerie della decostruzione delle dicotomie moderne, le dicotomie di ogni sistema rappresentativo – dentro/fuori, inclusione/esclusione, evento/ordine, progresso/ reazione, attivo/passivo, libero/alienato, conflitto/istituzione, movimento/ forma. Ad una ad una tutte queste polarità che avevano strutturato il discorso politico moderno – lo avevano organizzato in un format comprensibile in cui la sovranità, democratica ovviamente, svolgeva il ruolo di ordinatore ultimo – sono in questione, travolte da un continuo rinvio reciproco e soprattutto da una esperienza – propria della governamentalità neoliberale che è la razionalità politica degli ultimi trent’anni – di coesistenza, di compatibilità e simultaneità dell’eterogeneo. La crisi democratica si percepisce su due versanti che sono correlati e rinviano l’un l’altro. È in crisi la versione della democrazia liberaldemo-

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Genealogie del presente

cratica e rappresentativa (in occidente coincidente da tempo con la democrazia tout court) che centra la scena democratica su forma e regole procedurali, avendo preso atto dell’impossibilità di un fondamento sostanziale (che viene letto in senso potenzialmente totalitario). Il posto del potere è vuoto, nel senso che non ci sono soggetti che siano legittimati naturalmente ad occuparlo se non in modo temporaneo e modificabile1: la democrazia si concentra sul principio della propria imperfezione strutturale che coincide con la stessa idea democratica. Questo svuotamento della sostanzialità del potere e la contingenza e rinnovabilità di coloro che ne occupano il posto, sono i punti condivisi sia dalle teorie normative e deliberative che, con argomentazioni molto diverse, empiriche e “realiste”, dalle versioni aggregative della democrazia di modello schumpeteriano, che vedono élites in competizione per il governo, sul format della concorrenza nel mercato. Tutte queste teorie eludono il punto critico: il nucleo di eccedenza di fede e di senso che è il supplemento di ogni “in comune”, il portato libidico della vita politica, l’eccesso di godimento che sta dentro la parola noi. Il paradosso della democrazia sta nel portato necessario del mito o della credenza non negoziabile, nel cuore stesso di un sistema che assume imperfezione, avvicendamento e compromesso come suo blasone. È quanto la democrazia radicale, come vedremo, identifica nell’investimento emotivo sul quale si costruisce la dinamica egemonica, ma che la stessa teoria normativa deliberativa, sia pur forzandolo in un mitico dialogo razionale, afferma: lo spazio vuoto è “precariamente” occupato dal nucleo di senso, di passione, avvertito come non negoziabile. Potenzialmente totalitario? Che non sia così, dipende dalla interpretazione del lemma cui ci si riferisce pensando la democrazia: l’egaliberté, la fusione di uguaglianza e libertà che ne marca l’inscindibilità e il reciproco rinvio. È il portato “ideologico” sedimentato nelle soggettivazioni democratiche che problematicamente pesa nel discorso svuotato della democrazia. Un nucleo di senso e di sostanza che a sua volta non è che un significante vuoto che interpreta in modi sempre diversi questo binomio storico: l’uguaglianza della conta delle parti o quella della sostanziale omologazione, la libertà appropriativa o quella destituente, simmetrica o dissimmetrica, e poi l’autogoverno e la partecipazione all’autogoverno, l’agency che però può anche essere una rivoluzione passiva... Una difficoltà strutturale attraversa dunque tutte le prese di posizione democratiche, a fronte di quelle comunitarie e fondamentaliste: esse devono contemporaneamente difendere il vuoto e l’avvicendabilità, dunque il proceduralismo e la politica come organizzazione, 1

C. Lefort, Saggi sul politico, Il Ponte Editrice, Bologna 2007.

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ma anche spingere il nucleo di senso e di valore di una differente interpretazione dell’egaliberté. Perciò tanto spesso i significati democratici vengono stabilizzati tramite una “naturalizzazione” che li sottrae alla modificabilità2: i diritti o i beni “comuni”, il territorio che appartiene a chi lo usa, il general intellect che è di tutti. Una forma di normatività immanente, anche se sempre rivista, sembra indispensabile proprio perché solo una forzosa rimozione, operata dalla norma procedurale, presenta i singoli, i gruppi, le moltitudini come depurati delle loro passioni. Come Étienne Balibar ha più volte sottolineato, non è sufficiente la lucida decostruzione lefortiana di un qualsiasi fondamento oggettivo e sostanziale della democrazia. La democrazia ha, perché l’ha acquisito nel tempo, un surplus di valore, un nucleo sostanziale nel nesso di libertà e di uguaglianza: la egaliberté3. E questo fa problema sia per la democrazia procedurale, sia per le stesse emergenti soggettivazioni alternative. È proprio questo nucleo (che coincide con il senso che si vuol dare al “comune”, al “collettivo” o al “popolo”) che rende necessaria l’organizzazione e la relazione critica tra universalità e singolarità. Eludere il senso perché indecidibile o forzarlo in una traduzione universalistica-razionale, è rischioso e inutile perché il rimosso si manifesta in modo spostato. Il plus ignorato sia dall’anti-totalitarismo della filosofia politica à la Lefort, sia dal cinismo “realista” del modello mercato, si sposta sul populismo che, al contrario, evoca platealmente la sua eccedenza libidica esasperandola retoricamente in chiave antagonista. L’odierno populismo, che offre facili forme compensative di identificazione al ribasso piuttosto che miti di emancipazione, è l’altra faccia del deludente proceduralismo che sterilizza le differenze e proibisce a se stesso senso e passione. La crisi qualitativa della rappresentanza – che si manifesta nella disaffezione politica per la corruzione della “casta”, per lo spettacolo irritante e ridicolo della politica mediatica, per l’indifferenza delle parti in competizione, per la subordinazione ai diktat dell’economia globale – trova risposte correttive interne alla sua ottica “moderna” nelle istanze normative della democrazia deliberativa che si dispongono su un ventaglio, a seconda della maggiore o minore concretezza del “dialogo” tra i cittadini: tutti i cittadini nella versione razionale habermasiana, solo gli stakeholders interessati alla questione da governare nella democrazia partecipativa, fino alla contro2 3

W. Brown, La politica fuori dalla storia (2001), a cura di P. Rudan, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 127 sgg. É. Balibar, La proposition de l’égaliberté. Essais politiques 1989-2009, Puf, Paris 2010.

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Genealogie del presente

democrazia e ai dispositivi di prossimità e di controllo teorizzati da Pierre Rosanvallon4. Darò maggior spazio, in quest’area “moderna”, alla prospettiva della democrazia cosiddetta radicale, che assume completamente il presupposto antifondazionale proprio del proceduralismo, ma contemporaneamente rilancia il demos come soggetto politico, contrapponendosi alla spoliticizzazione e allo svuotamento dell’antagonismo che è tipico della società capitalista e neoliberale. La rappresentazione del demos permane, seppur svuotata e decostruita, e resta il perno di una politica autonoma e costruttiva: egemonica. Il secondo aspetto della crisi è molto più radicale, nel senso preciso che va alla radice della logica rappresentativa del moderno e del ruolo che in esso aveva la politica come luogo di sintesi e di “costruzione del popolo”, mirando a dissolvere la radice nel rizoma orizzontale. Questa spinta antirappresentativa è epocale: muove dall’attacco degli anni Sessanta e Settanta del Novecento al sistema di deleghe e al concetto stesso di autorità, dallo smascheramento della volontà di potenza che sottende ogni rappresentazione, dalla affermazione diretta delle singolarità e dei poteri sociali, libertariamente svincolati dal costrutto artificiale della politica. E rinvia – nel nesso foucaultiano di dispositivi e discorso, conoscenza e pratiche, universale e concretezza delle differenze – all’ontologia sociale della governamentalità neoliberale, razionalità politica del capitalismo cognitivo, deterritorializzante, insofferente dei controlli statuali, a sua volta destrutturante, che nella crescita differenziale trova il suo principio. È da questo “dato” che dobbiamo partire, assumendolo in tutta la sua pienezza. È questo che ha indebolito la democrazia che conoscevamo, con le sue dicotomie dentro/fuori, privato/pubblico, economia/politica, /diritto, /cittadinanza, /sovranità e così via. Categorie che sono costrette a negoziare con forme di inclusione selettiva fondate non sul giudizio identificante e morale, ma sulla valutazione gerarchizzante, sull’obiettivo pragmatico del “risolvere problemi” e dunque del misurarsi con le “emergenze”. Erodendo, senza distruggerli, i caratteri democratico-formali, destituendo di peso i parlamenti ed eludendo il diritto (e i diritti) tramite motivazioni congiunturali ed economiche, questa razionalità che, è bene sottolinearlo, è politica anche se si presenta come antipolitica, non punta allo scontro frontale, all’antagonismo come anima della battaglia politica per il trono vuoto del potere, né tanto meno allo scontro ideologico. Piuttosto, in modo ambivalente, accanto all’evidente portato selettivo – che marginalizza i soggetti 4

P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012.

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e, senza escluderli, li tiene in situazione di attesa, condizionata a criteri indecidibili di valutazione – apre spazi per la partecipazione alla gestione destrutturando le deleghe sindacali e partitiche, sollecita alla formazione di gruppi mobili di rivendicazione e di autogestione, incentiva nuove pratiche infra-governamentali che rendono porosi i confini della cittadinanza e articolano quella che Partha Chatterjee chiama una “politica della società”, “dei governati”, diversa dalla blasonata società civile, ma anche diversa dalle forme di soggettivazione esclusivamente economiche5. La pressione sulla stessa rappresentazione del demos, si fa assai forte, proprio perché non la discute ma la elude per sperimentare forme pratiche e mobili di autogoverno: post-politiche e post-democratiche ma anche, forse, forme capaci di essere contro, pur essendo dentro la governamentalità. Forme che accennano, con qualche ottimismo, a una governamentalità postneoliberale: in ogni caso interessanti perché assumono il significato di democrazia prescindendo dal meccanismo del trascendimento verso l’unità. Criticità dunque radicale del momento democratico, che esplode nel momento stesso in cui la democrazia “trionfa” in quasi tutti gli Stati del globo, il che significa che la democrazia è un fatto: il fatto della modernità compiuta, quando l’origine umana della politica non è più discutibile e non è più discussa l’istituzione politica della società da parte del potere dei cittadini. Se sono venuti meno i pilastri della sua versione tradizionale – il confine nazionale inteso come linea di inclusione/esclusione della cittadinanza democratica, la autonomia della politica e il predominio sulla economia –, è però evidentemente la crisi di legittimazione della dinamica di trascendimento della rappresentazione del demos a essere cruciale.

2. Democrazia radicale Il problema è dunque ontologico: è necessario, perché vi sia democrazia, il rinvio al trascendimento della pluralità dei singoli in un universale, il demos, che li rappresenta e ne agisce il destino comune – così come avviene nel moderno, seppur de-sostanzializzato e decostruito? Se fosse così, se un trascendimento fosse iscritto nella parola “democrazia”, ogni rappresentazione del popolo implicherebbe un’esclusione, poiché ogni identificazione inclusiva del noi, il popolo, escluderebbe gli altri. Con il paradosso di negare questa esclusione nel presentarsi sempre come di tutti, universale, 5

P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006.

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e innestare dunque la dinamica democratica della rivendicazione da parte degli esclusi. Il pensiero post-fondazionale evidenzia questa frattura escludente che attraversa la rappresentazione del demos rendendola impossibile6. Nel riconoscere la contingenza di ogni fondamento, mostra il carattere necessario – denso di effetti – della contingenza stessa, che svolge un ruolo quasitrascendentale: è la politica democratica (la modificabilità dell’ordine) che dà un nome, temporaneo, al significante vuoto del popolo. La precarietà del fondamento del sociale apre lo spazio alla contesa egemonica tra una pluralità di definizioni del comune, del popolo, ma questa rappresentazione unitaria, perseguita attraverso l’antagonismo, è destinata a nascondere conflitti, esclusioni ed eterogeneità. La democrazia radicale, a fronte delle teorie democratiche che lavorano sui “correttivi” per normare o normalizzare le disfunzioni della forma liberaldemocratica aggregativa e postpolitica, assume l’antagonismo strutturale, (che è il nome della faglia che impedisce una rappresentazione piena del demos) e l’eterogeneità sociale, come fattori attivi della costruzione politica7. L’eterogeneo dell’attuale ontologia sociale viene retoricamente/politicamente articolato lungo una linea equivalenziale antagonista rispetto al potere al momento egemonico (ed è questa l’istanza populista presente in ogni politica) per imporre una nuova egemonia. Se da una parte una spettralizzazione degli esclusi è iscritta nella dinamica stessa della rappresentazione, dall’altra l’antagonismo, il conflitto tra le parti e l’inadempimento del demos non solo non danneggia la democrazia, ma è indispensabile per una politica democratica, non autoritaria. Questo movimento strategico si fa carico del portato libidico dell’essere-in-comune, tradizionalmente considerato da un pensiero democratico umanista e progressista come pericoloso e fuorviante, che viene mobilitato per supportare il movimento di egemonizzazione senza, in particolare nel modello di Laclau, aver paura di sporcarsi le mani col populismo8. Di altro avviso è Jacques Rancière, per il quale democrazia (opposta al service des biens governamentale) è immanenza: egli rinuncia a qualsiasi delega elitaria e costruzione egemonica, che tradirebbe la concretezza dei singoli plurali cui deve essere riconosciuta la assoluta “competenza” politi6 7 8

O. Marchart, Post-Foundational Political Thought. Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou, and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007. E. Laclau, Ch. Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, a cura di F. M. Cacciatore, M. Filippini, il melangolo, Genova 2011. E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008.

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ca. La dinamica qui è la tensione tra scena rappresentativa di un’eguaglianza necessariamente numerica, la conta di tutti, e l’o-sceno, il fuori scena di coloro che rivendicano una fattualità egualitaria (non un desiderio utopico): coloro che sono eguali, ma non contano, non hanno posto su quella scena. Questa “parte dei senza parte” appare, irrompe nell’evento democratico, affermando radicalmente la sua istanza anti-rappresentativa, il suo essere popolo. Rancière si pone dunque al bordo esterno (e in tensione con) la rappresentazione democratica, spettralizzante ed escludente, contrapponendo ad essa una politica dell’apparire del popolo, del manifestarsi, dell’essere su un piano di immanenza. Un apparire che non si confonde con i sistemi di sondaggio e con «un mondo in cui tutto si vede, in cui le parti si contano senza resti e in cui tutto può essere regolato tramite l’oggettivazione dei problemi»9 semplicemente rinegoziando le posizioni: questa presenzializzazione muove contro l’apparire, contro le sue potenzialità.

3. Senza mediazioni Movimenti, poteri sociali, pratiche di autogoverno rovesciano il tavolo della rappresentazione del demos, anche di quella post-fondazionale radicale: si spostano sul livello dell’ontologia sociale prodotta dalla governamentalità neoliberale, rifiutano ogni trascendimento, sottraendosi alla dinamica inclusione/esclusione, per riscrivere le relazioni tra uomini e le pratiche del comune sul loro stesso piano di consistenza che virtualmente, potenzialmente è immediatamente democratico. È la governamentalità stessa – categoria indispensabile per capire il passaggio attuale della democrazia – che opera lo sfaldamento del costrutto rappresentativo e la valorizzazione della rete microfisica dei poteri sociali. La rivoluzione culturale della fine degli anni Sessanta marca la destituzione di rappresentatività delle istituzioni e l’occupazione diretta degli spazi in-comune, e accredita una forma di legittimazione radicalmente diversa da quella sacrificale dell’autorità: il desiderio. Come lucidamente interpretano Gilles Deleuze e Felix Guattari nell’Anti-Edipo, la spinta antistatalista e libertaria, schizo, è però il rovescio delle logiche del capitalismo deterritorializzante, che spinge proprio sull’eccedenza desiderante per incrementare la propria macchina, dando luogo alla regolamentazione deregolamentata della governance neoliberale che mentre “lascia morire”, realmente o metaforicamente, chi non ce la fa o non vuole accedere alla competizione di mercato, stimola creatività, pro9

J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, p. 116.

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Genealogie del presente

duttività e autorealizzazione di ciascuno10. Questa è la stupefacente ambiguità che si riverbera sul problema della democrazia. La condizione democratica sembra essere una dimensione virtuale delle moltitudini e delle eterogenee e molteplici pratiche sociali e del lavoro. Non si dà ruolo di “comando” o di orientamento politico ma un essere dentro essendo altrimenti, muovendosi nelle sgranature del tessuto governamentale, fatto di compatibilità e di confini porosi che dissolvono le territorializzazioni molari e le identificazioni che si fanno precarie e strategiche. Così la democrazia s-fonda ed eccede qualunque identità di “popolo”, rompendo radicalmente con l’ordine, discorsivo e non, del moderno. Democratizzazione allora è de-soggettivazione, destituzione della centralità, ibridazione dei confini. Che non significa che non si costruiscano identificazioni mobili, di tipo strategico; lo spazio e il territorio, che sono esplosi nel passaggio a questa governamentalità, divengono produttori di senso della lotta politica, attraverso la localizzazione del contesto, l’inserimento in varie combinazioni strutturali, la trasversalità e l’asimmetria di potere che di volta in volta si producono in una molteplicità di contesti11. La dimensione concreta, empirica e pragmatica di queste forme di soggettivazione anomale che re-interpretano l’autogoverno democratico lascia risuonare e agire l’eterogeneità della nuova realtà mondializzata e de-politicizzata, rispetto al classico Stato-nazione. Con molti dubbi, però, perché le pratiche devono raggiungere una attiva e concreta sedimentazione di obiettivi, una stabilizzazione di relazioni che diano spessore e riconoscibilità allo specifico movimento e gli conferiscano quella forza dell’apparire che quando si dissolve la rappresentazione rischia di svanire, evidenziando come, nonostante tutto, ne dipenda. Ci sono due punti con cui queste pratiche e movimenti sono costretti a confrontarsi: l’organizzazione (trasversale, plurale, a rete, non reductio ad unum verticale, ma comunque necessaria per la persistenza e l’identificazione degli obiettivi) e, ad essa connessa in quanto presuppone la generalizzazione e il comune, la definizione di quell’eccedenza di senso dell’egaliberté, che motiva l’organizzazione contaminandola di senso. L’immanentismo sociale, con pratiche spesso più tattiche che strategiche e incessanti negoziazioni non rischia di privare le soggettivazioni emergenti della conflittualità politica, risucchiandole nel sistema che contribuiscono

10 11

G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino 2002. S. Mezzadra, B. Neilson, Border as Method, or the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham-London 2013.

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a rinforzare? O invece questi piccoli spostamenti interni alla governamentalità determinano una lenta riscrizione dei rapporti di forza? Può l’antagonismo essere soppiantato dalla pura contiguità eterogenea dei compatibili, senza che si perda la lotta dell’egaliberté, non tanto con la mira dell’occupazione della scena, ma per l’apparizione di chi c’è, ed è eguale, ma non conta? Può l’esercizio di poteri sociali, comunque interno alla cornice dei dispositivi governamentali neoliberali, rinunciare ai diritti? Soprattutto di fronte al prezzo doloroso della crisi economica, l’urgenza di strutturare le rivendicazioni e di essere politicamente identificabili, si fa evidente in tutte le pratiche “dal basso” e nei movimenti stessi. Il momento organizzativo eccede dunque la dimensione tecnica e si rivela una dimensione strutturale della democrazia implicata nell’impegno contingente di interpretare e storicizzare quel nucleo di senso e di passione per uguaglianza e libertà. La democrazia sembra vivere della incessante tensione (o oscillazione o piega, che dir si voglia) tra questi due poli. I movimenti e le sperimentazioni di autogoverno a lungo risolti nella nonmediata testimonianza di se stessi, hanno rivendicato spinozianamente la vitalità delle forme pre- o non-politiche della moltitudine rispetto al popolo democratico e alle sue aporie; questi agenti, agevolati dalla orizzontalità e dalla disinibizione della rete, si sono a lungo sottratti all’eterno impotente gioco democratico-rappresentativo, provocandolo per destrutturarlo tramite lo spostamento, la sottrazione, il micro-scontro: ebbene, oggi, sono proprio queste esperienze di democrazia diretta a interrogarsi sulla funzione “politica” della organizzazione, non certo per tornare al passato, ma per sondare modalità di espressione politica che non tradiscano quell’incessante oscillare tra forma e movimento che è la democrazia, rimanendo fedeli all’istanza che ci dice che la democrazia si pratica, non si affida, e che alla crisi di democrazia si risponde con più democrazia.

4. E, dunque? La questione oggi è cogliere i segnali che vengono dalle rapide trasformazioni dello scenario politico. Sul fronte della democrazia rappresentativa emergono forme di populismo solo verbalmente antagonistiche, che mescolano pulsioni regressive e un conformismo passivo, piuttosto che seguire il modello populista auspicato dalla democrazia radicale12. Il fronte 12

M. Baldassari, D. Melegari, Introduzione a Populismo e democrazia radicale (a cura di Eid.), ombre corte, Verona 2013, p. 9.

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Genealogie del presente

antirappresentativo dei movimenti, a sua volta, dopo una fase di sperimentazione della propria differenza ontologica, sembra volersi confrontare, spinto dalla durezza della crisi economica, con un lessico e un immaginario “universali”, molari, e dunque ancora una volta popolari (si consideri, ad esempio, il movimento dei beni comuni e il suo inedito richiamo a una giuridificazione in linea con la Costituzione). E questo fa pensare che forse la spinta antirappresentativa che ha le sue radici nella rivoluzione culturale del Sessantotto, ma che s’incardina nell’anti-statalismo neoliberista, deve ancora fare i conti con la tradizione emancipatrice e democratico radicale. Sembra necessario sfuggire alla polarità rappresentazione/antirappresentatività. Il presupposto rimane quello di prendere sul serio la governamentalità biopolitica che ha prodotto soggettività nuove al di là delle identificazioni giuridiche e politiche moderne nel cittadino e delle sue dinamiche inclusive/escludenti. Queste soggettivazioni – che implicano sempre anche una de-soggettivazione, un passo indietro rispetto alle interpellazioni tradizionali e che, giusta la caratteristica ontologica della governamentalità, coesistono con le vecchie forme in modo incoerente ed emergenziale – allargano le maglie identificative e teoriche e includono pratiche diversificate e plurali sui terreni della governamentalità biopolitica e delle trasformazioni del lavoro. Ma sono proprio quest’ultime che subiscono lo slittamento dell’immaginario che oggi evoca piuttosto che l’esaltato imprenditore di se stesso, la mortificante responsabilità del debito che colpevolizza e de-classa (l’arma è quella della valutazione che include tutti differenziandone la posizione e l’accesso alle risorse) singoli, gruppi e popolazioni “irresponsabili”. A questa destrutturazione crudele e disegualitaria, non possono rispondere solo pratiche non formali di spostamento, di sottrazione. Troppo poco, a fronte di una diseguaglianza promossa e incentivata. Le tante risposte che eludono il dualismo rappresentativo e la reductio ad unum, di fronte ad un dispositivo socioeconomico di soggettivazione così mortificante, devono fare i conti con quel paradosso della democrazia che ha bisogno di organizzazione e ad essa riporta il proprio vitale nucleo di senso. L’organizzazione e il senso progettuale attorno a cui si dispiega non sono né un problema procedurale, né trascendenza. E questo intreccio è un problema anche e forse soprattutto per le sperimentazioni attuali di autogoverno, che non possono eluderlo. Innanzitutto bisogna che – per un necessario ripensamento della democrazia al di là della polarizzazione tra rappresentazione/organizzazione e immediatezza/singolarità, molare/molecolare – il nucleo “appassionante” della democrazia, l’egaliberté, non si configuri, come spesso avviene, come un’utopia, un’impossibile idea regolativa della democrazia, ma paradossal-

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mente come il dato da cui muove ogni rivendicazione e che si “verifica” o si falsifica a posteriori. Solo essendo liberi e uguali è possibile la rivendicazione contro una messa in scena democratica – una organizzazione – che nasconde, spettralizza, non fa “apparire” l’esistente. Dinamica a ritroso che afferma esistente ciò che non è, perché possa essere, e, riposizionata la scena, sia evidente e visibile. Dinamica evidente nei momenti istitutivi del potere democratico quando il potere costituente si manifesta come esistente – pur non essendo al momento ‘visibile’ nella scena del potere costituito contro cui si muove: per poi affermare con la vittoria e l’autoaffermazione come potere costituito, la verità del proprio essere. È necessario poi un ripensamento dell’organizzazione sacrificale dei singoli nella dimensione unitaria del gruppo, ma senza ignorare che è il nucleo di senso condiviso che è capace proprio attraverso la figurazione identitaria – emergente da esperienze, saperi, immagini, ricordi, aspettative condivise – di emozionare e coinvolgere. Come si evidenzia in maniera significativa nei gruppi, nei movimenti, nei collettivi che cercano una memoria storica dell’evento di lotta o di agency che li ha identificati. Se si tratti di trascendimento o di trasversalità, di sintesi metaforica o di contaminazione metonimica e prossimale, è il modus organizzativo che fa la differenza. Certo questo movimento verso la generalità o il comune – quindi ancora una volta il demos – deve essere un punto di continua contrattazione e contestazione che esige una sorveglianza incessante delle dinamiche che si vorrebbero tutte spontanee e dal basso, ma esige anche una incessante ri-definizione dello stesso senso dell’egalibertè, che è il dato della democrazia oggi. Organizzazione e senso: un’organizzazione che mantenga sempre aperta la contesa sulla definizione (o interpretazione) delle parole, dei significanti vuoti di libertà e uguaglianza, di giustizia sociale e di partecipazione. Parole la cui concretizzazione storica resta sospesa a questo lavoro di incessante attualizzazione. In questo senso si ribadisce l’assunto antifondazionale lefortiano: la democrazia è possibile perché l’universale – Popolo, o popoli, o gruppi di partecipazione politica, o collettivi che dir si voglia – rilegge in una dinamica interminabile, tutta storica e contestuale emergente dalle sfide locali e globali, il senso dell’uguaglianza e della libertà. La democrazia è dunque in atto, disvela, appare ed è già, ma è anche sempre a venire, ricettacolo del prender forma e rinnovarsi di quel nodo di senso13. Il passaggio incessante dall’uno all’altro capo, dal molare al molecolare e viceversa, è potenza democratica immanente. Secondo l’assunto 13

J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, a cura di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2003.

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Genealogie del presente

epistemico da cui queste osservazioni hanno preso le mosse, organizzazione e senso rinviano l’un l’altro, credenze e pratiche sono indissolubili: la egaliberté è un modo alternativo di essere e di decidere. Essa non è giuridica; è materiale. Non si definisce in base a ciò che la legge consente, ma in base alle scelte concrete che si prospettano ai singoli nelle situazioni diverse che essi esperiscono. E ogni essere umano, come diceva l’anarchico Murray Bookchin, ha la «competenza» per gestire i problemi del gruppo di cui fa parte14. Le frontiere escludenti della cittadinanza si fanno porose e la partecipazione territoriale e operativa, tanto nella strategia quanto negli obiettivi, si apre in punti diversi a gruppi che vi esercitano la loro eguale libertà. Non nel centro e dall’alto, ma dal basso e nei molteplici punti, diversi eppure unitari in relazione a quel modus di essere altrimenti. Vedi anche: Costituzione, Legalità, Popolo

14

M. Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, Milano 1989, p. 189.

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FRANCESCO REMOTTI

DESTRA / SINISTRA Ragioni di una persistenza

1. I lati di un enigma Se si volesse compiere un’indagine a tappeto, chiedendo a ogni singola persona a quale delle due maggiori categorie del mondo politico – destra o sinistra – penserebbe di appartenere, è probabile che il dato più rilevante non sarebbe un’adesione chiara ed esplicita, ma al contrario, titubanza, disagio, riluttanza, se non addirittura fastidio, rifiuto, contrarietà specialmente da parte delle fasce più giovani della popolazione. In effetti, anche tra gli intellettuali, non sono pochi coloro che da diverso tempo hanno decretato il carattere inattuale di questa distinzione. Verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso, il sociologo inglese Anthony Giddens sosteneva per esempio che «la nostra è la prima generazione a vivere in una società totalmente post-tradizionale», e quindi in grado di andare “oltre” la distinzione, ormai storicamente obsoleta, di destra e sinistra1. Nello stesso anno (1994) in cui, in Inghilterra, usciva il libro di Giddens, in Italia Norberto Bobbio faceva invece notare uno strano «paradosso»: «non si è mai scritto tanto come oggi contro la tradizionale distinzione fra destra e sinistra», e tuttavia, «mai come oggi», si oppongono due schieramenti che si richiamano a queste categorie2. Non solo, ma pure ci si attiva – continuava ancora Bobbio – per un referendum il cui obiettivo, oltre a provocare una «drastica riduzione dei partiti», sarebbe quello di favorire una equilibrata «alternanza» tra uno schieramento di destra e uno di sinistra3. Insomma, nonostante tutte le critiche e una ostentata volontà di “andare oltre”, «sembra che non si possa fare a meno» di queste «due parole-chiave del discorso politico», anche se, per aumentare il senso di paradosso, que1 2 3

A. Giddens, Oltre la destra e la sinistra, Il Mulino, Bologna 1997, p. 105. N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica (1994), Donzelli, Roma 1999, p. XXXV. Ivi, p. 28.

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Genealogie del presente

sta diade politica ricalca «una banalissima metafora spaziale, la cui origine è del tutto casuale»4. Disagio, banalità, casualità da un lato e, tuttavia, persistenza dall’altro rendono conto del carattere alquanto enigmatico della dicotomia destra/ sinistra: un vero e proprio puzzle, per risolvere il quale – sostengono H.F. Bienfait e W.E.A. van Beek5 – sarebbe opportuno adottare uno sguardo antropologico, e nello stesso tempo cercare di capire come essa sia storicamente venuta alla luce nella politica europea. La storia ha inizio il 5 maggio 1789, quando re Luigi XVI riunisce gli stati generali della società francese: nella Salle des Menus Plaisirs a Versailles, a destra del sovrano vi sono i rappresentanti del clero (il primo stato), alla sua sinistra i rappresentanti dell’aristocrazia (il secondo stato), mentre i rappresentanti della borghesia (terzo stato) si trovano assiepati in fondo alla sala. La cattiva acustica della sala aveva indotto a ristrutturare in maniera radicale la disposizione interna, e così nella riunione del 23 luglio si vedono due semicerchi, quello di destra occupato dal clero e dai nobili e quello di sinistra dai rappresentanti del terzo stato: una modifica della disposizione dei sedili dei diversi rappresentanti per migliorare l’acustica sarebbe all’origine di una ripartizione tra destra e sinistra, divenuta in seguito un modello per la politica parlamentare e partitica delle società europee. Il processo non è stato però così semplice e lineare. Negli anni della Rivoluzione francese, i modi con cui vengono organizzati i posti nelle Assemblee fanno intravedere spesso l’intenzione di discostarsi dalla divisione di destra e sinistra, così come si registrano scambi, inversioni, confusioni tra parti precostituite. Non solo, ma per diciannove anni, dal 1795 al 1814, fu impossibile introdurre negli organi legislativi francesi la distinzione tra un’ala destra e un’ala sinistra. La conclusione a cui pervengono Bienfait e van Beek è, sotto questo profilo, decisamente interessante. Dopo avere sostenuto che gli eventi relativi alla disposizione dei posti a sedere nelle assemblee parlamentari francesi non sono in grado di fornire una spiegazione esauriente, i due autori affermano: Destra e sinistra sono entrate nella politica in una maniera contorta, casuale e, manifestamente, come un evento di ben scarsa importanza. Dal momento però in cui [questa polarità] si manifestò, nonostante gli sforzi che furono compiuti per sopprimerla, essa riemerse tutte le volte. Da un capo all’altro del panorama della politica moderna, destra e sinistra sono definite come la polarità 4 5

Ivi, p. XXXVI e p. 30. H.F. Bienfait, W.E.A. van Beek, Right and Left As Political Categories. An Exercise in ‘Not-So-Primitive’ Classification, in «Anthropos», 96, 2001, pp. 169-178.

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F. Remotti - Destra / Sinistra

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politica dominante, a prescindere dalla storia pregressa e dalle disposizioni dei posti a sedere6.

Insomma, la perlustrazione della storia francese, per quanto riguarda il sorgere della dicotomia, non fa che accrescere il suo carattere enigmatico. Si tratta infatti di una dicotomia che per diversi studiosi caratterizza in modo essenziale e irrinunciabile la politica moderna, soprattutto in quanto fondamento dell’organizzazione democratica. Nonostante la casualità di cui parla Bobbio, confermata – come si è ora visto – dalla ricostruzione dei due antropologi, per Marco Revelli si sarebbe passati a uno schema persistente e duraturo, anzi a uno schema che si colloca in profondità nella coscienza collettiva, addirittura al confine tra conscio e inconscio7. Secondo Carlo Galli, la dicotomia a cui queste due categorie, «distinte, ma inscindibili, opposte ma complementari», danno luogo, rappresenta «uno dei contributi del Moderno alla continuità storica della civiltà occidentale»: rinunciarvi, come talvolta si è fatto, significherebbe sprofondare nell’omogeneità del totalitarismo8. Pur così persistente e addirittura indispensabile per la vita democratica, è come se, però, all’inizio la dicotomia si fosse imposta da sola, in assenza di un’intenzionalità, di una progettualità, in mancanza cioè di una “cultura” che la studiasse e la programmasse. Casualità e mancanza di una cultura programmatoria da un lato, persistenza, successo storico e irrinunciabilità dall’altro, inducono a tentare alcune considerazioni di ordine antropologico.

2. Il punto di vista antropologico L’argomento della diade si presta di per sé a essere trattato dal punto di vista antropologico, il quale a sua volta può essere articolato in tre approcci fondamentali: il primo ricerca le radici della distinzione destra/sinistra nella connessione tra biologia e cultura; il secondo consiste in una analisi della struttura concettuale di questa dicotomia e delle sue implicazioni più significative; il terzo prende invece in considerazione la varietà delle espressioni culturali di questa stessa dicotomia.

6 7 8

Ivi, p. 173. M. Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Roma-Bari 2007, p. XIII. C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, Laterza, Roma-Bari 2010. Cfr. in particolare pp. VIII, IX, 5 e 9.

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Genealogie del presente

Primo approccio. – Il saggio di Robert Hertz del 1909, fondatore degli studi antropologici su destra e sinistra, si apre con un’attenta disamina del nesso tra dimensione biologica e dimensione sociale9. Una settantina d’anni dopo, l’antropologo inglese Rodney Needham, curatore di un importante volume collettivo sullo stesso argomento, fa riferimento a «tendenze costanti della mente umana», a «certi fattori primari dell’esperienza umana», intravedendo nella dicotomia di destra e sinistra una «opposizione logica elementare», il «riflesso» sul piano concettuale di un «elemento indispensabile nella struttura del pensiero»10. A sua volta, il politologo canadese Jean Laponce pone in luce l’inevitabilità delle metafore spaziali nell’organizzazione del pensiero a causa della stessa struttura del nostro organismo11. Prima ancora che lo spazio, è in effetti la disposizione del corpo nello spazio ciò che determina la distinzione tra il lato destro e il lato sinistro12. A sua volta, Norberto Bobbio, giunge a questa affermazione: Che in un universo come quello politico costituito in modo eminente da rapporti di antagonismo fra parti contrapposte (partiti, gruppi d’interesse, fazioni, e nei rapporti internazionali, popoli, genti, nazioni), il modo più naturale, semplice e anche comune, di rappresentarli sia una diade o una dicotomia, non deve sorprendere13.

La diade destra/sinistra sarebbe dunque qualcosa di naturale, che non richiede di per sé una particolare riflessione, in quanto è una possibilità offerta dalla stessa biologia. Anche per Bienfait e van Beek «la divisione tra destra e sinistra in politica» ha da essere ricondotta alla «nostra propensione culturale a fare uso dei simboli più convenienti che abbiamo a disposizione»14. Destra e sinistra sono inoltre per Bobbio una semplice metafora, la cui unica funzione sarebbe quella di «dare un nome» alla «composizione dicotomica dell’universo politico»15. È casuale, e storicamente contingente, che si usino 9 10

11 12 13 14 15

R. Hertz, La preminenza della destra e altri saggi (1909), Einaudi, Torino 1994, pp. 137-140. R. Needham, Introduction a Id. (ed.), Right and Left. Essays on Dual Symbolic Classification, The University of Chicago Press, Chicago 1973, p. XXXI; Id., Right and Left in Nyoro Symbolic Classification, in Id. (ed.), Right and Left. Essays on Dual Symbolic Classification, cit., p. 331. J. Laponce, Left and Right. The Topography of Political Perceptions, University of Toronto Press, Toronto 1981, pp. 3-6. G. Cardona, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Roma-Bari, Laterza 1985, pp. 43-49. Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. 29. Bienfait, van Beek, Right and Left As Political Categories, cit., p. 177. Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. 30.

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F. Remotti - Destra / Sinistra

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categorie spaziali come destra e sinistra; non è casuale, bensì «persistente» ed «essenziale», «la struttura essenzialmente e originariamente dicotomica dell’universo politico». Ovvero, «il nome può cambiare», ma l’opposizione dicotomica «rimane». Bobbio suggerisce cioè di considerare a parte la faccenda del nome (destra e sinistra, a partire dalla Rivoluzione francese) e della metafora spaziale, e di concentrarsi invece sulla struttura dicotomica dell’universo politico. A fronte della struttura intrinsecamente antagonistica e oppositiva della sfera politica, la denominazione metaforica di “destra” e “sinistra” appare alquanto irrilevante. In questo modo, Bobbio scioglie l’enigma della casualità e della persistenza, e nello stesso tempo induce ad addentrarci nella struttura concettuale della dicotomia. Secondo approccio. – Jean Laponce, nel 1981, ha inteso indagare destra e sinistra come elementi di una “topografia” dell’universo politico. Interessato agli aspetti «universali» della dicotomia, piuttosto che alle sue realizzazioni particolari, ai «tratti comuni», piuttosto che alle «variazioni culturali», per quanto «affascinanti» queste possano essere16, il lavoro di Laponce, riconosciuto da Bobbio come «l’opera principale sul tema»17, si configura come uno dei contributi maggiori al tipo di approccio che stiamo ora discutendo. Vale quindi la pena provare a sintetizzarne alcuni punti, innestando nel contempo alcune nostre riflessioni. i) In quanto categorie spaziali, destra e sinistra determinano una diade, il cui asse è prevalentemente orizzontale. Di contro, l’altra diade spaziale, quella di sopra e sotto, alto e basso, si struttura su un’asse verticale18. Orizzontalità, dunque, contro verticalità, ovvero gioco democratico – soprattutto in campo parlamentare – contro il potere gerarchico che viene dall’alto e che opprime i governati. Una delle teorie più interessanti di Laponce è che l’insorgenza della diade destra e sinistra in campo politico ha avuto l’effetto rivoluzionario di fare ruotare di 180 gradi l’asse verticale del potere: il potere tradizionale, un tempo collocato in alto, si trova ora situato a destra su un asse orizzontale, il quale legittima la sinistra nel contrastare il potere vigente. ii) Secondo Laponce, vi è una propensione a usare piccoli numeri per «classificare persone, eventi, idee»19: essi infatti consentono di soddisfare in maniera non troppo dispendiosa l’esigenza di tipo classificatorio che troviamo in qualsivoglia cultura20. Ma perché due, invece che uno, tre, quattro 16 17 18 19 20

Laponce, Left and Right, cit., p. 9. Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. 35. Laponce, Left and Right, pp. 6 e 8. Ivi, p. 14. Needham, Introduction, cit.

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Genealogie del presente

o, più genericamente, molti? «I numeri due e tre, e in modo speciale il due» si configurano come «una piattaforma girevole», collocata «tra l’unità e la molteplicità»21. Questa porta girevole svolge almeno due funzioni: da un lato consente un più efficace controllo della molteplicità (riduzione della molteplicità a poche categorie), dall’altro permette di proseguire per ulteriori suddivisioni oppure di procedere in senso opposto, verso un’affermazione dell’unità. iii) Le osservazioni di Laponce pongono in luce una certa instabilità e nel contempo una ricerca mai soddisfatta di un equilibrio, che si rivelerà sempre precario. La politica sembra infatti barcamenarsi tra l’attrazione dei piccoli numeri, garanti di un ordine classificatorio, e il governo dei “molti”, che apre alla partecipazione di una pluralità di soggetti. La riduzione ai piccoli numeri, i quali dispiegano un’efficace capacità classificatoria, è una sorta di compromesso tra esigenze opposte: quella dell’ordine e della governabilità da un lato e quella della partecipazione e del consenso esteso dall’altro. Vale forse la pena ricordare Aristotele e la sua tipologia politica: governo di uno solo, governo di pochi, governo dei molti. iv) Tenendo conto dell’instabilità e della ricerca continua di un equilibrio, è importante specificare che destra e sinistra possono essere intese in due modi: come due categorie che, in antitesi tra loro, coprono senza sfumature l’intero campo politico, oppure come due poli di un continuum22. Nel primo caso, esse sono termini «reciprocamente esclusivi», ma anche «congiuntamente esaustivi», nel senso che nulla si interpone tra loro23. Un timido avvicinamento all’idea del continuum è data invece da una visione triadica. Tra destra e sinistra si forma infatti uno spazio intermedio, coincidente con la nozione di centro, il quale si configura come una forza che, incuneandosi tra le due ali estreme, impedisce lo scontro diretto, o anche come una forza che tende ad andare oltre la loro contrapposizione24. Con le analisi di Laponce e di Bobbio ci rendiamo conto di un notevole grado di manipolabilità della diade “destra e sinistra”. Questa infatti può essere ulteriormente segmentata, come nel caso di una classificazione a cinque (sinistra, centro-sinistra, centro, centro-destra, destra), a dimostrazione dell’esigenza insopprimibile di un ordine classificatorio. Bobbio però pone anche in evidenza il caso di forze e movimenti alternativi che si prefiggono di muoversi «attraverso» le categorie o addirittura di andare «oltre»25. È 21 22 23 24 25

Laponce, Left and Right, cit., p. 19. Ivi, p. 10. Bobbio, Destra e sinistra, cit., pp. 3 e 6. Ivi, pp. 7-9. Ivi, pp. 8-10.

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questo uno spunto importante, il quale ci fa capire che una classificazione (a due, a tre, a cinque) non è mai in grado di soddisfare e dare riconoscimento alla molteplicità di istanze che si presentano nel campo politico. L’idea di continuum evoca infatti non soltanto la pluralità di tanti possibili soggetti o posizioni, ma anche, e più radicalmente, la contestabilità delle stesse categorie con cui il continuum viene segmentato. In altri termini, il campo politico non può essere fatto coincidere soltanto con il livello delle categorie (tante o poche che esse siano): oltre o prima delle categorie politiche c’è il magma della società. v) Instabilità, precarietà, manipolabilità delle categorie fanno comprendere come i soggetti politici che vi si riconoscono abbiano un netto interesse per il loro mantenimento. Non v’è dubbio che destra e sinistra esprimono una situazione di tensione e di conflitto. Ma, come Ambrogio Santambrogio ha posto in luce, non si tratta della contrapposizione di amico/nemico, teorizzata da Carl Schmitt26 – o di “noi”/gli altri, come nel caso dell’attuale Movimento 5 Stelle –, in quanto l’altro di destra o di sinistra «è l’altro all’interno di un contesto conosciuto, familiare»27. Il conflitto c’è, ovviamente, ma si tratta di un conflitto che la dicotomia si incarica di addomesticare, ovvero si tratta di subordinare il conflitto alla dicotomia, la quale acquista dunque un valore intrinsecamente superiore. Tutto ciò implica un riconoscimento reciproco tra le due parti, un passaggio dall’idea di “nemico”, da respingere o da sopprimere, a quella di “avversario”, con cui coesistere. E la coesistenza, resa possibile dal mantenimento della stessa dicotomia, può assumere la forma della coalizione (nella sincronia) o quella dell’alternanza (nella diacronia). Conservare la diade, mantenersi entro il suo orizzonte categoriale, significa evitare di correre due rischi, che si trovano ai lati opposti della porta girevole del due: il rischio dell’uno e il rischio dei molti. Per usare le nozioni suggerite da Laponce, ciò che prevale è la dimensione «gioco» sulla dimensione «guerra»28. vi) Con l’addomesticamento del conflitto e la sua subordinazione al mantenimento della dicotomia si assiste anche a una riduzione dell’orizzonte temporale, a un vero e proprio controllo e persino annullamento del tempo. La “coesistenza” tra destra e sinistra, fondata sul reciproco riconoscimento, è un’organizzazione “spaziale” che espunge il tempo dal sistema; e l’“alternanza”, a sua volta, altro non è che un tentativo di incanalare 26 27 28

Cfr. Le categorie del “Politico” (1922-1953), a cura di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1998. A. Santambrogio, Destra e sinistra. Un’analisi sociologica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 86. Laponce, Left and Right, cit., p. 24.

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il tempo, oltre che il conflitto, in una forma ciclica. Quando dallo spazio (si pensi alla collocazione nelle aule parlamentari) si passa al tempo, la dualità si trasforma in alternanza. vii) Il conflitto può essere portato alla dimensione “gioco”, come afferma Laponce; ma le “ragioni” del conflitto stanno altrove, cioè nel livello sociale che si trova “prima” delle categorie politiche (punto v). Non sempre il conflitto può essere addomesticato dalla dicotomia e trattenuto nel “gioco” di alternanza delle categorie di destra e sinistra. Con l’adozione di un’idea di tempo lineare e irreversibile, si può anche pensare infatti di giungere, prima o poi, a una risoluzione del conflitto. Si tratta allora non di mantenere, ma di distruggere la dualità: il conflitto prevarica sulla dualità, a tal punto che l’altro ha da essere annientato. Il Novecento ha offerto molti esempi di ricorso furibondo all’unità attraverso i totalitarismi di destra o di sinistra. A questo proposito, Santambrogio parla di «volontà di un disperato ritorno all’unità»29. Ma il Novecento, con la Guerra civile spagnola e con la Seconda Guerra mondiale, ha pure fatto vedere, tanto in un contesto nazionale quanto su un piano internazionale, come la dualità destra/sinistra possa trasformarsi in conflitti disastrosi, impossibili da incanalare e di lunga durata. In altre parole, i tentativi di passaggio all’unità, lungi dall’essere una risoluzione del conflitto, hanno dato luogo a una riproposizione bellica della dualità con modalità particolarmente distruttive. viii) Collocare l’opposizione destra/sinistra al di fuori delle aule parlamentari, in un contesto storico più vasto, quello determinato dalla storia delle potenze occidentali, ci consente di cogliere la drammaticità dell’opposizione e di intravedere le cause che hanno generato questo contrasto e che continuano ad alimentarlo. Per Bobbio, alla radice dell’opposizione strutturale tra destra e sinistra (a prescindere, come abbiamo visto, dalla sua denominazione) vi è una forte ineguaglianza sociale ed economica. Riprendendo questa tesi, Marco Revelli fa vedere come i problemi dell’ineguaglianza si siano ingigantiti sul piano globale: ciò che manca – egli afferma – sono i «soggetti politici disposti a farsene carico»30. Ma perché questa latitanza e questa titubanza? Forse i possibili soggetti politici sono attanagliati di fronte a un’alternativa temibile: quella di entrare nel “gioco” politico della coesistenza e dell’alternanza tra destra e sinistra, subordinando il conflitto al mantenimento della dicotomia, oppure quella di risolvere il conflitto con l’abbattimento violento, e dagli esiti incerti, della stessa dicotomia.

29 30

Santambrogio, Destra e sinistra, cit., p. 82. Revelli, Sinistra Destra, cit., p. IX.

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ix) Destra e sinistra non sono in ogni caso una semplificazione eccessiva? Praticamente tutti gli autori che si sono occupati di questa dicotomia non hanno potuto fare a meno di sottolineare il lavoro di semplificazione che la dualità opera sul continuum delle posizioni31, una «semplificazione polemica» che riduce drasticamente e quindi «non può che far torto alla complessità di un pensiero»32. All’inizio del Manifesto del Partito Comunista del 1848, Karl Marx e Friedrich Engels adottano uno schema storico che porta direttamente al tema della semplificazione. Secondo questo schema, nella storia si sarebbe passati da società caratterizzate da «una multiforme gradazione delle posizioni sociali», e quindi da una pluralità di «lotte di classi» e di diverse figure di «oppressori e oppressi», alla «moderna società borghese» in cui la lotta si è radicalizzata ed elementarizzata: L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue […] perché ha semplificato i contrasti tra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato33.

Si tratta di una semplificazione brutale, operata prima ancora che sul piano dell’intelletto, sul piano della praxis e della realtà sociale. Nell’Introduzione all’edizione del 1999 di Destra e sinistra, Bobbio ebbe infatti a scrivere: «dividere l’universo in due emisferi non è una semplificazione, ma una fedele rappresentazione della realtà»34. Occorre dunque intendersi sulla semplificazione: un conto è pensare che destra e sinistra non siano altro che un’indebita proiezione, da parte di un pensiero classificatorio eccessivamente semplificante, sulla complessità del reale; un altro conto è ritenere che la stessa realtà sociale sia stata “semplificata” da meccanismi eccessivamente inegualitari per quanto riguarda sfruttamento e disponibilità di risorse.

3. Categorie e relazioni All’inizio del Manifesto del Partito Comunista, Marx e Engels avevano sostenuto che «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di

31 32 33 34

Laponce, Left and Right, cit., p. 23. Santambrogio, Destra e sinistra, cit., p. 86. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), in Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 292 e s., corsivi miei. Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. X.

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classi»35. Ma nel 1888, in una nota dell’edizione inglese, Engels corregge il tiro: prima della storia scritta vi sarebbe una «preistoria sociale», propria di società prive di classi e di lotte di classi, società comuniste (comunismo primitivo, beninteso), la cui organizzazione sociale sarebbe stata portata alla luce dall’etnologo americano Lewis H. Morgan. È oggi difficile parlare di preistoria sociale; e tuttavia l’esigenza – molto ben avvertita da Engels – di mettere a confronto la «moderna società borghese» e la sua netta divisione in “due” classi con altre società è tutt’altro che da trascurare. L’esigenza di Engels – come dimostra molto bene il suo ricorso a Morgan – può essere soddisfatta con un’attenta considerazione delle altre società umane e in particolare delle diverse modalità culturali in cui si esprime in esse il principio dicotomico. Terzo approccio. – In maniera un po’ scherzosa Robert Lowie, in maniera più seria e convinta Claude Lévi-Strauss, entrambi questi antropologi hanno ricondotto la divisione tra Democratici e Repubblicani negli Stati Uniti d’America alle “organizzazioni dualistiche” che essi andavano studiando presso altre società36. Le organizzazioni dualistiche danno luogo a una «bipartizione degli esseri e delle cose dell’universo», la quale può riguardare tanto la società, quanto gli esseri naturali37. Quando la bipartizione riguarda la società, quest’ultima risulta divisa in due “metà”: ed è così in effetti che le due parti vengono chiamate dagli antropologi. Ciò a cui assistiamo, quindi, è l’esistenza sociale di due categorie, divise e quindi in opposizione tra loro. Fin qui, sembrerebbe che la nostra dicotomia di destra e sinistra rientri nel quadro più ampio delle categorie in opposizione binaria. Lo studio delle organizzazioni dualistiche pone in luce però l’esistenza di una dimensione alternativa, che va ad aggiungersi e a intersecare quella dell’opposizione: ovvero la reciprocità. Opposizione significa infatti conflitto e persino ostilità; ma le organizzazioni dualistiche, studiate dagli antropologi in numerosissime società, manifestano oscillazioni costanti e programmate «tra le relazioni ostili e la fornitura di prestazioni reciproche»: vi è insomma «una continua transizione dalla guerra agli scambi, e dagli scambi agli inter-matrimoni»38. Si tratta di un punto decisivo, che Laponce non si è lasciato sfuggire, allorché egli sostiene che destra e sinistra giustappongono e dividono a) per classificare, b) per organizzare il 35 36 37 38

Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 292. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1949), a cura di A.M. Cirese, Feltrinelli, Milano 1984, p. 128. Ivi, p. 120. Ivi, p. 119.

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F. Remotti - Destra / Sinistra

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conflitto; c) per promuovere scambi e cooperazione39. Ebbene, sono soprattutto le prime due funzioni (classificazione e conflitto) quelle che contraddistinguono le categorie di destra e sinistra della politica moderna. Vi è così una rilevante differenza tra i dualismi delle società moderne da un lato e quelli delle società non-moderne dall’altro: i dualismi moderni «non sono concepiti per facilitare scambi e reciprocità; essi sono utilizzati invece per separare competitori e oppositori»40. Le “metà” studiate dagli antropologi in diverse parti del mondo presentano molto spesso la caratteristica dell’esogamia. Obbligando gli individui della metà A a ricercare un coniuge nella metà B e viceversa, l’esogamia sfugge a una logica meramente categoriale. La relazione matrimoniale “attraversa” i confini delle categorie e così le due metà stabiliscono tra di loro un legame stretto e indissolubile. La combinazione di questi due elementi – “categorie” e “relazioni” – impedisce che le categorie si arrocchino in sé e che conoscano verso l’altra metà soltanto relazioni di diffidenza e di ostilità. È importante rendersi conto che le relazioni di reciprocità e di scambio svolgono una funzione di stabilizzazione del sistema, facendo in modo che le due metà convivano – e non soltanto coesistano – in un sistema caratterizzato da complementarità e interdipendenza. Il conflitto, se c’è, assume spesso la forma di «giochi rituali, che ben traducono il duplice atteggiamento di rivalità e di solidarietà che costituisce la caratteristica più evidente delle relazioni tra metà»41. Il conflitto, se c’è, viene inoltre compensato molto spesso da scambi rituali, come quando una metà interviene per celebrare i funerali di un membro della metà opposta. Una logica meramente categoriale, priva delle relazioni di reciprocità, se non degenera in un conflitto socialmente distruttivo, può al massimo dare luogo a regimi di “coesistenza”, non di “convivenza”42. Si dirà che le società in cui si riscontrano questi fenomeni sono “primitive” o “tradizionali”, caratterizzate dal fatto che la dimensione politica, similmente a quella economica, risulterebbe “ancora” incapsulata nel tessuto sociale. In effetti, uno dei criteri maggiormente utilizzati per distinguere società pre-moderne e società moderne è stata propria la rilevante autonomia che la sfera economica e la sfera politica hanno assunto in queste ultime. Con la sua tesi della “grande trasformazione” Karl Polanyi ha però 39 40 41 42

Laponce, Left and Right, cit., p. 27. Ivi, p. 28. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 121. Cfr. F. Remotti, Identità o convivenza?, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Giappichelli, Torino 2013, pp. 55-83.

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fatto vedere come questa autonomizzazione abbia comportato effetti disastrosi di impoverimento economico, sociale e culturale43. I numerosi esempi di dualismo nelle società moderne ci consentono di riprendere il tema che era affiorato alla fine del § 1, quello cioè della mancanza di “cultura”, e quindi di “cura”, nella programmazione delle dicotomie. Anche Laponce vede nella destra e sinistra della politica delle società moderne una certa «inaccuratezza»44. A proposito dei due partiti nord-americani, Lévi-Strauss parla di «abbozzo di dualismo»45. Al posto della “cultura” che genera le organizzazioni dualistiche in altre società, è lo «sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido» ciò che produce lo schema essenziale della nostra dicotomia: il capitalismo – affermano Marx e Engels – «non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”»46, ovvero un deserto culturale e sociale. In effetti, nelle società moderne la dicotomia destra e sinistra oscilla – come si è già visto (§ 2, punti vii-viii) – tra due sole alternative: a) mantenimento della dicotomia, controllo del conflitto, coesistenza e alternanza al potere; b) incremento della lotta e potenziale risoluzione del conflitto. La lotta non è soltanto quella della sinistra contro la destra. Secondo quanto ha di recente argomentato Luciano Gallino, in sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere47.

Ciò che intendiamo sostenere è che, nell’organizzazione politica delle società moderne, destra e sinistra designano due categorie ridotte alla loro contrapposizione: per loro non è pensabile l’aggiunta del fattore reciprocità, in quanto nascono da ineguaglianza e sfruttamento. Proponiamo perciò una sorta di tipologia, secondo la quale troviamo A) società in cui le categorie dicotomiche prevalgono nettamente sulle relazioni, essendo queste ridotte soltanto ad antagonismo e contrapposizione; B) società in cui le categorie sono rese interdipendenti mediante le relazioni di reciprocità che le intersecano e le collegano. Ma esiste pure un tipo C) di società (rinvenibili 43 44 45 46 47

Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Einaudi, Torino 1974. Laponce, Left and Right, cit., p. 8. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 128. Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 294 e s. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 12.

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F. Remotti - Destra / Sinistra

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prevalentemente tra quelle di caccia e raccolta), in cui ci si affida alle relazioni e assai meno alle categorie: si tratta di società piccole ed egualitarie, in cui il potere, non istituzionalizzato, è di tutti e di nessuno, essendo esercitato soltanto in rapporto ai problemi che di volta in volta si presentano, a dimostrazione che la democrazia – nient’affatto prerogativa dell’Occidente – si trova in grado ben maggiore là dove potenzialmente “tutti”, e non soltanto i “molti”, partecipano all’elaborazione delle decisioni48. Vedi anche: Democrazia, Eguaglianza, Società

48

Su questo punto, cfr. F. Remotti, Noi, la democrazia e gli altri, in P.P. Portinaro (a cura di), L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti, Einaudi, Torino 2011, pp. 239-254.

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FEDERICA GIARDINI

ECCELLENZA Selezione, distinzione, differenza

Prendiamo sul serio, per un momento, il consenso con cui molti ragazzi e ragazze hanno inizialmente accolto i discorsi pubblici sul merito. Il termine suonava come una svolta, l’interruzione di un certo ordine della convivenza, che risultava regolato secondo ingiustizia. Parente del populismo, che rifiuta qualsiasi istituto di mediazione vigente, il consenso all’idea si alimentava della sfiducia nelle misure di redistribuzione di beni, servizi, salari, opportunità. Farsi regolare dal merito è stato ricevuto come un criterio di giustizia o, perlomeno, come la fine di un regime relazionale inadempiente ed escludente. La percezione diffusa ha a che fare con quella dimensione che dovrebbe essere preposta all’equità dell’accesso alle risorse e della partecipazione negli scambi. Nelle società novecentesche occidentali l’equità è la norma prima del patto sociale che ne legittima le istituzioni; genera il riconoscimento che si riserva loro ed è strettamente connessa al sentimento, personale, individuale, che tale funzione primaria venga assolta, il pari accesso cioè a quel che costituisce il plesso che va sotto il nome di “cittadinanza”: istruzione, lavoro, sanità, informazione. Le istituzioni sono invece percepite come ingiuste, e dunque delegittimate, quando appaiono inadempienti. Il merito si è così presentato come una misura democratica, di riapertura, di ritorno alla realtà delle competenze, dopo la finzione strumentale prodotta da un interesse di parte o individuale che mira a garantire la propria durata e riproduzione. Esiste però un paradosso: il merito è un criterio di selezione, vale a dire che individua chi è e chi non è meritevole; e così infatti è stato recepito, come un criterio di selezione per distinguere ciò che è legittimo da ciò che non lo è, per individuare realmente i soggetti del diritto a istruzione, lavoro, sanità, informazione. Una misura di ripristino della legittimità delle istituzioni e degli istituti sociali, e dunque della pertinenza dell’esercizio delle loro funzioni, attraverso un ritorno alla realtà dei bisogni e delle relazioni cui rispondono. In una parola, un ritorno alla democrazia sostanziale.

