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Italian Pages 104 Year 1994
1994
UNIVERSITY OFA
REI, , HIRCKKKKONONAN JOVINE SCRITTORE MOLISANO
a cura di
Francesco
D’Episcopo
Edizioni Scientifiche Italiane
Digitized by the Internet Archive in 2028 with funding from Kahle/Austin Foundation
Nttps://archive.org/details/ispn_8871049675
BIBLIOTECA
DEL MOLISE
E DEL SANNIO
collana diretta da
Francesco D’Episcopo
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Nella stessa collana: 1. Fuppo BencARDINO, Benevento. Funzioni urbane e trasformazioni territoriali tra XI e XX secolo, 1991. 2. Gruseppe DE RuBERTIS, // Molise. Percorsi Personaggi Prospettive, a cura di Francesco D’Episcopo, 1993. 3. FRancesco D’EpriIscoPo (a cura di), Francesco Jovine, scrittore molisano, 1994.
FRANCESCO JOVINE SCRITTORE
MOLISANO
a cura di
Francesco D’Episcopo
Edizioni Scientifiche Italiane
Atti del convegno di studi sulla figura e l’opera di Francesco Jovine (Guardialfiera,
11 novembre 1990), a quarant’anni dalla morte.
Il volume è stato realizzato con il contributo del Comune di Termoli.
D’Epriscopo, Francesco (a cura di) Francesco Jovine, scrittore molisano
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1994 Collana: Biblioteca del Molise e del Sannio, 3 pp. 100; 24 cm. ISBN
88-7104-967-5
© 1994 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a. 80121 Napoli, via Chiatamone 7 00185 Roma, via dei Taurini 27 82100 Benevento, via Porta Rettori 19 20129 Milano, via Fratelli Bronzetti 11
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi imicrofilms e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi
FRANCESCO SCRITTORE
JOVINE
MOLISANO
MONTEPELUSE” Alla memoria di Francesco Jovine
I cafune te ’ritten’ i hianche
che l’ogne di mane, come se fusse nu cane regnuse:
Montepeluse. Chi piede nell’acque du hiume t'addubrme de notte chi ’rille e cevette e de iuòrne pazzìe chi sierpe e lesciérte che te nascene ’n cuorpe. U ponte de Sand’Andonie
che ’n-uocchie rapierte tammènte e dalle voce
’a gente che zappe e che ’ratte sauce sicche e necchiareche vecchie.
E quann’ u Befierne accoglie de vierne e ze porte terrime e semiente — chi vracce appese e l’u6cchie gnettechìte — ’Îla pòvere gente va’ ’ppriess’ a hiéme che zeffonne spranze e fatìe: nu mare du core. GIOVANNI CERRI * È il testo di una poesia di Giovanni Cerri, conservata presso la Biblioteca «Pasquale Albino» di Campobasso. Reca la data del 5 giugno 1969 (N.d.c.)
MONTEPELOSO
I cafoni ti grattano i fianchi con le unghie delle mani, come se fossi un cane rognoso: Montepeloso. Con i piedi nell'acqua del fiume t’addormenti di notte con i grilli e le civette e di giorno giochi con 1 serpi e le lucertole che ti nascono in corpo.
Il ponte di Sant Antonio con un occhio (arco) aperto guarda e dà voce alla gente che zappa e che gratta salici secchi e terreni sterili vecchi. E quando il Biferno è in piena d’inverno e si porta terreno e sementi — con le braccia appese e gli occhi sbigottiti — quella povera gente và dietro la piena che sprofonda speranze e lavoro: nel mare del cuore.
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INTRODUZIONI
LO SCRITTORE, L’UOMO
Un grigio e ventoso pomeriggio di novembre, a Guardialfiera, per inaugurare un monumento alla memoria di Francesco Jovine, per celebrare un convegno sulla sua opera, a quarant'anni dalla morte. Un convegno promosso dal Centro Studi «Molise 2000» e dal suo entusiasta presidente, Vincenzo di Sabato; un incontro di studi, ma
anche un momento di comunicazione cordiale con la figura di Ciccio Jovine, che a Guardialfiera respirò la prima meraviglia del vivere e coltivò la passione del narrare, del raccontare, anche presso il camino di mio nonno, don Peppe Lalli, notaro, attraverso la famiglia Loreto,
congiunto da vincoli di parentela con la madre di don Ciccio. Nella fotografia di copertina, mio nonno, ultimo a destra, e lo scrittore,
terzultimo a destra, sono vicini in una divagante sortita nelle campagne di Guardialfiera. Campagne, che il padre di Jovine, agrimensore, aveva percorso e misurato, trasmettendo al figlio la memoriale rapsodia di «un mondo defunto», secondo la celebre dedica di Signora Ava.
Un convegno, che ho avuto l’onore e il piacere di coordinare, forse per le molteplici e silenziose ricerche compiute, nel corso degli anni, sul narratore (ma anche poeta) guardiese, confortato dall’amichevole afflato di un pubblico variegato, in cui figuravano i più autorevoli esponenti della cultura, dell'economia, della politica molisane, ma anche la gente di tutti i giorni, che Jovine tanto amava e sentiva sangue del suo sangue. Un incontro attento, ma anche amoroso, con l’opera e la figura di uno degli scrittori più rappresentativi dell’inquieto Novecento letterario, soprattutto per la sua consapevole capacità di calare la nostra isola molisana nel problematico contesto dello smisurato continente meridionale. Gli interventi critici, le testimonianze umane di quel pomeriggio, di quella sera di novembre, vedono finalmente la luce, aggiungendo
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Introduzioni
un particolare, prezioso tassello al mosaico critico e umano sull’autore di Signora Ava e de Le terre del Sacramento, ma anche di altre opere, che attendono una più organica collocazione storica e letteraria. Gli autori dei saggi e delle testimonianze sono tutti molisani: l’opera e la personalità di Jovine si prestano, quindi, ad essere rilette e
rivissute dall’interno delle sue radici e dall’esterno di inedite situazioni di vita. Per la prima volta, forse, lo scrittore e l’uomo convivono
così intensamente nelle pagine di un libro tutto molisano, che evita però ogni facile cliché di bozzettismo e di folklorismo per porsi come un'autentica riproposta di un uomo, che racconta nei libri la storia di se stesso e della sua gente, senza falsità, senza retorica, con
l’amore e la rabbia di chi sente che per il Molise, per il Mezzogiorno, è possibile immaginare, inventare un comune, migliore futuro. È, questo, un libro che, affidato ad un’autorevole casa editrice meridionale, intende congiungere il destino del Molise e del Mezzogiorno a quello di una nazione, di un mondo, tormentati da gravi problemi di coesistenza civile. L’opera di Jovine, la sua vita, così piene di malinconia, di allegria,
si offrono ad essere rianimate e ripercorse con una aderenza ed una umanità, realmente capaci di restituire il battito, talvolta segreto e sfuggente, della scrittura e della storia. A una tale prospettiva il presente volume si propone di recare un contributo né episodico né effimero. Francesco
D’Episcopo
IL MOLISE vERSO
IL DUEMILA
A meno di un decennio dal 2000 — forse perché stranamente è così intitolato il nostro «Centro» — ci sono voluti quaranta anni dalla sua morte, per inaugurare stasera, in questo scenario, fra personalità illustri, autorità, non meno valenti relatori, familiari dello scrittore,
cittadini e tanti ospiti, tutti benvenuti e graditi, un monumento al più intrepido e coraggioso cantore della nostra terra e delle nostre genti: Francesco Jovine di Guardialfiera. Più di uno ci aveva pensato inutilmente in passato. Così, al nascere di questa istituzione, abbiamo inteso raccogliere seriamente, dall’estro di Luciano Gentili, questa voce, rilanciandola
rapidamente agli uomini di buon ascolto. Francesco Colitto, un padre della costituzione italiana, l’economi-
sta, il politico, il giurista, lo storico; ma soprattutto l’uomo del Molise, l’ha ascoltata e recepita, dichiarandosi disponibile ad erigere l’opera d’arte, con un contributo cospicuo della Banca Popolare del Molise,
l’Istituto di Credito da lui inventato e presieduto a beneficio delle nostre popolazioni. L’alto rilievo bronzeo, dedicato alla figura e all’opera di Francesco Jovine, è opera della scultrice Rita Racchi Macchiagodena. È stato fuso nella storica Fonderia «Marinelli» di Agnone, ricevendo il supporto architettonico di Antonietta Caruso e Michele Pagliarulo. Tale fu la spontaneità, la convinzione e l’enfasi nell’esprimere l’offerta, che al «Centro» parve inevitabile, quanto meno, proporre per l’onorevole Francesco Colitto il conferimento della cittadinanza onoraria di Guardialfiera. Rispondendo, egli così mi singhiozzò per telefono, dopo una pausa di confusione e di silenzio, testimone Gino Velardi: «Non me lo ha
fatto sognare nessuno mai, non Campobasso, neppure Carovilli, laddove sono nato. Ma farete in tempo voi? Del resto, non sono ancora vecchio — proseguì ironizzando — ho soltanto vissuto varie giovinezze».
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Introduzioni
Ma ci lasciò invece solo da lì a pochi mesi. Questa sera Colitto misteriosamente è qui: cittadino di Guardialfiera. Il suo testamento fu poi rilevato ed onorato dalla nobiltà dei giovani suoi successori: dall'avvocato Franco Mancini, nuovo
Presi-
dente, prosecutore fervido della intelligenza e della perspicacia di Colitto. Ed eccoci qui, seppur con qualche crollo di fiducia derivante dalla disincantata realtà in mezzo alla quale si è sviluppata la genesi di questa e di altre avventure; eccoci qui anche ad annotare e divulgare per correttezza, oltre la munificenza della Banca Popolare del Molise, il rinnovato incanto di chi, da sempre, ha amato e sostenuto il Molise: Amministrazione Municipale di Termoli; l’Amministrazione Municipale di Guardialfiera; l’Amministrazione Provinciale di Campobasso; la Regione Molise;
l’Università agli Studi del Molise. Ma un grazie di cuore vada, soprattutto, al Comune di Termoli,
al Suo Sindaco, Remo Di Giandomenico, al Consiglio Comunale, che hanno in prima linea sostenuto e reso possibile questa pubblicazione, anche in vista di promettenti sviluppi socio-culturali, legati al nome di Francesco Jovine; ai loro validi collaboratori, quali l’archi-
tetto Bruno D’Apice e la signora Angela Dell’Oglio. Sono stimoli, questi, che ci tentano — se ancora avremo forza — ad
impegnarci nel tempo così: con coraggio e senza presunzione, nell'offerta di un contributo modesto alla elevazione dell’uomo. Con umiltà, ma anche con convinzione. Perché ci rendiamo conto
che la notte — è vero — incomincia con la prima stella; il fiume con la prima goccia; l’amore con il primo segno. Perciò occorre la prima goccia, il primo segno, la prima stella. E chiediamo perciò e preghiamo che qualcuno si muova perché il mondo si muova; che qualcuno cambi perché noi cambiamo; che qualcuno divenga «nuovo», perché giungiamo alla sperata «novità» di vita. È un po’ questo il grido di riscatto che, come un'eco, ci proviene da Jovine, risuonante da quest'oggi anche dal bronzo. Continuare, dunque, a lavorare insieme: non con l'illusione di
Il Molise verso il Duemila
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riordinare il Molise, ma per l’incontenibilità di amarlo, con la stessa intensità con cui forse l’amava Francesco Jovine. Perché crediamo, da uomini e da fratelli di Cristo, nell’amore.
