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Italian Pages 77 [72] Year 1993
Carlo Diano Forma ed evento Principi per una interpretazione del mondo greco
Prefazione di Remo Bodei
Marsilio
© 1993 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. I N VENEZIA
L'edizione originale di Forma ed evento è apparsa nel 1952 presso Neri Pozza Editore, Vicenza
ISBN 88-317-5590-0
Prima edizione: maggio 1993
INDICE
7 Cristalli di storia di Remo Bodei 33
FORMA E D E V E N T O
67 Appendice. Lettera a Pietro de Francisci
CRISTALLI D I STORIA di Remo
Bodei
1. Questo testo - di nervosa asciuttezza, sobrio nei riferimenti e nelle note - mostra subito una inusitata tensione teorica. La polarità, apparentemente semplice, delle nozioni di «forma» ed «evento» rinvia infatti a un'articolazione concettuale ramificata e a percorsi filologici in parte appena tracciati, in parte interrotti. Risultando da una sedimentata, tenace frequentazione dei classici e da incontri non occasionali con la filosofia contemporanea, esso incorpora nella sua lineare esposizione blocchi sporgenti di rappresa storicità. Una simile configurazione, metodicamente perseguita, affascina e illumina, ma può anche legittimamente disorientare. Per coglierne il senso più profondo, occorre aprirsi un varco tra due opposti atteggiamenti: di chi non giunge a porre radicalmente in discussione la tesi di una perfetta e univoca simmetria tra «forma» ed «evento» (e, più in generale, di una compatibilità tra piano logico e piano storico) e di chi invece, pur denunciandone l'incongruenza, la imputa interamente al clima culturale o alle scelte ideologiche da cui il discorso scaturisce. Per valutarne in maniera critica sia i contributi più solidi che le eventuali oscillazioni o linee di frattura, si deve, almeno preliminarmente, trovare una chiave di lettura intrinseca. Ciò permetterebbe di risalire alle intenzioni di Carlo Diano, aggirando il pregiudizio ermeneutico, ormai invalso, secondo cui l'interprete è, per principio, capace di intendere l'opera meglio dell'autore. Un restauro accurato favorirebbe invece una visione successiva maggiormente 7
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perspicua, adeguata alla scala di grandezza delle difficoltà da affrontare. 2. Lasciando la definizione delle due categorie principali di «forma» ed «evento» alla graduale ricomposizione «poliedrica» dei loro differenti lati, iniziamo con lo stabilire, in maniera piana, gli aspetti più espliciti e accertabili della questione, per inoltrarci in seguito in quelli più controversi e sfuggenti. Che si tratti di idee dotate di puro «valore fenomenologico» e non ontologico, valide solo «sul terreno della storia» e «nella sfera degli atteggiamenti e delle situazioni in cui esse si riflettono», è affermazione variamente sottolineata e più volte ripetuta . Forse con eccessiva insistenza, che potrebbe rivelarsi sintomatica dello sforzo di esorcizzare un temuto appiattimento dei dati filologici sotto il rullo compressore di una logica dualistica semplificante e implacabilmente meta-storica. Il saggio La poetica dei Veaci aggiunge tuttavia, in un brevissimo inciso, un prezioso accenno, purtroppo non ulteriormente elaborato: nel quadro di una variante più rigorosa ed esigente della vichiana convertibilità del «certo» e del «vero», Diano ricorda come la natura fenomenologica delle categorie di «forma» e di «evento» implichi il loro essere «insieme storiche e logiche» . ^ . Ma cosa vogliono propriamente dire «evento» e «forma» e come si presume di far convivere in ciascuna di tali categorie tanto la dimensione relativa, storicamente condizionata, quanto quella assoluta, logicamente valida per ogni civiltà ed esaustiva di ogni esperienza umana? Non vi è dubbio che per l'autore di questo volume in principio era l'«evento». Da esso siamo partiti e ad esso Pesperienza moderna tende, con qualche eccezione, a tornare, accentuandone gli aspetti nichilistici (il riferimento è sempre a Heidegger). Questo termine 1
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Cfr., ad esempio, C. Diano, forma ed evento, Vicenza 1967\ pp. 45-46 (d'ora in poi indicato con la sigla FÉ); Linee per una fenomenologia dell'arte, Vicenza 1968, p. 11 (d'ora in poi indicato con la sigla L). Solo che l'aggettivo «fenomenologico» non viene inteso in un significato tecnico-filosofico (hegeliano o husserliano), quanto piuttosto come sinonimo o affine di storico-descrittivo. Si veda C. Diano, La poetica dei Feaci, in Saggezza e poetiche degli antichi, Venezia 1968 (d'ora in poi indicato con la sigla SP), p. 191 e si confronti questo inciso con l'affermazione contenuta alcune righe prima, secondo cui, dopo Vico, la cosiddetta istorica «non può essere se non fenomenologica. Ma può esserlo solo se la fenomenologia si libera dalle "parentesi" e, ferma restando la realtà storica del fenomeno, l'analisi delle strutture venga estesa a tutte le manifestazioni storiche dell'uomo». 2
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non indica affatto l'accadimento in generale, bensì il quod cuique eventi, ciò che succede a qualcuno e ha valore per il diretto interessato, non in se stesso. Privo di rapporto con l'esperienza di uno specifico soggetto, l'evento resta un concetto vuoto, insaturo. Esso è quindi sempre puntuale e individualizzato: costituisce un vissuto, non un pensato. Riguarda la finitudine dell'A/c et nunc di ogni cuique a cui si manifesta e, simultaneamente e inseparabilmente, la periferia spazio-temporale indeterminata e infinita nella quale l'evento è inserito e da cui proviene, ossia l'indistinta, informe, tremenda e ineludibile presenza complementare dell'ubique et semper. Quest'ultima viene evocata con vari nomi e mostrata nelle sue numerose metamorfosi e resurrezioni: è, di volta in volta, Yapeiron periechon di Anassimandro; il «divino», il matta o il praesens numeri che si manifesta nel sentimento religioso e che alberga dovunque (qualcosa di analogo alla percezione vichiana dell'Iovis omnia piena che caratterizzava la fantasia dell'umanità primitiva) ; è, nell'era moderna, il «senso fondamentale dell'essere»,)quale appare sia in Rosmini che nella ripresa compiutane dal Giovanni Gentile della filosofia dell'arte ; è YUmgreifende di Jaspers; è «l'essere-nel-mondo» (Yln-der-Welt-sein) heideggeriano, in quanto coappartenenza inestricabile a ogni cuique o Dasein votato al nulla e alla morte. - L'evento che capita a qualcuno opera, da un lato, in modo da ritagliarlo nello spazio e da congelarlo nel tempo, dall'altro, in modo da farlo dipendere dall'intero universo, ossia dalla totalità dello spazio, del tempo e delle «potenze» che li popolanor Sorgono così impellenti e quasi spontanee le domande: perché proprio qui? perché proprio ora? perché proprio a me? Come nell'Infinito di Leopardi (autore su cui Diano si era laureato nel 1923), i limiti rievocano la totalità, inseguita e mai raggiunta, ove «per poco il cor non si spaura» e in cui il pensiero naufraga: gli «interminati spazi» oltre «questa siepe», l'«infinito silenzio» del passato e del futuro oltre la presente «voce» dello stormire del vento proprio «tra queste piante». Centro puntuale e circonferenza infinita, prossimità e distanza, 3
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G. Vico, La scienza nuova (1744), a cura di P. Rossi, Milano 1959, p. 416. Cfr. O. Longo, Carlo Diano dieci anni dopo, ora in II segno della forma, Atti del Convegno di studio su Carlo Diano, Padova dicembre 1984, Padova 1986, p. 218: «Credo che qui sia da ravvisare uno dei momenti essenziali dell'adesione di Diano al pensiero gentiliano, anche perché è qui che si attiva il rapporto di polarità fra quel centro che è l'Io gentiliano non meno che il soggetto dell'evento, e una "circonferenza infinita" - sono parole di Gentile - di cui il nostro corpo, quale effettivamente lo sentiamo, è il "centro"». 4
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isolamento e coinvolgimento, coscienza umana ristretta all'immediatezza dell'esistere e potenza divina ubiqua ed eterna si contrappongono e, insieme, si completano in una relazione liminare mobile di reciprocità e compenetrazione {Vlneinander a cui si riferisce Cassirer a proposito dello «spazio della mentalità primitiva e del mito» o l'idea di «partecipazione mistica» al tutto attribuita al pensiero «pre-logico» dei primitivi da Lévy-Bruhl). L'evento, sospinto al di là di se stesso dai «perché» inespressi dell'interrogazione soggettiva, apre a quel «sentimento oceanico» di comunione con il tutto di cui anche Freud - sulla scia degli antropologi del sacro e degli studiosi della «mentalità» dei selvaggi - aveva parlato a proposito di un'esperienza infantile, insuperabile per la nostalgia che essa lascia e che alimenta tanto le religioni che le arti. Ma è appunto tale «naufragio» nel grande mare dell'essere a produrre la con-fusione estatica, dolce o orrorosa, del dissolversi e dello sprofondare delle specificità dell'individuo nell'informe.
il.
1. In termini genetici, una delle tracce più remote dell'attenzione di Carlo Diano per l'idea di «evento» è rappresentata da una lettera a Giovanni Gentile, datata 10 dicembre 1940. In essa egli afferma di essere impegnato «in una vasta storia del concetto di Tyche, e in generale del Caso, fino ad Aristotele» . Nel piano di questa «vasta storia» assume progressiva importanza, anche per la sua priorità cronologica, il ruolo di Anassagora, il primo a fornire una definizione concettuale della tyche («Ciò a cui si dà il nome di tyche non è che una causa ignota al raziocinio dell'uomo»: fr. A 66) e a segnare lo spartiacque, secondo criteri scientifici e non teologici, tra la civiltà dell'evento e quella della forma , lui che si diceva «nato per contemplare i cieli». 5
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La lettera è citata da L. Canfora, Diano e il «Tramonto dell'Occidente», in AA.VV., Tramonto dell'Occidente?, a cura di G.M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. SichiroÙo, Urbino, Quattro Venti, 1989, p. 223 (si veda anche la precedente formulazione dello stesso articolo, senza sostanziali varianti, in II segno della forma, cit., pp. 77-98). È probabile che tale interesse per il concetto di «caso» sia stato stimolato anche dagli studi su Epicuro, del cui pensiero Ettore Bignone aveva allora recentemente mostrato la ricchezza e le connessioni attraverso i due monumentali volumi de L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, pubblicati nella loro prima edizione a Firenze 1936 (di cui, peraltro, Diano non condivideva alcune tesi). Anassagora risolve in senso anti-religioso il «dilemma di Euripide», esposto in un frammento deWlpsipile: «[...] Perché se c'è / la tyche che bisogno degli dèi? / E se il potere è 6
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Successivamente - proprio all'inizio di Forma ed evento l'origine diretta del volume viene attribuita a una questione squisitamente tecnica, quella della differenza tra il sillogismo aristotelico e il sillogismo stoico. Il primo, dominato dalla necessità della forma - la sola valida in assoluto - non è costitutivamente in grado di dedurre l'individualità dell'evento. Sfocia perciò in una regressione di proposizioni al condizionale, alla cui conclusione sta un mero fatto non ulteriormente spiegabile. Parafrasando e anticipando le esemplificazioni di Diano: tutti gli uomini sono mortali; Demetrio è uomo; dunque Demetrio è mortale. Sin qui il ragionamento è impeccabile, al livello delle forme. Ma quando e dove morirà Demetrio? Questo hic et nunc non si può affatto ricavare dalle proposizioni precedenti. Bisogna ricorrere a una catena di congetture: morirà se si ammala di polmonite. Ma come potrebbe capitargli? Se cade nell'acqua gelida. E perché dovrebbe cadere? Se..., se... ecc. Diversamente da Aristotele, è proprio «al "se" di questa necessità ipotetica, che alla fine esclude ogni necessità e si risolve in pura indeterminazione della tyche, che si riattaccano gli Stoici [...]. Essi ignorano il sillogismo che trae la sua necessità dalla forma» (FE, p. 11). I termini del loro sillogismo «enunciano, di conseguenza, eventi e non concetti». Dissolvendo le essenze in verbi, le persone e le cose in atti (ossia in sequenze spazio-temporali), gli eventi divengono non solo intellegibili, ma addirittura tutti egualmente significativi nella loro propria individualità. Mancando la forma, la particolarità irriducibile che li caratterizza e li designa è simbolicamente il dito puntato, quell'indice che, secondo una tradizione quasi certamente inventata ma nondimeno significativa, Zenone si sarebbe rotto, cadendo prima di morire . Con il sillogismo categorico aristotelico, dunque, la forma rimuove l'evento; con quello ipotetico stoico l'evento riassorbe la forma. 7
degli dèi, la tyche / non è più nulla» (cfr. C. Diano, Teodicea e poetica nella tragedia attica, in SP, p. 303). Sia gli eventi dolorosi che quelli gioiosi sono in tal modo sottratti al controllo della divinità. Per questo Anassagora non può accusare che la tyche della morte del proprio figlio, episodio a cui Euripide allude nell'Àlcesti, 903 ss. (cfr. C. Diano, La catarsi tragica, in SP, p. 224). Si veda, da ultimo, P. Berrettoni, 7/ dito rotto, in «MD. Materiali e discussioni per lo studio dei testi classici», 22, 1989, pp. 23-36 e, per alcune precisazioni teoriche, M. Conche, L'aléatoire, Paris 1990. La logica stoica dell'evento, focalizzata in parte da Émile Bréhier in La théorie des incorporea dans l'ancien stoicisme, Paris 1928, ma soprattutto da Victor Goldschmidt in Le système stoicien et l'idée du temps, Paris 1969, è stata sviluppata e modernizzata negli ultimi anni da Gilles Deleuze in La logique du sens, Paris 1968, trad. it. La logica del senso, Milano 1975 (sull'evento cfr., soprattutto, pp. 133 ss.). 7
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Per inserire meglio il problema in una prospettiva filosofica più ampia, si rifletta sul fatto che Aristotele è stato l'ultimo, in età classica, a tenere logicamente unite in una sola costellazione concettuale nozioni fondamentali che poi si autonomizzeranno, diventando per lo più - nel periodo ellenistico e ciascuna separatamente l'emblema esclusivo di una Scuola: tyche, ananke, automaton, telos. Per Aristotele, infatti, nella natura non dominano monarchicamente o l'accidentale o la necessità o le cause materiali, come avevano sostenuto e sosterranno altri pensatori. Prevalgono la finalità (telos) e l'ordine (taxis), che si affermano malgrado le eccezioni . Nel cosmo delle sfere celesti regolarità, necessità e finalità sono infatti assolute: il movimento circolare è lassù «perfetto» (tetelesmenos) e costantemente uguale a sé, ossia consegue sempre e inevitabilmente il suo telos, il ritorno su se stesso. Nel nostro mondo sub-lunare invece (il mondo della generazione e della corruzione, il mondo del «pressapoco»), la regolarità, la finalità e l'ordine non prevalgono sempre, ma si affermano, per l'appunto, la maggior parte delle volte. La natura - paragonata a un medico che talvolta sbaglia la dose dei farmaci - genera mostri, ossia eccezioni alla norma, finalità non riuscite, ammette numerose inadeguatezze (cfr. Phys., li, 8, 199 a 32 ss.). Così nella specie umana la perfezione non viene spesso raggiunta: negli schiavi per natura, nei barbari, in coloro che hanno difetti fisici e morali congeniti, o simili. Il caso (tyche) e la spontaneità (automaton) non hanno tuttavia il primato e non contrastano con la finalità. Proprio perché esiste un di più di regolarità finalistica e di ordine, siamo in condizione di cogliere, per differenziali, la casualità. Questa, a sua volta, non confligge del resto con il fine: vado al mercato e incontro uno che mi deve del danaro: non pensavo affatto di riscuoterlo, ma ho raggiunto la meta, certo insperata in quel momento (cfr. ibid. n, 5, 196 b 34 - 197 a 14). Allo stesso modo, neppure la necessità (ananke) è in contrasto con la finalità: parliamo di essa quando non siamo ancora capaci di riconoscere il telos. Aristotele non nega dunque il gioco del caso e della necessità, né sceglie l'uno contro l'altra, a esclusivo vantaggio di una visione comodamente finalistica. Lascia loro un largo margine, sebbene non alternativo alla sua visione teleologica. Negli Stoici, invece, la tyche coincide con Vananke e Yautomaton 8
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Cfr. Arist., Phys., n, 5, 196 b 10 ss.; De part. an., i, 645 a; Poi, i, 5, 1254 a 31; De gen. an., v, 1, 778 b 3. Per l'accidentalità cfr. An. Pr., i, 13; Phys., li, 5-6; De gen. an., i, 20, 727 b 29-30.
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con il telos\ tutto si trasforma in evento e ogni evento, perdendo la sua accidentalità, si inserisce nella ferrea catena provvidenziale del destino, di una necessità logicamente intesa, riscontrabile ovunque e senza eccezioni. Cade così la linea di demarcazione tra Xhic et nunc e Yubique et semper. La tyche è solo un evento isolato di cui si ignora la causa. Ma questa indubbiamente esiste e pertanto l'evento deve avere per forza un significato. Tale posizione, coerente all'estremo, finisce, come osserverà Cicerone, per giustificare ogni congettura, in un delirio di interpretazione, socialmente codificato, di segni e di sogni, favorendo potenzialmente qualsiasi superstizione . Pensatori «deterministi» - quali Spinoza, Freud e persino l'Einstein dell'affermazione secondo cui «Dio non gioca a dadi» - rappresentano tuttavia quasi i campioni di una vittoria postuma della logica stoica, che fa coincidere il casuale e il necessario. In essi, infatti, ogni evento che appare accidentale e insignificante (sia esso un prodotto dell'immaginazione, un lapsus o la perturbazione nel percorso di un raggio di luce che giunge da spazi lontani) è suscettibile di una interpretazione rigorosamente razionale, seppure sempre rettificabile e perciò non esaustiva. 9
2. È strano come non si sia sufficientemente sottolineata la derivazione dell'idea di «evento», in Diano, dall'ambito della fenomenologia del sacro e della religione in genere. I nomi che prevalentemente ricorrono - in questa, come in altre opere più o meno coeve - sono Van der Leeuw, che risulta il più citato, Eliade e Rudolf O t t o . Non si dimentichi che, a suo tempo, egli aveva seguito all'università di Roma i corsi di Bonaiuti - in un periodo in cui anche Petazzoni vi insegnava - e che nel 1949, tre anni prima 10
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Cfr., da ultimo, la lucida Introduzione di S. Timpanaro a Cicerone, Della divinazione, Milano 1988. II quale aveva studiato la simbologia del «centro» non solo nel Traiti d'histoire des religions, Paris 1949, trad. it. Trattato di storia delle religioni, Torino 1954, § 143 (citato, ad esempio, da Diano in L., p. 17 n), ma anche in molti altri lavori, come Das Heilige und das Profane, Hamburg 1967 o nel più recente La preuve du labyrinthe, Paris 1978, in cui il labirinto custodisce nel suo centro un senso che deve essere conquistato. A Eliade è del resto dedicato il saggio La catarsi tragica, in SP, pp. 215-69 e da una delle sue opere più note, Le mythe de l'éternel retour, Paris 1949, prende inoltre lo spunto il breve articolo II mito dell'eterno ritorno, in SP, pp. 363-66. Si veda la seguente rivelatrice osservazione: «È nell'evento invece che il soggetto, ridotto alla pura e irrapresentabile puntualità del cuique, si avverte come separato: il "sentimento dello stato di creatura" di cui parla R. Otto, e la "derelizione" degli esistenzialisti. Perché contro Xhic et nunc del cuique c'è la trascendenza dcW'ubique et semper del periechon, il mysterium tremendum e insieme fascinans, da cui l'uomo si sente respinto e insieme attirato» (L, p. 33). 1 0
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della stesura originaria di Forma ed evento, aveva pubblicato in traduzione italiana, presso Sansoni, la Religiosità greca di Martin P. Nilsson, un'opera che dedica molte pagine alla tyche. Diversamente dallo spazio geometrico, omogeneo e neutro, lo spazio del sacro delimita un centro qualitativamente speciale e privilegiato del mondo. Attraverso la commemorazione-ripetizione rituale del già stato significativo, esso riapre inoltre l'evento: «rito e mito non sono che i mezzi per riprodurre il rapporto déll'hic et nunc e dell'ubique et semper vissuto in atto nell'evento» (L, p. 18). Al pari del rito, ma in maniera soggettivamente più intensa, l'evento si trasforma anche nell'esperienza della visione estatica folgorante: nella percezione/allucinazione dell'Augenblickgott, una implosione psichica in cui si fondono all'improvviso Yhic et nunc umano e il periechon divino, l'istante profano del mondo e il manifestarsi irresistibile e fugace dell'ubique et semper. Particolarmente rilevante per formulazione sia del concetto generale di «evento» (nel suo duplice presentarsi come puntualià quotidiana e come «dilatazione» estatica), sia di periechon religioso appare infatti per Diano la lezione di Usener, studioso a lui ben noto anche come autorità nel campo degli studi su Epicuro: «Esattamente l'Usener, trattando degli Augenblicksgòtter, che sono una delle più grandi scoperte che siano state fatte nel campo della fenomenologia della religione, afferma: "La cosa singola, che tu vedi davanti, essa e null'altro è il dio"» . 12
3. Se l'evento ha a che fare con le origini del sacro e del divino, se conserva in sé qualcosa di arcaico, di «pre-logico», come mai ricompare anche dopo che con Parmenide, Platone e Aristotele si afferma il dominio della forma? La risposta offerta da Diano è unanimemente apparsa una delle più deboli del libro (sebbene, personalmente, non credo che si
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L, pp. 26-27 = H. Usener, Gòtternamen. Versuch einer Lehre voti der religióse» Begriffsbildung [1895], Dritte unverànderte Auflage, Frankfurt a.M., 1948, p. 280. Diano precisa altrove: «Riprendendo alla luce di questo principio [per cui l'eroe si trova genericamente dinanzi al "divino"] la teoria dell'Usener, possiamo affermare che XAugenblickgott (meglio il singolare che il plurale) e i Sondergòtter non rispondono a due stadi dello sviluppo religioso, ma a due aspetti del medesimo fenomeno: solo nel rito e nella preghiera il deus certus è tale, ma nell'istante in cui opera e si rivela come evento, esso è sempre numen ed è tutto quanto vi è di "divino" nel mondo. Questo permette d'intendere per intero la religione romana» (FE, Appendice, p. 78). Più in generale, su questi punti, si veda R. Bodei, Hermann Usener nella filosofia moderna. Tra Dilthey e Cassirer, in Aspetti di Hermann Usener filologo della religione, a cura di A. Momigliano, Pisa 1982, pp. 23-42.