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1. Vuoti di misura: dal comune-condiviso all’oggettivo Prima di sviluppare l’eterogenesi di questa ispirazione, è bene vedere in quale paesaggio concettuale contemporaneo iscriverla. La crisi di legittimità delle istituzioni fa infatti capo a una costellazione di riferimenti del vivere comune, a cominciare da quella principale del circuito doveri-diritti. Essere cittadino, essere cittadina è una figura circolare che si delinea nello scambio tra delega e garanzia, tra osservanza e restituzione, è questo il fondamento ricorsivo del patto sociale; ma questi sono tempi in cui si registra un declino dell’agenzia statuale quale anello primo e ultimo di tale circuito. È dunque pertinente parlare di una crisi della misura, di quei principi, valori, criteri che collocano una donna, un uomo, il mondo in cui viviamo, secondo un ordine di convivenza, in una rete di relazioni e scambi, un tessuto comune che si alimenta del conflitto tanto quanto dell’accordo – lo stesso conflitto necessita di un tessuto connettore su cui si contende. In un’epoca di crisi ed emergenze permanenti, di ideologie che premiano l’idiosincrasia individuale – in cui vige l’idea che “l’individuo sia misura a se stesso” – è proprio questo tessuto connettore che viene costantemente distrutto, disfatto, retoricamente designato come negativo, quale impedimento a una maggiore libertà. Cultura, provenienze, storie, biografie, abitudini, memorie, tutto ciò che ci rende transindividuali, eccedenti rispetto a una presunta sfera privata, è di troppo; eppure è proprio ciò che dà consistenza e genera operatori di relazione e di scambio, in tutte le loro forme – salari, prezzi, profitti, valori, principi, idee regolative, criteri di giudizio… Il disfacimento o rifiuto intenzionale di un tessuto connettivo – di una dimensione comune e condivisa, che esprima le sue linee interne – non può tuttavia lasciare inevasa la necessità di articolazione, di misura. La risposta egemonica da almeno trent’anni a questa parte è quella matematicoquantitativa. A fronte del venir meno di una comunanza e condivisione e di operatori che connettessero le parti, è arrivato infatti il richiamo all’oggettività, a una parola ultima, che riducesse complessità e frammentazione; tale funzione è stata affidata alle scienze, al calcolo, alla modellistica protocollabile, così da ripristinare quel piano rispetto a cui non è possibile discutere oltre. In effetti l’oggettività offre criteri non ulteriormente discutibili di giudizio, in nome del rimando a fatti ultimativi (non c’è alternativa). Contro il proliferare dell’idiosincratico e dell’indecidibile, ecco allora che comunanza e condivisione vengono sostituite dal criterio unico che dirime definitivamente. Alla crisi degli operatori di scambio tra culture diverse, nell’epoca dell’integrazione spesso forzosa che prende il nome di globalizzazione; tra sistemi diversi, con la costruzione di regioni geopolitiche

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F. Giardini - Eccellenza

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omogenee, come ad esempio l’Unione Europea; tra Stato e cittadine e cittadini, in un periodo di crisi dei criteri novecenteschi del patto sociale; tra ambiti diversi della vita comune, come la scuola e l’università, la società, il mercato, il lavoro; nelle relazioni tra i corpi e i bisogni e desideri, dalla famiglia ai processi di identificazione – si risponde con i criteri offerti da indicatori quantitativi formali, da protocolli e procedure. Si va dal modello della democrazia liberale occidentale agli standard e agli indicatori delle classifiche internazionali; dallo scambio a mezzo del solo denaro alla negoziazione tra individui sulla base del calcolo costi-benefici; dall’idea di giustizia come ambito garantito da procedure alla riduzione del tempo a tempo della produzione; dai saperi valutati secondo la capacità di formare skills, competenze funzionali, alla riduzione della psiche ad attività cognitive empiricamente osservabili e alla classificazione standardizzata delle patologie su scala globale. Sono tutti casi in cui vige la pretesa di ricondurre la vita umana a una serie di quantità ordinabili perché comparabili tra loro. Ricordando la grande stagione della critica alla neutralità e ultimatività dei fatti e delle scienze, quella stagione in cui i paradigmi scientifici risultavano da conflitti tra comunità di competenti, in cui lo stesso metodo aveva una storia, esprimeva la cultura entro cui si profilava, l’uso dirimente di criteri matematico-quantitativi può apparire alla stregua di una cecità ideologica: si indicano tali criteri come oggettivi, là dove invece si intende veicolare strumentalmente una serie di interessi parziali e specifici. Perché non si afferma, ora come allora, una produzione critica ed eventualmente scientifica di altra ispirazione? La retorica dell’oggettività ha presa perché risponde a un bisogno non ulteriormente comprimibile: contro una complessità che, non potendo più essere compresa e praticata, diventa frammentazione, emerge il bisogno che si dia qualcosa di condiviso, che esista qualcosa che legittima definitivamente ad agire in un senso e non in un altro. In breve, il richiamo all’oggettività veicola una richiesta e una pretesa di fiducia, di affidamento, svolge oggi la funzione di auctoritas, quella a cui ci si affida per l’ultima parola.

2. Distinguere, classificare, selezionare Criteri per valutare, per giudicare, per decidere, per orientarsi, per scambiare. Se le statistiche si limitassero alla vocazione di tracciare un multiversum, ci offrirebbero una sorta di mappatura di posizioni, orizzontalmente distribuite, intensivamente rilevanti: a diverso indicatore avremmo diversi punti in rilievo o in sfondo. Ma questa complessità – che viene

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Genealogie del presente

rivendicata nella costruzione degli indicatori statistici – non risponde però all’esigenza di orientamento, di giudizio, di criterio, di misura; è per questo che le statistiche arrivano nel discorso pubblico in veste di classifiche. Dove cultura, tradizione, mentalità, divisioni di lavoro di ruoli e di valore, abitudini sociali, rituali cessano di fornire schemi di intelligibilità pratica, là intervengono le classificazioni che costruiscono gruppi, ascrivono loro caratteristiche, li collocano rispetto alle funzioni che dovrebbero espletare, fino a delinearne il valore. Nel passaggio dalle statistiche alle classifiche si realizza una riduzione di complessità, un ordine e, insieme, la possibilità di una messa in relazione, di una comparazione e dunque di un giudizio. Per svolgere la funzione di intelligibilità pratica – al pari dei miti, quando li si considerino una forma che rende ordinabili gli elementi che compongono gli esseri umani e le relazioni tra loro – le descrizioni statistiche diventano forma egemonica dell’immaginario contemporaneo a patto che siano ritagliate in classifiche. E le classifiche si articolano secondo la doppia funzione di individuazione e comparazione (vecchi/giovani; poveri/ricchi; meritevoli/immeritevoli). L’ordine che ne deriva va inteso in un senso stringente: non ambito, non sfera, non ordinamento, bensì gerarchia – ordine di elementi non ulteriormente discutibili per parte umana (ieros, sacro), ultimativi, autoritativi e legittimanti di chi li pronuncia e di chi li osserva. Tale ordine è organizzato secondo un crescendo-decrescendo, che comporta e richiede lo sconfinamento del descrittivo-quantitativo-oggettivo sul terreno del giudicare-valutare-riconoscere. E così chi merita è chi, secondo quella scala, ha credito, gli altri essendo in debito. È vero, la differenziazione è un bisogno incomprimibile dell’umano e consiste in una messa in relazione effettiva, un differenziale, che articola le parti tra di loro, evitando il collasso in un tutto indifferenziato, che risulterebbe impraticabile perché immobile e inconoscibile perché non percepibile secondo articolazioni (perfino l’individuazione è un momento di questo gioco). Ma oggi, classificazione e gerarchia risolvono questo bisogno in modo unilaterale, non tanto articolazione e alterità, quanto univocità di un criterio da cui discende poi una gerarchia, più che una differenza, per gradi di distribuzione: il più e il meno, il meglio e il peggio, l’apice e il fondo. Forma dell’intellegibile – avere/non avere; positivo/negativo; alto/basso… – la gerarchia classificante ha presa per via della sua elementarità. Questo ordine gerarchico – struttura di intelligibilità e dunque di scambio e di convivenza – nel determinare e distribuire una scala di valori, non procede tuttavia secondo la semplicità dell’inclusione e dell’esclusione. Piuttosto, instaura una tensione all’emulazione, all’inclusione tra (i pochi) pari. Chi ha credito ne fa naturalmente (fattualmente, oggettivamente) par-

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F. Giardini - Eccellenza

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te, chi invece sta in basso nella scala deve dimostrare di esserne degno. Dimostrare: lavoro di raddoppio della propria titolarità. L’uso, la funzione e il significato del termine “eccellenza” si situano in questo quadro discorsivo: eccellenza è superiorità di grado, all’interno di una scala, costruita secondo un valore-indicatore, che rende intellegibile la classe e comparabili gli elementi che la costituiscono. Questione di gradi e non di selezione, di inclusione-esclusione, l’eccellenza è nome che indica una catena che lega elementi tra loro, che vive della comparazione; non è valore assoluto, non è criterio autoreferenziale, necessita di esercitare una forza di attrazione verso gli elementi cui si compara. Se il differenziale è capace di mostrare la matrice da cui emerge, ciò che eccelle è momento secondo che occulta il ritaglio che disegna l’ambito di esercizio della gerarchia. Selezione ed esclusione agiscono dunque nella definizione della classe, non al suo interno, dove vige invece una classificazione tra elementi omogenei. Eccellere significa infatti distinguersi rispetto ad altro, più precisamente, rappresentare il valore massimo rispetto a un resto che viene situato come valore minimo, ma che va incluso come facente parte della classe considerata. Implica dunque una parità, nel senso che richiede che tutti gli elementi della classe riconoscano parimenti il valore che li misura, che li connette in un ordine. È per questo che l’eccellenza non disdegna l’inclusione di nuovi elementi: tutti quelli che accettano di collocarsi secondo quello specifico principio, valore, criterio. È l’entrata in un circolo che legittima, che distribuisce valori, dignità e credito, che dà ordine, rende intelligibile e orienta comportamenti.

3. Eccellenza e politica In ambito politico l’uso del termine si presenta con effetti drammatici – quando non propriamente tragici – ma anche sorprendenti. Cominciamo dal bordo dello spazio, della classe, entro cui si esercita la classificazione secondo il più/meno; alto/basso; etc. L’eccellenza si esercita e si misura tra cittadini, cioè tra chi si riconosce vicendevolmente come parte della comunità politica. Tuttavia, fin dalle origini, la classe dei cittadini non è coestensiva al genere umano: per quanto l’adagio aristotelico voglia a tutti i costi portare a coincidenza umano e cittadino – «chi non vive in città o è una bestia o è un dio» – subito si rivela come questa “umanità cittadina” sia già un ritaglio: ai bordi, a non entrare nei conti troviamo donne, schiavi, bambini e – in analogia con l’epoca presente – i barbari, gli stranieri. Questi ultimi, si intende dal testo, non rientrano nell’umano politico, non

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Genealogie del presente

sono commensurabili, conteggiabili per gradi, hanno usi e costumi diversi, come quella incomprensibile parità di ruoli tra uomini e donne, che non offre un criterio accomunante con la civile Atene del IV secolo a.C., anzi la questiona in modo intollerabile. Per giunta, alle origini, la democrazia prevede l’ostracismo, nato come una misura antitirannica, per porre al di fuori della comunità, non tanto chi si è reso responsabile di un reato, quanto chiunque ecceda: per influenza, potere, etc. L’ostracismo colpisce non tanto l’eccellenza, bensì l’eminenza, ciò che sporge, deborda. L’eccellenza in politica si esercita dunque su una classe di soggetti, i cittadini, per i quali i diritti che compongono la cittadinanza diventano beni assegnati secondo la scala costruita dal criterio di eccellenza: più diritti a chi è più in alto. Spesso questa forma di inclusione differenziale, o meglio, gerarchica, si confonde con la cittadinanza per censo: il regime di proprietà può infatti essere uno degli indicatori, non dichiarati, che hanno originariamente designato la classe di appartenenza. L’areté lega tra loro maschi, adulti, greci – possidenti – e necessita di un reciproco sguardo e apprezzamento, che usi un unico criterio di valore anche per entrare in competizione. Si tratta di una disposizione che – commesso il crimine iniziale – si esercita tra pari. Definito – per vie non esplicitate, sottratte al discorso pubblico o naturalizzate (scientifiche?) – l’ambito entro cui individuare il meglio, a questa parte viene affidata legittimamente la caratteristica del governo e dunque della valutazione e della decisione. Ovvero le viene affidata – e di questi tempi non solo attraverso il voto ma anche attraverso processi che riguardano mentalità, sistemi di credenze – la formulazione dei criteri di intelligibilità che orientano i comportamenti: da Moody’s all’Ocse, passando per le classifiche che individuano gli Stati canaglia, per situazione debitoria o potenza di fuoco, i migliori sono i produttori di un sapere – scientifico in quanto non oppugnabile – di criteri di giudizio che assegnano posizioni e che delineano interventi. L’occultamento dei criteri che disegnano i confini della classe entro cui misurare l’eccellenza ha per effetto una violenza che, per essere epistemologica – in fondo si limita a distinguere ciò che è comprensibile da ciò che non lo è – nel farsi politica diventa violenza di fatto: alcuni esseri, pur avendo sembianze umane, per via della loro mancata corrispondenza con le misure istituite, per via della loro incommensurabilità, cadono fuori non tanto e solo dalla comunità, ma dall’ambito dell’umano stesso. I facenti parte della comunità politica sono dunque già il risultato di una riduzione che si raddoppia quando, all’interno della classe, viene individuata una aristocrazia o élite. È interessante notare come, nella storia, i soggetti imputabili di eccellenza emergano nelle epoche di perdita della

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F. Giardini - Eccellenza

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differenziazione sociale: dalla critica alla degenerazione della democrazia in oclocrazia (oklos, folla) alla necessità di ritrovare orientamento rispetto al corpo massiccio e inarticolato della massa, agli inizi del Novecento. Di converso, esistono momenti in cui l’ordinamento aristocratico – dunque l’apice della classe che funziona per gradi di perfezione – appare come oligarchia, ovvero come gruppo separato e accentratore di privilegi. In questi momenti la classe di appartenenza cessa di essere un assoluto, senza esterno, e torna a mostrare i propri bordi: l’aristocrazia appare come oligarchia nel momento in cui ridiventano percepibili e dicibili i criteri che ne hanno selezionato l’ambito di esercizio; quando i migliori (all’interno) si rivelano come pochi (dall’esterno). Quel che andava sotto il titolo di “meglio” ha perso la sua capacità di istituire un circolo di distribuzione e articolazione, di legittimazione. La distinzione tra aristocrazia e oligarchia riguarda dunque il credito, la legittimità che alcuni (i più) conferiscono ad altri (pochi) nel godimento di privilegi. L’eccellenza, in prima battuta, fa dunque capo alla concentrazione, di diritti, di agibilità, di decisione, di mobilità. Dall’interno tale concentrazione è delega riconosciuta, dall’esterno è privilegio che seleziona chi ne gode e chi no, chi entra nel conto o meno, chi esiste. Dall’interno funziona attraverso concentramenti spaziali – i poli di eccellenza; attraverso processi di riconoscimento e legittimazione – le certificazioni e i bolli di qualità (migliore); attraverso logiche comparative – competizione, concorrenza; e di omologazione a una misura univocamente assunta – i modelli da emulare. Dall’esterno, la concentrazione è percepita come un taglio, la rimozione delle condizioni che hanno permesso la distinzione di un apice. Raffaello, talento massimo, appare come un Robinson Crusoe dell’arte per due diverse vie: per il riconoscimento che riceve dalla sua comunità di appartenenza – i possidenti della Firenze e della Roma del suo tempo – e per l’occultamento della relazione con altri, con altre, dei progressi tecnici generalizzati negli usi, nelle rappresentazioni, nella divisione del lavoro e nell’organizzazione della società del suo tempo, in città e tra paesi diversi. Abbiamo visto che considerata quanto al suo funzionamento, l’eccellenza implica un rapporto tra chi ugualmente riconosce il criterio di organizzazione della classe cui appartiene. A rigore dunque l’eccellenza non è antitetica alla democrazia, richiede un rapporto isonomico – pari posizione rispetto a un criterio-norma. Eppure l’antinomia eccellenza-democrazia è la vulgata della tradizione politica – moderna e attuale – per la quale la seconda diventa un livellamento verso il basso. Appare a questo punto come si tratti piuttosto di una contesa sulla decisione, sul controllo, sulla prero-

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Genealogie del presente

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gativa, quella che ferma ogni ulteriore domanda, e che mira a costruire un sistema di credenze, valori, criteri di giudizio, perché così sia. *** Questione di misure, l’eccellenza nasce dall’esigenza di percepirsi quale parte legittima, pari tra le altre. Tale parità avviene in una comunanzacondivisione, che è tale in quanto articolata, differenziata, discernibile. Ed è qui che le retoriche contemporanee hanno imboccato una precisa direzione. Nel rispondere all’esigenza di legittimazione, quella che designa soggetti degni, facenti parte, meritevoli, l’auctoritas – la parola ultima, che completa il circuito legittimante – è affidata a un principio esteriore alle dinamiche umane e relazionali: l’oggettività. L’oggettività è poi ulteriormente ridotta rispetto ai suoi margini discorsivi, di negoziazione, ovvero di minacciosa opinabilità, nella sua traduzione quantitativa, protocollabile, standardizzata. Il criterio quantitativo introduce sì una differenziazione, ma nel solo verso dell’ordine gerarchico che procede per gradi di perfezione. Nella sua traduzione politica, questo criterio rivela come l’eccellenza sia criterio di ordine necessariamente rivolto verso un interno che viene individuato da una preliminare selezione. La differenza, la distinzione – articolazione necessaria alla vita umana e alla vita comune – si traduce dunque in un ordine scotomizzante, che nasce a condizione di un taglio preliminare, tra il degno e l’indegno. Infine, la collocazione per gradi di perfezione si trasforma in una gradazione nella titolarità – che siano diritti, prerogative, od opportunità. Altra direzione è quella che, tenendo conto del bisogno assoluto di differenza, restituisce alla misura la funzione di un operatore di relazione, di scambio, di conflitto, di articolazione tra corpo e parola, tra bisogno e desiderio, tra necessità e possibilità. La misura mantiene allora traccia della provenienza che l’ha costituita, lascia aperto il margine che l’ha resa operativa e funziona per traduzione più che per comparazione. La relazione tra pari – la democrazia – assume una dimensione estensiva che non prevede inclusione ed esclusione, perché mai definitivamente conchiusa, quanto a criteri e confini. E l’eccellenza continua a narrare i propri debiti verso ciò che l’ha resa possibile, non presentandosi come concentrazione in un unicum, ma come condizione diffusa che nell’esprimere singolarità rimette in circolo effetti di potenziamento. Felice il luogo capace di rappresentarsi e orientarsi secondo una ordinaria eccellenza. Vedi anche: Crisi, Eguaglianza, Trasparenza

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GIANFRANCESCO ZANETTI

EGUAGLIANZA*1 Farla e disfarla

1. Ci sono diverse illustrazioni allegoriche della giustizia, bendata, con la spada e la bilancia in mano, ma non ci sono altrettante illustrazioni dell’eguaglianza: l’eguaglianza si presenta come un principio astratto che ripete il suo significato primario non dalla sfera dei valori bensì da quella della matematica e della geometria. L’eguaglianza si presenta infatti in primo luogo come un valore formale, o almeno come non necessariamente sostanziale. L’eguaglianza, inoltre, è un concetto costitutivamente controverso. Parlare di eccesso di giustizia, di troppa giustizia, ad esempio, è qualcosa che va contro le nostre intuizioni, ancorché in alcuni contesti la giustizia possa essere temperata dalla misericordia. Parlare di eccesso di eguaglianza, di egalitarismo estremo, è invece perfettamente possibile: la polemica contro l’eguaglianza, d’altronde, è antica almeno quanto Platone. 2. Gli anni Sessanta privilegiarono la nozione di libertà, e le grandi tipologie di Isaiah Berlin e di Norberto Bobbio lasciarono un’impronta indelebile sul dibattito filosofico-politico e filosofico-giuridico. Gli anni Settanta partirono dalla teoria della giustizia rawlsiana, e su questa nozione molto fu scritto. Dagli anni Ottanta in poi, tuttavia, si è assistito a un irresistibile avanzare, entro il fuoco di interesse degli studiosi, della nozione di eguaglianza – spesso analizzata ed elaborata da punti prospettici anche differenti: eguaglianza in relazione alla questione del “merito”, eguaglianza in termini di “giustizia distributiva”, eguaglianza in termini di “diritti civili e umani”, eguaglianza fra “individui” versus eguaglianza fra “gruppi comprensivi”, come nel dibattito sul multiculturalismo. Negli Stati Uniti, per esempio, il dibattito in corso sul matrimonio tra persone dello stesso sesso ha concettualizzato il diritto alle nozze delle persone gay e lesbiche come *

Ringrazio Federico Zappino per l’attenta lettura e per avermi aiutato a perfezionare il testo inizialmente sottoposto.

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Genealogie del presente

eguaglianza “matrimoniale” (marriage equality), anche per appropriarsi del valore retorico della nozione di eguaglianza in quanto tale, che nella Dichiarazione di Indipendenza risulta architettonica rispetto ai diritti inalienabili alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, e che nel Quattordicesimo Emendamento ha trovato espressione giuridica di rango costituzionale – l’eguaglianza alla base delle lotte per i diritti civili che in America sono collegate al pensiero e all’azione di grandi figure di leaders afroamericani come il Reverendo Martin Luther King Jr. e Malcolm X. 3. La tesi di questo contributo è che la nozione di eguaglianza (anche quando si parli di eguaglianza di fronte alla legge, e non di eguaglianza in termini di giustizia distributiva) talora presente in alcuni settori del dibattito politico e filosofico-politico è una nozione troppo esangue e spettrale, troppo astratta e distaccata. Una nozione di eguaglianza più interessante e appealing è invece quella relativa a un’eguaglianza materiale e concreta, corporea e sanguigna. Una tale nozione di eguaglianza, qui si sostiene, è dotata di un maggiore potere critico sulle istituzioni reali, e getta luce su aspetti fondamentali della condizione umana che si corre invece il rischio di trascurare se si privilegiano nozioni più eteree e smaterializzate. Una tale nozione di eguaglianza non si configura (unicamente) come un punto di partenza ideale, un assetto al quale tendere asintoticamente, un valore dal quale far partire catene di argomenti normativi capaci di guidare le nostre scelte deliberate, ma (anche) come un punto di arrivo concreto, come un percorso fatto di acquisizioni specifiche (la rimozione di date diseguaglianze), come azioni efficaci che stabiliscono forme (sempre precarie e) storiche di eguaglianza. L’eguaglianza che viene descritta in questa sede su queste basi è in primo luogo – in una formula sintetica – una prassi; non è in primo luogo un principio, un valore o una caratteristica di ordinamenti e istituzioni. 4. Una caratteristica importante del discorso pubblico sull’eguaglianza dal quale si intende prendere le distanze è proprio costituita da una sua collocazione esclusiva o preferenziale come input, come prius concettuale da attualizzare in quanto parte di un eidos preliminarmente dato di ordinamento giuridico-politico, o di società giusta. È evidente che quest’ordine di considerazioni è di importanza decisiva da un punto di vista dottrinale, e questa importanza non viene qui messa in dubbio. Affermare, per esempio, che tutti gli esseri umani sono eguali perché tutti egualmente “figli di Dio” significa stabilire un punto di partenza per una serie di possibili conseguenze normative anche molto interessanti.

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G. Zanetti - Eguaglianza

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Oppure – altro esempio – sostenere che solo l’uomo è dotato di ragione discorsiva articolata (e che questa caratteristica distingue qualitativamente gli esseri umani dagli altri animali rendendo contestualmente irrilevanti le eventuali differenze) significa predicare un’eguaglianza di base come input fondamentale per un eventuale successivo percorso argomentativo di tipo filosofico-giuridico o filosofico-politico. In questi casi si assume una qualità di range, non scalare (la caratteristica di essere “figli di Dio”, la caratteristica di essere “dotati di natura discorsiva”), e si procede a dimostrare (o a dare per scontato) che tale qualità è così importante da rappresentare l’elemento discretivo che permette una predicazione di eguaglianza, rendendo irrilevanti eventuali altre differenze scalari o di range. La nozione di cittadinanza funziona appunto, nel microcosmo dello Stato-nazione volta per volta dato, proprio in questo modo: si può essere più o meno ricchi, più o meno forti o virtuosi (proprietà scalari), maschi o femmine (tradizionalmente concepiti come qualità di range non scalari), ma se si è cittadini si è “eguali” per il fatto che si condivide una determinata caratteristica (di range), determinata dallo jus sanguinis, dallo jus soli ecc. Nello stesso tempo, una volta che si sia “cittadini” in senso pieno si acquisiscono importanti diritti (e doveri). La nozione di dignità umana, d’altra parte, può essere concettualizzata come una qualità di range dotata di una specifica universalità, che cioè prescinde dalla specificità dello Stato-nazione di appartenenza: anch’essa agisce rendendo irrilevanti (non negando) altre e specifiche differenze qualitative, rendendo possibile una predicazione di eguaglianza. Per questi motivi, peraltro, la nozione di eguaglianza non viene concettualizzata in un vacuum, ma sempre al contrario entro una narrazione abbastanza elaborata, che può includere un’“antropologia”, un “set di verità religiosamente ispirate”, un “racconto mitico delle origini”, e così via. L’idea che la ragione discorsiva differenzi in modo qualitativo gli umani dal resto del regno animale, per esempio, non è un dato inconfutato: esiste una tradizione filosofica, che da Plutarco passa per Montaigne e arriva a Vico, che ha considerato tale differenziazione come quantitativa, di grado, senza un salto qualitativo. Se la caratteristica fondamentale non è più la ragione discorsiva ma un’altra – come ad esempio la capacità di soffrire –, diventerà ancora più semplice sostenere argomentativamente la tutela giuridica degli animali non umani, resi a noi “più eguali” dalla condivisione della qualità di range determinante. Sul piano argomentativo, è appena il caso di ricordarlo, una concezione di questo tipo dell’eguaglianza non garantisce affatto un esito egalitario sul

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Genealogie del presente

piano normativo: si può credere all’eguaglianza fondamentale di tutti gli uomini in quanto “figli di Dio” e tuttavia essere favorevoli alla schiavitù, magari in forma “mite”. Si può credere che gli esseri umani siano tutti, e loro soltanto, dotati di ragione discorsiva, e tuttavia essere favorevoli alla segregazione razziale – anche in questo caso, magari, solo in forma “mite”. Rimane tuttavia vero che una concezione di questo tipo dell’eguaglianza risulta, coeteris paribus, meno ospitale per esiti antiegalitari sul piano normativo – si tratta di un punto di partenza favorevole a elaborazioni dottrinali di qualche forma di eguaglianza normativa. 5. La scelta delle qualità rilevanti non è mai neutrale. In un episodio di Star Trek risalente a Metamorphosis, la seconda stagione del 1968, il Capitano Kirk si imbatte in un’entità cosmica, pressoché onnipotente, antichissima, un puro vortice di energia: quando si trova il modo di comunicare con essa la voce che esce dallo strumento tecnologico che ne traduce i pensieri è, inaspettatamente, una voce femminile. Uno scienziato si affretta allora a spiegare ai cosmonauti perplessi che «maschile e femminile sono concetti fondamentali presenti in tutto l’universo». Valorizzare la differenza maschile/femminile in quanto tale, ad esempio radicandola in una metafisica naturalistica, significa rendere più facilmente argomentabili trattamenti differenziati degli appartenenti alle due categorie senza violare un dato ideale di eguaglianza. Eguaglianza, in fondo, è “trattare in modo eguale enti eguali”; eguaglianza significa anche, tuttavia, avere a disposizione una base di partenza ben definita per estrapolare la condivisa qualità di range sulla quale argomentare la fondamentale eguaglianza. Parlare di orientamento sessuale, ad esempio, non è affatto neutrale: significa che l’orientamento sessuale omosessuale esiste in quanto tale, e questo permette di articolare un discorso antidiscriminatorio, argomentando la decisiva rilevanza di qualità condivise degli orientamenti sessuali – la ricerca del piacere, la capacità comunicativa, il legame con l’affettività, la possibilità di rendere la vita sessuale sintonica con un progetto di vita condivisa ecc. Quest’ordine di argomenti non è naturalmente facilmente elaborabile se si considera esistente un solo orientamento sessuale, e se si classificano gli appartenenti a orientamenti sessuali minoritari come “eterosessuali con un problema”: in questo caso, le persone gay e lesbiche propriamente parlando non esistono, e vengono chiamate così persone fondamentalmente indistinguibili dagli eterosessuali se non per un problema psicologico-morale ch’essi hanno. Questo spiega perché i nemici più accesi dei gay rights, gli avversari più irriducibili e agguerriti dell’eguaglianza fra orientamenti, siano in genere

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G. Zanetti - Eguaglianza

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entusiasti sostenitori delle cosiddette “terapie riparative”, anche quando a queste ultime manchi una solida base scientifica. 6. La tesi che qui viene sostenuta, tuttavia, comporta proprio la nonesaustività della rilevanza argomentativa dell’approccio descritto; comporta invece la rilevanza di un percorso alternativo, certo compatibile col primo, ma controintuitivo rispetto alla forma mentis da esso plasmata. Nel percorso alternativo in esame l’eguaglianza (o la diseguaglianza) si configura in primo luogo come output, ovvero come l’esito concreto di determinate politiche. In questo caso la politica, che tende normativamente all’eguaglianza, non si basa su una nozione teorica di eguaglianza di base (dimostrata con le modalità prima descritte) per rispettarla, per “dare a Cesare quel ch’è di Cesare” e “a ciascuno il suo”, ma al contrario determina un’eguaglianza di base specifica. Un’eguaglianza di base (o una diseguaglianza di base) è il punto di arrivo, non di partenza, di determinate politiche di eguaglianza (o di diseguaglianza). L’eguaglianza viene fatta, non constatata. 7. Un esempio è l’eguaglianza razziale. Il movimento americano dei diritti civili, come lo storico movimento abolizionista, assumeva un’eguaglianza di base fra persone di razze diverse. Gli esseri umani sono eguali a prescindere dal colore della pelle, e di conseguenza la segregazione razziale è sbagliata. La segregazione è fondamentalmente sbagliata perché l’ordinamento, la Costituzione è cieca rispetto al colore, color-blind. Questo potrebbe significare, fra l’altro, che eventuali test di ammissione alle scuole di diritto rigorosamente anonimi, in quanto color-blind, costituiscono strumenti di selezione perfettamente adatti a difendere l’eguaglianza, anche e perfino se il loro risultato determinasse una sottorappresentazione drastica delle minoranze razziali. La logica color-blind – «il primo nella stanza che menziona la razza è razzista» –, non vive con particolare apprensione o disagio l’idea che un gruppo sociale finisca fatalmente svantaggiato per via del test, posto che il test adegui determinati criteri di equità in sede di input. La logica color-blind è dunque, in quanto tale, programmaticamente ostile a programmi di azione affermativa. L’azione affermativa, tuttavia, serve proprio a evitare con una norma ad hoc che le minoranze razziali siano sottorappresentate – la sua logica assume che l’esito di quel test non sia garantito da condizioni neutrali, perché i gruppi sociali (qui in ipotesi definiti per linee “razziali”) si trovano in condizioni di partenza già fondamentalmente ineguali. Le abilità

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Genealogie del presente

necessarie per affrontare con successo un test di ammissione sono influenzate da condizioni culturali e socioeconomiche di partenza, che modellano l’identità dei membri di un dato gruppo sociale. Modificare la struttura socioeconomica del gruppo sociale, per esempio dando vita in esso a una classe media di professionisti, e suscitando in essa modelli esemplari per i più giovani, è una strategia tesa a rendere eguale chi eguale non è: le generazioni successive, cresciute in un ambiente più adatto a sviluppare le menzionate abilità necessarie per affrontare con successo un test di ammissione, dotate di un’identità che ne facilita l’azione sociale e lo sforzo intellettuale, non risulteranno sottorappresentate in eguale proporzione nei risultati del test stesso. I programmi di azione affermativa, in questo senso, “fanno” l’eguaglianza, essi cercano di rendere eguale chi eguale, secondo il criterio in questo caso ritenuto rilevante (cioè il test), non è. In questo senso, il test color-blind che non prevede azioni affermative non appare affatto come una norma neutrale ed equa, proprio come la norma che vieta sia al ricco sia al povero di dormire sotto i ponti gode di un’universalità formale meschina ed iniqua, perché il destinatario della norma non è e non può essere chi non ha alcun bisogno di giacigli alternativi a quello domestico. La logica dell’azione affermativa, invece, concepisce l’eguaglianza di base – eguaglianza fra esseri umani in qualche senso rilevante – come un output, come il risultato di una politica e di un’azione normativa. È appena il caso di segnalare come i due percorsi argomentativi siano fra loro perfettamente compatibili: se posso rendere gli esseri umani eguali fra loro significa che in fondo lo sono già, almeno potenzialmente, e che si tratta solo di realizzare, di attualizzare tale eguaglianza fondamentale, di lasciarla fiorire. Ma certo: trascurare il percorso che considera l’eguaglianza di base come un output non è però affatto senza inconvenienti, perché considerare esaustivo il percorso che assume l’eguaglianza di base come input non permette di argomentare facilmente l’idoneità di strumenti normativi come l’azione affermativa, che invece appare ben difendibile su linee argomentative che si appoggiano a una nozione di eguaglianza più articolata e concreta. 8. Un altro caso particolarmente interessante è dato dalle norme che, negli Stati Uniti, hanno fino a poco tempo fa proibito ai cittadini americani di orientamento omosessuale di servire apertamente nelle forze armate. La norma DADT era un acronimo per “don’t ask don’t tell”: la logica sottesa alla norma era che una persona gay o lesbica non poteva rivelarsi come tale, e che le autorità demandate non potevano indagare con domande e

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G. Zanetti - Eguaglianza

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inchieste sulla vita sessuale delle persone (che tuttavia, una volta conosciutane l’orientamento gay, subivano come conseguenza un congedo forzoso). La logica argomentativa che si trova tradizionalmente alla base di norme discriminatorie delle minoranze sessuali si basa in apparenza su un percorso che afferma una mancanza di eguaglianza di base e ne trae le conseguenze: i gay e le lesbiche sono ritenuti “inadatti” alla vita militare, di conseguenza impedire loro l’ingresso nelle forze armate è perfettamente appropriato. Essi sono diseguali, inadatti in primo luogo per un’inferiorità morale. La franchezza, una virile e schietta onestà, il valore fondamentale della integrity, onde si dice quello che si pensa e si pensa quello che si dice, e ci si comporta in privato come si farebbe in pubblico, costituiscono infatti i capisaldi della virtù militare: ma le persone gay e lesbiche tendono invece naturalmente al sotterfugio e alle coperte vie, che possono forse essere utili in diplomazia e nelle trattative segrete, ma non certo nei ranghi militari. Essi sono poi diseguali, e inadatti, in secondo luogo, perché sono specificamente ricattabili, e quindi costituirebbero un preciso fattore di vulnerabilità, una potenziale breccia nella fondamentale coesione della riservatezza, insomma un elemento di rischio e di pericolo. Questa logica argomentativa, benché affascinante, non illumina affatto in modo esaustivo il reale esito normativo e sociale di DADT; insistere su essa può anzi diventare un modo per nasconderla e sfumarla. La norma DADT, infatti, non solo assume una diseguaglianza: essa la crea. DADT, ad esempio, proibisce la pratica della virtù dell’integrity a chi sarebbe esistenzialmente interessato a praticarla con il cosiddetto coming out. Le virtù, infatti, non esistono in un vacuum: esse nascono e fioriscono con la prassi che dovrebbero informare. Proibire l’integrity in questo senso, proibire a un gruppo la pratica di una virtù morale, significa rendere, per norma, le persone di orientamento omosessuale meno schiette e sincere, meno franche e aperte, su un aspetto fondamentale della loro esistenza. Si tratta di qualcosa di più di una pedagogia del vizio: si suscitano emozioni appropriate alla tendenza a nascondersi, forme mentali sintoniche con una cronica mancanza di fiducia in se stessi e negli altri, atteggiamenti interiori di costitutiva doppiezza. Si rendono i cittadini gay e lesbiche diseguali dai loro commilitoni eterosessuali: diseguaglianza che viene tuttavia fatta passare per “naturale”. DADT prescriveva inoltre una punizione draconiana, ovvero il congedo forzoso, a chi fallisse in questo obbligatorio esercizio di anonimato e di sotterfugio. Di conseguenza, DADT rendeva, per norma, i soldati gay e lesbiche specificamente ricattabili. Essi non lo erano all’input, per via di una loro particolare conformazione degli organi, o per un’anomalia genetica:

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Genealogie del presente

lo erano per via della norma stessa che però assumeva fra l’altro proprio la ricattabilità come base di un argomento normativo volto a legittimare la discriminazione. È importante notare che la diseguaglianza non è (solo) il presupposto, l’input di un percorso argomentativo volto alla creazione di una norma che discrimina; essa è (anche) l’esito, l’output di una politica discriminatoria. Anche un’azione violenta di gay bashing rientra nell’ambito delle azioni che creano, determinano, “fanno” diseguaglianza: essa istilla timore, pavidità, mancanza di sicurezza in se stessi, lede l’autostima, deprime il sistema immunitario – crea cioè diseguaglianza di base, perché questi stati mentali non sono sigillati fuori da contesti materiali di azioni e di comportamenti concreti da essi plasmati. Un discorso analogo può essere fatto per l’eguaglianza matrimoniale, e a fortiori per le norme che disciplinano gli hate crimes. Non si tratta insomma solo di verificare un’eguaglianza di base e di trarne le dovute conseguenze, si tratta anche di creare un’eguaglianza che ancora non esiste come esito di una situazione che viene percepita come inaccettabile. 9. L’eguaglianza normativa non ha peraltro bisogno di appoggiarsi necessariamente su una nozione di eguaglianza di base. Ancorché il percorso dall’eguaglianza di base all’eguaglianza normativa sia argomentativamente efficace, esso non costituisce una condizione di sfondo necessaria. Per Giambattista Vico, ad esempio, gli uomini naturalmente desiderano l’eguaglianza, e letteralmente si devono «attediare» di essere dominati (Scienza Nuova 1744, 583). Chi desidera eguaglianza, chi si “attedia” dell’altrui supremazia, mette in atto pratiche di eguaglianza: ovvero pratiche volte ad ottenere eguaglianza come output. L’eguaglianza normativa, gli argomenti normativi volti a sostenere politiche e norme che a tale eguaglianza aspirano, sono in primo luogo una pratica di eguaglianza. Ma anche azioni politiche di vario tipo, dimostrazioni di protesta, pratiche di disobbedienza civile, di obiezione di coscienza, lobbying legislativo, militanza in movimenti grassroot e così via, costituiscono a pieno titolo pratiche di eguaglianza, tese a vari livelli di consapevolezza alla creazione di una qualche forma di eguaglianza. 10. La concezione dell’eguaglianza come pratica ne rende problematica un’esaustiva concettualizzazione, un’elaborazione teoretica definitiva. Le nozioni di eguaglianza di base, naturalmente, possono essere perfettamente compiute: un pensatore liberale può ritenere che tutti gli esseri umani siano eguali per quello che riguarda il genere, la razza, l’orientamento sessuale

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G. Zanetti - Eguaglianza

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ma non per quello che riguarda lo stato di sviluppo, onde un embrione umano può non godere della stessa tutela giuridica di un bambino appena nato; un pensatore conservatore può ritenere che tutti gli esseri umani siano eguali per quello che riguarda il genere, la razza, e lo stato di sviluppo, ma non per quello che riguarda l’orientamento sessuale, che rappresenta una semplice degenerazione morale e psicologica dell’individuo. È dunque altamente discutibile quale sia la concezione più giusta, più adeguata, più appealing di eguaglianza basic. La concezione dell’eguaglianza come pratica ne fa però una categoria critica, non fondativa di (e tale da non presupporre) alcuna antropologia; e, soprattutto, ne fa una categoria performativa. In presenza di una data, specifica (storica) forma di diseguaglianza, pratiche di eguaglianza di uomini e donne attediati da tale diseguaglianza tendono a modificare concretamente, nel caso di specie, lo stato delle cose, determinando, letteralmente “facendo”, un’eguaglianza, ovvero rendendo gli esseri umani eguali da quel punto di vista (e da quel punto di vista soltanto: i famuli vichiani, per esempio, non lottano per l’emancipazione delle donne). 11. Questo spiega la natura apparentemente frammentaria dei movimenti emancipativi contemporanei. Essi non condividono un libro sacro, un’ideologia, una filosofia politica ecc. Se così fosse, i militanti dei movimenti emancipativi si identificherebbero in un progetto di società, in un insieme di valori anche solo lascamente condivisi, in un ideale politico al quale tendere. Ma così non è: chi prende parte a una manifestazione della primavera araba ha probabilmente in mente ideali ben diversi da chi partecipa a Occupy Wall Street; gli indignados spagnoli non condividono in modo diretto e deliberato alcun progetto politico con gli attivisti californiani dei gay rights; chi difende i diritti delle minoranze etniche può muoversi in un orizzonte concettuale differente rispetto a chi lotti per l’estensione del diritto alle cure mediche per le fasce di popolazione svantaggiate o emarginate, per non parlare di chi si occupa dei diritti dei carcerati, degli utenti dei servizi della salute mentale o di Anonymous. Non è stato scritto, e non lo sarà, un manifesto universale che offra – con movimento top down – un’ideologia, un ideale, o una narrazione comuni a questi movimenti. I partecipanti a questi movimenti si muovono in una logica di eguaglianza che non è afferrabile con uno scoop, con la fortunosa scoperta del testo segreto che motiva (magari senza consapevolezza storica da parte degli interessati) uomini e donne con diverse aspirazioni ed esigenze, la filosofia nascosta ma (sia pure confusamente) condivisa di fenomeni sociali fra loro geograficamente e culturalmente distanti. Una spiegazione che

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Genealogie del presente

poi semplicemente imputasse a questi soggetti comportamenti determinati dall’improvvisazione risulterebbe d’altra parte concettualmente pigra, e come minimo poco informativa. Chi partecipa ai movimenti emancipativi è vichianamente attediato da una specifica forma di diseguaglianza, e mette in essere pratiche di eguaglianza volte determinare, rendendola possibile, un’eguaglianza. Si tratta dunque di una categoria critica volta per volta tesa a mettere in crisi un assetto considerato inaccettabile; non si tratta di un ideale fondativo di una società giusta il progetto della quale risulti disponibile (magari con fatica) al pensiero concettuale. E c’è un elemento demiurgico, creativo, nella possibilità di “fare” un’eguaglianza – un agire che nella tradizione ebraico-cristiana è collegato alla disobbedienza e alla tentazione di essere eguali a Dio: Dixit autem serpens ad mulierem: «[…] et eritis sicut Deus scientes bonum et malum». (Gen, 3: 1-5)

12. L’eguaglianza basic che viene conseguita o alla quale si aspira (e parallelamente la diseguaglianza “di base” che viene volta per volta determinata) non è una pura costruzione culturale, ma riguarda molto spesso la natura corporea stessa dei soggetti coinvolti. L’aspirazione alla qualità di vita, alla vita buona in quanto tale, si concretizza allora in azioni politiche, nell’elaborazione di argomenti normativi di diversa efficacia e intensità, in pratiche di diverso genere: l’eguaglianza come pratica gode da questo punto di vista di una relativa autonomia, e si protende verso forme di concreta e materiale eguaglianza “di base”. Vedi anche: Destra/Sinistra, Eccellenza, Responsabilità

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SANDRO CHIGNOLA

GOVERNABILITÀ Della resistenza irriducibile del governato

Quello di governabilità può essere inteso tanto come un concetto polisemico quanto come un concetto estremamente debole. Debole proprio perché polisemico, potrebbe forse dirsi. Di volta in volta usato come invocazione retorica («assicurare le condizioni di governabilità»), come sinonimo per stabilità o per pacificazione politica (complesso di condizioni che rendono attuabile un’alleanza tra partiti per la formazione di un governo), come indicatore di fase (possibilità di un’azione di governo durevole e continua), come meccanismo in cui viene accorciata al massimo la distanza tra inputs sociali e outputs decisionali nello scambio politico e amministrativo, il termine governabilità non perviene ad una definizione univoca in scienza politica. Se esso acquista un significato, lo acquista per lo più in relazione al proprio opposto e cioè al termine “ingovernabilità”. Di una condizione di ingovernabilità molte possono essere le cause. Se ne possono distinguere di endogene ed esogene rispetto al sistema delle istituzioni. Condizioni endogene di ingovernabilità possono essere considerate: la crescente richiesta di autonomia decisionale e gestionale da parte di governi locali o di strutture decentrate della pubblica amministrazione, le interferenze di agenzie di governo sovranazionali conflittive con gli equilibri che possono essere prodotti all’interno dei parlamenti nazionali, la proliferazione di centri decisionali (agenzie, commissioni, autorità amministrative indipendenti) che possono complicare, in modo sostanziale, il quadro di funzioni, la divisione di competenze, la mission, delle singole istituzioni deputate all’azione di governo. Condizioni esogene di ingovernabilità, oltre a quelle che dal punto di vista dello Stato-nazione possono essere imputate all’evoluzione di breve periodo delle relazioni internazionali, l’accumulo di claims, rivendicazioni, conflitti, situazioni emergenziali, che premono, dall’esterno, sul sistema politico. Cause endogene e cause esogene di ingovernabilità determinano entrambe una complessità incrementale. E questa crescente complessità determina a sua volta difficoltà di coordinamento tra i settori coinvolti

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Genealogie del presente

nell’azione di governo, nell’attuazione delle leggi, nella descrizione stessa, ai fini di poterne recuperare e accrescere l’efficienza, delle strutture e delle filiere della decisione politica. Questa situazione di complessità – prodottasi all’incrocio tra differenziazione interna del sistema politico, scorporazione di sfere sociali, aggregarsi di funzioni e livelli decisionali e moltiplicarsi delle istanze soggettive di cui si sono fatti portatori i movimenti sociali – ha segnato gli ultimi quarant’anni della storia contemporanea. L’incremento del tasso di ingovernabilità che la segna ha posto l’esigenza di “reinventare” la teoria e l’azione di governo. Quello che si è venuto producendo è un rapporto di tensione tra governabilità e ingovernabilità che viene assunto tanto per descrivere il, quanto per riflettere sul, fatto di governo. Estremamente significativi, rispetto a ciò, mi sembrano due elementi fondamentali. Il primo concerne l’esaurirsi della dinamica classica del processo amministrativo. Il secondo riguarda una profonda ridefinizione delle strategie di legittimazione della decisione politica. Per quanto riguarda il primo aspetto, decisivo mi sembra far notare come l’incremento di complessità determinato dalla proliferazione e dall’intreccio dei nodi dell’azione di governo, tenda a dissolvere la verticalità del comando. La pubblica amministrazione non viene più messa in movimento in termini semplicemente esecutivi da una funzione sovrana preliminare e dominante. Al contrario, l’amministrazione assomma competenze e poteri tradizionalmente monopolio di quest’ultima. Le modalità di esercizio della governance, nella quale si esprime parte significativa della “reinvenzione” del governo da parte della teoria politica contemporanea, sviluppano un decentramento e una concertazione della decisione, che desovranizzano, agendo in parallelo ad essi, gli apparati di Stato riconvertendoli in strutture di consultazione, concertazione e negoziazione con le organizzazioni della società civile. In questa prospettiva, l’amministrazione si carica di competenze quasi-sovrane facendosi carico di selezionare e di attivare a funzioni di governo associazioni di cittadini, rappresentanze di consumatori o, mutuando il lessico della gestione di impresa, gli stakeholders coinvolti da, o cointeressati al, processo della sua azione. È evidente come in ciò vengano perdendosi le prerogative tradizionalmente ascritte alla sovranità: esclusiva della decisione, linearità della sua trasmissione gerarchica, irresistibilità del comando espresso in forma di legge. Di qui il secondo elemento fondamentale. Se il primo esprime una tendenziale desovranizzazione dell’azione amministrativa (un “liberarsi” dell’amministrazione dalla dipendenza dal sovrano che in pari tempo la carica di competenze autonome e di funzioni di intervento immediato), il secondo può essere riferito – e in dottrina lo è stato – a una sorta di

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S. Chignola - Governabilità

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riformulazione e di riassestamento in senso postdemocratico e postcostituzionale dell’assetto complessivo dei poteri. Mi riferisco ad una drastica inversione delle forme di legittimazione dell’azione del governo. Mentre nella formulazione democratica e costituzionale classiche una decisione è legittima in base alle procedure in base alle quali essa si è formata, nella “reinvenzione” del fatto di governo, dominata dal criterio di efficienza, una decisione risulta legittima sulla base dei risultati che essa, soltanto dopo il suo effettuarsi, avrà, eventualmente, reso possibili. Di qui una duplice conseguenza: da un lato, un significativo scivolamento dal passato al futuro anteriore, dall’altro una tecnicizzazione generale della politica e del suo orizzonte di funzionamento. Se in precedenza il governo si faceva carico di mere funzioni esecutive rispetto ad una volontà sovrana preesistente e insediata, secondo le modalità previste dalla costituzione, come legittima espressione della volontà generale, ora il governo conquista la propria legittimità quanto più riduce il tasso di ingovernabilità che ostacola la sua azione e quanto più traduce in processi comunicativi, decentrati e partecipati, vincendo così resistenze e conflitti, gli assi sui quali era previsto scorrere linearmente, dall’alto in basso e dopo essere stato negoziato e organizzato in sede parlamentare, il flusso delle decisioni e delle misure destinate alla loro implementazione. È evidente l’ambivalenza implicita in questo complesso processo di riorganizzazione del potere. Se da un lato esso sembra offrire opportunità per riappropriare spazi di partecipazione che muovano oltre il formalismo democratico – in fondo, ciò che costringe a questa trasformazione complessiva è l’impossibilità di reggere il confronto con dinamiche che rendono ingovernabile, come abbiamo visto, il processo di governo –, dall’altro il possibile recupero in senso (post)democratico dell’amministrazione, non risolve il problema della selezione e della gerarchizzazione delle istanze da raccogliere e/o delle partnerships da attivare in vista di un’azione di governo che, per essere efficace, non può invertire radicalmente la propria polarità e muoversi, viceversa, dal basso verso l’alto. Se è vero che una parte significativa della storia delle istituzioni in Europa è stata segnata, negli ultimi due secoli, dal processo di progressiva costituzionalizzazione dell’amministrazione – e cioè: dalla riduzione dei margini di discrezionalità residua che le derivavano dalla matrice assolutista – è altrettanto vero che solo nelle più ingenue delle apologie della multilevel governance è possibile parlare di un’amministrazione integralmente decentrata e pressoché sovrapponibile all’autogoverno della società civile. Il transito da una “democrazia delle procedure” ad una “democrazia dell’efficienza” – che prevede una profonda modificazione dell’organizza-

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Genealogie del presente

zione delle azioni collettive nel senso di un maggiore coordinamento e di un più rapido raccordo tra la sfera delle istituzioni e le sfere espressive di differenziati desideri e bisogni sociali, un potenziamento del radicamento locale della cittadinanza attiva e un decentramento delle strutture di governo –, che molti autori leggono come segno di fase, produce effetti che non possono essere sottostimati se li si vaglia al di fuori del campo dei saperi giuridici e politologici per considerarli, invece, nel concreto delle pratiche e delle tecnologie che strutturano il nuovo assetto dei poteri. Ne segnalo i principali. In primo luogo, una irrecuperabile modificazione del quadro generale della costituzione. Produrre le condizioni di “governabilità” per una democrazia dell’efficienza – e in particolare: processare l’insieme di problemi, rischi, rivendicazioni che essa comporta – significa il proliferare di agenzie governative, autorità amministrative, corti che assumono ruoli e rilevanza che debordano dalle competenze loro ascritte dalla tradizionale divisione dei poteri. Negli Stati Uniti e nel processo costituente dell’Unione Europea – un processo costituente, vale la pena di ricordare, all’interno del quale centrali sono stati sin dagli esordi il ruolo dei saperi e delle pratiche del diritto e il sistema di regolamenti e di procedure emanati da authorities e organismi tecnici – si è fatto sempre più rilevante, negli ultimi decenni, il peso dell’amministrazione. Parlare di desovranizzazione della politica significa non solo mettere in rilievo la ristrutturazione degli spazi determinata dall’evanescenza dello Stato-nazione, la differente territorializzazione operata dal management dei flussi di merci, uomini e informazioni, la perdita di centralità della rappresentanza politica, ma significa soprattutto porre in rilievo la riconfigurazione generale della gerarchia tra i poteri e la progressiva “tecnicizzazione” della funzione di governo, con le difficoltà di controllo democratico che essa determina. In secondo luogo, sviluppare l’imperativo della “governabilità”, anche e soprattutto nel quadro di un profondo innesto dell’amministrazione nei territori e nel tessuto sociale, significa certo attivare un confronto con l’espressione politica di quest’ultimi (associazioni, reti, organizzazioni), ma significa nel contempo attivare meccanismi di soglia e di filtro, gerarchizzare e selezionare le partnerships, modulare dall’alto la rappresentazione complessiva dei termini dello scambio politico, dei soggetti in esso coinvolti, delle priorità ad essi assegnate. Governare il rapporto tra associazioni e Stato – e cioè: amministrarlo – vuole anche dire, si tratta della terza delle cose che segnalo, tradurne rivendicazioni e istanze in atti rivolti ai giudici, frammentarne il potenziale di generalità, attenuarne la carica di politicità. La crescente rilevanza della giurisprudenza delle Corti amministrative e dei pronunciamenti

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S. Chignola - Governabilità

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delle authorities all’interno dell’UE – una rilevanza che viene acquisita alle spese della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea – segna esattamente questo passaggio. Problemi generali vengono scomposti e ritrascritti in istanze settoriali, l’incidenza potenzialmente universale di alcune rivendicazioni, neutralizzata come problema tecnico o di semplice applicazione delle norme esistenti. In quarto luogo, preponderante mi sembra rimanere il peso di organismi le cui competenze non sottostanno ad un controllo di responsabilità. Parte significativa della governance globale (e in settori chiave come il controllo della moneta, il governo della finanza, la definizione dei piani di rientro dal debito) è comandata da poteri e organizzazioni la cui expertise fa premio sui principi di autodeterminazione e di democrazia procedurale. Abbiamo preso le mosse da una definizione negativa. “Governabilità” è un termine che acquisisce un significato – e al di là della semantica è in questi termini che viene quotidianamente impiegato – in relazione al suo termine opposto, quello di “ingovernabile”. È implicito in ciò un aspetto progettuale – una modalità di approccio al problema politico che lega inevitabilmente quest’ultimo alla produzione di condizioni di stabilità e di normalizzazione – ma non solo. Produrre le condizioni di una “governabilità”, e cioè reinventare la teoria del governo, significa soprattutto essere perfettamente consapevoli di dover attingere una diversa stratigrafia dell’evoluzione storico-costituzionale e lavorare con una diversa immagine del Politico. Se la storia dello Stato moderno degli ultimi tre secoli almeno può essere descritta come una progressiva conquista del lessico e delle istituzioni della sovranità (monopolio della violenza e della decisione legittime, irresistibilità del potere, unità della volontà generale legislativa, unificazione del territorio e sua circoscrizione al campo di vigenza del diritto pubblico nazionale), la riemersione del termine governo allude ad una differente configurazione di rapporti. Da un lato viene sciolta la monoliticità del corpo politico identificata con il sovrano, dall’altro, e proprio per questo, acquisita la criticità della regolazione come limite e come misura dell’azione del governo. Queste due condizioni – effetto del rapporto di tensione tra l’ingovernabile che deve essere governato (rivendicazioni, bisogni sociali, conflitti) e la conquista della soglia di governabilità (impossibilità della neutralizzazione e, piuttosto, allentamento delle resistenze) – rinviano a una storia che precede quella dello Stato moderno. Se è vero che la parte maggioritaria della storiografia costituzionale europea ha valorizzato l’iniziativa “costituente” degli apparati di Stato (burocrazia, gerarchie amministrative, sistema educativo) nell’unificazione della Nazione, altri autori

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Genealogie del presente

hanno messo in luce come, prima del passaggio che unisce in unica parabola di lungo periodo Assolutismo e Rivoluzione, altri vettori di forza percorrano il campo di giuridificazione della relazione tra principi e ceti. La figura che permette di comprenderli disegna un’ellisse. Attestato sul primo dei due fuochi, il principe, che mantiene comunque una posizione di preminenza, una valenza extracontrattuale, grazie al suo controllo della forza militare e della fiscalità, rispetto alla statizzazione dei rapporti di signoria; attestati sul secondo, i ceti e una resistenza materialmente radicata nei territori e nella stratigrafia del tessuto sociale. Di qui la matrice del rapporto di governo e della sua centralità nei processi di costituzionalizzazione che precedono e che seguono la vicenda dello Stato moderno in Occidente. Assemblee di ceti (Etats, Cortes, Landtage) compaiono, a partire dal XIII secolo, come correlato necessario all’iniziativa monarchica di statizzazione. Qui, a differenza del contratto sociale immaginato dal giusnaturalismo moderno, la dualità che insiste nel rapporto di differenziazione, e non di equalizzazione, tra supremazia del principe e irriducibile materialità delle libertates cetuali, non viene sciolta o dissolta. Gli «Herrschaftsverträge», i contratti di dominio, stretti tra i principi e i ceti non sono tanto la sanzione di un dualismo che si realizza nello Stato, ma al contrario, e piuttosto, la sanzione di uno Stato che si realizza solo nel dualismo. Da un lato il potere del principe, un potere che si rafforza grazie alle competenze tecniche dell’amministrazione e alla potenza delle armi; dall’altro l’iniziativa dei ceti per l’assicurazione e per il rafforzamento del diritto comune a favore del paese che si rappresenta come nodo di libertates singolari e collettive di fronte al primo. Sono queste le forme di quello che Werner Näf ha chiamato, in un importante saggio uscito sulla «Historische Zeitschrift» (1958) il dualismo costitutivo all’origine dello Stato moderno. Di questa matrice dualistica sono due le cose che vanno segnalate ai nostri fini. Il primo è la figura ellittica entro la quale si mossero le forme iniziali dello Stato moderno, cristallizzandosi, e non sempre in forma contrattuale, ma talvolta in forme più radicalmente antagonistiche, nel rapporto tra signore monarchico e ceti del popolo, tra governanti e governati. Il secondo la capacità di creazione del diritto che ascrive ai ceti, e cioè alle libertates e alla resistenza dei governati, l’elemento innovativo-progressivo, e cioè il dinamismo, della sintesi costituzionale. Lo Stato moderno agisce un’interruzione di questa logica di confronto, riconoscimento e resistenza per mezzo di una cristallizzazione dello spazio e di una retroversione del tempo. Da un lato la cristallizzazione dello spazio per cui il movimento dell’ellisse dualistica, incitato dall’ir-

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S. Chignola - Governabilità

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riducibile autonomia delle libertates, viene immobilizzato scindendone i due poli: pubblico e privato, Stato e società, interesse generale (elaborato e trattato dall’amministrazione) e interessi privati (ritrascritti come forme di egoismo prepolitico). Dall’altro, attraverso la fictio del contratto sociale e dell’autorizzazione, l’idea che sia il sovrano a fare la società, rappresentandola e dunque re-incorporandola, dopo averla dissolta nell’anonimato di relazioni frammentarie e impolitiche. La retroversione temporale, cioè, per cui il potere istituisce la società nella sua durata, ne segna la genesi, ne struttura e ne innerva la possibilità. Sono entrambe queste condizioni – e cioè la doppia operazione che lo Stato realizza sullo spazio e sul tempo – a entrare ora in crisi. La crisi di governabilità della democrazia, che viene denunciata a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso (Offe, Habermas, O’Connor, Huntington, Crozier e Watanuki), muove da una serie di fattori che mettono in discussione la scissione tra Stato e società e che impediscono al polo delle istituzioni di potersi rappresentare come determinante nella costruzione, nell’organizzazione e nella gestione del sistema dei rapporti sociali. Trasformazioni economiche che innestano profondamente agenzie e commissioni di pianificazione sul terreno dell’economia e, viceversa, processi di soggettivazione che vi consolidano claims e interessi strutturati, ostacolano il funzionamento dei dispositivi di integrazione politica e danno consistenza a una differente spazialità e a una differente temporalità dello scambio politico. Tempi e spazi che non coincidono con la preminenza dello Stato e che ripropongono, piuttosto una tensione tra le funzioni di governo e la posizione – incrocio di aspettative, bisogni, interessi – del governato. Interprete acuto di questo processo è Michel Foucault che, certo non a caso nel Corso al Collège de France del 1977/1978 dedicato a Sicurezza, territorio e popolazione, lascia cadere l’osservazione secondo la quale lo Stato dovrebbe essere inteso come una semplice “peripezia” del fatto di governo; e, cioè, che non solo lo Stato dovrebbe essere marginalizzato nella storia generale della politica occidentale a favore della rilevanza che dovrebbe invece essere riconosciuta a quelle forme della governamentalità che riemergono nella reinvenzione contemporanea della teoria del governo, ma che quella che può essere rappresentata come la sua epoca (l’epoca che segue alla pace di Westfalia e che coincide con i tre secoli di costruzione dello Stato attorno ai pilastri della sovranità, del territorio e della legge) è da considerarsi tendenzialmente superata sul piano politico e un mero effetto realizzato nella modernità giuridica dall’egemonia delle teorie del contratto sociale. Ciò che va riaffiorando in quella che altrove Foucault chiama «l’epoca dei governati» è un’arte del governo la cui genealogia

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Genealogie del presente

risale molto all’indietro, rispetto al XVII secolo di Hobbes e Rousseau, e che si sviluppa in parallelo al lessico della sovranità. Il suo problema non è quello di sterilizzare il conflitto tra i soggetti privati incardinandone la soluzione alla centralità del diritto penale e privato come garanzie di una pace sociale prodotta all’ombra del sovrano, quanto piuttosto quello di governare in maniera efficace (secondo una misura che il governato accetti e riconosca come tale) una popolazione intesa non come somma di astratti soggetti di diritto, ma come volume materiale di ricchezza, relazioni di valorizzazione, somma di rapporti sfuggenti e indecidibili che occorre far crescere senza reprimerne, o farne tacere, l’autonomia. Centrali, in questa prospettiva – che guarda al governo come all’asse di una relazione che concerne il soggetto (governo di sé) quanto l’ambiente complessivo in cui viene calata una regolazione sempre arrischiata e aleatoria come lo è quella che si esercita sul mercato (governo degli altri) – sono almeno due fattori. Il primo concerne il rapporto tra economia e politica. Il secondo la “misura”, e cioè, di nuovo, l’efficienza del governo come logica gestionale. Il termine economia nel suo significato più antico significa amministrazione, e cioè governo, della casa in vista del bene comune di tutti coloro che, viventi o cose, vi siano inclusi. Governare uno Stato, per estensione, farne l’“economia”. Vale a dire: prendersi cura di coloro che vi abitano, incrementarne prosperità e ricchezze, assicurare i cittadini contro i rischi della carestia o dell’imprevidenza alla quale possa abbandonarsi la loro condotta, occuparsi del benessere individuale e collettivo almeno quanto ci si preoccupa della sicurezza generale. Ciò che caratterizza il fatto di governo è in primo luogo il rapporto matriciale, fondamentale, che esso intrattiene con l’economia intesa come sistema di produzione e di scambio, ma anche come il sistema delle loro ricadute sociali. Questo significa che il mercato (uomini, merci, cose) va governato. Esso è un complesso di istituzioni che richiede una direzione e ad esso non pertiene alcuna naturalità. Di qui il secondo dei fattori che segnalavo poco sopra. Se il mercato, l’economia, vanno governati e gestiti – tanto per quanto attiene alla loro apertura, quanto per ciò che attiene alle sperequazioni e alle diseguaglianze prodotti dal loro operare –, fondamentale diventa il problema delle criticità cui tale azione di governo risulta esposta. L’economia richiede governo (di qui il ripresentarsi di una polarità di “comando”) e tuttavia il sistema di rapporti che essa riproduce – rapporti di scambio, flussi della domanda, livelli dei prezzi (la polarità degli interessi sociali, irriducibile alla prima) espone continuamente le sue dinamiche al rischio che si governi troppo. Il governo è un’azione che si compie nella giusta misura – di qui il calcolo