Quello «diffusivo», il solo debito che non teme confisca e che dà gusto e motivazioni alla vita ed al futuro della nostra società. VINCENZO DI SABATO Presidente del Centro Studi «Molise 2000»
IL MOLISE, PROSSIMO
VENTURO
È per me, per la Città di Termoli, motivo di particolare orgoglio sostenere la pubblicazione degli «Atti del convegno di studi sulla figura e l’opera di Francesco Jovine», svoltosi a Guardialfiera 1°11 novembre 1990, a quarantanni dalla scomparsa dello scrittore molisano. Compito primario di un’Amministrazione Comunale è anche quello di promuovere iniziative culturali concrete, collegate al territorio. Di qui la decisione di incoraggiare l’iniziativa del Centro Studi «Molise 2000» con la realizzazione editoriale, che qui si propone al Molise e al mondo, nello spirito di un incontro, che merita di essere sempre più incentivato ed incoraggiato. Pensiamo soprattutto ai tanti emigrati, costretti a lasciare la nostra terra, ma anche custodi fedeli di un patrimonio di tradizioni, qualche volta rimosse dalla nostra regione. Ma anche il Molise e la scuola, con questa pubblicazione, dedicata ad uno dei maggiori rappresentanti della narrativa del nostro Novecento, avranno una preziosa occasione per una più scientifica e umana conoscenza di Jovine e del suo messaggio. È, questo libro su Jovine, curato con il consueto amore da Francesco D’Episcopo, uno dei più autorevoli conoscitori e riscopritori della sua opera, solo un primo atto culturale, destinato a restituire piena cittadinanza molisana a Jovine, ma anche a proiettare il suo esempio letterario e umano in una dimensione più vasta. La comunità civile di Termoli intende valorizzare, con Jovine, lo specchio e l’immagine di un Molise prossimo venturo, nella persuasione che il futuro della nostra regione e del nostro Mezzogiorno è anche nelle sue mani. Il mare ha sempre rappresentato il simbolo del futuro e del progresso per molte regioni meridionali. Noi siamo profonda-
Il Molise, prossimo venturo
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mente impegnati in un processo di rinnovamento, che non elimini 1 valori del passato, ma li riviva alla luce di nuove esigenze ed aspirazioni. In tale prospettiva l'esempio di Jovine può rivelarsi vincente! Remo Di GIANDOMENICO Sindaco di Termoli
IL MOLISE
TRA
PASSATO
E FUTURO
Si può intravvedere, pur nella ovvia «temerarietà» dell’accostamento, un sottile filo ideale fra la missione letteraria del grande romanziere Francesco Jovine e quella sociale della Banca Popolare del Molise. Questa nasce nell’anno — il 1950 — in cui Egli muore, quasi a raccoglierne un lascito spirituale: la lotta per il progresso del Molise, l’eco al «canto segreto e sommerso dell’umile gente, desiderosa di lavoro e di vita più umana e civile». Ed ha accompagnato, dal dopoguerra ad oggi, l’ansia di riscatto, la dignitosa sofferenza, la riservata operosità, che hanno riempito le splendide pagine della narrativa joviniana, da un Un uomo provvisorio a Signora Ava, da Il pastore sepolto a L’impero in provincia, da Uno che si salva a Le terre del Sacramento. Ispirandosi alla filosofia del localismo bancario e del credito popolare, la Banca dei molisani si è posta al crocevia delle aspettative di una popolazione che anelava ad uscire dall’isolamento orografico e culturale che aveva segnato e provato 1 personaggi scolpiti dal nitido tratto dello scrittore di Guardialfiera, in particolare il Luca Marano nel quale, per dirla con Cecchi e Sapegno, «si concentra l’umiliazione, la poesia e la speranza della sua regione». La Banca Popolare ha cercato, in tutti questi anni, di offrire una speranza, assecondandone le iniziative ed i progetti, a quella gioventù, povera ma non incolta, che, nella descrizione di Jovine, si sentiva costretta ad aprirsi uno spiraglio nella vita nazionale, non riuscendo mai, però, a rimuovere il torrente dei ricordi e degli affetti della
provincia. Allevatosi agli studi del Nitti, del Salvemini, del Fortunato, alle frequentazioni di Giuseppe Lombardo Radice ed al pensiero gramsciano, Francesco Jovine ha attinto soprattutto alle proprie esperien-
Il Molise tra passato e futuro
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ze dirette, al contatto con la civiltà contadina, alle più intime pieghe di vita paesana, per proiettare le vicende autobiografiche ed il dolore della gente molisana nel più ampio palcoscenico della questione meridionale. Una capacità di guardare dentro al proprio mondo, che risente della influenza verghiana, e che si libera di fronzoli e scorie folkloristiche, per assumere una chiara cifra civile e storiografica. Nella limpida, acuta rappresentazione — ora da giornalista, ora da narratore — dei sentimenti del suo popolo, del disperato rapporto con la famiglia e con la terra, dell’umiliazione dell'emigrazione, delle frustrazioni di una gioventù assetata di piacere, di libertà e di gratificazione, si rivela la profonda, penetrante, cruda conoscenza della realtà molisana, materializzata in quella «campagna indocile, dura,
che ha insegnato a quelli che le chiedono la vita una sofferenza amara, una chiusa malinconia, una parsimonia crudele». Nella sua analisi della storia del Sud, del peso esercitato dal brigantaggio, dei problemi della terra, si sublima la statura non solo del romanziere, ma anche dell’attento osservatore dei fenomeni economici: ecco, allora, che riecheggia il denominatore comune al ruolo
della nostra banca, che di questi aspetti economici è fedele referente, ed a quello del Credito Popolare, il cui augusto profeta, Luigi Luzzatti, proprio ai Problemi della Terra dedicò una mirabile opera. Un altro punto di consonanza può essere colto in un importante episodio della vita di Jovine, che lo vede nei panni di studente, povero ma
determinato, che può proseguire gli studi grazie al prestito di un parente emigrato in Argentina: un esempio di come il denaro — ed a maggior ragione una banca — possano tradursi in strumento di emersione e di elevazione delle energie morali ed intellettuali. Per tutti questi motivi, il bassorilievo che la banca ha oggi donato ad imperituro ricordo del grande scrittore, nella terra che gli ha dato i natali e che così fedelmente ne custodisce e tramanda la memoria grazie alla fervida e meritoria azione di uomini come Vincenzo Di Sabato e di organismi come il Centro Studi «Molise 2000», è il sentito, doveroso omaggio di un Istituto che ama riconoscersi nei più nobili figli della terra molisana e che cerca di servire, con umiltà e tenacia, la stessa causa di emancipazione sociale, culturale ed econoimica. FRANCESCO
MANCINI
Presidente della Banca Popolare del Molise
IL MIO INCONTRO con FRancEscO JOVINE: SENSAZIONI E RIFLESSIONI
Autorità, illustri relatori, gentili Signore e Signori, nel porgere il saluto mio e dell’intero Consiglio provinciale, desidero premettere che questo breve intervento, il quale, per motivi che dirò, non poteva essere conclusivo nella cerimonia odierna, è diviso in due parti: la prima che riguarda «Il mio incontro (da lettore naturalmente) con Francesco Jovine», la seconda (brevissima), che mi auguro non vi
sembri fuori luogo, ma spero attuale, proprio in una giornata particolarmente significativa, spiega il perché l’Amministrazione Provinciale è oggi, come in altre circostanze, al fianco del Centro Studi «Molise 2000» ed al suo Presidente, animatore, Vincenzo di Sabato. Nella presentazione del Viaggio nel Molise, pubblicato nel 1968, Nicola Perrazzelli scriveva: «È pertanto legittimo chiedersi, a distanza di un quarto di secolo da quando Jovine scrisse gli articoli qui raccolti, se qualcosa è mutato nel Molise da allora». E già all’epoca questo versatile, alto magistrato, umanista, acuto osservatore dei complessi problemi della società molisana, sottolineava che la civiltà contadina, che ne segnava 1 limiti nei difetti e nelle virtù, stava per diventare un ricordo per i molisani e che ai contadini avrebbe sorriso la speranza di poter vivere da cristiani. Notava ancora il Perrazzelli: «Quando tali trasformazioni saranno realizzate compiutamente, questi articoli e i romanzi e i racconti di Francesco Jovine — validissimi sempre sul piano dell’arte e della poesia — costituiranno la testimonianza del passato miserabile del Molise, che è durato per troppi secoli e che anch'essi contadini avranno contribuito a far superare con la forza della loro accorata ma fiduciosa denuncia». La mia consapevole presa di coscienza della personalità dello scrittore giunge tardi, tardi perché non ho vissuto, con partecipe orgoglio di corregionale, i momenti salienti della difficile, sofferta ascesa del
Il mio incontro con Francesco Jovine
DI
«cantore» della nostra terra che, al tempo delle sue prime, giovanili affermazioni (erano gli anni del regime), suscitava vasti echi e notevoli interessi nel mondo letterario dell’epoca. Chiarisco il concetto del tardi: quando Jovine prematuramente scomparve — è l’anno del premio Viareggio assegnato al Nostro per le Terre del Sacramento — chi vi parla non era ancora nato. E avevo solo dodici anni, quando
a scuola lessi una frase del professore Antonio Mucciaccio, nel contesto di una relazione per i suoi allievi: «La maggior parte degli alunni della nostra scuola sono figli di contadini che lavorano la terra petrosa e corrosa come le porche del Sacramento». A casa, chiesi a mio padre di dirmi delle terre del Sacramento. E mio padre mi parlò di Jovine, riuscendo con la sua saggezza, il suo modo semplice, essenziale di porgere, a far recepire anche difficili interpretazioni, cosicché il mondo di Jovine si aprì all'anima di un ragazzo molisano e ne lasciò sensibile traccia. Quando scopro Jovine, quando lo scrittore di Guardia mi conquista e mi affascina, quando ritrovo nelle sue opere momenti e fatti, costumi e radici, la storia e la vita sofferta della mia gente e della mia terra, sono passati diciassette, diciotto anni dalla sua morte; ma ne
gusto appieno il motivo di fondo: paesaggio e costume, struttura sociale ed economica, mondo morale e sostrato linguistico. L’ardita, forse amorevole spregiudicatezza del mio caro amico Vincenzo di Sabato mi ha posto in una situazione di incertezza. Non possono essere affidate a me, infatti, dicevo le «Conclusioni»
di una tavola rotonda alla quale siede il professore Francesco D’Episcopo che, con un ampio lavoro critico, da tempo sta svolgendo una profonda, intensa indagine su Francesco Jovine e con una complessa ricerca sulle commedie inedite e sulle cronache teatrali del Nostro ha rivelato, in un interessante volume del 1983, e non solo in quello, il
taglio e lo spessore di un analista acuto e di uno scrittore di valore. Non posso portarvi il messaggio di Nicola Perrazzelli, carissimo
amico di Francesco Jovine, che di Jovine ha curato su varie testate nazionali e in altri scritti la figura dello scrittore di Guardia. Non posso dirvi quanto andranno a rappresentarvi di Jovine lo scrittore Don Giulio Di Rocco e lo studioso Renato Lalli. Io posso solo usare le immagini e le parole di Francesco Jovine, perché meglio e più di altre possano parlarvi dentro. Ripercorrerò brevemente, attraverso la rilettura di quotidiani, di periodici, di saggi,
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Introduzioni
alcune tappe del suo lungo cammino, quelle che hanno colpito la mia fantasia di lettore di opere stupende, corali, di scritti che suscitano emozioni profonde perché — come dice il Russo — Jovine è il poeta degli umili, dei contadini, perché «ha vissuto in mezzo a loro e, per circostanze speciali della sua vita, e, per spirito di sollecitudine fraterna», comprende il loro linguaggio, la loro antica e valida sapienza. Ricorderò una notazione riportata da Gino Giardini nella sua bella monografia sullo scrittore molisano, edita nel 1967: «Mentre tanto si dibatte [...] di problemi del romanzo, la narrativa italiana continua
la sua strada, cioè inaugura ad ogni istante le sue molte strade senza accorgersi di Jovine, come molti anni prima non si era accorta di Svevo e solo relativamente di Verga». Forse è anche suggestivo dare un particolare saluto ai suoi concittadini con la sua voce, quella di uno degli articoli pubblicati nella terza pagina del «Giornale d’Italia» nel 1941. «Tra la gente del Molise quella di Guardialfiera è forse la più arguta e sottile. Tutta la sapienza di proverbi e aforismi della regione, così piena di consapevole gravità e malinconia, qui si vena di un sorriso scettico e canzonatorio. Il dogmatismo sentenziante della filosofia popolare, incrinato dal dubbio, si arricchisce di qualche acuto sofisma. I proverbi, è noto, procedono a coppie contraddittorie e vengono usati a seconda delle circostanze. Qui, della contraddizione si ha già la consapevolezza, c’è già il materiale grezzo per la fondazione di una dialettica». E preme ricordare, soprattutto a me stesso, lettore, semplice lettore dell’opera joviniana, gliinteressanti e densi riferimenti che «L’Italia che scrive» ne faceva nel 1930 per Berlué, nel 1935 per Un uomo provvisorio, nel 1940 per Ladro di galline: quelli per la Signora Ava dell’«Osservatore Romano» del 31 maggio 1942, dove l’articolista scriveva, tra l’altro: «Francesco Jovine è riuscito a dare nella sua Signora Ava questa armonizzata sensazione del remoto favoloso, dell’avventura fuori del tempo e della storia recente, intravista, è vero, da un
osservatorio nuovo ed inconsueto, con uno schietto palpito di aderenza sentimentale [...] Siamo in pieno mondo di “gentiluomini in giamberga” e di “cafoni”, in un solitario paese del Molise (regione sulla quale non è indiscreto presumere idee piuttosto vaghe in molti italiani, che sarebbero imbarazzati a precisarne, nonchéi caratteri, i confini), quando la ventata del crollo borbonico sconvolge tradizioni
Il mio incontro con Francesco Jovine
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e mentalità incrostate con la fatale aderenza fisica d’una ruggine antica. Mondo defunto — non tanto, però, se è stato quello dei nostri nonni — che si presenta meravigliosamente alla rappresentazione rapsodica e aggiunge una nota nuova al panorama ottocentesco della letteratura nazionale; eppure una cert’aria da Memorie d’un ottuagenario circola per le pagine del libro che fissa con intensità breve un tragico momento di transizione [...]. Ma più dei protagonisti interessa lo sfondo ed il complesso corale. Il Molise ha con Signora Ava un romanzo vivacemente evocativo di un’epoca in cui i caratteri regionali raggiunsero il loro vertice [...] mentre l’analisi della passione umana che in esso
trapela ne fa un’opera di sensibilità spiccatamente moderna». Ed anche quelli di Libero Bigiaretti su «I diritti della scuola» del dicembre 1966: «Pochi scrissero di Signora Ava, ma tra quei pochi, con fervido interesse, due maestri della critica: Pietro Pancrazi e Luigi
Russo [...]. Il romanzo costituisce un punto fermo della letteratura
contemporanea, lungo la strada della rappresentazione realistica ed insieme favolosa del piccolo mondo antico di villaggi e di povere case, che va dal Verga alla Deledda, al Tozzi, all’Alvaro».
Mi preme anche sottolineare quanto su «Molise Nuovo» scriveva nel 1950 Federico Orlando, vincitore della I edizione del Premio
«Jovine» per i suoi articoli sul «Globo» e «Il Resto del Carlino», premio che vide, anima, promotore e presidente del comitato organizzatore Nicola Perrazzelli e tra i premiati Ugo Reale, Gino Giardini, Domenico Izzi, ma nella scelta la giuria, tra 1 cui componenti c'erano Vittorio Gorresio, Luigi Biscardi, Michele Prisco, s'era anche sof-
fermata sugli scritti di Annibale Pizzi e Franco Romagnuolo, premiati con medaglie d’oro. Nella II edizione venivano premiati Giovanni Russo, de «Il Cor-
riere della Sera», Giuseppe Tabasso de «l’Avanti», Clara Falcone de «Il Tempo»; menzioni speciali e medaglie d’oro per Luigi Picardi e Paolo Pietravalle. Medaglia d’oro anche per Annibale Pizzi e Nino Amoroso.