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debbano attribuire ad essa connotazioni addirittura larvatamente razziste o concrete opzioni politico-ideologiche in favore dell'aristocrazia greca e contro le plebi). Per lui l'evento ha una matrice che viene definita, di volta in volta, «mediterranea», «semitica» e «orientale», mentre la forma ha invece soltanto un'origine greca (ma allora, si potrebbe subito obiettare, perché tra i Greci stessi - come vedremo - essa non compare sino all'Omero dell'Iliade o alla statuaria greca del vi e del v secolo a.C. e perché poi scompare nuovamente riaffacciandosi soltanto nella Toscana del Rinascimento?). * - Per avvicinarci a una soluzione plausibile dei motivi di tali discrepanze, bisogna ora procedere alla definizione della seconda parola-chiave, la «forma», cominciando a abbozzarne i tratti caratteristici e inconfondibili. Essa si può intendere, geneticamente e in prima approssimazione, come risposta difensiva alla sfida dell'evento, comune virtualmente a tutti gli individui e a tutte le civiltà, come un paradossale modo di recingere, arginare e controllare, esaltandola, l'invadenza onnipervasiva del sacro: La reazione dell'uomo a questo emergere del tempo e aprirsi dello spazio creatigli dentro e d'intorno dall'evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all'evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa chiusura che in esse vien dato allo spazio e al tempo dell'evento, e la storia dell'umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure di eventi (L, p. 20).
Quel che caratterizza la forma è «l'essere per sé», l'oggettività, a differenza dell'evento, che è sempre per qualcuno, per un soggetto. E d è inoltre il suo apparire autonomo al di fuori di ogni relazione con ciò che la perimetra. E poiché unicamente lo spazio è rappresentabile, la forma opera una rottura con il tempo e una apertura allo spazio, alla visibilità non solo fisica ma anche mentale, alla figura immobile percepita dagli occhi e all'eidos-idea immaginata o pensata, che riceve luce dalla «fantasia» o dal phos noetos, dalla, lux immaginativa o da quella intellegibile. Con il prevalere della forma si realizza un passaggio esemplare dalla dimensione mistico-religiosa e storico-puntuale a quella, inconciliabile nella sua alterità presa sul serio, della scienza e della filosofia, ossia dei «valori» contemplati solo per se stessi (come, ad esempio, il «triangolo», l'«uguale», la «giustizia» o la «virtù»). Tutto è dunque rinserrato nella forma, che perde, insieme, la sua 15
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individualità o «storicità» spazio-temporale e la sua periferia amorfa, oscura e paurosa. Dal vissuto si passa al pensato, allo strutturato e ordinato senza centro e periferia, a un determinato genere di scienza, filosofia o (con le restrizioni che vedremo) di arte. Si tratta originariamente di creazioni proprie della civiltà greca giunta al suo apice. In essa, per la prima volta le cose escono dalla sfera magica dell'evento, s'elevano dalla dispersione e dall'instabilità degli accidenti all'unità immobile dell'essere, riducono intera alla superficie visibile la loro essenza invisibile [...] La realtà è esorcizzata: la trama delle relazioni simpatetiche, sulle quali opera il magico, si rompe, i regni della natura si dividono, i movimenti e le forze rientrano nei limiti delle grandezze: non più azioni a distanza, non più metamorfosi: le potenze abbandonano la sfera delle cose visibili, che s'apre al dominio dell'uomo, discendono nelle profondità della terra, negli abissi del mare: dal cielo delle epifanie dell'evento si staccano gli dèi della forma (FE, p. 49). Nell'oltrepassare l'opposizione polare di evento e periechon, lo spazio circoscritto della singola forma rimane chiuso, univoco e autoreferenziale: «fuori» della forma esso non si presenta se non come intervallo rispetto a altre forme, altrettanto autosufficienti. La forma, dunque, costituisce e separa le forme, mentre l'evento le scioglieva in un insieme indistinto o dai contorni labili e porosi. 4. Proprio perché «astratti» - avulsi dai confini del tempo, dello spazio e dell'individuo - , i valori o le forme costituiscono paradigmi, divengono cioè modelli esemplari, «classici», sorti o rielaborati dapprima in determinate civiltà, per poi diventare, eventualmente, universali (qualora si riescano a creare tradizioni egemoni ed espansive, in grado di insegnarli, propagandarli o imporli). Tali forme ereditano così Yubique et semper dell'esperienza religiosa dell'evento, rovesciandone però il senso. Cancellano infatti la complementarietà polare tra il periechon e Yhic et nunc e fanno di se stesse misure oggettive di tutte le cose, prodotti visti o addirittura costruiti dagli organi percettivi o dall'intelletto degli uomini. Può ben darsi che persino le forme ritenute più generali o più evidenti nel campo della filosofia e della scienza non abbiano successo, non giungano di fatto ad abbracciare e a convincere l'intera umanità, data la distanza ancora enorme, malgrado ogni apparenza, tra le varie culture del pianeta. Anche in questo 16
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caso, esse resterebbero comunque strutture di visibilità del mondo e procedure di donazione di senso ad esso. E non soltanto sarebbero durevoli, dato il loro «basso tenore» di storicità, ma soprattutto impersonali, anonime, fruibili da tutti coloro che si sottopongono alla hegeliana «fatica del concetto». Che importa, infatti, in quest'ottica, a un matematico cinese dei nostri giorni se un teorema è stato inventato da un greco o un tedesco, se lo zero è un'innovazione proveniente dall'India attraverso gli Arabi? Quando le forme si radicano in tradizioni e istituzioni, esse sono in grado di superare relativamente indenni e immutate i confini geografici, le epoche storiche e le generazioni (o, se perdute, di venir ritrovate). Quasi sicuramente Diano non negherebbe quanto ho appena sostenuto: ripeterebbe soltanto che il merito di aver scoperto la forma nella sua pienezza poetica, filosofica e scientifica - e di aver così messo in moto il processo del weberiano «razionalismo occidentale», poi diffusosi a livello planetario - spetta in primo luogo all'Omero dell'Iliade, a Pindaro, a Parmenide o a Platone. Tutto questo non significa affatto - e lo dirò fra poco - che egli disprezzasse o respingesse come semplicemente inferiori le civiltà dell'evento. Anche perché, volendo ragionare per un momento in termini di biografìa e di convinzioni personali, Carlo Diano non poteva sentirsi vicino a orgogli razziali «ariani» o a tendenze rigidamente elitarie. Ammiratore del «grande cuore mediterraneo» di Euripide, attaccato, al pari del suo amico Carlo Felice Crispo, alla Calabria dalle profonde radici «greche» e «mediterranee», pitagoricamente razionali e mistericamente legate alla terra, egli è realmente un «meticcio culturale». Sotto questo profilo, poteva semmai sentire l'orgoglio e il peso di questa doppia eredità. La sua attitudine dipende però in misura maggiore da un'immagine idealizzata, eroica e, per noi, alquanto antiquata di quei momenti che una certa tradizione umanistica ha considerato come vette insuperate della creatività scientifica e artistica: la Grecia e la Toscana, appunto, come luoghi di elezione non solo della forma filosofica e scientifica, ma del mirabile equilibrio di forma ed evento negli artisti e persino in storici e politici come Tucidide, Pericle e Machiavelli.
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III.
1. Non c'è dubbio che la «forma» rappresenti un momento raro ed eccezionale, un miracolo, nello sviluppo delle civiltà, persino di quella ellenica. Al di là dei dati e delle preferenze sopra citate, le ragioni di tale improvviso e intermittente fiorire della forma viene da Diano considerato inspiegabile, o, che è lo stesso, spiegabile solo nella forma della tautologia: i Greci cioè scoprirono la forma perché erano Greci, perché possedevano quel fattore imponderabile, quella «x» dinanzi a cui ogni analisi si arresta . E come dire che, alla conclusione di una sorta di lunga catena di sillogismi di tipo aristotelico, si scopre che l'apparire della forma è di nuovo un evento, un fatto non ulteriormente spiegabile. Questa è la fine della storia, ma qual è l'inizio? Al primitivo senso della realtà come evento, i Greci, giunti al culmine della loro civiltà, sostituiscono il senso della realtà come forma, scoprendola nella loro arte, ancor prima che nella loro filosofia e scienza. La visibilità attribuita alla forma appare più plausibile nella statuaria che non nella poesia. Nella plastica greca del vi e v secolo la forma è, infatti, definita da una luce «che viene dall'interno, e arde al limite e lo chiude. Esempio massimo ne è l'Apollo d'Olimpia. Ma non è necessario ricorrere alla statua d'un nume; basta una sola delle colonne del Sunio» (L, p. 46). Tale luminosità è la bellezza stessa (è dunque valida la comune radice etimologica, nel tedesco, di schòn, bello, e di schein, risplendere?). Essa si manifesta come choc, stupore che colpisce e riempie l'istante, ponendolo fuori dai contorni del tempo e dello spazio fisico, nella sfera propria di quella strana insituabilità o atopia attribuita da Platone aìì'exaiphnes, all'attimo improvviso che si manifesta nella sua extra-territorialità al tempo (cfr. Plato, Parm. 156 C-D). In quanto visibilità, contemplabilità, la forma coincide con la luce: per questo l'opera d'arte si presenta come circondata da un'aura splendente, che da essa si sprigiona ma che ad essa ritorna senza dissiparsi, rimandando dal centro di nuovo al centro. E stato giustamente osservato come di «visibile chiarezza del13
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" Cfr. L, 49 e, in altro contesto, C. Diano, Edipo figlio della Tyche, in SP, p. 136, dove il riferimento è a «quello che Alois Riegl, con intuizione geniale e non ancora esaurita, chiamò Kunstwollen, e che è quell'x indeducibile, in cui la struttura esistenziale dell'uomo e Y atteggiamento formativo dell'artista, in quanto tale, coincidono». Cfr. S. Viani, Carlo Diano e le arti figurative, in / / segno della forma, cit., p. 243. u
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l'individualità assolutamente chiusa delle cose», di forma che non si può separare dalla figura, parlava già Alois Riegl . E, a tal proposito, si è anche ricordato Spengler, la cui importanza ritengo tuttavia di per sé marginale . Non mi fermerei, in effetti, al compito di stabilire dipendenze dirette e unilaterali tra Diano e particolari teorici della «forma». Questa idea è stata variamente modulata e ripresa nella cultura europea, assumendo un ruolo cruciale dalla fine del secolo scorso alla prima metà del nostro. Spesso svolge funzioni polemiche e viene usata come arma o talismano su diversi fronti: contro lo storicismo «invertebrato», intessuto cioè di eventi retti soltanto da un esile filo cronologico o schematico; contro le «filosofie della vita», che contrappongono la verità immediata e ineffabile delTErlebnis all'aridità del pensiero astratto o formale; contro l'interpretazione dei miti quale congerie incomprensibile e priva di una sua logica «poietica» interna; contro l'estetismo decadentista legato alla mera sensibilità, sensualità o intuizione ispirata e indeterminata dell'artista; contro, infine, la traduzione immediata del vissuto nell'opera. Particolarmente vicini alle posizioni di Diano risultano tuttavia Hildebrand, il Panofski di Idea, il Cassirer della Filosofia delle forme simboliche, le poesie e le riflessioni di Valéry (con la sua insistenza nel mantenere in tensione vita e pensiero, movimento e immobilità, e nell'unificare il pensiero stesso con la visibilità) e il Focillon de La vie des formes, apparso a Parigi nel 1935 (l'eco, diretta o indiretta, 15
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Cfr. Industria artistica tardoromana [1901], traci, it., con Introduzione di C. Diano, Firenze 1953, p. 23. Canfora, Diano e il «Tramonto dell'Occidente», cit., pp. 219-29. Valéry vedrà proprio nell'arte (e nella danza in particolare) quest'equilibrio continuamente spezzato e continuamente ricomposto di «forma» ed «evento», di chiarezza logica e di raffigurazione spazio-temporale perfetta del movimento individualizzato (cfr. P. Valéry, L'anima e la danza, del 1923, nella traduzione italiana, curata da Enzo Paci e pubblicata a Milano nel 1947, all'interno del volume Eupalinos, pp. 33-70). Solo che per Valéry, autore, tra l'altro, del saggio Ispirazioni mediterranee, tale oscillare immobile è, inscindibilmente, greco e mediterraneo. Lo si può constatare sin dalle prime strofe, di tersa bellezza - sintomaticamente precedute da tre versi di Pindaro - di Le cimitière marin. Lo sfondo e il soggetto sono qui dati, appunto, dal Mediterraneo, come appare nella sua forma inquieta dall'alto della collina di Cète, città natale del poeta (e non si dimentichi, a tal proposito, l'intensa attività poetica svolta dallo stesso Diano): «Ce toit tranquille, où marchent des colombes, / Entre les pins palpite, entre les tombes; / Midi le juste y compose des feux / La mer, la mer, toujours recommencée! [...] Zénon, Cruel Zénon, Zénon, d'Élée! / M'as tu percé de cette flèche ailée / Qui vibre, vole, et qui ne vole pas! / Le son m'enfante et la flèche me tue! / Ah, le soleil...Quelle ombre de tortue / Pour l'àme, Achille immobile à grands pas! / / Non, non...Debout! Dans l'ère successive! / Brisez, mon corps, cette forme pensive! / Buvez, mon sein, la naissance du vent! / une fraìcheur, de la mer exhalée, / Me rend mon àme...O puissance salée! / Courons à l'onde en rejaillir vivant!» (strofe i; XXI-XXII). 16
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delle cui tesi sembra risuonare negli accenni di Diano al «vibrare» delle forme) . Ma la maggiore affinità elettiva, non so quanto consapevole, Diano la mostra con Georg Simmel, su cui ritornerò fra breve. Questi non è soltanto il «filosofo della vita» per eccellenza (o, se si vuole, dell'evento), ma anche, e inseparabilmente, del suo antidoto, della «forma» che si rivela vera e propria «logica del fenomeno». Da esso la forma si autonomizza, vivendo di vita propria secondo una rigorosa, per quanto apparentemente contraddittoria, «legge individuale». 18
2. Per Diano l'arte non è tuttavia pura forma. In quanto fare, potesis, essa partecipa simultaneamente della forma (in cui l'esistenza si dissolve completamente nell'essenza) e dell'evento (del quale assume la natura epifanica, spazio-temporale). Per questo essa si situa sul piano del «divenire», nella zona intermedia tra la logica dell'essere, propria della forma, e quella dell'Uno o della con-fusione, propria dell'evento. Per questo essa partecipa tanto della contemplazione serena e disinteressata, quanto dell'esperienza perturbante e coinvolgente; sia dell'assoluto, spoglio di tempo, di luogo, di nome, sia del relativo che da questi attributi, precisamente, prende vita: «È nel divenire che la logica dell'essere e quella dell'Uno si incontrano e si uniscono» . In linguaggio crociano si potrebbe sostenere che l'arte è, anche qui, alla lettera «espressione»: si manifesta infatti solo nelT«esteriorità» dell'evento a cui perviene passando attraverso il filtro di tradizioni e tecniche. Solo che per Diano l'espressione è, non forma pura intesa come luminosità totale, bensì aletheia, ri-velazione, in quanto svelarsi e ricoprirsi di nuovo, mostrarsi e nascondersi. È, appunto, danzare e vibrare di luce e ombra, in maniera analoga alla Lichtung o «radura del bosco» in Heidegger: un termine, peraltro, che il filosofo tedesco connette etimologicamente sia a Licht (luce) che a leicht (leggero). 19
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Cfr. Diano, La poetica dei Feaci, cit., pp. 195-96: «perché l'arte sia possibile è necessario che, cedendo parte della sua specularità in cui si chiude», assorba la «polarità» dell'evento e che, di conseguenza, «i due elementi si unifichino in un equilibrio che è insieme polare e speculare. È quello che accade, ma è un equilibrio instabile, che non può venir realizzato se non nell'attimo e si rende sensibile in quella vibrazione che è il segno a cui si riconosce la presenza dell'arte [...]. E ciò che per il senso è vibrazione, per l'anima è tensione tra realtà e sogno. Perché il sogno è la forma quando non ha altra esistenza se non quella che le vien data dall'esserci, da me, qui e ora». Ibid., p. 192. 19
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Esprimendoci in maniera più consona al vocabolario di Diano: l'arte si incunea tra la verità contemplabile del visibile e i condizionamenti epifanici dell'evento. In essa, e più specificamente nella poesia, «vi è come un alone intorno a ogni corpo, a ogni forma, un alone che ne segna i limiti e accenna a un altro» . Il suo hic et nunc e il suo periechon sono però del tutto differenti da quelli degli altri eventi, in quanto condensano paradossalmente tanto il pensato/raffigurato, quanto il vissuto. Appaiono, di conseguenza, sia estranei che imparentati con lo spazio e il tempo, sia chiusi che aperti, ma senza che si operi alcuna commistione o Ineinander fra questi opposti settori. Anzi l'inserzione dell'opera d'arte nella dimensione epifanica dell'evento spazio-temporale e soggettivo (ossia la separazione e la contiguità con ciò che non è arte) ottengono l'effetto di rafforzarne e di duplicarne, con un ulteriore e supremo paradosso, la chiusura in se stessa. Come ho appena accennato, questa teoria si può utilmente accostare a quella di Simmel, un autore che Antonio Banfi aveva introdotto nella cultura italiana già dagli anni venti. Si legga questo passo, per coglierne assonanze che meglio aiutino a intendere il pensiero di Diano: 20
Essenza dell'opera d'arte è di essere, invece, una totalità per sé, che non ha bisogno di alcun rapporto con l'esterno, ma riconduce ognuno dei fili della sua trama al punto centrale. Essendo l'opera d'arte ciò che altrimenti possono essere soltanto il mondo come totalità o l'anima: un'unità di elementi particolari, essa si separa, come un mondo per sé, da tutto l'esterno. Analogamente i suoi confini significano qualcosa di completamente diverso da ciò che si definisce confine di una cosa naturale. In quest'ultima, i confini sono solo il luogo di una continua esosmosi e endosmosi con l'esterno, ma nell'opera sono assoluta chiusura, che nello stesso atto si manifesta come indifferenza, ma anche come difesa nei confronti dell'esterno, e come sintesi unificante nei confronti dell'interno. La prestazione della cornice nell'opera d'arte è di simboleggiare questa duplice funzione del suo limite rafforzandola . 21
Il massimo di simultaneità percettiva delle differenze (lo aveva
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C. Diano, La poetica di Epicuro, in SP, p. 114. Cfr. G. Simmel, Der Bildrahm. Ein aesthetischer Versuch [1902], in Zur Philosophie der Kunst, Potsdam 1922, trad. it. La cornice, in / / volto e il ritratto. Saggi sull'arte, Bologna 1985, p. 101. Di Simmel Banfi tradusse e fece tradurre nel periodo fra le due guerre / problemi fondamentali della filosofia, Firenze 1922, Rembrandt. L'arte religioso-creatrice, Roma 1931 e, importante soprattutto per il rapporto vita-forma, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Milano 1938. 2 1
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per primo notato Lessing nel Laocoonté) si ha nelle arti visive, ossia eminentemente operanti nello spazio, in cui il colpo d'occhio contrae la temporalità. All'estremo opposto si situa la musica, in cui la temporalità dell'evento tende a sciogliere la forma. Al centro, si direbbe, si colloca la poesia, in un movimento rammemorante-anticipante di «vibrazione» della forma immaginata e pensata che si proietta nell'arco spazio-temporale degli eventi. 3. Ma, di nuovo, non tutta la grande poesia greca è manifestazione della forma, e questo persino nei poemi omerici. Tra essi Diano stabilisce una netta separazione, una frattura che è insieme antropologica e di civiltà, pur permanendo entrambe le opere nell'orbita sociale dell'aristocrazia achea e in quella religiosa della supremazia di Zeus, divinità ellenica della forma (che in quanto tale ammette la distinzione, senza confusione, dalle altre forme, nella fattispecie: il politeismo). La forma soccomberebbe così néN Odissea a quelle potenze «preelleniche» dell'evento e dell'Uno (ctonie, misteriche, femminili, procedenti da un'unica matrice, mater-materia di natura agraria, Demetra e Dioniso, nelle specie pagane del pane e del vino, numeri «dai molti nomi», evocazione di una fallace molteplicità, incessantemente riportato a una potenza generatrice indistinta e globale come la Terra). L'Odissea recupererebbe così tutto ciò che la religione olimpica della luce diurna e della misura avevano in parte sconfitto. Essa evoca dagli abissi le divinità spodestate, racchiuse nell'Erebo o esiliate periodicamente nell'Ade, connesse cioè con credenze e pratiche cultuali relative al mondo dei morti . Gli eroi eponimi della forma e dell'evento sono, rispettivamente, Achille e Odisseo. Ma le ragioni per distinguerli non vengono, sotto questo profilo, sufficientemente illustrate e giustificate. Certo, «il migliore degli Achei» è maggiormente visibile nelle sue caratteristiche, una volta posto sotto «il segno della forma». Ma il merito di tale identificazione sembra dapprima andare a un geniale collage di analogie (come succederà, del resto, anche per Odisseo), piuttosto che a una figura di per sé ben tracciata. Come nel concetto di forma, anche la forza di Achille scaturisce 22
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Da segnalare l'attribuzione della forma alla mascolinità, peraltro già presente, seppure in altri termini, negli scritti di «zoologia» di Aristotele, e della tyche alla femminilità (quasi nel senso della tradizione iconologica o di quella machiavellica secondo cui la Fortuna è femmina?).