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S. Chignola - Governabilità

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della sua efficienza – tra una carenza ed un eccesso. E la misura della carenza o dell’eccesso è il sistema di rapporti che una popolazione libera può positivamente produrre e autonomamente intrecciare. Ne deriva una serie di conseguenze altrettanto decisive. La prima è che è la libertà intesa non in senso formale, ma come autonomia e come potenza di autovalorizzazione della produzione sociale, appunto, a trainare la rimodulazione dei dispositivi che la ordinano e che si dispongono alla sua cattura. Come per Gilles Deleuze, la società deve essere pensata come un campo di immanenza definito da traiettorie e linee di fuga che le funzioni di regolazione si sforzano di comporre riconducendole a schemi e a formule di governabilità. La seconda è che quello in cui si cala questa funzione di regolazione – e cioè: il mercato, la cooperazione del lavoro vivo, la pratica della libertà come esodo, dissidenza, rifiuto (per riprendere alcune categorie recentemente usate da Pierre Rosanvallon) – è un ambiente esposto alla variazione continua. Se la sovranità perimetra come spazio del proprio esercizio un territorio di vigenza della legge, quello che si tratta di governare è un ambiente e cioè un complesso di rapporti instabili, “aperti” ed evolutivi, che costantemente anticipa e sfida la regolazione che lo insegue. La terza è che il rapporto ellittico tra governo e governato non può essere unidirezionalmente organizzato e richiede un equilibrio mobile all’interno del quale il comando non può pretendere immediata obbedienza e deve, almeno in una qualche misura, esprimere una efficace capacità di compromesso. Di qui la continuità con la semantica del termine governo. Governare – e cioè: creare le condizioni per la governabilità di un insieme di uomini e cose – significa, così nel Miroir politique di La Perrière (1555), «droite disposition des choses, desquelles l’on prend charge pour le conduire jusqu’a fin convenable». Significa, per dirlo altrimenti, ottimizzare una situazione indirizzandola al suo fine. Risuona qui l’antica metafora marina della gubernatio navem rei publicae (Cicerone). Il verbo kubernaô (da cui kubérnēsis, la direzione degli uomini) significa in greco reggere il timone, condurre una nave. Questa matrice, nella quale si esprime un rapporto nel quale chi governa e chi è governato stanno vicendevolmente legati in un sistema che li comprende entrambi esponendoli insieme al rischio di una navigazione incerta (all’alea di tempeste, pirateria, imperizia del comandante, disattenzioni della ciurma), si riflette nella costanza del termine nelle lingue europee e nella sua progressiva inclinazione amministrativa: gouverner, gubernar, to govern, governare. Il tedesco Regierung, similmente, deriva dal latino regere, guidare. “Governare” non significa costruire il rapporto di potere tra un sistema di istituzioni e una società informe, ma

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Genealogie del presente

predeterminare le condizioni di “governabilità” di un rapporto centrifugo e quindi la sua “navigazione” orientata. Ne derivano una serie di conseguenze. La prima è che la “governabilità”, e cioè il sistema di premesse per la riproduzione di un equilibrio, affronta sempre il rischio di un “ingovernabile”. Essa concerne una situazione il cui processo evolve indipendentemente, è caratterizzato dall’aleatorio, si dimostra sempre sfuggente e mai catturabile sino in fondo. L’ingresso dell’economia, intesa come insieme di problemi che riguardano il valore, lo scambio, la produzione e i loro effetti sociali, nel quadro delle scienze dello Stato, caratterizza sin dall’Ottocento l’inclinazione di quest’ultime in direzione amministrativa e la loro valorizzazione di saperi esperti (la scienza delle finanze, la demografia, la statistica) come supplementi necessari per una teoria del governo. La seconda è che un ideale di regolazione in situazione (lessico dell’ottimizzazione) prende il posto del primato della forma di legge come ortopedia preventiva e come limitazione del conflitto. La terza è che quell’“ingovernabile” che spinge alla reinvenzione della teoria del governo – e cioè a riorganizzare in senso “governamentale” gli apparati del potere – prende progressivamente uno spessore che ridefinisce la nozione stessa di libertà. Gli agenti economici e i soggetti radicati nelle relazioni sociali si muovono secondo interessi, bisogni e desideri dei quali chi governa non può disporre. Tanto le oscillazioni del mercato, quanto la libertà dei “viventi” (non quella fissata nei codici e l’astratto soggetto di diritto che essi descrivono, ma la libertà legata al movimento, all’abitare un territorio, la libertà di usare come si crede il proprio corpo...) sviluppano dinamiche autonome, imprevedibili e non possono essere poste sotto controllo nemmeno dal più occhiuto dei sovrani: la legge. Torniamo in questo modo all’inizio. Foucault, insieme a molti altri autori, individua alla metà degli anni Settanta una crisi di governabilità. Contemporaneamente segnala l’ingresso in quella che egli definisce l’“epoca dei governati”. Come in molti altri casi, quest’espressione può essere letta secondo le due versioni, oggettiva e soggettiva, del genitivo. Secondo la prima, l’epoca dei governati potrebbe essere intesa come una fase segnata da un’estensione illimitata del governo e delle funzioni del controllo. Nella seconda, l’epoca dei governati andrebbe invece intesa come l’epoca nella quale i governati, attestati sul secondo fuoco dell’ellisse governamentale e soggettivando la propria posizione, sfidano costantemente i dispositivi di governo. Ciò che segna la “reinvenzione” della teoria del governo è questa sfida. Una sfida nella quale la crescita di complessità indotta da disobbedienza, disaffezione nei meccanismi della delega parlamentare, crisi dei partiti di massa, esodo dalla fedeltà fordista al lavoro, lotte biopolitiche

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S. Chignola - Governabilità

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(femminismo, ecologismo, movimenti LGBT) specifica in senso soggettivo, tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, il senso della crisi di governabilità. La semantica della governabilità – al di là dell’insieme di problemi indotti dai problemi di tecnicalità della funzione di “governo” in precedenza citati – appare perciò il modo attraverso il quale si risponde a questa dimensione che qualifica in senso “soggettivo” l’ingovernabile. Progressivamente ingovernabile non è soltanto il rapporto tra sistema politico e litigiosità dei partiti, complesso degli interessi organizzati, politica e finanza, Stato nazionale e globalizzazione, ma, prima di esso, il rapporto di disaffezione, disobbedienza e resistenza tra i “governati”, materialmente innestati nel territorio, identificati ad un corpo portatore di desideri e di bisogni, veicolo di mobilità e di mobilitazione permanente, capaci di relazioni reticolari e di potenza di autovalorizzazione e di impresa, che costantemente sfuggono alla capacità di cattura dei dispositivi di comando e al complesso di mediazioni tradizionalmente offerto dalle forme della democrazia parlamentare e dal sistema rappresentativo. Reinventare la teoria del governo significa affrontare l’esodo di massa dai meccanismi della sovranità. Produrre condizioni di governabilità, trovare, nell’alea della situazione, la rotta per navigare la resistenza irriducibile del governato. Vedi anche: Costituzione, Democrazia, Sacrificio

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UGO MATTEI E MICHELE SPANÒ

LEGALITÀ Oltre il cretinismo e il romanticismo

Difficile, per non dire impossibile, affrontare la legalità come un concetto dotato di autonoma consistenza. E ciò non già per la ragione banale per cui tutti i concetti politico-giuridici sono “essentially contested”, ma per almeno due altri e più rilevanti motivi: il primo è che, almeno nella modernità, è stato impensabile trattare di legalità prescindendo dal suo concetto gemello: quello di legittimità; il secondo è quello che – considerandola in crisi permanente – impedisce di rivolgersi alla legalità altrimenti che nel modo della critica. Nessun altro come Carl Schmitt ha mostrato fino a che punto il nesso tra legalità e legittimità sia stato la pietra angolare del moderno Stato di diritto1. Punto più alto della parabola del liberalismo, il Rechtsstaat, anche e forse soprattutto nella sua espressione democratico-parlamentare, ha fatto della legge e dunque del principio di legalità (Gesetzmassigkeit) il mezzo e la forma della politica. Se è vero che la legalità impone un governo mediante e secondo la legge e la separazione tra produzione e applicazione di questa, essa traduce la volontà nella norma, rendendo legittimità e legalità integralmente indiscernibili2. La legittimità dello Stato di diritto è stata la legalità. L’equilibrio dei poteri e la sottoposizione di questi alla legge, insieme con la riduzione alla forma-di-legge di ogni valido atto dello Stato, ha contribuito a indeterminare veritas e auctoritas, fino a rendere oziosi i dibattiti che, per secoli, si erano cimentati col dilemma circa quale, delle due, “facesse”, in ultimo, la legge. Il telescopage, quando non la semplice confusione, tra legalità e legittimità è tuttavia solo apparente: esso custodisce infatti le premesse della loro potenziale divaricazione. Come aveva intuito Schönberg in Mosè e Aronne: 1 2

Cfr. C. Schmitt, Legalità e legittimità (1932), in Id., Le categorie del “Politico”, a cura di P. Schiera, il Mulino, Bologna 1998, pp. 211-244. Cfr. P. Costa, D. Zolo, (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002.

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Genealogie del presente

«Che vi sia una legge, questo devi salutare come un miracolo; che vi sia chi si ribella, questa è una trita banalità». Il rapporto tra legalità e legittimità ha natura asimmetrica: la legalità è quella “porta” varcata la quale è possibile decidere di ogni legittimità. Essa, come ha mostrato lucidamente Schmitt, assegnando il “premio politico sull’esercizio legale del potere”, è quella soglia che, una volta superata, consente la sua stessa disfatta3. Quanto a questa dinamica: non è necessario allegare prove. Gli Stati costituzionali elaboreranno gli esorcismi adatti al caso. Il sindacato di costituzionalità e la riserva di legge duplicano, nei modi della ultralegalità o della superlegalità, il registro della legalità. Se la legalità ha riguardo della distinzione tra amministrazione e giustizia, essa ha potuto esibire prima le sue più edificanti prestazioni nel dominio del diritto penale e poi fornire il blasone a ogni contestazione dello Stato totale4. Ma allorché è proprio tale summa divisio a scricchiolare è lecito essere scettici verso una soluzione omeopatica5. Certamente lo spazio che tiene separati la legittimità dalla legalità è quello che in una società decide dell’estensione dei domini del politico e del giuridico. Ma questa è già storia di ieri. Sovranità e legalità cadono insieme. La differenziazione sociale, la singolarizzazione delle forme di vita, le metamorfosi del sistema produttivo indicano il tramonto della decisione e la fine del Leviatano. È una buona notizia; ma essa comporta una nuova confusione tra esecutivo e legislativo, che lascia margini prima inauditi al giudiziario. Questa è una notizia che può essere meno buona; ma è nondimeno qualcosa che accade. Occorre perciò immaginare forme e modi capaci di custodire la distinzione tra conflitto politico e sua formalizzazione; capaci cioè di mantenere insatura la formula del sociale. La democrazia è sembrata a lungo l’unica forma di governo in grado di comporre astrazione e trasformazione sociale: «Il potere di assorbimento proprio dell’ideologia democratica ha contribuito, allo stesso modo della prassi costituzionale, a rimuovere il diritto di resistenza»6. La resistenza trascorreva nella legge e la legalità attestava, fissandola e formalizzandola, della coincidenza tra atti amministrativi o di governo e legge stessa: «Alla razionalizzazione del concetto di legge corrisponde la formalizzazione del concetto di legalità»7. Dovremo allora 3 4 5 6 7

C. Schmitt, La rivoluzione legale mondiale, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 187-215. Cfr. P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, Laterza, Roma-Bari 2013. Cfr. L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, il Mulino, Bologna 2013. O. Kirchheimer, Legalità e legittimità, in Id., Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale, De Donato, Bari 1982, p. 117. Ibid.

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U. Mattei, M. Spanò - Legalità

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dire che alla odierna irrazionalizzazione della prima segue lo sformarsi della seconda. Sulla Costituzione sarà opportuno tornare. Soffermiamoci per ora sullo statuto critico che la legalità non smette di assumere. Perchè potesse sostenere, quale sua architrave, lo Stato di diritto, la legge doveva esibire caratteristiche definite: generalità, astrattezza, universalità. Nessuna è sopravvissuta al tempo. In secondo luogo, i due “volti” della legge nello Stato di diritto – forma e formalità, “mediante” e “attraverso” – sono entrambi sfigurati: soft law, decreti legge, stato d’eccezione permanente lo dimostrano aldilà di ogni ragionevole dubbio. La crisi del diritto è la crisi del suo Stato e insieme quella di impersonalità, razionalità e generalità. Incontestabile la crisi, ma non univoche le terapie. Non solo: la legalità tanto meno efficacemente assolve al suo compito di razionalizzazione e uniformazione, tanto più stinge e dilaga come retorica. Alla sua mancanza di effettività fa da contraltare un’egemonia simbolica crescente. La retorica del Rule of Law è in questo senso esemplare. Se la crisi del nesso che legava legittimità e legalità segnala il tramonto di una forma della politica, essa ha anche contribuito alla trasformazione della politica in polizia. Di questa metamorfosi la legalità è stata un tassello cruciale. Un impasto che ha confuso, con un dilettantismo non privo di efficacia (in una parola: con i tratti tipici dell’arroganza), la democrazia ridotta a liturgia elettorale con i diritti umani spacciati per ricetta universale e allergica ai contesti, il Rule of Law ha finito per costituire null’altro che la poco scintillante veste capace di coprire quelle operazioni di saccheggio – materiale e simbolico – che hanno ridisegnato il mondo globalizzato prima e dopo l’11 settembre8. Se gli Stati Uniti d’America si sono distinti in questa impresa, la retorica della legalità ha assunto rapidamente proporzioni globali. Vero e proprio lasciapassare discorsivo e patente di moralità che decide dell’accesso all’arena internazionale, essa è il singnificante-vuoto che accredita i difensori della “democrazia”. Il divenire-polizia della politica internazionale e l’egemonia del modello di Law & Economics sul diritto internazionale sono i binari paralleli su cui la retorica della legalità viaggia distribuendo i dividendi del saccheggio e appuntando le medaglie del paternalismo e della filantropia. Ma il caso domestico è forse ancora più eloquente. Lo scacchiere politico italiano ha infatti provveduto a una divisione del lavoro: da un lato la legittimità, dall’altro la legalità. Da un lato l’eversione istituzionale 8

Cfr. U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Bruno Mondadori, Milano 2010.

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Genealogie del presente

operata da alte cariche dello Stato, giustificata in virtù dell’investitura popolare o della “sospensione” eterodiretta della politica, dall’altro la delega a poteri terzi in forza di una conclamata incapacità di mediazione. In un caso come nell’altro, la politica è completamente espunta: se nel primo per saturazione, nel secondo per estinzione. In entrambe le interpretazioni: la dinamica politica italiana è esonerata dal nesso legalità e legittimità; essa è ormai, allo stesso tempo, una macchina capace di performances anti-politiche, impolitiche e ultrapolitiche. Perciò non può che girare fatalmente a vuoto. Dove però i due poli della macchina lavorano ancora di concerto è nella traduzione poliziesca del loro vuoto o troppo pieno di politica: la retorica della legalità funziona infatti come discorso passe-partout e unico residuo della “beanza” del politico che governa la macchina. Che sia per attingere a ogni riserva di legittimità o per mascherare la propria inettitudine a confliggere, la religione della legalità dilaga e lo fa costruendo nemici. In un caso si tratta di inventare l’antagonista del popolo ultrapolitico della destra (e i nemici saranno allora i migranti), nell’altro quello di chi le regole le rispetta (e i nemici in questo caso saranno gli antagonisti sans phrase). Oggi il premio politico di schmittiana memoria si trasforma nella decisione sull’ordine pubblico. Se da un lato la legalità è diventata il discorso della sicurezza e i suoi nemici i criminali, dall’altro è diventata il discorso della repressione, anche e soprattutto dei desideri. Dunque un discorso moralista, da parte a parte. Del resto, molto resterebbe ancora da dire sul ruolo svolto dalla magistratura nel venir meno del nesso tra legalità e legittimità quale forma di regolazione eminente del rapporto tra politica e diritto. Quello che si tratta di pensare non è tanto una soluzione, quanto una morale provvisoria, una tattica. Per farlo è opportuno abbandonare ogni postura luttuosa: ricomporre l’intero non è possibile e non è neppure auspicabile. Se avrebbe poco spazio un ragionamento sulla “rifondazione” della legalità in assenza di qualsiasi risorsa di senso, ancor più miope sarebbe non voler ascoltare la lezione che le forme di vita contemporanee, sulla legalità, già impartiscono. Più utile seguire due ipotesi di lavoro. La prima discende da una storicizzazione integrale del concetto di legalità e permette conseguentemente di mostrare, qui e ora, pratiche che la trasformano. La seconda prospetta una riflessione di lunga lena che ha a cuore una certa idea di diritto e di forma che ha il nome di Costituzione. Occupare e fondare sono due verbi che del diritto e della politica costituiscono l’ossatura. Lontani dalle scene primarie del politico e perciò da ogni immaginario regressivo, essi offrono oggi una formidabile descrizione di nuove forme dell’agire sociale dentro e contro la legalità. Sia il caso della

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U. Mattei, M. Spanò - Legalità

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fondazione. A Roma, un teatro – il Valle – ha scelto la prima via, quella dell’occupazione, come extrema ratio a fronte della possibilità di scomparire. Il movimento dei beni comuni ha trovato qui la sua massima espressione e anche il suo limite. Perciò esso si è più recentemente costituito in fondazione: col fine di espandere e proteggere quella speciale forma di cooperazione e immaginazione sociale che fuori e dentro le sue mura continua a darsi convegno. Nel caso della fondazione è una forma legale del diritto – e del diritto privato – che inizia a disfarlo estendendo il campo del legittimo. Quello delle occupazioni, che riguarda ormai realtà troppo numerose per poter essere elencate, è un caso ancora più significativo: ciò che è attualmente considerato illegale trasforma – tanto lavorando per “legalizzarsi” quanto esibendosi e iterandosi in quanto tale – il legittimo possibile e il legale che c’è. L’uso lucido dell’art. 42 della Costituzione, dal Macao al Palazzo al Colorificio di Pisa, tra punti segnati e temporanei insuccessi, ha mostrato che l’autonomia dei concetti giuridici è disponibile alla trasformazione sociale e che la dialettica tra legale e legittimo è la sua stessa posta in gioco. Entrambi gli esempi attestano l’assoluta contingenza, storicità e trasformabilità della legalità. Nei due casi gli operatori della trasformazione sono la cooperazione sociale e la materialità dei corpi: l’una non può essere senza l’altra nella costituenda legalità. La regola che da queste “scene” può essere ricavata ha validità più generale e coincide con null’altro che la marca temporale – quella del presente e della contingenza – che definisce la legalità stessa: illegale sarà sempre ciò che non è legale per l’ordinamento vigente. È una conclusione forse banale e tuttavia inaggirabile. Ogni trasformazione che sia veramente tale sarà allora e per definizione illegale. O anche: la legalità oggi è sempre il prodotto di infiniti atti di illegalità ieri. Una critica della legalità è sempre anche materialmente e storicamente critica della legittimità e viceversa: o questa in nome di quella o quella in nome di questa. Se la legalità è il presente, l’illegalità legalizzanda è il futuro o il futuro presente. D’altro canto, al presente, ma non del presente, decide solo l’ordinamento: L’ordinamento giuridico statuale non rimprovera al rivoluzionario il fatto di relativizzare i concetti di legalità e di illegalità; solo se il risultato di questo processo ideale lo conduce eventualmente all’illegalità, lo mette in conflitto con questo. Non meno indifferente per il sistema giuridico vigente, è, però se un partito appartenga alla cerchia dei partiti “buoni”, nel caso che gli salti in mente di non osservare, sulla via che lo conduce al potere politico, la legge penale. Chi, d’altronde, vorrebbe essere così presentuoso da anticipare ciò che spetta soltanto allo storico: la differenziazione estremamente relativa tra partiti rivoluzionari e partiti “buoni”?9. 9

Kirchheimer, Legalità e legittimità, cit., p. 127.

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Genealogie del presente

La confusione, e la possibile sovrapposizione, tra illegalità e legalità e il fatto che essa si possa indifferentemente predicare tanto dei mezzi quanto del fine, può condurre speditamente all’attività poliziesca dei tribunali, almeno tenendo per vera «la caratteristica concezione secondo la quale l’illegittimità delle idee sociali conduce sempre alla perdita del diritto di far legalmente uso di diritti legali»10. Ammesso che ci sia bisogno di precauzioni: questo discorso non ha nulla di sovversivo. Si limita alla descrizione rigorosa della dinamica e della trasformazione storica e giuridica11. Cosa si capirebbe infatti della “politica popolare” nella “gran parte del mondo”, di una “società politica” che negozia benessere e servizi, autonomia e libertà, sul e attraverso il crinale che separa legale e illegale, cinismo e resistenza12, tenendo fede a un’idea acontestuale e astorica della legalità? Il problema, insomma, è tanto politico almeno quanto metodologico. Allo stesso modo – vale a dire: per gli stessi motivi – la storicizzazione integrale del concetto di legalità non equivale a un elogio dell’illegalità. Si tratterebbe di un assoluto abbaglio. Se è pur vero che la retorica della legalità, anche solo per il suo insopportabile tasso di moralismo, sembra a volte giustificare una speculare retorica dell’illegalità, è proprio la logica dello specchio a dover essere scartata. Varrebbe la pena di rispolverare quella doppia critica lukácsiana al romanticisimo dell’illegalità e al cretinismo della legalità, che, capace di isolare il “carattere puramente tattico” dell’una e dell’altra, altro non è che un lucidissimo elogio della spregiudicatezza. E c’è da credere che poche altre tonalità emotive possano ambire a forgiare l’ethos delle forme di vita contemporanee: Nella misura in cui i mezzi ed i metodi illegali di lotta ricevono una particolare aureola, l’accento di una particolare “autenticità” rivoluzionaria, alla legalità dello Stato esistente viene attribuita ancora una certa validità e non un essere meramente empirico. Infatti, se ci si ribella alla legge in quanto legge, se si dà la preferenza a certe azioni per via del loro carattere illegale, ciò significa che per colui che agisce in questo modo il diritto ha mantenuto il suo carattere di validità vincolante. Mentre se vi è una piena spregiudicatezza comunista nei confronti del diritto e dello Stato, la legge e le sue prevedibili conseguenze non hanno né più né meno importanza di qualsiasi altro fatto della vita esteriore, di cui si deve tener conto nella valutazione della eseguibilità di una determinata azione; ed il fatto di trovarsi in condizione di trasgredire la legge non può quin10 11 12

Ivi, p. 130. Cfr. E. Peñalver, S. Katyal, Property Outlaws: How Squatters, Pirates, and Protesters Improve the Law of Ownership, Yale University Press, New Haven 2010. Cfr. P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006.

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U. Mattei, M. Spanò - Legalità

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di ricevere un accento diverso, ad esempio, da quello di perdere, in un viaggio di particolare importanza, una coincidenza ferroviaria13.

Un discorso sensato – e dunque critico – attorno alla legalità non può prescindere dalle forme di vita per come esse sono: la loro indifferenza verso le forme è anche ciò che indica che di esse non è possibile fare a meno. Le forme sono utili. L’uso, alla lettera, indifferente di una tattica legale e di una illegale è ciò che smaschera – cioè denaturalizza – l’ordinamento giuridico. E se non bastasse – o non piacesse – Lukács, sarà sufficiente pensare al discorso queer, uguale e contrario, sul riconoscimento legale del matrimonio tra persone dello stesso sesso e la trasformabilità dei concetti giuridici. Per dissacrare la “maestà astratta” dello Stato non si può non assumere, insieme alla contingenza radicale e alla storicità assoluta dei concetti di legalità e illegalità, il loro inestinguibile tenore etico e cognitivo. Come non si ricompone la macchina della politica giocando legalità e legittimità l’una contro l’altra, tanto meno si disfa la retorica della legalità investendo sul suo antonimo. Ciò che occorre, piuttosto, sono un pensiero e una pratica che riconoscano l’intrascendibilità di queste tensioni e ne facciano il piano di consistenza di ogni trasformazione possibile. Questo stile di negoziazione, di cui la legalità è insieme strumento e posta in gioco, ha nella metropoli il suo teatro. Si è recentemente fatto ricorso all’idea di “legalità porose”14 nel tentativo di isolare il ruolo cruciale che forme diffuse di illegalità hanno nel configurare l’accesso e la partecipazione di molti soggetti alla vita delle città globali. Le legalità porose incarnano una figura teorica capace di indicare – a prezzo, senz’altro, di un parziale cedimento al romanticismo – l’instabilità del confine tra legale e illegale, la cui sempre nuova determinazione, e può trattarsi indifferentemente di contrazione o espansione, costituisce l’enjeu delle negoziazioni tra governati e governanti, tra società politica e governamentalità. Uno strumento che, prosaicamente, ma in molti contesti urbani, consente a soggetti altrimenti esclusi di guadagnare un titolo di accesso e un certo grado di esistenza politica. Oltre a un indubbio valore etnografico, l’ipotesi di legalità apocrife e plurali costituisce un ulteriore guanto di sfida alla mitologia liberale del Rule of law: fratturando la distinzione binaria che separa la legalità dall’illegalità, essa addita la miriade di quotidiane e ordinarie negoziazioni con

13 14

G. Lukács, Legalità e illegalità (1920), in Id., Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1970, p. 326. Cfr. L. Liang, Porous Legalities and Avenues of Participation, in «Sarai Reader», n. 5, 2005, pp. 6-17.

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Genealogie del presente

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il potere che in una strategia che intreccia iterabilità e performatività ne disloca costantemente i confini: They destabilise the structure, without making any claims. So the encroacher redefines the city, even as she needs the city to survive. The trespasser alters the border by crossing it, rendering it meaningless and yet making it present everywhere – even in the heart of the capital city – so that every citizen becomes a suspect alien and the compact of citizenship that sustains the state is quietly eroded. The pirate renders impossible the difference between the authorised and the unauthorised copy, spreading information and culture, and devaluing intellectual property at the same time. Seepage complicates the norm by inducing invisible structural changes that accumulate over time15.

Le lotte sociali, che altro non esibiscono se non la virtuosistica capacità di «sfruttare i pori», possono essere più sensatamente descritte quali veri e propri esercizi di appropriazione e ridistribuzione dei mezzi di produzione della legalità e dell’illegalità. Per quanto disagio morale essa possa produrre, la società politica costituisce una figura smagliante della catastrofe dei protocolli morali che decidono dell’accesso alla politica e potrà forse costituire la leva di quell’inderogabile “rettifica dei nomi” che permetta di immaginare una nuova politica dei governati. L’illegalità non solo può essere ma è a tutti gli effetti una strategia giuridica: essa modifica “da sotto” il diritto, innovandolo e obbligandolo a metabolizzare novità e sfide. Non vale soltanto la considerazione triviale per cui una deroga ripetuta si trasformerebbe fatalmente in norma, ma l’idea che il meccanismo che ha il diritto di “rappresentare” assume necessariamente la forma della crisi e che la legalità è di questa l’anamorfosi storica. Sono gli appelli plurivoci alla legalità che fanno di quest’ultima un concetto esposto e consegnato a una costante autosovversione. A fronte di tanta “confusione” non stupisce, ma neppure aiuta, la difficile elaborazione del lutto del nesso tra legalità e legittimità che impegna molti filosofi politici contemporanei16. Il richiamo alla Chiesa cattolica quale unica forma politica in grado di integrare legalità e legittimità, auctoritas e potestas, maschera appena le difficoltà di confrontarsi con un presente in cui il nesso è saltato e vano sarebbe immaginare una sua ricomposizione. Oltre una malcelata nostalgia per la “tirannia dei valori” e un epimeteismo passatista sta la possibilità di una critica e di una prassi che sfuggendo alla

15 16

Ivi, p. 15. Cfr. G. Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari 2013; M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

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U. Mattei, M. Spanò - Legalità

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fatalità della dicotomia siano insieme capaci di “sopportarla”: né custodi della legalità né partigiani della legittimità. Nessuna restaurazione della diade infranta, ma un tentativo costante – in funzione di scala, contesto e obiettivo – di usare l’una e l’altra, l’una contro l’altra. Se si assume la priorità della trasformazione sociale, occorrerà anche riconoscere che come essa è qualificata solo da quel che c’è così la trasformazione di quel che c’è dovrà sostenersi di nuove qualificazioni. Se allora è da respingere ogni retorica, che sia della legalità o della legittimità, c’è solo da accettare quel campo conflittuale che, come un’ascissa e un’ordinata, esse segnano alla cooperazione sociale: a essa sta di cambiare le unità di misura. Il progetto costituzionale è stato questo: il tentativo di comporre legalità e legittimità su un piano alto. A questo circuito sono stati dati molti nomi: Costituzione materiale e formale17, Konstitution e Verfassung, potere costituente e potere costituito. Tutti altro non fanno che esibire questo andirivieni tra storia e forma, tra vita e regola, tra forma di vita e istituzione. Non si tratta perciò di difendere questa o quella Costituzione – benché, almeno per l’Italia, esista un numero non esiguo di argomenti a favore18 – né di redigere atti di morte o di allestire concorsi di bellezza tra carte; si tratta di riconoscere nella forma della Costituzione l’unico dispositivo ancora oggi disponibile per pensare la trasformazione, non in virtù di una petizione di principio o di un élan moralistico, ma perché è proprio della sua forma essere trasformabile e trasformativa. Oltre l’idea di una Costituzione da liquidare o da difendere, resta la questione della “forma” in quanto tale. Una “forma”, quella costituzionale, che oggi ha la chance di emanciparsi, sganciandosene, dalla forma-Stato19. Per le Costituzioni civili o sociali il problema della legalità, ammesso che ancora si ponga, si affaccia infatti in modo nuovo. Se la difesa della Costituzione è sempre difesa partigiana della Costituzione materiale è soltanto in questa dialettica che ne va della legalità. La forma costituzionale è la sintesi più alta di questa sistole e diastole dell’ordinamento che è il rapporto, storicamente determinato, tra legalità e legittimità. Con una formula: occorre pensare una Costituzione per le forme di vita contemporanee; e sarà l’ecologia di queste ultime che dovrà dettarne il ductus e la morfologia: essa sarà europea e sarà postcoloniale20. Perchè non si parla di forma senza soggetti né si parla di Costituzio17 18 19 20

Cfr. C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, Giuffré, Milano 1998. Cfr. U. Mattei, Contro riforme, Einaudi, Torino 2013. Cfr. A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione (1977), Dalai, Milano 2012. Cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona 2008.

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Genealogie del presente

ne senza processi costituenti. Ma il costituente non è mai, e per definizione, legale. Solo il costituito lo è. Come nella Calcutta di Chatterjee così nelle metropoli europee, le forme di vita contemporanee non esprimono la spontaneità di una società costitutivamente impolitica; al contrario, incarnano il costituirsi continuo di soggettività e problemi collettivi (o “comuni”) che rompono per ogni lato i confini di una natura del politico tenacemente identificata, in ultima analisi, col perimetro della statualità; ed instaurano al contempo relazioni tanto duramente negative, quanto all’occorrenza positive (in tal senso “opportunistiche”) con le articolazioni istituzionali di quest’ultimo21.

Dalla crisi della legalità, che è la crisi della legittimità, che è la crisi della Costituzione, che è la “crisi”, non si esce dunque che attraverso un nuovo processo costituente. Un processo che non abita nell’essere né nel dover essere ma nel potrebbe essere del comune. Vedi anche: Governabilità, Responsabilità, Trasparenza

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L. Ferrari Bravo, Costituzione e movimenti sociali, in Id., Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, manifestolibri, Roma 2001, pp. 254-255.

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MARCO TABACCHINI

MOVIMENTO Riscattare l’insalvabile

Ogni cultura si è data in spettacolo le vette più alte della padronanza dei corpi in movimento. Yves Lorelle, Le corps, les rites et la scène

1. Una storia del concetto di movimento non potrebbe che comportare la storia delle modalità con cui questo è stato delimitato e catturato all’interno di una precisa economia discorsiva, cattura che si è sempre accompagnata a posizioni strategiche ben definite. Lo stesso compito di circoscrivere il concetto di movimento – mero significante fluttuante, simbolo allo stato puro – si è sempre scontrato con l’eccedenza di volta in volta riconosciuta allo stesso, come se parlare di movimento significasse anzitutto segnarne l’eccesso rispetto a qualsiasi significato stabilito. Non è un caso che, nella storia del pensiero politico, il primo tentativo di esporre la portata del concetto di movimento coincida con la volontà di formularne le stesse leggi che lo determinano. Nel 1850, Lorenz von Stein pubblica la Storia del movimento sociale in Francia dal 1789 ai nostri giorni, la cui introduzione reca significativamente il titolo Il concetto di società e le leggi del suo movimento. Obiettivo del giurista è quello di fondare, «ora che gli alti flutti del movimento sociale squassano popolo e Stato»1, una scienza della società in grado di risolvere il conflitto tra classi, scongiurando così il pericolo di rivoluzione che incombe sull’Europa. Movimento è qui il nome usato per indicare la vita stessa nel suo essere mobilitata in questo conflitto: «il contenuto della vita della comunità deve essere una lotta ininterrotta dello Stato con la società e della società con lo Stato»2. La sovrapposizione del concetto di movimento a quello di vita, 1 2

L. von Stein, Il concetto di società e le leggi del suo movimento (1850), in Id., Opere scelte, a cura di E. B. Remeddi, Giuffrè, Milano 1986, p. 226. Ivi, p. 119.

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se da un lato ne permette l’inclusione strategica nell’orbita dello Stato, dall’altro costringe a considerare entrambi, vita e movimento, quali docili materiali informi, sempre disponibili a ricevere la giusta forma in grado di risolvere la frammentazione che impedisce allo Stato di coincidere con ciò che è chiamato ad essere. È proprio un simile compito a tradire, nel momento in cui se ne riconosce il tratto politico decisivo (al punto che «sotto più di un aspetto questa è per eccellenza l’epoca dei movimenti sociali»3), il carattere inafferrabile del movimento stesso. Tutto ruota attorno all’aporia contenuta nel termine tedesco Erhebung, utilizzato al contempo nella duplice accezione di “elevazione” e “sollevamento”: è solo grazie a tale concetto, sotto il cui nome sono rubricate le forme di organizzazione dei movimenti sociali, che Stein può giustificare la partecipazione degli oppressi alla dinamica di una società che si nutre immemorialmente della loro esclusione. L’Erhebung indica anzitutto il processo di formazione [Bildung] del proletariato, classe subalterna e tuttavia decisiva tanto sul piano economico che su quello politico, ma che solo ora inizia a reclamare una partecipazione alla vita dello Stato («quel potere», ricorda Stein, «che per sua natura deve porsi come compito l’elevazione della classe inferiore [Erhebung der niederen Klasse]»4). Il movimento di elevazione del proletariato coincide allora con la presa di coscienza della propria identità, nonché del proprio ruolo storico. Elevazione paradossale, che sancisce la fine dell’esclusione sotto il segno della lotta, secondo le stesse regole che da sempre governano i rapporti della dominazione. Elevazione impossibile, dunque, che si rivela tale proprio laddove, appropriandosi dei mezzi fino ad allora rivolti a perpetrarne l’esclusione, gli oppressi vedranno in ciò il mezzo per disfarsi della propria tradizione, ma solo per caricarsi di un fardello da sempre pronto ad accoglierli. L’accettazione di tale ruolo non è, tuttavia, la sola posizione che il proletariato è passibile di assumere: l’accesso alla dimensione politica può darsi secondo altre, più perturbanti, modalità di movimento. Sommosse, insurrezioni e rivolte manifestano altrettante forme di sollevamento popolare [Erhebung des Volkes]5, mediante le quali i miserabili possono rovesciare la stessa partizione sociale a cui devono la propria forma di vita, e spezzare così la sola modalità d’inclusione a loro concessa. Gesto radicale di rivolta, dispensato dai vincoli dell’antagonismo o dell’opposizione, questo nuovo movimento non conosce né emancipazione né elevazione, poiché è un 3 4 5

Ivi, p. 229. Ivi, p. 205. Ivi, p. 188.

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M. Tabacchini - Movimento

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mondo intero, nella sua pienezza di senso, a trovarsi qui irrevocabilmente deposto. Dispiegandosi entrambe a partire dal punto di contatto – incontro o collisione – tra corpi e soggettività, punto da cui prende avvio un comune spazio di manifestazione, elevazione e sollevamento sembrano opporsi alla stessa partizione. E tuttavia, da un lato, la risoluzione del conflitto procederà di pari passo con la manifestazione di soggetti, classi e cittadini, seguendo l’intero spettro delle individuazioni che hanno da sempre costituito la storia della politica; dall’altro, invece, non si avrà che la manifestazione di un’intensità povera di nomi, ma paga della propria linea di fuga, una presenza che, tremante, pare sollevarsi da un fondo ormai saturo, rispetto al quale ancora stenta a trovare una forma riconosciuta. E proprio quando il destino a cui i miserabili parevano inchiodati non è più riscattato, bensì disatteso, un solco irreparabile si apre tra le due accezioni del movimento. Laddove questo trascina le vite nel suo ritmo, laddove ogni partizione stabilita sembra cedere di fronte alla pressione dei corpi interessati, l’elevazione segnerà ogni volta il limite stesso del sollevamento, limite imposto affinché il conflitto trovi la necessaria neutralizzazione nei giochi del riconoscimento. 2. Spesso si è rischiato di giustificare l’emergere di un movimento ricorrendo al desiderio d’emancipazione che lo avrebbe guidato, desiderio il cui immaginario si mischia con il sapore delle lotte e la passione dell’antagonismo. Ancora un secolo dopo Stein, Alain Touraine scorgeva del movimento solo in presenza di identità gravide di rivendicazioni, di un orizzonte valoriale e di un chiaro sentimento di opposizione6, senza avvedersi di come, in tal modo, la sua sociologia dell’azione avesse già da sempre mancato il movimento, arrestandolo all’interno di un preciso regime di visibilità. È qui che le teorie impegnate a render conto dei movimenti attraverso concetti quali «autorappresentazioni collettive» o «raggruppamento ideologico»7 dimostrano il proprio limite: dove queste reputano esservi singolarità in movimento, ecco invece mostrarsi soggetti antagonisti, già organizzati nella spartizione delle identità riconosciute, già inquadrati nella precisa posizione dei corpi. Per questo la proposta di Ernesto Laclau, quale teoria dell’antagonismo sociale, rimane sostanzialmente estranea alla singolarità inerente ad ogni movimento. Se il populismo si configura come «una via per costruire l’uni6 7

Cfr. A. Touraine, Sociologie de l’action, Seuil, Paris 1965, pp. 164-180. Cfr. C. Tilly, L. J. Wood, Social movements 1768-2012, Paradigm Publishers, Boulder-London 2013.

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ta stessa del gruppo»8 nel suo farsi popolo a partire dalla condensazione di istanze sociali radicalmente eterogenee (tanto tra loro che nei confronti del politico istituito), tale dinamica asseconda una costruzione ontologica del politico coincidente con l’istituzione della sua dimensione identitaria. Del tutto simile all’istituzione a cui si oppone, quale costrutto che comporta, emergendo, la divisione antagonistica del campo sociale, il popolo stesso si presenta come «una componente parziale, che ciononostante aspira a essere considerata l’unica totalità legittima»9. Ma l’emergenza di un popolo è ben altro dall’emergenza di un movimento: la dimensione politica di questo non risiede in un contrasto tra identità, ma in «un urto tra una volontà d’identità (la polizia, l’organizzazione) e una forza inafferrabile tanto per quelli che la osservano quanto per quelli che vi partecipano»10. Un movimento non si rivolge a nessuno, non reca con sé richieste o reclami, e questo non solo perché non vi è nessuno a poterli accogliere (a differenza di una domanda, «sempre rivolta a qualcuno»11), bensì, più radicalmente, a causa dell’assenza di un linguaggio per poterli formulare. Esso assomiglia a un grido, alla sua subitanea propagazione tra chi non ha altro in comune se non questa privazione di un mondo comune: eterogeneità radicale, mero brusio opaco e restio a ricevere un nome. Prova ne è il fatto che il movimento, laddove è nominato e costretto a riconoscersi nella partizione proposta, eccolo presto ripiegarsi, cristallizzato nelle rivendicazioni che lo determinano quale identità: «ogni movimento sociale è ammesso, quando accetta alla fine di parlare il linguaggio del potere. In altri termini: quando rinuncia a imporre il suo proprio spazio politico»12 in favore di quelli proposti dalla dominazione, siano questi prossimi al ghetto, all’arena o alla vetrina. La difficoltà di pensare il movimento sembra ripresentarsi anche laddove Laclau pare assecondare un certo messianismo della plebe, confessando che «tutto ciò che sappiamo è che saranno gli esterni al sistema, gli emarginati, i derelitti, quelli che abbiamo definito gli eterogenei: saranno costoro a risultare decisivi nella costituzione di una frontiera antagonistica»13. Anche qui, nel fondo più basso dell’eterogeneità, a contatto con gli insalvabili colpiti 8 9 10 11 12 13

E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 68. Ivi, p. 77. D. Sardinha, Motus, meute, émeute: formes du mouvement sauvage, in «Oὖ i ! Rivista di filosofia (post)europea», 2/2012, p. 100. Laclau, La ragione populista, cit., p. 81. S. Lopez Petit, Lo Stato Guerra. Terrorismo internazionale e fascismo postmoderno, le nubi, Roma 2005, p. 76. Laclau, La ragione populista, cit., p. 142.

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da una condanna pressoché immemoriale, sembra ancora risuonare la promessa di un riscatto, il destino di elevazione a cui gli esclusi sono chiamati, a patto tuttavia di rinunciare alla loro stessa eterogeneità, e di lasciarsi così docilmente istituire in qualità di differenze normalizzate. Del resto, non vi è ricordo di istituzioni che abbiano mai negato ospitalità all’antagonismo, riservandosi al contrario la possibilità di dispiegare tutta la propria forza proprio laddove le singolarità cedono al richiamo del conflitto. Ancor più preziose sembrano allora le osservazioni di David Graeber quando, in riferimento al movimento delle occupazioni14, descrive una situazione che precede qualsiasi forma di antagonismo o di aperto riconoscimento tra soggettività in conflitto. Essenziale è qui il tentativo di differenziare le forme di protesta da quei gesti politici che l’antropologo accomuna sotto il nome di azione diretta: «chi protesta arriva armato di richieste, fa appello al potere. [...] l’azione diretta procede esattamente nella direzione opposta. Il suo obiettivo è agire, per quanto possibile, come se quel potere o quell’autorità non esistessero»15, nel tentativo di inventare nuove articolazioni di esistenza. Il fatto che ogni movimento emerga in quanto (reazione ad un) effetto di un potere, prodotto di una determinata partizione dell’esistente, non deve essere confuso con l’aspirazione al potere, con la volontà di ordinare altrimenti la partizione stessa. Qui risiede il tratto propriamente insopportabile del movimento, il quale gioca la sua fragile esistenza non più sulla difesa di un’identità o di una rivendicazione, ma nei singoli gesti radicali, al contempo inappropriabili e comuni, che ogni volta decidono della sua emergenza. Un movimento è così vicino a quella che Julien Freund chiama «rivolta nichilista» in contrapposizione alla «rivolta propriamente politica», la quale «vuole un altro ordine o almeno, all’interno di un dato regime, esige delle riforme»16. Propriamente politica, secondo Freund, perché portatrice 14

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Non sarà difficile accorgersi, a questo punto, che nel presente testo non si tratterà di un preciso movimento, come se questo potesse assurgere a esempio, paradigma o eccezione nei confronti degli altri. Da qui la reticenza a chiamare i movimenti con un nome proprio, fosse anche quello che ad un certo punto essi stessi hanno coniato. Da qui, infine, una certa oscillazione tra la forma singolare e quella plurale del movimento, la stessa esitazione che impedisce di decidere in merito all’articolo più appropriato da usare. Ma l’eccesso del movimento, che si tratta ogni volta di lasciar essere, è anche questo suo porsi indecidibilmente tra la prima e la terza persona, tra il plurale e il singolare, tra il determinato e l’indeterminato. D. Graeber, Azione diretta e anarchismo da Seattle in poi, in F. Barchiesi (a cura di), Affinità sovversive. I movimenti sociali americani nella guerra globale, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 96. J. Freund, L’essence du politique (1965), Dalloz, Paris 2004, p. 175.

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di un certo orizzonte d’ordine, a fronte della difficoltà di accettare quanto invece proviene da semplici intensità erranti, impossibilitate a coincidere con il dover-essere imposto loro. E propriamente politica perché confinata in un dato regime, come se ancora fosse questione di separare una pretesa sfera del politico dall’esistenziale a cui tuttavia esso è intimamente intrecciato. È per questo che un movimento, nell’impossibilità radicale di identificarsi con il mondo a cui tuttavia appartiene e da cui proviene, non può che essere visto come nichilista da quanti lavorano per ricondurlo nell’alveo di uno spazio politico istituito. Ma è proprio laddove un gesto politico eccede l’orizzonte di senso a cui si vorrebbe ascriverlo, che nichilismo e radicalità si saldano come per sfidare l’esistente. Non si tratta tanto, dunque, della compresenza di due mondi radicalmente opposti, ma della fragile ricerca di una qualche modalità di adattamento all’interno di uno spazio politico inabitabile, ricerca a cui una forma di vita è consegnata nel momento in cui la sua presenza al mondo è messa costantemente in questione. 3. Ben prima di fare la propria comparsa all’interno di teorie politiche, l’intuizione che il movimento dipenda intimamente da un essere-privati del mondo si è dimostrata essere un’acquisizione della storia delle religioni, come se il concetto di movimento fosse l’unico a poter concedere una qualche leggibilità ad eventi non pensabili altrimenti. Emblematica, in tal senso, è la questione concernente i cosiddetti movimenti millenaristi. Se alcuni hanno visto nel loro emergere il radicalizzarsi di un antagonismo a fronte del quale «il mondo si divide, grazie a un sistema di equivalenze paratattiche, in due campi»17 opposti e inconciliabili, altri hanno preferito cogliervi il sintomo di una crisi generalizzata della presenza nel mondo. Una comune domanda, che tocca al cuore del rapporto tra privazione di mondo e dimensione politica della vita, sostiene i lavori che Grundmann, Cohn e Lanternari hanno dedicato all’emergere dei movimenti religiosi: cosa accade alla presenza qualora questa venga esclusa dal mondo, quando il suo essere-gettato si confonde con un essere-rigettato? Che ne è di una presenza al mondo se questa non può darsi se non nei termini di una privazione di mondo? Per poter tentare una risposta a simili domande, ci si dovrà porre all’ascolto dell’angoscia dovuta al «non poterci essere in nessun mondo possibile»18, all’esperienza della propria labilità costitutiva. È proprio una

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E. Laclau, Ch. Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale (1985), il melangolo, Genova 2011, pp. 208-213. E. De Martino, Scritti filosofici, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2005, p. 154. Ma è tutta l’opera del filosofo e antropologo italiano a costituire un rife-

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simile condizione ad accomunare quella che è stata suggestivamente chiamata la popolazione fluttuante, «massa informe di individui [...] incapaci di trovare un posto sicuro, riconosciuto, in seno alla società»19. Fondamentale è qui la necessità di cogliere l’aspetto insieme esistenziale e politico della privazione di mondo a cui queste masse devono la propria specifica consistenza. Impossibilitate ad essere ciò che tuttavia sono, inchiodate a questa stessa impossibilità quale loro unico tratto proprio, il movimento di tali singolarità è spesso descritto come un rifiuto del mondo, ma senza scorgervi la doppia valenza – oggettiva e soggettiva – del genitivo. Se, da un lato, l’accadere di «momenti di intenso travaglio sociale, economico, culturale, psicologico»20, non può che comportare la revoca di un mondo ospitale e garantito, dall’altro, sono queste stesse esistenze rigettate, sospinte nell’alea di una comune ricerca di nuove forme di vita, ad opporsi a un mondo esperito come pura privazione. Quel che in esse pertanto si gioca è il rifiuto della situazione insostenibile che le ha rese tali: quell’impossibilità di dimorare in ciò che resta di un mondo ormai privato. (Rifiuto che in tal modo espone il legame segreto, pressoché inconfessabile, che ogni movimento intrattiene con l’utopico. Cos’è, dopotutto, l’utopia, se non la dischiusura di un varco per «portare un gruppo di persone essenzialmente prive di mondo attraverso il mondo»21?) Forma vivendi, formula vitae, Lebensform: questi i termini con cui Grundmann indica quella «forma di religiosità vagante, che non era possibile designare con un nome preciso, perché non costituiva alcun Ordine né alcuna comunità organizzata e si manifestava nelle forme più diverse»22. Ed è proprio questa fluttuazione, anonima e comune, a determinare il tratto

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rimento imprescindibile per ogni considerazione sulla particolare ontologia della (non) presenza a cui il concetto di movimento allude. N. Cohn, I fanatici dell’apocalisse (1957), Edizioni di Comunità, Torino 2000, p. 349. V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e salvezza (1974), Editori Riuniti, Roma 2003, p. 9. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 2008, p. 40. H. Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo (1935), il Mulino, Bologna 1980, p. 340. Ma si veda anche più avanti, p. 342: «Ma proprio in questa loro molteplicità difficilmente afferrabile si riflette chiaramente la reale situazione di questi elementi fluttuanti, che non formavano alcun Ordine, né alcuna setta, che non avevano un nome comune e non si potevano eliminare con provvedimenti unitari, che vagavano mendicando e turbavano l’ordine nelle chiese, durante le funzioni religiose, nelle comunità, e perfino negli Ordini stessi. Benché si sospettasse della loro ortodossia, non era possibile attribuire loro alcuna eresia precisa».

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eminentemente politico del loro movimento, sola chance loro concessa di poter fronteggiare la labilità costitutiva dell’esistenza, a tal punto che non sarà più possibile, in questa sorta di erranza costituitasi attorno alla necessità di una nuova forma di vita, fino ad ora inaudita, separare il movimento dal suo percorso, il frutto della ricerca dalla ricerca stessa. E se qualcuno ha potuto ricondurre tali movimenti a meri scontri di identità o dottrine, sostenendo che «una delle loro leggi è la tendenza costante alla formazione di scismi, di scissioni, di eresie»23, ciò è perché ogni movimento è da sempre minato dalla tentazione di prendere forma e nome, di cedere al richiamo dell’opera, per farsi finalmente riconoscere, accettare, per lasciarsi narrare. E poco importa che tale richiamo sia declinato secondo le forme dell’accoglienza o quelle dell’opposizione: in un caso come nell’altro, eccolo assecondare le esigenze delle istituzioni, le quali si sono da sempre prodigate allo scopo di ricondurre il movimento in seno all’Ordine o spingerlo oltre i confini dell’eresia, offrendogli un capo, un pastore che potesse garantirne una condotta qualsiasi. Oppure un nemico, quel simbolo del potere contro cui ogni movimento è inesorabilmente destinato a infrangersi. In tutti i casi, si tratterà di scongiurarne l’irriducibilità attraverso la sua organizzazione; si tratterà di afferrarlo o lasciare che si afferri da sé, vederlo reclamare il proprio carattere politico al di là della sua mera fatticità, provocarlo alla concentrazione o allo scontro. Costringerlo dunque ad assumere una posizione, una posa, un compito o una missione, di modo che il movimento acquisisca ancora una volta i caratteri dell’elevazione – o, il che è lo stesso, dell’elezione, della coscienza di essere chiamati a rispondere in prima persona alla crisi dei tempi. E proprio «la convinzione di avere una simile missione, di essere divinamente prescelti a eseguire un’opera prodigiosa, offriva ai disorientati [...] non semplicemente un posto nel mondo, bensì un posto eccezionale e magnifico»24. Da qui il rischio costante di rovesciare la precaria ricerca di nuove forme di vita in una narrazione fondante, funzionale alla costruzione di identità la cui condivisione riposa su un orizzonte comune di riscatto. Tale dramma soteriologico collettivo avrebbe costituito l’intersezione privilegiata tra il mondo dell’esaltazione escatica e quello dell’agitazione sociale, secondo uno schema ripetutosi ogni qualvolta gli elementi dissociati della società abbiano tentato di salvare la stessa dalla disgregazione. Prova ne è il fatto che non vi sia movimento cosiddetto rivoluzionario 23 24

M. Rodinson, Mouvements sociaux et mouvements idéologiques, «Cahiers Internationaux de Sociologie», 53/1972, p. 211. Cohn, I fanatici dell’apocalisse, cit. p. 53.

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senza un presunto compito storico o un’opera di salvezza da portare a compimento, così come non si dia una situazione di crisi senza che una qualche istanza imperativa non recuperi o assorba le intensità di cui il movimento è portatore. Non è dunque un caso che, a fronte di un’incontrastata politica della crisi, i movimenti siano ormai visti come il soggetto privilegiato per ogni azione di riscatto del tempo presente, l’operatore politico ogni volta capace di trasmutare la «violenza della disperazione»25 in forza di reazione. 4. Tra lo scoppio della prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra, l’Europa si caratterizza per un’attività bellica e rivoluzionaria senza precedenti, al punto che molti testimoni hanno intravisto, dietro l’inarrestabile espansione di guerre e conflitti quali condizioni fondanti l’esistenza moderna, l’apparire prepotente di un nuovo ordine mondiale. «Noi assistiamo allo spettacolo di un declino paragonabile soltanto alle catastrofi geologiche»26, scrive Ernst Jünger, alludendo a quella radicale estraneità al mondo che contrassegna un’umanità ormai ridotta alla condizione di lavoratore, formatore di mondo a cui quest’ultimo, tuttavia, si sottrae instancabilmente. In tal senso, il concetto di “mobilitazione totale” [Totale Mobilmachung] – indicante l’emergere di un gigantesco processo lavorativo, l’estensione generalizzata del principio di tecnicizzazione a tutte le faglie dell’esistenza – segna non tanto o non solo l’apertura di una nuova epoca, quanto piuttosto il crollo della precedente civiltà, crollo che tuttavia si configura, nel suo trascinarsi, come la sola dimensione in grado di accogliere il dispiegarsi delle singole forme di vita. L’esperienza del mondo ipermoderno, in quanto saturato da un processo di mobilitazione permanente, non sarebbe dunque altro che l’esperienza dei continui tentativi di riappropriazione del mondo a fronte della sua ininterrotta sottrazione. Da qui procede una disponibilità inaudita alla mobilitazione, manifestata da parte di ogni forma di vita nel suo riprodurre incessantemente, semplicemente vivendo, quel regime di utilizzabilità che ne decreta tanto l’intensità politica quanto la sua intima visibilità: «non vi è più alcun movimento [...] che non possieda almeno indirettamente un significato bellico»27. Tra i primi a rilevare la portata di un simile rivolgimento, Carl Schmitt ha più volte constatato come, alla base di una qualifica politica qualsia25 26 27

G. Bataille, Il problema dello Stato (1933), in Id., Il problema dello Stato e altri scritti politici, a cura di M. Tabacchini, casa di marrani, Brescia 2013, p. 9. E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma (1932), Guanda, Parma 1991, p. 71. Id., La mobilitazione totale (1930), in Id., Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 118.

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Genealogie del presente

si, fosse ogni volta racchiuso il riferimento a un movimento ininterrotto rispetto a cui le singole vite devono prendere posizione. Pubblicato nel dicembre del 1933, in seguito alla promulgazione della legge sulla garanzia dell’unità del Partito e dello Stato Nazionalsocialisti, il testo che Schmitt consacra alla triade Staat, Bewegung, Volk è stato spesso considerato, non senza espressioni di disagio e risentimento, un’opera occasionale, troppo velocemente rubricata sotto la necessità di giustificare il nuovo regime; al contrario, il suo essere un testo di circostanza non scalfisce affatto la portata della sua proposta, così carica di tutta l’inquietudine dovuta a un sentimento di radicale discontinuità politica. Pur proponendo un modello tripartito tra Stato, società civile e movimento, obiettivo del giurista tedesco è quello di far risaltare la preminenza del terzo termine, a tal punto che «né lo Stato odierno (nel senso di unità politica) né il popolo tedesco odierno (il soggetto dell’unità politica “Reich Tedesco”) sarebbero anche soltanto immaginabili senza il movimento»28. L’unità politica del Reich dipenderebbe in tal modo dall’articolazione di tre specifiche quanto necessarie determinazioni del politico, le quali tuttavia «non stanno parallele l’una accanto all’altra, ma una di esse, cioè il movimento, che sorregge lo Stato e il popolo, penetra e conduce le altre due»29 secondo una comune direttiva in grado di assicurarne l’unione: così si può considerare lo Stato in senso stretto come la parte politica statica, il movimento come l’elemento politico dinamico e il popolo come il lato impolitico [unpolitische Seite] crescente sotto la protezione e all’ombra delle decisioni politiche30.

Ben lungi dal costituire un semplice accento retorico posto sui suoi caratteri dinamici e rivoluzionari, il movimento – ma si dovrebbe ormai indicarlo con una grafia maiuscola, per marcare tanto la sua elezione quanto la sua istituzione – si configura come l’elemento che mobilita il popolo, componente impolitica dell’unità, attribuendogli una precisa qualifica (quella di “tedesco” come quella di membro del partito) affinché questo possa elevarsi a soggetto politico. Spetta così al movimento l’incarico di reclutare dal popolo indifferenziato i membri destinati a confluire nel partito, oppure quello di recidere dall’unità costituentesi gli individui e le categorie considerati nemici. Suo compito sarà dunque quello di decidere in merito alla 28 29 30

C. Schmitt, Stato, movimento, popolo (1933), in Id., Un giurista davanti a se stesso, a cura di G. Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 265. Ibid. Ibid.

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componente impolitica dell’unità; o meglio, poiché «proprio il decidere se una faccenda o un genere di cose sia impolitico è una decisione specificamente politica»31, suo compito sarà quello di decidere cosa sia il politico, di decidersi in quanto politico, di fondare il politico stesso mediante la propria decisione. Perché si dia movimento, dunque, si dovrà tracciare quella soglia di differenziazione che da questo separa quanto è impolitico: qui il movimento potrà decidere della propria vita solo attraverso il confronto con quanto ancora non gli appartiene, o con quanto è destinato a non appartenergli mai (secondo una dinamica radicalmente opposta a quella descritta da Gertrude Stein, per la quale «se fosse possibile che un movimento fosse vivo a sufficienza, dovrebbe esistere tanto pienamente che non sarebbe necessario vederlo muoversi rispetto a qualcosa per sapere che si sta muovendo»32). La preminenza del movimento, quale dispositivo di selezione del politico, apre in tal modo la via a quello che molti hanno salutato come il «sorgere di un’epoca integralmente politica della civiltà»33, ma che pare piuttosto configurarsi come una situazione di radicale labilità del limite tra politico e impolitico: una situazione nella quale ogni cosa può repentinamente perdere i propri tratti neutrali e vedersi rivestire di una qualche intensità politica, secondo un movimento di presa in carico – di amministrazione così come di polizia – della politicità stessa delle singole esistenze. Qui non si tratta solo di constatare come la politica abbia pervaso una molteplicità di domini un tempo considerati irriducibili a questa, bensì di cogliere come, laddove la preminenza del movimento abbia pervaso lo spazio stesso della manifestazione, nessun riferimento stabile può più decidere del presunto carattere politico di gesti ed esistenze. La posta in gioco di qualsiasi posizione politica ormai risiederà proprio nell’efficacia della decisione con cui questa porterà chiarore nella zona opaca in cui politico e impolitico sembrano destinati a sovrapporsi. Indecidibile, ma proprio perché costantemente esposto all’arbitrio della decisione, diviene così il confine tra «le attività relative a un mondo comune e quelle relative alla conservazione della vita»34, confine che per Arendt fonda la distinzione decisiva tra politico e sociale e al di là del quale l’essere in comune cede il posto alla sua presa in carico totalitaria. 31 32 33 34

Ivi, p. 272. G. Stein, Portraits and Repetition (1935), in Id., Lectures in America, Vintage Books, New York 1975, p. 170. C. Schmitt, L’era della politica integrale (1936), in Id., L’unità del mondo e altri saggi, Antonio Pellicani, Roma 1994, p. 141. Arendt, Vita activa, cit., p. 22.