La celebrazione di oggi, per quello che attiene al mio contributo, certamente modesto, vuole ed ha voluto essere una breve panoramica che si è soffermata solo su schematici riferimenti che vanno dal 1930 al 1968. E devo fermarmi, anche se i presenti sono stati con me
pazienti e tolleranti. Ritengo doveroso, però, sottolineare il contribu-
to di idee, di pensiero e di pregevoli scritti che Sebastiano Martelli e
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Introduzioni
Maria Rosaria Mastropaolo hanno espresso per Francesco Jovine.
Devo ora collegarmi alla seconda parte del mio intervento e mi è più difficile perché, non vi sembri strano, mi è più congeniale quello della meditazione, della riflessione, del colloquio interiore che quello del politico, che sa di avere, a confronto, personalità certamente dotate
di esperienza e di ricchezza culturale e amministrativa. Possiamo oggi dire che, nonostante una mole immensa di problemi e di difficoltà, la nostra Provincia si è già presentata come soggetto autonomo, con capacità proprie di elaborazione culturale. Abbiamo anche stabilito un fertile equilibrio tra scelte innovative e scelte di politica culturale più tradizionale per non introdurre traumatici processi di ammodernamento; avremo certamente con i Comuni, con gli Enti, con gli sponsors un rapporto non più soltanto in termini di distribuzione, ovvero di «esportazione» delle iniziative, ma di coproduzione e di collaborazione progettuale. Il nostro ruolo fondamentale, se possiamo schematicamente individuarne uno, è l’attenzione costante alle situazioni e popolazioni meno avvantaggiate e perciò bisognose di crescita culturale. Il nostro ruolo dunque? Ce lo vogliamo conquistare sul campo come Ente di raccordo, che mira alla promozione e alla innovazione culturale, superando la condizione di occasionalità o di supplenza. È, questa, credo, l’occasione più valida per auspicare la realizzazione dell’indirizzo programmatico che la nostra Provincia dovrà avere nei confronti degli intellettuali molisani. A loro spetta di diritto una concreta attenzione per far sì che essi possano guardare con fiducia maggiore al futuro. Jovine — erano altri tempi — non fu accompagnato nel suo cammino sofferto né dalle risorse locali né da un’inesistente, allora, imprenditoria intelligente, oggi presente nel Molise, né tantomeno dagli Enti. Che questo non si ripeta! È il nostro augurio, il nostro desiderio, la molla che sollecita le nostre volontà, le nostre azioni e i nostri
intendimenti. ANTONIO CHIEFFO Presidente dell’Amministrazione Provinciale
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Nicola Perrazzelli RICORDO
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Dopo gli interventi che hanno esaminato la figura e l’opera di Francesco Jovine sotto diversi aspetti, io vorrei soffermarmi a ricordare l’amico al quale fui legato da un’amicizia che forse era fatta, da parte mia, più di ammirazione, ma anche di confidenza e di consonanze spirituali. Vorrei, da conterraneo e da amico, un amico più giovane di vent’anni, soffermarmi a ricordarlo come apparve a me durante i numerosi incontri con lui, come egli si manifestò attraverso una nutrita corrispondenza che ebbe con me e della quale purtroppo ho rintracciato soltanto cinque lettere che ho pubblicato qualche anno fa, facendole precedere da un mio breve commento. A casa mia si parlava molto del giovane scrittore che, dopo aver conseguito il diploma magistrale ed aver fatto l’istitutore in alcuni collegi di provincia, aveva vinto, classificandosi primo, il concorso
provinciale per l'insegnamento elementare ed aveva, per breve tempo, insegnato anche nella sua Guardialfiera. Aveva poi ottenuto il trasferimento a Roma, dove frequentò il Magistero, avendo come illustre Maestro di pedagogia Giuseppe Lombardo Radice, di cui divenne assistente, dopo aver brillantemente conseguito la laurea. Per avere maggior disponibilità di tempo da dedicare alla sua attività di scrittore, egli scelse la carriera di direttore didattico, che svolse a
Roma, a Tunisi, al Cairo e quindi ancora a Roma. A proposito del suo assistentato, Jovine ricordava gli anni trascorsi accanto al suo Maestro, al quale si sentiva particolarmente vicino. Egli era un efficacissimo narratore anche quando parlava: aveva il gusto della parola e dell’affabulazione, come ebbe a dire uno dei suoi più insigni critici, Luigi Russo. E mi riaffiora alla memoria questo ricordo dei suoi anni universitari, che egli mi raccontò con ineguagliabile finezza: quando giungevano i mesi della primavera con i primi tepori nell’aria tersa, i giovani studenti del Magistero, uomini
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Testimonianze umane
e donne, disertavano numerosi le lezioni di pedagogia; preferivano le passeggiate al Pincio o fuori Porta per godersi iprimi caldi o per il bisogno di uscire insieme con la gioia, la spensieratezza e la tenerezza dei loro giovani anni. Il professore Lombardo Radice entrava in aula, saliva in cattedra, con uno sguardo si rendeva conto delle defezioni dell’abituale uditorio e con un sorriso iniziava la lezione,
facendola precedere da un distico scherzoso e benevolo: Torna maggio e si assottiglia la filosofica famiglia.
La figura fisica di Jovine mi era nota sin da ragazzo: l’avevo visto a Guardialfiera con la moglie, Dina Bertoni; ero stato per qualche mese anche suo alunno. Trasferitomi a Campobasso nel 1930, lo vedevo durante le sue soste campobassane, che egli faceva nei suoi viaggi da Roma a Guardialfiera, per salutare i cugini Maurizio, che allora vivevano a Campobasso, e mio padre, suo amico dagli anni dell’infanzia. Non alto, ma ben proporzionato, Jovine sui trenta anni era già in sovrappeso, ma tale gravezza veniva come annullata e quasi illegiadrita da un volto dal profilo aristocratico di una rara espressività, che i suoi occhi neri e pensosi rendevano straordinariamente viva e coinvolgente. La sua voce, poi, era dolce e profonda e, pur indugiando qualche volta a parlare perfettamente il dialetto guardiese, allorché — egli — parlava in italiano, nel suo dire non si notava alcuna inflessione dialettale. L’inizio del mio rapporto con Jovine va datato nel 1940, quando cioè, per lo scoppio dell’ultimo conflitto, tornò in Italia dall'Egitto,
dove dirigeva le scuole italiane al Cairo. Nell'autunno del 1940 — mero appena iscritto alla università — decisi di scrivergli per manifestargli la mia ammirazione e per chiedergli di atutarmi a trovare i suoi primi due libri: Berluè, un volumetto per ragazzi, ed il suo primo romanzo, Un uomo provvisorio, che erano pressoché introvabili, il primo per la sua scarsa tiratura ed il secondo per essere sgradito al regime fascista, che ne aveva impedito la ristampa. La lettera di risposta è del 17 dicembre 1940. In essa mi dice che i due libri erano esauriti e perciò introvabili (ma fortunatamente riuscii di lì a poco a procurarmi Un uomo provvisorio, scovandolo in uno scaffale di una libreria di Campobasso), mi promette che mi farà
Ricordo di un grande amico
Gli
avere dall'editore una copia del suo ultimo libro (la raccolta di racconti Ladro di galline, pubblicato appunto nel 1940), accenna ad un romanzo di ambiente molisano cui stava attendendo (che sarà Signora Ava) e chiude la lettera con una frase un po’ di stile, contenente generici, benevoli apprezzamenti sul mio conto. La seconda lettera è del 24 aprile 1941, alquanto in ritardo rispetto a quella che io gli avevo inviato in risposta alla prima; Jovine se ne scusa: «sono un pigro scrittore di lettere». Ma contiene un giudizio che mi riempì di orgoglio. Nella mia risposta avevo espresso qualche valutazione sul racconto // cavallo del diluvio apparso sul «Giornale d’Italia», che evidentemente era stata apprezzata dall’autore, che mi scriveva: «L’analisi che lei fece mi parve molto acuta» e, dopo avermi chiesto se avevo ricevuto Ladro di galline, aggiunge: «Me ne parli: sento che lei è un lettore di buona sensibilità». Il 24 maggio — un mese dopo — Jovine venne a Campobasso come inviato speciale del «Giornale d’Italia», per un servizio giornalistico sul Molise. Volle che l’accompagnassi dall’avvocato Alessio Rizzi, corrispondente da Campobasso del «Giornale d’Italia», per avere con lui uno scambio d’idee sulla situazione molisana e, occasionalmente, sulla
possibilità di dare una maggiore diffusione al quotidiano nel Molise. Rizzi accolse Jovine con signorile cortesia, ma credo non gli sia stato di molta utilità per l’inchiesta giornalistica, mentre gli fu ricco di suggerimenti per rendere possibile una più articolata diffusione del giornale nella provincia. Gli undici articoli del servizio vennero pubblicati nei successivi mesi di giugno, luglio ed agosto 1941 e per me furono una rivelazione: per la prima volta leggevo un servizio giornalistico, in cui l’autore non si fermava alla superficie delle cose, ma, attraverso lo studio e la memoria, riviveva, con consapevolezza e commossa adesione, la sto-
ria, le tradizioni, la cultura di una terra e di una gente, che rappresentarono poi, per lui, il costante punto di riferimento per 1 suoi studi di meridionalista e per la sua arte di scrittore. Il servizio si rivelò non disinvolto giornalismo, ma organico saggio d’arte narrativa, nel quale non è casuale il silenzio sul fascismo e sulla guerra,
che pure si combatteva da un anno. Tornando nella sua terra, egli era colpito dalla miseria antica nella quale erano sempre vissuti 1 conta-
dini, di cui intendeva i moti dell’animo, i bisogni, le umili speranze.
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La critica più attenta, infatti, ritiene che gli undici articoli della sua
inchiesta sul Molise rappresentano un momento decisivo nell’evoluzione della sua arte, l'annuncio cioè della sua maturazione narrativa e stilistica, come dimostreranno i suoi successivi romanzi e racconti.
Quando, tanti anni dopo, nel 1967, si riuscì a varare la prima edizione del premio giornalistico intitolato a Francesco Jovine, la mia prima decisione fu quella di pubblicare in volume gli articoli dell’inchiesta giornalistica del 1941, con una prefazione che dicesse del mio non mutato giudizio e dell’emozione nel riproporre ad altri giovani, di un’altra generazione, la lettura della più molisana delle opere di Jovine, che sarebbe ad essi rimasta ignorata, legata com'era all’effimera vita che è propria del servizio giornalistico. Nella primavera del 1942, edita da Tuminelli di Roma, in una
collana diretta da Arnaldo Bocelli, apparve Signora Ava, che lessi nel maggio. Mi affrettai ad inviare a Jovine un telegramma, nel quale cercavo di esprimere la mia ammirazione per un testo che rappresen-
tava, nel quadro della narrativa d’allora, un romanzo nuovo nel senso che, pur partendo dalle esperienze contemporanee, le investiva di una nuova significazione umana e sociale. Tra le lettere che son riuscito a rintracciare c’è quella, bellissima,
del 18 maggio 1942, in risposta al mio telegramma: «Carissimo Perrazzelli, grazie per l’affettuoso telegramma; amerei conoscere, ora, più minutamente le sue impressioni sul mio lavoro. Mi dica se a Campobasso le librerie l'hanno avuto e se va via qualche copia». «Qui a Roma mi si dice molto bene del libro: in alcuni critici ha fatto profonda impressione; mi promettono articoli importanti; anche la vendita, per quel che mi dice l’editore, va bene». «Mi auguro che il romanzo possa contribuire a far conoscere più precisamente il povero ma irresistibile incanto della nostra terra che tra tutte quelle d’Italia è la sola forse che conservi integri gli aspetti di una civiltà antichissima, altrove confusi e sommersi dalla civilisation
a carattere non indigeno e profondamente ripugnante al mio spirito». «Ho voluto, come ha visto, rendere il farsesco e il tragico, il rozzo e raffinato senso della vita che hanno i nostri contadini; ho voluto
farli cantare all’unisono con la terra generosa e matrigna e col cielo troppo lontano e irraggiungibile. Se ci fossi riuscito!» E chiaro che si è di fronte ad una lettera di particolare importan-
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za, sia per la perfetta scrittura che per la poetica esplicitazione dei fini che l’autore intendeva raggiungere con il suo forse più grande romanzo, in cui l’aura della poesia e della fiaba coesiste al distacco ironico. L'impegno di denuncia è avvertibile nell’orditura sociale che contrappone il mondo contadino a quello dei galantuomini ed i personaggi, credibili e vivi, sono come avvinti dalle loro drammatiche vicende che illusoriamente preludono, in quel mondo, ad un mutamento che non ci sarà. La quarta lettera, del 31 ottobre 1942, inizia con un «Caro Nico-
la» e non usa più il «lei» ma il «tu»: Jovine chiede il mio intervento per ottenere la licenza del «trappeto» che, per la stagione olearia, il fratello Nicola riapriva ogni anno a Guardialfiera. Nella seconda parte della lettera mi dà notizia del successo del suo romanzo, che «con-
tinua ad essere ampiamente e favorevolmente recensito», tra gli altri, da Silvio Benco sul «Piccolo» di Trieste e da Franco Rodano su «Primato», la rivista di Bottai.