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per diretta irradiazione da un centro, da se stesso; di nuovo come nella forma, la brevità della sua vita di semidio è splendidamente conchiusa in una giovinezza che non teme la morte. Persino la sua stessa ira manifesta il rifiuto di compromessi con il mondo esterno, volontà di non sembrare diverso da quello che è, perché soltanto in sé trova la propria misura. Il fatto è che - al pari dell'opposizione categoriale tra forma ed evento - anche le loro incarnazioni letterarie vivono solo se respirano l'aria rarefatta delle astrazioni di un dualismo irriducibile. Astrazioni: perché anche l'idea di evento è una forma e le forme, ormai lo sappiamo, non possono giustificarsi oltre un certo limite. Dualismo: perché ciascun termine si può definire esclusivamente per contrasto. ^ Per questo di fronte ad Achille, eroe dell'essere, Odisseo è necessariamente denotato come il suo contrario, come l'eroe dell'apparire: dell'astuzia, dell'intelligenza, dei compromessi e delle finzioni, dei travestimenti e dello sfruttamento di ogni risorsa della tecnica. In breve, di tutte le molteplici manifestazioni e macchinazioni indirette, oblique ed «etero-centrate» della metis e delle arti della mediazione (verbali e materiali). Ma la forma è, per l'appunto, di per sé immediabile, mentre «l'evento è tutto nella mediazione» (FE, p. 56), situato nel tempo e nelle sue concatenazioni. Il ragionamento di Diano si fa molto più suggestivo (segno che contiene germi di verità, degni di essere sviluppati), ma meno convincente quando egli contrappone la forma, come visibilità piena e integrale della figura di Achille, all'apparire sfuggente e laterale dell'evento, impersonato da Odisseo: Perché l'evento è sempre altro da quel che appare, la forma, in cui essere ed esser visto coincidono, è tutta alla superficie, su un unico piano frontale: la frontalità e la «veduta unica» della plastica arcaica e classica. Achille lo vedete sempre di fronte, «quadrato», come le statue del canone di Policleto, ma Ulisse sempre di sbieco, polyplokos, «tutto scorci e spire», come il polipo della brocca minoica di Gurnià e della similitudine di Teognide: polyplokos e polytropos, mobile e presente per tutti i trecentosessanta gradi del cerchio ... (FE, pp. 64-65). Achille è «ellenico», Ulisse è «mediterraneo». Quest'ultimo sembra rappresentare l'anello di congiunzione tra il tipo ideale della nobiltà militare e agonale achea e l'esponente utopicamente più evoluto della civiltà «mediterranea», quale si mostra attraverso i Feaci, uomini dotati di talento tecnico e organizzativo, mobili e 23
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rapidi nei loro spostamenti per mare, efficaci nelT agire, interessati ai guadagni tratti dal commercio e, soprattutto, pacifici, anche perché della pace hanno bisogno per mantenere il loro isolamento e sviluppare i propri traffici. Nell'Odissea, in tal modo, «due ideali di vita sono messi l'uno di contro all'altro: quello delle aristocrazie guerriere che ha il suo specchio positivo nell'Iliade, e quello di una civiltà marittima fondata sulla tecnica, che aborre la guerra e pone il suo fine nella pace» . Sorge il sospetto che anche Diano - in modo parallelo a Horkheimer e all'Adorno della Dialettica dell'illuminismo, in questo parzialmente seguiti dal loro antico allievo del periodo americano, Moses I. Finley, nel Mondo di Odisseo - tenda a vedere in questo eroe dell'astuzia e dell'intelligenza il prototipo sia dell'«uomo ideologico» moderno, che ammanta di ragioni speciose i suoi interessi individuali, sia il primo campione dell'«uomo tecnologico», che non guarda alla verità ma all'efficacia. Questo spiegherebbe alcuni dei motivi per cui Pareto ha esercitato una notevole e indelebile impressione sul giovane Diano. Egli, infatti, «non mancava di ripetere [...] che "aveva cominciato a capire qualcosa della storia e in genere della realtà delle cose" solo dopo la lettura del Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto. Ora, se c'è qualcosa per cui Diano possa considerarsi tributario delle dottrine di Pareto, io ritengo che questo sia da cercare, più ancora che nella teoria delle élites, nella consapevolezza del rapporto che lega «residui» e «derivazioni» . Ma, per l'appunto, i «residui» e le «derivazioni» altro non sono, nella più tarda terminologia di Diano, che la rivelazione del carattere «mediterraneo», «ulisside» e opportunista delle «azioni non-logiche» dell'esperienza vissuta lontana dalla forma, lontana da quella scienza, da quelle relazioni logiche a cui la maggioranza degli uomini si sentono paretianamente sordi e indisponibili, perché la scienza (o la «forma») si costituisce solo là dove è possibile la neutralizzazione dei conflitti e l'ottimizzazione degli interessi di tutti. È il caso della matematica, anche se Hobbes era giunto a sostenere nel Leviatano che, se il potere politico volesse, neppure il teorema di Pitagora sarebbe vero. 23
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Diano, La poetica dei Feaci, cit., p. 203.
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Longo, Carlo Diano dieci anni dopo, cit., p. 212.
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l.( La forma dunque non si manifesta normalmente nel suo splendido isolamento(JEssa è sempre legata all'evento in quanto si trasmuta in «forma eventica>^o, nel linguaggio di Cassirer, in «forma simbolica» (etimologicamente, cioè, le parti si riconnettono alla maniera del syn-ballein, del «mettere insieme» i due frammenti di un segno di riconoscimento) . Anche il rito è un esempio di «forma eventica», perché, ripetendo secondo un ordine sequenziale preciso e immodificabile quanto sarebbe accaduto in ilio tempore, lo rende visibile, ossia lo formalizza, riunendo così il «rappresentato» e il «vissuto». All'interno della forma eventica si esperisce pertanto l'unità nella polarità, mentre, al contrario, in se stessa «la forma è assolutamente e per eccellenza speculare e assolutamente identica» (L, p . 30). «Al limite in cui la forma ed evento separano i loro regni c'è la morte, o di una delle due categorie o dell'uomo. Da qui l'Uno di Plotino, il Brahma e il Nulla degli Indiani, il Nulla di Lao Tze» (FE, Appendice, p. 86). Ma si tratta di quella stessa morte come separazione, contrapposta all'amore come unione, che Diano ha così acutamente scandagliato, a partire daH'Alcesti di Euripide? Solo in parte e in m o d o assolutamente originale. Alcesti è infatti una duplice e vera figura «simbolica» della separazione ricomposta, un'eroina sia della forma che dell'evento. Nel primo caso, perché risponde di sì immediatamente e senza alcun calcolo di convenienza, come Achille - alla domanda se una persona può morire al posto di un'altra . La forma esprime in tal modo la volontà di sfida alla morte. Solo che - e da questo dipende il lato per cui Alcesti è anche eroina dell'evento - ella agisce per amore, e «l'amore vuole la resurrezione» , la ripetizione del già stato, cosa impossibile nel campo della 25
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Nella Filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer la forma è «simbolica» in quanto è legata all'esperienza, all'evento. Cfr. E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Leipzig 1923-29, trad. it. Filosofia delle forme simboliche, Firenze 1961-66, passim. Cfr. C. Diano, Senso dell'Alcesti, in SP, pp. 339-47 e in particolare p. 342: Admeto «non può impedire alla moglie di compiere un gesto che la pone allo stesso livello degli uomini, per i quali il sacrifìcio è, secondo il codice cavalleresco al quale obbediscono, un obbligo, che, andando al di là della persona storica in favore della quale il sacrifìcio è compiuto, si iscrive nel cielo di quelle "forme" che, già dalle origini, erano state le matrici segrete della vita e dell'arte dei Greci». Dall'analisi della tragedia compiuta da Diano si evince, fra l'altro, che forme sono anche gli ideali etici, le norme di condotta rispettate di per sé in un «codice» oggettivo, nel quale l'individuo scompare e al quale è disposto a sacrificarsi. Ibid., p. 344. 2 6
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pura forma. Per tale ragione, secondo Diano, VAlcesti di Euripide - al pari della iv egloga di Virgilio - andrebbe «posta tra le profezie pagane di Cristo» . 28
2. Se mediante l'arte, quindi, la forma universale non può che apparire epifanicamente e in una configurazione particolare dell'evento, nella filosofia e nella scienza greca essa risplende invece, dapprima e come una gemma, in tutta la sua cristallina luminosità: anche il theorein è ricerca di una vittoria contro la morte, desiderio di eguagliarsi, in sporadici momenti di felicità, alla vita degli dei. E ciò a partire da Parmenide, che si presenta come l'ineguagliato campione della forma. In lui infatti essa si mostra nella compatta, indistruttibile, eterna unità priva di apeiron periechon - «sferica» e conchiusa - di pensiero e di essere, nell'autoriflessione dell'«è-è», dell'unum et idem di soggetto e predicato. Per quanto progressivamente emarginata e indebolita, la forma manterrà il suo primato sull'evento ancora con Platone, Aristotele ed Epicuro («l'ultimo Achille del mondo greco») , per crollare, infine, con gli Stoici. Socrate, posto nel crocevia di tale vicenda, raffigura l'unione di queste due anime: «ha l'intelligenza di Ulisse e la forza d'Achille, ma muore come Achille, accettando cosciente la morte e guardandola in faccia, per non venir meno alla forma» (FE, p . 67). In Aristotele la forma si presenta, al suo massimo livello, nella concezione del divino come perfezione assoluta del bios theoretikos, della contemplazione esclusiva di sé, e della sua natura di «motore immobile», il quale - al pari dell'amato o della calamita - attrae senza essere attratto: «Per la prima volta l'uomo contempla l'azione pura, che è fine in se stessa, che ritorna a se stessa ed è gioco, quella che i Greci esalteranno nei loro incontri agonali, e che Aristotele, come energeia pura, proclamerà viva solo nella forma, l'azione in cui sola l'uomo è libero, e che sola guida la scienza» (FE, p p . 50-51). Sul piano umano, l'intelletto attivo aristotelico raffigura la definizione più compiuta della forma autosufficiente («il nous vede se stesso per partecipazione col noeton»). Ormai, tuttavia, è solo il pallido riflesso dello splendore divino, «l'ultimo olimpo» di forme divenute «esangui» . 29
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Ibid., p. 347. Non solo per la sua serenità nell'affrontare il dolore e la morte, ma anche per aver proclamato che «l'amico morrà per l'amico», cfr. ibid., p. 341 e C. Diano, La filosofia del piacere e la società degli amici, in SP, pp. 271-88. FE, p. 42. Come eidos o «cosa veduta» infatti essa non è vista se non da se medesima: «Perché l'occhio o l'intelletto che la vede (ed occhio o intelletto sono in questo la medesima 2 9
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Il Dio di Aristotele è forma per eccellenza, fuori dal tempo e dallo spazio, e dunque dal movimento. E autoreferenziale, sovranamente ozioso come lo saranno - negli intermundia, lontani dai lucreziani magna naufragia degli eventi dell'universo - gli dei di Epicuro . In ciò entrambe le concezioni della divinità differiscono diametralmente dall'interventismo provvidenziale del dio stoico, «fuoco dotato di arte», il quale, compenetrando ogni evento, operando nel particolare come nell'universale ed espandendosi nello spazio e nel tempo, si fa storia ed esistenza. A giustificare tale permanente natura della forma attraverso i secoli e i millenni vengono chiamati due filosofi contemporanei: il primo, data la formazione dell'Autore, è abbastanza ovvio da rintracciare; il secondo, considerati i tempi e la sua relativa inattualità in Italia, costituisce quasi una conferma della sorprendente curiosità intellettuale di Diano. Si tratta, rispettivamente, di Gentile e di Wittgenstein: «E Gentile scriveva che "gli occhi non ce li possiamo vedere che allo specchio". Né altrimenti parlava Wittgenstein: "Il soggetto non appartiene al 'mondo', ma è un limite del 'mondo'. Dove mai che nel mondo un soggetto metafisico si lascia osservare? Tu dici che è come con l'occhio e il campo visivo, ma l'occhio non lo vedi. E nulla nel campo visivo ti permette di concludere che esso è visto da un occhio" [L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Londra 1933, p. 150]» (L, pp. 32-33). 31
3. Ma il baricentro del discorso si sposta nuovamente in direzione della tyche. Com'è che dalla luminosa categoria della forma si regredisce nuovamente al vissuto dell'evento, da cui però con gli Stoici nascerà anche una vera e propria logica, dando luogo all'apparente paradosso per cui si può parlare - in termini di universale, di logos - dell'individuale e del caso? Le tappe di questo processo sono diverse, ma il loro senso di marcia, così come Diano lo concepisce, si mostra storicamente orientato in un'unica e precisa direzione. Il concetto di tyche - già lo
cosa) non è esso stesso se non in quanto la vede, e, nell'atto in cui la vede, come dice Aristotele, "fa tutt'uno con essa" ed è in essa che vede se stesso (Met., xn, 1072 b 20). Ma è un atto che non è nel tempo» (L, p. 30). Epicuro, come si è appena accennato e come è noto, rappresenta un autore su cui Diano ha erogato molte energie e da cui ha conseguito notevoli frutti tanto in campo filologico che filosofico. Si vedano, soprattutto, oltre a varie edizioni di testi e ad altri contributi, gli studi raccolti negli Scritti epicurei, Firenze 1974 e, su un diverso piano, La poetica di Epicuro, cit., pp. 71-117. 3 1
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sappiamo - comincia ad acquistare valore autonomo attorno alla metà del v secolo, con Anassagora. Gli eventi del mondo perdono così il loro legame misterioso con l'onnipresenza e onnipotenza del numen e non hanno altra causa che se stessi (e come dice Giocasta nell'Expo re, in maniera ampia per Sofocle: «Il meglio è vivere alla giornata, come si può»). Solo nel iv secolo, tyche, parola ancora dotta, discende «fra la folla ma la folla l'ha trasformata in una dea, la Fortuna» {FE, p. 22). Essa regge il mondo nelle sue alterne vicende, fa paura, ma si ritiene possibile adorarla e ingraziarsela. Rimasto orfano della forma, ma credendosi anche libero dal nesso tragico di un destino voluto dagli dei e dalla rigidità della gerarchia sociale, ognuno si sente ora potenzialmente - al pari di Edipo - «figlio della tyche», ossia simile a un «bastardo» generato dalla buona fortuna, quella stessa che ha strappato alla morte il bambino esposto e che lo farà diventare tiranno di Tebe. Ma dentro e fuori dal teatro, la tragedia non è finita, perché la Fortuna, mostrando il suo altro volto, non si lascia circuire e adulare facilmente. Persino chi, come Edipo, acquisterà, in un'epoca di angoscia diffusa, la «coscienza della propria forma» - scoprendosi gennaios, appartenente a nobile stirpe o dotato di gnome, di una acuta capacità di comprendere e di valutare, tanto gli enigmi della vita quanto quelli della Sfinge - non sarà risparmiato. La tyche potrà, infatti, rovinarlo egualmente, mostrandogli, attraverso il rovesciamento improvviso degli eventi, come «nessuna forma è assoluta e ogni sapienza è cieca» . Per il periodo successivo (quello ellenistico, che segna il definitivo affermarsi della tyche) il fulcro meno visibile su cui insiste tutta l'analisi di Diano è la convinzione che esso non rappresenta tanto un'età di crisi, quanto un'epoca di fioritura e di lussureggiamento dell'individualismo: l'evento, per definizione, individualizza e «storicizza», mentre, nella forma, il singolo scompare assieme alle sue vicissitudini. In questa fase storica, l'evento può vincere perché vengono meno le forze che l'avevano combattuto e tenuto a distanza: l'aristocrazia agonale e guerriera illustrata òaH Iliade o da Pindaro; lo 32
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Cfr. FE, p. 41 e Edipo figlio della Tyche, cit., p. 132 (Diano parla qui solo di Edipo, senza alcun confronto diretto con le condizioni esistenziali successive). Per altri notevoli punti di intersezione con queste tematiche si vedano articoli quali L'uomo e l'evento nella tragedia attica [1965], ora in SP, pp. 303-27 e La Tyche e il problema dell'accidente [1967], ora in Studi e saggi di filosofia antica, Padova 1972, pp. 279-82.
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spirito comunitario panellenico, che - con le sue forme ordinate, anche militari: l'esercito oplitico e la flotta ben manovrata - si è opposto con successo, a Maratona e a Salamina, alle preponderanti forze del dispotismo persiano. Ora, sia in Grecia (che è diventata dapprima un protettorato macedone e in seguito un terreno di ennesime guerre civili e di endemica turbolenza politica), sia nel mondo della koinè - che sorge come suo prolungamento e ibridazione dal fondersi della propria civiltà con quelle dell'Asia e dell'Africa - si assiste al contemporaneo riaffiorare dell'arcaico strato mediterraneo e alla «lenta ma sempre più decisa penetrazione dell'elemento etnico orientale» . E chi giunge dall'Oriente ad Atene, riformulando in termini filosofici l'esperienza vissuta della «realtà come evento»? I padri dello Stoicismo, appunto: Zenone che viene dalla Fenicia e Crisippo dalla Cilicia, con la loro logica al condizionale del «se...allora», che deriverebbe, secondo Diano, dalle forme della «religiosità semitica» e dalla tradizione della «mantica», che «in nessun luogo assunse proporzioni così grandiose come nella Mesopotamia» (FE, p. 17). 33
4. Alla fine di queste riflessioni, è lecito domandarsi: può la forma scomparire davvero nel gorgo dell'evento, tanto a livello categoriale, quanto storico-fenomenologico? E, più in generale, è concepibile un evento singolo o un fluire di eventi privo assolutamente di forma (e viceversa), senza cadere in una ipostasi di specie kantiana, in una entità simile alla «cosa in sé» o in tavole di categorie eterne, analoghe a quelle dei comandamenti divini che Mose porta dal monte Sinai? Max Weber era uscito da questo dilemma proponendo i suoi «idealtipi», pure costruzioni concettuali, strutture che hanno senso non perché rispecchino la realtà in sé (concetto per lui intrinsecamente contraddittorio), ma perché offrono quadri di intellegibilità differenziata delle varie forme dell'agire umano. Le categorie di Diano - «fenomenologiche», sicuro, e non «ontologiche», ma pur sempre riferite alla possibilità di descrivere essenze o fenomeni che in qualche luogo e mondo devono avere (almeno come le husserliane reine Wesenheiten, pure essenze o forme), un'esistenza - avanzano tuttavia la pretesa di cogliere la realtà storica e di rendere comprensibili i dati filologici. È questa una 33
FE, p. 19. Appare ragionevole obiettare che, proprio allora, sono in piena fioritura nella scuola alessandrina (oltre che la meccanica, l'ingegneria idraulica o la filologia) anche le scienze formali, come la matematica, l'astronomia o la geografìa astronomica.