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Genealogie del presente

Ed è proprio in questa stessa consegna, chiamata a risolvere il rapporto fondamentale tra politicità e visibilità dei corpi, che l’essere in comune perde il suo tratto politico intimo, sostituito da una forma drammatica che si tratta ormai di inscenare, come se solo in questa risiedesse l’ultima possibilità di prendersi integralmente cura della comune esposizione dei corpi. Non è certo un caso che la determinazione del movimento quale istanza politica decisiva della contemporaneità proceda di pari passo con la crisi delle forme per mezzo delle quali si dispiegava l’antico desiderio di politica: il Popolo, liquidato nella dimensione gestionaria a cui il termine “popolazione” allude; la Classe, spossessata di un orizzonte qualsiasi di ancoraggio al mondo; la Nazione, troppo spesso compromessa nei deliri di un corpo totale. Ma è l’emergenza contemporanea di quella realtà opaca che costituisce la «massa amorfa e immensa della popolazione sventurata»35, a indicare per via negativa il compito propriamente politico di ogni movimento. Contro l’ottusità della massa, entità sostanzialmente sgravata da ogni obbligazione simbolica, ecco allora erigersi la mobilitazione delle soggettività per le quali l’accesso al movimento non costituisce altro che una forma, forse l’estrema, di consumazione di senso. (Non sarà forse per questo che tutti i Movimenti serbano, in modo spesso malcelato, un certo disprezzo nei confronti delle masse di cui tuttavia si fanno portavoce e interpreti?) In tal senso, scrive Walter Benjamin, «la crisi delle democrazie borghesi si può intendere come crisi delle condizioni di esposizione dell’uomo politico»36, nel momento stesso in cui questo è chiamato, assecondando l’ingiunzione che impone a ciascuno di fare movimento, a esporre il tratto politico che compete alla propria forma di vita. Nell’assecondare un’esigenza che decreta, quale urgenza più propria, la compiuta sovrapposizione tra estetico e politico, il richiamo al concetto di movimento recherà allora con sé il dispiegarsi di una pellicola spettacolare, habitus mediante il quale è tutta la politicità dell’esistenza a dover trasparire. 5. Ma cosa ne è del movimento nel momento in cui questo non è niente più che un’efficace protesi esistenziale per presenze in preda alla crisi? Nel momento in cui esso coincide con un tentativo di appropriazione di questa presenza, con la sua messinscena? Può un movimento, da condizione sintomatica di erranza e dissociazione, risolversi in mero dispositivo di reazio-

35 36

G. Bataille, L’abiezione e le forme miserabili, in Id., Il problema dello Stato e altri scritti politici, cit., p. 70. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935), in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p. 289.

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ne? Per quanto l’emergenza dei movimenti si sia ogni volta accompagnata alla loro inclusione all’interno della stessa partizione da cui questi hanno preso avvio, quel che oggi pare attuarsi è l’instaurarsi di una situazione in cui il movimento non è più la condizione di un corpo, poiché è quest’ultimo a ritrovarsi ora mero attributo del primo, funzionale alla sua sopravvivenza e al suo mantenimento. È come se un certo bisogno di visibilità, del resto non avulso dall’incedere di una politica spettacolare, avesse infine colmato lo scarto tra elevazione e sollevamento, decidendo in favore della prima. La consegna di un movimento alla sua identità, in grado di supplirne le mancanze e i mancamenti, procederà di pari passo con l’istituzione di quelli che Arendt chiama, mediante un significativa precisazione, «corpi politici», i quali «sono sempre stati istituiti per essere stabili, e le loro leggi intese sempre come limitazioni imposte al movimento»37. Corpi politici quali meri simulacri dei corpi, simulacri istituiti e, proprio per questo, stabili. O per lo meno stabiliti, nella speranza che questi possano rivelarsi dei supporti d’identità ben più affidabili dei corpi che essi suppliscono. In ogni adesione a un qualsiasi corpo politico si dovrà allora scorgere l’ennesimo tentativo di soffocare i tremiti della presenza, così come di assegnare al movimento la pienezza di un compito. È questa torsione, che rende visibile un’identità occultando il corpo da cui essa resta inquietata, a segnare il punto d’intersezione tra le manifestazioni dell’esistenza e le sue stesse condizioni, punto in cui dover essere e ingiunzione a prendere forma coincidono seguendo la declinazione essenzialmente produttiva della dominazione contemporanea. Non è un caso che lo stesso Schmitt, nell’articolare il rapporto tra movimento e partito, definisca quest’ultimo come «il corpo politico [politische Körper] in cui il movimento trova la sua forma [Gestalt] particolare»38, come se solo nella tensione verso la sicurezza che una forma può offrire risiedesse la vita propria di ogni movimento. Resterebbe ancora da chiedersi, tuttavia, che ne sarebbe di un movimento laddove questi non possa che essere colto nella sua intima singolarità, senza alcuna intromissione da parte di quegli operatori volti a garantirne una qualche rappresentazione: i corpi politici del partito o del capo, punti di accesso per un certo regime di visibilità, portatori dello specchio o simboli incarnati. Desta allora ben poco stupore il fatto che numerosi pensatori si siano scontrati con la difficoltà di pensare il movimento nella sua irriducibilità ad ogni partito, fosse anche rivoluzionario, come se la costitutiva spontaneità 37 38

Arendt, Vita activa, cit., p. 35. Schmitt, Stato, movimento, popolo, cit., p. 266.

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Genealogie del presente

più volte riconosciuta al primo rischiasse costantemente di rivelarsi eccedenza indomabile rispetto ad ogni organizzazione. Non è proprio questa spontaneità a costituire l’elemento contro il quale s’infrangono le retoriche interessate a formare una coscienza di movimento? E tuttavia, nonostante un simile rischio, è ancora da essa che ogni movimento in cerca di riconoscimento trae la sua legittimità, la garanzia della propria rettitudine. Ecco perché «questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo»39, affinché la democrazia selvaggia di cui è portatore venisse guidata su tracciati più sicuri. Ma un movimento che prende coscienza di sé è condizione che diventa ο , manifestando con ciò la sua estrema ambivalenza: quella radicale disponibilità a rivolgersi contro se stesso e a trasformare in tal modo il tratto utopico in ansia di totalità. Quale orizzonte spettrale di ogni movimento, l’intuizione di una simile minaccia totalitaria ha minato le certezze di chiunque si fosse affrettato a intravedere nei movimenti la soggettività messianica di una politica a venire. Lo stesso Gramsci è costretto ad annotare quanto sia «difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale»40. Poco importa che tale funzione sia di carattere repressivo, oppure che il suo esercizio si inscriva nel tentativo di riscattare quanto ancora necessita una tale opera: il fatto che tale regime di polizia colpisca «gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare»41 tradisce senza riserve l’odio portato nei confronti di tutto ciò che sfugge all’ingiunzione della forma e della rappresentazione. Basterà qui pensare alla pretesa immobilità del sottoproletariato, così come quella di tutte le altre figure incapaci di (lasciarsi) confluire in un movimento di emancipazione; oppure a quelle figure, forse più docili ma non per questo 39

40 41

A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 330. Si potrebbe scrivere una storia del marxismo proprio a partire dalla difficoltà di pensare la spontaneità del gesto politico, a tal punto la questione ricorre, con accenti diversi, in numerosi scrittori da Marx a Luxemburg, da Rühle a Lukács. Come si è visto, tuttavia, la questione precede qualsiasi considerazione strettamente politica, trovando le sue prime teorizzazioni nei campi dell’arte e dell’estetica. Basterà qui citare la lettera di Heinrich von Kleist a Rühle von Lilienstern dell’agosto del 1806: «Ogni primo movimento, tutto ciò che è involontario è bello; è storto e goffo tutto, appena comprenda se stesso» (H. von Kleist, Opere, Sansoni, Firenze 1981, p. 847). Ivi, vol. III, p. 1691. Ibid.

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M. Tabacchini - Movimento

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meno sventurate, che ad esso si sono concesse pur restando occultate dalla visibilità a cui il movimento ha avuto accesso. Figure che costituiscono lo scarto, il rifiuto e il restante, così come il dimenticato e l’impensato di ogni processo di elevazione: macchie cieche per occhi gravidi di riconoscimento. Sono proprio queste figure, radicalmente inquiete, condannate a non trovare alcun riposo né alcuna certezza d’ospitalità, che si tratta di seguire, ogni volta, per disinnescare nel movimento la tentazione di lasciarsi guidare. Vedi anche: Costituzione, Futuro, Popolo

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PIERANDREA AMATO

POPOLO Destituzione e filosofia

La dittatura è sempre l’essenza della sovranità. J. Derrida

1. In una breve conferenza sul cinema, siamo al FEMIS (École nationale supérieure des métiers de l’image et du son), è il 17 marzo 1987, Deleuze, stabilendo una relazione tra l’opera d’arte e un atto di resistenza, inscrive la propria ipotesi estetica in un’enigmatica costellazione politica. Si affida infatti, per pensare lo statuto di un’opera d’arte, a una figura chiave della grammatica politica moderna, il popolo, ma concepita come un’assenza: Che rapporto c’è fra la lotta umana e l’opera d’arte? Il rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo manca vuol dire che questa affinità fondamentale tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste non è ancora chiara e non lo sarà mai. Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora1.

Il popolo manca, sulla scia di una consolidata tradizione politica, è uno spettro: ciò che non si vede, che non è presente, eppure dovrebbe essere in grado di intimorire il tempo presente proprio perché assente. Deleuze, già nel 1985, nelle battute conclusive dell’ottavo capitolo del suo secondo volume sul cinema, L’immagine-tempo, considera la possibilità di un cinema politico moderno un’eventualità associata all’assenza del popolo: «se esistesse un cinema politica moderno, si fonderebbe su questa base: il popolo non esiste più, o non ancora… il popolo manca»2. Dunque, l’opera d’arte dovrebbe, per definizione, rivolgersi a un popolo che non c’è. Non può, non deve, presupporre un popolo. Altrimenti, rinun1 2

G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? (1987), Cronopio, Napoli 2003, p. 24. Id., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989, p. 240.

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Genealogie del presente

cerebbe a qualsiasi autonomia e si lascerebbe catturare dal potere. Parlare a un popolo che esiste, in nome di un popolo determinato, vuol dire per l’arte smarrire qualsiasi effettiva carica politica. Il suo compito, invece, è di vedere ciò che ancora non si vede; vedere un popolo che ancora non esiste. La sua missione iperbolica, allora, è di inventare, evocare forse finanche provocare il popolo che non c’è. Il popolo, una politica, separate dal potere. L’arte, il cinema moderno in particolare, secondo Deleuze, è in grado di esprimere la densità politica della frammentazione e della differenza in cui il popolo manca perché è ciò che deve avvenire. Non sarebbe difficile, maneggiando materiali deleuziani, dimostrare che qui la “mancanza” non ha nulla a che fare con una forma di deficienza. Non nasconde una qualche incompiutezza o privazione. Insomma, per intenderci, come in Essere e tempo di Heidegger la mancanza costituisce l’intelaiatura ontologica del Dasein (è il suo essere im-possibile; il suo divenire), alla stessa maniera dobbiamo pensare il popolo manca: la sua non esistenza, il non-ancora, determina l’evento del popolo – la sua verità politica – oltre l’economia della sovranità e della rappresentazione. Il popolo manca è una figura anti-dialettica perché non presuppone l’esistenza di un popolo per concepire la propria assenza. È collocato, per questa ragione, in un altro emisfero filosofico-politico rispetto a quello in cui sorge lo Stato moderno e nel quale non si tollera un popolo estraneo al principio della sovranità. La condizione essenziale della fondazione della politica moderna, lo Stato, ha nel popolo un architrave imponente. In Hobbes, ad esempio, non è ammissibile un’azione del popolo contraria a quella dello Stato. Lo Stato è sempre uno Stato popolare e viceversa: la natura essenziale di qualsiasi popolo è la sua statualità. Se un popolo si scagliasse contro lo Stato, non sarebbe più un popolo. Non avrebbe più alcuna realtà. Vale a dire, come Hobbes chiarisce in particolare nel De Cive (1641), un popolo del genere non è un soggetto politico. Il popolo contro lo Stato, infatti, lascerebbe riemergere lo stato di natura. Darebbe sfogo al riaffiorare del dis-ordine rimosso. In una battuta: provocherebbe una guerra civile. A distanza dal popolo sovrano si agita il suo doppio. Un doppio in grado di turbare l’indistinta unità del Popolo. 2. È mia intenzione adesso accumulare una serie di materiali per tentare di tracciare i contorni di una genealogia del concetto del popolo manca. Senza, però, nascondersi una tentazione: il nostro tempo – il Novecento a noi contemporaneo – ci spinge a farla finita con il popolo. L’impulso, cioè, è di gestire il significante popolo come fa Alain Badiou con il nome

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P. Amato - Popolo

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democrazia: non può essere né impiegato né salvato perché oggi la democrazia è ciò che impedisce ogni eccedenza democratica. Allo stesso modo potremmo dire per il popolo: in nome del popolo, chi si appella al popolo, oggi si rivela immancabilmente ostile all’esuberanza popolare, plebea del popolo: «ogni volta che viene invocato il popolo, è piuttosto l’interesse dello Stato – di un certo Stato – a parlare»3. Probabilmente richiederebbe molto tempo stilare l’elenco di tutti quelli che negli ultimi anni hanno insistito con la necessità di lasciarsi alle spalle la nozione di popolo. Pensiamo, ad esempio, agli autori di Impero (2000). Michael Hardt e Antonio Negri riconoscono nell’operazione che sarebbe al fondo della costituzione del popolo, come elemento cardine della politica moderna in Europa, un campo teso a promuovere la definizione di un’identità mediante la fabbricazione dell’altro come assolutamente altro (vedi, nello specifico, la dialettica che regola la politica coloniale europea nella prima età moderna). Impero, per questa ragione, contrappone al popolo (Hobbes) la virtù della moltitudine (Spinoza)4. Se la moltitudine è in grado di generare una politica rivoluzionaria, muovendo dall’esistenza produttiva di qualsiasi singolarità, il popolo è il dispositivo sovrano di cattura del molteplice-moltitudine. Costituisce uno strumento di riduzione della politica all’uno-Trascendenza metafisica che fa coincidere la politica con l’esercizio statuale del potere. Il popolo esprime un’unica volontà e tende, almeno idealmente, a essere omogeneo. Costituisce la logica della pura equivalenza che alimenta il dominio dell’Uno. Il popolo sovrano incarna la strategia che permette di gestire il divenire della moltitudine. La sua fluida irrequietezza. In realtà, più in generale, lasciando adesso da parte il breve riferimento agli autori di Impero, non sarebbe complicato verificare che nel suo insieme la tradizione marxista esprime più di una diffidenza nei confronti della nozione di popolo (forse con un’unica ma rilevante eccezione: Gramsci). Tanto più che nello stesso Marx, a rigor di logica, il popolo non ha una funzione positiva; anzi: costituisce un’astrazione che il potere economicopolitico del capitale agita per mimetizzare la reale consistenza delle relazioni sociali. La sua logica dell’indistinzione, il suo formalismo giuridico, avrebbero un compito squisitamente ideologico. Esiste, piuttosto, un soggetto questo sì effettivamente omogeneo, la classe, legato a rapporti di pro-

3 4

E. Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, manifesto libri, Roma 2004, p. 166. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001, pp. 106-107.

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Genealogie del presente

duzioni determinati e in grado di promuovere relazioni umane alternative a quelle che prescrive il legame sociale capitalista. Probabilmente, però, il contributo analitico più succoso ed esemplare per costatare l’eclissi del valore del popolo proviene da un esito non secondario dell’esercizio critico implicato con la nozione di bio-politica. È, infatti, nelle ricerche sulla natura del potere di Michel Foucault, elaborate nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, che emerge con chiarezza l’abrasione della centralità del popolo come indice fondamentale del governo politico nella tarda modernità. Il popolo, secondo una tesi sviluppata da Foucault in particolare in una serie di lezioni al Collège de France, Sicurezza, territorio, popolazione (1978), sarebbe tendenzialmente soppiantato da un soggetto-oggetto politico estraneo alla tradizione giuridica moderna: la popolazione. In opposizione alla logica formale e territoriale collegata al popolo, fondata sull’idea di un’alleanza tra soggetti di diritto e sull’esclusione sistematica della natura dai calcoli di chi governa, la popolazione permette a Foucault di verificare come i dispositivi di assoggettamento, in realtà, si occupano direttamente della falda biologica degli esseri viventi. Si tratta, infatti, di una figura che consente di calcolare, valutare, conoscere ciò che la logica statuale/formale del popolo esclude: la differenza, l’aleatorietà della vita. La popolazione si sgancia da un territorio; è l’esito, diversamente dal popolo, di una serie di variabili naturali. Sintetizza Giorgio Agamben: La cesura fondamentale che divide l’ambito biopolitico è quella tra popolo e popolazione, che consiste nel far emergere dal seno stesso del popolo una popolazione, nel trasformare, cioè, un corpo essenzialmente politico in un corpo essenzialmente biologico, di cui si tratta di controllare e di regolare la natalità e mortalità, salute e malattia. Con la nascita del biopotere, ogni popolo si raddoppia in popolazione, ogni popolo democratico è, insieme, un popolo demografico5.

La fine del popolo, a ben vedere, non è una vicenda particolarmente intricata. C’è poco da decidere: il peso analitico della nozione, la sua capacità di organizzare e orientare le forme della politica mondiale, sembra attualmente smarrita. La globalizzazione, con lo sfarinamento tendenziale del valore della frontiera nazionale, tra le altre, tante cose, è anche l’indice di un’evaporazione politica del popolo per come lo abbiamo conosciuto 5

G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 78-79. Tra l’altro, è con la fortuna della nozione di popolazione che il popolo inizia a coincidere con la parte più miserabile della comunità.

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dalla modernità in poi6. È bene, allora, che i nostalgici della sovranità se ne facciano una ragione: il popolo come soggetto politico è svanito. La crisi dello Stato-nazione, collegata alla diffusione planetaria dell’economiamondo, corrode la validità di un archetipo dell’età moderna: l’idea che il popolo rappresenta il soggetto originario della politica; il suo presupposto. Che incarni un a priori e non l’esito di una politica. La globalizzazione neo-liberale d’altronde, in particolare se considerata – “alla Foucault” – come un dispositivo di governo delle vite, è il nome in cui culmina un’ambizione localizzata alle radici del progetto moderno: farla finita con la democrazia. O meglio: con il resto popolare del popolo che non si identifica con la trama costituzionale dello Stato. A questo proposito, detto tra parentesi, e per venire ai giorni nostri, che altro racconta il processo di unificazione europea, se non il tentativo di determinare le condizioni perché non emerga un popolo europeo, ostacolando la manifestazione di un’altra politica estranea al primato dell’identità nazionale fondata sul principio di sovranità? Il compito di un popolo europeo, che oggi manca, se un giorno emergerà, sarà di farla finita con l’Europa, con la logica della sovranità che sostiene e alimenta l’Europa di Brussel. Vale a dire, con la formazione di un’identità che presuppone l’esistenza di un popolo europeo già costituito. Il popolo europeo che non c’è, in questo senso, non sarà europeo, ma un popolo assente; senza nazione, ma con un mondo con cui fare i conti. Senza una lingua propria ma con una lingua da sperimentare. La figura del popolo oggi è il nome di una bancarotta. Il culmine ambiguo di una storia che ha nella filiera völkisch del Volk (etnia, nazione, carattere nazionale, territorio, sangue) il suo apice delirante. È alle nostre spalle, però, anche il tempo in cui l’appello al popolo si giustificava, nel secondo dopoguerra, con le lotte anti-coloniali di liberazione nazionale. Il popolo è finito. Tuttavia: ogni fallimento, in fondo, non sollecita un inedito esercizio del pensiero? Il pensiero non parte sempre da un disastro, da una catastrofe, un orrore/errore? Se ciò è vero, il fallimento del Popolo non è forse l’occasione per pensare di spopolare il popolo? Di fare, cioè, giustizia, della retorica dell’origine e dell’unicità associati all’idea di popolo? Lo spolpamento del popolo, la sua assenza, potrebbe rivelarsi l’occasione per rilanciare il popolo.

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Insiste, sul nesso tra il destino della frontiera politica e quello del popolo, Ernesto Laclau: la dissoluzione della prima comporta l’annichilimento del secondo (La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 84).

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È possibile rintracciare un altrove del popolo al di là del popolo? Non escluderei questa ipotesi, tanto più se si considera che nel 2011 il più ampio e influente movimento mondiale di contestazione dell’oligarchia finanziaria globale, Occupy Wall Street, si riconosce come un popolo. Non afferma: noi, la moltitudine. Ma dichiara: siamo un popolo contro il Popolo sovrano7. Certo, un popolo dissonante; un popolo come parecchi popoli. Un altro popolo. Quello che non conta per chi conta. E per questa ragione non esiste. Un popolo differente. Nel 2011, con Occupy, abbiamo a che fare con un popolo in cui il popolo rivendica la propria finitezza. Che avverte la propria precarietà. Occupy Wall Street è un’esperienza esemplare: chi oggi si solleva contro la cattura dell’esistenza da parte del potere finanziario globale, non stabilendo alcun legame con le agenzie tradizionali della politica moderna (il partito, il sindacato, ecc.), continua a farlo in nome del popolo. Di un popolo che chiaramente non c’è ancora; che manca. Un popolo la cui prima mossa è di non essere un Popolo. Di revocare se stesso come soggetto unico, omogeneo, incondizionato. È il popolo che non può esistere senza invocare la propria destituzione. Oggi l’unico popolo che si può nominare, è un popolo impopolare. Un popolo che non escluda nessuno. Il popolo manca. 3. Come sbarazzarsi del carattere völkisch del Volk? La nozione di popolo provoca un’inquietudine riservata a tutti i nomi che risucchiano il molteplice nell’unità. Quei nomi che sembrano ingiungere: non c’è tempo da perdere; non è il caso di essere teneri di cuori. Il potere dispone l’ordine della riduzione. Per rompere con questa logica, senza particolari interpolazioni e timidezze teoriche, bisogna dire che il popolo non esiste. Sostenere che il popolo non c’è, in altri termini, dovrebbe essere la premessa teorica per chiunque non voglia abbandonare il popolo al suo destino völkisch. L’eventuale impiego del significante popolo, dunque, impone un sovvertimento della sua concezione classica. Per questa ragione si può tollerare di non farla finita con il popolo solo a condizione di imitare la decostruzione compiuta da Jean-Luc Nancy8 e Maurice Blanchot9 intorno a un altro nome maledetto della sintassi politica moderna: comunità. Denunciando e 7 8 9

The Occupy Manifesto. Dal popolo per il popolo, Asterios, Trieste 2011. J.-L. Nancy, La comunità inoperosa (1983), Cronopio, Napoli 1992. M. Blanchot, La comunità inconfessabile (1983), Feltrinelli, Milano 1984.

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sbriciolando la retorica della Gemeinschaft di sangue e terra, osano e non fanno a meno di un pensiero della comunità, ponendo su basi completamente nuove l’esigenza del comune, di una comunità, del comunismo. Non è possibile qui, in realtà, neanche riassumere le traiettorie concettuali con le quali Nancy e Blanchot avviano un lavoro filosofico le cui ripercussioni si sono disseminate nel tempo (soltanto in Italia, per fare qualche esempio, vedi alcuni lavori di Agamben, Esposito, Moroncini). Adesso è necessario accontentarsi di una referenza concettuale, tenendo a mente che il pensiero di una comunità, collocato oltre il mito della comunità perduta, territorializzata, originaria, si fonda sull’abisso del fondamento. Sull’assenza; sulla con-divisione della separazione. Il legame con l’opera decostruttiva intorno al tema della comunità, in verità, non si esaurisce, per la figura del popolo manca, soltanto in un’analogia; come c’era probabilmente da aspettarsi, in realtà, le due cose sono intrecciate. Anzi, si può dire di più: la decostruzione della Volksgemeinschaft è il luogo in cui incuba una traccia apicale per pensare il popolo a distanza da qualsiasi teologia-politica. Proviene, infatti, dallo stesso impasto con cui si rovescia la logica della comunità nazionale, una feconda concettualizzazione del popolo oltre la sua elaborazione giuridica. È ne La comunità inconfessabile, tra le pieghe di un esercizio ermeneutico antiheideggeriano intorno alla filosofia di Nietzsche, che Blanchot, assegnando al popolo un’indice dell’impotenza, getta un seme fecondo per un pensiero e una politica del popolo che manca. Blanchot scorge nelle vicende del Maggio la manifestazione di un popolo che ha la propria potenza in ciò che generalmente si ritiene una forma di debolezza politica: una radicale presa di distanza dal potere. L’impotenza del popolo è una figura insolita della potenza perché ha la forza di ospitare ciò che la disgrega. Diffonde, in questo modo, una sconcertante carica politica perché ha la capacità di tollerare la propria assenza; di sopportare la propria finitezza; di realizzare la propria evaporazione: Presenza del «popolo» nella sua potenza senza limiti che, per non limitarsi, accetta di non fare nulla: penso che in quell’epoca sempre contemporanea non se ne diede esempio più chiaro in quello affermatosi con sovrana grandezza allorché si trovò riunita, per far corteo ai morti di Charonne, l’immobile, la silenziosa moltitudine di cui non era possibile contabilizzare l’imponenza, perché non si poteva aggiungervi nulla o sottrarne nulla: essa era lì, nella sua interezza, non in quanto cifrabile, numerabile, neppure come totalità chiusa, ma nell’integralità che superava ogni insieme, imponendosi, nella calma al di là di se stessa. Potenza suprema, perché includeva, senza sentirsi sminuita, la sua virtuale e assoluta impotenza […]. Non bisogna durare, non bisogna aver parte

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in nessuna durata. È quanto si comprese in quel giorno eccezionale: nessuno dovette dare un ordine di dispersione. Ci si separò per la stessa necessità che aveva riunito l’innumerevole. Ci separò istantaneamente, senza residui, senza che si formassero quegli strascichi nostalgici con cui l’autentica manifestazione si altera nella pretesa di continuarsi in gruppi di lotta. Il popolo non è così. C’è, non c’è più; ignora le strutture che potrebbero renderlo stabile. Presenza assenza, se non confuse, almeno capaci di scambio virtuale10.

Rappresentare il popolo significa consegnare al popolo una durata, una legge, un ordine. Ma imprigionare il popolo nella logica della sovranità, però, vuol dire fatalmente, prima o dopo, in nome del popolo, soffocare la sua differenza e molteplicità. Vuol dire che giungerà chi, in nome del popolo, per interpretare la sua volontà, prenderà il suo posto. L’impotenza di Blanchot nega che l’unità politica sia il presupposto per la rappresentazione e potenza del popolo. E senza rappresentazione, a rigor di logica, per quanto possa sembrare elementare, non c’è esclusione. Il popolo si dà nell’assenza. La sua invisibilità diventa allarmante perché rende impraticabile la sua cattura simbolica e materiale. Il popolo cui si riferisce Blanchot, evidentemente, rifiuta qualsiasi profilo giuridico. Piuttosto, il popolo che nel Maggio del Sessantotto – ma quell’epoca è «sempre contemporanea» – sfila tra le strade di Parigi nasconde una paradossale, forse inattesa carica filosofica. Il popolo manca, che avviene svanendo, in effetti incarna, almeno a livello politico, l’unica mansione ragionevole della filosofia: una critica dell’oggi. Lascia agire il negativo oltre qualsiasi negatività e tormenta la logica della presenza e dell’equivalenza. Soltanto con una radicale opera di decostruzione del popolo diventa possibile spopolare il popolo e lasciare vivere, nella figura del popolo manca, il compito critico di una filosofia al di là della sua dimensione scolastica e disciplinare. 4. In uno dei libri più notevoli di teoria politica degli ultimi anni, La ragione populista (2005) di Ernesto Laclau, la rivendicazione del carattere eminentemente politico del populismo si basa sull’idea che il quesito più essenziale del politico, che cos’è la politica?, possa trovare una risposta di questo tipo: la politica non è altro che la costruzione di un popolo11. Rovesciando l’impianto della sovranità moderna, Laclau documenta che un popolo è l’esito politico di una politica e non, al contrario, il suo presupposto. Non è un dato ma il risultato della coalescenza di elementi sociali che 10 11

Ivi, pp. 68-69. Laclau, La ragione populista, cit., p. 145.

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diventano una politica perché si condensano in un popolo. Il populismo, in questo senso, ritrarrebbe la «logica politica» nella quale istanze particolari incrociano una dimensione popolare; vale a dire, quando il popolo si incarna in una plebe. Tuttavia nel ragionamento di Laclau si annida un problema non da poco per la logica de il popolo manca. Semplificando le cose all’estremo, si potrebbe dire che ne La ragione populista è all’opera una forma di determinismo per cui l’idea che la politica sia la costruzione di un popolo impedisce di pensare la sua funzione fuori l’orbita che la consegna unicamente a una pratica di governo. In altre parole, esclude l’eventualità che la politica sia in grado di lasciare accadere l’impossibile; che rappresenti una rottura destinata a provocare ciò che non c’è; ossia, ciò che non crediamo concepibile sino a un momento prima che avvenga. La politica però, in questa maniera, rischia di esaurirsi nell’amministrazione della disseminazione sociale e, quindi, nella capacità di rintracciare, di volta in volta, pragmatici punti di raccordo. Se questo è vero, Laclau si dimostra ancora irretito dalla logica che vuole abbandonare, il principio di sovranità, perché non riesce a separarsi dalla sua roccaforte storico-concettuale: l’implicazione tra la politica e il potere. In realtà, per chi intende schivare il sistema della sovranità, non è sufficiente pensare che il popolo non rappresenti un presupposto del politico, ma deve anche rinunciare all’idea che sia il risultato di una pianificazione. Il popolo, piuttosto, manca e avviene. Non si fonda, lo si attende. Il popolo è l’evento della politica che crea le condizioni per una politica dell’evento. Soltanto in questo modo, peraltro, si può evitare il rischio di attribuire alla decisione un ruolo cardine nella grammatica politica e quindi, secondo l’ipotesi di Laclau, nella costruzione di un popolo. In fondo, che cosa sono i regimi polizieschi del Novecento, se non il tentativo di messa in opera di un popolo?12 Insomma, senza considerare l’evento il

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Non si tratta qui, sia chiaro, di stabilire improbabili complicità, ma semplicemente di segnalare un problema implicito nella logica interna della posizione di Laclau: il rischio è di ritrovarsi una figura del popolo come mero oggetto in balia del potere. Ci troveremmo, a questo punto, nelle vicinanze di un tipo d’impiego antipopolore del popolo che potrebbe rievocare l’intenzione di Carl Schmitt, che nel tentativo di fornire una legittimazione giuridica al nuovo potere hitleriano, in un saggio del 1933, Stato, movimento, popolo, non considera il popolo un soggetto politico, ma un oggetto impolitico tenuto insieme dalla medesima falda razziale (Cfr. C. Schmitt, Stato, Movimento, Popolo (1933), in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 255-312).

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prisma apicale della politica, non è possibile eludere l’ipoteca statuale che storicamente la determina. Allora, più che a Laclau, che pure, ripeto, rimane uno snodo critico non aggirabile per maneggiare la questione del popolo in termini anti-hobbesiani, è altrove che bisogna guardare per rinvenire ciò che ci serve. A chi probabilmente più di ogni altro, dopo la dissoluzione del comunismo di Stato, lascia coincidere una politica di liberazione con l’avvento di un popolo che non c’è. Mi riferisco a un vecchio allievo di Althusser in seguito approdato nell’ampio bacino schiuso da Foucault con la sua critica della sovranità: Jacques Rancière. La politica, secondo Rancière, non è un fenomeno implicato con o contro lo Stato. È collocata altrove; su un altro piano. In questo modo, separando popolo e nazione, politica e potere, Rancière considera la politica l’evento dell’avvento di un popolo: l’incalcolabile. Se il potere politico si risolve in un’azione di governo, che Rancière definisce police, al contrario, il y a une politique, quando compare un popolo con cui nessuno ha fatto i conti. Quando, cioè, una soggettività amorfa, priva di diritti, senza né capo né coda – la parte dei senza parte, dice Rancière – si coagula improvvisamente e penetra nel mondo. Un popolo che non può mai fare uno perché non può essere conteggiato; la cui irruzione, la sua eccedenza rispetto al Popolo, non produce alcuna forma di unità, ma ciò che più di ogni altra cosa Hobbes teme per l’ordine politico: il conflitto. Il venire all’esistenza degli inesistenti, gli invisibili, è il gesto inaugurale di una politica della trasformazione. Altrimenti, la politica diventa l’amministrazione di ciò che è. La politica inizia laddove un popolo inatteso emerge e scompagina i calcoli del Popolo: Proporrei di riservare il nome di politica a un’attività ben definita […]: quella che rompe la configurazione sensibile, in cui si definiscono parti e frazioni o la loro assenza, grazie a una presupposizione che per definizione non vi trova posto: quella di una parte dei senza parte13.

Come Marx pensa il proletariato de-patrizzato, il popolo in Rancière non ha nazione. Non ha confini perché non esiste; deve, piuttosto, avvenire. Deve comparire il popolo all’altezza dei nostri tempi; i tempi in cui la mondializzazione del mondo attende un popolo che ancora manca. La politica per Rancière è un susseguirsi di fratture il cui riferimento non è un territorio determinato, un’identità, un’origine, una cultura nazionale, 13

J. Rancière, Il disaccordo. Politica e Filosofia (1995), Meltemi, Roma 2007, p. 48.

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ma l’evento nel quale si soggettivizza la propria differenza dal governo della police. Sulla scia della posizione di Rancière, a questo punto, è forse possibile indicare l’anima popolare del popolo. O meglio: l’indice anti-popolare che ci fa dire che il popolo manca. Dove si annida il focolaio del non contato, dell’innumerevole? Per rispondere è necessario pensare ciò che la tradizione politica moderna nel suo insieme, con un accordo che prevede insospettabili alleanze e rare eccezioni, denuncia come indocile, ingovernabile, fuori di senno; come la miccia di qualsiasi tensione anti-politica e populista: la plebe (l’antiVolksgemeinschaft per eccellenza). La plebe è ciò che la filosofia politica ha sistematicamente lasciato fuori dal popolo giudicando intollerabile una «parte per i senza parte»14. Probabilmente il punto più alto di una considerazione politica – ma non soltanto politica: direi ontologica – della plebe si trova in Foucault. Per quanto sia una presenza sulfurea nel suo laboratorio degli anni Settanta, in realtà, senza mettere in gioco la questione della plebe, sarebbe probabilmente difficile comprendere sino in fondo il senso di un’operazione che consegna al potere un’esistenza concreta, ramificata, extra-giuridica. In Foucault, la plebe è un punto limite: ciò che tende a sottrarsi dalle maglie dei dispositivi di governo. Abita sul margine, dove qualsiasi relazione di potere si può spezzare. Per questa ragione, nel progetto foucaultiano, rappresenta quel soggetto che non è veramente un soggetto politico perché non si determina secondo i consueti processi di assoggettamento. È ciò, piuttosto, che attraversa e squarta qualsiasi soggetto. La plebe è l’indice mascherato de il popolo manca. Soltanto se la plebe permette al popolo di migrare da se stesso, si dà una politica. Non è detto che accada; ma deve accadere perché si dia una politica. La plebe dà corpo a una soglia mobile che il potere non riesce a occupare una volta e per tutte. Non si lascia oggettivare, calcolare, studiare, simbolizzare: Non si deve certamente concepire la “plebe” come il fondo costante della storia, l’obiettivo finale di ogni assoggettamento, il focolaio mai del tutto spento di ogni rivolta. Non c’è assolutamente realtà sociologica nella plebe. Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non 14

Ivi, p. 35.

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esiste “la” plebe, c’è “della” plebe. Ce n’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia, ma con una estensione, delle forme, delle energie, delle irriducibilità differenti. Questa parte di plebe non è tanto l’esterno rispetto alle relazioni di potere quanto il loro limite, il loro inverso, il loro contraccolpo; è ciò che risponde ad ogni avanzata del potere attraverso un movimento per svincolarsene; è quindi ciò che motiva ogni nuovo sviluppo delle reti di potere15.

La plebe è il nome di ciò che in noi si rivolta quando non ci rivoltiamo; quando ci difendiamo dal carattere contingente e popolare del mondo. La plebe è ciò che in noi resiste al nostro isolamento; che eccede le nostre fittizie armonie. Che ostacola l’intimità delle nostre vite cui il tempo – questo tempo, il nostro tempo – sembra immancabilmente consegnarci. La plebe è la differenza del popolo. Come dovrebbe accadere per ogni nozione politica, Foucault pensa la plebe in un senso indefinito (non esiste “la” plebe, c’è “della” plebe); plurale. In fondo è questo il peccato antipolitico del popolo sovrano: un concetto politico non dovrebbe mai declinarsi al singolare. Diversamente, avremo tra le mani una figura metafisica mascherata. A questo proposito, si capisce perché, nell’ambito delle sue ricerche iconografiche sui popoli (Peuples exposés, peuples figurants, 2012), Didi-Huberman non può mancare di notare che «il n’y a pas un peuple : il n’y a que des peuples»16. Non è forse inutile, per meglio decifrare la posizione strategica che la plebe occupa nell’analitica foucaultiana del potere moderno, in particolare per decodificare la sua inusuale carica politica, stabilire un rapido confron-

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M. Foucault, Poteri e strategie (1977), in Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994, p, 21. Per un’accurata fenomenologia del sentimento plebeo – il plebeo è chi conosce veramente la rabbia e come un bambino apprende a parlare dicendo No –, vedi A. Brossat, Le serviteur et son maître. Essai sur le sentiment plébéien, Lignes, Paris 2003. Inoltre, per quanto si limiti a perpetuare la trama di una lunga tradizione che considera la plebe priva di qualsiasi autonomia e ostile a qualsiasi modernizzazione politica, è forse utile segnalare anche un lavoro recente perché rappresenta in maniera esemplare la logica anti-popolare della filosofia politica liberale: V. Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico, Laterza, RomaBari 2011, in part. pp. 45-64. G. Didi-Huberman, Rendre Sensible, in A. Badiou, P. Bourdieu, J. Butler, G. DidiHuberman, S. Khiari, J, Rancière, Qu’est-ce qu’un peuple?, La fabrique, Paris 2013, p. 78. Il n’y a que des peuples perché non c’è popolo che non sia esposto ai popoli; che non metta in comune la propria alterità. Che non sia spopolato da altri popoli: «Nessun popolo è il popolo» (M. Zanardi, Per una critica del realismo politico, in Id. (a cura di), Comunità e politica, Cronopio, Napoli 2011, p. 178).

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to con la posizione che la sovranità occupa nella filosofia giuridica di Carl Schmitt. È un merito particolare di Paolo Primi aver mostrato come sovranità e plebe, in effetti, giochino in Schmitt e Foucault un ruolo simile ma rovesciato17. In Schmitt, notoriamente, la sovranità è la custode del limite dell’ordine giuridico; rappresenta la vigilante dell’abisso. È in Teologia politica del 1922 che Schmitt mette a punto la sua famigerata definizione («sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»18): esiste un legame essenziale tra la sovranità della legge e la sua trasgressione; tra l’ordine e l’eccesso. La sovranità, in questa maniera, preclude l’esistenza di un fuori incorporando l’eccezione nelle maglie della legge: l’eccedenza, mediante la decisione sovrana, appartiene, sul suo margine estremo, all’ordinamento giuridico. Al polo opposto della sovranità schmittiana troviamo la plebe per come la pensa Foucault: ciò che si colloca sempre altrove rispetto all’ordine della legge. L’incalcolabile. L’eccedenza che il potere non riesce ad amministrare e governare. Se è vero che la plebe in Foucault rovescia la logica della sovranità di matrice hobbesiana-schmittiana, non è forse un azzardo stabilire un legame con uno snodo prezioso delle Tesi sulla storia di Benjamin: la plebe potrebbe incarnare l’estraneità effettiva nei confronti dell’ordinamento giuridico, il “vero stato d’eccezione”, che l’ottava tesi benjaminiana considera la pre-condizione essenziale, in opposizione alla teoria schmittiana dello stato d’eccezione (la capacità normativa di contenere l’incontenibile), per lottare contro il fascismo. Benjamin pensa che l’arrendevolezza dei partiti socialdemocratici europei e dell’Unione Sovietica, almeno fino all’inizio della guerra, nei confronti dei regimi nazi-fascisti, sia imputabile a un’inquietante complicità: l’esonero di uno spazio in cui lasciare maturare una forza politica separata essenzialmente dal potere costituito. Non avrebbero compreso, cioè, le conseguenze politiche sul piano rivoluzionario dell’elisione di un vero stato d’eccezione. Senza il quale, la lotta contro il fascismo, è destinata a finire male. La plebe, in questa maniera, da buco nero della politica moderna, potrebbe diventare, al contrario, la soglia di qualsiasi rivolta contro la logica giuridica della sovranità. 17 18

P. Primi, Il nodo letale. Note su biopolitica e sovranità, in P. Amato (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Mimesis, Milano 2004, pp. 41-59. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), in Le categorie del ‘politico’, a cura di P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972.

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La plebe e (è) il popolo: la plebe potrebbe essere la scintilla per il popolo che manca. Allora, in questo caso, avrebbe diritto al nome di popolo soltanto chi è escluso dal popolo: chi non è il popolo, diventa il popolo dei popoli. La marginalità si prende la scena. La plebe del popolo: il popolo manca. Perché non dire plebe? Perché impiegare, nonostante tutto, la figura del popolo quando il suo utilizzo sembra destinato a generare equivoci, una marea di distinguo filosofico-politici e il sospetto permanente di rimanere impigliati in quanto di più oscuro il mondo di ieri ha prodotto e continua a promuovere. Perché affidarsi a un significante il cui unico impiego legittimo impone la sua destituzione? Il programma minimo per rispondere a un quesito del genere dovrebbe muovere da una constatazione di provenienza foucaultiana: la coagulazione di una soggettività che si dà revocando se stessa e refrattaria all’illusione che non sia necessario un aspro conflitto per innescare le condizioni della trasformazione, ha bisogno di un nome capace di evocare il valore di un’inedita forza politica. In altre parole, se la plebe può provocare l’evento della politica, una politica dell’evento è la creazione di un popolo che non c’è. Nel popolo che manca, nel popolo oltre il popolo, al di là del principio del potere, il popolo impotente, il popolo che Blanchot vede riversarsi e frammentarsi nelle strade di Parigi, contiene una carica politica. Il popolo manca. Vedi anche: Democrazia, Movimento, Precarietà

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LORENZO COCCOLI

POVERTÀ Appunti per una politica dei poveri

L’esigenza di cui la lotta o la protesta si nutrono sembra dire che una misura per l’umanità sia possibile unicamente passando per la dismisura, per la rottura dell’equilibrio, per l’abbandono di un ordine. Per quanto questo salto nel buio possa non avere prospettive o possa sembrare una follia a chi ha qualcosa da difendere, è solo nel salto che qualcosa viene alla realtà. Là qualcosa si fa mondo. G. Solla, Memoria dei senzanome

1. Non si può certo dire, anche solo a un primo rapido sguardo, che l’oggetto-povertà sia assente dai radar del discorso pubblico. Anzi. Molti, moltissimi sono i saperi, i poteri, le tecniche e le pratiche che se ne prendono carico, garantendogli insieme un’elevata visibilità e un buon grado di risoluzione. E ciò è tanto più vero in tempi di crisi, quando la povertà assurge a significante generale dell’accrescersi delle diseguaglianze e dell’approfondirsi del divario sociale: una spia che segnala l’allarme per la possibile deflagrazione di una conflittualità almeno virtualmente esplosiva e che, insieme, mostra la necessità di un’azione tesa al ristabilimento delle condizioni minime per la conservazione dell’esistente. È allora alla statistica – e in parte a certa sociologia – che spetta il compito di delimitare e definire in termini scientifici l’area di intervento, ricorrendo prevalentemente ai concetti gemelli di “soglia di povertà” e di “paniere delle necessità di base” (basic basket of necessities)1. Così ritagliata dall’insieme complessivo dei flussi e delle relazioni sociali, la povertà diviene una superficie oggettiva su cui possono insistere una molteplicità di attori – gli organismi internazionali, lo Stato (pur in posizione sempre più marginale a causa del progressivo smantellamento delle politiche di welfare), il mercato, le or1

Per una critica dello strumentario statistico utilizzato ai fini di una reificazione ideologica della povertà cfr. M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005.

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ganizzazioni benefiche religiose e laiche, la carità privata – e di modelli di governance. Il tutto declinato su scala sia infra che trans-nazionale, spesso in virtù di una stretta solidarietà tra strategie locali e globali. L’oggetto-povertà è insomma preso all’interno di un intricato plesso tecnico-epistemico, risultato di logiche distinte e talvolta persino conflittuali. Un plesso la cui sostanziale unità è però garantita da un vuoto centrale attorno a cui le sue diverse razionalità si annodano e si organizzano – un’assenza manifesta che fa da spettrale contrappunto alla massiccia presenza, all’interno dell’ordine del discorso dominante, di una miseria reificata e, quindi, essenzialmente neutralizzata. È l’assenza della povertà-soggetto, di una povertà cioè intesa come potenzialità e principio di soggettivazione politica. Il povero sale sulla scena pubblica solo nel ruolo della vittima, del target di operazioni mirate condotte da forze a lui estranee, e mai o quasi mai in quello dell’attore protagonista, capace magari di rovesciare le regole della rappresentazione. Il che è poi tanto più problematico, proprio in quanto il progressivo allargamento della forbice tra chi ha e chi non ha dovrebbe creare, almeno in linea di principio, le condizioni di possibilità per una soggettività che ponga esplicitamente a tema il sovvertimento più o meno radicale dell’ordine di cose vigente. Non è infatti forse un caso se, di recente, il concetto di povertà è stato al centro dell’interesse teorico di alcuni tra i maggiori pensatori critici contemporanei, i quali, pur partendo da prospettive assai distanti, hanno tentato di leggervi il modello di forme di associazione e di vita funzionali a un più ampio progetto di emancipazione politica2. Tuttavia, in quel che segue vorrei affrontare la questione a partire da una diversa angolatura. Non, cioè, dal lato della povertà come potenziale di rottura ma, appunto, dal lato del difetto e della sottrazione di tale potenzialità3. Si tratterà in altre parole di ricercare le ragioni del vuoto di soggettività rilevato poco sopra o, meglio, di interrogarsi sulle tecniche di disattivazione di quel surplus soggettivo che, almeno virtualmente, sembrerebbe poter caratterizzare la condizione del povero. In questo senso, fare una genealogia della povertà significherà rintracciare, lungo una traiettoria plurisecolare, i processi, le operazioni, le linee di composizione e di ricomposizione che, insieme, hanno portato alla sua attuale configurazione – una configurazione depotenziata e depotenziante che, benché per 2 3

Cfr. M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, in particolare pp. 50-64; e G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011. Mette in luce entrambi questi aspetti M. Pascucci, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza, ombre corte, Verona 2006.

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la «lunga cottura della storia»4 ci appaia ormai come un dato naturale, è in realtà effetto di precisi meccanismi di potere. Si scoprirà allora la lenta formazione di un dispositivo complesso e mutevole capace di articolare due elementi apparentemente contraddittori eppure segretamente solidali – l’assistenza e la repressione, la pietà e la forca5 – riuniti allo scopo di neutralizzare la potenziale carica eversiva della figura del povero, del mendicante, del vagabondo. Ovviamente non sarà qui possibile seguire questo dispositivo lungo tutta la sua parabola, dando conto di ogni sua trasformazione, continuità, frattura. Mi limiterò perciò a selezionarne un segmento, e in particolare quello che ritengo essere il suo segmento iniziale: non perché riponga un qualche tipo di fiducia nelle miracolose virtù esplicative dell’Origine, ma perché credo che già nel suo momento aurorale si delineino con una certa nettezza i tratti salienti della logica che, mutatis mutandis, andrà a costituire la razionalità specifica del moderno governo dei poveri. L’analisi che tenterò di sviluppare nelle prossime pagine non ambisce perciò alla completezza, e va presa con beneficio di inventario: le sue conclusioni andrebbero verificate e approfondite su un orizzonte spaziale e temporale assai più esteso6. Tuttavia, spero possa almeno fornire delle chiavi di lettura che servano a indicare nella giusta direzione. 2. Com’è noto, il concetto di povertà è stato al centro del dibattito interno alla Chiesa cattolica tra XIII e XIV secolo: terreno di scontro feroce tra diverse visioni della perfezione religiosa, della politica e del diritto, ma anche di sperimentazione ed elaborazione di un nuovo vocabolario filosofico pregno di sviluppi futuri. Un episodio fondamentale, che costituisce ancora 4 5

6

M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p.3 3. Cfr. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari 1986; e J.-P. Gutton, La società e i poveri, Mondadori, Milano 1977. Entrambi questi autori evidenziano bene il doppio registro che caratterizza il moderno governo dei poveri (e che ne costituisce del resto il tratto più appariscente); e tuttavia, almeno a me pare, non ne indagano a fondo le ragioni, limitandosi a constatare la giustapposizione di motivi a prima vista eterogenei. In funzione di un eventuale ampliamento dell’ambito della ricerca sul governo dei poveri, importanti sono i lavori di Ph. Sassier, Du bon usage des pauvres. Histoire d’un thème politique (XVIe-XXe siècle), Fayard, Parigi 1990; F. Di Sciullo, Gestire l’indigenza. I poveri nel pensiero politico inglese da Locke a Malthus, Aracne, Roma 2013; e di G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, il Mulino, Bologna 1998, al cui metodo e alle cui intuizioni le pagine che seguiranno devono molto.

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oggi un apporto teorico per molti imprescindibile7. E tuttavia, anche in ragione della sua particolare problematica, la nostra genealogia prende le mosse da un diverso point de departure, relativamente più vicino nel tempo. Perché fino almeno al XVI secolo – e quindi fino alle soglie dell’età moderna – «il povero e la povertà concreti, quelli coi quali deve effettivamente fare i conti il politico, non entrano quasi mai in scena, perlomeno nei documenti pervenutici. Non abbiamo qui a che fare che con pure idee, puri concetti»8. Affinché la povertà come realtà sociale prenda corpo nelle fonti bisognerà attendere fino alla prima metà del Cinquecento, quando le autorità municipali di alcune tra le principali città europee cominciano a elaborare una serie di disposizioni normative miranti a una riorganizzazione radicale dei sistemi di assistenza, tradizionalmente demandata alla carità dei privati o all’iniziativa ecclesiastica9. Costretto a far fronte a un incremento senza precedenti del fenomeno del pauperismo (causato dal combinato disposto di guerre, carestie e crisi economiche), tutto il Vecchio Continente viene attraversato in quegli anni da un movimento di riforma della beneficenza che sembra presentare ovunque caratteristiche simili: innanzitutto, una forte centralizzazione nella gestione dei fondi, con la creazione di un’unica borsa comune in cui far confluire tutte le rendite dei vari istituti caritatevoli (fondazioni e ospedali), oltre al gettito derivante dalle offerte private. In secondo luogo, una graduale secolarizzazione dell’amministrazione degli apparati assistenziali, la cui direzione viene affidata a un consiglio composto in gran parte da laici. Terzo, la proibizione della mendicità di strada e la subordinazione dell’elargizione dei sussidi a criteri condizionali e discriminatori, con la distinzione tra “veri” e “falsi” poveri (vagabondi e mendicanti validi). Quarto, un’attenzione pedagogica alla correzione dei comportamenti considerati devianti, tra coazione al lavoro e progetti di istruzione e di educazione religiosa dei poveri. Ça va sans dire: questo insieme di normative, ordinanze e regolamenti andava a toccare nervi assai delicati all’interno del quadro politico e religioso dell’Europa del XVI secolo. Era cioè impossibile, in un’epoca in cui la guerra a tutto campo contro l’eresia luterana si profilava ormai all’oriz7

8 9

Così, anche gli autori di cui alla nota 2 risalgono precisamente a questo concetto medievale della povertà, in particolare nella sua declinazione francescana. Cfr. anche M. Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, Milano 2012. Sassier, Du bon usage des pauvres, cit., p. 58. Vasta la letteratura sul tema: per un primo approccio ci limitiamo a rimandare a M. Fatica, Il problema della mendicità nell’Europa moderna (secoli XVI-XVIII), Liguori, Napoli 1992.

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zonte, affrontare tematiche relative alla carità e alle opere senza sollevare, con ciò stesso, un acceso dibattito. Dibattito che infatti ebbe puntualmente luogo, dando vita a dispute appassionate tra sostenitori e oppositori delle riforme, le cui rispettive tesi venivano veicolate da una pubblicistica piuttosto nutrita. È esattamente a quest’altezza che la povertà – una povertà in carne, ossa e stracci – fa la sua comparsa. E la fa, si badi, in posizione di soggetto. Soggetto collettivo: perché l’individualità che caratterizzava il povero medievale nella sua astratta funzione di exemplum morale (positivo o negativo a seconda dei casi), si dissolve ora nella materialità di una massa anonima e indistinta composta da accattoni, girovaghi, sans aveu e diseredati di ogni condizione e provenienza. Soggetto politico: perché il problema che pone non è più quello religioso della salvezza, ma quello secolare della conservazione della stabilità sociale. Soggetto inquietante: perché proprio la sua natura indefinita e confusa lo trasforma in minaccia sempre latente di sovversione dell’ordine, in potenziale agente del disordine. La rivolta dei poveri: ecco lo spettro che si aggira tra i ceti abbienti urbani e le élite politiche tra XVI e XVII secolo. Un timore non del tutto infondato, se si pensa alla moltiplicazione di tumulti e sedizioni popolari che, spesso con l’apporto decisivo di settori legati alla mendicità e al vagabondaggio, a partire dagli anni Venti del Cinquecento aveva interessato quasi tutto il continente10. I poveri, proprio in quanto poveri, non hanno nulla da perdere e perciò tutto da guadagnare: è precisamente questa dialettica a definire la loro perturbante presenza nello spazio pubblico della città. Il tema era destinato a consolidarsi in luogo comune della trattatistica politica, ma i sostenitori delle riforme mostrano di esserne già ben consapevoli. Nel suo De subventione pauperum, il trattato che di fatto apre la letteratura sulla riorganizzazione dell’assistenza, Vives ribadisce il punto a più riprese: «Devono sempre essere evitati i tumulti e la discordia civile […]. I poveri non debbono desiderare che alcun tumulto si accenda nella città dal quale possano ricavare qualcosa, dal momento che è bene che essi siano morti al mondo […]»11. Con tratto ancor più incisivo, così descrive la scena europea l’umanista fiammingo Christian Kellenaer: Le città e le campagne erano talmente gravate dalla turba di mendicanti che vi affluivano ogni giorno che la situazione era vicina alla soglia di pericolo: uo10 11

Cfr. le pagine ormai classiche di F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Vol. II, Einaudi, Torino 1976, pp. 775-799; e Geremek, La pietà e la forca, cit., passim. J.L. Vives, L’aiuto ai poveri (1526), a cura di V. Del Nero, Fabrizio Serra Editore, Pisa 2008, p. 349 [91].

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mini senza regola, né misura, senza nessun pudore […]. Che cosa credete che avrebbero fatto se a quest’indole si fosse aggiunta la forza? Se tutti i disperati, tanti quanti sono, si fossero riuniti in un sol luogo? Da simili albori, Spartaco crebbe fino a diventare una minaccia per la stessa potenza di Roma12.

3. È necessaria però una precisazione. Si potrebbe pensare che i poveri di cui qui si discute costituiscano un gruppo sociale definito e ben perimetrato, una classe emarginata, dai confini rigidi o comunque relativamente stabili. Ma le cose stanno altrimenti. La marginalità in generale e la povertà in particolare sono, nelle società di Ancien Régime, un rischio costante per la stragrande maggioranza della popolazione, una condizione esperibile – e di fatto esperita – da individui di estrazione anche assai diversa13. Solo una piccola minoranza può dirsi al sicuro dai rovesci della sorte: per tutti gli altri (lavoratori a giornata, invalidi, vedove, orfani, profughi, ma anche borghesi e nobili decaduti) le porte della miseria sono sempre aperte. Lungi perciò dal rappresentare uno status periferico, la povertà si iscrive invece nel cuore stesso della civitas, arrivando a identificarsi, almeno virtualmente, con la quasi totalità dei suoi membri. A questa pervasività sul piano fenomenico corrisponde, su quello concettuale, l’estrema dilatazione dell’area semantica della paupertas. Povero è, dice Vives, chiunque abbia bisogno dell’aiuto altrui: e poiché, a causa della caduta, l’uomo è ormai ridotto a un essere in tutto manchevole, la povertà finisce per essere coestensiva alla stessa condizione umana. Non solo. Essendo noi composti di mente e corpo, l’elemosina non consisterà «solo nella erogazione di denaro, come la gente comune ritiene, ma in ogni opera con la quale si solleva l’indigenza umana»14. Prima ancora che di aiuto materiale, il povero ha bisogno di essere consigliato, corretto, educato, guidato – in una parola: governato. In questo modo, la vecchia dicotomia di potentes e pauperes, che stava a segnalare la presenza o l’assenza di un potere dispositivo su cose e persone15, veniva ora rideclinata nei termini del rapporto diseguale tra governanti e governati. 12 13

14 15

Ch. Cellarius, Oratio contra mendicitatem pro nova pauperum subventione, Henricus Petri, Anversa 1531, s.n.p. Paiono convergere su questo punto, pur a partire da prospettive metodologiche assai distanti, G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007; e S. Cerutti, Étrangers. Étude d’une condition d’incertitude dans une société d’Ancien Régime, Bayard, Parigi 2012. Vives, L’aiuto ai poveri, cit., p. 301 [43]. Cfr. K. Bosl, “Potens” e “pauper”, in O. Capitani (a cura di), La concezione della povertà nel Medioevo, Pàtron, Bologna 1983, pp. 97-151.

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È dunque proprio la sua strutturale indeterminatezza sociologica e semantica a fare della paupertas una superficie d’applicazione ideale per le tecniche di presa in carico della società da parte del potere (municipale prima, statale poi): un significante fluttuante capace di trasformare la police des pauvres in un più vasto disegno di gestione governamentale dell’intero corpo sociale16. Così, la guerra ai “falsi poveri” non prende di mira tanto particolari individui o categorie sociali, quanto determinati comportamenti anormali che devono essere ricondotti entro i canali della convivenza civile e della stabilità politica. La continua rottura degli steccati sociali e spaziali operata da questa “gente senza padrone” assurge allora metonimicamente a simboleggiare tutte quelle contro-condotte che derivavano dal lento ma progressivo indebolimento dei legami tradizionali, e su cui diventava sempre più urgente intervenire con strumenti adeguati. La forma di vita designata dal termine “povertà” si presenta perciò come un costrutto concettuale dall’elevato potere performativo, un oggetto a metà tra immaginario e reale che garantisce all’azione di governo un solido punto di manipolazione dell’eccentricità sociale17. Attingendo a piene mani dalla leggenda nera del picaro e dell’accattone errante, diffusa all’epoca da tutta una vasta letteratura furfantesca18, l’intervento dei riformatori mirava a combattere, più in generale, i germi del disordine che minacciava di compromettere il disegno della stabilità politica. Lo pseudopauper diventava allora il nome di un nomadismo essenzialmente incompatibile con la progressiva sedentarizzazione del corpo sociale. Nomadismo letterale innanzitutto: perché col suo vagare anomico e sregolato, il vagabondo fuoriusciva dai canali della mobilità ufficiale, convogliata in flussi più o meno codificati e in qualche modo integrata nell’orizzonte di legittimità della prima età moderna. Ma, anche, nomadismo metaforico: il rifiuto cioè di prendere dimora stabile negli strati più bassi della scala sociale – luogo naturale del pauper, luogo del lavoro e del sudore – aspirando invece a un mostruoso mutamento di status. Il finto povero è portatore di un desiderio 16

17

18

L’espressione “polizia dei poveri” compare in molti testi cinque-secenteschi: cfr. ad es. G. Montaigne, La Police des Paouvres des Paris, Parigi s.d. (1560 ca.). Sul moderno concetto di “polizia” e sulle sue implicazioni governamentali cfr. P. Napoli, Naissance de la police moderne. Pouvoir, normes, société, La découverte, Parigi 2003. Sulla povertà come pretesto dell’intervento governamentale sull’intero corpo sociale cfr. G. Procacci, Social economy and the government of poverty, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (a cura di), The Foucault Effect. Studies in Governmentality, Harvester Wheatsheaf, Londra 1991, pp. 151-168. Per un resoconto dettagliatissimo di questa letteratura, cfr. l’ottima introduzione di P. Camporesi a Il libro dei vagabondi, Garzanti, Milano 2003, pp. 1-174.

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esorbitante che rischia costantemente di sovvertire gli assetti gerarchici tradizionali, proprio in quanto ambisce a un plus di piacere e di ricchezza che va ben al di là della misura assegnata alla sua condizione: «Ricercano diligentemente i piaceri e si immergono in essi più profondamente che i ricchi: una tale abitudine di vita li rende incivili, sfacciati, rapaci, disumani e le ragazze impudiche e dissolute»19. Viceversa, all’estremo opposto dello spettro valoriale, il vero povero è quello che accetta docilmente la parte che è chiamato a svolgere: modesto, lavoratore, pio, egli sa che la povertà «dovrebbe non soltanto essere sopportata con animo rassegnato, ma dovrebbe anche essere abbracciata volentieri, quasi fosse un dono di Dio»20. È esattamente nello spazio di questo décalage tra vero e finto povero che il governo della povertà interviene nel suo aspetto più propriamente disciplinare. Sorvegliare, discriminare ed eventualmente punire: le città cominciano a mettere in piedi un sistema di ispezioni e controlli tesi a verificare l’adeguatezza morale e religiosa delle condotte dei pauperes, selezionando quelli meritevoli di assistenza e consegnando gli altri a misure rieducative e a sanzioni penali. Tutto un vasto campionario del castigo viene allora dispiegato per ricondurre il falso povero alla sua verità: dall’esilio alla forca, dalla mutilazione al lavoro coatto – lo strumento principe della nuova ortopedia sociale – e, all’orizzonte, la reclusione e l’internamento: quel grand renfermement, quel dispositivo concentrazionario che Michel Foucault ha analizzato a proposito dell’età classica, affonda qui le sue radici storiche21. L’obiettivo è separare il povero dalle alleanze e dai legami orizzontali che egli tradizionalmente intratteneva col mondo della mendicità professionale – un mondo dotato di istituzioni e saperi propri, alternativi a quelli ufficiali22 – per poi reintegrarlo nei circuiti dell’appartenenza civica tramite la sua iscrizione in relazioni verticali di comando e obbedienza. 19

20 21 22

Vives, L’aiuto ai poveri, cit., p. 309 [51]. Il punto meriterebbe di essere approfondito. Sembra infatti che il povero faccia la sua comparsa sulla scena politica sotto il segno del desiderio e non sotto quello della necessità, come vuole invece H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 60-123. La sua riduzione alla mera espressione di esigenze minime vitali sarebbe allora un effetto di potere, non un dato di partenza. Ivi, p. 310 [52]. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Rizzoli, Milano 2010. Corporazioni di vagabondi e mendicanti, corti dei miracoli, lingue segrete, riti d’iniziazione: tutta una serie di forme di organizzazione, a metà tra realtà e invenzione letteraria, che andavano a costituire quasi un doppione ribaltato della società reale. Cfr. R. Chartier, La “Monarchie d’Argot” entre le mythe et l’histoire, in «Cahiers Jussieu», collection 10/18, n. 5, 1979, pp. 275-311.