Qualche giorno dopo partii per il servizio militare ed i miei contatti epistolari con Francesco Jovine furono evidentemente affidati a qualche biglietto, se, con la lettera del 13 giugno 1943, egli esordisce scrivendo: «Caro Nicola, ho rivisto una lettera con molto piacere; tuo padre ti ha detto che io, più volte, scrivendogli avevo chiesto tue notizie». Durante il corso per allievi ufficiali dell’aeronautica, che avevo
frequentato, gli avevo spedito, mesi prima, alcuni numeri di un giornaletto di cui ero direttore e che egli, con molta buona volontà,
definisce «ben divertente», aggiungendo un giudizio giustamente riduttivo: «immagino che avrà aiutato validamente a riempire le inevitabili ore di noia». Si trattava, in verità, del solito giornaletto goliardico dei corsi per allievi ufficiali, col quale la spensierata giovinezza esprimeva la sua volontà di vivere e di sperare ancora, nonostante i tempi oscuri e gli incombenti pericoli della guerra, che ormai era entrata nella vita di ognuno. Di qualcosa di grave e di nuovo, che era nell’aria, è dato cogliere un accenno nella lettera, un accenno sommesso e come rassegnato, ma chiaro e direi augurale: «Per il resto la salute va bene e le altre cose come Iddio vuole». L’apparente genericità di tali parole non tragga in inganno: erano tempi di «censura» e tutta la corrispondenza, soprattutto con i militari, veniva aperta ed esaminata.
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Nella lettera Jovine m’informava che la «Nuova Antologia» aveva pubblicato un suo lungo racconto, // pastore sepolto, che darà il titolo al nuovo volume che uscirà soltanto nel 1945 e che comprenderà anche Giustino D’Arienzo, che egli nella lettera definisce semplicemente ma con efficace concisione «un romanzetto malinconico e amaro». In chiusura mi chiede di fare qualcosa per una sua villeggiatura a Campobasso «per il più caldo dei mesi estivi», ma il precipitare degli avvenimenti — la caduta del fascismo, il periodo badogliano, l’armistizio e la successiva occupazione tedesca di Roma — rese impossibile la villeggiatura campobassana. Questa è l’ultima lettera che ho ritrovata, ma, anche senza il supporto epistolare, il ricordo della stagione di quest’amicizia, malgrado il tanto tempo trascorso, è vivissimo. Trasferito in un reparto operante in un aeroporto nei pressi di Roma, ebbi la possibilità di rivedere ugualmente Jovine, frequentandolo dal giugno all’ottobre 1943 sia nella sua bella casa di via Palombini, sull’Aurelia, sia incontrandolo per le vie di una Roma stranita
e come in attesa. Le ore drammatiche vissute insieme, in quei mesi cruciali del ’43,
furono per me dense di scoperte e di meditazioni: crollava il fascismo e veniva meno, dentro di me, la base della mia asfittica formazione
provinciale, costretta dall’ortodossia ufficiale e dalla vuota retorica e, per la prima volta, intravvedevo, attraverso i discorsi che Jovine mi
andava facendo, i veri nodi della problematica politica e culturale. La scelta delle sue letture e dei suoi studi storici e sociali mi fece comprendere fenomeni trascurati se non sottaciuti dalla cultura d’allora. Egli riuscì a coinvolgermi, con la forza persuasiva delle sue argomentazioni, nello studio dei veri problemi della nostra società: l’eversione del feudalesimo e l’acquisizione delle terre demaniali, la formazione della borghesia meridionale, il brigantaggio postunitario, l’emigrazione transoceanica erano alcuni dei temi cui egli dedicava i suoi studi e che mi apparvero in tutta la loro sostanziale importanza per la comprensione della storia e dei problemi della società meridionale. «Ha la pigrizia dei meridionali — mi diceva la moglie, Dina Bertoni, che continuamente lo esortava a scrivere — ma il loro gusto del narrare. Quante volto ho sentito provenire dallo studio, improvvisamente, lo scoppio delle sue risate, mentre scriveva le pagine del viaggio di don Matteo con il suo ombroso e imprevedibile asino!».
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Riesco ancora, nel tentativo di rivivere l’episodio, a riudire la sua voce allorché mi diceva dell’inserimento, nel linguaggio di Signora Ava, di alcune espressioni del dialetto molisano: «magnate da i senitte», «mangiato dai sonetti», che equivale ad attribuire a Pietro Veleno, preso da pensieri confusi e tormentosi, «quel vago esilio della mente verso fantasie un po’ strane che danno lo scontento ed il viso pallido e ansioso»; ed ancora: «Mamma la gente alla fiera di Foggia!», in cui è agevole notare come le prime parole siano mutuate da un’espressione dialettale che sta ad indicare esclamativamente una moltitudine di gente. In particolare ricordo la lettura, quasi mimata, ch’egli mi fece del discorso di Seppe di Celenza ai suoi briganti per lo scioglimento della banda: un discorso, che sembra tradotto dal dialetto, di un contadino ad altri contadini, semplice, asciutto, dispe-
rato: «Belli figlioli, la guerra è finita... Gesù si è scordato di noi e delle nostre anime perse». Per pretese esigenze di autarchia — s’era in regime di tesseramento — nell’areoporto in cui prestavo servizio erano stati ricavati i cosiddetti orti di guerra, i cui prodotti venivano divisi tra tutto il personale aeroportuale. Ame, giovane ufficiale scapolo, quell’anno spettarono alcune decine di chili di patate che, in una grossa valigia, pensai bene di inviare, nei primi giorni di settembre, in casa Jovine. Dopo l’otto settembre, a causa degli scontri presso Porta San Paolo tra i tedeschi ed i reparti italiani, i mercati generali ed i negozi di alimentari rimasero chiusi, per cui le patate costituirono per i coniugi Jovine un ripetitivo ma provvidenziale piatto unico per pranzo e cena e per parecchi giorni. «Sono fiero — risposi loro che qualche anno dopo mi ricordavano il fatto — di aver dato un contributo alla nascita del neorealismo». L’ultimo numero del «Giornale d’Italia», prima che Roma fosse occupata dai tedeschi, pubblicò un editoriale di Jovine, / contadini: una dura critica alla politica imperialistica del fascismo, che ignorò del tutto il problema del Mezzogiorno, per rincorrere sogni di anacronistica espansione coloniale. A Jovine fu consigliato da amici di nascondersi per sottrarsi ad und eventuali rappresaglie fasciste. liberata. l’Italia quindi Anch'io lasciai Roma, raggiunsi il fronte e Alcuni mesi dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944, rividi
Jovine, nel nuovo clima di libertà, di idee nuove, di fermenti, impe-
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gnato in un’intensa attività anche come giornalista. Nel 1945 uscirono // pastore sepolto e L’impero in provincia. L’anno successivo lo vide mobilitato per il referendum istituzionale; ricordo i numerosi editoriali politici, tra cui uno sul referendum istituzionale apparso, il 2 giugno 1946, sul «Lavoro» di Genova; le vivaci polemiche letterarie che apparvero su varie testate e la lettera che scrisse a me, che non avevo potuto tenere un comizio a favore della repubblica nella nostra Guardialfiera, nella quale lettera, per confortarmi, mi diceva che, molto verosimilmente, il comizio sarebbe stato turbato dai monarchici loca-
li, anche se a parlare fosse stato lui. Verso la fine del 1946, andai con lui alla galleria «Lo Zodiaco», nei pressi di via Veneto, per l’inaugurazione della prima mostra di pittura del dopoguerra di Carlo Levi, la cui fama di scrittore era allora esplosa per il Cristo s'è fermato a Eboli. Rivedo ancora la grossa, ricciuta testa olimpica di Levi ed i suoi occhi fermi e penetranti, accanto alla tela raffigurante la struggente fanciullezza patita di Michelino, ragazzo lucano. Nel 1948 uscì Tutti i miei peccati e, dopo la sconfitta del Fronte popolare del 18 aprile, mentre molti intellettuali opportunisticamente se ne allontanarono, egli si iscrisse al partito comunista, pur non essendo di formazione marxista, seguendo il suo generoso impulso di schierarsi con le forze che egli riteneva potessero mutare la società italiana e sciogliere finalmente i nodi dei problemi del Mezzogiorno. In quell’anno egli ebbe una grave intossicazione da tabacco — era un accanito fumatore — ed in una lettera, che mi scrisse da Capri, si
doleva di non potere, per prescrizione medica, più fumare, lui che tutto ciò che aveva creato, l’aveva fatto fumando!
Verso i primi giorni di aprile del 1950, tornò a Campobasso e tenne una conferenza sul mondo contadino al teatro Savoia gremitissimo: era il primo contatto diretto e direi ufficiale con la sua gente, al cui giudizio, nonostante alcune sue ironie, teneva, nel suo intimo,
moltissimo. A Venezia, dov'era andato per un convegno, ebbe gravi segni di sofferenza cardiaca; rientrò subito
a Roma,
ma
il male ebbe il
sopravvento il 30 aprile 1950. Nell’agosto dello stesso anno, curato dal suo fraterno amico Carlo Muscetta, uscì il suo più significativo romanzo, Le terre del Sacramento, cui fu attribuito il premio Viareggio, postumo riconoscimen-
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to ad uno scrittore che certamente avrebbe dato, se la morte non lo
avesse colto a soli 47 anni, nuove prove narrative nel solco di questo
grande romanzo neorealista, in cui Jovine aveva raggiunto la sintesi
equilibrata ed armonica di tutti i motivi ed i sensi della sua arte. A questo punto, concludendo, vorrei pormi una domanda che, per chi, come me, crede nella non caducità dell’arte di Jovine, è necessario porsi: a quarant'anni dalla sua morte, come va considerata, nell’attuale contesto sociale e letterario, l’opera di Jovine? Jovine è stato dalla critica considerato uno dei più significativi scrittori neorealisti ma, com’ebbe a rilevare Sapegno, nella sua non
dimenticata commemorazione tenuta nel settembre 1967 a Campobasso, in occasione della prima edizione del Premio Jovine, lo scrittore molisano non aveva bisogno di richiamarsi ai moduli ed alle esigenze di una particolare stagione letteraria: il realismo di Jovine veniva da più lontano. Realista Jovine era sempre stato, poiché 1 temi che egli tratta nascono da un fondo di amara e difficile esperienza di vita della piccola borghesia del Contado di Molise e dovremmo cercarli nel processo di una formazione culturale che si alimentava della lettura di Fortunato, di Dorso, di Salvemini, risalendo fino ai grandi illuministi del Settecento meridionale, Galanti, Longano, Genovesi.
Sulla scia dei grandi romanzieri italiani ed europei dell’Ottocento, senza esserne un tardo epigono poiché le sue tematiche derivano da una profonda e moderna visione delle problematiche sociali, Jovine,
al di là e al di sopra delle mode del suo tempo, ha sempre mirato al romanzo di grande respiro, alla conoscenza approfondita della realtà, in un processo di conquista, sul piano dei contenuti e su quello dell’arte, che ha raggiunto il culmine nei suoi romanzi più noti. Certo, ora la realtà molisana è profondamente mutata rispetto a quella dei tempi di Jovine, ma le sue pagine, nel quadro ambiguo e sperimentale della letteratura di oggi, costituiscono un’insuperata, poetica testimonianza di un’epoca e rappresentano un ancora non raggiunto vertice che ha ormai una stabile collocazione storica: Jovine è diventato un classico.
Giulio Di Rocco
UManITÀ DI FRANCESCO JOVINE
Non ho la pretesa di delineare in modo compiuto ed esauriente la figura umana di Francesco Jovine, ma solo di tracciarne un abbozzo, sul filo dei miei ricordi. Questo aiuterà a scoprire il grande scrittore molisano nei suoi aspetti meno noti e più significativi. Sono brandelli di ricordi che, paradossalmente, il tempo, anziché appannare o sbiadire, ha custodito intatti e vivi. Forse è l’affezione a compiere questo prodigio della memoria. L’ultima volta che vidi il compaesano e compare Ciccio Jovine fu nel giugno del ’41: c’incontrammo alla stazione ferroviaria di Casacalenda, appena scesi dalla stessa littorina; io tornavo in paese da Benevento dove frequentavo il liceo in quel seminario regionale, lui veniva da Roma per una serie di servizi sul Molise per il «Giornale d’Italia». Fu una lieta sorpresa per entrambi. Facemmo una breve sosta in casa di Annita, una sua cugina maritata in quella cittadina, per prendere un caffè. E fu una «rimpatriata» simpatica e cordiale. Poi, con una macchina da noleggio — doveva essere una Balilla — scendemmo verso Guardialfiera, lungo i tornanti di quella strada allora brecciata. C’era con noi in macchina il geometra Nicola Ardente di Casacalenda, che conosceva già Francesco e che veniva spesso a Guardialfiera per lavori o perizie. Durante il viaggio, questo geometra — riferendosi ad un incidente d’auto occorso ad uno dei suoi figli — parlò di determinismo e di fatalismo. Lui, Francesco, rispose con sobrietà ed equilibrio, sviando
poi abilmente il discorso verso altri argomenti, forse anche per risparmiare a me seminarista, con tanto di tonaca nera e di colletto bianco, l’imba-
razzo di dover intervenire contro il fatalismo e il determinismo. Allora Francesco aveva 39 anni e nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che, solo nove anni dopo, quella persona così amabile e saggia sarebbe scomparsa e quella voce così pacata e cordiale avrebbe taciuto per sempre.