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REMO BODEI
scelta di tutto rispetto in favore di un metodo che conduce spesso a idee euristicamente felici, a illuminazioni improvvise, a cornici mentali capaci di inquadrare fenomeni altrimenti dispersi e a scoperte singole ben focalizzate. E tutto questo malgrado esso non riesca sempre a saldare la forma all'evento o a evitare le forzature e le semplificazioni talvolta introdotte nella complessità dei problemi dall'applicazione conseguente di un sin troppo rigido schema binario. Si potrebbero, in diversa sede e come pietra di paragone, indicare altri modelli e mostrare - ad esempio - come, a livello concettuale, «forma» ed «evento» non intrattengono un'opposizione diametrale che può anche tradursi in complementarietà «simbolica», in connivenza antagonistica (il che consente, all'occasione, di istituire, con raffinata ars combinatoria, gradazioni «ben temperate» tra un massimo di «forma» e un minimo di «evento»). Si potrebbe, volendo proseguire questo ipotetico confronto a distanza, sostenere inoltre che ogni evento non è mai un mero vissuto amorfo, come presuppone ogni credenza che attribuisca una mentalità pre-logica ai primitivi. Le forme stesse, poi, verrebbero probabilmente comprese altrettanto bene (o meglio) nell'ambito di sistemi categoriali articolati, ad esempio, mediante il concetto di «meta-morfosi», di mutamento «gestaltico» di più forme in molteplici configurazioni a geometria variabile. Proprio perché non passano attraverso la contrapposizione con gli eventi puntuali e le loro periferie per sostituirli, esse appaiono dotate di una propria storicità già strutturata attraverso numerose e continue «gemmazioni». Si potrebbe, infine, concludere, osservando come, persino in termini prettamente storici, la vie des formes sia molto più ricca e ininterrotta di quanto non ritenga Diano, che la concentra sostanzialmente in due sole isole fortunate sperdute nell'oceano degli eventi. Egli ne sottovaluta così il continuo e rigoglioso rifiorire, anche e soprattutto in un tempo come il nostro, che a lui si presenta in maniera heideggerianamente segnata dal dominio incontrastato della tecnica e dall'inquietudine dell'uomo moderno «ulisside», spinto a infrangere le forme già date, per sperimentarne di nuove e vivere intensamente, ma in maniera inflazionata, una quantità di eventi sempre compressi nel tempo più breve. Ma a quale scopo tracciare tutti questi scenari concettuali estranei all'impostazione dichiarata di Diano? A confermarci, in assenza di una comune e credibile «via regia», non solo quanto diverse possano apparire le strade che portano alla conoscenza, ma anche come ogni dispositivo di senso renda cospicui certi fenomeni 30
CRISTALLI DI STORIA
proprio mentre ne offusca o ne cela altri. Tale è però il compito delle idee e dei punti di vista che ci orientano. Per nostra fortuna, Forma ed evento ci consente di riscoprire, nella galassia della cultura attuale, un piccolo classico. Del classico, infatti, il libro possiede l'originalità del tracciato, che il lettore potrà constatare di persona, percorrendolo con profitto e piacere intellettuale prevedibili. Esso costituisce una testimonianza esemplare di rigore non pedante e un convinto atto d'amore verso uno stile di ricerca ormai sempre più raro: quello che induce, da un lato, a curare l'esatta consequenzialità delle argomentazioni e dall'altro, a vigilare per ricostruire il senso più pregnante e meno banale della documentazione utilizzata (abbandonando così le piccole viltà, travestite da modestia operosa, di chi rinuncia a pensare in proprio, trovando più comodo e meno rischioso appoggiarsi all'autorità, sottratta all'ingrosso, di altri). L'atteggiamento di Carlo Diano appare oggi particolarmente apprezzabile di fronte alla quantità di cascami culturali che da tempo impietosamente si accumula davanti ai nostri occhi. Quando proliferano opere e interpretazioni composte secondo criteri arbitrari, mosse da logiche barcollanti, infarcite di informazioni sciatte e inattendibili, sorrette da artifici retorici a buon mercato; oppure, quando i testi si spacciano per universi autosufficienti, che assottigliano sino a farla scomparire qualsiasi differenza tra il loro ambiente interno e l'«extra-testualità» (trasformando idee ed eventi in «effetti di codice» o «simulacri»), sia allora benvenuto questo volumetto, che mostra cosa significhi la serietà nelTaffrontare le fatiche del proprio mestiere e la fedeltà al «reale» intesa, in maniera elementare, come rispetto per la complessità dei referenti «esterni» almeno a quanto ancora non abbiamo capito e che non si deducono di sicuro dal solo universo dei «testi».
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FORMA E D E V E N T O
Silvana? uxori
La ricerca, della quale io presento, in forma estremamente sommaria e in gran parte provvisoria, i primi risultati, è nata in maniera del tutto occasionale da un problema tecnico di storia della filosofìa greca, il problema del sillogismo degli Stoici nei suoi rapporti con quello di Aristotele. Quale significato io dia ai due termini di forma e di evento, ed entro quali limiti li assuma, apparirà, spero, dalla mia esposizione. Essa seguirà l'ordine in cui i problemi mi si sono presentati, e comincerà dalla fine per risalire alle origini. Se è vero, come voleva Aristotele, che in ogni indagine bisogna sempre muovere da ciò che a noi è più vicino e però anche più noto, la via che io mi sono trovato a seguire, fuori d'ogni presupposto di dottrina e guidato nei miei primi passi dal caso, potrebbe avere valore di metodo. Q u a n d o si parla del sillogismo, si pensa al sillogismo d'Aristotele. L'esempio trito è quello di Pietro, e se volete un nome greco, dite Corisco: che è uomo, e, perché è uomo, un giorno o l'altro necessariamente morrà. Di dove questa necessità? Dalla essenza, in cui Corisco ha la sua forma: una forma che in sé contiene i contrari, e, come tutte le forme del nostro mondo sublunare, non ha realtà se non nella successione degli individui che nell'ordine del tempo la rivestono: e questi passano, come le foglie della similitudine d'Omero. Ma quando morrà Corisco, e come morrà? Aristotele non lo sa e non lo può dire. E non perché è uomo e non dio: neanche un dio lo saprebbe. Nel suo universo non può saperlo nessuno; e per una ragione assai semplice, ed è che l'ora e il modo della morte di 35
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Corisco sono un evento individuale e gli eventi individuali hanno il loro principio nella materia e, dovuti a sole cause motrici, sfuggono alla necessità che è propria della forma, e che è la sola che valga in assoluto e permetta la previsione e il sillogismo. Un'unica necessità essi ammettono, quella del fatto, una volta accaduti, perché factum infectum fieri nequit, e neppure gli dèi, come dice Agatone, potrebbero farlo non fatto; ma prima che accadano, questa necessità è è§ tijrofréaeoog e si esprime col «se». Traduco dalla Metafisica: «Morrà di morte violenta? Se uscirà. E uscirà? Se avrà sete. E avrà sete? Se...». Ma non si va lontano. A un certo punto la serie si arresta: si arriva a un «se» che «non dipende più da altro», e delle due possibilità che l'alternativa comporta, «si realizzerà ÓJtoxéo' ETUXev»... e cioè? Quella che si realizzerà: o, se volete sostituire un nome al verbo e parlare per figura, quella che il caso o la 113x11 vorrà. È al «se» di questa necessità ipotetica, che alla fine esclude ogni necessità e si risolve nella pura indeterminazione della tyche, che si riattaccano gli Stoici; ma negano la tyche. Essi ignorano il sillogismo che trae la sua necessità dalla forma: il loro sillogismo ha due figure principali, una ipotetica e l'altra disgiuntiva. Fatto capitale e generalmente non osservato: i termini enunciano eventi e non concetti. I concetti non hanno realtà: gli Stoici sono nominalisti integrali: realtà hanno solo i corpi. Ma non i corpi in quanto tali, che si ricadrebbe nella forma e quindi nel concetto, come ci ricade Epicuro, bensì i corpi come realtà storica, nell'atto in cui sono colti dal senso: come eventi: x à xvy%àvovxa, come essi dicono. Di qui la dottrina che solo il presente è reale, e che in ogni giudizio il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a: Socrate sta esercitando la sua virtù. Ed è per questo ch'essi dicono che la virtù è un corpo: perché dove è mai la virtù se non in questo Socrate qui che beve la cicuta? Ed ecco le loro famose e universalmente fraintese categorie. Primo è il soggetto: il puro e semplice «questo», che si indica, come essi dicono, col dito, e non ha altra determinazione che d'essere hic et nunc. Poi viene la qualità, che tiene il luogo della forma, ma sempre come qualità storica: l'esempio che essi vi danno è: Socrate! Terzo è il Jtòc, e/eiv, il trovarsi in questa o quest'altra condizione particolare, e abbraccia tutto quello che per Aristotele ed Epicuro cade nella sfera dell'accidente. Quarta ed ultima categoria, in cui tutte le altre sono comprese, e nella quale sola esse diventano reali, la relazione, la categoria della realtà in atto, dove il qui coincide col tutto e l'ora col sempre, e che Crisippo paragonava alla volta. E 36
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dunque: questo Socrate qui, che sta discutendo con Callia: un evento! E questa è la realtà. E allora: se accade questo, accade quest'altro... o, come essi dicono, sostituendo i numeri alle lettere di cui si serviva Aristotele: se accade il primo, accade il secondo. Perché l'evento è nel tempo e il tempo si esprime col numero. Se accade... Per Aristotele, abbiamo visto, questo «se» apriva una serie che a un certo punto si perdeva nel nulla. Lo stesso vale per Epicuro, che nella malfamata dottrina dell'atomo che, mentre cade in linea retta, quando meno te l'aspetti devia e rompe la fatale serie delle cause, non fece altro se non trasporre la teoria aristotelica dell'accidente. Altrimenti, dicono entrambi ad una voce, tutto sarebbe per necessità. Gli Stoici insorgono. Una serie causale che si perde nel nulla? E perché tutto non dev'essere per necessità? Dove se ne va l'unità del mondo e con essa Dio e la virtù, se gli eventi non sono tutti per necessità? Ma infine: ogni giudizio o è vero o è falso. E di due giudizi opposti e contrari, se è vero l'uno, è falso l'altro. E qui interviene il sillogismo disgiuntivo: - Domani Dione o morrà o non morrà. Una di queste due proposizioni deve essere vera: sin da ora, da sempre: o non esiste né il vero né il falso. Giacché il vero non è altro che il fatto. Tutto dunque è per necessità: la tyche non è che un nome di cui gli Stoici concedono l'uso solo nell'ambito dell'evento isolato, quando se ne ignora la causa: ma la causa c'è sempre. E dove va a finire la serie delle cause? In Dio. E Dio che cos'è? La prima delle cause motrici. Anche per Aristotele è tale, ma muove non mosso, interamente separato dalle cose, delle quali ignora l'esistenza. Perché Dio è una forma, la forma per eccellenza, xò xi f)v eivca xò J T Q C Ò X O V , e perché è forma, è immobile e fuori del tempo, fuori dello spazio. E poiché forma, in greco eiòog, come pure osserva Plotino, vale «cosa veduta», Dio è in senso pieno ed assoluto la «cosa», come «cosa veduta», nell'atto in cui essa stessa si vede, «intelletta ed intendente», come dice Dante, un'attività contemplante, un voijg, che ad oggetto ha se stesso. Per gli Stoici invece Iddio non ha forma che gli sia propria, e non è separato dalle cose, è in esse, come corpo in un corpo, un corpo fluido, divisibile all'infinito, che ha la natura del fuoco, un «fuoco dotato di arte», e le pervade, e sono esse le sue forme. E non contempla, ma fa: è per eccellenza «colui che fa», xò J I O L O Ì J V . E, se come corpo è nello spazio, per il suo fare è nel tempo, ma l'essere coincidendo col fare, spazio e tempo fanno uno: perché la realtà è evento, e quindi storia, la storia delle sue epifanie. Prima è egli solo, 37
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poi, gradatamente, «camminando per la sua via», come dice Zenone, si fa cosmo: e poi lo riassorbe in sé e lo incendia: la conflagrazione finale. E poi torna ciclicamente a fare quello che ha fatto, e la serie degli eventi ritorna eternamente uguale: l'eterno ritorno. Perché necessità vale identità, e l'identità nel movimento non può essere data che dal circolo, mobile insieme ed immobile, uno e continuo, dove ogni punto, come aveva detto Eraclito, è principio e fine. Principio di una realtà che è fatta di eventi, questo Dio è esso stesso evento: la concatenazione, l'etouóg, degli eventi, e in quanto etouóg, come gli Stoici con falsa etimologia solevano dire, etuxxoHéVn, fato. Ma non è un fato cieco: avendo la sua ragione nel ciclo, realizza ogni istante l'identità dell'essere che era, e però è anche JCQÓvoia, provvidenza, e la legge, il vóuog, che lo governa, è "kóyoc,, discorso. Per modo che Dio, che è, come essi dicono, tutte queste cose, è innanzi tutto Xóyog: non un vov5 che vede, ma una ragione che si muove e passa da un termine all'altro, e ognuno di questi termini è un verbo: un evento. Di qui si comprende il non ancora esplicato proemio dei Fenomeni di Arato. «Da Zeus incominciamo, da colui che noi uomini non lasciamo mai innominato. Di Zeus sono piene tutte le strade, tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il mare e i suoi porti». Le strade, le piazze, il mare, i porti, non la terra e l'acqua e l'aria e il fuoco, i quattro elementi, e le forme a cui essi fan da materia, ma i luoghi dove gli uomini si muovono e s'incontrano, giungono e partono, si trovano faccia a faccia con l'evento, i luoghi dove la realtà si rivela come evento. E come ogni proposizione non è tale se non per un verbo, e il verbo si definisce per l'evento, Zeus, come principio di tutti gli eventi, è anche il soggetto di tutti i nostri discorsi, e ogni verbo che ci esce dalla bocca lo sottintende; egli è appunto colui che, anche non profferendone il nome, noi non lasciamo mai innominato. Forma e contemplazione di forma il Dio di Aristotele, e freccoia, contemplazione di forme, la scienza; evento e concatenazione ciclica e provvidenziale d'eventi il Dio degli Stoici, e ragione o discorso di eventi la scienza, Xóyog: da un lato il sillogismo categorico della forma che ignora gli eventi, dall'altro il sillogismo ipotetico dell'evento che ignora le forme. E allora, quello che Aristotele non sapeva né poteva dire a Corisco, glielo diranno gli Stoici? Non in quanto filosofi, ma lo manderanno dagli indovini e dagli astrologi. Perché la divinazione, che non aveva posto nel sistema di Aristotele, e ancor meno in quello d'Epicuro, che, o vera o falsa, la considera inutile e 38
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dannosa, ne ha uno centrale nel sistema di Zenone e di Crisippo. E qui cogliamo in un fatto, non mai, credo, osservato, lo sfondo storico che l'atteggiamento di questi due filosofi presuppone. Cicerone, nel De fato, confutando Crisippo, scrive: «Prendiamo uno dei teoremi degli astrologi: - Se uno è nato al sorgere di Sirio, non morrà in mare». «Se»... Nei libri di divinazione assiro-babilonesi i presagi sono sempre introdotti dalla congiunzione shumma, che vuol dir «se». È di qui che viene il sillogismo degli Stoici? Zenone era fenicio - «la vecchia ingorda di Fenicia» lo chiama Timone - , Crisippo era nato a Soli, in Cilicia, e suo padre veniva da Tarso. Essi conoscevano quei libri: nelle loro patrie ne avevano visto certo applicare sillogisticamente le predizioni. La coincidenza offerta dalla testimonianza di Cicerone non può essere fortuita. Ma non è questo il punto. Fosse anche fortuita, il principio psicologico, e quindi storico, che la spiega è in ambo i casi il medesimo: il senso della realtà come evento. E da esso che tutto il sistema degli Stoici discende, ad esso si riconducono, nella loro massima parte, le forme della religiosità semitica, solo in esso trova la sua spiegazione la mantica, che in nessun luogo assunse proporzioni così grandiose come nella Mesopotamia. E, a completare con l'ontologia quello che ci s'è rivelato nella logica, ecco un altro fatto, ancora più significativo del primo. Nella concezione babilonese del destino rientrano non solo gli eventi, ma anche le forme. E il dio che fissa, insieme col nome, la natura della cosa, e può sempre mutarla, perché il destino è un decreto che si rinnova. Questa forma-destino si chiama nam. «Il nam babilonese, scrive il Furlani, è un primo adombramento della qpiiaig e dell'elòog aristotelici». N o , siamo agli antipodi di Aristotele: il nam babilonese è un primo adombramento della cptioig degli Stoici, d'una (ptioig in cui l'elòog è qualità e non sostanza ed è calato nel tempo, e s'identifica con l'evento. Solo che il loro dio, a differenza del dio babilonese, non ascolta preghiere e non si lascia piegare da offerte: passato attraverso le categorie greche dell'essere, s'è irrigidito in una volontà che non muta in eterno. Maw Pohlenz, nella sua grande opera sulla Stoa, ha ripreso il problema già posto dal Bevan: a quali tratti nel sistema di Zenone e di Crisippo si lasci riconoscere la mentalità originaria della loro razza, ed enumera varie cose. La nostra risposta è già data: quello che i due filosofi portarono come tratto specifico della sfera etnica e culturale dalla quale provenivano, fu il senso della realtà come evento. 39
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Lo portarono in un momento in cui la Grecia aveva cominciato ad esserne dominata. N o n che lo avesse ignorato mai: è della comune esperienza umana e faceva parte delle sue origini mediterranee. Lo aveva affrontato e vinto una prima volta nell'età di Omero, asserragliata nelle rocche delle sue aristocrazie guerriere, l'aveva ancora contenuto nel vi secolo, piegandolo alla legge delle sue città vegliate da Apollo e da Atena, quando, risorto con rinnovato vigore, come Anteo dalla terra, aveva minacciato di travolgerla, l'aveva nel v ricacciato oltre il mare con le orde di Serse, celebrando nella propria la vittoria degli dèi dell'Olimpo. Ora le forze che le avevano permesso di resistere, erano in gran parte fiaccate e le circostanze esterne contribuivano a renderne precarie le difese: l'egemonia dei Macedoni, la pressione esercitata alla periferia dai grandi stati sorti dallo smembramento dell'impero di Alessandro, le condizioni d'instabilità in cui le loro guerre continue tenevano le fortune pubbliche e private, la lenta ma sempre più decisa penetrazione dell'elemento etnico orientale, a cui l'allargamento dei confini politici e culturali del mondo greco aveva aperto la via e messo in mano le armi. La grande età dell'Eliade s'era chiusa e s'iniziava quella dell'Ellenismo. Tutti i fatti che gli storici enumerano e descrivono a caratterizzare la nuova età, si riconducono alla categoria dell'evento; l'individualismo, in cui la differenza formale cede il luogo a quella esistenziale e numerica, l'universalismo generico e meramente quantitativo, che ne è il necessario correlato, l'uso e l'abuso dell'appellativo di «salvatore» dato agli dèi come agli uomini, la divinizzazione di tutti coloro che vengono sentiti come portatori d'evento e, per eccellenza, dei prìncipi, la voga presa dal culto d'Asclepio, il nuovo dio del miracolo, l'abbandono delle divinità più specificamente elleniche per quelle orientali a carattere misteriosofico e soteriologico, la graduale involuzione della concezione antropomorfica del divino e la sostituzione del concetto di forza a quello di sostanza, il sincretismo, di cui un tale concetto costituisce la ragione e il principio, la credenza nei dèmoni, il ritorno alle forme più grossolane di superstizione e la diffusione della magia, la divinazione a carattere occultistico e magico e l'astrologia. Il fatto principe, e che da solo basta a definire la mutata visione del mondo, è l'ipostatizzazione dell'evento in quanto tale, la tyche. Fermiamoci ad esaminarla, perché essa è il punto in cui le varie concezioni della vita s'incontrano e da cui s'irraggiano. La parola è aoristica, designa il fatto nel suo momentaneo accadere, e il verbo che le corrisponde è sempre all'aoristo. Ciò la distingue da n o ì o a , 40
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che ha il suo verbo al perfetto (eiuxxQTai), e che, anche nella sua forma meno impegnativa e più vaga, quale è normalmente, ma non sempre, nell'Iliade, comporta, se pure irriflessa, l'idea di una necessità predeterminata. Quando questa necessità venne razionalizzata nel concetto di un ordine precostituito, all'àvdyxTì, che è già nota ad Omero, fu aggiunto il participio perfetto el\ia.Q\xévr\ che, assunto a termine tecnico, lasciò cadere il sostantivo e prese senz'altro valore di nome. Ignota ai poemi di Omero, tyche compare la prima volta in Esiodo, ed è una personificazione, una delle tante in cui vengono isolate le forme sotto le quali l'operare della divinità si manifesta. Da Esiodo in giù, sino al v secolo, ove faccia da soggetto, rinvia sempre all'azione divina, che ne costituisce il presupposto. Fatta esplicita, l'idea viene messa in evidenza in espressioni in cui «gli dèi», «il dio», «Zeus», e assai spesso il òaiuxov, col quale comunemente s'identifica, s'accompagnano al nome sotto la forma di un genitivo d'autore. Ma ecco che verso la metà del v secolo, in Atene, sotto l'azione delle idee di Anassagora, la tyche si separa dagli dèi e li nega. O la tyche o gli dèi, è il dilemma di Euripide: «perché se c'è la tyche, che son mai gli dèi? E se gli dèi han potere, la tyche è nulla». Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale l'uomo si trovava di fronte al concetto del caso. Era un concetto, che, come residuo d'una negazione, si risolveva in una tautologia: perché dire che un evento, e cioè una tyche, ha come causa non la tyche di Zeus o degli dèi, ma senz'altro la tyche, vai quanto dire che esso è accaduto perché è accaduto, e infine non ha altra causa che se stesso. Ciò non sfuggì alla mente dei Greci, e fu espresso da un nuovo termine, l'auTÓuuxov, «il da sé». Aristotele nella Fisica, guardando all'uso del suo tempo, considera Yautomaton come proprio degli eventi accidentali della sfera della natura e del mondo animale, la tyche, invece, come specifica del mondo dell'uomo. Ma, poiché tutti gli eventi che non accadono in vista del fine e si sottraggono alla necessità della forma, hanno come ultimo principio il nulla e si producono «da sé», raccogliendo i due termini in un'unica definizione, fa dell'automaton il genere e della tyche la specie. Nel v secolo la tyche-c&so e parola dotta e l'uso ne è limitato alla sfera degli uomini colti, il popolo la ignora: ne è prova la commedia che non ne dà esempio. Nel iv è discesa tra la folla, ma la folla l'ha trasformata e ne ha fatta una dea, la Fortuna. E in realtà il concetto del caso, dell'evento senza causa o, comunque, di una causa che non operi in vista del fine, può essere tenuto fermo solo dalla ragione: il y