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In quest’ottica, l’intervento coercitivo/correttivo della forza pubblica lavora nel senso di una deflazione del desiderio del povero, che deve essere adattato a una misura compatibile con la conservazione dell’intero sociale: «Perché ti sembra poco ciò che per altri è sufficiente? La Natura ti ha fatto povero, e tu ti indigni perché non ogni cosa ti è concessa? Poiché non ti dai alcuna regola, è necessario che in qualche modo sia prescritto un limite a questa tua sfrenata libidine»23. Così la povertà è privata, almeno in linea programmatica, dei suoi tratti più perturbanti, e però insieme della sua carica soggettiva: il pauper diventa mero oggetto dell’azione di governo, in tutto dipendente per la sua sussistenza dal sostegno della carità pubblica o dalla disciplina del lavoro. 4. Con ciò tuttavia il problema è risolto solo a metà. Il povero è ora spogliato del suo bios nomadico e ridotto, per così dire, a nuda vita. Ebbene, questo non rischia di accentuare precisamente quegli aspetti potenzialmente sovversivi della povertà che si era cercato di eliminare? Il nulla-tenente ha sempre meno da perdere e quindi sempre più da guadagnare da un mutamento degli assetti sociali e politici esistenti. È a questo punto che il governo della povertà mostra l’altra sua faccia, quella dal volto più umano. La forca serviva a sciogliere il pauper dalla solidarietà che lo legava al mondo dell’ozio, del disordine e della possibile insubordinazione; la pietà dovrà ora stringerlo attorno al mantenimento dell’ordine e alla difesa della civitas, rivestendolo di una nuova fedeltà, di un nuovo bios. I governanti prendono in carico l’esistenza dei governati, e così facendo li vincolano alla propria sopravvivenza politica. Ecco allora che Vives può annoverare tra i vantaggi del suo progetto di riforma una rinnovata pacificazione sociale: «Vi è maggiore tranquillità quando ognuno è oggetto di attenzione. La concordia è grande, quando il più povero non invidierà il più ricco, ma piuttosto lo amerà come un benefattore e il più ricco non avverserà il più povero come un essere sospetto […]»24. E lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo da Kellenaer: «Il povero guarderà al ricco come a Dio in persona, in quanto sa che da lui dipende la sua tranquillità e la sua stessa vita. Forse che egli potrà voler male alla città con cui sente che la propria incolumità è congiunta?»25. Ben al di là dei suoi aspetti immediatamente materiali, l’assistenza pubblica diventa allora vettore di integrazione e di «produzione dinamica di 23 24 25

Cellarius, Oratio contra mendicitatem, cit., s.n.p. Vives, L’aiuto ai poveri, cit., p. 361 [103]. Cellarius, Oratio contra mendicitatem, cit., s.n.p.

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conservazione politica»26. Il lavoro, al centro della nuova strategia di governo della povertà, funge da punto di raccordo privilegiato tra l’aspetto coercitivo e quello conservativo del meccanismo assistenziale: strumento efficace di educazione alla disciplina, da un lato; unica via legittima di accesso alla (piccola) proprietà, dall’altro. È Giovanni Botero, capostipite della letteratura sulla ragion di Stato, a esporne il funzionamento nei termini più chiari. I poveri, egli scrive, sono pericolosi per la quiete pubblica, perché «non avendo che perdere, si muovono facilmente nell’occasione di cose nuove»27. Al Principe che voglia “assicurarsi di costoro” non resteranno allora che due strade: cacciarli dallo Stato o, meglio, “interessarli” alle sue sorti – il che si otterrà a sua volta «con l’obbligarli a far qualche cosa, cioè ad attendere o all’agricoltura o all’arti o ad altro esercizio, col cui emolumento possino mantenersi»28. Il lavoro coatto serve cioè a costringere (ed educare) i poveri a divenire proprietari, così da coinvolgerli nella preservazione dell’ordine sociale e politico. Ecco perché i re di Roma, «per interessare quanto più potevano il loro popolo nella difesa della Republica, procurarono che ognuno avesse beni stabili, acciocché l’amor de’ loro poderi li sforzasse ad amare e a difendere lo Stato presente»29. Ed ecco perché, accanto al prendersi carico dei bisognosi con pubbliche elemosine – che restano comunque mezzo utilissimo «per conciliare gli animi de’ popoli e per obligarli al suo Signore»30 – il Principe deve anche curarsi di «farli guadagnare», assicurando loro occupazione e lavoro. Al desiderio del povero, ridotto nei termini di una giusta misura, viene ora assegnato un nuovo oggetto, capace di distoglierlo dalla smania di novità: la proprietà privata. Del resto, nel discorso giuridico l’esenzione del pauper dagli oneri fiscali e militari era giustificata proprio sulla base della sua nullatenenza: chi non possiede alcun bene in un dato regno non può essere obbligato per legge alla sua difesa. Infatti, «chi non ha niente di suo non sembra differire in nulla dagli altri animali: come agli uccelli ogni cielo 26

27 28 29 30

È la felice formula adoperata da Gianfranco Borrelli per indicare più in generale l’obiettivo governamentale della ragion di Stato, su cui torneremo a breve. Cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato, gouvernamentalité, governance. Politiche di mondializzazione e trasformazioni del neoliberalismo, in «Scienza & Politica», vol. 22, n. 42, 2010, p. 60. G. Botero, La ragion di Stato (1589), a cura di C. Continisio, Donzelli, Roma 2009, p. 82. Ivi, p. 83. Ivi, p. 84. Sul governo della povertà nel discorso della ragion di Stato cfr. M. Senellart, Machiavellismo e ragion di Stato (1989), a cura di L. Coccoli, goWare, Firenze 2013, pp. 78-85. Botero, La ragion di Stato, cit., p. 31.

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è patria, e come ai pesci ogni mare […], così a costui è patria ogni terra, poiché non ha più diritto in una regione che in un’altra»31. Il che mostrava, a contrario, la funzione territorializzante della proprietà, capace di legare l’individuo a una determinata obbedienza politica, di vincolarlo a un dato patto sociale. A più di un secolo di distanza, Locke ne fornirà una teorizzazione esplicita: «A questo proposito affermo che ogni uomo che goda del possesso o dell’uso di una qualsiasi parte dei domíni di uno Stato dà con ciò stesso il suo tacito consenso ed è tenuto a obbedire alle leggi di esso […]»32. Col divenire proprietario del povero, il cerchio si chiude. La carica conflittuale della povertà, che rischiava costantemente di eccedere l’orizzonte di legittimità dell’ordine costituito e di minarne la stabilità interna, viene in qualche modo disinnescata e ricondotta entro forme giuridicamente e politicamente sostenibili. Nei secoli successivi, tutta una serie di mediazioni istituzionali e tecniche di governo sarà messa in campo per rafforzare la partecipazione del povero alle strutture di potere vigenti, almeno nella misura sufficiente a “interessarlo” al loro mantenimento. Parallelamente, si intensificherà l’opera di moralizzazione del corpo sociale: organizzazione dell’assistenza su base differenziale, programmi di educazione elementare, disciplinamento del lavoro (libretti di lavoro, regolamenti di fabbrica, paternalismo industriale)33. La povertà viene così reintegrata nel perimetro della cittadinanza e inscritta nella grammatica civica dei diritti e dei doveri. Con ciò, tuttavia, essa perde quel surplus di soggettività che le aveva consentito, al momento della sua prima apparizione sulla scena pubblica, di porre all’esistente l’interrogazione di fatto più radicale: quella sulla possibilità stessa della sua conservazione. 5. Uno sguardo sul presente, a mo’ di conclusione. Oggi, si diceva, la questione sociale torna a riaffacciarsi prepotentemente alla ribalta globale. Lo spettacolare accrescersi delle diseguaglianze sembrerebbe poter dare nuovo slancio alla domanda di cambiamento, fornendo le basi materiali e simboliche per una possibile ricomposizione del fronte antagonista. Questo, credo, il senso dello slogan “Siamo il 99%”, lanciato da Occupy Wall Street e poi raccolto dai movimenti di tutto il mondo: il novantanove per cento degli spossessati contro l’un per cento dei detentori di potere e risorse. 31 32 33

F. Vázquez, Controversiarum illustrium aliarumque usu frequentium libri tres (1564), Francoforte 1668, p. 163. J. Locke, Trattato sul governo (1690), a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 87. Cfr. Procacci, Governare la povertà, cit., pp. 183-206.

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Genealogie del presente

Bisogna però fare molta attenzione a maneggiare teoricamente quella che, a tutti gli effetti, resta per ora solo una (sia pur potentissima) parola d’ordine. Perché, anche ammesso che le cifre reali della distribuzione della ricchezza non si allontanino di molto da un rapporto di 99 a 1, questo dato oggettivo non pare potersi tradurre in modo automatico sul piano dei processi di soggettivazione politica. La linea del conflitto è molto meno netta di quanto quella formula lasci pensare: già al suo interno, la moltitudine del 99 per cento è attraversata capillarmente da meccanismi disgregativi e individualizzanti il cui effetto è la produzione di ostilità e attaccamenti che non coincidono necessariamente con la divisione tra proprietari e non proprietari. Per quanto in forme inedite e radicalmente rinnovate, il governo della povertà – ormai sussunto nel più ampio quadro della governance neoliberale – continua a fare il suo corso. La sua azione è particolarmente evidente nei segmenti più marginali del blocco sociale “povero”, dove l’interpenetrazione di logiche assistenziali e punitive consente di «sorvegliare e soggiogare – e se necessario castigare e neutralizzare – le popolazioni refrattarie al nuovo ordine economico»34 post-fordista. Una strategia di criminalizzazione e disciplinamento analoga a quella impiegata nei confronti dei migranti, il cui inquietante nomadismo sembra ridare corpo al revenant del vagabondo cinquecentesco. Ma accanto a questi aspetti più prettamente repressivi lavora anche, con modalità forse meno appariscenti, tutta una vasta gamma di dispositivi finalizzati alla produzione di stabilità e consenso. Un assemblaggio eterogeneo di procedimenti e tecnologie di “interessamento” che investono in pieno la massa dei governati, creando legami appassionati e obbedienza volontaria all’ordine del capitale. La funzione conservatrice del governo della povertà, prima affidata agli apparati assistenziali dello Stato35, si distribuisce ora su una pluralità di attori – sia pubblici che privati (si pensi al cosiddetto “welfare aziendale”) – le cui prestazioni si esplicano su una molteplicità di livelli. All’interno di questo articolato complesso operazionale, il lavoro (che sempre più tende a coincidere con la totalità dell’esistenza) gioca ancora un ruolo importante: l’estrema flessibilizzazione dei contratti d’impiego e la parallela deregolamentazione del mercato della manodopera ne fanno infatti uno strumento d’intervento ideale ai fini di quella gestione differenziale del corpo sociale che è tratto caratteristico della governamen-

34 35

L. Wacquant, Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti, ombre corte, Verona 2013, p. 51. Cfr. F.F. Piven e R.A. Cloward, Regulating the Poor. The Functions of Public Welfare. Updated Edition, Vintage Books, New York 1993.

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L. Coccoli - Povertà

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talità neoliberale. La proliferazione di differenze sul piano contrattuale e retributivo consente così di sviluppare un regime premiale di incentivi e disincentivi calibrati sulla maggiore o minore adesione agli obiettivi di impresa, generando al contempo un alto tasso di conflittualità e competitività tra lavorator. L’analisi del funzionamento del governo della povertà dovrebbe allora servire a spostare l’attenzione sul tema delle mediazioni. Benché non si possa e non si debba prescindere dalle mutate condizioni materiali dei processi di soggettivazione, tra le prime e i secondi non si può supporre nulla di simile a un rapporto causale immediato. Tra il dato statistico del 99 per cento e la sua ritrascrizione nei termini dell’emergenza di nuove soggettività politiche si apre lo spazio aleatorio delle tecniche di governo, che mirano alla disarticolazione del campo dei governati anche tramite la canalizzazione del desiderio verso oggetti parziali, differenti a seconda dei differenti gruppi sociali ma comunque tutti reperibili all’interno dello stato di cose vigente36. Al povero viene dato qualcosa “di che perdere”, e questo qualcosa diventa il medium attraverso cui egli viene vincolato alla difesa dell’ordine. È qui che una possibile politica dei poveri deve marcare la sua distanza dalla vecchia e nuova police des pauvres. Se questa consiste nel tentativo di imbrigliare l’eccedenza soggettiva del pauper neutralizzandone ab origine il potenziale sovversivo, l’altra dovrà porsi il problema di come riarticolare le soggettività e le resistenze che – stante la tensione continua tra assoggettamento e soggettivazione, e a dispetto degli sforzi riduzionistici di oggettivazione del povero – proprio sul terreno del governo neoliberale della povertà continuano a prodursi, organizzando il desiderio nel senso della sua inflazione, del suo debordamento dal quadro statico dell’esistente. Nel primo caso, la povertà è lo spettro agitato al fine di incatenare ancora di più il povero al mantenimento dell’attuale assetto della distribuzione del potere e della ricchezza37. Nel secondo, essa diviene lo specchio attraverso cui traluce un intero mondo da guadagnare. Vedi anche: Governabilità, Precarietà, Società 36

37

Non a caso la governance neoliberale nasce proprio dalla «necessità di esonerare lo Stato dall’eccesso di claims» e di rivendicazioni soggettive che lo avevano investito negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Cfr. S. Chignola, In the Shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance: oltre lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 117-141. È qui che passa anche la differenza tra politica dei poveri e populismo, che fa presa su una classe media sballottata continuamente tra la paura dell’impoverimento e la strenua difesa dei propri privilegi.

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CRISTINA MORINI

PRECARIETÀ Della cattura biopolitica delle vite (e della loro potenza)

La parola precarietà di questi tempi rimanda immediatamente, e quasi esclusivamente, all’ambito del lavoro. Con essa si richiama il processo con cui, a partire dagli anni Novanta, un intero sistema di leggi, introdotto a livello europeo, ha progressivamente smantellato i diritti, le tutele, i ruoli sociali del lavoro, introducendo figure contrattualmente più deboli, cosiddette no standard o atipiche, e promuovendo la condizione precaria a forma generale dell’organizzazione dell’impresa contemporanea. Tale tendenza è stata particolarmente accentuata in Italia e nei paesi del sud dell’Europa. Il “dispositivo di precarietà”, in realtà, nonostante gli echi linguistici che evocano il versante “anomalo” e al “fuori regola”, si presenta come fortemente normante: esso proprio mentre dichiara l’as-solvimento da regole uniformi e da specifiche identità dotate di precisa consistenza1, punta in realtà all’«espropriazione di plasticità personale e degli obiettivi di emancipazione dichiarati»2. Potremmo parlare di un’inflessibile flessibilità, dunque. O di una rigidità della precarietà, di converso all’universo provvisorio e liquefatto, descritto da Zygmunt Bauman3, o a quello scivoloso e costantemente mutevole descritto da Ulrich Beck4 e che fa da scenario all’esperienza dell’essere umano contemporaneo immerso nella condizione precaria. La precarietà è, insomma, una condizione insieme lavorativa ed esistenziale che funziona come «orizzonte normativo e strumento sistemico di coercizione, funzionale al disciplinamento preventivo del lavoro a monte del suo impiego»5. Di per sé questo termine evoca immediatamente il lato 1 2 3 4 5

Z. Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2010, p.115. I. Possenti, Flessibilità. Politiche e retoriche di una condizione contemporanea, ombre corte, Verona 2012, p.18. Z, Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, p.6. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), a cura di W. Privitera, Carocci, Roma 2000, p.13. S. Cominu, Precarietà, talento, merito in F. Chicchi, E. Leonardi (a cura di), Lavoro in frantumi. Condizione precaria, nuovi conflitti e regime neoliberista, ombre corte, Verona 2012, p.106.

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Genealogie del presente

dell’instabile e del transitorio che connota le esistenze. Molte volte è stato anche fatto notare che la radice etimologica del termine origini dal latino prex, “preghiera”. Nella “preghiera” precaria possiamo osservare tutta l’evidenza dell’obbligo indotto al rispetto di convenzioni gerarchiche che il potere iscrive nel soggetto attraverso l’istituzione del lavoro6. L’atomizzazione delle condizioni di lavoro in una moltitudine di casistiche difformi e incerte, ha la pretesa di tradursi nella negazione nel lavoro e nella vita di ogni perimetro comune e viene anche interpretata dal capitale come l’occasione per la disarticolazione di ogni precedente separazione tra sfera pubblica e sfera privata, che significa un prodigioso ampliamento delle possibilità di far “comunicare, lavorare ed essere”, contemporaneamente, il soggetto precario. Evidentemente, ogni analisi che abbia a che vedere con il lavoro va collocata in un tempo suo proprio. L’età in cui ci è dato di vivere è quella dell’impermanenza7, concetto che si riferisce alla costitutiva, non antropocentrica e inconfutabile instabilità di tutte le cose. L’esperienza del lavoro tutto, nella fase attuale, è, eminentemente ed esclusivamente, quella di una ineludibile impermanenza, che è della vita. La lettura che sostiene l’esistenza di un dualismo del mercato del lavoro, tra iper-garantiti e iperprecari, è “ideologica”, nel senso di inscindibile dalla struttura produttiva organizzata dal capitalismo contemporaneo che volutamente produce questa dicotomia, insolubile dal capitalismo stesso a questo livello dello sviluppo. L’impermanenza è elemento costitutivo della prestazione lavorativa del presente ma evoca direttamente la condizione umana, trascendendo l’ambito del lavoro. Questo concetto contiene in se stesso anche l’idea della trasformazione. Judith Butler nel suo saggio Vite precarie8 fa riferimento agli studi di Emmanuel Lévinas per spiegare come la consapevolezza della precarietà esistenziale (ossia, anche della caducità umana) rappresenti il rifiuto di qualsiasi ordine dell’essere. Il volto umano, secondo Lévinas, riassume di per sé il significato della estrema precarietà dell’altro. E «rispondere 6

7 8

Tale concetto è stato ironicamente ripreso a partire dal 2004, quando è stata creata l’icona di San Precario, nell’ambito dei primi movimenti contro la precarietà che si sono raccolti nella manifestazione “MayDay”, il I° maggio precario: http:// www.ecn.org/chainworkers/chainw/noi/azioni/29feb04.htm. Cfr. C. Morini, La cognizione dell’impermanenza. Il lavoro a tempo indeterminato paradigma della precarietà contemporanea, in «Quaderni di San Precario», n. 3, 2012, pp. 175-196. Cfr. J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, a cura di O. Guaraldo, Postmedia Books, Milano 2013.

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C. Morini - Precarietà

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al volto, capirne il significato, vuole dire essere consapevoli di ciò che è precario nella vita altrui o, piuttosto, della precarietà della vita stessa»9. Questa disposizione consapevole, come vedremo in seguito, può rivelarsi molto utile. Il processo del divenire soggetto implica infatti l’autorappresentazione nel senso di capacità di affermare un’immagine di sé stessi in cui la dimensione personale si intreccia inevitabilmente con una dimensione più ampia (l’altro). Dunque, comprendere appieno la precarietà passa, fatalmente, non soltanto attraverso il bisogno di risvegliarsi alla propria vita, quanto dalla capacità di «estrapolare dalla comprensione della propria precarietà quella della vita precaria altrui»10. Va perciò sottolineata, sin dalla premessa, che la frammentazione implicita nella condizione lavorativa ed esistenziale della soggettività precaria non può mai, comunque, esaurirsi in operazioni solipsistiche di autopercezione che restino interne alla negatività immanente alla stessa definizione del concetto di “precarietà”11. In premessa, insomma, intendiamo sottolineare come la comprensione della “precarietà” – o meglio, la consapevolezza della propria condizione precaria – possa nascere solo da un’analisi critica su di sé assai più ampia dell’ambito lavorativo, che si estende fino alla messa in discussione della propria vita. Essa implica anche il riconoscimento della propria “complicità” e “partecipazione” nel sistema di controllo biopolitico dei corpi e delle menti, cioè il rendersi conto della propria alienazione. Ciò significa anche avere cognizione delle possibili complicità del soggetto con il potere, sollecitate dalla condizione precaria stessa in una specie di circuito vizioso.

1. Precarietà esistenziale, strutturale e generalizzata Se ci concentriamo sulla precarietà del lavoro contemporaneo noi notiamo che essa è un tratto non episodico, ma strutturale: non va intesa come un momento di avviamento al lavoro, come ci ha raccontato per tanti anni una certa vulgata giornalistica e accademica. La precarietà dura nel tempo e connota, in generale, il lavoro; di più, essa innesca processi progressivi, infiniti, estenuanti di precarizzazione di ciò che fino a ieri non era “precario”.

9 10 11

Ivi, p. 138. Ibid. C. Morini, Tradimenti. Il conflitto sul lavoro come lotta biopolitica in Chicchi, Leonardi (a cura di), Lavoro in frantumi, cit., p. 120.

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Genealogie del presente

Il sottolineato richiamo alla trasformazione perenne, che la parola contiene, riferisce al contempo di una difformità o di una deviazione rispetto a un punto di riferimento normotipo, standard: il lavoro a tempo indeterminato. La concezione normale, tradizionale, assume infatti il contratto di lavoro a tempo indeterminato come riferimento positivo, cosicché la precarietà appare come contraltare negativo a quest’ultimo, benché essa rappresenti, in realtà, la sostanza del lavoro nel presente. Parliamo infatti di precarietà generalizzata, che non tocca solo un periodo, ma la vita intera, e che riguarda non solo coloro che hanno contratti atipici, ma tutti, poiché tutti oggi si confrontano con il senso di labilità della propria condizione lavorativa. Ed è una precarietà che non riguarda esclusivamente il momento della attività lavorativa ma si riverbera sull’esistenza nel suo complesso (affetti; relazioni; attitudini; percezione del mondo). La generalizzazione della precarietà, non a caso, porta con sé un disegno di sistematico smantellamento di diritti e garanzie, cioè anche dei sistemi welfaristici predisposti per la figura del lavoratore “maschio”, “adulto”, “a tempo indeterminato” di epoca fordista. Ciò si traduce, senza dubbio, in una maggiore fragilità delle vite intere dei lavoratori e delle lavoratrici che si ritrovano condizionate dalla precarietà lavorativa (precarietà esistenziale).

2. Precarietà e disciplina dei corpi Da un punto di vista storico, la prima “riforma” organica e complessiva del mercato del lavoro italiano, all’insegna della flessibilità e della precarietà, è del 1997. Si tratta del cosiddetto “pacchetto Treu”, che ha introdotto, tra le altre cose, il lavoro interinale12. Tuttavia, va notato che, storicamente, il lavoro umano nel corso del capitalismo è sempre stato caratterizzato da forme di sfruttamento, di cui la precarietà rappresenta la manifestazione contemporanea. Lo scambio sul mercato del lavoro, infatti, pur sembrando uno scambio libero e tra pari, 12

Risale tuttavia al 1984, con il cosiddetto “protocollo Scotti”, l’introduzione della prima figura atipica nel mercato del lavoro italiano: il contratto di formazionelavoro. Negli anni seguenti si è poi operato sulla modifica del collocamento al fine di favorire la flessibilità in entrata. Successivamente, nel 1991 (con la legge 223) è stato introdotto il licenziamento collettivo e incentivata la mobilità con l’obiettivo di incrementare la flessibilità in uscita. Per maggiori approfondimenti, cfr. A. Fumagalli, Lavoro male comune, Bruno Mondadori, Milano 2013, in particolare pp. 52-58.

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C. Morini - Precarietà

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nasconde invece un livello di iniquità (scambio ineguale), dal momento che il lavoratore offre (vende) la sua disponibilità lavorativa (e viene pagato in misura del suo costo di riproduzione), mentre in realtà il datore di lavoro, o chi per lui comanda e controlla il processo produttivo, acquista la sua capacità lavorativa, che va poi a determinare il valore aggiunto del bene prodotto (valore di scambio). Tale rapporto di sfruttamento è caratterizzato da precarietà più o meno diffuse a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. In tali periodi, però, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro, in quanto lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo della fatica e il tempo del riposo, cioè tra tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. Le lotte sindacali del XIX e del XX secolo, non a caso, sono sempre stata tese a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello biocognitivo, il lavoro digitale finalizzato alla produzione immateriale si è ampliato sino a rappresentare la modalità principale della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e la vita diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde di senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale. Va aggiunto anche che la precarietà rappresenta un meccanismo perverso introdotto dal capitale per depotenziare il pensiero critico che si opponeva alla reificazione totale dell’individuo nel lavoro13. La condizione precaria può essere interpretata dunque anche come una risposta del capitale al crescere progressivo delle tensioni verso l’autonomia da parte del lavoro. Evidentemente, la novità dei processi di precarizzazione contemporanei sta nella capacità penetrativa del “lavoro” all’interno del soggetto stesso che essi inducono. Chiariamo che il concetto di “lavoro” a cui facciamo riferimento in questo lemma è di derivazione marxiana. Anzi, detto meglio, il punto fondamentale sta nel concetto di “forza-lavoro” introdotto da 13

Cfr. L. Boltanski, È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.

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Genealogie del presente

Marx, secondo il quale il lavoratore non vende al capitalista il suo “lavoro”, bensì se stesso come capacità lavorativa, per un certo numero di ore giornaliere. Dunque, per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere14.

Ma, a partire da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona15.

L’attuale commistione tra lavoro e vita immessa dal paradigma biocapitalista di accumulazione aggiunge una dimensione di soggettivazione del lavoro che inediti problemi tende a creare oggi. La soggettività precaria viene infatti, a partire dai processi formativi, abituata ad agire in un certo modo, attraverso una serie di segnali e comandi che rappresentano la nuova forma dell’assoggettamento e dello sfruttamento attuale all’interno dei nuovi processi di produzione contemporanei. Lo scardinamento dei confini propri del lavoro sortisce l’effetto di provocare una dilatazione del lavoro verso l’intera vita del soggetto, esperienza peculiare della condizione precaria contemporanea e collegata ai meccanismi di messa a valore della riproduzione sociale. Ed essa deriva proprio dallo scardinamento dei confini del tempo. È, infatti, ancora una volta, Marx a specificare: il proprietario della forza-lavoro la vende sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce. Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce; e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del compratore ossia gliela lascia per il consumo, sempre e soltanto, transitoriamente, per un periodo determinato di tempo, e dunque, mediante l’alienazione di essa, non rinuncia alla sua proprietà su di essa16. 14 15 16

K. Marx, Il capitale (1867), Editori Riuniti, Roma 1964, libro I, p. 200. Ivi, p. 201. Ivi, p. 202.

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C. Morini - Precarietà

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Ora noi osserviamo come nella precarietà si fatichi ad applicare una dissociazione tra il lavoro e il “resto” dell’esistenza proprio in termini di tempo. Rispetto al passato – e qui è Foucault a suggerire –, nel quale il principio sotteso all’impiego del tempo nella sua formula tradizionale era essenzialmente un principio negativo – il principio di “non oziosità” –, ci confrontiamo, progressivamente, con una diversa disciplina che organizza un’economia positiva e pone il principio di una utilizzazione del tempo sempre crescente: esaustione piuttosto che impiego. Si tratta di estrarre dal tempo sempre più istanti disponibili e da ogni istante sempre più forze utili17.

Nella precarietà il tema del tempo diventa determinante. Lo diventa nella sua disposizione estensiva che intensifica l’uso del minimo istante come se fosse inestinguibile e che si trasforma nell’esperienza, nella percezione e nella narrazione della condizione precaria in un continuum temporale dedicato al lavoro o al pensiero del lavoro, alla “connessione perenne” con la dimensione lavorativa e nella sensazione, paradossale, di una perenne “assenza di tempo” per fare altro al di fuori del lavoro. Si scoperchia nella stanchezza generale collettiva che innerva, interamente, la condizione esistenziale contemporanea. Altro elemento che nella precarietà emerge è il corpo ed esso affiora proprio e anche attraverso i meccanismi generati da queste nuove norme temporali. Vale cioè, ancora, quanto scritto da Foucault: «il corpo, divenendo bersaglio di nuovi meccanismo di potere, si offre a nuove forme di sapere»18. È la nuova comparizione (disgregazione) del tempo che compone anche il corpo contemporaneo, «corpo naturale, portatore di forze e sede di una durata»19. Questi corpi, foucaultianamente, non fanno semplicemente ciò che il potere desidera ma operano come esso vuole, «con le tecniche e l’efficacia che esso determina»20. Dalla disciplina di fabbrica al biocapitalismo cognitivo contemporaneo, la soggettività precaria fa esperienza di una sollecitazione continua di capacità auto-normative, auto-realizzative, auto-organizzative che caratterizzano il capitalismo biopolitico. Ed eccoci allora alla presenza di un’auto-normatività raggiunta attraverso la precarietà che, per sottrazione, corrisponde a una ferrea “gabbia auto-normativa”, autoimposta dagli stessi soggetti precari a sé stessi. 17 18 19 20

M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1975, pp. 167-168. Ivi, p. 169. Ibid. Ivi, p. 150.

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Genealogie del presente

Ultimo aspetto da nominare è quello della soggettivazione, che si compone proprio e anche in base alle due linee di tempo e corpo sopra individuate. Il capitalismo presente non dispone di una “classe” omogenea per cultura, stili di vita, interessi materiali, ma si compone di una molteplicità di individui, produttiva comunque di soggettività. Sono proprio i processi di soggettivazione del lavoro a definire il nuovo statuto del lavoro nel biocapitalismo cognitivo21. L’autopercezione collettiva della condizione precaria come condizione sociale paradigmatica della contemporaneità non è ancora (né può essere) percezione di una condizione di classe. Oggi è l’esperienza materiale della vita precaria, che è quella di tutte e di tutti, articolata nei suoi molteplici aspetti, quella che viene posta al centro. Non è un paradosso, ma i punti unificanti di questa nuova ontologia precaria che si rivela e prende forma vanno rintracciati proprio a partire dalla consapevolezza, ormai assodata, della sostanziale diversità e della frammentazione di distinte figure e circostanze. Il neoliberismo si afferma proprio grazie al declino della “legge generale” e cioè, in questo particolare contesto, del “contratto collettivo di lavoro”, producendo soggetti “autonomi” come da loro stessi richiesto. E nondimeno, alla fine, allenati a interiorizzare perfettamente i valori neoliberali dell’impresa e della concorrenza. Il contratto collettivo di lavoro vale per un numero sempre più ristretto di lavoratori e la reversibilità del diritto è assai bene incarnata da questo contenitore che si va totalmente svuotando di quelle clausole di “sicurezza” conquistate in oltre un secolo di lotte sociali. Esse vengono sostituite con altre norme sociali che aumentano la precarizzazione, poiché esse spingono esattamente nella direzione di un incremento esponenziale della continua flessibilità e performatività del “lavoro”: gran parte dei discorsi che tornano a intrecciare, nella diagnosi del nostro tempo, politica e psicanalisi, seguono questa traccia: l’autonomia è l’arrotolarsi su di sé stesso di un desiderio privo di riferimenti simbolici forti, il flebile declino della Legge e, come tale, finisce in qualche modo per riprodurla in forma pervasiva e interiorizzata. La tensione verso l’impresa, l’etica dell’autorealizzazione attraverso il lavoro, la captazione del proprio desiderio dentro i circuiti del consumo, sino alla produzione di comportamenti schizofrenici e 21

Altra tassonomia sulla condizione precaria che può essere utilmente utilizzata è quella richiamata in A. Fumagalli, La condizione precaria come paradigma biopolitico, in Chicchi, Leonardi, Lavoro in frantumi, cit., pp. 63-78. In essa si individuano i termini di mobilità, intellettualità (general intellect) e pubblicità, quest’ultima intesa come «processo di produzione simbolica della merce del capitalismo contemporaneo».

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C. Morini - Precarietà

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dissociativi, sono tutti i tratti caratterizzanti il biocapitalismo cognitivo. Sono uno dei modi “oscuri” in cui si manifesta la coincidenza di capitale fisso e capitale variabile di soggettività e interfaccia comunicazionale22.

Accogliendo l’idea del soggetto come un processo di soggettivazione, come un movimento mai concluso, come tensione tra assoggettamento e resistenze, esiste, ovviamente, contemporaneamente, un altro suo lato che ci parla delle potenzialità, che spinge ben oltre l’interiorizzazione luttuosa del discorso del potere. L’alienazione precaria investe la vita proprio perché deve fronteggiare una reale e crescente capacità di autorganizzazione e autonormazione che può essere captata e controllata solo scendendo sullo stesso piano affettivo e relazionale. Tuttavia l’altro lato della precarietà ci dice che: se radicata solidamente e materialisticamente nelle trasformazioni della produzione, la biopolitica si presenta come un campo di battaglia aperto, dove proprio la ferocia della interiorizzazione della norma, la messa al lavoro integrale della vita indotta dalla precarietà, testimoniano in realtà la forza di un’eccedenza che il biocapitalismo cognitivo può provare a governare ma che produce continuamente processi di costruzione di autonomia reale, ben radicata nella materialità della “produzione di soggettività”23.

3. Precarietà e nuove forme di valorizzazione: il biocapitalismo cognitivo La precarietà si dà a partire da un contesto, ovvero a partire da un cambio di paradigma economico generale, nel passaggio da una economia produttrice di merci a un’economia dei servizi, ovvero della relazione e della conoscenza. Questo non significa negare la continuità e/o la coesistenza di sistemi produttivi più strettamente legati alla produzione di fabbrica o all’industria pesante che continuano a esistere. Non significa non rendersi conto che questa coesistenza si dà in modo più vistoso in alcune realtà più che in altre. Non significa negare che esistano vincoli materiali (misurazione e serialità) per la produzione immateriale, né, d’altro lato, che lo sfruttamento cognitivo relazionale non abbia fatto parte anche della realtà della produzione materiale. La precarietà va dunque inquadrata soprattutto all’interno del nuovo paradigma produttivo, introdotto dal capitalismo bio22 23

A. Amendola, Autopoiesi del sistema, autonomia dell’eccedenza, in S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, ombre corte, Verona 2012, pp. 91-92. Ivi, p. 96.

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Genealogie del presente

cognitivo: da un’economia delle merci passiamo a un’economia fondata sui servizi, sulla relazione e sulla conoscenza. Il corpo-mente del soggetto diventa parte integrante del lavoro ed ecco allora che la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro tende a perdere senso. Ed ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima e influenza la soggettività degli individui, vincola i comportamenti e si trasforma in percezione della precarietà esistenziale. Il “lavoro della produzione immateriale” evoca, in modo tanto apparentemente vago quanto drammaticamente preciso, l’estrazione di valore dalle attività cognitive e relazionali dell’essere umano, vale a dire dai saperi, dalla formazione, dall’apparato simbolico ed esperienziale dei singoli soggetti, dalla loro creatività e dal loro agire naturalmente cooperativo. I termini, ormai diffusi, di economia della conoscenza o di società dell’informazione si riferiscono, insomma, all’utilizzo del sapere e della creatività come attributo indispensabile del lavoro vivo, laddove questo utilizza specificamente capacità di pensiero, di comunicazione, di linguaggio, di cooperazione. Se il fordismo rappresenta l’era della produzione materiale di merci e a tal fine utilizza la forza del corpo, il biocapitalismo cognitivo incarna l’epoca della produzione di conoscenza, attraverso la valorizzazione delle facoltà relazionali, comunicazionali, cognitive, ovvero della vita (da cui il prefisso bio-). La materia da trasformare, simulata da sequenze digitali, il lavoro “produttivo” (cioè il lavoro che oggi produce valore) consiste nel compiere simulazioni che gli automatismi informatici trasferiscono poi sulla materia24. Astratto è il modo in cui ognuno lavora quotidianamente al computer, ma concreto, specifico il contenuto conoscitivo che il lavoro digitale permette di realizzare, generando però quella maggior complicanza tra i due elementi, un’ambiguità, un’ambivalenza che prova a riverberarsi sulla intera vita e sull’esperienza percettiva (astrazione/esecuzione, produzione/ creazione), generando tensione. È certamente innegabile che caratteristiche comunicazionali/cognitive/ emotive risultano comprese all’interno di gran parte dell’attività lavorativa umana (dall’operatore del call-center al cassiere di McDonald’s alla commessa dell’ipermercato, i quali vengono esplicitamente richiesti e istruiti in tal senso). L’attenzione posta alla dimensione introdotta dal biocapitalismo cognitivo non significa inventare, astrattamente, una nuova centralità: il lavoro cognitivo raffigura una delle nuove forme critiche della domi24

Si rimanda ai contributi seminali di F. Berardi, La fabbrica dell’infelicità, DeriveApprodi, Roma 2001, p. 134 e di S. Bellucci, E-work, DeriveApprodi, Roma 2004.

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C. Morini - Precarietà

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nazione che innervano, complessivamente, il lavoro oggi. E la realtà del lavoro vivo contemporaneo, nella dimensione del capitalismo cognitivo, è la realtà precaria, diversa dalla precedente cultura dominante del soggetto operaio. Una nuova “unitas multiplex” di soggetti che si autoriproducono, come la definisce Blecher: se consideriamo la forte componente migratoria del precariato e i fattori specifici di race and gender, emerge come un nuovo quadro soggettivo che si completa e si differenzia come moltitudine critica in cerca di azioni idonee ogni settore ma che è anche capace di azioni interiezionali o parallele che vanno oltre la frammentazione. La produzione comune, materiale o immateriale, delle relazioni di vita e di lavoro e la loro valorizzazione sempre meno si collegano alla fabbrica. Si disperdono e si riavvolgono invece nella miriade di contesti produttivi della metropoli del mondo dove vivono ormai più della metà degli esseri umani25.

4. Precarietà e femminilizzazione del lavoro Assumiamo anche il rapporto tra donne e lavoro e donne e riproduzione sociale come paradigmatico della odierna realtà contemporanea del lavoro precario, intesa nel suo complesso. Nel passaggio dal fordismo al biocapitalismo cognitivo-relazionale sono più gli ambiti esterni al lavoro standard quelli che diventano oggetto della cattura e dei processi di valorizzazione. Contemporaneamente, il modello oblativo e adattativo storicamente tipico della prestazione lavorativa delle donne, tende a generalizzarsi. I processi di inclusione/esclusione sembrano giocarsi più su una dimensione generazionale che di genere. Non necessariamente l’appartenenza al genere femminile implica precarizzazione ma indubbiamente i processi di precarizzazione hanno preso a modello le circostanze in cui il lavoro delle donne si è sempre dato (sottosalarizzato, relegato alle gerarchie inferiori, connotato da una estrema variabilità e frammentarietà di percorso). Non si intende naturalmente sottovalutare il carattere duttile, trasformista e adattativo del desiderio del soggetto26, sempre in grado di rimodularsi, come già si diceva sopra, anche sui terreni poco fertili come 25 26

M. Blecher, Postoperaismo: trasformazione del capitale, lavoro. Sovranità e auto-costituzione della moltitudine, in Chignola (a cura di), Il diritto del comune, cit., p. 102. Si fa esplicito rimando al concetto di “macchina desiderante”: cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Macchine desideranti. Capitalismo e schizofrenia (1973), ombre corte, Verona 2012.

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Genealogie del presente

quelli attuali. Ma va sottolineato con sempre maggiore forza come la precarietà, ovvero la spoliazione massiva del corpo-mente resa possibile dal biocapitalismo cognitivo, introduca una certa melanconia dilagante, polverizzata nella sfera sociale, la quale punta sempre più indifferentemente a un riconoscimento dell’umano solo attraverso l’uso economico totalizzante che se ne fa. La sfera del lavoro ha la pretesa di essere un corpo vivente, che necessita tutto il tempo, tutte le cure, le parole e le azioni. Un modo di produzione che diventato un modo d’essere, che informa di sé tutto il sociale, organizza tempo e spazio, struttura i sistemi di valore. Cosicché, il carattere performante del lavoro, la sua accentuata individualizzazione e parcellizzazione, la sua interiorizzazione, profonda, nello spirito, nell’intelletto, dei processi macchinici27, accentuano la melanconia, come senso della perdita complessiva del sé, una melanconia che viene istituita socialmente. Il corpo risulta desoggettivizzato, disciplinato, incluso, direttamente immerso in campo politico, i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, «l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, a certe cerimonie, esigono da lui dei segni»28. Il biocapitalismo cognitivo da un lato attinge alle diverse sfere esperienziali e individuali di uomini e donne, native e migranti, dall’altro cerca di imporre un unico e omogeneo dispositivo di comando sul lavoro: sono le differenze, e lo sfruttamento di queste differenze, a tradursi in un surplus di ricchezza. Da questo punto di vista, le semplici e binarie dicotomie produzione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono significato, sino a spingerci a ipotizzare un processo tendenziale di degenerizzazione del lavoro29. Le donne sembrano rappresentare un modello a cui il capitalismo contemporaneo guarda con crescente interesse, sia per quanto riguarda le forme della somministrazione del lavoro (precarietà, mobilità, frammentarietà, bassi livelli salariali), sia i contenuti, vista la nuova centralità antropologica che il lavoro pretende di assumere attraverso lo sfruttamento intensivo di qualità, capacità e saperi individuali (capacità relazionali, aspetti emozionali, propensione umana alla “cura”).

27 28 29

D. Haraway, Testimone-modesta@femaleman-incontra-Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 278. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 29. Cfr. C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010.

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C. Morini - Precarietà

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5. Potenza precaria, politiche per la precarietà e reddito La concezione produttivista, salarista, macchinina del vivente che pretende di imporre il capitalismo contemporaneo – e la sua presunzione di introiettarlo interamente dentro la dimensione del lavoro precario – porta di converso, in sé stessa, il suo limite: un sapere intuitivo, precognitivo, che comprendiamo proprio a partire dal nostro corpo. Questa capacità di creare, di immaginare, di dubitare, di cambiare, in breve di autodeterminarsi non è programmabile. «Il cervello è l’organo vivente di un corpo vivente»30. Da questo punto di vista, la precarietà, meccanismo perverso introdotto dal capitale per depotenziare il pensiero critico che si opponeva alla schiavitù dell’individuo nel lavoro31, implica, con il tempo - in forza delle capacità adattative del desiderio umano – il crescere progressivo del valore della dimensione dell’autonomia nei rapporti di lavoro atipici. Dimensione non del tutto controllabile. L’autonomia consentita, pur tra molti evidenti limiti, dalla precarietà non può anche essere e/o diventare proprio questa capacità di farsi mancare, soprattutto nel lavoro cognitivo? Dal punto di vista politico questo ragionamento ci porta a ragionare di una politica sociale adeguata al paradigma di accumulazione bioeconomica che, nel biocapitalismo cognitivo, ha nell’introduzione del reddito di esistenza il suo architrave. Ma forse oggi dobbiamo dire, ancora di più, che va superata la logica del welfare e del workfare per entrare in quella del commonfare (welfare del comune). La cooperazione sociale nasce dalla produzione del comune: qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. Ai beni comuni legati alla sopravvivenza terrena e al consumo primario (aria, acqua, cibo, socialità, ecc.), connaturati con lo stesso agire umano, vanno aggiunti quegli elementi che oggi stanno alla base non tanto della sopravvivenza e del consumo di base, ma piuttosto della produzione e dell’accumulazione: il territorio (geografico e virtuale) e conseguentemente l’ambiente, il linguaggio e la conoscenza: tutti i processi multipli e variegati della riproduzione sociale. Il riconoscimento e la remunerazione diretta di tale risorse e processi di cooperazione sociale rappresenta l’esatto opposto delle scelte politico-economiche fino a ora attuate. La logica dominante ha infatti imposto, al fine di migliorare la competitività liberista, due linee di intervento: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire 30 31

A. Gorz, L’immateriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 91. Cfr. Boltanski, Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, cit.

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Genealogie del presente

dalle pensioni, per poi intaccare l’istruzione e la sanità, tramite anche l’adozione di pesanti politiche di austerity) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Il mancato decollo del capitalismo cognitivo in Italia produce il risultato miserevole che oggi scontiamo. È infatti l’eccesso di precarietà la causa principale dell’attuale situazione di crisi economica e sociale32. Diventa imprescindibile la declinazione della lotta contro la precarietà, nella precarietà, attraverso la richiesta di un reddito di base incondizionato33, come strumento per mettere a nudo le contraddizioni dell’accumulazione economica fino a qui descritta. Nel biocapitalismo cognitivo, la rivendicazione di un reddito di base equivale a ciò che rappresentava la richiesta di salari più elevati nell’era del capitalismo industriale fordista. L’introduzione di un reddito di base potrebbe fondare un nuovo patto sociale. Si tratta di una proposta apparentemente riformista ma potenzialmente sovversiva in quanto, riducendo il ricatto del bisogno, indurrebbe a processi di liberazione dal lavoro favorendo alternative nell’ambito dell’organizzazione della produzione. In altre parole, l’introduzione di un reddito di base potrebbe rappresentare un valido strumento per arginare e ridurre la trappola della precarietà34 e consentire quel diritto alla scelta del lavoro come autodeterminazione della propria vita. *** Ai tentativi di cattura di ogni recesso del nostro essere-agire attraverso una stretta multiforme che si origina dalla condizione esistenziale precaria, risponde comunque, una intrinseca resistenza della vita. Essa non si limita a fare opposizione, ma sovverte, inventa, crea spazio al nuovo. Oltre la crisi economica e insieme ad essa, constatiamo la crisi senza precedenti della forma-stato e delle forme di assicurazione delle individualità da esso 32 33

34

Cfr. Fumagalli, Lavoro male comune, cit. Sul tema, numerosa è la letteratura, che qui non approfondiamo. Si rimanda a BinItalia (a cura di), Reddito per tutti, Manifestolibri, Roma 2009, Bin-Italia (a cura di), Reddito minimo garantito, Gruppo Abele, Torino 2012. Riguardo gli aspetti definitori e l’esame di fattibilità, si rimanda a: A. Fumagalli, Intelligence Precaria, La proposta di welfare metropolitano, in «Quaderni di San Precario», n. 1, 2010, pp.223-259; San Precario Milano, Bin-Italia, Proposta di finanziamento per un reddito di base incondizionato, in «Quaderni di San Precario», n. 3, 2012, pp.227239, entrambi scaricabili da: www.quaderni.sanprecario.info. Sul concetto di trappola della precarietà, cfr. G. Standing, The Precariat: the New Dangerous Class, Bloomsbury, London 2012, specie pp.73-75 (trad. it. Precariato: la nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna 2013).

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C. Morini - Precarietà

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garantite: si pensi, per fare esempi noti, a come la responsabilità sia stata sempre più addossata al singolo soggetto nella logica attuale del giuslavorismo italiano, cioè si pensi all’individualizzazione dei rapporti di lavoro e al crollo dei sistemi di welfare collegati alle politiche di privatizzazione laddove il pubblico si riduce a essere solo la nuova configurazione assunta dal privato. Tutto questo rappresenta una contraddizione palese del ruolo dello stato e del suo diritto e delle sue istituzioni, dunque apre la porta a forme di “autocostituzionalismo”, ovvero a forme di autorganizzazione e di autonomia che provano a liberarsi da sfere e strutture che puntano solo a condannarci alla totale assenza di rappresentanza e di voce. Con il biocapitalismo si entra nella sfera della “sussunzione totale”, si supera la dicotomia sussunzione-formale e sussunzione-reale. Nel biocapitalismo cognitivo, infatti, il rapporto sociale di produzione si fonda sull’utilizzo simultaneo delle tecnologie, derivanti dal processo di informatizzazione, quindi specificatamente capitalistiche, e delle facoltà di linguaggio e relazione, quindi specificatamente appartenenti al singolo essere umano. Qui sta il cuore della faccenda: questa inedita commistione non si può superare attraverso qualche forma di riformismo. La nostra possibilità sta nella riappropriazione delle nostre facoltà umane, ovvero nell’immaginazione di una società che valorizzi direttamente il valore d’uso. Se il precario – soggettività molteplice ma ridotta spesso all’obbligo del “fare da sé” stretto come è tra l’assenza di qualsiasi garanzia di welfare e l’eterodirezione del comando della filiera produttiva in cui è inserito, sino a diventare una sorta di precario impresa di se stesso – è costretto, poiché sottoposto al ricatto del bisogno, a produrre in ogni momento “valore di scambio”, l’exit dall’incubo non è nell’esodo, ma nel conflitto contro il capitale, ovvero nella riappropriazione diretta di reddito (insolvenza e reddito di base incondizionato), saperi (eliminazione della proprietà intellettuale), forme di autorganizzazione (oltre la delega, oltre il partito e il sindacato), nelle sperimentazioni di forme di autogestione del general intellect. Rivendicare e poi organizzare tutto questo è il nuovo orizzonte del diritto comune della soggettività precaria. Vedi anche: Crisi, Movimento, Povertà

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BRUNA GIACOMINI

RESPONSABILITÀ Perché darsi in-pegno

1. Si tratta di un termine che nel lessico del pensiero che cerca di decifrare le nuove fisionomie della contemporaneità si trova comunemente associato alla parola “sfida”. La mutazione antropologica che è in atto da alcuni decenni e che sembra mettere in gioco gli snodi cruciali della nostra esistenza, solleva, infatti, molti dubbi sulla nostra capacità di essere “responsabili”. L’estensione e la complessificazione delle tecniche e delle procedure da una parte, spesso largamente oscure tanto a chi le utilizza, quanto a chi le inventa, e la velocità e l’incontrollabilità delle interazioni prodotte dalla globalizzazione a tutti i livelli della vita sociale, dall’altra, hanno prodotto uno scollamento che appare incolmabile tra le intenzioni e gli scopi che muovono la nostra azione e gli effetti che, agendo, sortiamo nel mondo. Tale scarto si esprime, in modo particolare, nel processo di profondo e inarrestabile declino da cui sembra afflitta la politica contemporanea a vantaggio dei poteri globali e fuori controllo dell’economia. Se la “responsabilità”, comunque la si intenda, ha a che fare con la possibilità umana di governare la relazione tra il nostro agire e i suoi prodotti, si potrebbe pensare che lo scenario della contemporaneità l’abbia resa impronunciabile e, ancor prima, inconcepibile. Di qui quel diffuso senso d’inadeguatezza e, più in generale, d’impotenza nei confronti di ciò che accade che finisce con l’inibire la capacità del giudizio e ottundere la sensibilità generando indifferenza, ovvero quello stato di apatia che sgorga dalla percezione della radicale ineffettualità di ogni azione e discorso. Tale esito, come cercherò di argomentare, è in realtà nient’affatto scontato se si cerca di mettere correttamente a fuoco in cosa consista più propriamente la questione posta dalla responsabilità. Si tratta di capire se quella sorta di baratro che sembra aprirsi tra noi e la realtà che ci circonda introduca un elemento di autentica discontinuità, che ci costringe a riformulare integralmente i termini del problema, o non sia altro che l’esasperazione di uno scarto che è invece intrinseco alla struttura stessa dell’azione, scarto che la condizione contemporanea rende compiuto e pienamente visibile.

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Genealogie del presente

O, più precisamente, se non sia proprio tale iato – tra ciò che facciamo e quanto possiamo prevedere e controllare, tra la bontà delle nostre intenzioni e gli effetti perversi che otteniamo con le nostre azioni, che finiscono col produrre proprio ciò che non era voluto o addirittura si voleva evitare – il cuore stesso del problema della responsabilità. Tale chiarimento appare tanto più necessario alla luce dell’uso sempre più frequente e del tutto abusivo della parola nel lessico della politica corrente, lessico che avendo da tempo rinunciato ad intercettare qualsiasi “livello di realtà” o a mettere in moto qualsivoglia “pratica trasformativa” degna di questo nome, sembra ormai interamente orientato a sostituire retoricamente ogni interrogazione effettiva delle grandi questioni della politica contemporanea. Di qui un utilizzo di espressioni quali “responsabilità”, ma anche “democrazia”, “equità” e molte altre, finemente calibrato per nascondere che ciò di cui si parla è esattamente ciò che manca o, comunque, non interessa. 2. È ampiamente documentato come tanto nelle lingue neo-latine, quanto in quelle anglo-germaniche la comparsa dei termini corrispondenti a “responsabile” e “responsabilità” sia relativamente recente. Se infatti si registra l’utilizzo della parola “responsable” nella lingua francese già all’inizio del Trecento e di quella “responsible” nella lingua inglese sin dalla fine del Cinquecento, è necessario attendere i dibattiti politici settecenteschi, che precedono e accompagnano le grandi rivoluzioni moderne, perché non solo la forma aggettivale divenga di uso corrente, ma compaia il sostantivo corrispondente (prima “responsability” e poi “responsabilité”) che ne fissa il significato. Quanto alla lingua tedesca, se l’espressione “Verantworlich” è segnalata alla metà del Seicento, decisamente tardo è l’impiego del sostantivo “Verantworlichkeit” che fa la sua apparizione solo alla fine del XIX secolo1.

1

Per una ricostruzione rigorosa e puntuale della storia della famiglia di termini facenti capo alla nozione di responsabilità nelle principali lingue europee, con particolare rifermento all’ambito politico-giuridico, cfr. M. A. Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino 2005; Ead., Responsabilità: origine e significati in «Diritto@Storia», 10, 20112012. Per ulteriori precisazioni, si vedano anche: R. McKeon, The Development and the Significance of Responsibility, in «Revue international de philosophie», 39, 1957, pp. 3-32; G. Von Proschwitz, Responsabilité: le idée et le mot dans le débat politique du XVIII siècle, in G. Straka (a cura di), Actes du X Congrès International de linguistique et philologie romanes, Klinsieck, Paris 1965, I, pp. 385-397.

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B. Giacomini - Responsabilità

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Per quanto attiene al significato, esso viene definendosi in terra inglese nell’ambito delle discussioni parlamentari che animarono tutto il XVIII secolo sulla necessità di distinguere tra la sovranità assoluta della Corona, i cui atti erano per definizione insindacabili, e il potere dei suoi ministri, il cui operato era, viceversa, sottoposto al controllo del parlamento. Davanti a questo, i delegati del potere regio sono responsible e cioè tenuti render conto dei loro atti. Il concetto trova una sua prima formulazione nei Federalist Papers, l’insieme di scritti composti tra l’autunno del 1787 e la primavera del 1788 da Alexander Hamilton, John Jay e James Madison al fine di promuovere la ratifica, da parte dello Stato di New York, della Costituzione federale americana, approvata il 17 settembre del 1787 dalla Convenzione di Philadelphia. Nel Paper n. 63, in particolare, l’estensore del saggio convoca a sostegno della necessità di istituire il Senato federale proprio il concetto di responsabilità. Soltanto infatti un organismo, a cui sia affidato il compito di progettare ed eseguire un’azione di governo di lunga durata e articolata in una serie di atti tra loro interconnessi, potrà assolvere al requisito della “responsability”. Questo sarà soddisfatto a due condizioni: che l’attività di governo si applichi a un numero limitato di oggetti precisamente definiti che sono effettivamente in suo potere, rendendone verificabili gli effetti, e che, al contempo, sia commisurabile agli impegni che essa ha assunto di fronte al popolo all’inizio del suo mandato. Già in questa prima formulazione è rintracciabile il duplice significato della responsabilità ed insieme i germi del conflitto che ne inciderà profondamente l’evoluzione semantica. Da una parte, infatti, essa indica, secondo un’accezione retrospettiva, un’obbligazione a rispondere a o davanti a qualcuno (sia questi un soggetto collettivo – quale un’assemblea, un popolo o un ordinamento – o un individuo) di ciò che si è fatto. Una simile obbligazione presuppone due condizioni tra loro interconnesse e che circolarmente la stessa responsabilità contribuisce a formare: anzitutto l’identificabilità di un soggetto che possa essere sottomesso all’imposizione e, insieme, in grado di sostenerla, e, in secondo luogo, la possibilità di attribuirgli determinati fatti, individuabili con sufficiente certezza come effetti della sua azione. Secondo la codificazione giuridica di tale accezione la responsabilità assume la forma dell’imputabilità. In base al significato etimologico del termine imputare (da puto, “calcolare”) tale espressione indica la possibilità che un fatto non semplicemente sia attribuito a qualcuno, ma sia messo nel suo conto, che egli ne divenga, cioè – secondo l’efficace locuzione inglese – non semplicemente answerable, ma accountable. La responsabilità viene così a configurarsi come un vero e proprio dispositivo che performa, grazie al diritto, soggetti imputabili e con ciò stesso poten-

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Genealogie del presente

zialmente perseguibili per le loro azioni. Come è noto, il principio su cui poggia tale sistema di assoggettamento e che, insieme, individua l’orizzonte di formazione della soggettività politica moderna sul piano giuridico, è quello della retribuzione: ogni atto che in base alle prescrizioni di legge sia considerato lesivo del bene della comunità nel suo insieme o di quello di uno dei suoi membri dovrà essere “riparato” dal suo autore in forma simmetrica al danno prodotto, così da pareggiare i conti. L’ordine che è stato alterato dovrà essere ripristinato bilanciando le azioni che lo avevano turbato con una reazione uguale e contraria che riporti il sistema in equilibrio. Come è stato efficacemente rilevato, tale sistema, lungi dall’abolire il principio della vendetta, ne costituisce una razionalizzazione che, grazie alla deliberazione ultimativa di un’autorità terza al di sopra delle parti, ne impedisce l’escalation sociale, ma, insieme, ne conserva la natura profondamente violenta2. Accanto a questa accezione, già nella prima esplicita enunciazione del concetto, ne compare un’altra che sposta l’accento dal passato al futuro valorizzandone il significato etico-politico in senso prospettico, su un piano non più riconducibile alla dimensione giuridico-retributiva. Responsabile è colui che prende impegni con qualcuno (nel caso in questione, il parlamento) per un’azione futura (ad es. la realizzazione di determinati progetti), che è disposto cioè a vincolare i propri atti a venire all’interno di una relazione, formulando promesse o stipulando patti. Vale anche per la responsabilità, dunque, quanto Hannah Arendt ha detto della “promessa”: gli uomini sono disposti a limitare la loro libertà di agire e l’incertezza che essa produce gli uni negli altri perché vogliono vivere assieme e “agire di concerto”, senza che nessun potere sovrano, comunque inteso, intervenga a cancellarne la pluralità3.

2

3

Tale interpretazione si deve a R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, mentre sul nesso indissolubile che lega la violenza al diritto, alla sua creazione come alla sua conservazione, il riferimento necessario è a W. Benjamin, Per la critica della violenza in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 5-30. Per un approfondimento delle aporie intrinseche alla nozione moderna di responsabilità intesa come rovescio dell’imputabilità, mi permetto di rinviare a B. Giacomini, Concetti di responsabilità in Ead. (a cura di), Il problema responsabilità, Cleup, Padova 2004, pp. 29-52; Ead., Metamorfosi della responsabilità, in F. Bianco, M. Zanatta (a cura di), Responsabilità e comunità, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2007, pp. 133-144. Sul ruolo svolta dalla promessa reciproca nel generare una forza capace di connettere tra loro le azioni individuali, salvaguardandone la libertà, cfr. H. Arendt,

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B. Giacomini - Responsabilità

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Ciò che in questo secondo senso viene portato in primo piano non è la capacità del soggetto di dar conto di sé sulla base delle sue capacità di volere e dominare razionalmente e liberamente la sua azione, ma quella di stringere legami, poggianti non sulla certezza del diritto, ma sulle fragili ed instabili fondamenta della fiducia reciproca. Mentre infatti il diritto garantisce, attraverso il potere sovrano del soggetto statuale che lo applica, che danni o offese siano sempre adeguatamente retribuiti, l’impegno di colui che si assume la responsabilità non è garantito che dal suo atto di parola e dalla credenza sempre incerta che egli è in grado di suscitare in coloro che vi corrispondono. Il significato prospettico, relazionale, essenzialmente fiduciario che in questa accezione assume la responsabilità è confermato dalla sua etimologia. Se infatti il termine non esiste come tale né in greco né in latino, esso va sicuramente ricollegato ai verbi spendo e poi spondeo, che indicano la richiesta o l’offerta d’impegno reciproco tra due soggetti. In greco, la parola – utilizzata originariamente tanto in Omero che in Pindaro con un significato religioso per indicare la libagione offerta unilateralmente agli dei per ottenerne il favore – acquista successivamente un valore politico e designa «un patto di mutua assicurazione»4 scambiato tra due soggetti. Emblematica in questa prospettiva è la terminologia del matrimonio: sponsa (“sposa”) indica la fanciulla che il padre si è impegnato (spondere) a dare in matrimonio e inversamente il pretendente a prendere. In re-spondere la particella re rafforza la reciprocità della promessa indicando la garanzia data in cambio dell’impegno dell’altro. Così il responso degli oracoli che decifrano i segni divini, come poi quello dei giuristi che interpretano il diritto, è assicurato in risposta ai doni offerti dagli uomini o, semplicemente, alla fiducia espressa dai richiedenti. La duplicità di significato fin qui illustrata si presenta in realtà, nella storia del concetto, come un insanabile conflitto tra un modo d’intendere la responsabilità, che dalla fine del Settecento finisce col prevalere, tanto in campo giuridico-politico che etico-filosofico, sul fondamento della metafisica del soggetto moderno, razionale e sovrano, e una diversa accezione,

4

Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1991, pp. 179-182; Ead., Sulla rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 188 e ss. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Potere, diritto, religione, tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 445. Tale etimologia, che evidenzia il significato già all’origine relazionale della responsabilità, è particolarmente valorizzata da G. Marramao, Introduzione a Le sfide della responsabilità, in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», n. s., XXVIII, 1, 2010, pp.7-11.