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In quell'occasione Francesco ci diede la bella notizia che l’Editore
Tumminelli stava per pubblicare un suo romanzo ambientato a Guar-
dialfiera: si trattava di Signora Ava. Passando sul vecchio ponte sopra il Biferno Francesco ricordò che, giovanissimo, fu lui a tenere il discorso d’inaugurazione dell’altro ponte, quello sul vicino torrente Cervaro, anch’esso poi fatto saltare dai tedeschi. Ho voluto riferire quest’incontro perché è l’ultimo ricordo visivo che ho di compare Ciccio. Negli anni successivi il nostro rapporto sarebbe stato soltanto epistolare. In questo mio tentativo di delineare il ritratto umano di Francesco Jovine, tratterò prima dei così detti «fattori» della sua personalità, cioè di quegli elementi ambientali e circostanziali che hanno contribuito a modellare la sua personalità; poi cercherò di tratteggiare le caratteristiche, le peculiarità della «stoffa umana» di Jovine. Tra questi fattori della «umanità» di Jovine c’è innanzitutto — come per ognuno — la famiglia d’origine. Non è solo questione di patrimonio genetico — certo anche questo —; è soprattutto questione di tutto un processo formativo che nella famiglia ha la sua genesi e il suo più importante e decisivo svolgimento. Io ricordo perfettamente la famiglia di Jovine, avendo conosciuto bene i suoi genitori e i suoi fratelli: una famiglia unita da saldi vincoli di rispetto, affetto e collaborazione. Vorrei, preliminarmente, accennare brevemente all’aspetto fisico di Jovine, così come esso mi è rimasto impresso nella memoria. Anche la struttura fisica di un uomo incide sulla sua personalità. Francesco era un uomo dalla corporatura robusta, divenuta poi anche pingue; era di media statura e di bell’aspetto, come si può vedere dal magnifico ritratto eseguito dal pittore Arnaldo de Lisio: il volto pieno e gentile, la fronte ampia, leggermente stempiata, i capelli scuri, gli occhi grandi e pacati da «pio bove», e sulla punta del naso la civetteria di un neo. Accanto a lui la moglie Dina appariva fragile e minuta. Come racconta Giuseppe Jovine in Benedetti Molisani, la prima volta in cui i due giovani sposi vennero in paese, dopo il matrimonio celebrato
il 16 dicembre 1928, un contadino, osservandoli passare, si avvicinò
e in dialetto guardiese — forse sperando che la signora non capisse —
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esclamò tra ironico e stupefatto: «professò, addò le sé jute a’ toJe ssà mescelle?» Francesco somigliava moltissimo al padre, sia fisicamente che caratterialmente: la stessa prestanza fisica, lo stesso gusto della battuta e della affabulazione, la stessa vena di umorismo, la stessa cordiale
apertura e disponibilità all’incontro e alla conversazione. Ricordo bene il vecchio zì Angelo, con il suo volto carnoso, abitualmente illuminato da un sorriso tra ironico e bonario. Lo ricordo particolarmente quando, seduto davanti al muretto di cinta del cortile della sua casa a Piedicastello — il borgo antico di Guardialfiera — era intento a scambiare saluti e facezie con i passanti o con le casalinghe che si affacciavano ai balconi delle loro povere casette. Dal padre Francesco aveva ereditato l’espansività, l’immaginazione, l’arguzia e soprattutto la sua virtù narrativa e la propensione alla rievocazione di avvenimenti e personaggi del passato. Non per nulla ha voluto dedicare Signora Ava «alla memoria di mio padre, ingenuo rapsòdo di questo mondo defunto». Ma, se ammirava il padre, nutrendo simpatia per il suo temperamento brioso e apparentemente scanzonato, addirittura venerava la madre e ne parlava con una affezione profonda e quasi pudìca. Amalia Loreto — tutti la chiamavamo zà Maliuccia — era una donna semplice e dignitosa che, anche nell’età avanzata, recava una chiara traccia della sua grazia giovanile. Era una donna amabile e signorile nelle parole e nel tratto. Ricordo che da ragazzo, il sabato santo mattina, appena benedetta sul sagrato della chiesa la nuova acqua lustrale, io le portavo, come allora si usava, un po’ di quell’acqua in un pentolino. Lei, ricevendola con un sorriso, ricambiava il mio gesto con qualche uovo lesso o una sorta di pupazzo di fichi secchi che in dialetto chiamavamo «ciambracasso». Amalia aveva allevato quattro figli in mezzo a notevoli difficoltà, ma sapeva conciliare le faccende domestiche e la cura dei figli con il bisogno di una profonda religiosità. Faceva le orazioni al suono della campana e, appena poteva, scappava nella vicina chiesa a sfogare la sua pietà e le sue ambasce. ‘Tuttavia in quella religiosità così intensa e sincera c’era forse qualche venatura di inconsapevole superstizione. Lo farebbe pensare un episodio, carico di pathos, accaduto quando suo figlio Nicola, che studiava in seminario, decise di abbandonare la talare. Con il rettore si era giustificato dicendo: «è meglio un buon padre che
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un cattivo prete». Ma alla madre quella decisione parve un tradimento: a Dio e a lei. Era convinta che il figlio fosse chiamato al sacerdozio e nel suo animo già accarezzava il sogno di vedere il figlio prete. _ Perciò insistette perché ci ripensasse; lo supplicò, lo scongiurò, ma il giovane restò irremovibile. Allora la madre, indignata, compì un gesto inatteso e drammatico: lo trasse in disparte, si scoprì il seno e, mostrandolo al figlio, maledisse il latte che gli aveva dato. Francesco riprenderà e descriverà questa scena ne Le terre del Sacramento, quando Immacolata Marano, con quello stesso gesto, maledisse il latte che aveva dato al figlio Luca, che aveva abbandonato il seminario. Comunque, dalla madre aveva ereditato una squisita sensibilità per le sofferenze della gente e un profondo senso religioso, inteso, fondamentalmente, come bisogno di ricerca e di apertura al mistero. Francesco era poi molto affezionato ai fratelli: alla sorella Ernestina — l’unica della famiglia che io non ho conosciuto, morta di tifo a diciannove anni nel 1920 —; come pure a Vittorio e Nicola, dei quali si sentiva in certo modo responsabile, essendo il primo figlio maschio. In una parola, la famiglia di Jovine è stata realmente il primo e più incisivo ambito formativo della «umanità» di Francesco. Un altro fattore che ha inciso sull’«umanità» di Jovine è costituito da talune circostanze che hanno, per così dire, intessuto la trama della sua vita. Ne ricorderò solo qualcuna. Innanzitutto la ristrettezza economica in cui la sua famiglia si dibatteva. Il lavoro di agrimensore esercitato dal padre era saltuario e poco redditizio. Il magro reddito proveniente da alcuni terreni presi dai De Lisio di Castelbottaccio era insufficiente a far fronte ai bisogni della famiglia, con tre figli agli studi. Così un bel giorno Angelo Jovine pensò di emigrare in Argentina, che a quell’epoca era terra di approdo e di speranza per molti italiani. Andò a Buenos Aires ma non fece fortuna. Quando tornò — racconta Francesco — aveva con sé «15 lire in tasca, un pappagallo e un orologio a cucù».
l
In questo contesto, mi piace riferire un aneddoto breve e divertente, che mi fu raccontato più volte da mio zio Federico Di Rocco:
o9.
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Angelo Jovine e Federico erano andati insieme a Napoli, per l’acquisto — mi pare — di un quantitativo di vino da rivendere poi a Guardia. La sera si pose loro il dilemma se cenare in una trattoria o andare a teatro dove davano uno spettacolo di varietà: i soldi disponibili non erano sufficienti a soddisfare entrambe le esigenze. Risolsero il problema decidendo di andare prima a salutare il pittore Arnaldo De Lisio di Castelbottaccio, che abitava a Napoli, con la speranza di essere invitati a cena; poi sarebbero andati al teatro. E la cosa andò proprio così: si fecero un’allegra spaghettata in casa De Lisio e poi andarono al teatro, prendendo posto ovviamente nel loggione. A un certo punto dello spettacolo ci fu una scenetta di questo genere: quattro personaggi in costumi trecenteschi giocavano a tressette parlando tra loro in latino. I personaggi erano: Dante, Petrarca, Boccaccio e un altro, che poteva essere il Compagni o il Passavanti. Ci furono varie battute e spunti esilaranti. Tra l’altro Boccaccio dice a Dante, suo compagno in quel giuoco: «Pulso ad denarios». Dante risponde con voce chiara e solenne: «Plumbeo» (sono «piombo»). Subito dal loggione si leva una voce, quella di Angelo Jovine, che grida: «comm’ammé». Era anche lui «piombo a quel palo». Ed era vero. Quando1 figli ripartivano per gli studi e si avviavano a prendere la «carrozza» per Casacalenda, zì Angelo, passando davanti al negozio di mercerie di sua sorella Virginia, si fermava sulla soglia e le diceva in dialetto una frase convenzionale: «Vergì, come zà penze?». Virginia capiva, apriva il cassetto e faceva scivolare dei soldi nelle mani del fratello. Quando poi i giovani studenti tornavano in paese, si facevano quasi sempre a piedi la strada da Casacalenda a Guardia. In una di quelle occasioni, a Francesco e Vittorio accadde un increscioso incidente: un giovane pastore attaccabrighe venne a diverbio con i due. Dopo un po? la lite sembrò placarsi e il pastore si allontanò provvisoriamente con le sue pecore. Ma si ripresentò più avanti, nei pressi del ponte della Gravellina, in compagnia di un altro malvivente. Colpì ripetutamene Francesco con la sua piroccola, mentre l’altro tratteneva Vittorio. Ne uscirono malconci e con delle fratture. Quella sera a casa Jovine si radunò molta gente del paese; c’era anche mia madre, allora giovinetta, che abitava nel vicinato, la quale mi ha raccontato più volte quella scena. Francesco narrerà questo drammatico episodio in un racconto dal titolo Giovedì, in settembre.
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Concludendo questo punto, direi che l’esperienza di difficoltà e di sacrifici, oltre che temprare il carattere di Jovine, ha suscitato in lui sensibilità e passione per le vicende dei contadini e di tutto il popolo guardiese e molisano, che stentava a condurre avanti la sua grama esistenza. Non avremmo forse certe pagine di Signora Ava e de Le terre del Sacramento, senza quell’esperienza personale di ristrettezza e disagi, che, così, è diventata l’ispiratrice segreta, quasi la musa delle sue opere. Un'altra circostanza da ricordare brevemente è quella dell’insegnamento nelle scuole italiane all’estero: a Tunisi negli anni ’37-’39 e al Cairo nel ’39-40. È interessante rilevare la motivazione di quella scelta. Probabilmente non vi fu estraneo il calcolo dell’acquisizione del punteggio doppio previsto per le prestazioni del servizio all’estero; ma la ragione principale fu il bisogno di prendere le distanze, anche geograficamente, dal regime fascista verso il quale pure aveva nutrito simpatia giovanile. Basterà ricordare che nel ’29, in un articolo su «I diritti della Scuola», scriveva tra l’altro: «Mussolini ha cambiato la faccia
all’Italia». Nel ’37, invece, non accetta il grado di centurione spettante al suo incarico di direttore didattico. Il sofferto passaggio da una posizione ideologico-politica ad un’altra ben diversa, fino all’iscrizione, nel ’48, al Partito comunista, è
segno di una umanità inquieta, alla ricerca del vero e del giusto; è segno di una personalità che sceglie — magari sbagliando secondo altri punti di vista — non per ragioni di opportunismo ma in forza di esigenze profonde e radicate. Ed eccoci, dopo questo quadro contestuale, alle caratteristiche umane di Francesco Jovine. Tenterò di abbozzare queste caratteristiche con brevi tratti, secondo l’immagine che di lui mi rimane dentro, anche se il tempo trascorso e soprattutto l’affezione, che mi legava a lui come figlioccio, possono avere involontariamente agito, in qualche misura, da lente di xi ingrandimento e di abbellimento. 1 questi (sono Jovine Francesco Battista Beniamino Viadomiro un nomi che risultano nel registro parrocchiale dei battesimi) era uomo mite, un uomo buono e pacifico per indole, per formazione e per scelta. Era cordiale, aperto e disponibile, capace di ascoltare, d’immedesimarsi e condividere. Usava ripetere: «La sofferenza altrui mi lacera il cuore».