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sentimento lo rifiuta, e con esso la mentalità popolare. Per il sentimento l'evento è sempre aureolato di mistero, rinvia a una potenza che lo trascende. La tyche-deal I filosofi e i poeti della Commedia nuova, fatta sulle ricette dei filosofi, protestano. «Non c'è una Tyche-dea, no» - fa dire a un suo personaggio Filemone: «ciò a cui si dà il nome di Tyche non è che l'evento, così come accade a ciascuno, e non ha altra causa che se stesso». La definizione di Aristotele! Ma tant e: accanto alle statue della Tyche si elevano quelle dell'Automatia, della «Da-sé»! Della tyche-caso la tyche-dea conserva l'illogicità e la momentaneità, ma è sentita come causa di bene più che di male: ciò che di sovente è espresso, con intenzione apotropaica, dall'aggettivo òyoftxy. non per altro è fatta dea. La «Buona Tyche» si scambia, non senza una certa sfumatura di significato, col «Buon Dèmone», e come v'è un dèmone personale, così anche una tyche : essa ha forma ufficiale nella tyche dei re e delle città. Terza, a chiudere il ciclo delle forme che possono venir rivestite all'evento, è la ty che-destino. In essa ogni residuo d'indeterminazione è annullato, e tra tyche ed heimarmene non v'è altra differenza se non quella che l'aspetto soggettivo e particolare dell'evento ha nei confronti della legge che lo spiega e ne fa la manifestazione di un ordine universale e oggettivo. Tyche tornava per tal modo al significato che aveva avuto in origine, quando, come TIJXTI detòv, era l'aspetto momentaneo della necessità personificata nella Moira e garantita dagli dèi, con la volontà dei quali aveva finito per identificarsi. «Tutto la Tyche e la Moira danno all'uomo», aveva cantato Archiloco. E Sofocle, più tardi: «non interviene la Tyche prima della Moira». Solo che nel pensiero dei due poeti gli dèi a cui l'ima e l'altra rinviavano, erano ancora persone, e non la ferrea catena delle cause a cui li avevano ridotti gli Stoici. Giacché fu nella scuola degli Stoici che la tyche venne ricondotta ali 'heimarmene. Nell'ambito delle idee comuni entrò solo più tardi, ma, come era naturale, vi perdette molto del suo rigore. Un esempio significativo se n'ha nell'ode di Orazio alla Fortuna, la quale, pur tenendo dietro alla serva Necessitas resta sempre una dea, e come tale il poeta la prega. y
Tyche-caso, tyche-dea, tyche-destino: tre interpretazioni dell'evento, tre atteggiamenti e tre visioni della vita. Cominciamo dalla tyche ipostatizzata come Fortuna e fatta dea. 42
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Tyche è l'evento, come fatto momentaneo e contingente; che cos'è la dea? L'abbiamo detto descrivendo, di sulla logica del sentimento, il processo da cui nacque: una potenza. D o p o la scoperta del mana dei Melanesiani e di quant'altro di analogo s'è trovato nelle religioni primitive, il concetto di potenza è passato al centro dell'indagine moderna, e ad esso si è cercato di ricondurre, come a loro principio generatore, le varie forme sotto le quali l'esperienza religiosa si presenta. Se domandate da che cosa la rappresentazione della potenza trae la sua origine, vi si risponde: dallo «sbigottimento», che l'uomo prova davanti a tutto ciò che lo «sorprende», e che egli sente «come affatto altro». E facile osservare, che, se la rappresentazione più o meno determinata e cosciente della potenza è la risposta alla domanda che lo «sbigottimento» implicitamente contiene, e la «sorpresa», a sua volta, e il senso «d'alterità» non sono che aspetti dello «sbigottimento», il processo manca del suo principio. La conseguenza ne è che, il concetto di potenza restando vuoto, ogni deduzione - e quindi ogni perché - è impossibile o arbitraria e deve far ricorso ad altre categorie, che, per non essere ricavate dal fenomeno, restano ipotetiche e gratuite. Che è ciò che accade. Io faccio un ragionamento banale. Una potenza, per quale mai cosa è potenza? Perché opera, no? «Una cosa è mana» - spiegava un indigeno dell'isola Hocart (cito dalla Religione del Van der Leeuw) «quando essa opera; quando non opera non è mana». Ebbene, ciò che la potenza opera, che cos'è? Che cos'è per me, non in sé: che cos'è nel corso della mia vita, nel quale quest'opera incide e segna, per quanto minimo, un arresto? Voi adoperate il nome che volete, io mi servo di quello al quale ricorrevano i Greci, e dico: una tyche, un evento. È la cosa come evento che sorprende, che appare altra, che fa oscuramente pensare all'azione di una potenza e denuncia la presenza del dio. Ognuno di noi ne ha fatto e ne fa continuamente esperienza. Per restare ai Greci, gli esempi si potrebbero citare a centinaia. Ma non occorre: nessuno avrebbe il valore di questo che ci è offerto dalla tycbe-dea. Perché qui tyche è il nudo evento, quello che la riflessione, staccando dagli dèi, aveva dalla sfera dell'universale ricacciato nella particolarità e contingenza del fatto, ed è questa tyche che è fatta dea. Contingente e particolare l'evento, contingente e particolare la rappresentazione della potenza: quale è appunto la rappresentazione del mana. E dunque è dall'evento che bisogna partire. Che, se in sé, come concetto, è altrettanto vuoto quanto è quello della potenza, nel fatto è sempre l'evento di qualcuno, e, come tale, anche sempre 43
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determinato: e determinato dalla sfera del soggetto, non da quella di un inconoscibile oggetto, nelle forme dell'esperienza vissuta, che ciascuno, in base al suo atteggiamento e alle condizioni storiche entro le quali la sua esistenza si svolge, di volta in volta gli conferisce. Il che, mentre permette la deduzione, ne fa una categoria interamente fenomenologica, laddove la potenza è già un concetto ontologico, e, staccata dal principio che la determina, è vuota e rimane vuota.
È stato detto che l'età ellenistica è l'età dei contrasti. Il più stridente è senza dubbio quello che è tra il mondo della cultura e quello della religione: ma essi stessi questi due mondi, presi ciascuno a sé, si aprono di nuovo alla contraddizione e rivelano nuovi contrasti. Gli storici parlano d'involuzione e ne cercano le cause nelle circostanze esteriori, rinunziando il più delle volte a cercarne l'unità. Ma l'unità c'è: è nel principio costituito dall'evento: di contro, già fatta opaca, è la forma. Plutarco, nella solitudine di Cheronea, dove essa aveva definitivamente piegato alla forza dell'evento, sarà l'ultimo a contemplarla: dopo non dominerà che l'evento. Ma già s'era iniziata la nuova èra, la nostra: da un evento. Il dio bambino, di cui il Mediterraneo aveva favoleggiato fin dalle origini, il figlio della madre, era nato, da una madre di carne, esso stesso carne, ed aveva abitato tra gli uomini, era morto tra gli uomini, e, risorto, viveva tra gli uomini. Il contrasto che è tra il mondo della cultura e quello della religione, malamente verrebbe espresso dai termini di ragione e credenza. Se per ragione s'intende la facoltà discorsiva, in nessun campo come in quello della credenza essa celebra le sue maggiori orgie. In generale non è la ragione che tiene fermo il mondo da noi considerato reale, e che conserva la loro figura alle cose. D'altra parte, la cultura, nella sua resistenza alla religione, s'appoggiava meno al sistema dei suoi sillogismi che a quello delle sue intuizioni. Ma senza entrare in un discorso che ci porterebbe lontano e che senza il sostegno dei fatti non sarebbe d'alcuna utilità, vediamo ciascuno di questi due mondi nelle opposizioni che, nelle diverse sfere, ne segnano gli estremi. Nel mondo della religione, ove si astragga dai culti e dalle rappresentazioni che la forza della tradizione conserva, entro certi limiti, immutati, i due estremi sono: da una parte, la concezione del divino nelle forme particolari e contingenti della mentalità primitiva, dall'altra, la sistematicità a carattere speculativo e dommatico dei 44
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Misteri. Nell'ambito dell'una si ha l'individuo isolato nella sfera caotica delle potenze, nell'ambito dell'altra l'individuo come membro di una società di iniziati, che si ritrovano e si riconoscono nel culto di un'unica potenza. Da un lato è la selva, dall'altro la chiesa: identici sono per l'una e per l'altra i principi: evento e potenza; identico è il fine: la salvezza; ma i principi e il fine della prima sono particolari e limitati all'istante, quelli della seconda sono universali ed hanno a sfondo l'eterno. La selva: al centro la Fortuna, senza forma né figura, anche se gli scultori ne effigiano le statue: intorno la ridda dei dèmoni e deUe «forze» anonime localizzate nelle persone e nelle cose: l'uomo non ha che un'arma, la magia. La chiesa: nel tempio, servita da sacerdoti di professione, sottoposti a una regola, la divinità, che ha forma, ma questa forma è simbolica, e nel cui mito sono riassunti i due eventi supremi del mondo e dell'uomo, la nascita e la morte. Essa è generalmente una dea, una madre, il cui figlio o amante muore e rinasce. La salvezza si raggiunge nella consacrazione dell'uomo al nume, mediante un rito, nel quale anch'egli muore e rinasce: muore al mondo turbinoso ed oscuro degli eventi e delle potenze e rinasce in quello luminoso e quieto d'una vita in cui la precarietà delle forme e l'instabilità dell'evento vengono annullate nell'identità mistica col principio che le governa. Dall'uno all'altro estremo lo stacco non è netto, passa per una serie di gradi, attraverso i quali le varie forme dell'esperienza religiosa, quanto più perdono di contingenza, tanto più acquistano di universalità e d'unità. Di mezzo, come a un vertice, a cui il primo estremo converge e da cui l'altro s'allontana, il terrore del fato scritto nei pianeti e nelle stelle e che ha la sua scienza nell'astrologia. Tutti i gradi, come accade nella religiosità d'ogni tempo, possono essere operanti nella medesima persona. Se ne volete un quadro completo, rileggete le Metamorfosi di Apuleio: la storia di un uomo che passa dalla selva alla chiesa, dal «servaggio della Fortuna», in cui, sotto forma d'asino, è tratto dalla «fatale curiosità» di penetrare con la magia nel mutevole mondo dell'evento, alla «libertà» della rinascita nella morte mistica dei Misteri di Iside. «Curiosità fatale» è anche quella di Psyche, la cui favola ha nel romanzo un significato che trascende le leggi del genere sotto il quale è presentata: una curiosità che, pure obbedendo alla medesima logica, è il preciso opposto di quella di Lucio. Lucio perde la forma per aver voluto operare nella sfera notturna dell'evento. Psyche perde l'evento per aver voluto, nella notte nella quale 45
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sola le è dato di essere la sposa d'Amore, contemplarne alla luce di una lampada la forma. Il principio primo dei suoi mali è di essere essa stessa portatrice della forma: la sua bellezza. Ed è ancora per la forma, per la «curiosità» di vedere la bellezza chiusa nello scrigno, ch'ella porta dalla sotterranea Proserpina a Venere Celeste, che nella sua ultima prova soggiace alla morte. Ma nella morte, discrimine delle due vite divise dai Misteri, ritrova Amore, nell'irraffigurabile sfera dove ha sede la potenza che è insieme principio delle forme e degli eventi. Le divinità dei Misteri sono quasi tutte orientali: e le elleniche? Le divinità di Pindaro e di Omero? Vengono gradualmente trasformate in potenze e fuse con le nuove divinità dell'evento. Quelle che per la loro forma mitica resistono alla trasformazione, anche se conservano i loro culti e le loro feste, non vivono ormai più che nella poesia e nell'arte. La divinità più significativa di questo moto di rivoluzione o, se volete, di questa involuzione dinamistica che tende all'unità, è una divinità nuova, nata, sotto il primo Tolomeo, dalla speculazione di un Eumolpide d'Atene: Sarapide, che in sé riunisce Zeus, Dioniso, Osiride ed Api. Nel campo della cultura, se la guardiamo allo specchio che ce n'è offerto dalla filosofia, troviamo tre gruppi: da una parte gli Aristotelici, gli Epicurei e i Cirenaici, dall'altra i Cinici e gli Stoici: in mezzo gli Accademici e gli Scettici. Le lettere e le arti, e con esse il costume delle classi che continuano la tradizione più schiettamente ellenica, vanno in generale con Aristotele ed Epicuro. Cinici e Stoici riproducono nella sfera della ragione le due posizioni che abbiamo considerate come estreme in quella della religione, e, come nell'uomo dei Misteri c'è l'uomo della selva, così nello Stoico c'è il Cinico. L'opposizione, come insegna Aristotele, è sempre nell'ambito di un medesimo genere. Tanto i Cinici quanto gli Stoici ignorano le forme e muovono dall'evento: ma per i primi l'evento si isola e si vuota nell'immediatezza del fatto, per gli altri è il momento di un processo che si chiude nel ciclo, un verbo del discorso divino. L'evento nell'immediatezza del fatto: i Cinici non credono alle potenze, ignorano Dio: e non perché vi ragionino sopra, ma perché, o Fortuna o Dio, la realtà è sempre questa: un fatto. A una sola potenza essi credono: all'io. È un io senza volto, vuoto, come è vuoto l'evento che lo sollecita e lo svela: una volontà nuda, così come l'evento è una necessità pura, la necessità immediabile del fatto. L'io quale l'evento lo svela: perché è l'evento che svela l'io. L'evento 46
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individualizza: non per altro l'età ellenistica è l'età dell'individualismo. Ma l'individuazione è di volta in volta diversa, a seconda che l'evento è il fatto o la Fortuna o Dio. Alessandro e Diogene: due individui: agli occhi del volgo, l'eletto e il reietto: in Alessandro il figlio di Zeus, il nuovo Eracle, in Diogene il figlio del fatto*, anch'egli un Eracle, ma che si gloria del nome di cane. L'uno e l'altro due volontà invitte: ma quella di Diogene è più forte: perché nega. La vita del Cinico è questa negazione assoluta: la sua virtù; una negazione che riconduce l'uomo alla selva e nella selva fa il deserto: la sua libertà. La libertà del Cinico è vuota come la sua virtù, la libertà dello Stoico ha un contenuto ed un senso. Gli eventi non sono isolati, formano un tutto e vanno ad un fine: la necessità non è quella del fatto, è provvidenza e ragione. Libertà è l'identificarsi con questa ragione. Udite Cleante: Guidami, o Zeus, e Tu, o Destino, al termine che m'avete assegnato, e senza indugio vi seguirò. Che se giammai non voglia, verrò lo stesso, ma verrò da tristo. La virtù: gli eventi non sono isolati, ma ogni evento è qui, ora, e Dio è in tutti, come il circolo è in tutti i suoi punti e in ognuno si muove e riposa. Dio è sempre qui, ora, per qualcuno, per me. L'azione è improrogabile. Ciascuno ha la sua: nessuno può sostituirsi a nessuno, né il re al servo né l'amico all'amico. E la virtù dell'uno è pari a quella dell'altro: ed anche la colpa: e tutte le colpe sono uguali: perché tutti gli eventi sono necessari, e i doveri anche. Gli eventi sono necessari e questa necessità è provvidenza: è ogni evento un bene? N o n in sé, ma nella connessione con gli altri. In sé non è né bene né male, è un fatto. Bene e male sono nel giudizio che l'uomo ne fa e nell'azione che a quel giudizio consegue. Lo Stoico, come il Cinico, ma per ragioni opposte, tiene l'evento per cosa indifferente. Senza piacere o dolore, senza desiderio né timore, fa quello che la ragione gli prescrive di fare, sifractus illabatur orbis... E se il fare gli è precluso, e la sua morte può servire d'esempio, si dà da se stesso la morte: anch'egli invitto e invincibile. Che cosa prescrive la ragione? Che l'uomo instauri in sé e nella vita con gli altri l'unità che le è propria, la solidarietà che è nel cosmo, che il punto ha con la sfera. Se il Cinico è anarchico, lo Stoico è cittadino: di una città le cui mura sono quelle del mondo, e comprende Greci e Barbari: la cosmopoli. Dove le forme sono 47
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ridotte all'evento, non vi può essere distinzione di razze né di patrie: l'evento, individuando, universalizza. Se questa universalità è vuota, la selva; se ha un contenuto, la cosmopoli. La città degli Stoici è universale come la chiesa dei Misteri. Quando lo stoicismo giunse a Roma, diede un senso alla sua storia e un contenuto al suo impero. Il poema di Roma è l'Eneide, e l'eroe è un eroe dell'evento. Ma, irretito nella poetica degli Alessandrini, Virgilio vi mise dentro gli dèi d'Omero. Di qui le disarmonie che la sua arte non riesce a superare. Il poema che obbedisse per intero alla poetica dell'evento, tentò di farlo Lucano, ma non era Virgilio. Se volete il «qui ora» degli Stoici, individuale insieme e totale, puntuale e continuo, guardate alle volte e agli archi, dove l'unità si media nella relazione, e lo spazio si muove col tempo, un tempo ciclico, che abbraccia il mondo e lo chiude: l'architettura di Roma. Il mondo della religione è il mondo del «tremore» e del «timore», il mondo della filosofia cinica e stoica è il mondo della volontà chiusa nella negazione o protesa nello sforzo, un mondo senza sorriso e senza riposo, che ignora le Grazie e le Muse. Le Grazie e le Muse, il sorriso e il riposo li ritroviamo nel mondo del caso, che è quello in cui vivono Aristippo, Epicuro e Aristotele, e che, come mondo del caso, è anche il mondo delle forme: forme estenuate ed umbratili, come è l'evento a cui esse si contrappongono, ma forme. Da Aristippo ad Epicuro, da Epicuro ad Aristotele, si passa da un minimo a un massimo. Per Aristippo le forme sono - egli non vive che di esse - ma sono l'iridata spuma dell'istante, il gioco prestigioso ed instabile d'un poeta, che con rapidità pari alla volubilità del suo estro le evoca e le disperde nel nulla. Questo poeta è il caso, un poeta capriccioso ed ironico, che gioca ed è prodigo solo a chi gioca. Non altro che gioco è la vita, su una scena dove si mutano di continuo le quinte e le maschere. Aristippo le accetta tutte e in tutte ritrova se stesso, con l'agevolezza e la grazia dell'uomo che vive dell'arte e per l'arte, non inconcinnus, come dice Orazio. A un Cinico che gli rimproverava di aver ridotto la filosofia a una commedia: - Sì, rispose, ma la recito per me e non per gli altri. Commedia e gioco, e però piacere, un piacere che Aristippo sa moderare a suo arbitrio; perché è lui a cercarlo. Ditegli che la scena sulla quale egli recita è di legno e le sue maschere sono di tela, vi risponderà che non sono legno né tela le forme che esse riproducono, e se anche dietro c'è il nulla, sono forme: sono. Ma ogni gioco ha 48
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il suo rischio. Aristippo non se ne spaventa: è il prezzo che bisogna pagare. Se pensa alla morte si augura quella di Socrate, non perché fu la morte di Socrate, ma perché egli seppe renderla bella. Se volete un esempio di questo Socrate a rovescio, guardate, quattro secoli dopo, come muore Petronio. La scuola di Aristippo fu di breve raggio e si estinse presto. Non tutti hanno la capacità di vivere come reali delle forme che la ragione dichiara irreali, e allora l'evento torna alla necessità bruta del fatto. Egesia, uno degli ultimi discepoli, fa propaganda di suicidio. «È ridicolo correre incontro alla morte» - scrive in una sua lettera Epicuro - «perché è venuta a tedio la vita, quando è il modo in cui s'è vissuta la vita che obbliga a correre incontro alla morte». Epicuro non sta al gioco: se il gioco ha dei rischi, ci rinuncia. E non ammette che le forme siano l'apparenza di un istante: qualcosa bisogna pure ci sia che stia fermo: non tutto può essere a caso, ci dev'essere anche la necessità, e di mezzo c'è posto per la libertà. Perché il caso ci dà la possibilità di muoverci come vogliamo, e la necessità ci assicura che la terra non ci si sprofonderà sotto i piedi, e ci permette di dare una direzione ai nostri passi. Perciò riforma Democrito e, mutuando da Aristotele la teoria della sostanza, fonda sugli aeterna foedera naturai la stabilità delle specie e proclama l'eternità delle forme. E non solo come specie sono eterne le forme, 10 sono anche come individui: negli dèi, che se ne stanno tra mondo e mondo, e ne evitano le rovine: tutti uguali, tutti belli e tutti beati. E qual è la loro beatitudine? Questa, che non fanno niente e non temono niente. Perché il fare, che nasce dal desiderare, e il temere han luogo solo dove regna l'evento, e negli intermundi non ci sono eventi. Lucrezio si serve per descriverli delle immagini e delle parole di Omero: e in realtà gli dèi d'Epicuro sono gli dèi stessi d'Omero, passati al modulo di un'unica forma e fatti saggi. L'uomo può su questa terra realizzarne la condizione e vivere mortale tra beni immortali chiudendosi nei limiti delle necessità che 11 mero esistere comporta, e riducendo al minimo la sfera nella quale incide l'evento. Che, se il dolore batte alle porte della carne, può ritrarsi, come ad ultimo rifugio, nella rocca dell'anima, dove egli ritrova conservate dalla memoria le immagini dei beni prima goduti. Per la vita di ogni giorno e contro le sorprese del caso il suo intermundio se lo farà fuori delle mura, in un giardino, lungi ai tumulti della folla. Quivi darà convegno a pochi amici, che ne dividano i gusti e le idee, belli o brutti che siano, nobili o bastardi, ma greci, perché solo i Greci sono capaci di saggezza. Pochi, e decisi 49