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Genealogie del presente

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che sorge dalla decostruzione e dalla radicale problematizzazione della prima, e che fa dell’impossibilità di quella il suo stesso fondamento. 3. Si deve in modo particolare a Max Weber, all’altezza della sua definizione della “vocazione del politico” nella celeberrima conferenza del 19195, la definitiva messa in chiaro del fallimento della nozione di responsabilità intesa come capacita di dar pienamente conto di sé e dei propri atti da parte di un soggetto insieme autosufficiente e razionale: ossia un soggetto non dipendente da altri per il suo pensare e il suo agire e dunque atto ad iniziare da sé le sue azioni e, insieme, capace di guidare con l’intelletto la volontà, e cioè di controllare le forze interne che lo spingono ad agire – soppesando, vagliando, consentendo o dissentendo nei confronti dei propri desideri. Il fulcro su cui poggia la Verantwortlichkeit di colui che esercita l’attività politica per “vocazione” non sta nella capacità di dar ragione di ciò che ha fatto, ma di prendere impegni per il futuro, di dar ragione di ciò che farà. Tale impegno, inoltre, non è semplicemente preso davanti ad altri, ma per altri, con cui si stabiliscono relazioni reciproche e si istituiscono legami. Altri compare qui non semplicemente come limite della libertà di ciascuno, mera restrizione che la costringe a misurarsi con altre libertà ad essa esterne, ma come sua propria qualificazione: la libertà si misura con la capacità di vincolare l’azione alle attese di altri e non di neutralizzarli, anticipandone e prevenendone le reazioni. Ma qual è la natura più propria di tale impegno? La promessa cui il politico di professione lega la sua azione lo proietta in direzione di un futuro che egli non conosce, perché non ripete il passato, ma secondo la logica del tempo moderno, lo innova e lo trasforma: essere responsabili vuol dire dunque impegnarsi a progettare per altri un tempo a venire senza poterlo in alcun modo padroneggiare. Nella sua celebre analisi dei conflitti tragici che insidiano l’azione del politico, Weber mostra, con insuperata lucidità, le invincibili contraddizioni con cui egli è chiamato a misurarsi: quella che oppone i risultati dell’azione alle intenzioni e addirittura agli ideali da cui muove e quella, che minaccia particolarmente l’agire politico, che scaturisce dal contrasto tra la bontà dei fini perseguiti ed i mezzi moralmente pericolosi cui non può fare a meno, anche quando non li usa, di riferirsi, ovvero la forza che inevitabilmente qualifica il potere politico. Nessuna etica di carattere generale, né quella della convinzione che cerca giustificazione nel proposito, ma neppure quella comunemente definita della 5

Cfr. M. Weber, La politica come professione in Id., La scienza come professione. La politica come professione (1919), Mondadori, Milano 2006, pp. 49-135.

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B. Giacomini - Responsabilità

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responsabilità che invece trova nelle conseguenze il suo principio, è in grado di giustificare le azioni che il politico si deciderà a compiere. Chi si appellasse all’una o all’altra sfuggirebbe alla sua autentica responsabilità: essa è propria di colui che non invoca nessuna legge o regola generale a rispondere al posto suo, ma componendo di volta in volta convinzione e conseguenze, assume, facendosene garante, decisioni che, per quanto attentamente vagliate e soppesate, restano sempre irrimediabilmente azzardate e proprie. Nella prospettiva weberiana, dunque, quelli che dal punto di vista della concezione moderna appaiono soltanto come limiti della responsabilità, che la depotenziano fino a svuotarla, divengono i fattori che la qualificano come tale e ne evidenziano il senso di impegno personale e arrischiato per il futuro. Vi è poi un ulteriore e anche più decisivo elemento che contribuisce a rovesciare il senso di quei limiti e a scorgere proprio in essi non ciò che mette a rischio la responsabilità, ma ciò che la individua e, in un certo senso, la esalta. Se infatti non siamo in grado di controllare e dunque dar ragione degli effetti che la nostra azione produce nel mondo, se la nostra azione è unilaterale, non reciproca, nel senso che non può essere contraccambiata da alcuna certezza relativa alle conseguenze effettivamente ottenute, ciò dipende anche dal fatto che essa passa per il rapporto con l’altro: le nostre azioni si collocano sempre all’intersezione di relazioni che non padroneggiamo e che, lo vogliamo o no, incrociano le nostre vite con quelle di altri. La responsabilità, come hanno illustrato con chiarezza i convergenti percorsi filosofici tracciati dall’etica levinasiana e dalla decostruzione derridiana della soggettività, è investita dall’altro in un doppio senso. Anzitutto è questione posta dall’altro e in cui ne va dell’altro: è il suo “volto”, la sua indigenza e la sua sofferenza che mi interpellano, reclamando il mio intervento; è a lui e non a me che rispondo, è per lui e non per me che sono disposta a impegnarmi facendomi guidare e consegnandogli tutta la mia libertà. Nella prospettiva levinasiana tale consegna non è il risultato di una scelta con cui ridiventiamo padroni del senso delle nostre azioni anche quando non ne siamo il fine, ma sgorga da un’invincibile passività originaria che non è suscettibile di alcuna appropriazione né ammette di essere convertita in attività. A rigore, quindi, io non sono responsabile in virtù delle mie azioni, ma della mia insuperabile esposizione all’altro che precede ogni possibilità di azione e di scelta, e sin dall’inizio mi allontana da me stessa. La grammatica della responsabilità che Lévinas delinea6 obbedisce a regole che in alcuni passaggi cruciali sono opposte a quelle che definivano 6

Cfr. in particolare E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina, Milano 1998; Id., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a

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Genealogie del presente

i principi d’azione del soggetto moderno. La responsabilità non consegue dalla libertà, e dunque dal potere di agire senza essere costretti, ma la precede in quanto muove da un’originaria recettività nei confronti dell’altro che ci rende insuperabilmente vulnerabili. La responsabilità non è neppure correlata alla conoscenza, ma ha anzi una relazione avversativa con essa: sono chiamato a impegnarmi non sulla base di ciò che conosco o avrei comunque potuto conoscere e prevedere, ma per ciò e soprattutto verso chi non conosco: nei confronti del nuovo venuto, dello straniero. Straniero non ha qui però alcuna accezione sociologica: non si tratta di colui che arriva da un paese diverso dal mio, ma di ogni altro che come tale resiste a qualsiasi movimento, conoscitivo o pratico, mirante ad averne ragione, ad assimilarlo o ad integrarlo all’interno di un orizzonte comune. L’altro cui resto costantemente esposta, al di là di ogni tentativo di appropriazione, si dà sempre tuttavia come irriducibile pluralità di altri, ciascuno dei quali è tutt’altro, unico e incomparabile, moltiplicato all’infinito in un’illimitata varietà di “volti”, varietà in se stessa anarchica perché non ammette di essere ordinata, definendo priorità o precedenze, anche soltanto provvisorie. L’aporia in cui a quest’altezza necessariamente sfocia la responsabilità, lungi dal farla fallire, ne individua il significato più proprio. Secondo la lettura derridiana7, l’altro che mi chiama ad essere responsabile non è mai una collettività né un’insieme indifferenziato di altri: rispondere ai “molti” vuol dire non rispondere, perché la responsabilità non è mai generale o in generale, ma è sempre risposta singolare a quel singolo. Rispondere tuttavia a lui significa non rispondere all’altro, anch’esso “tutt’altro”. Di qui l’invincibile conflitto tra responsabilità etica e responsabilità politica: mentre questa richiede che si risponda alla generalità ed impone la sostituzione, la comparazione, la somma dei “volti”, l’altra la esclude di principio. Di fronte ai “volti” il soggetto responsabile è solo: non c’è nessuna legge né interiore né esteriore davanti alla quale possa dar ragione delle sue scelte, di come cioè cercherà di “mediare” le istanze incompatibili della giustizia e della legge, dell’etica e della politica. A quest’altezza la responsabilità, lungi dal collassare, trova il suo luogo: essa consiste nell’accettare di assumere impegni e decisioni consegnate

7

cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1991; Id., Dio, la morte e il tempo, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1997. Si veda soprattutto, tra i numerosi scritti che riguardano le questioni della responsabilità, J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2003. Il nesso indissolubile tra responsabilità e irresponsabilità è anche al centro della riflessione di Umberto Curi: cfr. Id., Introduzione a Giacomini (a cura di), Il problema responsabilità cit., pp. 9-27.

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B. Giacomini - Responsabilità

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all’inquietudine perché chiamate a conciliare domande che sono e restano antitetiche: quelle che sorgono dal faccia a faccia irriducibile con il singolo e quelle che provengono dalla polis, che, viceversa, presuppone che per vivere insieme quelle singolarità rinuncino a farsi valere come tali. La responsabilità è investita dall’altro in un secondo, decisivo senso. Altro non è soltanto colui che ci sta di fronte e che la nostra azione incontra, ma è ciò da cui comincia. Quel rapporto con sé che la responsabilità richiede, chiamandoci a riflettere su noi stessi per trovarvi la fonte delle nostre azioni, è sin dall’inizio impedito dall’incancellabile traccia lasciata dall’altro, che costantemente interrompe il lavoro della coscienza facendo fallire, già all’origine, ogni disegno di appropriazione di sé. Le ragioni delle nostre azioni non sono a nostra disposizione, non ci appartengono: in quanto siamo formate/i in un contesto di relazioni che risultano parzialmente irreperibili e irreparabili, questa opacità sembra radicarsi nell’atto stesso della nostra formazione e derivare dal nostro status di esseri che si formano in una relazione di dipendenza8.

Il sé resta inaccessibile alla coscienza non solo in ragione dei limiti strutturali di questa, ma perché è il frutto di relazioni che ci costituiscono modellando dall’interno la nostra identità. Ancora una volta non solo rispondere di sé secondo l’accezione tradizionale appare impossibile, ma diventa problematico garantire personalmente per un’azione futura se non siamo in grado di isolare il nostro contributo in quanto questo è sempre, sin dall’inizio, anche dell’altro. Anche in tal caso si tratta di capire cosa propriamente significhi essere responsabile. Judith Butler, sviluppando l’intuizione levinasiana, ci offre una via d’uscita che reimposta i termini del problema: il fatto di presupporre una primaria opacità del sé facendola risalire a una serie di relazioni costitutive comporta una specifica conseguenza sul comportamento etico nei confronti dell’altro. Più precisamente, se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a se stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della nostra responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell’opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici9.

La suscettibilità nei confronti dell’altro che ci spinge a impegnarci nei suoi confronti non consegue da un’intrinseca inclinazione etica, da un’innata com-passione che ci spinga a soccorrere chi soffre o dalla pietà che 8 9

J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 31. Ivi, p. 32.

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Genealogie del presente

ci induca a immedesimarci nei nostri simili e a partecipare al loro dolore, ma da una più originaria implicazione nell’altro, che possiamo cercare di dimenticare o nascondere – illudendoci di essere indipendenti o addirittura autonomi – ma non di cancellare. È in ragione di tale implicazione che ci rende intrasparenti a noi stessi impedendoci di dar conto di ciò che siamo, che veniamo chiamati alla responsabilità, cioè a fare di quell’implicazione l’oggetto del nostro progetto, a dare cioè noi stessi in-pegno per la sua realizzazione. In questa prospettiva la responsabilità non consegue più da una relazione istituita ex post dal soggetto, comunque inteso, ma è inscritta nella sua stessa struttura, è il modo con cui, legandosi agli altri, esso corrisponde e dà seguito ai legami che hanno nutrito la sua esistenza e che lo costituiscono. La nuova configurazione assunta dalla responsabilità può tuttavia essere compresa soltanto se ne viene precisata la fisionomia a partire da due questioni dirimenti. La prima concerne il suo raggio d’azione temporale, ovvero fino a che punto nel futuro, ma anche nel passato si possa spingere un impegno che non sia assunto a vuoto, ma con fiducia per chi lo sostiene e per coloro che ne siano i destinatari e vi si abbandonino. Se siamo responsabili a partire dai nostri legami, è evidente che questi ci imporranno anzitutto di riconoscerne l’eredità. Fuori dalla sterile antitesi tra modernità e tradizione che ha contrapposto all’erede, che si limita a ricevere passivamente e poi a custodire fedelmente i beni trasmessi dal padre (il “patrimonio”), l’“uomo nuovo” che felicemente orfano di ogni passato si costruisce ab imis dandosi da sé le proprie leggi, si tratta di diventare eredi. Ciò significa divenire capaci di accettare consapevolmente quanto ci è dato scegliendo però liberamente – sulla base di una costante interrogazione del nostro presente10, ovvero di ciò che noi stesse/i siamo e vogliamo – quanto intendiamo abbandonare e ciò che invece decidiamo di in-vestire, trasmettendolo a chi verrà dopo di noi. Di qui la duplice cura nei confronti del passato di cui ci riconosciamo figlie/i e del futuro 10

Si veda in proposito la reinterpretazione foucaultiana del compito dell’Illuminismo sulla scorta del celebre saggio kantiano contenuta in M. Foucault, What is Einlightenment (Qu’est-ce que les Lumières) in Id., Dits et écrits 1954-1988, IV, Gallimard, Paris 1994, pp. 562-578; Id., Che cos’è l’illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?, in «Il Centauro», 11-12, 1984, pp. 229-236. I due scritti riprendono le argomentazioni svolte più analiticamente in due lezioni tenute il 5 gennaio 1983 al Collège de France e trascritte in M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, Cours au Collège de France, 1982-1983, édition établie sous la direction de François Ewald et Alessandro Fontana par Frédéric Gros, Gallimard, Paris 2008, pp. 3-39.

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B. Giacomini - Responsabilità

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di coloro che verranno dopo di noi, non in quanto siano in nostro potere, ma perché per essi siamo disposti ad arrischiare il nostro agire. Tale cura non potrà riguardare soltanto gli esseri umani e i loro prodotti, ma l’intero mondo e tutti coloro che lo abitano; quello che abbiamo creato, ma anche quello che, sin dalla nostra origine come specie, ci ha ospitato, consentendoci di evolverci dapprima sul piano biologico e poi, in modo smisurato e spesso distruttivo, sul piano culturale. Tale mondo non è popolato soltanto da coloro che fin qui lo hanno dominato, ovvero esseri umani di sesso maschile, ma anche da donne e da animali. Diventarne gli eredi e progettarne il futuro significa allora ripensare il quadro complesso delle relazioni che la politica occidentale ha oscurato: quelle con le madri, anzitutto, riappropriandosi di quei tesori nascosti che la nostra cultura non è riuscita a distruggere ed, al contempo, impegnandosi a dar luogo non solo a una maternità biologica ed affettiva, ma anche culturale e, più in generale, spirituale. Quelle con gli altri viventi, bollati dalla nostra cultura come “inumani” e, come tali, privi di “dignità”, non solo al fine di asservirli e metterli a morte, ma allo scopo di tracciare un confine netto e invalicabile – diversamente collocato a seconda delle epoche storiche – ma sempre inteso a garantire la nostra eccentricità rispetto al mondo naturale che ci ospita, ma a cui non apparteniamo. La seconda questione concerne il tipo di rapporto che, all’interno del modello della “cura”, si istituisce nei confronti di coloro – donne, uomini, animali – ai quali intendiamo provvedere con il nostro impegno. Tale preoccupazione per l’altro ha il suo paradigma nelle cure parentali dei genitori nei confronti dei figli che costituiscono «filo-e onto-geneticamente l’archetipo della responsabilità»11, sul quale viene modellata la responsabilità politica dell’uomo di Stato verso la comunità. Anche quando tale paradigma viene ripensato alla luce dell’etica femminile della cura, sostituendo al potere del padre la sollecitudine materna, esso resta ugualmente viziato dalla relazione gerarchica che i genitori – padri o madri che siano – stabiliscono con i figli. Anche se, nel caso delle madri, la verticalità viene rovesciata, in quanto nella cura esse si mettono del tutto gratuitamente al servizio dei figli facendosene “ostaggio” – per usare le parole di Lévinas –, nondimeno anche tale rovesciamento presuppone la minorità dell’altro, la sua incapacità di vivere e pensare per suo conto. Tale presupposto grava ancor più sulla relazione con gli animali, cui si concedono diritti all’interno di un rapporto di elargizione che concede all’altro determinate garanzie in ragione di ciò 11

H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990, p. 128.

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Genealogie del presente

per cui egli ci somiglia – ad esempio la sofferenza – e non in virtù della sua inassimilabile, ma proprio per questo meritevole di rispetto, differenza. C’è da chiedersi se non sia possibile, invece, una concezione orizzontale della responsabilità verso l’altro capace di trovare il suo senso non nella superiore altezza di questi né nella sua bisognosa minorità, ma nella dissomiglianza. In questa prospettiva si tratterebbe di riconsiderare proprio quella responsabilità verso i fratelli (e le sorelle) su cui verte la domanda con cui Caino replicava a Dio che gli chiedeva di Abele: «Sono forse il custode di mio fratello?». La fratellanza di cui avere cura non è quella di coloro cui siamo uniti in ragione di una stessa nascita, familiare o politica, di una medesima cultura o, tanto meno, di uno stesso sesso, ma di una comune e insuperabile estraneità. Si tratta per questo di liberare il concetto di “prossimo” da ogni riferimento all’orizzonte umanistico di una qualche possibile somiglianza e di ripensarlo alla luce dell’«assoluto dissimile, riconosciuto come non riconoscibile, addirittura come irriconoscibile, al di là di ogni sapere, di ogni conoscenza e di ogni riconoscimento»12. Soltanto se di questo ci si mette alla ricerca, sarà poi possibile ritrovare quanto tale dissimiglianza ci riguardi, in quanto ha a che fare con ciò che di noi stessi resta irriconoscibile e celato. Così nei rapporti tra uomini e donne sarà possibile istituire un nuovo legame soltanto se si percorre fino in fondo quella estraneità, generata anzitutto dalla cultura e dalla storia, che ha fatto sì che nello stesso mondo, fianco a fianco, essi abbiano condotto vite del tutto diverse, le une vissute in piena luce, le altre immerse nell’oscurità. È tuttavia soprattutto nei confronti dei viventi non umani che si misura la nostra capacità di entrare in relazione con un’alterità che viola e oltrepassa i confini, per quanto ampliati, di ogni umanismo, l’alterità di chi non ha né parola né volto e tuttavia reclama, col suo assordante silenzio, il nostro coinvolgimento. È proprio misurandosi con soggetti intrinsecamente inassimilabili, che la responsabilità è chiamata a mostrare la gratuità del suo impegno, offerto e promesso a fondo perduto a chi, per ragioni diverse, non ricambierà e, nel caso degli animali, neppure riconoscerà quel dono, ma con i quali sarà forse possibile stringere un’inedita amicizia. Vedi anche: Eguaglianza, Futuro, Trasparenza 12

J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, a cura di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 31. Dissimile per eccellenza è l’animale, la cui questione è interrogata da Derrida nella raccolta L’animale che dunque sono (Jaca Book, Milano 2006) e nei due seminari su La bestia e il sovrano (Jaca Book, Milano 2009, 2010).

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MARIANNA ESPOSITO

SACRIFICIO Sulla matrice religiosa della relazione tra debito e credito

Les sacrifiés è il nome di un’associazione di 1.300.000 piccoli artigiani, imprenditori e commercianti1, costituitasi di recente in Francia per rivendicare il diritto all’esistenza nel regime della governamentalità neoliberale e tentare di salvare la propria attività indipendente dalla morsa della pressione fiscale in aumento. «Sauvons la proximité» è il loro slogan e la battaglia politica e mediatica ingaggiata da questi lavoratori ci racconta in modo esemplare quali siano i termini in gioco nel lessico politico contemporaneo e quale sia la posta legata al loro utilizzo. La crisi attuale del debito pubblico degli Stati ha riattivato infatti una semantica sacrificale che sembrava definitivamente oscurata dall’avvento del neoliberismo e del suo imperativo al godimento. È invece riemersa con violenza inaudita proprio dalle politiche neoliberali, in nome delle valutazioni svolte da agenzie di rating e spending review. Le politiche di austerità imposte dalle Banche centrali e dai mercati agli Stati hanno stabilito infatti un aumento del carico fiscale imponibile per il risanamento di un debito pubblico provocato dal capitalismo finanziario. Questa richiesta è stata legittimata come ‘sacrificio’, contropartita necessaria al riscatto del debito. Da qui la perdita dei diritti, del lavoro, della vita. Ma come mai il neoliberismo, che negli ultimi trenta anni ha segnato il passaggio dall’ordine simbolico al godimento, dalla sussidiarietà statale all’auto-imprenditoria, ha condotto sino a qui? Per rispondere a questa domanda, proveremo a tracciare una breve genealogia del termine “sacrificio” per indagarne la posta in gioco nel tempo presente. Dal latino sacrificium, il termine indica l’azione liturgica del «rendere sacro»2 (sacer, facere) nella sfera religiosa: l’atto rituale di offerta mediato da un officiante con cui si compie il passaggio dell’umano al divino. Che sia una cosa o preghiera, il sacrificio ha l’effetto di consacrarla, cioè, 1 2

http://www.sauvonslaproximite.com/ É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), vol. II, Einaudi, Torino 2001, p. 452. Cfr. C. Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999.

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Genealogie del presente

di trasferire l’offerta a una sfera separata di esistenza, governata da forze impersonali a cui si chiede protezione o su cui si agisce ritualmente per assorbirne la potenza. Nel pensiero religioso antico, il sacrificio intreccia quindi un legame costitutivo con la definizione del sacro e il suo meccanismo vittimario. Sebbene il Vocabulaire des institutions indo-européennes (1969) di Émile Benveniste attesti la presenza di diversi termini concettuali impiegati nelle lingue per designare atti sacrificali votati all’offerta e non all’uccisione, rimane un tratto caratterizzante del sacrificio, quale perno della vita religiosa, la sua implicazione nella violenza. È possibile, infatti, che in alcune forme di azione sacrificale, il trasferimento dell’oggetto alla sfera sacra comporti la sua distruzione o, nel caso di un essere vivente, la sua messa a morte. È questa, ad esempio, l’ipotesi di Mircea Éliade3 che affronta, nella sua ricerca storico-antropologica sulle religioni, il tema del sacrificio umano come atto restitutivo della creazione, per cui la morte si profila in ambito religioso come il principio generatore della vita e il sacrificio come l’atto primordiale da cui prende forma l’ordine cosmico. Oltre che al valore archetipico dei miti espressi dalla cultura semitica, greca, rumena, l’autore rimanda in particolare alla simbologia del culto vedico, fondato sul sacrificio cosmogonico come ripetizione del gesto sacrificale compiuto dall’Uno – l’Essere primordiale Mahȃpuruṣa, detto anche, nella religione vedica, Prajȃpati – per la creazione del molteplice. Anche René Girard stabilisce nella sua teoria antropologica un nesso fondamentale tra sacrificio e violenza4. Il rito sacrificale protegge, infatti, la comunità dalla violenza indifferenziata attraverso la violenza fondatrice dell’ordine, cioè attraverso la messa a morte della vittima espiatoria esterna la cui espulsione ristabilisce l’unità perduta. L’enunciazione di questi primi dati ci consente di tracciare il quadro interpretativo in cui si inscrive la nostra analisi e di evidenziare la logica soggiacente alla nozione in esame: logica dialettica, implicante una relazione produttiva con la trascendenza, giacché impone di rinunciare per accrescersi, di mettere a morte per salvarsi, di donare per proteggersi. È il filo rosso dell’analisi. Infatti, non solo nella teoria di Éliade, che scorge nell’uccisione della vittima il corrispettivo simbolico del sacrificio compiuto dal dio, o in quella di Girard ma, come vedremo, anche in altre teorie, implicanti significati del termine coincidenti con il dono, lo scambio o la comunione, il sacrificio attiva un meccanismo di rinuncia per cui la morte 3 4

Cfr. M. Éliade, Aspect du mythe, Gallimard, Paris 1963. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro (1972), Adelphi, Milano 1980.

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M. Esposito - Sacrificio

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entra in gioco come necessaria contropartita della vita, come ciò il cui assorbimento preventivo garantisce la conservazione e l’accrescimento della vita stessa. Questo rapporto di implicazione reciproca tra vita e morte – crescita e rinuncia, salvezza e perdita, credito e debito – è il motore della dialettica sacrificale e ne caratterizza la finalità morale a un tempo salvifica e riparatrice. Per tracciare in sintesi una genealogia del sacrificio e spiegare le ragioni della sua ambivalenza, occorre risalire alla tradizione di studi etnografici sulle origini religiose delle culture primitive, sviluppatasi a fine Ottocento in Inghilterra e Germania. Con l’opera di Robertson Smith sulle origini sacrificali della religione ebraica, Lectures of the religion of the Semites (1889), l’etnografia tardo-ottocentesca inaugura, infatti, una nozione del sacro destinata a influenzare in modo decisivo il campo delle scienze umane nel Novecento, a partire dalla ricerca sociologica sulle forme di coesione sociale iniziata da Émile Durkheim e proseguita da Marcel Mauss, Roger Caillois, Georges Bataille sulle origini sacre della comunità. La lettura etnografica di Robertson Smith individua, infatti, nel sacro un fenomeno religioso di natura ambivalente – a un tempo puro e impuro – e nel sacrificio il fondamento universale dei riti arcaici5, l’atto simbolico di identificazione collettiva su cui si fonda la comunità. La parola chiave è tabù6. L’oggetto sacro è tabù in quanto, per sua natura duplice, pura e impura, esige la separazione dall’uso comune, la proibizione del contatto umano. Ma, allo stesso tempo, il sacro è anche totem, in virtù dell’atto che lo consacra simbolo della comunità, immagine del dio in cui il clan si identifica. Questo dualismo si ricollega all’idea di sacrificio totemico elaborata da Robertson Smith e ripresa in seguito da Durkheim. Rituale espiatorio che ristabilisce il legame del gruppo con il dio alienato e ne rinsalda l’identità collettiva7, la comunione totemica comporta l’ingerimento del totem – l’animale ucciso identificato nel dio a cui prima di allora era vietato accostarsi – e la sua introiezione simbolica a opera del clan. Ne deriva un vincolo di solidarietà fondato, a un tempo, su una comune appartenenza e una comune interdizione. È questo il gesto teorico decisivo per la definizione di comunità nel Novecento, rappresentata con i nomi di Popolo, Sindacato, Nazione8. Re5 6 7 8

Sul sacrificio come istituzione non universale nelle società arcaiche, cfr. A. Testart, Des dons et des dieux, Errance, Paris 2006. Cfr. J. Robertson Smith, Lectures of the religion of the Semites, London 1889. Cfr. R. Money Kyrle, Il significato del sacrificio (1930), Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 159. Cfr. M. Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità: Tönnies, Durkheim, Mauss, Mimesis, Milano-Udine 2011.

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Genealogie del presente

cepita dalla teoria sociologica di Durkheim e dalla psicoanalisi di Freud, la teoria dell’ambivalenza del sacro determina, dunque, il carattere religioso del vincolo comunitario – protettivo e salvifico, preventivo e incrementativo, immunizzante e governamentale – e ne decide l’origine sacrificale. Un testo posteriore a Robertson Smith, il già citato Vocabulaire des institutions indo-européennes di Benveniste, fornisce in merito un importante chiarimento etimologico, giacché pone in luce il significato duplice che il concetto di sacro presenta nella lingua latina e greca: Sacer e hierós, ‘sacro’ o ‘divino’, si dicono della persona o della cosa consacrata agli dei, mentre hághios come sanctus indicano che l’oggetto è difeso contro ogni violazione, concetto negativo e non, positivamente, che è carico della presenza divina, che è il senso specifico di hierós9.

Se il sanctus è il versante negativo del sacro, lo stato di separazione che proibisce il contatto dell’uomo, il sacer è l’espressione di una presenza divina che ne protegge e incrementa la vita. La religione unifica quindi il sacer e il sanctus entro la sfera di appartenenza comune generata dal sacrificio. È quanto rileva Durkheim nella sua indagine sulle forme elementari della vita religiosa: la potenza coesiva e immunitaria del dispositivo sacrificale su cui si fonda la religione. L’autore mostra, infatti, il potere simbolico esercitato dal totem nella formazione dell’ideale collettivo e pone in evidenza «la profilassi religiosa»10 prodotta da una fede comune intorno a cose sacre, intorno cioè, a cose separate, interdette all’uso comune che, proprio in virtù di tale separazione, sono capaci di trattenere la violenza nel legame inviolabile di una comunità. Per questo, secondo Durkheim, «la religione è inseparabile dall’idea di Chiesa»11. Praticato nell’ambito delle società arcaiche, rielaborato dal monoteismo ebraico-cristiano, secolarizzato dalla filosofia politica moderna per la fondazione della sovranità giuridica, ritradotto nel lessico governamentale della sociologia per la legittimazione dello Stato sociale, il sacrificio costituisce il più potente dispositivo teologico-politico-economico predisposto dal pensiero filosofico, capace di produrre a un tempo, in virtù della sua logica ambivalente, ordine e comunità, sovranità e solidarietà, gerarchia e coesione. 9 10 11

Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit., p. 439. É. Durkheim, Sociologia e filosofia (1894), Edizioni di Comunità, Milano 1961, p. 197. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa (1912), a cura di M. Rosati, Meltemi, Roma 2005, p. 62.

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Sulla sua natura e sulla sua funzione si concentra, quindi, una delle più importanti teorie risalenti agli inizi del secolo scorso: l’Essai sur la nature et la fonction du sacrifice (1899) di Henri Hubert e di Marcel Mauss, allievo e nipote di Durkheim. Adottando il metodo antropologico inerente allo studio comparativo delle civiltà primitive, gli autori analizzano il sacrificio vedico, ebraico, greco e, al di là delle diverse credenze espresse dai riti, rilevano «la sua universalità, la sua costanza, la logica del suo sviluppo»12. Per Mauss e Hubert, dunque, il sacrificio è universale per la logica del suo sviluppo e, quindi, per la struttura formale in cui si articola: uno schema implicante una relazione tra tre termini – il sacrificante, la vittima, il destinatario – operante in base alla logica classificatoria del pensiero collettivo, in cui «l’uomo pensa in comune con gli altri»13, secondo l’approccio dell’antropologia strutturale. Cruciale, ai fini della nostra analisi, è la ricerca sulle forme arcaiche di scambio svolta da Mauss in Essai sur le don (1924-1925). A partire dallo studio di alcune società primitive del Nord-Ovest americano, della Melanesia e della Polinesia, l’autore mostra che il sacrificio è un’istituzione in cui economia, diritto e religione si uniscono in modo inscindibile. Ne è un esempio paradigmatico il potlàc, il sistema di dono contrattuale praticato nel Nord-Ovest americano, implicante la donazione o distruzione suntuaria di beni da parte di un clan che rivaleggia con altri per la conquista di un primato nella gerarchia sociale. Definita da Mauss prestazione totale, dal momento che include l’aspetto economico, religioso, morfologico, mitologico e sciamanistico della vita di un gruppo, il potlàc presuppone «l’obbligo assoluto di ricambiare i doni, pena la perdita del mana, dell’autorità, di quel talismano e di quella fonte di ricchezza che è l’autorità stessa»14. È dunque morale, prima che giuridico, l’obbligo comunitario della contropartita. Infatti, il mana – termine melanesiano utilizzato per indicare il valore ‘magico’ della credenza collettiva da cui dipende l’efficacia delle cose e il prestigio delle persone – esige l’interiorizzazione della norma che prescrive l’obbligo di dare, l’adesione interiore al suo contenuto prescrittivo. Si tratta, perciò, di un sistema creditizio marcato da un legame di reci12 13 14

H. Hubert, M. Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice (1899), in M. Mauss, Œuvres. Les fontions sociales du sacré, vol. I, Les Éditions du Minuit, Paris 1968, pp.149-150. M. Mauss, Œuvres, Représentations collectives et diversité des civilisations, vol. II, Les Éditions de Minuit, Paris 1974, p. 122. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1923-1924), in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 2000, p. 166.

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Genealogie del presente

procità eccedente la logica utilitaristica dell’economia mercantile, prodotto dalla fede comune in una credenza che stabilisce il valore “magico” dello scambio sacrificale. In realtà, la posta in gioco è politica e ha per oggetto la fondazione dello Stato sociale e del socialismo in Europa, in un momento storico in cui dilaga il conflitto di classe e la sovranità statuale è delegittimata da una profonda crisi economica e sociale. Il socialismo riformista prevede quindi di conciliare il conflitto tra capitale e lavoro con soluzioni di pacificazione interne al processo di produzione capitalistica. Per questo Mauss chiama in causa il sistema del dono contrattuale: per riprodurne la logica sacrificale arcaica nell’impianto redistributivo del Welfare – come controprestazione dello Stato alla Nazione – in risposta al «sacrificio del lavoratore che ha dato la propria vita e il proprio lavoro, da un lato, alla collettività, dall’altro, ai suoi datori di lavoro»15. E per questo, a conclusione del saggio, l’autore invoca «un’arte dell’economia»16, vale a dire, un’azione governamentale e strategica della politica – una biopolitica, scriverà Michel Foucault nelle lezioni del 1978-197917 – che assicuri il benessere e la sicurezza dei cittadini mediante la presa in carico delle vite da parte dello Stato18. Proprio dalle ricerche antropologiche di Mauss sul sacrificio arcaico prende le mosse il pensiero di Georges Bataille sulla nozione di dépense. In un saggio del 1933, Bataille individua, infatti, un principio di perdita alla base dell’attività economica, espressione di un bisogno fondamentale dell’essere umano che si manifesta nel «lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa»19. Nella ricerca di Mauss sul potlàc, Bataille riscontra, dunque, il carattere prevalente dei processi di perdita su quelli di produzione all’origine dello scambio primitivo. Per entrambi il problema del presente è l’individualismo produttivo del capitalismo moderno – finalizzato esclusivamente al valore dell’utile – da cui discendono anomia e disuguaglianza sociale. Diversa, però, è la concezione politica che elaborano proprio a partire dall’idea di sacrificio. Diversamente da Mauss, infatti, il sacrificio per Bataille non è funzionale alla ricomposizione dell’ordine 15 16 17 18 19

Ivi, p. 271. Ivi, p. 185. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-78), Feltrinelli, Milano 2005. Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006. G. Bataille, La nozione di dépense (1933), in Id., La parte maledetta (1949), Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 6.

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sociale, ma allo scatenamento del conflitto e della lotta di classe. Il potlàc mostra infatti la funzione sociale della spesa improduttiva, dal momento che la donazione o distruzione dei beni assume l’andamento agonistico di una lotta sociale per la conquista del rango. Per Bataille, invece, la posta in gioco del sacrificio non è, come per Mauss e per Durkheim, la governamentalizzazione dello Stato: l’interiorizzazione della dialettica sacrificale nel processo di valorizzazione capitalistica per la promozione del patto sociale, la redistribuzione dell’utile come contropartita al sacrificio delle vite dei lavoratori. La posta in gioco è l’istante sovrano della comunicazione, senza salvezza né trascendenza, al di là non solo di qualunque meccanismo di identificazione collettiva – Patria, Chiesa, Nazione, Stato – ma della propria identità individuale. Comunicazione tra esseri spogli di identità che, attraverso il rito vittimario, penetrano in una dimensione sacra di immanenza cancellata progressivamente dalla storia con il processo di desacralizzazione moderna. Nel saggio La part maudite del 1949, Bataille tenta di spiegare le ragioni profonde della dépense a cui risponde il principio del sacrificio. Dopo venti anni di ricerca in collaborazione con il fisico Georges Ambrosino, ipotizza una fisica del dono a partire dalla riflessione sull’energia solare che irradia senza contropartita20. A un’economia generale dell’universo, fondata sulle leggi del dispendio solare, contrappone un’economia ristretta dell’individuo fondata sul criterio dell’utile. In tal modo, il capovolgimento morale auspicato in vista di una modifica nell’uso delle risorse – transfert di ricchezze senza contropartita – trova la sua origine nella natura fisica del dispendio improduttivo che attraversa il vivente e ne altera il bisogno di conservazione. Finalizzando invece il valore umano alla produttività, la Modernità pone in atto un rovesciamento economico e morale a cui contribuisce la Riforma Protestante, come intuisce Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo21. Bataille riconosce a Weber il merito di avere individuato le origini della desacralizzazione proprio nel legame instauratosi tra capitalismo e cristianesimo protestante. Attraverso la critica alle opere sante – centro propulsivo dell’economia medievale nelle forme dispendiose della sacralità – il calvinismo ha agito da collante delle nascenti forme di organizzazione sociale fondate sull’individualismo proprietario, sull’accumulazione e sul lavoro inteso come vocazione – Beruf – ascesi intramondana, fine salvifico dell’esistenza. Assunte le tesi weberiane, Ba20 21

Ivi, p. 41. M. Weber, Protestantesimo e spirito del capitalismo (1920-1921), a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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Genealogie del presente

taille evidenzia, quindi, come l’etica calvinista decida la determinazione religiosa del capitalismo, ne informi la struttura cultuale che non purifica il credente ma piuttosto «crea colpa / debito»22 a suo carico – usando l’espressione di Walter Benjamin – attraverso la conduzione disciplinata di una prassi finalizzata alla produzione e basata sulla rinuncia al godimento dei beni e sulla dilazione del desiderio per la grazia divina. È a questo punto della storia moderna del pensiero occidentale che la nozione di sacrificio subisce una ri-articolazione decisiva, dal momento che la sua logica debitoria / creditizia è messa a frutto nell’apparato capitalista in direzione del concetto di ascesi intramondana. In realtà, la logica del sacrificio arcaico – implicante l’estinzione del debito per mezzo del rito – è già profondamente modificata dall’irruzione del cristianesimo, che introduce il concetto di Dio trascendente mediato dal Verbo incarnato il cui sacrificio permette la salvezza delle anime. Il fedele partecipa, infatti, spiritualmente della morte per poter conservare in eterno la vita: questa partecipazione spirituale è resa possibile dal processo di transustanziazione operante nel sacramento dell’Eucarestia, per cui il fedele assume l’ostia in cui pane e vino si convertono nel corpo e nel sangue di Cristo. Tale rito introduce un meccanismo di colpevolizzazione / indebitamento che di per sé indica l’impossibilità simbolica del saldo in questa vita: l’impossibilità del riscatto del debito associato alla colpa originaria. È qui che, accanto alla matrice teologico-politica della sovranità definita da Thomas Hobbes e da Carl Schmitt, implicante una modalità repressiva del potere a garanzia della vita, entra in gioco il paradigma teologicoeconomico dell’oikonomia, enucleata da Foucault nelle sue ricerche sul pastorato cristiano. Elaborata dai Padri nel II secolo d.C. per designare l’Incarnazione – la mediazione salvifica che unisce Dio al mondo – questa nozione assume un significato strategico nell’ambito del capitalismo fordista proprio in virtù del suo dispositivo trinitario che, attuando la mediazione dell’Uno con la pluralità, rende visibile una manifestazione di verità altrimenti invisibile23. Da tale articolazione pragmatica deriva, infatti, l’esercizio di un potere economico, finalizzato a uno scopo immanente all’esercizio del potere stesso, che la scienza sociale secolarizza e installa 22 23

W. Benjamin, Capitalismo come religione (1921), a cura di C. Salzani, Il Melangolo, Genova 2013. Cfr. E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011. Cfr. M. J. Mondzain, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo (1996), Milano, Jaca Book 2006. Cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Milano 2007.

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in modo permanente nella sfera giuridica dello Stato sovrano. Sotto la spinta governamentale del socialismo riformista che, come si è detto, include i lavoratori nel processo di valorizzazione del capitale, il capitalismo, da culto individuale, diventa perciò culto collettivo in vista della salvezza/benessere. Ed è proprio sulle basi di questo grande progetto riformista che si verifica, a partire dal secondo dopoguerra, un lungo periodo di transizione storica durato circa trenta anni negli Stati Uniti e in Europa, denominato Welfare State, che sospende temporaneamente il meccanismo di illimitato indebitamento promosso dal capitale. In quanto gestore della cosa pubblica, il Welfare intraprende, infatti, un’azione di governo economico che compensa il sacrificio dei lavoratori mediante l’erogazione di servizi e diritti sociali24. Ma l’avvento del neoliberalismo, alla fine degli anni Settanta, segna l’arresto di questo processo di regolazione e introduce un salto epistemico nella razionalità politica moderna che ne porta a compimento la logica sacrificale. Non solo, infatti, la svolta neoliberale decide lo smantellamento del Welfare, dettando le condizioni politiche per la sua progressiva conversione in Debtfare. Ma porta alle estreme conseguenze la logica teologicopolitico-economica da cui pure si congeda, tenuto conto del dispositivo strategico di impresa25 e dell’imperativo al godimento in cui si identifica come forma di vita. In effetti, i dispositivi neoliberali di autogoverno e agency individuale dispiegano la tecnologia politica e morale dell’assicurazione adottata dal Welfare, anche se ora ai diritti si sostituiscono i crediti26. Questa tecnologia di governo, implicante «il fatto di condurre una vita come un’impresa»27, è chiamata in causa dalla scuola americana di Chicago, alla fine degli anni Ottanta, nella nozione di “capitale umano”28. Costruire il proprio capitale umano vuol dire soggettivarsi capitale, imprenditore di sé, soggetto economico che si assume il rischio dei costi e dei benefici derivanti dagli investimenti per il proprio potenziamento, privatizzato e monetizzato

24 25 26 27 28

Cfr. M. Esposito, Capitalismo e teologia economica. Dal capitale vivente del Welfare al capitale umano in A. Tucci, (a cura di) Disaggregazioni. Forme e spazi di governance, Mimesis, Milano-Udine 2013. P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2012. F. Ewald, L’État Providence, Éditions Grasset, Paris 1986, p. 180. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (197879), Feltrinelli, Milano 2005.

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Genealogie del presente

nel circuito finanziario del capitalismo contemporaneo29. Quindi non è più l’azione governamentale dello Stato che informa l’economia, ma la norma imprenditoriale del mercato che determina la decisione dello Stato. La governamentalità neoliberale, in quanto razionalità politica, fornisce un regime di verità per soggettivazioni aderenti a queste forme di responsabilizzazione30. La crisi attuale del debito sovrano degli Stati, prodotta dal salvataggio dei titoli subprimes, evidenzia quindi il nesso non pienamente esplicitato che unisce le politiche neoliberiste del debito alla semantica sacrificale moderna. Ciò si spiega alla luce della persistenza nel lessico contemporaneo della matrice teologica dell’economia che, come forma di esercizio del potere31, si struttura intorno alla relazione tra debitori e creditori, antecedente a quella tra produzione e lavoro. È quanto mostra lo studio fondamentale di Hubert e Mauss che individua nel sacrificio la forma di un contratto32, il punto originario in cui l’economia si salda alla religione per diventare liturgia, norma sociale. Nella retorica neoliberale della crisi, il sacrificio richiesto dagli Stati per il risanamento dei conti pubblici in Europa è un effetto della liturgia del ‘debito’ che il soggetto ha il dovere di assumere su di sé, in linea con il meccanismo di indebitamento generato dal capitalismo e la logica di assunzione dei costi-benefici messa in moto dal postulato imprenditoriale dell’economia finanziaria. Laddove, nel fordismo, la posta in gioco dell’appropriazione capitalistica è il surplus del lavoro – la vita del lavoratore in fabbrica – nel post-fordismo la posta in gioco è la vita nuda del soggetto. La differenza con il postulato sovrano della legge è che, in questo caso, il meccanismo di rinuncia generato dalla norma neoliberale non è a garanzia della sicurezza della vita, ma paradossalmente a garanzia della libertà di impresa che in un circolo vizioso imprigiona e svuota la vita del soggetto. Tuttavia se, come scrive Judith Butler, «l’assoggettamento […] consiste proprio in questa forma di dipendenza originaria da un discorso che non abbiamo la possibilità di scegliere ma che, paradossalmente, fonda – e incoraggia – la nostra capacità di agire»33, è dentro lo spazio della governan29 30 31 32 33

Cfr. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, cit. Cfr. L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2013. Cfr. R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. Hubert, Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, cit., p. 305. J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 41.

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ce neoliberale, dentro la sua rete diffusa di poteri tecnocratici e finanziari, che si coglie la possibilità concreta di un’azione per il posizionamento del conflitto e della rivendicazione democratica34. Da questo dipende la nostra possibilità di azione. Non essendo già costituito, ma essendo da costituirsi, è solo facendo i conti con la soggettività neoliberale – attraverso il principio indecidibile della negoziazione – che il soggetto politico si forma aprendo lo spazio della democrazia. Vedi anche: Bene comune, Povertà, Società

34

Cfr. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, cit.

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MAURIZIO RICCIARDI

SOCIETÀ Potere, dominio, ordine

Alla voce società si trova di solito società civile. La struttura inventata alla fine del Settecento1 è così attualizzata nella più completa indifferenza rispetto ai discorsi disciplinari delle scienze sociali che l’hanno determinata anche come concetto politico. Dall’inizio del XIX secolo, infatti, un vasto sistema di dottrine politiche del sociale s’incarica di descrivere soggetti, processi e situazioni che stabiliscono la società come astrazione normativa. All’interno di questi discorsi il concetto di società si emancipa progressivamente dall’aggettivo civile, nonostante quest’ultimo ricompaia significativamente nei momenti in cui si vuole individuare un ambito normativo autonomo in grado di riarticolare l’utopia politica della modernità2. La politica degli aggettivi rivela che il sostantivo può non arrivare a veicolare un senso condiviso. La semantica della società non è unitaria, ma lascia costantemente affiorare le divisioni che l’attraversano e i tentativi costanti di nominarle per dominarle o approfondirle. Indicativa è la polisemia che in Marx investe il termine bürgerlich che, mentre sembra ripetere la lezione classica della società civile, rivela il predomino ormai raggiunto dai ceti borghesi al suo interno. D’altra parte, per Marx l’unico aggettivo adeguato dovrebbe essere “capitalistica”, il solo in grado di identificare il tempo storico della società. Affermare il carattere postmoderno della società3 rischierebbe così di non cogliere che essa è solo ed esclusivamente un’emergenza moderna e che ogni lotta attorno alla sua definizione è una lotta attorno all’affermazione o alla contestazione della modernità. La politica degli aggettivi raggiunge 1 2 3

Cfr. K.M. Baker, Enlightenment and the Institution of Society: Notes for a Conceptual History, in S. Kaviraj, S. Khilnani (a cura di), Civil Society. History and Possibilities, Cambridge U.P., Cambridge 2001, pp. 84-104. Cfr. J.L. Cohen, A. Arato, Civil Society and Political Theory, MIT Press, Cambridge, Mass.-London 1992. Cfr. N. Luhmann, Why Does Society Describe Itself as Postmodern?, in «Cultural Critique», 30, 1995, pp. 171-186.

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Genealogie del presente

la sua massima tensione a proposito dell’aggettivo “sociale” al quale, non a caso negli ultimi anni, si è affiancato anche in italiano “societario”. Mentre il primo accompagna movimenti e figure che in modi e misure diverse contestano la società, il secondo è sempre più utilizzato per specificare dinamiche e istituzioni che contribuiscono alla costituzione stessa della società. La complessità e la rilevanza del concetto di società, quindi, possono essere interamente colte solo grazie a una storia e teoria politica dei concetti sociali in grado di restituire la costitutiva sovrapposizione e intersezione tra quelli che altrimenti appaiono come gli ambiti separati del politico e del sociale4. Gli aggettivi della società, anche quando utilizzati come sostantivi5, sono un terreno sul quale si decide l’esito politico degli scontri costanti che costituiscono la società. Essi esprimono specifiche strategie storicosemantiche utilizzate per stabilire una politica unitaria della società, ovvero per neutralizzare il conflitto tra gli individui della società. Si tratta di strategie che pretendono di limitare l’azione statale, mentre ne prevedono la necessità e l’obbligatorietà. Allo stesso modo esse reclamano che all’interno delle relazioni societarie il dominio sia una sopravvivenza parziale o l’irruzione momentanea del passato nel presente. Poiché la forma di ogni relazione dovrebbe derivare da un’ideale uguaglianza tra individui formalmente liberi, il potere dovrebbe essere esclusivamente il governo della molteplicità di questi rapporti. La “politica della società” s’inscrive così all’interno di questa tensione tra il dominio negato e il potere necessario. Si tratta perciò di chiedersi quale effettivamente sia la politicità di questo collettivo particolare6 perché non è vero che, «se esiste una società, allora non è possibile alcuna politica»7. Nel 1992, Robert W. Connor è arrivato a descrivere la società civile come «l’idea del tardo XX secolo», assegnandole «il potere di superare le barriere geografiche e ideologiche e di raggiungere questioni riguardanti i valori che configurano le decisioni economiche, il ruolo dello Stato e la natura della sovranità e dell’autorità»8. Motivato dalla caduta dell’Unione 4 5 6 7 8

Cfr. M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Eum, Macerata 2010. Cfr. M. Ricciardi, La società senza fine. Storia, sociologia e potere della società contemporanea, in «Sociologia. Rivista Quadrimestrale di Scienze Storiche e Sociali», XLV, 1, 2011, pp. 67-79. Cfr. L. Kaufmann, D. Trom (a cura di), Qu’est-ce qu’un collectif? Du commun à la politique, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 2010. B. Latour, Changer de société. Refaire de la sociologie, La Découverte, Paris 2006, p. 362. National Humanities Center, The Idea of a Civil Society, Humanities Research Center, Research Triangle Park, North Carolina 1992, p. 1.

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M. Ricciardi - Società

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sovietica, tanto entusiasmo era il segno concreto del tentativo di tenere a distanza il potere dello Stato fino a intaccare il suo ruolo storico di monopolista politico. La società civile è la ripetizione di un gesto originario che limita l’autorità dello Stato a un ambito specifico e funzionale. Affinché quel gesto sia possibile deve affermarsi l’idea che la società possieda un suo ordine che comprende e legittima lo Stato. La storia della società deve, per così dire, ricostruire la propria genealogia, allontanando, se non proprio uccidendo, Thomas Hobbes per il quale l’esistenza della società è possibile solo grazie all’istituzione di un rappresentante sovrano in grado di impedire la ricaduta in un naturale stato di guerra tra tutti gli individui. Contro questa sistemazione Adam Ferguson opera una vera e propria cesura epistemologica. La natura umana, sapientemente utilizzata da Hobbes per immaginare e legittimare la storia dello Stato, diviene l’elemento storicamente originario nella genealogia della società. Proprio perché la società è l’espressione della natura umana è possibile fare ricorso alle sue forze contro la degenerazione politica. Al prezzo di una progressiva dissoluzione dell’individuale, ricondurre la natura in società consente di costituire un ambiente «sicuramente favorevole alla natura di ogni essere, [quello] in cui la sua forza aumenta»9. Con la sua tendenza strutturalmente espansiva la civil society conosce un progresso, dalla barbarie alla condizione di uomini civilizzati, e un’evoluzione che implica la sua segmentazione interna in diverse polished nations. La raffinatezza delle nazioni si esprime così all’interno di una semantica politica relativa alle leggi e al governo10. Il suo significato si è poi esteso alla produzione scientifica e letteraria, nonostante il tentativo consapevole di differenziarsi dallo straniero. Questa tensione verso la distinzione fino alla separazione connota l’intera semantica della società. La società come ordine, cioè quella società in cui l’ordine politico è possibile grazie all’ordine societario, non ascrive però ruoli né tanto meno nega l’esistenza di un conflitto costante e ineliminabile al suo interno. Essa si basa sulla valorizzazione di differenze che, proprio perché apparentemente casuali, contribuiscono alla costituzione stabile dell’ordine. Essa non nega quindi la subordinazione, ma ne fa l’effetto contingente del complessivo movimento societario. Ferguson coglie immediatamente che questa differenza di potere ha una precisa radice societaria che assume una forma politica. «In ogni società c’è una subordinazione dovuta al caso, indipendentemente 9 10

A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile (1767), Laterza, Roma-Bari 1999, p. 19. Cfr. ivi, p. 190.

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Genealogie del presente

dalla sua istituzione formale e frequentemente opposta alla sua costituzione. […] Questa subordinazione casuale, che attribuisce gradi diseguali di influenza, e che probabilmente deriva dalla distribuzione della proprietà o da altre circostanze, dà allo Stato la sua forma e ne fissa il carattere»11. A fronte di questa casualità viene però individuato un soggetto proprietario in grado di organizzare il movimento complessivo della società a partire dalla sua posizione e dalla sua attività. La costituzione proprietaria della società introduce un’importante variazione nella sua semantica storica. Da essa deriva, infatti, il principio della sua differenziazione interna. Il soggetto proprietario rappresenta lo specifico principio societario di individuazione. Ciò non significa che non siano presenti e attive altre differenze significative che identificano i singoli agenti societari. Significa piuttosto, in primo luogo, che il rapporto con la proprietà, soprattutto con la sua forma più universale, cioè con il denaro, rende possibile compensare o neutralizzare tutte le altre differenze. Ma significa anche che il rapporto proprietario diviene il modello secondo il quale vengono anche rappresentate le altre possibili forme di identità. La distanza con i ruoli ascritti finisce per essere rappresentata al massimo grado nella possibilità di accedere alla proprietà, che diviene così una sorta di scarto evolutivo nella storia dell’individuo, facendo sì che «ciò che egli chiama la sua proprietà diventi in certo modo parte di sé»12. La proprietà non è semplicemente un diritto esclusivo sancito dall’ordinamento giuridico. Essa stabilisce la centralità politica e la legittimità societaria di una specifica modalità di intendere l’individualità, l’unica in grado di fare ciò che la società non può fare, ovvero appropriarsi progettualmente del futuro. Il soggetto proprietario di Ferguson eccede ampiamente l’homo œconomicus al quale, riprendendolo dagli economisti neoclassici, Foucault ha assegnato tanta importanza. Esso non stabilisce la legittimità della “figura sociale” determinante in una certa epoca della società, come può essere stato l’imprenditore borghese, oppure successivamente il manager. Il soggetto proprietario è l’insieme di quelle figure che stabiliscono collettivamente la forma di produzione e riproduzione della società, avendo la possibilità continuativa di appropriarsi del “potere societario”. Esso stabilisce la necessità di un’appropriazione particolare dei beni prodotti in società. Proprio per questo la proprietà non è solamente l’esito dell’appropriazione di beni esterni, ma il paradigma stesso della costruzione moderna delle identità come qualcosa di proprio e intangibile, potenzialmente sempre minacciato dall’affermazione di altre identità. 11 12

Ivi, p. 125. Ivi, p. 13.

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Tre elementi costitutivi del discorso originario sulla società sono dunque destinati a ripresentarsi: il suo carattere politico, la subordinazione che esiste al suo interno e la centralità ineliminabile dell’appropriazione particolare o privata. Questo gesto originario viene ripetuto anche da Michel Foucault quando, alla fine della sua ricostruzione delle forme della governamentalità neoliberale, quasi come se fosse all’opera una rimozione, ritorna in maniera sorprendente al Settecento e ad Adam Ferguson, per negare la praticabilità della distinzione classica tra Stato e società. «L’idea di società è ciò che consente di sviluppare una tecnologia di governo a partire dal principio secondo cui il governo, per sua natura, è già sempre “di troppo” o in “eccesso” o, quanto meno, si aggiunge come supplemento a cui si può e si deve sempre chiedere se sia necessario, se sia utile a qualcosa»13. La tensione tra i poteri societari e quello politico è mediata nella figura della governamentalità, al punto che lo Stato diviene un’espressione di questa mediazione alla quale non è riconosciuta nessuna autonomia politica: lo Stato diviene una peripezia del governo. Allo stesso tempo, tuttavia, poiché la «società è un arcipelago di poteri differenti»14, si pone la questione di come essi interagiscano, di quale gerarchia interna li renda possibili, di come sia possibile che essi procedano senza rotture significative in una temporalità progressivamente sempre più ampia. In altri termini, se questo potere è esclusivamente mediazione o se la società che esso produce è abitata anche dal dominio. La concezione foucaultiana del “potere come società” risponde all’urgenza di indagarlo al di fuori del discorso giuridico, di metterne in luce il carattere smisurato piuttosto che la legalità. La convinzione che «viviamo in una società che sta smettendo di essere giuridica», perché «la società giuridica è stata la società monarchica»15, mira a cogliere il potere come contingenza invece che come esito di un rapporto. Questo potere sembra essere la traduzione governamentale della concezione del dominio proposta da Nietzsche, per il quale «il rapporto di dominazione non è un rapporto più di quanto non sia un luogo il luogo dove esso si esercita»16. La governamentalità foucaultiana sembra caratterizzata dal dispiegamento di questo dominio che, sotto il nome di potere, è 13 14 15 16

M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al College de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 263. M. Foucault, Le maglie del potere (1981), in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985: Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 155- 171, p. 160. Ivi, pp. 167-168. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici (1971), Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54, p. 40.

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Genealogie del presente

l’insieme di dispositivi che dissolvono la società come rapporto, sebbene assieme all’homo œconomicus essa sia chiamata a costituire l’insieme della tecnologia della governamentalità liberale. Il rigetto generalizzato degli universali come società, Stato, sovranità, soggetti consente all’azione universale del potere di fare della società una «realtà di transizione», senza rapporti costitutivi perché senza soggetti fondamentali. Diversamente dal soggetto proprietario, l’homo œconomicus non è un “soggetto sociale”, ma l’astrazione di una modalità dell’agire orientata interamente al mercato, per il quale l’interesse non esprime in nessun modo la connessione con altri individui, ma esclusivamente la coazione verso una completa individualizzazione. Tuttavia, poiché è proprio a questo punto che nella ricostruzione di Foucault ricompare inaspettatamente Adam Ferguson, ci dobbiamo chiedere se davvero la società possa essere concepita al di fuori della categoria di rapporto e come effetto di un gioco di poteri o se, come scrive Marx, «anche nel metodo teorico […] la società deve essere sempre presente come presupposto»17. Oggetto di rimozioni anche più potenti, il discorso marxiano permette di osservare il nesso tra potere e dominio nel momento in cui la società si presenta come fatto storico con una specificità politica. L’«elemento societario prodotto storicamente»18 rende infatti possibile una condizione di dominio grazie all’affermazione di determinate relazioni di potere, per le quali Marx usa occasionalmente il termine sovrastruttura, con un esplicito riferimento alle istituzioni politiche, giuridiche e culturali. Senza di esse non sarebbe possibile il dispiegamento del capitale in quanto «rapporto societario», ovvero in quanto «rapporto tra persone mediato da cose», che consente la distribuzione degli individui in gerarchie necessarie alla produzione stessa della società. Non c’è dubbio che per Marx il rapporto societario di capitale sia, nel senso letterale del termine, fondamentale, non perché esso sia l’unico a determinare la posizione degli individui, bensì perché stabilisce il nesso che li posiziona globalmente nell’ordine della società. È quest’ordine che deve essere necessariamente rappresentato come unità, perché grazie alle sue rappresentazioni gli individui concepiscono come unità quella che invece è una dissociazione delle posizioni. Il rapporto di capitale si presenta così come la risultante di simmetrie, sebbene in realtà stabilisca differenze e quindi non solo una politica della società, ma la possibilità di differenti politiche nella società. 17 18

K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1978, vol. I, p. 28. Ivi, p. 35.

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Questo distacco tra la disciplina degli individui e il risultato della loro azione è in definitiva la qualità veramente societaria di un rapporto di capitale che letteralmente consuma le relazioni tra gli individui. «Il carattere societario dell’attività, così come la forma societaria del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano qui come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti»19. La marxiana epistemologia dell’antitesi rivela così quella che per Marx è l’autentica cifra costitutiva della società, ovvero lo divisione degli individui in base alla differente possibilità di appropriarsi del prodotto societario. Il dominio marxiano è allo stesso tempo la subordinazione a determinate persone e la condizione di riproduzione del rapporto di capitale. In altri termini, esso non è determinato da una qualità personale e nemmeno dalla contingenza, ma dalla necessità sistemica che la produzione di società avvenga sulla base di una differenza nelle possibilità di appropriazione. Per questo il denaro è il vero presupposto della società, essendo quella quota di potere societario che ognuno si porta in tasca. Il dominio introduce nella costituzione universalistica della società una parzialità ineliminabile, che fa di quello societario un potere esercitato su tutti, quindi anche sui suoi detentori, ma necessariamente a vantaggio di alcuni. La specificità politica della società non è perciò la circolazione dei poteri, ma l’azione del dominio all’interno della generale cooperazione. Il dominio sulle forme della cooperazione rivela la presenza necessaria di una figura sovrana – il soggetto proprietario – che non è equiparabile a una mera funzione di governo. È la sovranità della società, ovvero il comando sulla cooperazione, a ridurre la funzione separata dello Stato a governo della società nel duplice senso del genitivo. A differenza dell’homo œconomicus, che è uno schema di riferimento universale per l’agire, il soggetto proprietario stabilisce un’esclusiva posizione di potere. Anzi, la circolazione dei poteri è possibile soltanto perché esiste questa figura sovrana che garantisce che essa avvenga in maniera ordinata e non casuale, facendo del governo l’ordine della società, ma anche evidenziando costantemente la scissione costitutiva della società medesima. Dal punto di vista storico è di fronte all’insubordinazione prodotta da questa scissione che l’azione amministrativa dello Stato diviene decisiva per l’esistenza stessa della società. Dopo il 1848 l’evidenza della scissione della società rende improponibile presentarla come una struttura storica 19

Ivi, p. 98.