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Con quanta pena e accoramento scrive: «Io ho visto contadini
portare la terra con le corbe dal piano al monte, per rendere umifera una pietraia arida..., difendere a colpi di zappa un ciglione o un palmo di maggese» È facile cogliere in queste parole un profondo senso di compassione e di partecipazione. Era fondamentalmente un mansueto, perfino nell’aspetto fisico. Eppure, come tutti i mansueti, aveva a volte qualche impennata di sdegno, qualche scoppio improvviso di collera. Due riferimenti: il primo di tipo, direi, casalingo. In casa Jovine viveva un servo — 0 piuttosto un ospite — soprannominato Zelone: magro, ossuto, guercio ma anche affettuoso e disponibile; si prestava a tutti i servizi, pago di poter sbarcare il lunario in quella casa. Un giorno Angelo Jovine, all’ora di pranzo, chiama Zelone dicendogli con tono caustico: «Zelo’, è pront’ u’ truocche». Dopo qualche giorno Zelone, all'ora di pranzo, va a chiamare Angelo, dicendogli, più per ingenuità che per causticità: «Angele, è pront’ u’ truocche». Angelo Jovine s’infuria e rimprovera aspramente Zelone. Francesco, che ha visto e udito tutto, interviene facendo
osservare al padre che, se lui aveva potuto usare quella espressione nei riguardi del servo, anche questi poteva usarla a sua volta. L’altro riferimento è di altro genere e ad altro livello: ci fu un periodo del dopoguerra che, ogni notte, arrivavano a Francesco delle telefonate anonime che lo costringevano ad andare in vestaglia dalla stanza da letto allo studio: erano voci maschili che lo insultavano ignobilmente chiamandolo, tra l’altro, «porco comunista». Ecco, al-
lora, il mite Francesco s’indignava come una belva, alzava la voce e ricambiava ingiurie e sberleffi. Ma ne era sinceramente amareggiato. Incaricò un avvocato di sporgere querela contro ignoti, lamentandosi con accoramento: «Ma perché mi vogliono male? Io non farei mai una cosa tanto vergognosa. È un male avere un’idea politica?». Si seppe poi che a fare quello scherzo di pessimo gusto erano stati alcuni suoi amici, tra i quali Vitaliano Brancati ed Enrico Fulchignoni. Come finì la cosa? Non finì in un tribunale ma in un ristorante, con le giuste scuse dei colpevoli e l'allegria della ritrovata amicizia. Ecco, anche questo fa parte dell'umanità di Jovine. Secondo me, Jovine fu un romantico, un sognatore, un utopista nel senso migliore di questi termini. Letterariamente è annoverato tra
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ineorealisti, ma io credo che nell’intimo del suo animo egli fosse un
inguaribile romantico, uno che sentiva le cose con profonda vibra-
zione interiore: ammirava la bellezza della natura, che scopriva se-
guendo il padre nella perlustrazione dei campi o nelle scampagnate con gli amici, e avvertiva con simpatia e coinvolgimento i problemi e le ambasce della sua gente. Il legame profondo con la sua terra, quel rapporto di passione e di sangue che egli viveva con essa, è segno del più nobile romanticismo. Era uno che sognava una società migliore e si batteva per realizzarla. Uno che sperava, con il suo lavoro, di contribuire a liberare il popolo dall’ingiustizia e dai soprusi, come dalla passività e dalla rassegnazione abulica. Lo dice egli stesso chiaramente in un passo di una sua lettera del gennaio ’48: «Io, caro Giulio, lavoro e scrivo con la speranza di fare
un po’ di bene ai miei simili»; e subito dopo aggiunge, come preso dal dubbio: «è soltanto una speranza, purtroppo, non una certezza». Anche questo è un brandello della umanità di Jovine, che ci colpisce e commuove. Ed è nella luce di questi sentimenti e aspirazioni che va collocata e compresa la sua scelta politica. Fra anche ingenuamente vanitoso. Gli piaceva vestir bene, con eleganza, perfino con una punta di ingenua civetteria: la cravatta sempre perfettamente annodata sotto il colletto inamidato, l’abito sempre pulito e stirato. Anche quando fumava, il gesto era sempre misurato e dignitoso, come in un rito o come davanti allo specchio. La più diffusa delle sue foto lo ritrae così, mentre fuma assorto nei pensieri, come se la sigaretta fosse parte integrante della sua personalità e una categoria della sua metafisica. Parecchie volte, da ragazzo, io sono andato a comprargli le sigarette da Silvestro il tabaccaio, un mutilato della grande guerra. Finì per prendersi una grande intossicazione da tabacco, a proposito della quale mi confidò in una let-
tera del ’47: «l’intossicazione mi ha dato, per mesi, una serie di fa-
stidiosi disturbi che mi hanno reso molto inquieto. Era una malattia
dell'anima più che del corpo. Ora, grazie a Dio, incomincio a star meglio».
Anche questo è uno sprazzo sull’umanità di Jovine. Forse, più che di vanità, si trattava semplicemente del suo gusto per il bello, per l’armonioso. Quella eleganza sobria della sua persona si rispecchia nella eleganza della sua prosa: quelle parole accura-
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Testimonianze umane
tamente scelte ecome levigate, quelle immagini appropriate e suadenti, quel periodare cesellato, da artista, che tutti conosciamo. Fra gentile e discreto: ricordo che mio padre mi accompagnava a fargli visita, al suo ritorno in paese per un periodo di vacanza. Ci accoglieva con un gesto largo e affettuoso e poi, solitamente, ci si intratteneva in una conversazione semplice e cordiale sulla piccola veranda della sua casa, che guardava verso il frume. Ricordo con una specie di incantamento quella veranda, quelle visite e la voce calda e pacata del padrino. Quando poi ripartiva, passava immancabilmente, la sera avanti, insieme con la signora Dina, a salutarci; quella sera mio padre, nella stanza che faceva da
cucina, da soggiorno e da laboratorio artigiano, sostituiva la lampadina di poche candele con un’altra molto più luminosa, che teneva in serbo per le grandi occasioni. Era un momento di festa e di saluto. Nella familiarità di quei momenti coglievo tutta la gentilezza e l’amabilità del compare. La discrezione, poi, era anch'essa una dote di Jovine, anche quando doveva chiedere qualcosa, lo faceva sempre con molto garbo e delicatezza. Direi che anche nelle sue opere si può cogliere questo senso di misura e discrezione: non esagera, non prevarica, non sovrabbonda. Infine Jovine era un uomo "fondamentalmente religioso, anche se in modo critico e dialettico. Della religione, nel suo aspetto storico, criticava le forme superstiziose o intolleranti e, più ancora, il disimpegno — reale o presunto
— della Chiesa nei contronti dei gravi problemi sociali delle classi subalterne. La figura di don Giacomo Fontana in Le terre del Sacramento è, sotto questo protilo, chiaramente autobiografica. Per Jovine
il fenomeno religioso poteva e doveva essere vissuto come forza dinamica per la trasformazione e il progresso della società, ma di fatto, secondo lui, non lo era abbastanza. Una cosa però è certa: il problema religioso era vivo e acuto nella sua coscienza, ed egli non lo ha rimosso o liquidato, ma se l’è portato dentro con profonda inquietudine e insonne ricerca. A questo proposito, ripropongo ancora due brevi passaggi — orpra:assai noti — di due sue lettere, rispettivamente del ‘47e del ’48:
I «Spero che il Signore voglia illuminarmi totalmente. Purtroppo non ho l'innocenza fiduciosa dei semplici, e non riesco a raggiungere
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la salda fermezza grande passo verso II «Vorrei avere quelli che credono
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dei saggi. Ma spero e la speranza è un primo la gioia della fede». quel bellissimo abbandono del cuore che hanno con candore e chiarezza. La mia fede io la vengo
faticosamente ricavando dall’intelligenza e sono perduto probabilmente in un mare di errori. Spero che il Signore voglia perdonare il mio invincibile orgoglio mentale, la mia terribile presunzione». Sono parole così belle e così umanamente nobili e sofferte che qualsiasi commento le sciuperebbe. Ame fanno venire in mente questo pensiero di Pascal, che riecheggia S. Agostino: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato». Compare Vittorio e altri familiari mi hanno riferito che, quando
Francesco rientrò a casa a Roma, già colpito da infarto mentre partecipava ad un Congresso degli scrittori a Venezia, si tolse il cappello ed esclamò: «Ti ringrazio, Signore, d’avermi fatto rientrare a casa
mia». «Se càpiti a Roma, fatti vivo», mi scriveva nella sua ultima lettera,
sei mesi prima della sua morte, in occasione della mia Ordinazione sacerdotale. Quando capitai a Roma, lui non c’era più. Potei solo fare visita, con la signora Dina, alla sua tomba al Verano, dove ora anche lei
riposa accanto al marito. Quando stava terminando Le terre del Sacramento e non immaginava che quella sua opera sarebbe uscita postuma, ripeteva: «Se riesco a finire questo romanzo, poi mi riposerò». Così è stato. Ora si riposa. Confortato dal successo che le sue opere stanno ancora riscuotendo — Le terre del Sacramento è tradotto in quindici lingue, ultimamente anche in russo =; confortato dal ricordo e dall’affetto,
oltre che dei suoi parenti e amici, di tutti i guardiesi e i molisani. E di quanti l’hanno conosciuto e apprezzato attraverso le sue opere. Confortato, soprattutto, dalla scoperta e dal possesso di quella verità, che egli ha lungamente e appassionatamente cercato nella sua intensa ma breve vita.
Vittorio Jovine Mio
FRATELLO
FRANCESCO
Mio fratello era un uomo generoso, che tecipe calore umano e nello stesso tempo ironia, propria dello scrittore che scruta le queste si riferissero a persone cosiddette
avvicinava tutti con parcon un senso di bonaria situazioni umane, sia che di riguardo o a persone
umili, come Zelone, il vecchio, estroso contadino che nelle sere d’in-
verno si fermava a chiacchierare con nostro padre accanto al fuoco. Mio fratello partecipava a quelle conversazioni, osservava attentamente il comportamento di Zelone e riusciva a cogliere nelle sue parole l’eco di «una sapienza antichissima», come dirà nel racconto Zelone e gli angeli de Il pastore sepolto; e tanti episodi, di cui sono stato testimone, furono poi narrativamente elaborati, come l’avventura sul ponte del torrente Gravellina, dove fummo aggrediti da un pastore, riportata nel racconto Giovedì, in settembre. Andava sempre alla ricerca di un rapporto diretto, personale, chiaro, senza ambiguità; si rammaricava ogni volta che un amico travalicava i limiti della correttezza, come accadde in occasione delle
telefonate notturne, giudicate «stupide» da Paolo Monelli, che venivano fatte da Brancati e Fulchignoni, liberali pannunziani, che insultavano volgarmente l’amico, considerato comunista, in quel tempo
seriamente malato. La volgarità era lontana mille miglia dal suo stile di vita, specie quando si ammantava con l’anoninato, come nel caso dei due letterati sunnominati; a viso aperto, alla battuta salace sapeva rispondere con uguale popolaresca mordacità. Gli accadde più o meno così a Guardialfiera, dove era tornato, dopo le nozze, in compagnia della
sposa Dina Bertoni: a un contadino, suo vecchio compagno di scuola, che indiscretamente gli chiese dove fosse andato a prendere «Ila muscella» (quella gattina), riferendosi alla fragile magrezza della sposina, rispose prontamente: «ammizz? a le rocchie de la Ciuciaria» («in mezzo alle sterpaie della Ciociaria»).
Mio fratello Francesco
3)
La stessa ironia, oltre che da una chiara consapevolezza delle sue disponibilità culturali, dimostrò un giorno a mio fratello Nicola, che gli chiedeva notizie sugli esami al concorso magistrale, da lui sostenuti nel 1921 a Campobasso: «O mi bocceranno» — gli rispose — «o hanna iè pe’ cchiale a Lucera» («o devono andare per occhiali a Lucera», devono cioè armarsi di cultura per intendere il testo dell’elaborato). Con me discuteva spesso sul mistero della vita e della morte, che affrontava con un fervore d’investigazione, un impegno culturale esemplare e sofferto, ma sapeva anche sdrammatizzare problemi seri trattandoli in termini giocosi. Un giorno, al Verano, accanto
alla
tomba di nostra madre, gli raccontai un mio sogno: in una visita all’aldilà avevo verificato che solo i fratelli, congiunti collaterali, possono stare insieme e non già i congiunti per via verticale, padri, cioè, figli e nipoti, che costituirebbero una catena troppo lunga che, oltre a porre problemi di spazio, andrebbe a detrimento dei legami affettivi. Mio fratello, guardandomi con quel suo tipico sorriso, tra ironico, malinconico e luminoso, trovò molto divertente e logica la mia intuizione onirica e ipotizzò la fratellinza come l’unica premessa dell'equilibrio della società mondana e ultramondana, condizionato in questo dalla consuetudine dei Guardiesi di sentire in misura intensa, quasi esasperata, i rapporti di fratellanza. Nei loro discorsi, egli osservava come anche i cugini si scambiano abitualmente la parola «fratiè», fratello. «Ad ogni modo», concluse, «chi morrà, vedrà».
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Francesco D’E piscopo
FRANCESCO JOVINE E LA LINGUA MOLISANA: UNA POESIA QUASI INEDITA
La poesia, che qui per la prima volta si pubblica (o ripubblica), rappresenta un episodio esemplare dell’intenso interesse di Francesco Jovine per la lingua della propria terra d’origine, il Molise!. Essa vide la luce, su un foglio volante, presso la Premiata Tipografia di Nicola Morrone di Larino, centro collinare tra Campobasso e Termoli. La copia in nostro possesso fu inviata dallo scrittore a un giovane compaesano, il caporale Mario Loreto, presso il 69° Fanteria — 1° Reparto Deposito — Ufficio Licenze — Firenze. L’anno di spedizione, desumibile dai timbri postali, è il gennaio 1919. La prima guerra mondiale volgeva verso la fine e questo dialogo tra due madri, che vedranno tra breve tornare i propri figli dalla lunga milizia, acquista un accorato valore di cronaca privata all’interno di un più vasto dramma nazionale. Sebbene Jovine non mostri una sicura padronanza del dialetto e sebbene questo handicap linguistico influenzi la scansione dialogica della composizione?, tuttavia il testo si segnala come valido documento della costante attenzione antropologica e letteraria dello scrittore verso un dialetto, quello molisano, ritenuto linguaggio affatto marginale e subalterno rispetto alla lingua nazionale. Saranno sempre i contadini a costituire il polo di interesse critico di Jovine: Le vicende della giornata sono narrate con voce eguale, monotona, con le immagini che il loro linguaggio ha appreso dalla tradizione e che hanno perduto il valore poetico della prima invenzione. ! L’unico intervento specificamente linguistico su Jovine resta quello di A. GROSSO, Lo Jovine è [sic] la lingua molisana, in «Momento-sera», 12 aprile 1952. 2 Si ringrazia l’amico, scrittore molisano Giuseppe Jovine per avere offerto allo | scrivente il testo della composizione, il cui titolo è Chiagne e rise. 3 Non a caso, il testo reca una icastica postilla, a firma di Jovine: «Vi sono errori
di stampa», che acuisce il senso di un incerto possesso del dialetto.
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Appendice
Ora designano nonostante le loro bizzarre trasposizioni qualcosa di definito e concreto di così strettamente aderente agli loro osservazione che nulla le può veramente mutare. analitico sempre, fatto di successioni temporali ingenue, riportato in funzione espositiva, come sempre avviene
appigli della Linguaggio o di dialogo nel popolo.
Ma qui nei contadini del Molise la parlata ha un suono grave, lento,
monodico, un che di svagato e stanco proprio a chi dica parole inutili e nasconda un pensiero inesprimibile. Ricchissimo di una sapienza morale che si rivela in proverbi di rara profondità di significato, questo linguaggio ha un carattere di austerità veramente singolare*.