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a stare ad un patto: perché l'amicizia, come ogni umano consorzio, nasce da un patto ed ha il suo fondamento nell'utile. Ma va al di là del patto, ed è bella anche per se stessa, perché il piacere ama la compagnia: gli occhi si riflettono negli occhi, le mani incontrano le mani: - Anche tu ci sei, anche tu! E fiorisce la grazia, la XÓQ S- E la morte? Quando verrà, verrà. Ora non c'è, ci sono io, e fin che ci sono, me la godo: Carpe diem\ - Carpe diem ma passato questo giorno, forse, ci sarà lei e tu non sarai più. - Passato questo giorno, ma un giorno è una vita: un giorno, un istante e l'eternità sono la medesima cosa. - Nell'ambito della forma o Epicuro! Appunto, della forma: perché è la forma la terra da cui egli guarda ridendo al mare dell'evento: la forma, che sola è fuori del tempo. La forma per Epicuro è un mezzo. Per trovare la forma che sia fine a se stessa, bisogna risalire ad Aristotele, e prima* di lui a Platone. Ma Platone la stacca dalla terra, e poiché non sa decidersi a toglier senso all'evento, la vanifica nel numero e nella teologia dei Misteri. Aristotele dunque: e che cos'è la forma per Aristotele? L'abbiamo già detto parlando del primo motore immobile: è «la cosa veduta». Nel fatto il conoscere è un vedere, dal grado più basso rappresentato dal senso, e il senso per eccellenza è la vista, al più alto costituito dall'intelletto. L'intelletto, il nous, è un occhio, l'occhio dell'anima, come l'aveva chiamato Platone, e vede l'universale, laddove gli occhi del corpo sono limitati al particolare. E come questi hanno bisogno della luce, così anche l'intelletto, e gli è data da un altro intelletto ch'è in esso e che opera alla maniera del sole. Gli occhi vedono i corpi, li vedono come figure, e ne trasmettono l'immagine alla fantasia, una facoltà che sta di mezzo tra il senso e l'intelletto: in questa immagine l'intelletto vede l'universale: ciò che per gli occhi era figura, qui diventa forma, etòog in senso pieno. Ora qui è il punto. Che differenza passa tra la figura e la forma? Quella che passa tra il particolare e l'universale, risponde Aristotele. Ma che significa universale, quando la forma è altrettanto visibile quanto la figura? Perché si corre il rischio di slittare nell'astratto e di concepire la forma come specie. E un rischio al quale Aristotele non s'è sottratto. Ma non è lì la sua esperienza vera. Egli si era formato alla scuola di Platone, e come Platone era greco, e il Greco, in ciò che lo distingue, è questo: il senso della realtà come forma: un grande occhio aperto sul mondo e che ne proietta le immagini nell'eterno. La figura e la forma. Comincerò col dirvi con Platone che la forma è ineffabile, e non s'insegna: si vede o non si vede: infiniti uomini passano e muoiono senza averla veduta, filosofi anche. Ma l
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l'uomo più ingenuo può vederla, tanto più chiara quanto più è ingenuo; e chi la vede, la vede, come per una grazia, all'improvviso, è^aiqpvng, come dice Platone. La vede nella figura, gli sembra essa stessa la figura, che, a un tratto, pare si stacchi dal soggetto che essa delimita, riassorba in sé lo spazio, si ponga fuori del tempo. Gli artisti sopra tutti la vedono, sono artisti in quanto la vedono, e, quando l'hanno veduta, la trasportano dal soggetto vivo, che fino a quell'ora ne aveva fatto un evento, in un soggetto inerte, una materia qualunque, marmo, bronzo, tela, perché guardiamo ad essa sola. Platone non la sa vedere che staccata, e la vede fuori del mondo, fuori del cielo, in un altro cielo, dove non sono tempeste e non balenano eventi. Ma non bisogna staccarla, perché, quando l'avete staccata, o ritorna figura e domanda un'altra forma, o non è più né figura né forma. Voglio dirvi la cosa in un altro modo. Una statua greca, della fine del vi o della prima metà del v secolo, il kouros attico di Monaco, ad esempio, o l'Apollo d'Olimpia, ha intorno a sé un alone, come un'aureola luminosa, che crea una tensione nel limite e in pari tempo lo chiude e fa della figura una cosa assoluta, l'aiy'ki], di cui O m e r o e Pindaro vedono circonfusi gli dèi. Quella è la forma, ma non è cosa eterna, vien dall'interno, dal centro, e ritorna al centro. Questa aureola Aristotele la vede, ma finisce per separarla anche lui, come Platone, dal suo soggetto: ne fa un soggetto senza figura, e al soggetto che ha la figura, lascia, in luogo della forma, la specie. «Con questa carne e quest'ossa qui, Socrate, e con quest'altra, Callia»: e che Socrate e Callia siano ciascuno una forma e non una materia più la specie, non lo vede. L'individuo resta perciò contingente e, al pari di Edipo, è figlio della tyche. E, come gli individui sono la storia, la storia è il regno della tyche. Dove non c'è tyche, non c'è storia: nei cieli, il cui moto ha l'immobilità dell'identico; al di là dei cieli, dove la forma è un'attività pura, il nudo e astratto intelletto del motore non mosso; nell'intelletto dell'uomo, che, se è paradossalmente più determinato di quello divino, perché, oltre che vedere se stesso, vede le forme e riflette il mondo, non ha, se pure l'ha, altra differenza che non sia di numero. Ed è nell'ozio contemplativo di questo intelletto, lungi ai tumulti della storia e alla fatica dell'azione, che Aristotele, concludendo in maniera analoga a quella d'Epicuro, invita l'uomo a rinchiudersi. L'intelletto è l'ultimo olimpo delle forme, luminose sì ma esangui, perché separate dai corpi e non più sostanze, come un tempo le aveva ancora viste Platone, forme che non muovono l'eros e per cui non s'impegna la vita. Quando 51
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Aristotele venne accusato d'empietà, si sottrasse al processo rifugiandosi a Calcide. Lo faceva, disse, per non dare agli Ateniesi l'occasione di peccare una seconda volta contro la filosofia. Fuori dell'intelletto, nel mondo dei corpi, la forma è specie: una forma degradata e generica, sul vuoto fondo della quale i tratti dell'individuo sono segnati dal caso, l'evento con cui l'uomo già al suo nascere si scontra e nella cui sfera la sua vita si spiega. In essa l'intelletto non serve, egli deve ricorrere alla qpoóvnaic,, e cioè alla «prudenza», qualcosa che sta di mezzo tra l'assennatezza e l'astuzia e che lo schiavo maneggia meglio del re, l'uomo così detto pratico meglio del filosofo. Dovendo scegliere tra sapienza e prudenza, scrive nella sua Etica Aristotele, preparando Epicuro, è meglio mancar della prima che della seconda. Così la virtù è un compromesso, una media quantitativa fra due eccessi: il giusto mezzo; di cui è difficile trovare la misura, perché quando è giusto per me, è ingiusto per te. Forma generica o specie più caso, e col caso la volontà, oscillante tra la Scilla del piacere e la Cariddi del dolore, fanno il carattere, l'fjéog, il complesso delle abitudini, col quale dalla specie si scende alla sottospecie, la veste variopinta e mutevole in cui si drappeggia la nudità della tyche. Di su questi elementi la poetica potete costruirla voi stessi: o una figura, che all'aureola della forma sostituisce la levigatezza e il luccicore d'una superficie: gl'inni di Callimaco; o la specie, che oscilla tra la necessità e la contingenza: l'universale costituito dal possibile secondo il necessario e il verosimile: un gioco di caratteri in una peripezia le cui fila sono tenute dal caso: la commedia nuova di Menandro. Commedia: perché, come la forma è degradata alla specie, l'evento è vuotato d'ogni valore nel concetto del caso, e il caso è una delle Muse del comico. Una commedia che, appunto per questo, non ride, sorride: perché è una commedia di mezze forme, così come l'evento è un mezzo evento. Se volete il riso che incendia il cielo e la terra, dovete andare da Aristofane: lì l'evento è un dio, è Dioniso-Fales, un dio cosmico, il dio della vita che vince, e il protagonista ha le dimensioni di un eroe; qui gli dèi non ci sono, e il protagonista è Davo, un servo. Sorride: benevola, e alle volte si vela di mestizia, perché sotto quelle mezze forme è l'io, un io che è il medesimo in tutti - homo sum\ - come eguale per tutti è l'evento fatto caso. Quell'io è figlio del nulla, come l'evento che lo denuda, e il nulla è la morte: il sorriso è temperato dalla simpatia: la philanthropia. La commedia di Menandro parve agli Alessandrini lo specchio 52
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della vita. Lo era: della loro vita. Come lo è l'epigramma, che ne puntualizza i momenti nell'ovale d'un cammeo. Come lo è il mimo di Eroda, e, per una parte, l'idillio di Teocrito: per una parte, giacché nell'altra egli aveva ritrovato nei pastori della Sicilia l'antica anima mediterranea, quella che ci stupisce e c'incanta nelle pitture di Cnosso e di Hagia Triada. Virgilio, tra le foschie e gli acquitrini del Mincio, ne rapirà la musica ma non i colori.
La forma non separata dal suo soggetto: gli dèi e gli eroi d'Omero, dell'Omero dell'Iliade, gli dèi e gli eroi di Pindaro, gli dèi e gli uomini di Fidia: «perché una è la stirpe degli uomini e degli dèi, e da una medesima madre è dato a entrambi il respiro». Che questi dèi siano delle forme eterne, è stato detto più volte, e lo avevano detto anche gli antichi, ed è stato anche detto che l'uomo, dai Greci che veneravano quegli dèi, era concepito come idea. Ma il significato di queste forme e il valore di questa idea sono rimasti generalmente allo stato d'intuizioni e la loro logica è in gran parte da costruire. Quel che s'è fatto finora - e l'opera classica, sotto questo rispetto, son Gli dèi della Grecia di W. Fr. Otto - è inficiato da un duplice difetto. Primo, dimenticando che gli dèi esistono solo nella rappresentazione degli uomini, e che questa è di volta in volta diversa, non solo a seconda delle età e dei soggetti, ma, nello stesso soggetto, a seconda della situazione in cui egli si trova, si è costruita una teologia delle singole figure divine, che lo storico rifiuta e dalla quale il filosofo trae poca utilità. In secondo luogo, oltre la forma c'è l'evento: ne è l'ombra non appena questa si muove, e nessuna divinità è interamente una divinità della forma, neanche Apollo, in cui se n'è vista l'espressione più alta: come dio che porta la morte e risanatore, come dio della mantica, è dio dell'evento: e se della logica della forma si hanno, almeno in parte, i principi, quella dell'evento è ancora tutta da indagare. Ma - e questo è il punto ed è capitale forma ed evento vanno considerate come pure e semplici categorie, e come categorie fenomenologiche e non ontologiche - che si farebbe della metafisica a vuoto, - come categorie cioè da articolare solo sulla base del fenomeno, e però sul terreno della storia, nella sfera degli atteggiamenti e delle situazioni che in esse si riflettono. Sotto questo aspetto, la storia degli dèi della Grecia coincide e s'identifica con la storia della religiosità dei Greci, che è poi la storia di tutto lo spirito greco: storia che va, di secolo in secolo, indagata e ricostruita di sulle opere in cui quello spirito di volta in volta si espresse, perché
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solo in queste opere noi possiamo ritrovare la loro esperienza vissuta nella forma ch'essa ebbe nell'attimo e che è la sola significativa e reale: una storia in cui la filologia e l'analisi letteraria, l'indagine dei fatti politici e lo studio dei monumenti, la filosofia e la scienza delle religioni devono collaborare e convergere in un unico processo d'analisi e di sintesi. I termini prefissi a questo discorso mi vietano di trattare, anche sommariamente, le posizioni attraverso le quali lo spirito greco, sotto l'azione di queste due categorie, da Omero a Socrate si svolse. Ne delineerò i principi, avvertendo che le generalizzazioni a cui farò ricorso, vanno intese nella loro funzione di limite, come quelle che, mirando a chiarire il concetto, devono necessariamente lasciare in ombra tutto il complesso delle differenze nelle quali l'individuale storico si determina e si muove. Forma e molteplicità vanno insieme: dove c'è una forma, non v'è nessuna ragione che non ce ne sia un'altra, anche se è identica. L'esempio più significativo ci è offerto da Aristotele, il quale, dopo avere, in base al principio d'individuazione, da lui riposto nella materia, dimostrata l'unicità del primo motore, comprendendo che una tale dimostrazione lo impegnava solo fino a che la forma era considerata come specie e non quando essa era sostanza, moltiplicò il numero dei motori immobili per quello delle sfere. Gli dèi della forma sono molti e, in ragione del limite che ogni forma comporta, non possono che essere molti. All'unità del divino non si arriva che di sulla logica dell'evento. Ce ne han data la prova le opposte teologie degli Epicurei e degli Stoici. Per Epicuro gli dèi sono forme e sono molti, anzi infiniti, come infiniti sono i mondi; per gli Stoici, che operano con la categoria dell'evento, il mondo è uno e uno è Dio: i primi, passati al vaglio aristotelico della sostanza - Cicerone diceva dell'idea di Platone, - hanno un'unica forma, l'altro ne ha mille, quanti sono gli eventi che ne celebrano l'epifania. L'opposizione che è fra queste due teologie, è, nell'età di cui riflessero il sentimento, tra la fede tradizionale e la nuova, che, nel mutato atteggiamento degli spiriti, la viene gradatamente sostituendo. In termini analoghi, ma con moto inverso, la troviamo alle origini tra il polisimbolismo in lato senso unitario della religione mediterranea e il pluralismo olimpico di quella dei Greci. La prima è per intero dominata dalla logica dell'evento: le forme sono molteplici, ma, significative d'altro da quel che la loro figura rappresenta, hanno funzione solo evocativa e simbolica. Al centro, come nella religione dei Misteri, è una dea, una madre, «dai molti nomi», come dice 54
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Eschilo della Terra, «e dall'unica essenza», dea della vita e della morte, signora o potnia dei monti e delle acque, delle fiere e delle piante, oracolare e maga, tutelare e guerriera, le cui rappresentazioni, dalla sfera umana, in cui ella ha la sua forma prima e più significativa, a quella animale e vegetale e delle cose inanimate, mutano col mutare delle idee che nelle sue metamorfosi ella adombra, e delle sue sfere d'azione. Accanto, ma in posizione subordinata, quale è richiesta dalla sua originaria androginia, ella ha normalmente un paredro, anch'esso polimorfo e variamente simboleggiato, soggetto al ciclo della nascita e della morte, e a volta a volta figlio, fratello e amante. Ella stessa riunisce in sé i principi della permanenza e della caducità nella duplice figura della madre e della figlia, perpetuate in età storica nelle due dee di Eleusi. Intorno, in figure ibride di dèmoni, è la folla delle forze che si sottraggono ai grandi ritmi del mondo, e alle quali ella sovrasta. Sotto lo sguardo dei Greci questo mondo fluido ed ambiguo di concetti trasposti e di simboli si scinde e si fissa nella singolarità univoca delle figure: i sensi traslati cadono, la molteplicità delle rappresentazioni si fa molteplicità di sostanze. Per la prima volta le cose escono dalla sfera magica dell'evento, s'elevano dalla dispersione e dall'instabilità degli accidenti all'unità immobile dell'essere, riducono intera alla superficie visibile la loro essenza invisibile. E il mondo delle forme che sorge, e con esse appare per la prima volta lo spazio, separato dal tempo, nel cui flusso l'evento lo trascina e col quale l'esperienza esistenziale e la mentalità primitiva lo confondono, lo spazio come limite della forma che lo crea, e fuori della quale esso è nulla, quello che noi conosciamo dall'arte greca e che sarà definito da Aristotele, lo spazio «in cui il mondo», come egli dice, «è quanto alle sue parti e non è quanto al tutto», laddove per gli Stoici è esterno al mondo ed è definito dall'evento. La realtà è esorcizzata; la trama delle relazioni simpatetiche, sulle quali opera il magico, si rompe, i regni della natura si dividono, i movimenti e le forze rientrano nei limiti delle grandezze: non più azioni a distanza, non più metamorfosi: le potenze abbandonano la sfera delle cose visibili, che s'apre al dominio dell'uomo, discendono nelle profondità della terra, negli abissi del mare: dal ciclo delle epifanie dell'evento si staccano gli dèi della forma. Sono tutti antropomorfi, ma immuni da vecchiezza e da morte, fermi in un'età senza tempo: l'aureola che chiude la figura dell'uomo fatta sostanza e proiettata nell'eterno. Nella sfera dell'eterno s'inalza la montagna ch'era stata della Potnia e dei suoi teriomorfi paredri; 55
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per i Greci che venivano dalla Tessaglia, l'Olimpo; «dove dicono» come canta Omero - «sia la sede sempre salda degli dèi, né i venti la scuotono, né la pioggia la bagna, né vi si accumula neve, ma una serenità senza nubi l'avvolge, e bianca la luce, YaXy\r\, v'è sopra». Ma non è luce di sole, è la luce che Plotino proclamerà inseparabile dalla forma, la visibilità che ne costituisce l'essenza, la luce della plastica greca, interna alla forma. Fuori del tempo, essi lasciano fuori di sé l'evento, che o si isola nella vuota e prepostera necessità propria della moira che ad essi vien contrapposta, o si perde nella generica e impersonale rappresentazione di un daimon senza figura. Ciò che è nella logica del principio a cui essi devono la loro origine, e tutta la metafisica d'Aristotele è lì a darcene la prova: perché, se la cosa è la «cosa veduta», e cioè forma, gli accidenti cadono inevitabilmente fuori della sostanza, e all'evento non resta che la sola necessità del fatto, quale è espressa dalla tyche. Non per altro i motori d'Aristotele sono immobili e gli dèi d'Epicuro oziosi. E oziosi sono anche questi dèi. Affrancati, infatti, dalla necessità che è nelle cose, se operano, è per il loro piacere. In essi per la prima volta l'uomo contempla l'azione pura, che ha il fine in se stessa, che ritorna a se stessa ed è gioco, quella che i Greci esalteranno nei loro incontri agonali, e che Aristotele, come energeia pura, proclamerà sola propria della forma, l'azione in cui l'uomo è libero, e che sola guida alla scienza. Nel pieno possesso di se medesimi, immuni da fatiche e da cure «godono tutti i giorni», sono gli dèi «dalla facile vita», «i beati» per eccellenza, come per eccellenza sono «gl'immortali» e «i celesti». Su tutti domina Zeus, ma è un dominio che è diverso da quello della Potnia, perché è il dominio d'una forma e non d'una potenza, fondato sulla forza visibile ed esterna, e non su quella interna e invisibile; ed è un dominio sempre contrastato e quasi sempre di nome, perché le forme sono assolute e l'escludono, ed esso è un residuo della logica dell'evento: quando le forme gli verranno interamente subordinate, non saranno più forme, ma eventi, e Zeus non avrà più figura. Zeus, un dio, e non una dea: ed anche questo è nella logica della forma: perché l'evento, che non è se non in quanto e nell'atto in cui è generato, chiama l'idea della madre ed è femminile, ma la forma, che è la sola che è ed è per sé, è essenzialmente virile. Atena, una delle rappresentazioni della Potnia, e di cui la tradizione conosceva pure una maternità, passata nella sfera degli Olimpii, diventa per eccellenza la Vergine ed è fatta nascere dalla testa di Zeus. Dioniso, al contrario, l'eterno dio figlio, è sempre in mezzo alle donne ed è esso stesso femmineo. In tutte le 56
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religioni del tipo agrario, e quindi dell'evento, la prima e più antica raffigurazione della divinità è femminile. Non senza ragione la fonte di tutti gli oracoli è la Terra e Themis è sua figlia. È la maestà della forma che Apollo ed Atena difendono contro le Erinni, vendicatrici della maternità e dell'evento nelle Ewnenidi di Eschilo. La civiltà greca, fin che terrà fede alle forme, sarà virile ed esalterà la bellezza nella figura dell'uomo, che rappresenterà nuda nel dio e nell'efebo, riducendo al minimo i segni del sesso, ma la fanciulla e la dea le farà velate. Solo l'età ellenistica tornerà alla dea nuda del neolitico e del paleolitico superiore e nella vita come nell'arte sarà dominata dal femmineo, l'età ellenistica che è l'età dell'evento. Se l'opposizione tra il mondo unitario dell'evento e quello pluralistico della forma è, nell'analogia dei suoi termini e con moto inverso, la medesima alle origini come nell'ultima età greca, il processo d'unificazione, che in questa ha il suo compimento, trova la sua corrispondenza nella rivoluzione religiosa del vi secolo, che, come nell'età ellenistica, coincide con la rivoluzione politica. Nell'una e nell'altra età concorrono la speculazione dei filosofi e la superstizione delle plebi. E come nella seconda l'idea che guida il moto è rappresentata dall'evento nelle forme della tyche e deW'heimarmene e delle divinità dei Misteri, così nella prima alla tyche-dea corrisponde la tyche degli dèi, all'heimarmene, che è insieme ragione e legge, la moira, che è provvidenza e giustizia, alle dee madri Demetra, al dio che nasce e muore Dionisio. Ed è Dionisio che irrompe nel mondo delle forme e le sconvolge, un Dio che ha il simbolo in una maschera cava: la forma vuota e precaria che l'evento riveste nei suoi mutevoli aspetti. Dalle campagne, dove lo avevano relegato i signori, egli entra impetuoso nelle città e vi s'insedia, trascina su un palco, davanti all'orchestra, dove danzano i suoi capri, gli eroi d'Omero, li spoglia dei loro ammanti regali, strappa a ciascuno il suo volto e ne fa una maschera, sotto quella maschera mostra nudo l'uomo, l'uomo che è in tutti, insegna che esso è nulla. La tragedia: la rivoluzione dell'età dei tiranni. E il medesimo Dioniso, nella figura di Fales, prende l'uomo della gleba, lo trae ebbro nel corteggio dei suoi itifalli, lo sfrena nel tripudio estatico del comos, gli fa conoscere, dalle ferine alle umane, tutte le forme sotto le quali l'evento esalta la forza della vita nel mondo, ne fa un trionfatore, il rappresentante di essa stessa questa forza nella sua espressione più originale e più bassa, il ventre e il sesso, lo inalza a simbolo della vita che vince, gli dà nel motto scurrile, nell'invettiva sfrontata l'arma che lo affranca, gli fa toccare 57
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nel riso il vertice opposto a quello che aveva fatto toccare nel pianto all'eroe. La commedia: la rivoluzione dell'età del popolo.