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unitaria in grado di assimilare progressivamente tutte le sue differenze evolutive. Essa non è uno spazio omogeneo di soggettivazione, nel quale i non proprietari di oggi possano credibilmente aspirare a diventare i proprietari di domani. Paradossalmente la società scopre di aver bisogno di entrambe le figure e di dover costituire la propria unità preservandole entrambe. Il governo della società, ovvero l’amministrazione dello Stato, deve stabilire le basi affinché questa conflittuale convivenza possa trasformarsi in una cooperazione produttiva. Lo Stato diviene così il soggetto di un’azione amministrativa che è però interamente pensata a partire dalla società e dalla sua storia. L’amministrazione della scissione costitutiva della società diviene una necessità ineludibile della legittimazione politica. In altri termini lo Stato svolge la sua azione perché la costituzione della società non appare come completamente legittima. Lorenz von Stein, il più importante storico e teorico della società, coglie con precisione il problema nel nesso tra Stato e società20. Quella che appare come una separazione di ambiti e una definizione di ruoli si risolve nella constatazione politicamente dirompente che lo Stato dipende dai movimenti della società, mentre la persistenza della società è possibile solo grazie all’azione autonoma dello Stato. Il costante confronto con questo paradosso è storicamente il segno caratteristico del governo liberale e socialdemocratico della società. Il dibattito sul pauperismo che inizia alla fine del Settecento, il secolo di discussioni sulla questione sociale, che dal 1848 arriva fino alla seconda guerra mondiale, l’affermazione del welfare State che in parte si sovrappone alla questione sociale e che dalla fine dell’ottocento arriva fino ai nostri giorni, il confronto tra i sistemi liberali e quelli socialisti, tutti questi dibattiti e le relative misure amministrative si svolgono nel timore che si manifesti una tendenza societaria a raggiungere una «soglia di catastrofe»21. Non a caso essi avvengono sulla spinta di movimenti che si autodefiniscono sociali in opposizione alla società. Le lotte di questi movimenti sono il secolare e paradossale tentativo di rendere sociale la società. La società civile, infatti, definisce un ambito determinato da una specifica gerarchia interna che, come abbiamo visto, l’attributo civile esplicita nella maniera più evidente. Definirla civile, cioè come una struttura stabilmente in relazione con il proprio Stato, non è più sufficiente, perché i movimenti sociali rappresentano un’eccezione rispetto alle dinamiche previste. Anche se in maniera spesso indeterminata, lo scarto semantico-politico tra societario 20 21

L. von Stein, Stato e società (1850), trad. it. parziale, Giuffrè, Milano 1986. Cfr. N. Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 11.

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e sociale corrisponde a quello tra l’ordine della società e la spinta verso la disgregazione. Pur essendo prodotti al loro interno i movimenti sociali non sono completamente inscrivibili nelle dinamiche societarie. Essi non sono perciò solamente i cani da guardia della società che, abbaiando senza mai veramente mordere, segnalano i limiti occasionali di quell’ordine22. Essi non esprimono nemmeno problematiche che di per sé mostrano una qualche indeterminata tendenza “oltre la società”, ma riaprono la tensione costitutiva tra dominio e potere, rappresentando da questo punto di vista istanze immediatamente politiche. Essi sono una contraddizione interna alla società stessa che mette in questione sia la sua istituzionalizzazione statale sia la forma politica delle relazioni sociali. Questa stessa contraddizione si esprime anche nella condizione postcoloniale, nella quale la persistenza del dominio coloniale si accompagna all’affermazione di quello del capitale e alla proliferazione di poteri governamentali. Su questo terreno la semantica della società segnala un processo di politicizzazione che distingue la società civile da quella politica, in modo da individuare due spazi differenti, destinati a non sovrapporsi: il primo è abitato da cittadini, formalmente uguali, che possono utilizzare la loro posizione come forza normativa per introdurre ulteriori modificazioni nella loro condizione. In questo spazio è costantemente attualizzata la sovrapposizione concettuale tra società, nazione e popolo che emerge prima in Ferguson e poi in Sieyès. La società civile instaura dunque una relazione determinata con uno Stato che ha, di fatto, la funzione di istituzionalizzare una specifica cittadinanza societaria. Nella condizione postcoloniale, ormai condivisa da molti paesi un tempo colonizzatori, questo modello di cittadinanza non concerne però tutti gli individui23. Molti di loro ne sono stati e ne sono sempre più materialmente esclusi e sono costretti a cercare altre strade per l’affermazione di pretese che non trovano come controparte l’universalismo dello Stato, ma la specificità del governo. In questo ambito, che Chatterjee chiama società politica, trova dunque spazio sia il governo della popolazione sia una «politica dei governati». Si tratta di un ambito tutt’altro che spoliticizzato, perchè i soggetti che lo attraversano sono «politici in modo diverso da quello delle elite»24. Al di là delle criti22 23

24

Cfr. ivi, p. 164. Cfr. M. Ricciardi, Dallo Stato moderno allo Stato globale. Storia e trasformazione di un concetto, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», vol. XXV, n. 48, 2013, pp. 75-93, disponibile al link http://scienzaepolitica.unibo.it/ article/view/3891. P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006, p. 55.

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che suscitate da questa distinzione25, ciò che interessa qui rilevare è il fatto che essa complica la comprensione della società, mostrando che la stessa governamentalità neoliberale può esistere solo all’interno della tensione tra potere e dominio senza giungere a una sua risoluzione definitiva. La governamentalità neoliberale, infatti, nasce dalla difficoltà di mantenere il nesso costitutivo tra società e capitalismo, ovvero di confermare il capitalismo come struttura organizzativa della società. Essa si assume il compito di relativizzare fino a negarle tutte le pretese avanzate a partire dal carattere universale della società. Qui, di conseguenza, il problema della società è tolto e gli individui non ricoprono ruoli sociali che li rendono cittadini. La società non è più la società degli individui, ma quella dei titolari di capitale che investono se stessi in quanto tali. Gli individui sono letteralmente “capitale umano”26. Le persone stesse diventano le “cose”, che nella definizione marxiana del capitale funzionano come mediazione tra di loro. Questa reificazione globale del rapporto societario dissolve la società come problema, sebbene non il fatto che il capitale continui a darsi paradossalmente come rapporto. Non siamo però di fronte a una sorta di evoluzione lineare e globale dal liberalismo al neoliberalismo, dal governo liberale della società alla governamentalità neoliberale. L’individuo allo stesso tempo uguale e differente, che è il problema costantemente irrisolto della società27, giunge qui al massimo grado della sua evanescenza. Di conseguenza, lo Stato può diventare una funzione repressiva per ogni scostamento dall’uso profittevole del capitale umano. Nella governamentalità neoliberale il disciplinamento non è una funzione politica complessiva della società, ma l’opera di selezione degli individui. La differenza fondamentale con i classici processi di disciplinamento che hanno accompagnato la costituzione stessa della società consiste nel fatto che non vengono più addestrate particolari caratteristiche fisiche e comportamentali, ma letteralmente selezionati gli individui adatti alla loro valorizzazione come capitale. Eppure il governo della società non viene cancellato dal dispositivo della governamentalità neoliberale. I due processi s’intrecciano e procedono contemporaneamente e spesso contraddittoriamente, anche perché la seconda continua a utilizzare il primo come proprio supplemento utile e necessario per una legittimazione altrimenti sempre manchevole. Non sia25

26 27

Cfr. A. Gudavarthy (a cura di), Re-framing Democracy and Agency in India. Interrogating Political Society, Athem Press, London-New York-Dehli 2012, in particolare R. Samaddar, The Politics of Political Society, p. 125-153 e P. Chatterjee, The Debate over Political Society, pp. 305-323. Cfr. G.S. Becker, Il capitale umano (1993), Laterza, Roma-Bari 2008. Cfr. N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna 1990.

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mo dunque di fronte all’ennesimo post, ovvero in questo caso a un’epoca postsocietaria. La società persiste e rende costantemente possibile la sua negazione pratica. Anche nell’epoca della governamentalità neoliberale agisce perciò quello che possiamo chiamare il feticismo della società. Se la società è uno «spazio geografico socialmente gerarchizzato»28, i processi di classificazione, declassificazione e riclassificazione che avvengono al suo interno non sono possibili senza che esista la rappresentazione condivisa che quello spazio non contiene barriere e confini insormontabili. Se ciò avvenisse, infatti, il concetto di classe verrebbe sottratto alla sua semantica descrittiva di una geografia societaria in continua trasformazione per assumere una valenza immediatamente politica. «Ma la dialettica del declassamento e della riclassificazione è in grado di funzionare anche come un meccanismo ideologico», che «tende a imporre ai dominati, soprattutto se comparano la loro condizione presente a quella passata, l’illusione che basta attendere per ottenere ciò che invece non otterranno che lottando»29. La forma ideologica della società stabilisce costantemente la priorità dell’inclusione a partire dal riconoscimento del limite della singola prestazione. Il trionfo della società è il suo presentarsi come lotta per il pluralismo delle posizioni societarie piuttosto che per le modalità materiali di erogazione delle prestazioni. Questo è il feticismo della società, ovvero il fatto che l’ordine della società sia indiscutibile come unità necessaria al punto che la lotta viene limitata alla redistribuzione dei ruoli sociali, alla legittimità nella socialità di determinati comportamenti, eludendo completamente la questione della produzione della società medesima. Esso restituisce la società come continuità, sottraendola alla sua contingenza storica. Non si tratta solamente dell’effetto di eternità prodotto dai discorsi che fanno della società il prototipo di tutte le forme sociali, l’effetto è piuttosto quello di renderla necessaria, così come è accaduto nelle cosiddette “società socialiste”. In questo caso il rovesciamento della società appare come il suo inveramento sistematico, impedendo di affrontare la questione della fine della società, ovvero dei rapporti storici che la costituiscono. Senza il feticismo della società non sarebbe possibile nemmeno la sistematica serie di inclusioni e di possibili esclusioni della società-mondo di Luhmann, per quanto la sua semantica della società si sottragga alla politica degli aggettivi30. La grande narrazione luhmanniana di un sistema 28 29 30

P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), Il Mulino, Bologna 1983, p. 127. Ivi, p. 170. Cfr. N. Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998, 2 voll.

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sociale che, mentre include in uno dei suoi sottosistemi, può sempre escludere da tutti gli altri, descrive con grande precisione la condizione globale di una società che con la sua inclusione produce disuguaglianze irrisolvibili. I sottosistemi nei quali si articola la società-mondo luhmanniana, però, non stabiliscono solo delle differenziazioni funzionali, non sono cioè solo la garanzia di un’inclusione almeno parziale. Ciò sarebbe vero solo se essi rappresentassero degli accessi contemporanei a delle possibilità d’azione. Solo in questo caso, infatti, chi per esempio è escluso dalle norme giuridiche che regolano l’accesso alla cittadinanza potrebbe essere effettivamente risarcito dall’inclusione sul piano economico, magari lavorando in nero come migrante clandestino31. Tanto l’accesso ai diversi sottosistemi quanto il loro funzionamento sono dominati da tempi diversi e peculiari che stabiliscono anche la posizione specifica di coloro che sono esclusi proprio in forza della loro parziale inclusione. Quella che, guardando alla società come sistema sociale, appare come una manifestazione della sua complessità, per chi deve transitare tra i diversi sottosistemi e deve pagare i costi di transazione per ogni passaggio al quale è obbligato, si risolve invece nella manifestazione di un dominio sistematico del quale il potere politico non riesce a nascondere il fondamento societario. D’altra parte la finanziarizzazione dell’economia che caratterizza la società-mondo è comprensibile solo a partire dalla crescita esponenziale del potere societario del denaro, ovvero della sua tendenza storica a divenire l’unico vincolo societario, sostituendosi alle mediazioni della società come complesso. Vedi anche: Destra/Sinistra, Popolo, Povertà

31

Cfr. S. Mezzadra, M. Ricciardi, Introduzione a S. Mezzadra, M. Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, ombre corte, Verona 2013, pp. 7-28.

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VALERIA PINTO

TRASPARENZA Una tirannia della luce

Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo

1. «Senza trasparenza non c’è democrazia, né può esserci […]. Dalla trasparenza dipende consentire l’esistenza di un sistema che funzioni senza intoppi. C’è bisogno di trasparenza al centro, ma altrettanto, anzi forse anche di più, alla base, dove vivono e lavorano le persone». Così, nel discorso al congresso del Partito Comunista del 25 febbraio 1986, Michail Gorbaciov annunciava di fatto la fine della divisione del mondo in blocchi contrapposti. Di lì a qualche anno, la caduta del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie sotto la cupola di acciaio e cristallo del rinnovato Reichstag avrebbe dato forma e figura all’unificazione del «mondo dentro il capitale». In certo senso giungeva così a compimento il progetto del Crystal Palace dell’Esposizione universale di Londra: la «forma architettonica vigente e profetica del XIX secolo che venne immediatamente copiata in tutto il mondo», dove «era contenuto il riferimento a un capitalismo integrale, orientato all’esperienza e popolare», e in cui «era in gioco niente di meno che il totale assorbimento del mondo esterno entro uno spazio interno completamente calcolato»1. A Fëdor Dostoevskij, che lo visitò nel 1862, suscitò questi pensieri: Tutte le azioni umane, va da sé, saranno allora calcolate secondo queste leggi, matematicamente, come una tavola di tabella di logaritmi fino a 108.000, e inscritte nel calendario; o, meglio ancora, compariranno pubblicazioni benpensanti, sul tipo degli odierni dizionari enciclopedici, in cui tutto sarà enumerato e segnato in modo così preciso che nel mondo non ci saranno più né azioni né avventure. – Appunto allora […] verranno dei nuovi rapporti economici, bell’e 1

P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2006, p. 227.

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Genealogie del presente

pronti e anch’essi computati con matematica esattezza, sicché in un attimo spariranno tutti i problemi possibili, appunto perché se ne avranno tutte le possibili soluzioni. Allora si costruirà un palazzo di cristallo. Allora... Be’, insomma, allora giungerà in volo l’Uccello Kagàn […]. – La volontà si accorderà perfettamente con la ragione […], si potrà davvero compilare una specie di tabella, in modo che effettivamente si voglia secondo questa tabella […]; e [potremo] calcolare tutta la […] vita in anticipo per i prossimi trent’anni; in una parola, se ci si organizzerà, a noi non resterà nulla da fare2.

Trasferirsi a vivere all’interno delle cose superando il loro muto e chiuso stare di fronte è il sogno per eccellenza del soggetto della metafisica: l’unità delle forme della conoscenza con il materiale dato è identica alla pretesa che «il buio del caos si illumini, manifesti la sua vera natura grazie alle luce delle forme che lo comprendono adeguatamente e sia redento grazie alla trasmutazione in luce». La cifra di questo soggetto è la certezza di non essere nulla di esteriore, la certezza di sé come pura interiorità: non dunque un corpo opaco ma appunto un se stesso «capace di produrre verità dentro di sé e venire alla luce»3. Se così è, oggi questo antico sogno della luce e della trasparenza sembra essersi più che realizzato. Non solo, infatti, non vi è più alcun segreto metafisico da strappare alla natura, ma più in generale o più fondamentalmente non vi è alcun essere, alcuna sostanza che opponga resistenza alla volontà di luce di quella che Peter Sloterdijk chiama «ragione cinica» o più precisamente «falsa coscienza illuminata»4. Quasi un secolo fa Max Weber osservava che nell’epoca in cui la ragione opera professionalmente come ragione scientifica e «i grandi istituti per gli studi di medicina e di scienze naturali» sono imprese «capitalistiche dello Stato» (due cose che chiaramente non sono distinte o solamente concomitanti), il rischiaramento che la ragione può offrire consiste in «nozioni sulla tecnica per padroneggiare la vita mediante il calcolo, rispetto agli oggetti esterni e rispetto all’azione umana»5. Ciò non significa, tuttavia, che attraverso questo rischiaramento il mondo divenga più trasparente. Un «selvaggio», osservava Weber, abbraccia e controlla più facilmente e compiutamente il materiale della sua esistenza che non l’uomo appartenente a una «cultura 2 3 4 5

F.M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo (1864), Einaudi, Torino 1945, pp. 25, 28. G. Lukács, Die Subjekt-Objekt-Beziehung in der Ästhetik, in Id., Frühe Schriften zur Ästhetik, Luchterhand, Neuwied 1971, vol. I, p. 36. Cfr. P. Sloterdijk, Critica della ragione cinica (1983), a cura di A. Ermano e M. Perniola, Raffaello Cortina, Milano 2013. M. Weber, La scienza come professione (1917), in Id., Il lavoro intellettuale come professione, a cura di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1966, pp. 8, 35.

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V. Pinto - Trasparenza

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superiore». Anche gli oggetti d’uso più quotidiani e familiari – dai tablet ai cellulari alle carte di credito alla stessa rete – ci sono in realtà sconosciuti. Siamo abituati a fare affidamento su quelle che per la nostra esperienza immediata sono qualità occulte. L’inaccessibilità della tecnologia di un oggetto e l’amichevolezza della sua interfaccia sembrano anzi vieppiù proporzionali: Più il nuovo gadget (smartphone o minuscolo portatile) che tengo in mano diventa personalizzato, facile da usare, “trasparente” nel suo funzionamento, più l’intero sistema deve basarsi sul fatto che il lavoro viene fatto altrove, nei vasti circuiti di macchine che coordinano l’esperienza. Per poter gestire un cloud, una “nuvola”, ci dev’essere un sistema di monitoraggio che ne controlla il funzionamento, un sistema che per definizione è celato all’utente finale. In altre parole, affinché l’esperienza dell’utente diventi più personalizzata o non alienata, essa deve essere regolata e controllata da un sistema lontano6.

Nonostante questo, però, noi ci muoviamo sul tacito presupposto di una virtuale trasparenza del nostro mondo. In certo senso tutto ci è ignoto, tutto ha la segretezza del prodigio, ma – a differenza che per il selvaggio weberiano – il nostro è un mondo privo di misteri. Tutti i prodigi che ci circondano sono secondo noi fatti calcolabili, verificabili, razionalmente argomentabili. Ancora Weber: Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea [...] di come la vettura riesca a mettersi in moto. Né, d’altronde, ha bisogno di saperlo. Gli basta poter “fare assegnamento” [rechnen] sul modo di comportarsi di una vettura tranviaria, ed egli orienta in conformità la propria condotta; ma nulla sa di come si faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto […]. La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa bensì qualcosa di diverso: la consapevolezza o la fede che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione7.

Razionalizzazione significa quindi che chiunque, se solo lo volesse, potrebbe in ogni momento verificare, controllare, accertare l’obiettività dei fatti. Nessuna iniziazione, nessuna sapienza misterica e verticalità aristocratica. Questa è – sempre di più – la peculiarità democratica della scienza: la trasparenza, il carattere essoterico di un sapere che si offre a chiunque voglia impadronirsene e sul quale chiunque può fare assegnamento. 6 7

S. Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Salani, Milano 2012, p. 15. Weber, La scienza come professione, cit., pp. 19-20 (trad. modificata).

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Genealogie del presente

Il Crystal Palace nel 1854

2. Si potrebbe osservare che la nuova orizzontalità democratica ha una trasparenza alquanto beffarda, se è vero che il sapere per tutti uguale e a tutti reso accessibile resta nella indisponibilità di tanti. Ma non è questo, qui, l’aspetto più importante. Più importante è non perdere di vista il lato impositivo del sapere sul quale tutti possono contare. Una razionalità strategica che, prima ancora di fare assegnamento, essa stessa assegna. Che non attende ma pretende, matematicamente anticipa (secondo l’essenza stessa della mathesis) la regolarità prevista. Al punto da esser ben in grado di «fare a meno del senso entro le cose» perché ha tutta la forza per organizzarsene «un pezzetto»8. E questa forza la fa valere come l’unico comportamento sensato: il «comportamento atomistico dell’homo oeconomicus», per il quale un esatto quadro dei propri interessi è «la sola isola di razionalità possibile»9. Certo, nessuna matematica e razionalizzazione può assicurare che il tram arriverà a destinazione o che il pilota porterà l’aereo

8 9

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss., vol. VIII, tomo II, pp. 26-27. M. Foucault, Nascita della biopolitica: corso al Collège de France (1978-1979), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, p. 231.

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all’atterraggio anziché contro un edificio per distruggerlo. Anche nell’agire razionale il tornaconto di ciascuno potrebbe contemplare più varianti del previsto. E in ogni caso resta sempre possibile «volere anche contro il proprio vantaggio, anzi talvolta si deve positivamente farlo»10. Eppure non si può fare a meno di avere fiducia, di dare credito. L’intero «nostro relazionarci è un’economia di credito, il cui lato economico, a paragone del resto, è di estensione assai piccola». Sempre più tutte le nostre relazioni si basano su aspettative, sul sapere in anticipo. «Il meccanismo della vita pubblica al pari di quello della vita privata […] si fermerebbe istantaneamente se ciascun individuo non si fidasse di esso con assoluta sicurezza»11. Ma nessuna fiducia né economia del credito sarebbe possibile se l’animale divenuto capace di calcolare e prevedere – capace di scienza – non fosse al contempo divenuto l’animale capace di fare promesse12, segnato da una volontà duratura e affidabile. L’oggettività della condotta di vita, la sua uniformità e stabilità, non è infatti «un tratto che si aggiunge all’intelligenza ma la sua stessa essenza […], l’unico modo accessibile all’uomo di conquistare un rapporto con le cose che non sia succube della casualità del soggetto»13. In questo basilare disciplinamento, le pratiche di scambio ed equivalenza esercitano un’efficacia impareggiabile. «Il commercio rappresenta una grande elevazione sull’originaria indifferenziata soggettività dell’uomo [...]. L’oggettività del comportamento reciproco degli uomini giunge nel caso degli interessi puramente economico-monetari alla sua più esaustiva espressione»14. Imparziale, libero da pathos e carattere, il denaro offre alla matematizzazione dell’accadere e dei comportamenti – al calcolo totale del contare e poter contare – un formidabile dispositivo governamentale. «Ciò che la finanziarizzazione mette in gioco non è più l’applicazione immediata 10 11 12

13 14

Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, cit., p. 26. G. Simmel, Über Freiheit (1922), in Id., Gesamtausgabe, a cura di O. Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989 ss., vol. XX, p. 87. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), in Id., Opere, cit., vol. VI, tomo II, p. 256: «Per disporre anticipatamente del futuro in tal modo, quanto [l’uomo] deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso – quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione, per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa una promessa!». G. Simmel, Philosophie des Geldes (1900), in Id., Gesamtausgabe, cit., vol. VI, p. 599. Ivi, pp. 600-601.

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Genealogie del presente

del potere sovrano ma la direzione dell’insieme dei comportamenti umani»15. In particolare, la convenzione, che fa leva sulla tendenza mimetica delle aspettative, offre stabilità e continuità agli affari attraverso un trasparente «sistema di valutazione a priori»16, che non consiste in altro se non «nel supporre che lo stato di cose esistenti continuerà indefinitamente […], fino a quando possiamo confidare che la convenzione sarà mantenuta»17. Ne viene al denaro un potere di conduzione delle condotte superiore a qualsivoglia comando e ingiunzione. Esso infatti non limita, ma alimenta la libertà di condotta degli individui, alimentando insieme anche il controllo e la sicurezza: l’assoluta libertà del potere disporre del denaro esige una sicurezza parimenti assoluta, che ciascuno reclama in quanto su di essa riposa per ciascuno la libertà del poter disporre. Così, per un verso, nel denaro si ha a che fare con una mera promessa di valore, che respinge ogni sostanzialità e presenza, un puro credito senza garanzia che la sua pretesa sarà soddisfatta, sicché a rigore «ciò che abbiamo nelle mani è importante solo in rapporto al futuro»; per altro verso, però, «si tratta anche di un potere autentico, perché abbiamo la completa certezza della realizzabilità di questo futuro»18, alla cui garanzia è chiamato il potere pubblico19. «Non Aes sed fides» recavano incise le antiche monete di Malta: il potere del denaro, l’essere certo del denaro – che è il suo stesso essere – non è niente di diverso da questa certezza nella capacità dell’organizzazione economica di garantire che «il valore ceduto dietro il valore intermedio ricevuto, la moneta, verrà sostituito senza perdita»20. Certo, in ogni impresa economica è sempre necessaria una quota di fiducia, un’aspettativa senza la quale nessuno seminerebbe un campo o acquisterebbe una partita di merce, insomma una «forma debole di sapere induttivo»21. Ma che il campo dia frutti o che la merce si venda non dipende dalla fiducia. L’essere del denaro, invece, il suo valere, dipende interamente dalla fiducia che si ha nel suo potere valere: anzi, le due cose coincidono al punto che qui la “materia” può interamente scomparire. La fiducia, nel denaro, assume così direttamente il carattere della fede, della fede religiosa in un senso molto specifico: quello per il quale l’essere di ciò in cui si crede coincide interamente 15 16 17 18 19 20 21

S. Lucarelli, La finanziarizzazione come forma di biopotere, in A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, ombre corte, Roma 2009, p. 146. Ibid. Cfr. anche M. Surya, De l’argent. La ruine de la politique (2000), Payot & Rivages, Paris 2009. J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), a cura di T. Cozzi, Utet, Torino 2006, p. 283. Simmel, Philosophie des Geldes, cit., p. 315. Cfr. ivi, p. 224. Ivi, p. 215. Ivi, p. 216.

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con il fatto di credere in esso, non ha bisogno di un’esistenza indipendente rispetto all’esistenza di questo credere. Perciò anche la promessa del denaro non delude mai. Negli adombramenti intrinseci al darsi di tutte le cose si nasconde sempre la possibilità di una disillusione, perché è sempre possibile che ciò che esse promettono finisca col rivelarsi un inganno. Al denaro invece «non è possibile ciò che riesce anche all’oggetto più misero: nascondere sorprese o delusioni. Chi vuole realmente e definitivamente solo denaro è assolutamente al sicuro da esse»22. La sua sicurezza è il darsi privo di adombramenti di ciò che non ha materia né spessore: è la trasparenza – senza l’ostilità di un “fuori” – del capitalismo integrale: il totale assorbimento del mondo esterno entro uno spazio interno completamente calcolato. 3. Con questo tocchiamo un punto di giunzione essenziale. La convinzione che non vi siano condizioni di vita che non possano non essere rischiarate, la convinzione che tutte le azioni e le rappresentazioni future degli altri possano essere sempre rese trasparenti e prevedibili e che servano a illuminarci in scelte e azioni sempre più responsabili, è una convinzione direttamente necessaria alla tenuta di un mondo risucchiato nella compiuta «immanenza del potere d’acquisto»23. Questo è oggi l’ambito di provenienza del principio della trasparenza, ovunque reclamato e materia di un’impressionante mole di provvedimenti legislativi. Così non sorprende, ad esempio, che la trasparenza venga chiamata in causa da subito nel processo di unificazione monetaria dell’UE, al fine di offrire un quadro istituzionale e normativo in grado di creare e attivare «mercati di capitale di rischio» all’altezza degli stock market statunitensi. Uno dei protagonisti di questo processo ne descrive perfettamente il ruolo centrale all’incrocio tra politica monetaria, teoria dei giochi e teoria della scelta razionale: La stessa politica monetaria ha un interesse alla trasparenza, un interesse alimentato dalla crescente consapevolezza dell’attinenza alla teoria dei giochi del meccanismo della trasmissione […] nonché da un filone di ricerca accademica che mette in evidenza l’importanza delle aspettative razionali. La comunicazione è perciò diventata uno strumento indispensabile per migliorare la trasmissione della politica monetaria gestendo le aspettative nei mercati finanziari e guidando il comportamento dei salari e di altri fattori di determinazione dei prezzi24. 22 23 24

Ivi, p. 316. Si tratta appunto della medesima struttura della certezza della fede delucidata da G. Simmel in Das Problem der religiöse Lage e altri saggi (cfr. in part. Id., Gesamtausgabe, cit., vol. 14, pp. 367-384). Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 228. T. Padoa-Schioppa, The Euro and Its Central Bank. Getting United after the Union, The MIT Press, Cambridge Mass., London 2004, p. 115. Cfr. anche D.

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Genealogie del presente

A scala più ampia sono le grandi istituzioni mondiali (World Bank, Fondo monetario, Ocse...) ad agitare il tema e a spingere, secondo le linee programmatiche del neo-istituzionalismo, per l’adozione generalizzata di norme capaci di costruire un ambiente favorevole al mercato e alla concorrenza. È a questo livello che la trasparenza diventa un référentiel globale. Nei Codici «delle buone pratiche nella trasparenza fiscale» e «sulla trasparenza nelle politiche monetarie e finanziarie» del FMI si ribadisce con enfasi che «nel rendere disponibile più informazione sulle politiche monetarie e finanziarie, le buone pratiche di trasparenza promuovono l’efficienza potenziale dei mercati»25. Nello stesso senso vanno le direttive della Banca Mondiale e le crociate anticorruzione della Transparency International (che nella Banca Mondiale affonda le sue radici), con i suoi indici di percezione della corruzione (CPI) e di propensione alla corruzione (BPI). I Principi e le Raccomandazioni Ocse in tema di «Public Sector Information», punto di riferimento anche in termini legislativi per le pubbliche amministrazioni del globo, hanno nella trasparenza il loro motivo guida. Alla loro ombra miriadi di organizzazioni, agenzie, istituti, associazioni, società, gruppi, fondazioni, si contendono a vario livello il mercato della trasparenza in vista della trasparenza del mercato, a colpi di management dell’incertezza (FUD ecc.), di management della reputazione, di indici della fiducia.

Diffusione della parola “transparency” nei libri in lingua inglese tra il 1900 e il 2008; analogo andamento ha “trasparenza” nei libri italiani

25

Cajvaneanu, A Genealogy of Government. On Governance, Transparency and Partnership in the European Union, Diss., Università di Trento, 2011. Fondo Monetario Internazionale, Code of Good Practices on Transparency in Monetary and Financial Policies: Declaration of Principles, 1999, all’URL http://www. imf.org/external/np/mae/mft/Code/index.htm (ultimo accesso il 30.11.2013).

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La necessità sistemica della trasparenza, di un efficace meccanismo di trasmissione e di coesione tra le parti e il tutto, tra centro e periferia, rappresenta senza dubbio una vistosa rottura con la tradizione degli arcana imperii. Una sorta di tribunale (economico) si esprime ora sull’azione del governo, misurandola, valutandola, indirizzandola “oggettivamente” e “razionalmente”. Ma la razionalità e la “trasparenza” di un governo economico finalizzato alla produzione di ricchezza non comportano di per sé la scomparsa di forme dispotico-totalitarie. Guardando indietro, anzi, come osserva già Simmel, Il dispotismo trova nel denaro una tecnica incomparabilmente efficace, un mezzo per legare a sé i punti spazialmente più lontani del suo dominio che in un’economia naturale tendono sempre all’isolamento e all’autonomia […].26 Un regime dispotico in generale si mostra particolarmente favorevole all’economia monetaria […]. Il dispotismo astuto sceglierà sempre di avanzare le sue richieste in una forma che lasci al suddito la massima libertà nelle sue relazioni puramente individuali [...]. Il dispotismo per i suoi stessi fini limiterà le sue richieste a ciò che gli è essenziale e ne renderà tollerabili il tipo e la quantità concedendo in tutto il resto la massima libertà possibile […]: la libertà, che consente da un lato puramente privato, non ostacola affatto quella privazione dei diritti politici, che così spesso ha imposto27.

Guardando di fronte e in avanti, invece, non si tratta semplicemente di riconoscere «nell’impero della razionalità gestionale il volto mite del totalitarismo»28, impressione che certo si fa sempre più netta quanto più si rende evidente la sottomissione omnes et singulatim a procedure di audit e valutazione così pressanti e pervasive che, a paragone, gli strumenti classici del controllo statale appaiono sorprendentemente rozzi e approssimativi29. Più strutturalmente, si tratta di riconoscere nell’universale «monetizzazione dello spazio-tempo»30 i tratti di un totalitarismo democratico «che provoca l’adesione per culmine di chiarezza e non più la sottomissione mediante minaccia oscura»31: una democrazia totalitaria che stenta a 26 27 28 29 30 31

Simmel, Philosophie des Geldes, cit., p. 691. Ivi, pp. 547-548. J. Rancière, Ai bordi del politico (1990), a cura di A. Inzerillo, Cronopio, Napoli 2011, p. 85. Cfr. G. Neave, The Evaluative State Reconsidered, «European Journal of Education», n. 33, 1998, pp. 265-284. E. LiPuma, B. Lee, Financial Derivatives and the Globalization of Risk, Duke University Press, Durham 2004, p. 139. B. Noël, Théorèmes de la domination, in Id., La Castration mentale, P.O.L., Paris 1997, tr. it. di M. Tabacchini all’URL http://www.casadimarrani.it/index.

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farsi vedere per assenza di ombra, una «democrazia perfettamente spoliticizzata», dove la pubblicità e la visibilità del principio democratico della rappresentanza si risolvono nell’esatto opposto, vale a dire nel principio poliziesco di una pienezza “panoptica” che oscura sistematicamente ogni «dis-identificazione»32, surplus o scarto del visibile rispetto a se stesso. C’è solo quel che c’è (there is no alternative). È vero che l’uscita dall’ombra viene considerata il cardine del principio liberale della rappresentanza e della democrazia, «forse la caratteristica più essenziale di un governo rappresentativo», per cui si ritiene che in un governo democratico non vi sia «alcuna rappresentanza che si svolga in segreto […]; sedute segrete, accordi e decisioni segrete di qualsivoglia comitato possono essere molto significative e importanti, ma non possono avere mai un carattere rappresentativo»33. Anche così, però, resta non meno vero che la democrazia esige anche il segreto e più fondamentalmente quel «gusto del segreto» che è necessario a salvaguardare il diritto a non appartenere, a non aderire totalmente, a conservare un’eccedenza di principio. Come scrive Jacques Derrida: Ho un gusto per il segreto, che ha chiaramente a che fare con la non-appartenenza; ho un moto di timore o terrore dinanzi a uno spazio politico, per esempio, a uno spazio pubblico, che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non vi sia un foro interno è già il farsi totalitaria della democrazia. Posso trasformare quanto ho detto in etica politica: se non si mantiene il diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario34.

Il riferimento alla messa in piazza non deve sviare. In questione non è l’enfasi (mediatica) sulla privacy, né solo la salvaguardia della non-adesione, del dissenso. Facendo un passo oltre, infatti, dobbiamo riconoscere che ad essere sacrificato e neutralizzato nell’ostensione pubblica è in realtà non tanto il privato quanto «lo spazio pubblico vero e proprio», e invero a esclusivo vantaggio degli «affari» privati35. Del resto trasparenza e pubblico, spesso confusi, non enunciano il medesimo principio e provengono da ambiti diversi. Il principio della trasparenza, lo si è detto, proviene oggi dall’ambito economico-finanziario, e non solo mantiene viva questa provenienza ma ne estende il dominio ad altri ambiti. Il tradizionale principio del “pubblico”,

32 33 34 35

php?p=3&post=94 (ultimo accesso 30.11.2013), in riferimento a M. Surya, Della dominazione. Il capitale, la trasparenza e gli affari (1999), a cura di M. Tabacchini e S. Uberti, Casa di Marrani, Brescia 2011. Rancière, Ai bordi del politico, cit., pp. 166 ss. C. Schmitt, Verfassungslehre (1928), Duncker und Humblot, Berlin 1970, p. 208. J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 52-53. Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, cit., p. 20.

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invece, proviene dalla cultura illuministica: l’uso pubblico della ragione, lo spazio pubblico come condizione per una deliberazione basata sul confronto argomentato di tesi opposte, l’opposizione di principio tra una «pubblicità» orientata «alla promozione della legislazione basata sulla ratio» e una «segretezza» orientata «al mantenimento dell’autorità basata sulla volutas»36. In gioco però, nella trasparenza, non è più questo. A elevare la trasparenza a parola d’ordine della good governance globale non è la cura della democrazia, ma la cura governamentale degli affari: value for money («Cosa può essere se non una religione della produttività, una giustificazione della produttività attraverso la produttività? Il sogno di trasparenza del liberalismo ha luogo là»37). Tuttavia l’equivoco retorico permane e sentiamo sempre più parlare del valore democratico della public accountability e simili.

Home Page del sito governativo “La bussola della trasparenza” 36 37

J. Habermas, The Structural Transformation of the Public Sphere: An Inquiry into a Category of Bourgeois Society (1962), MIT Press, Cambridge Mass. 1993, p. 53. Cfr. anche G. Vattimo, La società trasparente (1989), Garzanti, Milano 2000. J.-P. Curnier, Les mains, les mains sourtout..., in Id., Aggravation, Fourbis, Paris 1997, p. 102.

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Genealogie del presente

4. L’aspetto di ossessione delirante – se non proprio di ossessione grottesca – che la gran parte delle pratiche per la trasparenza indotte o anche comandate per legge finisce ben presto con l’assumere non deve trarre in inganno. Il fatto che la libertà d’accesso nel senso e sul modello del Freedom of Information Act statunitense comporti il proliferare di controlli, accertamenti, verifiche, ispezioni, monitoraggi non è una perversione patologica, ma uno sviluppo del tutto normale e fisiologico. La trasparenza non è infatti l’altra, ma proprio la stessa faccia dell’audit: «che una organizzazione sia sottoposta ad audit significa ipso facto che essa è resa trasparente nei suoi comportamenti. Con Latour [...] potremmo dire che l’audit è la trasparenza resa durevole; ma è anche la trasparenza resa visibile»38. Certo, se si guarda la recentissima legge italiana sulla trasparenza (DL n. 33 del 14 marzo 2013), non possono sfuggire i tratti caricaturali. Il Responsabile per la trasparenza di cui ogni PA deve dotarsi ha tinte alla Evgenij Zamjatin, o forse piuttosto da “adult animated sitcom” alla Simpson; come pure il nuovo sito web governativo La bussola della trasparenza39 – testualmente: «in versione beta permanente, in continuo miglioramento» – che dà a chiunque l’opportunità di testare su un benchmark di 65 indicatori il livello di trasparenza dei portali pubblici, per esempio mettendo a confronto l’Unione Italiana di Tiro a segno e la Comunità collinare del Friuli. O ancora le sorprendenti opacità della composizione per no38 39

M. Strathern, The Tyranny of Transparency, «British Educational Research Journal», n. 26, 3/2000, p. 313. All’URL http://www.magellanopa.it/bussola (ultimo accesso 13.12.2013). Alla proliferazione di enti, agenzie, programmi, direttive che rendono imperscrutabile la nuova “casa di vetro” della PA si deve aggiungere il “Portale della trasparenza” della “Autorità Nazionale AntiCorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”, http://www.anticorruzione.it/?page_id=9545. All’ANAC si deve anche la definizione dei “codici di comportamento” attualmente in approvazione in tutte le pubbliche amministrazioni. Nelle università essi sono stati immediatamente rinominati “codici bavaglio”, perché includono una limitazione alla libertà di critica dell’istituzione di appartenenza (fino al controllo delle comunicazioni personali su social network e simili) estranea alla storia accademica italiana dopo il fascismo. La giustificazione dei nuovi codici sarebbe il buon uso delle risorse pubbliche e anzitutto il contrasto alla corruzione. Vi è infatti una specifica sensibilità neoliberale al tema della corruzione intesa quale scambio occulto che altera i meccanismi del mercato e della libera concorrenza. Ridotta a un quadro domestico dove il corrotto è il singolo che ci ha derubati di qualcosa, la corruzione è neutralizzata nel suo significato politico, per esempio di espressione di crisi sistemica della rappresentanza e della democrazia, e affrontata solo come matrice di danno economico.

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V. Pinto - Trasparenza

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mina politica della sezione italiana di Transparency International40. Tutte cose che appunto sembrano ambientate nella cittadina di Springfield, ma che sono invece parte di un fenomeno che non può esser preso alla leggera, giacché è proprio attraverso le politiche dell’audit e della valutazione, della trasparenza e della lotta alla corruzione, che la razionalità del nuovo regime governamentale opera con marziale indifferenza, imponendo – in un tecno-populismo che accomuna i consensi di grisaglie e forconi – il «calcolo finanziario in aree che in precedenza erano governate secondo norme burocratiche, professionali o di altro genere», ossia spostando interamente la governabilità nella finanza («il fulcro della governabilità è finanziario»). È il nuovo dominio della rendicontazione contabile, della public accountability assurta a modello della responsabilità morale, una «potente tecnologia per agire a distanza sulle azioni altrui»41: obiettivi di efficienza, trasparenza e competitività vengono incorporati in norme etiche; «le relazioni monetarie sono esemplificative dei legami ‘socio-tecnici’ nei quali la conoscenza attuariale e l’expertise configurano gli aspetti culturali e intersoggettivi della vita»42. Il nuovo totalitarismo democratico (la democrazia mostrata interamente a tutti e tutti che si mostrano interamente alla democrazia: un’ostensione in senso liturgico) estingue così la politica e governa attraverso l’actio in distans di una diffusa «tirannia della luce» secondo la felice espressione di Haridimos Tsoukas43: un set di pratiche di controllo, accertamento, monitoraggio, accreditamento, rendicontazione, con cui ad ogni livello e attraverso organismi di diversa natura e grado si governa il rischio grazie alla conoscenza, alla continua produzione ed estrazione di informazioni, allo spionaggio elevato – nello evaluative state – ad arte di governo44 e divenuto diretta fonte di reddito

40 41 42

43 44

Cfr. P. Pellizzetti, Transparency Italia, volpe a guardia del pollaio, «Il fatto quotidiano», 02.07.2013. N. Rose, Powers of Freedom: Reframing Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 151-152. B. Paudyn, Governing Monetary Relations Through Risk: Transforming the European Monetary Union’s Future By Reengineering Its Present, paper presented at the Annual Meeting of the Canadian Political Science Association, University of Western Ontario in London, June 2005, p. 8, all’URL http://www.cpsa-acsp.ca/ papers-2005/paudyn.pdf (ultimo accesso 30.11.2013). Cfr. P. Ghosh, G. Pal, H. Tsoukas, The Tyranny of Light. The Temptations and the Paradoxes of the Information Society, «Futures», n. 29, 9/1997, pp. 827-843. Su questi aspetti mi permetto di rimandare a V. Pinto, La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo, «Aut Aut», n. 360, 2013, pp. 16-42.

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Genealogie del presente

nel nuovo mercato aperto delle informazioni45. What you see is what you risk recita il nuovo dogma46. Lontano dall’opacità e dal segreto caratteristici della fabbrica e dell’industria, il potere finanziario si definisce essenzialmente come un potere di valutazione “pubblica”, la cui pretesa è rendere trasparenti tutte le organizzazioni, rendere visibili e dunque valutabili (misurabili) tutte le relazioni e tutti i comportamenti degli attori di qualsiasi istituzione47.

La trasparenza è insomma trasparenza in vista dell’efficacia dei mercati finanziari, dove le macchine vendono e acquistano (in automatico: la maggior parte delle transazioni funziona così) quote di fiducia e di incertezza. Anche là dove la trasparenza si accompagna alla retorica della “public deliberation” agitata da forum di cittadini e associazioni di categoria48, essa non ha mai la forma e lo spessore politico del pubblico, ma traccia e segue il solco dell’autointeresse, dell’investimento privato, della gestione degli affari. Ciascuno ha il diritto – il dovere – di gestire i suoi rischi. Il soggetto morale deve rendersi interamente trasparente a se stesso, rendersi trasparenti costi e benefici di un’azione piuttosto che un’altra e assumersi interamente le conseguenze della rational choice conseguente. Imposto ovunque il massimo di comunicazione e informazione, tutti sarebbero resi ugualmente capaci di decidere dove e come dirigere i propri investimenti. Al fondo, si tratta di rimettere alla responsabilità del singolo tutti i rischi sociali ed economici. La morale della trasparenza è una «morale del rischio», che deve condurre «a interiorizzare sotto forma di colpa personale la [propria] condizione di esclusione o di scacco»49. E allo stesso modo come il rischio non ha alcuna determinazione contenutistica (rischio è «tutto ciò rispetto cui si può stipulare un’assicurazione», uno «schema razionale» mediante il quale si subordinano determinati elementi della realtà per 45 46 47 48 49

Cfr. in proposito la Direttiva Europea 2013/37 del 26 giugno 2013 sul riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, che ne liberalizza completamente l’impiego a fini privati e commerciali. Cfr. M. Pryke, Money’s eyes: the visual preparation of financial markets, «Economy and Society», n. 39, 4/2010, pp. 427-459. M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, Paris 2011, pp. 104-105. Cfr. S. Fuller, The Governance of Science: Ideology and the Future of the Open Society, Open University Press, Milton Keynes 2000. D. Martuccelli, Critique de la philosophie de l’évaluation, «Cahiers internationaux de sociologie», n. 128-129, 2010, p. 42.

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V. Pinto - Trasparenza

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renderli calcolabili), ugualmente la morale del rischio – che è una «privatizzazione del rischio» – «non si richiama ad alcun “giusto” o “sbagliato” in senso sostanziale»50, ma solo ad un “adeguato/inadeguato”. Forte di questa assoluta categoricità formale, la trasparenza impone a chiunque la sottomissione ad un ininterrotto pubblico esame di sé. Sottrarsi a questa rinnovata exomologesis e exagoreusis, seppure riuscisse, significherebbe consegnarsi allo «sguardo di sotto» del sospetto, per il quale solo chi è in difetto vuole nascondersi: il «principio del male è incompatibile con la luce», il bene non ha nulla da temere, può essere reso trasparente, esplicitato, verbalizzato, dichiarato, rendicontato, tradotto nell’evidenza e nell’integrità delle cifre; quel che vi è di male, invece, «portato alla luce del giorno, perde subito il suo veleno […], il serpente infernale, […] tirato fuori dal nascondiglio tenebroso, se ne esce svergognato»51. Il naming and shaming resta uno degli strumenti principe della nuova conduzione delle condotte: «identificare l’incapacità e fare pressione sul peccatore disseminando pubblicamente tale informazione»52, per esempio rendere trasparenti le assenze dei dipendenti, i risultati della loro valutazione, i provvedimenti disciplinari… «Il capitale sogna un’impeccabilità a carattere religioso»53. Nessuna luce però colpisce le spalle della trasparenza: la costruzione degli indici e indicatori, la legittimità di chi decide verso dove puntare i riflettori, la determinazione di quale sia il sapere tacito da far emergere e con quali inevitabili torsioni prospettiche, tutto questo e tanto altro resta invece opportunamente nel buio. L’importante è che le regole del gioco siano fissate, non deve interessare da chi e perché. Una copertura retorica fatta di appelli all’etica, alla democrazia e all’eguaglianza nella forma dell’equità garantisce l’occultamento, per esempio, dell’insuperabile asimmetria tra chi di qualcosa ha conoscenza dall’interno e chi invece la guarda dall’esterno: un’asimmetria che «non può essere rimossa generando più informazione, perché l’informazione ha bisogno di essere interpretata e in questione sono precisamente i termini dell’interpretazione»54.

50 51 52 53 54

H. Schmidt-Semisch, Risiko, in U. Bröckling, S. Krasmann, T. Lemke (a cura di), Glossar der Gegenwart, Suhrkamp, Frankfurt 2004, pp. 222-227. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College (1980), Cronopio, Napoli 2012, p. 85 (nel riferimento a Giovanni Cassiano, Collatio Abbatis Moysi secunda. De discretione, X). G. Neave, The Evaluative State. Institutional Autonomy and Re-engineering Higher Education in Western Europe, Palgrave Macmillan, London 2012, p. 48. Cfr. anche V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012. Surya, Della dominazione, cit., p. 25. Ghosh, Pal, Tsoukas, The Tyranny of Light, cit., p. 834.

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Genealogie del presente

Appunto a questa natura illusoria si deve allora che la trasparenza produca l’esatto contrario di quel che promette, ossia un paradossale offuscamento della certezza e l’incrinarsi di tutte le relazioni fiduciarie. Il passaggio dal trust, la fiducia che si nutre riconoscendo di non possedere e non poter possedere una conoscenza completa, alla confidence, riposante sull’acquisizione di indicatori che si pretende manifestino tutto, produce ovunque «una crescente spirale di sfiducia nella competenza professionale»55. Ciò che si perde è la stessa legittimità della fiducia, la sua natura intermedia – in penombra – tra conoscenza e ignoranza, per cui «chi sa completamente non ha bisogno di fidarsi, chi non sa affatto non può ragionevolmente fidarsi»56. Non sempre presente alla ragione, l’evidenza che «l’accountability è quel che resta una volta che è stata sottratta la responsabilità»57 si lascia però percepire e sentire con insistenza irrimediabile. Alla fine, «la proliferazione degli audit serve solo ad amplificare e moltiplicare i punti nei quali possono essere generati dubbi e sospetti»58. Questo, tuttavia, non è un effetto collaterale o indesiderato, ma precisamente l’essenziale funzione disciplinare per cui la trasparenza è concepita. Alla trasparenza, infatti, non compete tranquillizzare, ma piuttosto spronare: introdurre elementi di competitività, creare un ambiente di concorrenza, orientare le scelte dei cittadini, mettere in riga i comportamenti individuali, guadagnare consenso all’esterno, in breve forgiare lo spirito dell’homo oeconomicus (oggi, più determinatamente, lo spirito dell’homo debitor). L’origine stessa della parola, d’altronde, rivela il fondo oscuro che si nasconde in essa: “Trasparenza” si compone delle parole latine trans e parere. Parere significa originariamente: apparire o divenire visibile al comando di qualcuno. Chi “parisce” è visibile, ubbidisce senza contraddire. Già nella sua origine etimologica, la parola “trasparenza” aderisce a qualcosa di violento. Corrispondentemente essa viene oggi assunta a servizio come strumento di controllo e sorveglianza59.

55

56 57 58 59

Rose, Powers of Freedom: Reframing Political Thought, cit., p. 155. Cfr. anche R. Grilli, Accountability e organizzazioni sanitarie, in M. Biocca (a cura di), Bilancio di missione. Aziende sanitarie responsabili si raccontano, Il pensiero scientifico editore, Roma 2010, pp. 1-18. G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), in Id., Gesamtausgabe, cit., vol. XI, p. 393. Così P. Sahlberg, cit. in A. Partanen, What Americans Keep Ignoring About Finland’s School Success, «The Athlantic», 29.12.2011. Rose, Powers of Freedom: Reframing Political Thought, cit., p. 155. H. Byung-Chul, Transparent ist nur das Tote, «Die Zeit», 12.01.2012; ma cfr. in part. Id., Transparenzgesellschaft, Matthes & Seitz, Berlin 2012. Per una storia

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V. Pinto - Trasparenza

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Il sogno della metafisica, da cui siamo partiti, precipita così nel calcolo cibernetico: scienza del controllo e delle informazioni, dove «vedere il mondo intero e impartire degli ordini al mondo intero è quasi lo stesso che essere dappertutto»60, e le incertezze, le interruzioni nel flusso informativo, i conflitti e ogni soggettiva resistenza umana devono essere ridotti allo zero. Potrebbe essere questione di poco. Il Crystal Palace – è stato appena annunciato – risorgerà nel 2018 nel sud-est di Londra. Lo ricostruisce un gruppo cinese, finanziandolo con 500 milioni di sterline, «come dono alla città e al mondo»61.

Il nuovo Crystal Palace, progetto di Arup per Zhong Rong International

Vedi anche: Crisi, Eccellenza, Governabilità

60 61

del concetto cfr. V. Rzepka, Die Ordnung der Transparenz. Jeremy Bentham und die Genealogie einer demokratischen Norm, LIT Verlag, Berlin 2013. N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, a cura di D. Persani, Boringhieri, Torino 1966, p. 120; su cui cfr. M. Heidegger, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, a cura di C. Esposito, Edizioni ETS, Pisa 1997, p. 53. The Crystal Palace, brochure di presentazione del progetto, Zhong Rong International Group Ltd, London, October 2013, all’URL http://www.thelondoncrystalpalace.com (ultimo accesso 30.11.2013).

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LORENZO BERNINI

FUTURO (E)scatologia del tempo della crisi

Oh, vita! È adesso ch’io sento l’orrore latente che è in te! Ma non sono io! Quest’orrore è fuori di me! E col dolce sentimento dell’umano che è in me ancora cercherò di combatterti, tu, bieco, fantomatico avvenire! H. Melville, Moby Dick

1. Pascal, Hobbes e noi Già Seneca raccomandava a Lucilio di affrontare l’esistenza attimo per attimo per quella che è, senza congelarla in illusorie speranze o paralizzarla in inutili paure: «Tieni stretta ogni ora – gli raccomandava – mentre si attende di vivere, la vita passa»1. Ripreso da Pascal in quel secolo soglia che è il Seicento, e ancor di più agli occhi di un lettore contemporaneo dotato del “senno di poi”, questo insegnamento si fa denso di significati: Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere e, preparandoci sempre a essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali2.

Nella storia del pensiero occidentale, il recupero della saggezza degli antichi operato da Pascal rappresenta uno dei primi tentativi di porre limite alla ragione calcolatrice dei moderni, arginandone inopportuni sconfinamenti in ambiti che non le sono propri. Prima di Bergson, di Heidegger, di Habermas, è stato il moralista francese ad affermare che la vita emotiva dell’umano è sempre in eccesso rispetto alla pretesa di chiarezza e distinzione dell’esprit de geométrie cartesiano, che essa sfugge al calcolo 1 2

L.A. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, trad. mia. B. Pascal, Pensieri (1669), a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1962, frammento 362, p. 158.

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Genealogie del presente

delle premesse e delle conseguenze, così come al computo dei mezzi e dei fini3. Contemporaneo di Pascal e ammiratore di Descartes, Hobbes eleva al contrario la geometria a modello di ogni conoscenza e deduce la sua celebre giustificazione della sovranità dello Stato-Leviatano da pochi postulati relativi alla natura umana, che considera autoevidenti a ogni essere umano dotato di introspezione. Non occorre, a suo avviso, grande esprit de finesse per rendersi conto che in assenza di coercizioni l’uomo si comporta come un lupo con l’altro uomo. Sarà per primo Rousseau a denunciare che Hobbes spaccia per caratteristiche naturali dell’umanità quelli che sono esiti della civiltà4 – aprendo così la strada tanto alla critica marxista di Crawford B. Macpherson5, secondo cui il ritratto che dell’“individuo” tratteggia il filosofo di Malmesbury è quello di un borghese proprietario, quanto alla critica femminista di Carole Pateman6, secondo cui non soltanto in Hobbes, ma anche in Rousseau e negli altri contrattualisti moderni, i borghesi proprietari che contraggono il patto sociale appartengono al sesso maschile. Ciò che qui particolarmente interessa è che i maschi del Seicento su cui Hobbes modella i suoi individui nello stato di natura, mossi da egoismo, avidità e vanagloria, ossessionati dal timore del male che potrebbe recare loro ciascuno dei loro simili, sono proprio coloro a cui si rivolge Pascal. Perentoriamente Hobbes afferma infatti che per loro la felicità consiste in «un continuo progresso del desiderio da un oggetto a un altro, dove il raggiungimento del primo non è che la via per il conseguimento del secondo»7. A impedire a ognuno di accontentarsi di ciò che già possiede, non è soltanto una smodata facoltà desiderante, ma è anche la spietata competizione che caratterizza i suoi rapporti con gli altri. Secondo l’autore del Leviathan, ogni individuo è infatti disposto a «uccidere, assoggettare, soppiantare o respingere il rivale» pur di «acquistare ricchezze, onore, comando» e non è «possibile assicurarsi il potere e i mezzi per vivere bene che si hanno nel momento presente, senza acquisirne di maggiori»8 per difendersi dalle insidie dei propri simili. È insomma la continua ricerca di sicurezza, o meglio di assicurazione, in un regime di concorrenza a rendere impossibile 3 4 5 6 7 8

Cfr., ivi, frammenti 1-4, pp. 5-8. Cfr. J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza (1755), a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 60 ss. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, a cura di A. Negri, Mondadori, Milano 1973. C. Pateman, Il contratto sessuale (1988), Editori Riuniti, Roma 1997. Th. Hobbes, Leviatano (1651), Roma-Bari, Laterza 1996, cap. XI, p. 78. Ivi, cap. XI, p. 79.

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L. Bernini - Futuro

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uno stato di felicità. Ben prima di Freud, Hobbes può essere considerato, quindi, un teorico del disagio della civiltà9. Per lui, il patto sociale funziona come un’assicurazione sulla vita molto costosa: in cambio di protezione gli individui cedono al sovrano il diritto a tutto di cui godevano nello stato di natura, e perdono per sempre l’integrità della propria libertà. L’individuo hobbesiano è dunque homo juridicus allo stesso modo in cui è homo oeconomicus: la sua razionalità calcolatrice lo induce a commerciare indifferentemente in diritti e in merci, e a trattare le donne come proprietà. Sarebbe però limitativo vedere in lui soltanto il soggetto dello scambio e del possesso dell’economia di mercato, perché egli già incarna i paradossi del soggetto dell’investimento dell’economia finanziaria: rinuncia a godere dei suoi beni e li mette a rischio pur di conservarli, e per assicurarli senza goderne, è costretto ad averne sempre di più. In una battuta: per perpetuare la vita, egli rinuncia a godere della vita. Non è un caso se il Leviathan è ancora oggi considerato il testo classico del pensiero politico moderno: gli individui hobbesiani, infatti, siamo noi che, sordi agli ammonimenti di Pascal, «non viviamo mai, ma speriamo di vivere». Incapaci di distinguere etica, politica ed economia, come hanno denunciato anche illustri economisti del calibro di Amartya Sen, Joseph Stiglitz e Jean Paul Fitoussi, da lungo tempo misuriamo la felicità pubblica con il metro della produttività economica, intesa non come mantenimento di uno status quo, ma come capacità di sviluppo. In Europa, ad esempio, con una torsione lessicale degna della neolingua del Grande Fratello orwelliano, il “patto di stabilità” impone sacrifici con la promessa di una crescita futura. Per il momento lo sviluppo senza fine che l’Unione avrebbe dovuto garantire si è impantanato in quella che molti analisti giudicano la peggiore fase economica della storia del capitalismo, di cui continuamente si annuncia la fine prossima per poi posticiparla ancora. E le retoriche mobilitate tanto da chi è chiamato a governare questa “crisi”, quanto da chi ne contesta le decisioni, sono per lo più declinate al tempo futuro, a testimonianza di quanto sia insopportabile, per noi hobbesiani, sostare nel presente o abitare il tempo della fine10: tutto deve continuare la propria crescita esponenziale verso l’avvenire. In nome del futuro alle nuove generazioni è imposto un presente di “austerità” e specularmente le nuove generazioni più di ogni

9 10

Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Id., Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1978, vol. 10. Esistono, naturalmente, alcune eccezioni, come S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Firenze, 2011. Già nel 1998 M. Tronti pubblicò La politica al tramonto, Einaudi, Torino.

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Genealogie del presente

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altra cosa lamentano l’impossibilità di progettare il proprio futuro e quello di generazioni ulteriori.

2. Investimenti riproduttivi Proprio in polemica con Hobbes, nel corso al Collège de France del 1976 “Il faut défendre la société”11 Michel Foucault sostiene che a fornire le condizioni di possibilità dell’esercizio del potere dello Stato siano il disciplinamento del corpo del singolo suddito/cittadino e l’amministrazione biopolitica della vita dell’intera popolazione: come già Rousseau, egli è convinto che l’individuo che contrae il patto sociale non sia una premessa, ma una conseguenza del “dispositivo politico” della modernità. Tre anni dopo, nel corso Naissance de la biopolitique, non rendendosi conto di quanto Hobbes sia stato profetico a questo riguardo, il filosofo francese si sofferma sul ritratto che di questo prodotto della civiltà occidentale tratteggiano le dottrine neoliberali. Si tratta, a suo avviso, della rappresentazione di un homo œconomicus che non soltanto accumula e commercia merci, né soltanto accumula e investe denaro, ma che nel mercato investe la sua intera esistenza. Nel dar conto di questo «imprenditore di se stesso»12, Foucault trova particolarmente illuminanti le analisi che Theodore W. Shultz13 e Gary Becker14 operano del fenomeno della riproduzione sociale utilizzando il concetto di “capitale umano”. Per i due premi Nobel per l’economia, il primo patrimonio di cui l’individuo dispone è quello genetico, su cui si innesta tutta una serie di “investimenti educativi” fatti su di lui dalla collettività e dalla famiglia, tra i quali rientrano il livello di cultura dei genitori, le loro competenze pedagogiche, le cure mediche e gli stimoli culturali che egli/ella ha ricevuto da bambino/a, la sua istruzione scolastica e universitaria, la sua formazione professionale, e così via. Nell’immaginario bioeconomico neoliberale15, un pesante senso di responsabilità grava quindi 11 12 13 14 15

M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1975-76), Feltrinelli, Milano 1998. Cfr. pp. 80 ss. M. Foucault, Nascita della biopolitica (1978-79), Feltrinelli, Milano 2005, p. 186. Autore di Investment in Human Capital, The Free Press, New York 1971. Autore di The Economic Approach to Human Behaviour, The University of Chicago Press, Chicago-London 1976. Sul concetto di “bioeconomia” si vedano: G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia, Neri Pozza, Vicenza 2007; L. Bazzicalupo Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006; Ead. Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010.