Il rapporto viscerale, che lega il contadino al proprio pezzo di terra, si rivelerà ricco di rifrazioni linguistiche: Il contadino molisano è ordinariamente taciturno; non dice che l’indispensabile; abitante di una terra difficile, aspra, scoscesa, rotta, a
pendii rocciosi, a sassaie aride, ha nelle vene l’asprezza della lotta per vivere. [...] Il pezzo di terra diventa di anno in anno una creatura che si è nutrita con stento, che si è vista vegetare per la dolorosa lunga fatica. Di qui l'attaccamento fisico alla terra; non a una terra qualunque ma a quella pur stentata ed avara che è nata sotto le loro mani. Un breve podere, una mascella di terra, come dicono qui, ha dieci
nomi per ogni aspetto della sua configurazione; la famiglia li conosce, sa «il canto del pero», il «favaio», lo «sterpaio», e «la valle delle
pietre». Nomi che vengono citati con una sorta di tenerezza pudica come per una creatura viva?
La ferma coscienza dialettale di Jovine affondava le radici autobiografiche nella lingua del paese natale, Guardialfiera, nelle voci dei suoi compaesani, ma sopratutto dei suoi congiunti, la madre, il padre, «ingenuo rapsodo di questo mondo defunto», secondo l’emblematica dedica di Signora Ava. Soprattutto dai racconti e dai canti del padre, vagabondo agrimensore, egli doveva aver appreso a misurare i ritmi di quel dialetto monodico, sillabato sino all’eccesso. E soprattutto dal padre, oltre che dai libri, egli doveva avere ereditato il gusto *F. JOvINE, Casacalenda, paese sereno, in Viaggio nel Molise (1941), a cura di
Nicola Perrazzelli, Marinelli, Isernia, 1976, pp. 85-86. ° Ivi, pp. 86-87.
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del racconto, scandito sino all’ultima sillaba dinanzi e dentro i grandi camini delle notabili famiglie guardiesi, nelle lunghe e fredde serate d’inverno. Durante l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, sino all’incarico di maestro elementare espletato nel proprio paese, lo scrittore ebbe modo di affinare e approfondire la conoscenza della lingua natale. Nell’inquieto, successivo vagabondaggio biografico ed intellettuale, egli custodirà gelosamente il tesoro di quella preziosa sapienza popolare: Tra la gente del Molise, quella di Guardialfiera è forse la più arguta e sottile. Tutta la sapienza di proverbi e aforismi della regione, così piena di consapevole gravità e malinconia, qui si vena di un sorriso scettico e canzonatorio. Il dogmatismo sentenziante della filosofia popolare, incrinato dal dubbio, si arricchisce di qualche acuto sofisma. I proverbi, è noto, procedono a coppie contraddittorie e vengono usati a seconda delle circostanze. Qui, della contraddizione si ha già la consapevolezza; c'è già il materiale grezzo per la fondazione di una dialettica?.
Il dialetto, è ben noto, con tutto il suo carico antropologico, è uno strumento privilegiato per conferire cittadinanza letteraria al lungo silenzio del popolo. Grazie al dialetto, antichi e nuovi bisogni si affacciano alla soglia della storia. La rivisitazione della realtà molisana, che Jovine compie nel Viaggio nel Molise, può ritenersi un sicuro filo di Arianna per intendere il senso profondo che egli assegna alla riscoperta della propria lingua. Il dialetto, in tutte la succose varianti espressionistiche, è il patrimonio di una popolarità, che, se rischia talvolta di essere solo vagheggiata in termini mitici e memoriali, rivela tuttavia la persistente continuità di una tradizione, non contaminata da devianti manipolazioni. Sarebbe, comunque, fuorviante, oggi come allora, trascurare la specificità di una situazione socio-linguistica, che si prestava ad essere stravolta dalla innaturale intromissione di una consumistica pseudociviltà delle comunicazioni di massa: Tutto il loro linguaggio tenero palese si esaurisce per la terra. Per l’amore i molisani non hanno termini; le stesse canzoni che a brevi
lasse malinconiche e tremule vagano talvolta nell’aria sono inge6 F. JovINE, La mensa fraterna, ivi, pp. 101-102.
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Appendice
nuamente narrative o grossolanamente sarcastiche. Di amore nel senso comune della parola con lezi, baci, carezze, chiari di luna non si parla.
Se qualche volta una giovane contadina ripete una canzonetta udita alla radio o al grammofono che parli di nostalgia, di cuori infranti e di tutto il ciarpame di cui un componimento del genere è intessuto voi sentite che le parole sono pronunziate senza adesione, senza l’esatta comprensione del significato”.
Il discorso, certo, andrebbe oggi rivisto, nell’aberrante deforma-
zione che la lingua regionale subisce a contatto con una incontrollata lingua nazionale, ma anche internazionale, come nel caso dei molti immigrati molisani in Paesi europei ed extraeuropei. Un tema, quest'ultimo, che Jovine si proponeva di affrontare nell’inciso giornalistico del suo Viaggio, ma che poi è rimasto, al suo interno, allo stadio critico di abbozzo®. Tornando al brano ora riportato, sembra che lo scrittore miri a preservare il suo Molise, la lingua della sua terra, da ogni indebita intrusione esterna, anche se egli è ben consapevole che l’unico modo di sprigionare la forza di una regione è quello di «tradurla» nella lingua della nazione. Il nuovo linguaggio, nato dalla fusione di lingua e dialetto, mentre si rende comprensibile a tutti, non rinuncia ad alcuni suoi specifici lessemi. Un esempio, in apparenza irrilevante ma in realtà interessante: E il ducato di Andrea di Caianello dov’era? Mi tornava a mente che questo cortigiano di Ferdinando II firmava le sue lettere «Andreo» perché si rifiutava di adoperare un nome da femmina; egli dava un’altra prova della sua fierezza e della sua cultura quando rispondeva al suo re che per divertirsi a vederlo saltare gli pizzicava le gambe con delicatissimi colpi di scudiscio, «Siamo vecchi e veniamo a corte per onorare Vostra Maestà ma non o essere ‘zumpello’ di nessuno». L’ardita contaminazione tra il dialettale «zumpo» e il prezioso «zimbello» riferito alla condizione particolare e lo «Andreo» di cui abbiamo dianzi parlato mi fanno pensare che nella mente del Duca vi dovesse essere in «nuce» una teoria della lingua non priva d’interesse?. " F. JOVINE, Casacalenda, paese sereno, cit., p. 87.
* Cfr. F. D’EriscoPo, Il Molise di F. Jovine. Narrativa e antropologia, Edizioni Enne, Campobasso, 1984, pp. 43-67. ? F. JOVINE, «Andreo» di Caianello, in Viaggio nel Molise, cit., pp. 21-22.
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Ma c’è un altro aspetto della coscienza linguistica joviniana, che merita di essere evidenziato, ed è quello legato alla coralità antropologica del villaggio, il quale partecipa attivamente, oltre che alla rappresentazione di uno spettacolo, alla creazione di un nuovo linguaggio, enfatizzando la sua carica espressiva in dialetto e/o in lingua:
Il villaggio ha sempre qui funzione corale; tutti i casi più memorabili di delitti, adulteri, tradimenti si sono svolti sotto gli occhi di tutti. La
vita privata in questi mondi chiusi e solitari è interamente palese; uscire dalla norma è sempre pericoloso, non si sfugge alla condanna. Il colpevole è isolato, giudicato secondo i criteri di una moralità tradizionale che non ha dubbi e non ammette transazioni. Il villaggio emette il suo giudizio inappellabile. L’adultera o la madre nubile offrono poi sempre lo spunto per una cantata che è composta, musica e versi, dai contadini. Riuniti sotto la casa della colpevole, di notte, compongono i distici della ironica melopea che narra minutamente tutti i particolari degli incontri, gli adescamenti, le ripulse e l'abbandono. Il medico, il notaio, il parroco,
i vicini, le mezzane interloquiscono nella ricostruzione della farsa o del dramma così come questi primitivi rapsodi se li rappresentano: Mariannina, che porti ’nzino? - Lu bicchiere d’a medicina... - Uh come piange! Uh come piange! - Mariannina alla fonte Preta là diceva parole segrete. - Uh come piange! Uh come piange! Mariannina che piangi a fa. È il coro che interviene crudele - Uh come piange — senza pietà per la colpevole. Il suo pentimento non la sottrae alla condanna che è già consacrata in versi che il giorno seguente voleranno sui solchi, can-
tata dalla voce beffarda di una contadina, a cui un’altra voce lontana
risponderà da una forra o da un casolare!°.
Il rapporto pubblico-privato, nelle sue più profonde ascendenze antropologiche, è destinato ad incidere le strutture più vitali della contemporanea narrativa molisana, come basterebbero a dimostrare ‘°F, JoviNE, Casacalenda, paese sereno, cit., pp. 89-90.
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La chiesa di Canneto di Felice Del Vecchio!! o, in una prospettiva diversa, le molte opere di Lina Pietravalle!
Nei limiti del presente intervento, l’interferenza tra lingua e dialetto, registrabile soprattutto nei brani poetici di Viaggio nel Molise, si rivela di notevole momento nella problematica estetica, ma anche
pedagogica, di Francesco Jovine, mostrando la consistenza di un discorso, che la rivolta verista aveva solo avviato e che la ripresa neorealista si apprestava a riproporre in termini rinnovati'!5. Procedendo dalla grande lezione verghiana, che riscopriva il dialetto come struttura portante del nuovo destino regionale!*, lo scrittore molisano approderà lentamente ad una più articolata teoria del suo impiego. La rara inserzione o la frequente traduzione di parole e passi dialettali nel contesto della sua opera risponde così a un consapevole processo di interiorizzazione realistica di specifiche istanze popolari e ambientali!5. Restituire ai contadini il loro autentico linguaggio non solo verbale, ma anche e soprattutto mentale, resterà uno degli obiettivi primari del suo tenace impegno letterario!° !! Cfr F. DeL VECCHIO, La chiesa di Canneto, Einaudi, Torino, 1957.
‘2 Sulla Pietravalle il contributo monografico più recente resta quello di M. ALBANESE, Ritorno a L. Pietravalle, Napoli, De Simone. 1973.
4 «Jovine, pur non usando il dialetto, accoglie elementi di cultura popolare contadina, nel tessuto linguistico nazionale, come nel lamento funebre delle donne sul cadavere di Luca, e voci dialettali sparse qua e là — sull’esempio di un linguaggio naturalistico meridionale d’impronta verghiana —: ‘Seppe’ per Giuseppe, ‘mammuccia’ per nonnina, ‘tarallucci’ per biscotti, ‘fratuccio’ per fratello, ecc». E. CHICCO VITZIZZAI (a cura di), // neorealismo. Antifascismo e popolo nella letteratura dagli anni trenta agli anni cinquanta, Torino, Paravia, 1977, p. 63. A parte l’ingenua interpretazione del lamento
delle donne sul corpo di Luca ne Le terre del Sacramento, carico semmai di ascendenze classiche, che non smentiscono ma valorizzano la lezione joviniana di un Verga epico e pagano (cfr. Centenario del Verga, in «I Diritti della Scuola», 10 novembre. 1940), la prospettiva critica appare fondata. È questo, uno dei rari casi in cui, in un discorso globale sul neorealismo, si accenna alla posizione linguistica dello scrittore molisano. !* Cfr. G.L. BECCARIA (a cura di), Letteratura e dialetto, Zanichelli, Bologna 1975, pp. 98-99. !5 Questa conclusione va strettamente rapportata a quella avanzata, in un intervento
metodologico, dallo scrivente: Il Verga di Jovine: proposte di revisione del rapporto tra verismo e primo neorealismo, in AA.VV., Naturalismo e verismo. I generi: poetiche e tecniche (Atti del Congresso Internazionale, Catania, 10-13 febbraio 1986), Fondazione
Verga e Association Internationale de Littérature comparée, Fondazione Verga, Catania, 1988, pp. 589-597. !6 Di qui l’aspra e acuta polemica di Jovine con Silone, al quale rimprovera di avere stravolto il linguaggio naturale dei suoi «cafoni» per rivestirlo di sovrastrutture culturali. Cfr. F. JOVINE, L’ultimo Silone, in «L'Italia che scrive», 29 novembre 1945.
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Il dialogo-ballata, che Jovine compone nel dialetto della sua terra e della sua gente, mira a recuperare, in forme letterarie di confiden-
ziale comunicazione, un tema centrale della coscienza nazionale: la
guerra!”. I «povere figli, [...] cadute nu fronte com’a giglie ncopp’a neve
chiu ghianche de lore», dopo avere implorato, di notte, sotto la piog-
gia, «a mamma che menesse a chiude l’uocchie»'*, si stagliano nell'immaginario collettivo di una storia molisana e meridionale, stravolta e tradita. Sullo sfondo persiste, costante, la sfiducia popolare per una guerra, che, come tutti i grandi rivolgimenti politici, appare estranea alle più elementari esigenze del mondo rurale: C’hanne raggione povere seldate ca lore ze hanne tutt’i delure tutte chill’i guaie ch’hanne passate!... E sacc’ì chi so state i tradituri! È state chi a carte ha férmate pe’ fa menì sta guerre ninamente; scine, so state tutt’i sbreguegnate velevena speglià a povera gente!?.