Divinità elleniche della forma e preelleniche dell'evento dividono, entro termini dati e come limiti ai quali l'ispirazione del poeta oscillando converge, i due poemi di Omero. Nell'uno e nell'altro la divinità suprema è la stessa, Zeus - sono i poemi della nobiltà achea: - ma nell'Iliade è sotto l'impero della forma ed è in generale distinto dall'evento, nell'Odissea è per intero divinità dell'evento e ne intravediamo appena la forma. Così la moira, nell'Odissea, è sempre la moira degli dèi, laddove nell'Iliade, tranne che nel xxiv canto, che segna il passaggio dal mondo dell'uno a quello dell'altro poema, è al di fuori di essi o ad essi contrapposta. E mentre nell'Iliade le divinità dominanti sono maschili, nell'Odissea sono femminili, e l'azione è guidata da una dea, da Atena: l'antica dea del palazzo e tutelare del re, la dea che in età storica sarà tutelare della polis, la cui ultima trasformazione è, in età ellenistica, la «tyche del re», e nella città stessa che portava il suo nome, la «Buona tyche», a cui, al tempo di Licurgo, andava una parte delle offerte che fino allora ella aveva godute da sola. L'eroe dell'Iliade è un eroe della forma e, come tale, della forza. Perché tra forma e forma non possono esservi altri rapporti che di forza: la forma è un assoluto che esclude la mediazione. Rapporti di forza, ma questa forza non è la forza bruta, che ha il principio ed il fine fuori di sé, come tutte le forze che sono nella natura, e rientra nell'evento, è la forza dell'azione che ha il suo fine in se stessa, la forza che è propria della forma. Che, se nei suoi effetti è materiale quanto l'altra, ed è pia, nel principio da cui promana, è Kodxoc, ed è maiestas. Kratos e Bia sono in Esiodo paredri di Zeus e nel Prometeo di Eschilo i suoi ministri. Come espressione della superiorità individuale e per la dignità che le è conferita dalla forma, questa forza è àoerfj, eccellenza o virtù, ed ha compagna la gloria, il xXeog, in cui si riflette e permane, anche se nello scontro con l'evento soggiace: perché la forma è assoluta ed è indifferente all'evento. Perciò Pindaro vuole ch'essa sia onorata nell'avversario ed Omero la onora nel vinto. Di qui il carattere agonistico delle guerre arcaiche e il significato che i ludi ebbero per i Greci. Facendo seguire alla morte di Ettore i Ludi in onore di Patroclo, Omero rivelò in essi l'essenza di quella guerra, quale era intesa dagli Achei, e ci diede una delle chiavi del suo 58
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poema. E se il Riscatto ne dà la catarsi nella logica dell'evento, i Ludi ce la danno nella logica della forma. Perché la catarsi è duplice: l'una è dionisiaca, e, svelando all'uomo l'inanità delle forme e l'insuperabilità dell'evento, lo riconduce dalle contraddizioni e dalle limitazioni del molteplice alla quiete indifferenziata e infinita dell'uno; l'altra è apollinea, ed, elevando le forme alla puntualità dell'eterno, le sottrae al tempo e proclama la nullità dell'evento: la prima è tragica, la seconda è epica. Euripide le opporrà l'una all'altra nelle Baccanti e nell'Ifigenia in Aulide; Tucidide concluderà nella seconda «l'alta tragedia» dell'impero d'Atene. - Se l'eroe dell'Iliade'è un eroe della forma e però della forza, l'eroe dell'Odissea è un eroe dell'evento^, come tale, dell'intelligenza: perché la forma è immediabile, ma l'evento è tutto nella mediazione. Ed anche qui bisogna distinguere, perché, come la forza della forma è nel suo principio kratos e non bia, così questa intelligenza è nfjxic, e non vóog, un'intelligenza che calcola, non contempla, e non è inattiva, ma fa: non ha altro fine che il fare. E l'intelligenza che più tardi sarà detta ooqpia e (poóvr|aig, c]a)veaic; e yvcófit], che Aristotele definirà, in opposizione all'intelletto e alla scienza, come facoltà del calcolo o raziocinio, e chiamerà xò A.OYLOXLXÓV, riprendendo, senza saperlo, nel nome l'idea a cui l'etimologia di metis rimanda, e che è quella di misurare. E come il raziocinio, quale comune principio dell'attività pratica e poietica, si specifica nella «prudenza» o (poóvriaic, e nell'«arte» o xé/vr] - che non è l'arte quale l'intendiamo noi, che dai Greci è detta «musica» e rientra nella forma, ma la tecnica, - e la prudenza, a sua volta, cade sotto il medesimo genere della JiavovoyCa o furberia, altrettanto è della metis, ed Ulisse che ne è l'-eroe, è insieme prudente, furbo, ed artefice. E innanzi tutto, quanto alla prudenza, egli è A l i fifjxiv àxaXavxog, «pari a Zeus nella metis», ma in più - quel che Zeus, come vedremo, non è mai - è JtoX/U[AT|Xic,, «dalla metis molteplice», e, in quanto tale, per una parte, è JtoixiXourjxT]g, «d'una metis che muta sempre di colore», e, per l'altra, Jto?aj[if]xavoc,, «ricco d'espedienti», e cioè di xé%vr\. Quando si presenta ad Alcinoo, la prima cosa ch'egli menziona, sono i suoi inganni: per uno dei suoi inganni e non per la sua aretè è jrcoA.iJiOQdog, «eversore di città». Quanto alle arti, non c'è arma od arnese ch'egli non maneggi, e sa fare di tutto, dalla zattera sulla quale parte dall'isola di Calipso, al letto in cui dorme. Una sola cosa non sa fare, cantare sulla cetra come Achille i yXéa àvòocov, le gesta degli eroi: e non per mancanza di metis, ma 59
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perché, feconda inventrice di «arti», la metis è sterile all'arte. Fra tutti gli epiteti delle Muse, non ne trovate uno che la ricordi: le Muse vogliono la mente che contempla, non quella che calcola: la lira la inventa Ermete, ma la suona Apollo. Ulisse non contempla: per non cadere vittima della «malia» delle Sirene, le quali pure non cantano che gesta di eroi, si fa legare all'albero della nave, e se non si chiude gli orecchi con la cera, lo fa per la philomathia che è propria della metis, e non per amore della theoria. Il canto, che è estraneo al suo essere, non può agire su di lui che come forza esterna di potenze demoniche, e quando ode cantare le sue gesta, il suo xXéog, piange. Piange, perché nel suo mondo le forme non sono che aspetti dell'evento, e la gloria è un'illusione, unica realtà è il «dolore»: egli è appunto colui che «soffrì molti dolori», e li narra, non li canta. Li narra, uno dopo l'altro, nell'ordine del tempo: - «quale io narrerò per primo, quale per ultimo?» Perché gli eventi sono nel tempo e si legano l'uno all'altro e fanno catena, e solo le forme si isolano e sono fuori del tempo: lo stile narrativo e continuo dell'arte orientale e più tardi romana e quello contemplativo e discreto dell'arte greca: e già nello stesso Omero, lo staccato dell'Iliade e il legato dell'Odissea. La metis intelligenza dell'evento. Guardatela negli dèi: l'hanno in proprio: Crono, Prometeo, Efesto, Atena, Ermete, tutte divinità che, o per le origini o nella funzione, appartengono alla sfera dell'evento. In Crono, àynvXo[if\Tr\q, è furbesca; in Efesto zoppo e ambidestro, JtoX/uuriTig e xÀAJTOTéxvrig, che con due mani fa quello che non fanno le cento degli Ecatonchiri e così sciancato e «tardo prende il velocissimo Ares», è tecnica; tecnica insieme e prudente nella jtOA/uu.nTig Atena, che, attraverso Zeus, ne è la figlia diretta, e la cui polymetia, come dice un poeta del v secolo, ov'ella non avesse le mani, non sarebbe nulla: per eccellenza furbesca e all'occasione anche tecnica in Ermete, che, come Ulisse, è Jto?u)TQOJtog e òo^O(xfÌTng, il dio di tutte le strade e di tutte le sorprese, ciurmatore e ladro; ma in Prometeo, che ne assomma tutte le specie, è prudente e furbesca e tecnica. Non basta. Come il kratos della forma sta alla bia dell'evento, e il noos alla metis, così la metis la trovate associata alla bia nei Ciclopi, che al «vigore e alla violenza» congiungono «la (inxavf) nelle opere»: di uno di essi, di Bronte, prima che di Zeus, è sposa la dea che ne porta il nome. Diretti figli di Urano e di Gaia, che fu la prima a meditare contro la «violenza» dello sposo «un'arte di frode», i Ciclopi hanno come immediati fratelli gli Ecatonchiri, che, c o n le loro cento mani e le loro cinquanta teste, non sono che pura e stolida bia.
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È a questa stolida bia degli Ecatonchiri che Zeus deve ricorrere per potere trionfare sui Titani, ma non lo fa di propria iniziativa, sì dietro «consiglio» di Gaia. Perché egli la metis non ce l'ha fin dall'origine, l'acquista dopo, quando, divenuto re, sposa ed ingoia l'omonima figlia di Oceano. Ed anche qui i nomi sono parlanti: questa Metis ha come immediate sorelle Eurynome e Telesto, che è come dire Imperium ed Auctoritas, attributi che col Consilium sono inseparabili dalla regalità e la definiscono. E però Zeus, se è per eccellenza (JITJTLETCI, lo è solo per il consilium, per la $ov\i\, e cioè in quanto è re e per quel tanto che, come divinità suprema, è dio dell'evento. Ma non è mai nokv^xvo, e ancor meno àyy.vko\n\Tr\c,, come è Crono, come è Prometeo. E se Prometeo, nella sua polymetia, le sa tutte, Jidvxwv J I Ì Q I urjòea e.tòoóg, egli sa solo le cose immortali, aqrihxa UTÌÒECX etòcòg, quelle che sono fuori del tempo, e che, sottratte all'evento, sono immutabili ed une: che è il sapere della forma, l'unico che Aristotele lascerà al suo immobile Intelletto: un sapere che è puramente teoretico, laddove quello del Logos degli Stoici è insieme pratico e tecnico. Volete vederlo in tutta la sua maestà questo Zeus della forma? Guardatelo quando se ne sta sulla cima dell'Ida e contempla, senza intervenire, «la città dei Troiani e le navi degli Achei, e il lampo del bronzo e quelli che uccidono e quelli che cadono, xxJòei yaiwv, superbo della sua gloria». Di qui si spiega perché, invincibile nella forza, ch'egli possiede nella duplice specie della bia e del kratos - il suo scettro e il suo fulmine, - e sulla quale fonda il suo dominio, sia così esposto alle insidie della intelligenza e cada tanto facilmente vittima delle seduzioni e degli inganni, ch'egli odia, come odia le arti, che mutano la forma delle cose, e perché, a malgrado del suo «consiglio», sia nell'Iliade tante volte distinto dalla moira e impotente contro di essa. A questo Zeus guardò il genio di Eschilo nel suo Prometeo, e quanto s'è detto, ne scioglie il nodo. Da un lato la forza in tutta la maestà che le è conferita dalla forma, dall'altra l'intelligenza in tutta la varietà e molteplicità che è propria dell'evento. È l'intelligenza che Eschilo aveva sentito esaltare da Anassagora, indagatore di meteore, di Xa(XJtdÒ8g Jieòdooot, come egli dice in un luogo non ancora inteso delle Coefore, da Anassagora, che nell'intelligenza completata dalle mani, nel tempo e nell'evento, ridotto alla nudità della tyche, aveva indicato i tre elementi del progresso dell'uomo, «la più terribile fra quante cose terribili hanno il mare e la terra e gli spazi che son tra la terra e il cielo». Ma come la forza di Zeus è ignara e 61
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deve sottostare all'evento, così l'intelligenza di Prometeo, figlio di Gaia-Themis custode di tutti gli eventi, è imbelle e deve sottostare alla fòrza. Alla fine si agalleranno, ma Zeus sarà superiore a Prometeo, che nell'anello e nella corona di salice porterà i segni dell'antica pena. Perché Eschilo è una marathonomacho e, come Achille, ha il cuore di leone, ed ha gli occhi di Achille, e al di sopra della giustizia dell'evento crede, come ci crede Pericle, come ci crederà Tucidide, alla giustizia della forma. Quanto la metis è necessaria ad Ulisse, tanto è inutile ad Achille, perché egli non agisce mai in vista dell'evento, e l'azione nasce in lui non dalla riflessione, ma dalla passione: dall'ira, Tunica delle passioni che sia propria della forma, l'ira che Aristotele difende e gli Stoici combattono. Se l'azione della forma è di forza, il suo principio non può essere che una fòrza. Ma come questa forza non è k forza selvaggia dell'evento, ma quella cosciente di sé e in sé raccolta della forma, così anche è dell'ira che la muove. Perciò la misura la trova da se stessa: Achille, quando sta per trarre la spada contro Agamennone, s'arresta: il Poeta fa intervenire Atena, ma Atena non è che Varetè stessa d'Achille fatta dea. Una sola volta l'ira di Achille straripa, ed è contro Ettore; ma è stato ferito nell'amore e l'amore è una delle forze cosmogoniche dell'evento. Ed è qui che VIliade trapassa dall'epopea alla tragedia. All'ira d'Achille fa riscontro la pazienza di Ulisse, JtoXurXag così come è JIO)OJ|ITITIS. Non c'è caso che s'adiri, ma non per questo rinunzia alla vendetta: anzi solo la sua è vendetta, Tioig, nel senso mediterraneo della parola, meditata e fredda, spietata; mentre Achille agisce nell'impeto e nel calore della passione, e alla fine si lascia placare e piange con Priamo sul nulla che è l'uomo. E mentre la vendetta d'Achille sottostà alle leggi della forma, ed è un duello, un agone, ad armi pari, che egli affronta sapendo che, vittoria o sconfìtta, ci rimette la vita, quella d'Ulisse è tramata coli'inganno, un inganno che è fornito da un agone; e non è un duello, è una strage, ch'egli attua solo quando ha predisposto ogni cosa ed è sicuro, con l'aiuto d'Atena, di trarne salva la vita. E fatto anch'esso significativo, Achille combatte «a lancia e spada», che sono le armi òeRaretè, ma Ulisse i Proci li uccide con l'arco, l'arma dell'insidia e dell'ombra, che non ha bisogno di aretè, l'arma che colpisce rapida e invisibile come l'evento, l'arma che i Greci lasciarono al loro Apollo asiatico e alla sua sorella Artemide, nella loro qualità di «apportatori di morte», ma tennero sempre a vile e considerarono barbara. Ilio è presa con l'inganno e con l'arco, perché la sua distruzione è voluta 62
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dalla moira e non può essere opera deWaretè. E l'arco è quello di Eracle, anch'egli, come Ulisse, preellenico ed eroe dell'evento, ma eroe della bia e non della metis: perciò, prima ancora dell'arco, egli adopera la clava, e le mani «inaccostabili», come quelle dei figli di Gaia. Separata dal kratos e senza il sostegno della metis, questa bia non può essere che serva o cieca, ed Eracle tutta la vita è condannato a servire, e quando non serve, impazza: paziente e folle, così come Ulisse è paziente e saggio. I Cinici e gli Stoici ne faranno un eroe del dovere, ma l'eroe di Aristotele greco è Achille. Eroe della metis, Ulisse è anche per eccellenza eloquente. Non è l'eloquenza di Nestore, evocatore di «glorie», che esorta con gli esempi e si oblia nei ricordi, AiyCc,, «canoro» - e il termine è tecnico - come sono «canore» le Muse, figlie della Memoria, e la cui parola, come quella delle Muse, è «dolce» della dolcezza vera e non mescolata del «miele», sì l'eloquenza che è volta tutta al presente e mira solo all'evento, e, come l'evento, è ambigua e «cangia di colore», avvolgente e soffice «come la neve», 1AE1A.IXII] e XEQÒaXé'n, «benigna in vista e subdolamente intesa al proprio vantaggio», che contraffa il canto delle Muse, dal cui coro è sbandita, e da esso toglie i colori, come il falso li toglie dal vero, l'eloquenza che ha il suo patrono in Ermete, e, come Ermete, ammalia e si trae dietro le anime. È ciò che Achille più odia, ed ha «nemico come le porte dell'Ade chi altro dice ed altro ha nella mente», e non in omaggio a un principio etico, ma obbedendo alla logica della sua natura. Perché, se l'evento è sempre altro da quel che appare, la forma, in cui essere ed esser visto coincidono, è tutta alla superficie, su un unico piano: la frontalità e la «veduta unica» della plastica arcaica e classica. Achille lo vedete sempre di fronte, «quadrato», come le statue del Canone di Policleto, ma Ulisse sempre di sbieco, nokvjiXoxog, «tutto scorci e spire», come il polipo della brocchetta minoica di Gurnià e della similitudine di Teognide: JtoXxJJiXoxog e JioXtJTQOJrog, mobile e presente per tutti i trecentosessanta gradi del cerchio, nelle quattro dimensioni che riappariranno con Lisippo nell'età ellenistica, quando la forma cederà all'evento, e lo spazio, di nuovo fatto esterno, si fonderà ancora col tempo, e venera d'ombre la luce. E però, mentre Achille, ellenico, è essenzialmente scultoreo, e dà il nome alle statue degli efebi che d'età in età ne perpetuano l'immagine, Ulisse, mediterraneo, è naturalmente pittorico, e più che nel rotante Ulisse Grimani di Venezia - una delle rare statue che di lui furon fatte - , noi dobbiamo guardarlo nelle pitture dell'Esquilino, pitture romane e non più greche, illusionistiche, dove le forme si
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sfanno della loro sostanza nell'accidentalità dello spazio, uno spazio aperto, che dà ad ogni punto la labilità dell'istante. Spazio e tempo, luce e ombra, nell'unità dialettica del continuo; colore, l'illusoria visibilità del continuo, nell'atmosfera liquida e inquieta di cui si avvolge l'evento, e nella quale ogni apparizione è possibile, ogni miracolo è reale: metamorfosi e magia. È l'atmosfera in cui Ulisse si muove, l'atmosfera in cui vivono i mostri ch'egli combatte, le dee dalle magiche seduzioni delle quali si difende, i Feaci traghettatori non sai se d'uomini o di anime, l'atmosfera ch'egli crea al suo arrivo nella sua isola e intorno alla sua casa profanata. E però assume tutte le forme, come il Proteo del suo mare, a cui è dischiuso il segreto di tutti gli eventi, e, come l'Atena che lo guida, è sempre travestito, e sopporta sotto le spoglie di un mendicante le risa e le percosse dei Proci. Ad Achille, invece, nessuna trasformazione è possibile, perché lo spazio ch'egli si porta dentro, è immobile e fuori del tempo, e la luce ch'è nella sua figura, è indivisa. Egli non ha perciò che una forma, come i suoi dèi, e mai, neanche a prezzo della morte, accetterebbe di vestire i cenci di Tersite. Ma Achille muore giovane, perché la forma, nell'urto con l'evento, non potendosi mutare né piegare, si spezza: Ulisse, mutabile e pieghevole, segue le spire dell'evento, e la morte lo coglie da vecchio. E le due morti sono anch'esse opposte come le due vite e conformi alla logica dei principi ai quali queste obbediscono, perché Achille va incontro alla morte vedendola e liberamente l'elegge, e Ulisse è ucciso per errore dal figlio Telegono, il «nato in terra lontana», che egli non conosce.