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L. Bernini - Futuro

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non soltanto sui genitori, ma anche sui figli, che hanno il dovere di mettere a frutto l’eredità familiare e sociale che hanno ricevuto, di far rendere gli investimenti che sono stati fatti su di loro, di investire a loro volta sulle generazioni future. Non è forse per “i nostri giovani”, per “i nostri bambini” che oggi chiamiamo “stabilità” quello che reputiamo un necessario progresso? Non è forse in loro nome che il PIL deve aumentare e lo spread diminuire, che la tecnologia deve farsi sempre più sofisticata e i mezzi di trasporto sempre più veloci, che le risorse della terra devono essere sempre più intensivamente sfruttate – o al contrario che occorre prendersi cura del pianeta, vivere con lentezza, preferire la decrescita alla crescita? Le parole di Schopenhauer hanno sempre maggior valore nel mondo contemporaneo: in nome della vita, i singoli viventi hanno il dovere non di vivere, ma di mettere la propria esistenza al servizio della vita della specie16. E quando non riescono ad assolvere i loro compiti, come in questi ultimi difficili tempi sovente accade, sono colti da un disperante senso di fallimento, da sentimenti di depressione così gravi che la cronaca della crisi è costellata di suicidi. Anche su questo, Hobbes – che pure, come Schopenhauer, era scapolo17 – ha qualcosa da dire. Negli Elements of Law, Natural and Politic, dove tra l’altro la vita umana è paragonata a una corsa senza sosta che non ha «altra meta, né altro premio che l’essere davanti»18, egli scrive: Per coloro che hanno autorità sovrana, è contro la legge di natura: non proibire quegli accoppiamenti che sono contrari all’uso naturale; non proibire l’uso promiscuo delle donne; non proibire che una donna abbia più mariti; non proibire i matrimoni entro certi gradi di parentela e di affinità. Infatti, benché non sia evidente che un privato cittadino che viva unicamente sotto la legge della ragione naturale violi la medesima commettendo qualcuna delle azioni sopra menzionate, tuttavia appare manifesto che, essendo così pregiudichevoli come sono al miglioramento dell’umanità, quel non proibirle è contro la legge della ragione naturale per colui che ha ricevuto nelle mani proprie una porzione di umanità da migliorare19.

16 17 18 19

Sull’invenzione del concetto moderno di vita in quanto “vita della specie” si veda: D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010. La sorte è comune a molti illustri filosofi. A notarlo, con l’intenzione di condannare l’ascetismo della filosofia, è Friedrich Nietzsche in Genealogia della morale ([1887] Adelphi, Milano 1996, p. 100). Th. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (1640), Sansoni, Firenze 2004, pp. 54 e s. Ivi, p. 190 e s.

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Genealogie del presente

La missione biopolitica che Hobbes affida allo Stato non si esaurisce quindi nel garantire la sopravvivenza dei sudditi ponendo fine alla guerra di tutti contro tutti dello stato di natura. Il sovrano deve adoperarsi per l’accrescimento e il miglioramento della popolazione su cui governa. A tal fine egli è tenuto non soltanto a preoccuparsi della prosperità economica dei suoi sudditi, ma anche a mettere al bando gli atti sessuali non riproduttivi o tali da far presagire che il frutto del concepimento non sarà un investimento paragonabile a quello prodotto da una coppia eterosessuale feconda stabilmente unita in matrimonio. L’argomento di Hobbes è a dire il vero piuttosto tortuoso: egli sostiene che non vi sia evidenza che tali pratiche violino «la legge della ragione naturale»20, e che tuttavia in virtù di quella stessa legge il sovrano non possa tollerarle. Sembrerebbe quindi che in materia sessuale esistano due differenti leggi di natura, una vigente per i singoli in quanto tali, una che ne regola la vita associata – e che l’eterosessualità riproduttiva obbligatoria sia conseguenza della seconda. Come anche Pateman ha messo in evidenza, in polemica con Aristotele, Hobbes sostiene che l’unione stabile tra un uomo e una donna per il sostentamento dei figli non ha nulla di naturale, ma è una forma di disciplinamento della sessualità necessaria a garantire la perpetuazione della comunità politica. Al momento del patto, che la pensatrice femminista ha mostrato essere stretto tra soli maschi, i disagi della civiltà non sono quindi distribuiti equamente: la subordinazione della ragione naturale singolare alla ragione naturale sociale implica l’imposizione del modello matrimoniale inteso come subordinazione delle donne agli uomini e la messa al bando di quegli accoppiamenti che Hobbes definisce “contrari all’uso” (ma non alla ragione o alla legge) naturale, come l’omosessualità. Negli Stati in cui le donne hanno ottenuto la riforma del diritto di famiglia in senso egualitario, le rivendicazioni di lesbiche e gay del diritto al matrimonio, all’adozione, all’accesso alle tecniche di riproduzione assistita, non dimostrano allora, nuovamente, quanto ancora siamo hobbesiani? Il pieno ottenimento della parità giuridica di lesbiche e gay consiste oggi nel riconoscimento del loro diritto/dovere a contribuire come le donne e gli uomini eterosessuali al futuro dell’umanità. Per questo attorno alla valuta20

Al contrario, per fare un esempio, (un altro scapolo come) Kant considera le pratiche omosessuali come gravi offese alla natura umana, ancor più “spregevoli e abiette” del suicidio: nelle Lezioni di Etica degli anni 1775-1780 (Laterza, RomaBari 1984, p. 195 e s.) egli le colloca infatti tra quelli che chiama “crimina carnis contra naturam”. Nel 1785, a scrivere un pamphlet contro la penalizzazione delle pratiche omosessuali è invece Bentham (Difesa dell’omosessualità, il melangolo, Genova 2009), che tra l’altro rigetta il contrattualismo per l’utilitarismo.

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L. Bernini - Futuro

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zione della “qualità” della genitorialità omosessuale si combattono furiose battaglie ideologiche: a essere discusso non è tanto il diritto di lesbiche e gay a diventare madri e padri, quanto il diritto dei nascituri – cioè di soggetti futuri, non presenti – ad avere genitori che facciano di loro buoni investimenti riproduttivi.

3. Analità, “no future” e arte queer del fallimento Non tutti, però, e non sempre sono disposti ad accollarsi le responsabilità che il senso comune impone loro. Come più di ogni altro Foucault ha mostrato, esistono sempre “corpi indocili”, portatori di passioni e di pulsioni che sfuggono ai teoremi di qualsiasi geometria, refrattari a ogni disciplina, che alla ragione contrappongono un’ostinata irragionevolezza. Che si tratti di eccezioni che confermano la regola, di rarità o di anomalie, essi attestano una complessità dell’umano a cui chi voglia coltivare il proprio esprit de finesse farebbe bene a rivolgere attenzione. Proprio negli anni in cui Foucault elabora la sua critica alla concezione del potere moderno di cui riconosce in Hobbes il rappresentante archetipico, in un contesto in cui essere di sinistra ancora equivale a essere anticapitalista, il nascente movimento di liberazione omosessuale assume posizioni che oggi potrebbero sorprendere. In Francia, in particolare, i giovani militanti del Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire (FHAR) diffondono documenti in cui, contro una società che «si fa del bambino la stessa immagine che si fa del plusvalore»21, rifiutano di rappresentare il futuro di chi ha investito su di loro e rivendicano il diritto di tradire le aspettative dei propri genitori e dell’intera società: L’attacco che viene alla società e al suo ordine morale dai suoi giovani, è l’attacco che la colpisce nel suo punto più vulnerabile e più caro. Il più vulnerabile perché i cari piccoli che noi siamo sono così influenzabili, così poco al corrente delle cose della vita!!! Il più caro perché noi rappresentiamo l’avvenire. MA DEL LORO AVVENIRE CE NE FOTTIAMO. Noi vogliamo godere subito. Noi affermiamo il nostro diritto a disporre di noi stessi, il nostro diritto al piacere22.

Nel 1972, a soli venticinque anni, uno di questi giovani pubblica un libro-manifesto che, con l’intento di celebrare Il desiderio omosessuale, ne 21 22

FHAR, Rapporto contro la normalità, Guaraldi Editore, Rimini 1972, p. 75. Ivi, p. 129.

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Genealogie del presente

mette in evidenza esattamente quelle caratteristiche per cui negli Elements esso è bandito dallo Stato. Utilizzando il lessico delle teorie della liberazione sessuale freudomarxiste in voga in quegli anni, rielaborando le tesi antiedipiche dei suoi maestri Deleuze e Guattari, Guy Hocquenghem sostiene che il valore di questo desiderio, che provocatoriamente chiama “desiderio anale”, sta proprio nello spogliare il sesso di qualsiasi finalità ri-produttiva, sottraendolo a quel disciplinamento etero-genitale che tanto Hobbes quanto Freud reputano l’unico appropriato a un corretto sviluppo dell’essere umano in società. A suo avviso, l’omosessualità costituisce una sfida radicale alla “logica significante-significato” (rappresentante-rappresentato, mezzi-fini), posizionando il soggetto oltre (o prima de) gli schematismi dicotomici che caratterizzano tanto le retoriche politiche liberali, quanto quelle comuniste: il desiderio anale è incapace di investire sul futuro e preme sul presente per avere soddisfazione immediata. Di conseguenza, quella omosessuale è una lotta «selvaggia», che, ben lungi dal costituire «una nuova tappa dell’umanità civilizzata», denuncia che «la civilizzazione è la trappola che cattura il desiderio»23. In controtendenza rispetto ad altri intellettuali di movimento coevi24, Hocquenghem non auspica quindi l’avvento di «una nuova organizzazione sociale»25, ma dà voce a quei giovani militanti della sua generazione che non hanno alcuna intenzione di attendere il compimento della rivoluzione proletaria per godere. Il rifiuto gay del destino riservato agli altri maschi, quello di assumere la posizione del padre al vertice del triangolo edipico, diviene tuttavia per lui il simbolo della possibilità «di un modo di rapporto sociale orizzontale» realizzabile nell’immediato che, interrompendo la riproduzione della verticalità gerarchica della filiazione, risulta «inaccettabile»: L’omosessuale indica la possibilità di un’altra forma di relazione che oseremo appena chiamare società26.

Oggi la maggior parte delle lesbiche e dei gay ritengono che il diritto di costituire una famiglia sia il compimento della loro inclusione sociale. E tuttavia la voce di Hocquenghem non è rimasta inascoltata: Le désir homosexuel è considerato uno dei testi precursori di quella corrente di pensiero 23 24 25 26

G. Hocquenghem, Le désir homosexuel (1972), Fayard, Paris 2000, p. 161, trad. mia. E in sintonia rispetto ad altri e altre. Si veda, ad esempio: C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. E altri scritti (1970), et al., Milano 2010. Hocquenghem, Le désir homosexuel, cit., p. 161. Ivi, p. 116 e s.

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lesbico gay e trans*, nato negli anni Novanta in seguito al doppio trauma causato dalla crisi dell’AIDS e dal crollo del muro di Berlino, che prende il nome di “teorie queer”27. Lee Edelman, in particolare, fa di Hocquenghem il capostipite di quella «tesi queer antisociale»28 di cui considera campione Leo Bersani29 e lui stesso si proclama fautore. Se le teorie queer più note in Europa si richiamano al pensiero filosofico di Michel Foucault e Judith Butler30 e teorizzano per le minoranze sessuali la possibilità di elaborare nuove strategie di soggettivazione e costruire nuove comunità di riconoscimento, i teorici che appartengono a questo filone di studi utilizzano le categorie della psicoanalisi per auspicare la soppressione del soggetto nel godimento, parteggiare per la rottura delle relazioni sociali, insistere sui legami che la pulsione sessuale intrattiene con la pulsione di morte. All’individuo liberale alla ricerca di benessere, prigioniero di un immaginario che impone di sacrificare il presente per il futuro della famiglia riproduttiva, Edelman contrappone, dunque, il soggetto sessuale risucchiato da un godimento masochistico che lo schiaccia sul presente. Il suo libro-manifesto dal titolo punk, No Future, risponde ai movimenti pro-life statunitensi emettendo contro quel feticcio dell’avvenire che è “il Bambino” una provocatoria sentenza di morte: Siamo noi che dobbiamo sotterrare il soggetto nella buca tombale del significante, pronunciando infine le parole a cui siamo condannati, che le vogliamo dire o no: che noi siamo i difensori dell’aborto; che il Bambino deve morire; che il futuro è mera ripetizione e che è letale tanto quanto lo è il passato31. 27

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Sulle teorie queer mi permetto di rimandare a L. Bernini, Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale, Edizioni ETS, Pisa 2013 e, inoltre, a L. Bernini, F. Zappino, Quale futuro per il soggetto queer?, in J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 209-243. The Antisocial Thesis in Queer Theory è il titolo della conferenza tenutasi a Washington DC il 27 dicembre 2005. Estratti degli interventi di R.L. Caserio, T. Dean, L. Edelman, J.‘J’. Halberstam, J.E. Muñoz sono stati pubblicati sulla rivista «PMLA», 3, 2006. Dell’autore si vedano, almeno: Homos, Pratiche, Milano 1998; Is the Rectum a Grave? And Other Essays, The University of Chicago Press, Chicago-London 2010. Oltre al già citato La vita psichica del potere, della filosofa si vedano, almeno, in traduzione italiana: Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1990), Laterza, Roma-Bari 2013; La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza (2004), a cura di O. Guaraldo, Postmedia Books, Milano 2013; La disfatta del genere, a cura di O. Guaraldo, Meltemi, Roma 2006. L. Edelman, No Future, Duke University Press, Durham-London 2004, p. 31, trad. mia. La traduzione parziale di un capitolo è raccolta in E.A.G. Arfini, C. Lo

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Genealogie del presente

Di grande interesse, ai fini del nostro discorso, sono anche i saggi di Judith ‘Jack’ Halberstam raccolti nel volume The Queer Art of Failure32, che esplorano il senso di fallimento delle vite queer non per reclamarne un futuro “riscatto” in una società più giusta ancora da realizzare – come fa, ad esempio, Butler – ma per esibire la possibilità di esistenze che già da subito si sottraggono agli imperativi di successo delle società contemporanee. Confrontandosi criticamente con Edelman, e ricordando che «il lavoro di Bersani è stato utile anche per una teorizzazione della ricettività femme, dell’abiezione butch e della solitudine lesbica»33, Halberstam ha iscritto il suo lavoro nella corrente della teoria antisociale. Esso partecipa in realtà anche alla cosiddetta “svolta affettiva” delle teorie queer, un altro filone di studi, soprattutto ma non solo lesbofemministi, che negli ultimi anni ha interrogato la specificità delle passioni e dei sentimenti queer, ampliando la ricerca di Foucault sulla biopolitica per indagare le ricadute che la “governamentalità” contemporanea ha non solo sulla vita biologica delle popolazioni, ma anche sulla vita psichica dei singoli. Se Halberstam si è soffermata/o sull’arte queer del fallimento, Ann Cvetkovich, per fare un altro esempio, ha preso in esame quel sentimento a cui sempre più spesso sono ricondotti i sintomi del presente: la depressione34. Già Alain Ehrenberg35 aveva interpretato la crescente diffusione di questa “malattia” nelle società neoliberali come conseguenza di un sistema normativo che non impone più rigidi codici disciplinari, ma pretende libera iniziativa e senso di responsabilità. Alle sue ricerche Cvetkovich ha aggiunto che: La depressione è un’altra manifestazione di forme di biopotere che producono vita e morte non soltanto prendendo a bersaglio popolazioni con il chiaro

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Iacono (a cura di), Canone inverso. Antologia di teoria queer, Edizioni ETS, Pisa 2012, pp. 245-269. Edito da Duke University Press, Durham-London 2011. J.‘J.’ Halberstam, The Politics of Negativity in Recent Queer Theory, in «PMLA», 3, 2006, pp. 823-824. Halberstam fa qui riferimento a: A. Cvetkovich, An Archive of Feelings, Duke University Press, Durham 2003; H. Love, Feeling Backward, Harvard University Press, Cambridge 2007. Altri esempi di teoria queer degli affetti, oltre a quelli riportati nella nota precedente, sono: E. Kosofsky Sedgwick, Touching Feeling, Duke University Press, Durham-London 2003; S. Ahmed, The Cultural Politics of Emotion, Routledge, London-New York 2004; Ead. The Promise of Happiness, Duke University Press, Durham 2010; J. Staiger, A. Cvetkovich, A. Morris Reynolds, Political Emotions, Routledge, London-New York 2010. A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi, Odile Jacob, Paris 1998.

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intento di distruggerle […], ma anche più insidiosamente facendo sentire le persone piccole, prive di valore, disperate36.

In entrambe le prospettive, la depressione è letta non come una patologia individuale, ma come un dispositivo di potere che agisce microfisicamente nel tessuto (psico)sociale, “punendo” chi non è capace di contribuire con successo alle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Già Foucault aveva del resto messo in luce che, se il potere sovrano agisce rendendo pubbliche le sue leggi, la biopolitica (o bioeconomia) impone norme di autoregolamentazione ben più astute, più efficaci perché meno visibili, più pervasive perché coestensive con le libertà dell’individuo imprenditore.

4. Nel bel paese dove il sì suona Pascal, Hobbes, Hocquenghem, Foucault, le teorie queer statunitensi della pulsione e degli affetti: tutto questo potrebbe sembrare molto lontano da noi. E invece ci riguarda da vicino. Invitato al Meeting annuale di Comunione e Liberazione il 18 agosto 2013, il Presidente del Consiglio italiano Enrico Letta ha difeso il suo governo “di larghe intese” con queste parole: Non voglio che nessuno interrompa il percorso di speranza che è stato iniziato. L’uscita dalla crisi è a portata di mano. Ma bisogna guardare al futuro, se si guarda al passato diventa impossibile.

Il giorno successivo, sulla prima pagina de «la Repubblica», il politologo Ilvo Diamanti gli ha fatto eco lamentando la scomparsa, dal lessico della politica, di quella parola che un tempo «illuminava l’orizzonte sociale e personale»: cioè «futuro». Letta ha dunque invitato gli italiani ad affrontare la crisi senza guardare al passato, rivolgendo all’avvenire le loro speranze; al contrario Diamanti li ha invitati a guardare al passato per recuperare quella speranza nel futuro di cui il presente non è più capace. Ma entrambi hanno confermato la presa sul nostro immaginario politico di una retorica in cui il passato è strumento al servizio del futuro e il futuro è strumento al tempo stesso di evitamento e di sopportazione del presente. Si ricordi il monito di Pascal, assieme alla definizione hobbesiana della felicità.

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A. Cvetkovich, Depression, Duke University Press, Duhram-London 2012, p. 13, trad. mia.

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Genealogie del presente

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Analoghi argomenti hanno avuto vasta eco grazie a Papa Francesco, che proprio a «la Repubblica» ha dichiarato: I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia: i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente37.

Ben più virulenti, ma pervasi dalla stessa strategia retorica, sono i toni di un vasto movimento che, in occasione del dibatto parlamentare sulla legge contro l’omofobia e la transfobia, ha organizzato numerose iniziative in tutta Italia. Il 21 settembre 2013, ad esempio, si è tenuto a Verona il convegno La teoria del gender: per l’uomo o contro l’uomo?, organizzato dalle associazioni Famiglia Domani e Movimento Europeo Difesa della Vita. Il simposio ha ottenuto il patrocinio del Comune e della Provincia, si è aperto con i saluti del vescovo Giuseppe Zenti e del sindaco Flavio Tosi ed è proseguito con interventi di relatori ferventemente cattolici38. In nome della “naturalità” della famiglia eterosessuale, agli studi di genere e alle teorie queer questi hanno contrapposto le cosiddette teorie (e terapie) riparative, volte a ricondurre lesbiche, gay e trans* all’eterosessualità. A fare da sfondo, un’interessante filosofia della storia, che vede nel presente un’epoca di decadenza cui è necessario opporre un’azione “catecontica” volta a tutelare il bene affinché possa trionfare nel tempo della fine: L’approvazione alla Camera della legge sull’omofobia è più grave dell’affondamento di un barcone di immigrati, ed è l’esito di un lungo processo. In Italia, ancor prima delle leggi su divorzio e aborto, è stata la riforma del diritto di famiglia del 1975 a dare la stura, eliminando dall’ordinamento giuridico il concetto di patria potestà ed equiparando i diritti della donna a quelli dell’uomo. Assecondando allora il femminismo, si è cavalcata una tigre pericolosa. La decadenza dell’Occidente è del resto iniziata con l’avvento della modernità: solo nel Medioevo gli uomini vivevano secondo natura. Come San Tommaso insegnava allora, alla fine dei tempi resusciteremo anima e corpo, e il corpo 37 38

J.M. Bergoglio intervistato da E. Scalfari, «la Repubblica», 1° ottobre 2013, p. 1. Roberto de Mattei, Mauro Palmaro, Luca Galantini, professori rispettivamente in Storia della Chiesa, Filosofia del Diritto e Storia del diritto moderno all’Università Europea di Roma; Dina Nerozzi, professoressa in Psiconeuroendocrinologia all’Università Tor Vergata di Roma; Chiara Atzori, infettivologa all’ospedale Luigi Sacco di Milano, Matteo D’Amico, docente di Filosofia e Storia ad Ancona. La ricostruzione che segue è una miscellanea delle tesi da loro sostenute durante il convegno.

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sarà integro: con le unghie, i capelli, i genitali corrispondenti al vero sesso di ognuno. Risorgeremo maschi e femmine, insomma, come Dio ci creò, esortandoci a popolare il mondo.

Nessuno ha detto che cosa accadrà alle persone intersex nel giorno del Giudizio, ma per le persone transessuali che si sono sottoposte a chirurgia genitale, si intuisce, sarà una fregatura. Durante il convegno poche parole sono state spese per le lesbiche, mentre maggiore attenzione è stata data a coloro che maggiormente si espongono al contagio da HIV facendo del loro ano – come già ricordava Hobbes – un «uso non conforme a forma e funzione»: Gli “omosessualisti” si illudono di essere felici, “gay”: in realtà trasgrediscono la naturale complementarietà dei sessi, e il male che commettono è un pungolo che ferisce la loro coscienza anche se non ne sono consapevoli. Una legge che impedisse di dire che da questo male si può guarire sarebbe totalitaria: come se fosse proibito consigliare a un amico di smettere di fumare. Del resto oggi concediamo diritti a tutti, perfino agli immigrati sui barconi [quando non affondano, N.d.A.]. L’unico a non avere diritti in Italia è il nascituro, e di conseguenza il padre: perché la liberalizzazione dell’aborto lede il diritto del padre a vedere fiorire la vita. Come insegna la psicoanalisi, del resto, e non solo la dottrina cattolica, il presente è il tempo dell’abrogazione della legge del padre, e Dio è padre, non madre come “qualcuno”39 ha avuto l’ardire di sostenere!

Da parte sua, il sindaco Tosi si è limitato a ringraziare gli organizzatori e anche le centinaia di persone che, in piazza, stavano contestando il convegno «facendogli pubblicità», per poi ricordare che «la Costituzione italiana promuove la famiglia naturale basata sul matrimonio, l’unica in grado di rivestire una fondamentale funzione economica e di garantire stabilità e continuità alla nazione»40. Si tratta, beninteso, di un’interpretazione opinabile, ma ciò che qui più interessa è – di nuovo – che essa ricalca la formulazione hobbesiana dei doveri biopolitici e bioeconomici del sovrano. E le analogie non finiscono qui. 39 40

Cioè papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani, la cui morte ancora oggi suscita accese controversie. Ha però dimenticato di ricordare che la Costituzione vieta «la riorganizzazione, del disciolto partito fascista», che nel 1952 la legge Scelba ha introdotto il reato di apologia di fascismo, che dal 1993 la legge Mancino punisce chi diffonde o applica idee fondate sull’odio razziale, etnico o religioso (e, se il Senato confermerà quanto approvato dalla Camera, d’ora in poi anche omofobo e transofobo). E, infine, che in base a essa, lo stesso Tosi nel 2009 ha subito una condanna.

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Genealogie del presente

Come i relatori del convegno veronese, quattrocento anni prima di loro, anche il filosofo di Malmesbury si è infatti confrontato con il tema della fine dei tempi: lo scopo della seconda metà del Leviathan è affermare che la storia della salvezza è chiusa, perché Gesù, il figlio di Dio, è il Salvatore annunciato dai profeti ebrei. Il tempo dello Stato è per Hobbes il tempo escatologico in cui l’unica «speranza» concessa ai sudditi è quella di ottenere «con la propria operosità ingegnosa, quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole»41 su questa terra e di guadagnare, attraverso la fede in Cristo e l’obbedienza al sovrano, il privilegio dell’eternità. Nel capitolo XXXVIII il nostro autore sostiene che dopo la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden gli esseri umani hanno perso l’immortalità e che la riacquisteranno soltanto quelli che, tra loro, crederanno nel figlio di Dio. Non da subito, però: il miracolo della resurrezione dei corpi, avvenuto quando Gesù è morto sulla croce42, si ripeterà solo alla fine di tempi, quando i beati – soltanto i beati – risorgeranno con l’anima e il corpo (e probabilmente con le unghie, i capelli ecc., ma su questo Hobbes non si sofferma). Per il padre della modernità politica, quindi, in quanto fine della storia, l’Apocalisse è fuori dalla storia: al pari dell’attesa messianica, essa non appartiene al tempo dello Stato. Ai sudditi conviene allora rispettare la legge, compiere i propri doveri di produzione e riproduzione sociale, investire il proprio capitale umano in un’adeguata discendenza – senza abbandonarsi a fantasie sovversive. Per quanto si differenzino dalle discriminatorie affermazioni dei relatori del convegno veronese, il «futurismo»43 cristiano di papa Francesco e quello laico del sindaco Tosi e del presidente Letta possono quindi rientrare con esse in un quadro teologico-biopolitico d’insieme, in cui non si lasciano invece catturare le teorie queer nelle loro varianti sociali, antisociali o affettive. Oltre ad affinare il nostro esprit antropologico, esse incitano alla sperimentazione di nuove forme di vita e all’edificazione di nuove comunità, o al contrario alla rottura del legame sociale e alla fine della civiltà. E ancora: esse insistono sul valore dell’analità e della sessualità non riproduttiva; rifiutano l’attesa dell’avvenire optando per una disincantata adesione al presente; danno conto della capacità di lesbiche, gay e trans* di sottrarsi alla corsa per la “felicità”, di sostare nella depressione, di sopportare il fallimento senza rimuovere le passioni tristi con la speranza nel futuro – di mandare al diavolo il proprio capitale umano. Le teorie queer 41 42 43

Hobbes, Leviatano, cit., cap. XIII, pp. 103-104. Cfr. Matteo 27: 52. Il termine è di Lee Edelman.

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lanciano insomma una sfida radicale all’immaginario politico moderno (e post-moderno): al sovrano hobbesiano rispondono con messianica ironia, testimoniando che l’Apocalisse degli abietti è possibile già ora44. *** Tommaso d’Aquino era così profondamente convinto della sua opera, che a Reginaldo da Piperno confessò che in confronto ai misteri della grandezza divina tutto ciò che aveva scritto – quindi anche ciò che aveva scritto sul destino dei corpi nel giorno del Giudizio – era «sicut palea», come sterco45. In occasione del convegno veronese, Daniela Pompili, donna transessuale attivista del movimento LGBTQIA, ha invece commentato l’insegnamento dell’Aquinate con queste parole: «Risorgerò con il mio vero sesso? Che meraviglia! Finalmente avrò la vagina senza dover ricorrere alla chirurgia». Vedi anche: Crisi, Movimento, Responsabilità

44

45

In Apocalissi queer, cit., esemplifico questa strategia ironica attraverso i film gayzombie-hardcore di Bruce LaBruce. Come spiega I.M. Young (Abjection and Oppression, in A.B. Dallery, H. Roberts, Ch. Scott, a cura di, Crises in Continental Philosophy, Suny Press, Albany 1990) l’abiezione è la modalità attraverso cui l’altro viene disumanizzato ed espulso come un escremento. “Palea” significa letteralmente “paglia”, ma Tommaso faceva riferimento allo strame che fa da lettiera nelle stalle, impastandosi di letame. Cfr. S. Thomae Aquinatis vitae fontes precipuae, Edizioni domenicane, Alba 1968.

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AUTORI / AUTRICI

PIERANDREA AMATO (v. Popolo) è ricercatore in Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina e membro del comitato di redazione della rivista «Oὖ i ! Rivista di filosofia (post)europea». Tra le sue pubblicazioni: La rivolta (2010), Ontologia e storia. La filosofia di Michel Foucault (2011). Per i tipi di Mimesis ha pubblicato, tra l’altro, Antigone e Platone. La “biopolitica” nel pensiero antico (2006) e Tecnica e potere. Saggi su Michel Foucault (2008). ADALGISO AMENDOLA (v. Costituzione) è professore ordinario di Sociologia del diritto presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno, e membro del comitato di redazione di «Oὖ i ! Rivista di filosofia (post)europea». Tra le sue pubblicazioni: I confini del diritto. La crisi della sovranità e l’autonomia del giuridico (2003), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione (con Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi e Antonio Tucci, 2009). Suoi recenti lavori sull’emersione della dimensione del “comune” sono contenuti nei volumi collettanei Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni (a cura di Maria Rosaria Marella, 2012) e Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti (a cura di Sandro Chignola, 2013). LAURA BAZZICALUPO (v. Democrazia) è professore ordinario di Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno ed è presidente della Società Italiana di Filosofia politica (SIFP); fa parte del comitato di direzione scientifica della rivista «Filosofia politica». Tra le sue pubblicazioni: Hannah Arendt: la storia per la politica (1995), Il governo delle vite. Biopolitica ed economia (2006), Biopolitica. Una mappa concettuale (2010), Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo (2013). Ha curato l’edizione italiana del testo di Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità (2010).

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Genealogie del presente

LORENZO BERNINI (v. Futuro) è ricercatore in Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia, Psicologia e Pedagogia dell’Università di Verona, dove coordina il Centro di ricerca Politesse (Politiche e teorie della sessualità). Tra le sue pubblicazioni: Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault (2008), Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero (cur., con Olivia Guaraldo, 2009), Michel Foucault, gli antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità (cur., 2011), Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale (2013). Per i tipi di Mimesis ha pubblicato La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano (con Mauro Farnesi Camellone e Nicola Marcucci, 2010). SANDRO CHIGNOLA (v. Governabilità) è professore ordinario di Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova, nonché membro del comitato di direzione della rivista «Filosofia politica». Tra le sue pubblicazioni più recenti: Storia dei concetti e filosofia politica (con Giuseppe Duso, 2008), Il tempo rovesciato. La restaurazione e il governo della democrazia (2011), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti (cur., 2013), La forza del vero. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France (1981-1984) (cur., con Pierpaolo Cesaroni, 2013). LORENZO COCCOLI (v. Povertà) è dottorando di ricerca in Storia della filosofia moderna presso la Scuola Superiore di Studi in Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. Le sue ricerche vertono sui dibattiti cinquecenteschi in materia di mendicità e assistenza ai poveri, oltre che sul tema dei beni comuni. Per la casa editrice goWare di Firenze dirige la collana di filosofia «Meme». Ha curato la raccolta Commons/Beni comuni. Il dibattito internazionale (2013) e l’edizione italiana del libro di Michel Senellart, Machiavellismo e ragion di Stato (2013). MARIANNA ESPOSITO (v. Sacrificio) è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno. Tra le sue pubblicazioni recenti: Capitalismo e teologia economica: dal capitale vivente del Welfare al capitale umano, in Disaggregazioni. Forme e spazi di governance (a cura di Antonio Tucci, 2013), Il governo della felicità. Un percorso genealogico e critico sul concetto di benessere in «Filosofia politica» (2013). Fa parte del comitato di redazione della rivista «Filosofia politica». Per i tipi di Mimesis ha pubblicato Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss (2011).

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Autori / autrici

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BRUNA GIACOMINI (v. Responsabilità) è professoressa associata di Storia della filosofia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova e membro dell’esecutivo del Forum di Ateneo per le Politiche e gli Studi di genere. Tra le sue pubblicazioni: Relazione e alterità. Tra Simmel e Lévinas (1999), Il problema responsabilità (cur., 2004), In cambio di nulla. Figure del dono (2006), L’affettività del pensiero (cur., con Umberto Curi), in «Paradosso», 1 (2012), oltre a una serie di saggi recenti dedicati a temi della ricerca filosofica di genere. Per i tipi di Mimesis ha curato il volume La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi (con Fabio Grigenti e Laura Sanò, 2011). FEDERICA GIARDINI (v. Eccellenza) è ricercatrice in Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. Coordinatrice di Iaph Italia (Associazione Internazionale delle Filosofe), collabora con la comunità filosofica di Diotima e con la Libera Università Metropolitana di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Relazioni. Fenomenologia e differenza sessuale (2004), L’alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio (2010), Sensibili guerriere. Sulla forza femminile (cur., 2012). MARIA ROSARIA MARELLA (v. Bene comune) è professoressa ordinaria di Diritto privato presso l’Università di Perugia. Attualmente si occupa di teoria critica del diritto, di teoria femminista e di diritto dei beni comuni, ed è impegnata nei lavori della Costituente dei beni comuni. Tra le pubblicazioni più recenti: Critical Family Law, in «American University Journal of Gender, Social Policy & the Law», vol. 19, 2011; Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni (cur., 2012); Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia. Le relazioni familiari nella globalizzazione del diritto (con Giovanni Marini, 2014). UGO MATTEI (v. Legalità) è professore ordinario di Diritto civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e di Diritto internazionale e comparato presso la University of California, Hastings College of the Law. È stato vicepresidente della Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici e coredattore dei quesiti referendari per l’acqua bene comune. Attualmente è impegnato nei lavori della Costituente dei beni comuni ed è il presidente di Abc – Acqua Bene Comune, l’acquedotto ri-pubblicizzato di Napoli. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La legge del più forte (2010), Il saccheggio.

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Genealogie del presente

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Regime di legalità e trasformazioni globali (2010), Beni comuni. Un manifesto (2011), Contro riforme (2013). CRISTINA MORINI (v. Precarietà) è giornalista, saggista e ricercatrice indipendente. Ha scritto saggi sulle trasformazioni del lavoro e si occupa delle problematiche legate alle differenze di genere. Fa parte del collettivo redazionale dei «Quaderni di San Precario» (è direttore responsabile della rivista), collabora alla rivista «Alfabeta 2» ed è tra le fondatrici del progetto «Effimera». Tra le sue pubblicazioni: La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico (2002) e Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo (2010). VALERIA PINTO (v. Trasparenza) insegna Filosofia teoretica e Filosofia della religione presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università “Federico II” di Napoli. Si è occupata di esperienza estetica ed esperienza religiosa nel romanticismo tedesco e nella filosofia dell’esistenza (Solger, Schleiermacher, Kierkegaard), del nesso scienza-relativismo-nichilismo nella crisi del pensiero metafisico classico (Heidegger, Becker, Troeltsch, Simmel), e più di recente dell’analisi genealogica dei sistemi di organizzazione della conoscenza negli ambiti delle “tecnologie del potere” e delle “tecnologie del sé”. Il suo ultimo libro è Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione (2012). FRANCESCO REMOTTI (v. Destra / Sinistra) dal 1979 al 2013 è stato professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Torino (da ultimo presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società) e, dal 2002, è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha condotto numerose ricerche, teoriche ed etnografiche, ed è stato coordinatore della Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale dal 1979 al 2004. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Contro natura. Una lettera al papa (2008), Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia (2009), L’ossessione identitaria (2010), Cultura: dalla complessità all’impoverimento (2012), Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013). MAURIZIO RICCIARDI (v. Società) è professore associato di Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, dove insegna anche Ideologie e legittimazione politica. Fa parte della redazione della rivista «Scienza & Politica». Tra le sue pubblicazioni: Rivoluzione (2001), La società come ordine. Storia politica e teoria politica dei concetti sociali (2010). Ha curato, con San-

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dro Mezzadra, Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche (2013). MICHELE SPANÒ (v. Legalità) è assegnista di ricerca in Diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. È inoltre ‘faculty member’ e ‘seminar series coordinator’ all’International University College of Turin e ‘membre associé’ del CENJ-“Yan Thomas” all’EHESS di Parigi. Redattore della rivista «Politica & Società», collabora alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e al mensile «L’Indice dei libri del mese». È autore de I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea (con Vincenzo Rosito, 2013) e di Azioni collettive. Governamentalità, soggettivazione, neoliberismo (2013). Ha curato l’edizione italiana di Neoliberalismo come eccezione. Sovranità e cittadinanza in mutamento di Aihwa Ong (2013). MARCO TABACCHINI (v. Movimento) è dottorando di ricerca in Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Filosofia, Psicologia e Pedagogia dell’Università di Verona. Fa parte del comitato di redazione della rivista «Oὖ i ! Rivista di filosofia (post)europea». Ha inoltre curato l’edizione italiana dei testi di Michel Surya, Della dominazione. Il capitale, la trasparenza e gli affari (2011) e Georges Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici (2013). GIANFRANCESCO ZANETTI (v. Eguaglianza) è professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha insegnato a Hunetr College (CUNY, New York) e presso l’Università della California, a Berkeley. È Associate Editor di «Ratio Juris. An International Journal of Jurisprudence and Philosophy of Law» e fa parte del comitato di direzione della rivista «Filosofia politica». Tra le sue pubblicazioni: Elementi di etica pratica (cur., 2003), Introduzione al pensiero normativo (2004), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti (con Kendall Thomas, 2005), Altri seminari di filosofia del diritto (con Massimo La Torre, 2010), Vico eversivo (2011). FEDERICO ZAPPINO (v. Crisi) è assegnista di ricerca in Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Sassari. Le sue ricerche spaziano dalla filosofia politica classica e contemporanea alle teorie queer, traversando diagonalmente i temi del potere, dell’identità, della soggettivazione. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità di Eve Kosofsky Sedgwick

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(2011) e, per Mimesis, de La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (2013) e Dis/fare il genere (di prossima pubblicazione) di Judith Butler.

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INDICE DEI NOMI

ABELE, 206 ADAMO, 65, 262 ADORNO, Theodor W., 231 AGAMBEN, Giorgio, 53 e n, 54 e n, 64n, 126n, 132n, 144n, 154 e n, 157, 159n, 166n, 214n, 252n AHMED, Sara, 258n ALGOSTINO, Alessandra, 30n, 34n ALLEGRI, Giuseppe, 28n ALLEGRI, Maria Romana, 28n, ALPA, Guido, 32n AMATO, Pierandrea, 18n, 23, 163n, 265 AMBROSINO, Georges, 213 AMENDOLA, Adalgiso, 16n, 23, 187n, 265 ARATO, Andrew, 219n ARENA, Gregorio, 36 ARENDT, Hannah, 8, 10, 11 e n, 19n, 56n, 58 e n, 59 e n, 66 e n, 67 e n, 141n, 145 e n, 147 e n, 172n, 198 e n ARFINI, Elisa A.G., 20n ARISTOTELE, 25, 56 e n, 57n, 86, 254 ARRIGO, Gianni, 46n ATHANASIOU, Athena, 57n AZZARITI, Gaetano, 30n, 34n BADIOU, Alain, 152, 162n BALDASSARRI, Marco, 77n BALIBAR, Étienne, 71 e n, 153n BAKER, Keith M., 219n BARCHIESI, Franco, 139n BASAGLIA, Franco, 63 e n BATAILLE, Georges, 12n, 143n, 146n, 209, 212 e n, 213

BAUMAN, Zygmunt, 179 e n BAZZICALUPO, Laura, 18n, 23, 60n, 212n, 216n, 217n, 252n, 265 BECK, Ulrich, 179 e n BECKER, Gary, 228n, 252 BELLUCCI, Sergio, 188n BENIGNO, Francesco, 10n BENJAMIN, Walter, 19 e n, 146 e n, 163, 198n, 214 e n BENTHAM, Jeremy, 254n BENVENISTE, Émile, 199n, 207n, 208, 210 e n BERARDI, Franco, 188n BERGOGLIO, Jeorge Mario, 260n BERGSON, Henri, 249 BERLIN, Isaiah, 103 BERNINI, Lorenzo, 19n, 23, 257n, 266 BERSANI, Leo, 257, 258 BERTOLISSI, Mario, 41n BEVILACQUA, Piero, 14 e n, 31n BIANCO, Franco, 198n BIENFAIT, H. Frits, 82 e n, 84 e n BIOCCA, Marco, 246n BLANCHOT, Maurice, 156 e n, 157, 158, 164 BLECHER, Michael, 189 e n BOBBIO, Norberto, 81 e n, 83, 84 e n, 85 e n, 86 e n, 87, 88, 89 e n, 103 BOLTANSKI, Luc, 183n, 191n BOOKCHIN, Murray, 80 e n BORRELLI, Gianfranco, 174n BOSL, Karl, 170n BOTERO, Giovanni, 174 e n BOURDIEU, Pierre, 162n, 229n BRAUDEL, Fernand, 169n

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BRECHT, Bertold, 7, 58 BRIGHENTI, Maura, 50n BRÖCKLING, Ulrich, 245n BROSSAT, Alain, 162n BROWN, Wendy, 71n BUTLER, Judith, 20n, 57n, 58n, 62 e n, 162n, 180 e n, 203 e n, 216 e n, 257 e n, 258 BYUNG-CHUL, Han, 246n CACCIARI, Massimo, 132n, 168n CACCIARI, Paolo, 20n CAILLOIS, Roger, 209 CAINO, 206 CAJVANEANU, Doina, 238n CALAMANDREI, Piero, 126n CAMPORESI, Piero, 171n CARDONA, Giorgio, 84n CARUSO, Sergio, 43n CASERIO, Robert L., 257n CATANIA, Alfonso, 48n CAVARERO, Adriana, 15n, 20n CERUTTI, Simona, 170n CHARTIER, Roger, 172n CHATTERJEE, Partha, 73 e n, 130n, 134, 227 e n, 228n CHIAPELLO, Ève, 183n, 191n CHICCHI, Federico, 60n, 179n, 181n, 186n CHIGNOLA, Sandro, 17n, 20n, 23, 49n, 51n, 177n, 187n, 189n CICERONE, 121 CLOWARD, Richard A., 176n COCCOLI, Lorenzo, 18n, 20n, 43n, 174n, 266 COHEN, Jean L., 219n COHN, Norman, 140, 141n, 142n COLLETTIVO UNINOMADE, 30n COMINU, Salvatore, 179n CONNOR, Robert W., 220 CONSTANT, Benjamin, 57 e n, 62 e n COSTA, Pietro, 125n CROCE, Benedetto, 63 CROZIER, Michel, 119 CRUSOE, Robinson, 101 CURI, Umberto, 202n

Genealogie del presente

CURNIER, Jean-Paul, 241n CVETKOVICH, Ann, 258 e n, 259n DALLERY, Arleen B., 263n DARDOT, Pierre, 215n DEAN, Tim, 257n DE LAURETIS, Teresa, 20n DE MARTINO, Ernesto, 140n DE TOFFOL, Fabiola, 35n, 37n DELEUZE, Gilles, 21n, 75, 76n, 121, 151 e n, 152, 189n, 256 DERRIDA, Jacques, 79n, 151, 202n, 206n, 240 e n DESCARTES, René, 250 DIAMANTI, Ilvo, 259 DIDI-HUBERMAN, Georges, 162 e n DIO, 63-65, 104-106, 172, 173, 206, 214, 261, 262 DI ROBILANT, Anna, 37n, 38n DI SCIULLO, Franco M., 167n DOSTOEVSKIJ, Fëdor M., 231, 232n, 235n DURKHEIM, Émile, 209, 210 e n, 211, 213 DUSO, Giuseppe, 41n EHRENBERG, Alain, 258 e n EDELMAN, Lee, 257 e n, 258, 262n ÉLIADE, Mircea, 208 e n ELIAS, Norbert, 228n ENGELS, Friedrich, 60, 89 e n, 90 e n, 92 e n ESPOSITO, Marianna, 16n, 23, 209n, 215n, 266 ESPOSITO, Roberto, 157, 216n EVA, 65, 66, 262 EWALD, François, 204n, 215n, 234n FADINI, Ubaldo, 47n FATICA, Michele, 168n FERGUSON, Adam, 221 e n, 222-224, 227 FERRAJOLI, Luigi, 49n, 126n FERRARI BRAVO, Luigi, 134n FERRARIS, Maurizio, 240n FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire), 255 e n

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Indice dei nomi

FIASCHI, Giovanni, 49n, 77n FISCHER-LESCANO, Andreas, 60n FITOUSSI, Jean-Paul, 251 FODDAI, Maria Antonietta, 196n FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE, 238n FORDING, Richard C., 59n FORMENTI, Carlo, 26n FOUCAULT, Michel, 12 e n, 13, 15n, 47 e n, 48, 60, 61n, 119, 122, 154, 155, 160-162 e n, 163, 167n, 172 e n, 185 e n, 190n, 204n, 212 e n, 214, 215n, 222, 223n, 224, 234n, 245n, 252 e n, 255, 257-259 FREUD, Sigmund, 210, 251 e n, 256 FREUND, Julien, 139 e n FRIEDRICH, Carl J., 55n FULLER, Steve, 244n FUMAGALLI, Andrea, 182n, 186n, 192n, 236n GALLI, Carlo, 42n, 83 e n GALLINO, Luciano, 92 e n GEREMEK, Bronislaw, 167n, 169n GESÙ CRISTO, 64 e n, 214, 262 GIACOMINI, Bruna, 17n, 23, 198n, 202n, 267 GIACOMO, 64 GIARDINI, Federica, 17n, 23, 267 GIDDENS, Anthony, 81 e n GIOVANNI, 64 GIOVANNI CASSIANO, 245n GIOVANNI DI PATMOS, 64 GIRARD, René, 198n, 208 e n GORBACIOV, Michail, 231 GORZ, André, 191n GRAEBER, David, 139 e n GRAMSCI, Antonio, 60, 148 e n, 153 GRILLI, Roberto, 246n GROSSI, Paolo, 27n GROTTANELLI, Cristiano, 207n GRUNDMANN, Herbert, 140, 141 e n GUARESCHI, Massimiliano, 59 GUATTARI, Felix, 21n, 75, 76n, 189n, 256 GUDAVARTHY, Ajay, 228n

GUERRA, Alessandro, 28n GUTTON, Jean-Pierre, 167n HABERMAS, Jürgen, 49 e n, 119, 241n, 249 HALBERSTAM, Judith ‘Jack’, 257n, 258 e n HAMILTON, Alexander, 197 HARAWAY, Donna, 190n HARDT, Michael, 20n, 26n, 50n, 56n, 153 e n, 166n HEIDEGGER, Martin, 152, 247n, 249 HERTZ, Robert, 84 e n HITLER, Adolf, 55, 59 HOBBES, Thomas, 41, 43, 45, 58, 120, 152, 153, 160, 214, 221, 249, 250 e n, 251, 252, 253 e n, 254-256, 259, 261, 262 e n, 263 HOBSBAWM, Eric, 9 e n HOCQUENGHEM, Guy, 256 e n, 257, 258 HORKHEIMER, Max, 231 HUBERT, Henri, 211 e n, 216 e n HUNTINGTON, Samuel, 119 IPPOCRATE, 63 JAY, John, 197 JEFFERSON, Thomas, 45 JONAS, Hans, 205n JÜNGER, Ernst, 143 e n KANT, Immanuel, 66n, 254n KATYAL, Sonia, 130n KAUFMANN, Laurence, 220n KAVIRAJ, Sudipta, 219n KELLENAER (CELLARIUS), Christian, 169, 170n, 173 e n KENNEDY, Duncan, 31n, 33n, 39n KEYNES, John Maynard, 236n KHIARI, Sadri, 162n KHILNANI, Sunil, 219n KING, Martin Luther, 104 KIRCHHEIMER, Otto, 126n, 129n KLEE, Paul, 19, 151 KLEIST, von, Heinrich, 148n

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KOSELLECK, Reinhart, 56n KOSOFSKY SEDGWICK, Eve, 20n, 258n KRASMANN, Susanne, 245n LA PERRIÈRE, de, Guillaume, 121 LABRUCE, Bruce, 263n LACLAU, Ernesto, 74 e n, 137, 138 e n, 140n, 155n, 158 e n, 159 e n, 160 LANTERNARI, Vittorio, 140, 141n LAPONCE, Jean A., 84 e n, 85 e n, 86 e n, 87 e n, 88, 89n, 90, 91n, 92 e n LATOUR, Bruno, 220n, 242 LAVAL, Christian, 215n LAZZARATO, Maurizio, 59n, 61, 215n, 216n, 244n LEE, Benjamin, 239n LEFORT, Claude, 69, 70n, 71 LEMKE, Thomas, 245n LEONARDI, Emanuele, 179n, 181n, 186n LETTA, Enrico, 259, 262 LÉVINAS, Emmanuel, 180, 201 e n, 205 LÉVI-STRAUSS, Claude, 90 e n, 91, 92 e n LIANG, Lawrence, 131n LILIENSTERN, von, Rühle, 148n LIPUMA, Edward, 239n LOCKE, John, 43 e n, 44, 175 e n LO IACONO, Cristian, 20n LONZI, Carla, 256n LOPEZ PETIT, Santiago, 138n LORELLE, Yves, 135 LOVE, Heather, 258n LOWIE, Robert, 90 LUCARELLI, Stefano, 236n LUCIANI, Albino, 261n LUCILIO, 249 LUHMANN, Niklas, 219n, 226n, 229 e n LUIGI XVI, 82 LUKÁCS, György, 131 e n, 148n, 232n LUXEMBURG, Rosa, 148n MACHEREY, Pierre, 60n MACPHERSON, Crawford B., 44n, 250 e n

Genealogie del presente

MADISON, James, 197 MALCOLM X, 104 MARCHART, Oliver, 74n MARELLA, Maria Rosaria, 17n, 20n, 23, 26n, 28n, 31n, 32n, 39n, 43n, 267 MARRAMAO, Giacomo, 199n MARSHALL, Thomas H., 48 e n MARSOCCI, Paola, 28n MARTUCCELLI, Danilo, 244n MARX, Karl, 60, 61n, 89 e n, 90n, 92 e n, 148n, 153, 160, 184 e n, 219, 224 e n, 225 MATTEI, Ugo, 16n, 20n, 23, 31n, 32n, 43n, 127n, 133n, 267 MATTEO, 262n MAUSS, Marcel, 209, 211 e n, 212, 213, 216 e n MAZZARESE, Tecla, 91n MCKEON, Richard, 196n MCILWAIN, Charles H., 42n MELEGARI, Diego, 51n, 77n MELVILLE, Herman, 249 MEZZADRA, Sandro, 47n, 50n, 73n, 76n, 130n, 133n, 227n, 230n, 236n MONDZAIN, Marie-José, 214n MONEY KYRLE, Roger, 209n MONTAIGNE, Guillaume, 171n MONTAIGNE, Michel de, 105 MONTEBUGNOLI, Alessandro, 26n MORGAN, Lewis H., 90 MORINI, Cristina, 18n, 23, 180n, 181n, 190n, 268 MORONCINI, Bruno, 157 MORRIS REYNOLDS, Ann, 258n MORTATI, Costantino, 133n MOUFFE, Chantal, 74n, 140n MUÑOZ, José Esteban, 257n NADER, Laura, 31n, 127n NÄF, Werner, 118 NANCY, Jean-Luc, 156 e n, 157 NAPOLI, Paolo, 171n NATIONAL HUMANITIES CENTER, 220n NEAVE, Guy, 239, 245n

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Indice dei nomi

NEEDHAM, Rodney, 84 e n, 85n NEGRI, Antonio, 20n, 26n, 39n, 45n, 50n, 59n, 133n, 153 e n, 166n, 250n NEILSON, Brett, 76n NIETZSCHE, Friedrich, 11n, 12, 157, 223, 234n, 235n, 253n NIVARRA, Luca, 32n NOËL, Bernard, 8, 16 e n, 239n O’CONNOR, Karen, 119 OFFE, Claus, 119 OMERO, 199 PADOA-SCHIOPPA, Tommaso, 237n PAINE, Thomas, 45 PAOLO DI TARSO, 64 PAOLONI, Lorenza, 31n PARTANEN, Anu, 246n PASCAL, Blaise, 249 e n, 250, 251, 259 PASCUCCI, Margherita, 166n PATEMAN, Carole, 250 e n, 254 PAUDYN, Bartholomew, 243n PAZÉ, Valentina, 162n PELLIZZETTI, Pierfranco, 243n PEÑALVER, Eduardo M., 130n PENNACCHI, Laura, 25n PEPINO, Livio, 10n PINDARO, 199 PINTO, Valeria, 16n, 23, 243n, 245n, 268 PIVEN, Frances F., 176n PLATONE, 103 PLUTARCO, 105 POCOCK, John G.A., 45n POLANYI, Karl, 91, 92n POMPILI, Daniela, 263 PORTINARO, Pier Paolo, 93n, 205n POSSENTI, Ilaria, 179n PRIMI, Paolo, 163 e n PROCACCI, Giovanna, 167n, 171n, 175n PRYKE, Michael, 244n RAHNEMA, Majid, 165n RAHOLA, Federico, 59n

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RAMMSTEDT, Otthein, 235n RANCIÈRE, Jacques, 74, 75 e n, 160 e n, 161, 162, 239n, 240n REGINALDO DA PIPERNO, 263 REMOTTI, Francesco, 18n, 23, 91n, 93n, 268 REVELLI, Marco, 10n, 83 e n, 88 e n RICCIARDI, Maurizio, 18n, 23, 220n, 227n, 230n, 268 ROBERTS, Holley, 263n ROBERTSON SMITH, William, 209 e n, 210 RODINSON, Maxime, 142n RODOTÀ, Stefano, 20n, 28, 32n, 34, 39n ROGGERO, Gigi, 10n ROPPO, Vincenzo, 32n ROSANVALLON, Pierre, 72 e n, 121 ROSE, Nicholas, 243n, 246n ROSSITER, Clinton L., 55n ROUSSEAU, Jean-Jacques, 120, 250 e n, 252 RÜHLE, Otto, 148n RZEPKA, Vincent, 247n SAHLBERG, Pasi, 246n SAMADDAR, Ranabir, 228n SANTAMBROGIO, Ambrogio, 87 e n, 88 e n, 89n SANTOS, Alvaro, 31n SANZIO, Raffaello, 101 SARDINHA, Diogo, 138n SASSIER, Philippe, 167n, 168n SCALFARI, Eugenio, 260n SCALONE, Antonino, 41n SCHIERA, Pierangelo, 41n, 54n, 87n, 125n, 163n SCHMIDT-SEMISCH, Henning, 245n SCHMITT, Carl, 42n, 54 e n, 55, 87, 125 e n, 126 e n, 143, 144 e n, 145n, 147 e n, 159n, 163 e n, 214, 240n SCHÖNBERG, Arnold, 125 SCHOPENHAUER, Arthur, 253 SCHRAM, Sanford F., 60n SCOTT, Charles, 263n SHULTZ, Theodore W., 252

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276

SELDEN, John, 43 e n SEN, Amartya, 251 SENECA, Lucio Anneo, 249 e n SENELLART, Michel, 174n, 234n SEPPILLI, Tullio, 26n SETTIS, Salvatore, 29 e n, 30 SIMMEL, Georg, 235n, 236n, 237n, 239 e n, 246n SIMONE, Anna, 58n, 62n SLOTERDIJK, Peter, 231n, 232 e n, 237n SOFOCLE, 56n SOLLA, Gianluca, 165 SONTAG, Susan, 15n SOSS, Joe, 59n SPANÒ, Michele, 16n, 23, 269 SPINOZA, Baruch, 153 STAIGER, Janet, 258n STANDING, Guy, 192n STEIN, Gertrude, 145 e n, STEIN, von, Lorenz, 135 e n, 136, 137, 226 e n STIGLITZ, John, 251 STIMILLI, Elettra, 61n, 214n STRATHERN, Marilyn, 242n SUNSTEIN, Cass R., 59n SURYA, Michel, 236n, 240n, 245n TABACCHINI, Marco, 18n, 143n, 240n, 269 TARIZZO, Davide, 74n, 155n, 253n TESEO, 56n TESTART, Alain, 209n TEUBNER, Gunther, 50 e n, 60n THALER, Richard H., 59n TILLY, Charles, 137n TINGSTEN, H., 55n TODESCHINI, Giacomo, 170n TOMMASO D’AQUINO, 25, 260, 263

Genealogie del presente

TOSI, Flavio, 260, 261 e n, 262 TOURAINE, Alain, 137 e n TRONTI, Mario, 10n, 251n TRUBEK, David M., 31n TSOUKAS, Haridimos, 243 e n, 245n TUCCI, Antonio, 215n TUCIDIDE, 56 e n, 63 e n YEATS, William Butler, 11 YOUNG, Iris Marion, 263n VALASTRO, Alessandra, 35n, 37n VAN BEEK, Wouter E.A., 82 e n, 84 en VARDARO, Gaetano, 46n VATTIMO, Gianni, 241n VÁZQUEZ, Fernando, 175n VICO, Giambattista, 105, 110 VIRGILIO, 53 VIVES, Juan-Luis, 169 e n, 170 e n, 172n, 173 e n WACQUANT, Loïc, 176n WATANUKI, Jōji, 119 WEBER, Max, 200 e n, 213 e n, 232 e n, 233 e n WIENER, Norbert, 247n WOOD, Lesley, 137n ZAMJATIN, Evgenij, 242 ZANARDI, Maurizio, 162n ZANATTA, Marcella, 198n ZANETTI, Gianfrancesco, 18n, 23, 269 ZANINI, Adelino, 10n, 47n ZAPPINO, Federico, 18n, 20n, 62n, 103, 216n, 257n, 269 ZENTI, Giuseppe, 260 ŽIŽEK, Slavoj, 9 e n, 233n, 240n, 251n ZOLO, Danilo, 125n

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ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale

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32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65.

Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica

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66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana

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95. 96. 97. 98. 99.

Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica 124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte

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125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo

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159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Roberto Giambrone, Follia e disciplina. Lo spettacolo dell’isteria 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro

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193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi 196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone 205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione 206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media 207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale, tra neuroscienze e filosofia politica 208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico 209. Roberto Festa e Gustavo Cevolani, Giochi di società. Teoria dei giochi e metodo delle scienze sociali 210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti. Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità 211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento 212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness, a cura di Giuseppe Moretti 213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle marche e nei media 214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo 215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un soggetto. Tra comune e singolare 216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici di nido 217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre 218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Marco Deriu e Gabriele Galbiati 219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici 220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà 221. Antonio Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance 222. Didier Alessio Contadini, Il compimento dell’umano. Saggio sul pensiero di Walter Benjamin 223. Didier Alessio Contadini, Scioccanti verità. La critica della modernità in Poe e Baudelaire 224. Delio Salottolo, Una vita radicalmente altra

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225. Roberto Miraglia, Intenzionalità, regole, funzioni. I fondamenti delle scienze sociali in Searle 226. Pietro Piro, Nuovo Ordine Carnevale. Conferenze, saggi, recensioni, esercizi di memoria 227. Cosetta Saba, Archivio, cinema, arte 228. Paolo Sensini, Divide et Impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente 229. Antonella Penati (a cura di), È il design una narrazione? Design e narrazioni 230. Antonella Penati (a cura di), Il design costruisce mondi. Design e narrazioni 231. Antonella Penati (a cura di), Il design vive di oggetti-discorso. Design e narrazioni 232. Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio. I protagonisti raccontano la scena artistica in Italia dei primi anni 2000 233. Emanuela Mancino, Farsi tramite. Tracce e intrighi delle relazioni eductive, con scritti di Emanuele Fusi, Benedetta Gambacorti, Federica Jorio, Stefano Landonio, Davide Rizzitelli e Chiara Nicole Zuffrano 234. Paolo Biscottini, Giovanni Ferrario, La radura dell’arte. Conversazioni sull’immagine 235. Andrea Pitto, Jung e Reich. Freud e i suoi discepoli. L’eresia, il misticismo, l’energia, il nazismo 236. Angelo Romeo, Socialmente Pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, Prefazione di Franco Ferrarotti 237. Gildo De Stefano, Una storia sociale del jazz. Dai canti della schiavitù al jazz liquido, Prefazione di Zygmunt Bauman 238. Fabio Vander, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politico della Grande Guerra 239. Etienne Balibar, Vittorio Morfino, Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutamenti 240. Anna Simone (a cura di), Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi 241. Migralab A. Sayad (a cura di), Giovani di origine straniera e discriminazione. Evidenze e note a margine di un’indagine sociologica svolta tra Milano e Messina 242. Matteo De Cesare, L’invincibile estate. Albert Camus 243. Rossella Fabbrichesi, Peirce e Wittgenstein: un incontro. Immagine, prassi, credenza 244. Giovambattista Vaccaro, Il tragico, l’etico, l’utopico. Studio sul giovane Lukács 245. Andrea Lorenzetti, Prigioniero dei nazisti libero sempre, Lettere da San Vittore e da Fossoli, marzo - luglio 1944 246. Ciro Tarantino e Alessandra M. Straniero, La bella e la bestia. Il tipo umano nell’antropologia liberale 247. Leonardo Caffo, Margini dell’umanità. Animalità e Ontologia Sociale. Disegni di Tiziana Pers 248. Oscar Horta, Una morale per tutti gli animali. Al di là dell’ecologia, A cura di Michela Pettorali, Introduzione di Leonardo Caffo 249. Paola Sobbrio, Alma Massaro, Giudizi divini, giudici terreni gli animali tra teologia e diritto, Introduzione di Leonardo Caffo 250. Antonio Moretti, Gilles Deleuze e l’ideologia del Sessantotto. Dialettica e differenza 251. Adriano Segatori, Teresa Tonchia (a cura di), Dal Leviatano la salvezza, Prefazione di Claudio Bonvecchio

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252. Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana 253. Raewyn Connell e Laura Corradi, Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo

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Finito di stampare nel mese di aprile 2014 da Digital Team - Fano (Pu)

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