C'è una significativa sequenza di articoli, che svela la lucida consapevolezza, da parte di Jovine, del ruolo strategico negativo svolto dalle varie guerre, che si sono alternate dall’Unità ad oggi, nel futuro di un Mezzogiorno defraudato dei suoi fondamentali diritt?°. Ma il riscontro più efficace tra la poesia in vernacolo e la successiva riflessione critica dello scrittore è fornito da un suo articolo suggestivo, in cui si fa rabbioso riferimento alle giovani vite cadute nell’ultimo conflitto: Quando entrammo in guerra sapevamo tutti che 1 giovani partivano senza voglia e avrebbero combattuto senza passione. Molti però si comportarono in modo stupendo. Senso dell’onore tradizionale? Istin!7 Sulla trasposizione in chiave letteraria, soprattutto, della prima, grande guerra, cfr. G. PREZZOLINI, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Longanesi, Milano, 1968. 18 F, JOvINE, Chiagne e rise, cit.
canal !° Ibidem. 2 Sono gli articoli pubblicati in «Epoca», nell’anno 1945, di cui si veda, in particolare, Patria in campagna, 6 aprile.
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to connaturato di difesa? I cinici parlavano allora di spirito sportivo che valeva a colmare l’innegabile mancanza di moventi ideali. Questo impeto sportivo è sepolto nelle sabbie della Marmarica, nel fango dell'Ucraina o tra i monti dell'Appennino. Cadaveri disordinati che non fanno legione. I compagni rimasti li portano nel cuore, alcuni diritti, alcuni capovolti. Il monito che ciascuno ha lasciato morendo è un segreto tra lui e Dio. Ed è triste che tanta giovinezza nata sotto lo stesso cielo sia morta senza canto, senza far coro; ognuno col suo grido. I compagni hanno rinunziato a capire le loro voci discordi”.
L’intervento in guerra viene bollato, in termini di riflessione storica spietata, da Francesco Jovine. È,infatti, soprattutto una classe, quella contadina, in un rapporto ora 9 complicità ora di conflittualità con quella borghese, a pagare lo scotto maggiore di una ciclica subalternità. Da condizioni struttu-
rali negative, aggravate dalla persistente mancanza di un modello pedagogico di sviluppo, non potevano derivare che ingiustizie e inquietudini, destinate a confluire nella veemente rivolta ad ogni schema precostituito, come nell’episodio davvero esemplare dell’incendio del Municipio di Guardialfiera?? Gli incontenibili momenti di rivalsa, legati al possesso della terra, che lo scrittore molisano registrerà nella lucida diagnosi delle varie questioni meridionali, rinvengono ora un inedito, vibrante prologo poetico. La guerra, mentre allontana il contadino dalla sua unica fonte di sopravvivenza, la terra, lo catapulta in una realtà completamente estranea alle sue radici. Questi gravi problemi di inadattamento psico- pedagogico, oltre che storico, Jovine li interiorizza nel dialogo ingenuo, ma intenso, delle due madri in attesa dei figli, recando un imprevisto contributo molisano a quella letteratura meridionale sulla guerra, carica di significative ascendenze” Scine chemmì, signerì c’ì ragione,
quille che dice è a mamme da verdà; 2! F. JOVINE, Lettere segrete a «Tigo», in «Epoca», 20 aprile 1945. 2 Cfr. F. JOVINE, I soldi vanno a basso prezzo, in «Epoca», 9 marzo 1945. % Cfr. F. JOVINE, Come ho visto la società meridionale, in Viaggio nel Molise, cit.,
pp. 115-123.
Il precedente contributo di un suo compagno di strada è esemplare. Cfr. C ALVARO, Poesie grigio-verdi, Lux, Roma, 1917.
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ma se nè Denate quante n’ate ccone
tu vide i mazzate u fume ch’hanna fa. Nen ’ mporta € ’aglia mazze i’ so quintente, ma mo ha ’ppise u musse chiù de une de chille... nu tenemecel’a mente
ch’hann’ arrebate ne conne pe dune”.
Nelle linee di tendenza di una riflessione sul Molise e sul Mezzogiorno, che apparirà sempre più letterariamente e ideologicamente avanzata, Jovine, oltre le incertezze linguistiche, reinventa il senso psicologico di una coinvolgente situazione storica. Con la tempra del sicuro «raccontatore» il suo proposito, dall’inizio alla fine della composizione, resta quello di ripristinare modelli di cultura contadina, come conferma il poblematico e risolutorio rapporto col divino, avido di a antropologiche nello spartito delle sue pagine critiche e narrative” Assa fa tu chemmà stemece zitte;
ma quante ma ze sonne arebbevate i muorte cu chiagne? i l’eie ditte pensame ch’hanne remmenì i seldate. Che iennotte a Gesù me so sennate,
bielle sule isse, ca vocche a rise,
e ma ditte: siente, nun ve penate, ch'i muorte pa Patrie stanne mparadise”
2 F. JOVINE, Chiagne e rise, cit.
% Cfr. F. D’Episcopo, Il Molise di F. Jovine [...], cit., pp. 69-108.
27 F, Jovine, Chiagne e rise, cit.
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Chiagne e Rise di Francesco Jovine Alegre Marì ch’è fenuta a guerre e te diche 1° ca nen passe tiempe assà, ch’eme vedè nata vote à bballa pa terre i gievenotte nuostre bielle a passeià. Quanta spasse quante divertemiente! quanta coppie belle ch'ema guardà, e ’nte diche niente quante chemplemiente che fina ’nganne ci avriene arrivà.
Scìine chemmà, signerì c’ì ragione, quille che dice è a mamma da verdà; ma se vè Denate quante n’ate ccone
tu vide i mazzate u fume ch’hanna fa. Nen ’mporta c’aglia mazze i’ so quentente, ma.mo ha ’ppise u musse chiù de une de chille... nu tenemecel’a mente ch’hann’arrebbate ne conne pe dune. Ma mò ch’è remenut’ a licenze, Denate, tutt’1 sante à gastemate,
a” Madonna bella e pure a’ Scenze e pure u nome sie, sante Denate.
E è ditte: s'aremeneme tutte quante
ti dich’ì da finì sta caunzone: può a regastimate tutt’i sante e a ditte c’ada fa révelezione. C’hanne raggione povere seldate ca lore ze hanne tutt’i delure
tutte chill’i guaie ch’hanne passate!... E sacc’ì chi so state i tradituri!
Francesco Jovine e la lingua molisana
Pianto e riso*
Rallegrati Maria che è finita la guerra e ti dico io che non passa tempo assai, che dobbiamo vedere un’altra volta giù per il corso i giovanotti nostri belli a passeggiare. Quanti spassi, quanti divertimenti! quante coppie belle che dobbiamo guardare, e non ti dico affatto quanti dolci nuziali che fino alla gola ci dovrebbero arrivare. Gnorsì comare, vossignoria ha ragione, ciò che dici è la sacrosanta verità;
ma se viene Donato tra poco tu vedrai le botte il fumo che dovran fare!. Non importa che le prenderò, io son contenta,
ma ora s'è imbronciato più di qualcuno di quelli... noi teniamocelo a mente che hanno rubato un poco ciascuno. Ma quando è tornato in licenza, Donato, tutti i santi ha bestemmiato,
la Madonna bella ed anche l’Ascensione e finanche il proprio nome, San Donato. Ed ha detto: se torneremo tutti quanti ti giuro che dovrà finire questa canzone: e poi ha ribestemmiato tutti i santi dicendo che avrebbe fatto la rivoluzione.
Hanno proprio ragione poveri soldati perché loro si tengono tutti i dolori tutti quei guai che hanno passato!... E lo so io chi sono stati i traditori!
* La traduzione è di Antonio Vincelli. !Le botte annebbiano la vista come il fumo.
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È state chi a carte ha férmate pe’ fa menì sta guerre ninamente; scine, so state tutt’i sbreguegnate
velevena speglià a povera gente. I cunte lore non sonne aresciute
a firme era state pe diec’anne, e siccome mo sta guerre è fenute mo ze sentine stritte dint'i panne.
Oh quante giovene, povere figlio, pi mamme lore che grande delore; so cadute nu fronte com’a giglie ncopp’ a neve chiu ghianche de lore. Quante ferite tutte nzanguenate aiute! camenanne chi denuocchie,
a notte sotta l’acqua hanne chiamate a mamma
che menesse a chiude l’uocchie.
E nun parlatte chiù pecchè chiagneve, quell’atre a coccie dint’ i mane cale e miezz’i detre a lagreme scegneve ed esse l’assequave cu zenale. Cinche menute u selenzie deratte e u chiagne sule sule ze senteva: pelenneze l’uocchie rechemenzatte quelle che dent'i mane mo chiagneva. Assa fa tu chemmìà stemece zitte;
ma quante ma ze sonne arebbevate i muorte cu chiagne? i l’eie ditte penzame ch’hanne remmenì i seldate. Che iennotte a Gesù me so sennate,
bielle sule isse ca vocche a rise,
e ma ditte: siente, nun ve penate, ch'i muorte pa Patria stanne mparadise!
Francesco Jovine e la lingua molisana
È stato colui che la carta ha firmato per far venire questa guerra immediatamente; gnorsì, sono stati tutti quegli svergognati volevano spogliare la povera gente. I loro conti non sono riusciti la firma era stata per dieci anni, e siccome ora questa guerra è finita ora si sentono stretti dentro i panni.
Oh quanti giovani, poveri figli per le loro mamme che gran dolore; son caduti al fronte come gigli sulla neve più bianca di loro. Quante ferite tutte insanguinate aiuto! camminando con le ginocchia, di notte sotto la pioggia hanno chiamato la mamma, che venisse a chiudere gli occhi. E non parlò più perché piangeva quell’altra la testa dentro le mani cala e tra le dita una lagrima scendeva e lei l’asciugava col grembiale. Cinque minuti il silenzio perdurò ed il pianto tutto solo si sentiva: asciugandosi gli occhi ricominciò colei che dentro le mani ora piangeva. Lascia fare tu comare stiamoci zitte;
ma quando mai sono risuscitati
i morti col pianto? io l’ho detto pensiamo che devono tornare i soldati. Che stanotte Gesù ho sognato, bello solo lui con in bocca il sorriso,
e mi ha detto: ascolta, non vi penate, perché i caduti per la Patria sono in paradiso.
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INDICE
Montepeluse dRONAnARCOTi
A
a
beron F tio
p.
INTRODUZIONI
Lo scrittore, l’uomo eo ERO
a
a
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11
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13
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16
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18
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20
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20
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Il Molise verso il Duemila de Vincenza di Sabato
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APPENDICE
Francesco Jovine e la lingua molisana: una poesia quasi inedita rane: 0 DEDICO
II
TOILONI
Questo volume è stato composto dalla Grafica Elettronica s.n.c., Napoli e stampato presso la Buona Stampa s.p.a., Ercolano nel mese di dicembre dell’anno 1994 per le Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a., Napoli
Stampato in Italia/Printed in Italy
BIBLIOTECA
peL
MoLISsE
E
DEL
SANNIO
01953
3 Gli autori dei saggi e delle testimonianze sono tutti molisani: l’opera e la personalità di Jovine si prestano, quindi, ad essere rilette e rivissute dall’interno delle sue radici e dall’esterno di inedite situazioni di vita. Per la prima volta, forse, lo scrittore e l’uomo
convivono così intensamente nelle pagine di un libro tutto molisano, che evita però ogni facile cliché di bozzettismo e di folklorismo per porsi come
un'autentica
riproposta
di un uomo,
che racconta
nei libri la storia di se stesso e della sua gente, senza falsità, senza retorica, con l’amore e la rabbia di chi sente che per il Molise, per il Mezzogiorno, è possibile immaginare, inventare un comune, migliore futuro (Da Lo scrittore, l’uomo di Francesco D’Episcopo).
Francesco
Jovine
(Guardialfiera,
1902
- Roma,
1950). Dopo
avere
brillantemente
superato il concorso magistrale ed espletato il servizio militare, esercitò la sua prima attività di insegnante a Guardialfiera. Il passaggio dal borgo natìo a Roma segna la svolta decisiva nella sua biografia. Qui insegna e frequenta il Magistero, laureandosi e legandosi di amicizia a Giuseppe Lombardo Radice; sposa la pedagogista Dina Bertoni e supera ancora il concorso a direttore didattico. Lascia, quindi, l’Italia e insegna nelle scuole italiane di Tunisi e del Cairo. Rientra finalmente in Italia ed inizia una più regolare attività narrativa e pubblicistica, legandosi agli ambienti intellettuali della Resistenza romana. Dopo Berluè (1929), Un uomo provvisorio (1934), pubblica a puntate Ragazza sola (1936-37) e in volume Signora Ava (1942). Questa attività di autore di romanzi
è costantemente affiancata alla pubblicazione di raccolte di racconti: da Ladro di galline (1940) a Il pastore sepolto (1945), da L'impero in provincia (1945) a Tutti i miei peccati
(1948). Dopo la sua morte, appariranno il romanzo Le terre del Sacramento (1950) e una collettanea edizione di Racconti
(1960).
Francesco D’Episcopo, (Molise 1949), svolge attività didattica e scientifica, nell’ambito
della Letteratura italiana, presso il Dipartimento di Filologia moderna dell’Università di Napoli. Le sue ricerche abbracciano ampie stagioni della civiltà letteraria italiana. Determinanti, per la ripresa del dibattito sulla figura e l’opera di Jovine, sono la ristampa dei romanzi Un uomo provvisorio (Isernia, 1982), accompagnata da un ampio e articolato studio critico; Un uomo provvisorio: Francesco Jovine (ibidem); Ragazza sola, per la prima volta raccolto in volume (Campobasso, 1987) e la cura critica delle Commedie
inedite e cronache teatrali dello scrittore molisano (Ravenna, 1983). Allo scrittore ha, inoltre, dedicato il volume IH Molise di Francesco Jovine (Campobasso, 1984) e numerosi saggi, che saranno raccolti e riproposti con nuovi interventi in un’opera organica.
In copertina: Francesco Jovine nelle campagne
ISBN 88-7104-967-5
di Guardialfiera
L. 15.000