"Achille ed Ulisse sono le due anime della Grecia, e la storia dei Greci è la storia di queste due anime. Tutt'e due convergono e si sublimano in Socrate. Socrate ha l'intelligenza d'Ulisse e la forza d'Achille, ma muore come Achille, accettando cosciente la morte e guardandola in faccia, per non venir meno alla forma; ad Achille egli pensa davanti ai giudici che lo condannano. Per Achille la forma era la sua figura mortale eternata dalla fama, la gloria, ch'egli contemplava cantando sulla cetra le gesta degli eroi, per Socrate la forma è la legge, i vóuoi della sua patria. Egli li vede entrare nel suo carcere angusto, nel momento solenne della prova, li vede non come immagini di concetti elaborati dalla ragione, ma come essenze reali, come creature di carne, di una carne transustanziata di luce, nell'aiYXT) che avvolge le forme, così come Achille aveva visto i suoi 64
FORMA E D EVENTO
dèi, coi medesimi occhi, incomunicabili, gli occhi che tra i suoi discepoli avrà solo Platone. _ Per la forma, come Achille, già prima di Socrate, erano morte sulla scena le eroine di Euripide, il poeta sotto il cui sguardo la moira s'era svuotata nella tyche, e che aveva visto nell'etere sparire gli dèi della forma. Ma la forma era nel suo cuore, una forma che non aveva altra sostanza se non quella della sua poesia, una parvenza. Per questa parvenza muore Ifigenia, Ifigenia giovane, nell'età in cui si crede alle parvenze. Alla giovinezza il poeta già grigio aveva dedicato il suo canto più bello, alla giovinezza e alle Grazie, congiunte da indissolubile nodo con le Muse, le Muse che siedono custodi dei sepolcri, ed eternano nel canto, oltre il mare tempestoso degli eventi, la gloria della forma, nella notte della morte, l'aureola luminosa della forma. Nella notte della morte, che è pure la notte da cui si genera la vita. Esiodo la fa col fratello Èrebo figlia di Caos, e da lei e da Èrebo fa nascere Etere e Giorno. Al posto del Caos Plotino metterà l'Uno, da cui procede l'Intelletto, il mondo luminoso e trasparente delle forme, e in terzo grado, l'Anima, il mondo tenebroso e ambiguo degli eventi: l'Uno, che è al di là della forma e dell'evento, ineffabile, senza figura, di cui si può dire solo che è, immobile e senza pensiero, l'Essere che coincide col Nulla.
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Lettera a Pietro de Francisci pubblicata in «Giornale critico della filosofia italiana», fase, ni, luglio-settembre 1953, Firenze, Sansoni.
FORMA E D E V E N T O *
a Pietro de Francisci
Tu scrivi: «Nel campo religioso c'è un punto in cui i due momenti si collegano, ed è il rito, in quanto è forma per scongiurare o per provocare eventi: e lo stesso è nel diritto. Dobbiamo dare la preminenza agli eventi o ritenere primarie le forme? E queste non sono ritenute essenziali soprattutto nei periodi primitivi, proprio in quelli in cui l'umanità è sbigottita davanti alle potenze»? È il punto cruciale del problema, e tutto dipende dalla definizione delle due categorie. Ti dirò quello che, allo stato attuale della mia ricerca e sulla base dei risultati ai quali ero pervenuto con la prima, io credo di poterne pensare. Ma voglio ancora una volta ribadire quello che ho già affermato nel mio saggio, e cioè che a queste due categorie io do valore puramente fenomenologico. Noi facciamo della storia e non della metafisica. Che se ne possano e se ne debbano trarre delle conseguenze per la metafisica, è un altro discorso, ma non va fatto in questa sede. Cominciamo dall'evento. Evento è preso dal latino, e traduce, come spesso fa il latino, il greco tyche. Evento è perciò non quicquid eventi, ma id quod cuique eventi: ò t i yiYVVzai éxdaxcp, come scrive Filemone, ricalcando Aristotele. La differenza è capitale. Che piova, è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento:
* A proposito del saggio con lo stesso titolo pubblicato in questo «Giornale», 1952, p. 1.
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perché sia un evento, è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me. E però, se ogni evento si presenta alla coscienza come un accadimento, non ogni accadimento è un evento. Questa distinzione, universalmente fraintesa dai commentatori, è già in Aristotele, dove trattando delle tyche, che egli restringe alla sola sfera dell'uomo, afferma che non tutti gli accadimenti che escludono la necessità che è propria della natura e dell'arte sono ànò ivyy\z„ ma solo quelli dei quali l'uomo presume che debbano essere in vista del fine, che è come dire: accaduti per lui. Togli a questa definizione l'interpretazione dell'universo che è propria di Aristotele, ed avrai la tyche in tutte le accezioni ch'essa ha nella lingua e nell'esperienza dei Greci, e nelle quali essa appare ora come caso, ora come dea, ora come destino, e, nell'età più antica, come puntuale manifestazione del «divino», la xvyr\ ftedyv o èx xoi) fteio'u. Di evento dunque non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall'ambito stesso di questo soggetto. E, poiché è in codesto rapporto e da tale ambito che l'accadimento, venendo costituito in evento, si svela anche alla coscienza come vero e proprio accadimento, non solo gli accadimenti possono essere sentiti come eventi, ma anche quelle che chiamiamo «le cose», e cioè le forme che l'uomo si trova davanti, nell'atto in cui egli ne avverte l'esistenza come qualcosa che sia per lui e non per se stessa. Questo spiega l'indistinzione tra nome e verbo che, secondo i glottologi, avrebbe caratterizzato lo stadio più antico del linguaggio, e che noi di fatto troviamo in molte lingue primitive, e non solo primitive. La dottrina stoica che ripone l'essenza della proposizione nel verbo e considera il nome come cosa secondaria - laddove per Aristotele àvftooojtog Paòi^ei è uguale ad avfrooojtóg èaxi Paòi^oov, - ha la sua prima ragione nel sentimento linguistico di Zenone e Crisippo, ch'erano due semiti. Come id quod cuique èvenit l'evento è sempre hic et nunc. Non v'è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell'istante in cui l'avverto. Un fulmine ha colpito un albero nella notte, io lo vedo al mattino. Il fatto, ove sia per me un evento, non lo è se non in quanto Yevènit si fa attuale in un èvenit, e l'albero è non uno dei tanti punti dello spazio, ma Yhic nel quale io mi trovo. È noto che uno dei mezzi dei primitivi per sottrarsi all'evento è quello di ignorare volutamente e volutamente non guardare il luogo o la cosa dove è accaduto quello che per essi può costituire un evento. In forma attenuata ma pur sempre riconoscibile ciò si verifica anche per noi. 70
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Da quello che precede è chiaro che non sono Xhic et nunc che localizzano e temporalizzano l'evento, ma è l'evento che temporalizza il nunc e localizza Xhic. E Xhic è in conseguenza del nunc: perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata - e cioè dell'esistenza come esistenza vissuta - che l'evento emerge e s'impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che Xhic è avvertito e si svela. La distinzione che gli studiosi della mentalità primitiva fanno tra lo spazio e il tempo, che da essi vengono posti sul medesimo piano, è un errore. Nella mentalità primitiva, come è provato dai miti e dai riti, spazio e tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario. Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi sacri rinnovati dal rito che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita vissuta i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto quella data è attuale e si fa presente come evento. Solo per questo «le cose» possono essere sentite come eventi, e i nomi si confondono coi verbi. Ma sul piano obbiettivo della coscienza il rapporto si rovescia, perché solo lo spazio è rappresentabile. L'evento è sempre nella relazione di due termini: l'uno è il cuique come pura esistenzialità puntualizzata neXXhic et nunc, l'altro è la periferia spaziale-temporale da cui Xèvenit è sentito provenire, e della quale Xhic et nunc costituisce il centro. Il primo termine è finito, il secondo è infinito e come uhique et semper comprende tutto lo spazio e tutto il tempo: è in esso che ha sede il «divino». Questa relazione tra finito e infinito è sentita e non pensata, e solo come relazione sentita è reale, perché l'evento non s'intende se non nella sfera dell'esistenzialità, ed è al di qua di ogni pensiero cosciente. La prima definizione che noi possediamo di questa periferia fatta presente dall'evento e l'àjceiQOV Jieoiexov che Anassimandro identificava col «divino» e dal quale faceva «governare il tutto». Questo punto è della massima importanza. Vi sono eventi ed eventi, e ciascuno ha la sua dimensione e la sua direzione, ma tutti sono caratterizzati dall'avvertita e vissuta presenza déXapeiron periechon. Ciò è provato dall'esperienza, dalla fenomenologia della religione e da due fra i più tipici sistemi dell'evento, lo stoicismo, che ne esprime la massima chiusura, e l'esistenzialismo, in cui esso si presenta nella forma più aperta. Nell'esperienza: ciascuno sa che ogni evento, nell'atto in cui lo si vive, è, almeno per un istante, tutto quanto v'è d'evento nel mondo, e la sensazione che lo accompagna è, nell'ordine spaziale, quella dell'isolamento e del vuoto, e, nell'ordine 71
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temporale, quella d'una specie d'arresto in cui il tempo emerge e fa gorgo, e l'una cosa è inseparabile dall'altra. Per quanto riguarda la religione, considerandola alle s u e origini, è noto che il matta, se da un lato si presenta come determinato e particolare, dall'altro ha carattere d'universalità tale che a ragione s'è vista in esso adombrata la prima idea dell'unicità e della cosmicità del «divino» «Panthéistes et monistes» - scrive P. Saintyves {La force magique, 1914, p. 46, citato dal Van der Leeuw, La religion, p . 16) «sont les héritiers d'une tradition immémoriale». Ora, questa universalità, come universalità vissuta, non è altro che la vissuta infinità del periechon. Essa spiega come ogni luogo sacro sia sentito come centro del mondo, e come d'altra parte il mondo abbia per tutti i primitivi il suo centro in un luogo o in un oggetto sacro: l'albero, la montagna, il tempio, e così via. Di qui anche s'intende come ogni tempo sacro, rinnovando nel rito un evento prototipo, collocato alle «origini», in un tempo cioè, che è fuori del tempo e lo abbraccia intero - il così detto tempo del mito, - si ponga sul piano dell'eterno. Nel fatto, ed è cosa tante volte osservata, tutta la vita dei primitivi si svolge sul piano cosmico e dell'eternità. Dall'analisi strettamente strutturale che, nel corso da me tenuto quest'anno, io ho fatto dell'Ilìade, ho potuto assodare che, mentre la rappresentazione si svolge normalmente su un unico piano ed o ignora il tempo o lo dispone sulla linea retta, non appena l'azione si fa tragica, appare lo spazio esterno e il presente fa cerchio col passato e col futuro: tipico sotto questo riguardo è il libro x x n . Questo permette di spiegare il teatro. La scena non è nata da un'esigenza realistica, è essenziale all'azione, quale che sia la forma sotto cui è rappresentata, e senza di essa non v'è dramma. E come nel periechon spazio e tempo fanno uno e sono tutto lo spazio e tutto il tempo, così s'intende anche il fato, che le viete definizioni considerano costitutivo della tragedia. Ma periechon non v'è se non nel rapporto con Yhic et nunc. di qui le tre famose unità. Altro fatto rivelatomi dall'analisi del medesimo poema e che, mentre conferma il rapporto di cui parlo, ha valore di principio, è che nell'atto in cui una divinità è sentita come praesens numen passa da forma a potenza ed è tutto il «divino». Di qui si spiega ciò che è stato tante volte osservato e di cui s'è invano cercata la ragione, e cioè che, mentre il poeta sa qual è la divinità che di volta in volta interviene, per l'eroe essa è sempre genericamente il «divino» e vien designata dalle espressioni, freóc; freoi, òaiuxDV. Riprendendo alla luce di questo principio la teoria dell'Usener, possiamo affermare che YAugenblicksgott (meglio il singolare che il plurale) e i Sondergòtter non 72
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rispondono a due stadi dello sviluppo religioso, ma a due aspetti di un medesimo fenomeno: solo nel rito e nella preghiera il deus certus è tale, ma nell'istante in cui opera e si rivela come evento, esso è sempre numen ed è tutto quanto v'è di «divino» nel mondo. Questo permette d'intendere per intero la religione romana. Passando al piano del pensiero riflesso e della filosofia, come nello stoicismo ogni hic et nunc coincide sempre con Yubique et semper, così per l'esistenzialismo di Heidegger la prima «struttura» del Dasein è Yln-der-Welt-sein: un essere nel mondo che è al di qua di quella che noi chiamiamo coscienza, ed è inseparabile dalla «comprensione» che, il Dasein ha del suo Sein. Dasein è l'esistenza, e la definizione che Heidegger ne dà non s'intende se non riportandola all'evento. «Dasein - egli scrive {Sein und Zeit, p. 52) - ist Seiendes (il puro // degli Stoici, che è sempre hic et nunc), das sich in seinem Sein verstehend (il senso fondamentale dell'essere di cui parlava il Rosmini e che è stato ripreso nella Filosofia dell'Arte da Gentile) zu diesem Sein verhàlt». E precisa: «Dasein ist ferner Seiendes, das je ich selbst bin. Zum existierenden Dasein gehòrt di Jemeinigkeit» (l'essere sempre la mia esistenza, e che come tale è irrapresentabile). Concetto analogo aUTn-derWelt-sein di Heidegger è YUmgreifende col quale Jaspers ha ripreso il periechon di Anassimandro, e che è sempre un Umgreifendes vissuto, ed è sempre infinito. Il rapporto che è tra Vhic et nunc del cuique e Xuhique et semper del periechon, è dinamico e reciproco. Di qui ÌTneinander con cui il Cassirer caratterizza lo spazio e il tempo della mentalità primitiva o, come egli dice, del mito. Questo rende intelligibile ed ancora adoperabile il concetto di partecipazione del Lévy-Bruhl. In questo Ineinander le figure diventano precarie, le cose si disfanno della sostanzialità loro, tutto è fluido, l'uomo sente rotti i limiti ai quali nel proprio corpo si affidava, lo spazio esterno lo penetra, discopre e mette a nudo in lui qualcosa che è alle radici stesse del suo respiro, per cui egli non ha parola, perché non ne può avere la rappresentazione, lo sospende tra il nulla dell'istante che cade e il nulla di quello che ancora deve scoccare e della durata fa un gorgo in cui l'irreversibilità del tempo è abolita (cfr. Van der Leeuw, La religion, p. 379), e tutto è possibile. Ed ecco il thambos, Vhorror, la Scheu, di cui parla l'Otto, Yawe del Marett, e di contro il mana, Yorenda, il numen tremendum, Dio. La reazione dell'uomo a questa rottura del tempo e apertura dello spazio creatagli dentro e d'intorno dall'evento è di dare ad essi una struttura e, chiudendoli, dare norma all'evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa chiusura che in esse 73
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viene data allo spazio e al tempo del periechon, e la storia dell'umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che forme di chiusura. Il quadro di una civiltà primitiva è dato dal quadro spaziale-temporale in cui si collocano gli eventi. E quando gli antropologi dicono che lo spazio e il tempo dei primitivi sono sempre qualificati (ciò che del resto è per ciascuno di noi), questa qualificazione non è costituita da altro se non dalla posizione che in ciascuna regione dello spazio e per ciascuna divisione del tempo viene data agli eventi. Tutto ciò che non può venire collocato in un tale quadro, viene cacciato fuori dalla periferia, che normalmente coincide col territorio abitato, al di là della quale è il luogo delle forze incontrollabili e spesso dei morti. Di qui l'orrore che il primitivo ha di trovarsi fuori del proprio territorio e per tutto ciò che gli viene dall'esterno. E qui vengo alla tua domanda. Tutte queste chiusure non sono forme? E si deve dare la preminenza ad esse o agli eventi? La risposta mi sembra agevole. Se si guarda alla loro origine, è chiaro che la preminenza spetta all'evento. Se invece si considera la loro funzione, e che è in esse e per esse che la vita è possibile, queste forme non solo sono «essenziali» al mondo dei primitivi, ma anche al nostro, e in generale a qualunque stadio di civiltà, perché è per esse che noi possiamo arrivare a dare una struttura e una direzione a quella cosa incomunicabile che è l'evento. Ma - e questo è il punto importante - non possono essere separate dagli eventi, perché il rapporto che è tra esse e gli eventi non è di post rispetto a un prius; v'è la stessa dinamicità e reciprocità di quello che è tra Yhic et nunc e l'infinità del periechon, e che esso riflette. Cercherò di chiarire il mio pensiero con un esempio. Una delle forme più semplici che valgono a chiudere l'evento, è il nome. È noto quale importanza abbiano i nomi nel mondo dei primitivi e in generale nella sfera del sacro. Il nome, specificando la potenza che si rivela nell'evento, ne supera l'infinità che la rende paurosa e la limita, rendendo così possibile all'uomo di liberarsi dal thamhos che lo paralizza, e di dare una direzione alla propria azione. Ma questo medesimo nome, che dà forma all'evento, permette anche di riprodurlo e di farlo presente: è per questo che alcuni nomi sono tabù. L'esempio più cospicuo di chiusura sacra fatta a base di nomi sono gli Indigitamenta. Se consideriamo il mito, che è la più complessa delle forme date all'evento, il discorso è il medesimo. Mito è la figura dell'evento che fa da archetipo al rito e che in forma 74
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simbolica dà ragione del dròmenon. Vi sono riti senza mito, ma un mito non è tale se non in rapporto ad un rito e nell'atto della sua celebrazione, nella quale soltanto esso può venire vissuto come evento. Separato dal rito, si riduce a una favola e non ha nulla di sacro. Ma la tua domanda ne sottintende un'altra, e dobbiamo metterla in chiaro. Essa può essere divisa in tre proposizioni: 1) che differenza passa tra codeste forme e la forma kat' exochèn? 2) fino a che punto questa differenza è fenomenologicamente giustificata e questa forma kat' exochèn può essere giustificata, e la forma kat' exochèn può essere assunta a categoria, per le forme che da essa si distinguono si può mantenere lo stesso nome o se ne deve cercare un altro? Rispondendo al primo punto, quella che io chiamo per eccellenza «la forma» è Xeidos di Platone e di Aristotele, e ciò che la caratterizza è Yautòtes, l'essere per sé. Essa sola è xatì'atixó, e quello che è lo è in se stessa e per se stessa, ed esclude ogni relazione. Come tale, essa esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: ciò che in essa non è contemplabile, non è. Le forme invece che l'uomo dà all'evento, hanno carattere del tutto opposto. Nessuna di esse è xoft'atixó, esse sono sempre xax'aXXo xi ed evexd xivog ak'Kov; e non s'intendono che nella relazione. Come forme esse sono contemplabili, ma la contemplabilità non esaurisce mai la loro essenza, è solo un mezzo per attingere a ciò che in esse non appare e a cui rinviano, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e funzioni, non eide> forme eventiche e non «le forme», ed hanno sempre valore pratico, non teoretico. Quanto al secondo punto, se fenomenologia è, per una parte, accertamento del fenomeno, e quindi storia, e per un'altra, analisi strutturale di esso, e quindi logica, questa differenza è giustificata sia sul piano della storia che su quello della logica. È giustificata sul piano della storia, perché un tal senso della forma kat' exochèn lo troviamo in materia più o meno oscura e incompleta in molte civiltà, e per eccellenza e nei termini più chiari e non mai raggiunti altrove nella civiltà greca, che, per ciò che ha di peculiare e di unico, ne è per intero caratterizzata, non solo nelle manifestazioni del pensiero riflesso, ma e soprattutto in quelle immediate della religione, dell'arte e del costume. È giustificata sul piano della logica, perché, per tutta l'esperienza che a noi è data da millenni di speculazione, ogni proposizione verte o sull'essenza o sull'esistenza, ed essenza ed 75
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esistenza costituiscono i due estremi entro cui tutto il pensiero logico si muove. Ma essenza è ciò che una cosa è per se stessa e tale è nel linguaggio tradizionale la forma kat' exochèn o ì'eidos, e tutto quanto non è pura essenza in sé e per sé è sempre l'esistenza di qualcuno nell'atto in cui egli la vive e l'avverte, e però si riconduce all'evento. Dati questi due estremi, se l'evento è una categoria, l'altra è la forma in quanto tale. Terzo punto: si deve mantenere un unico nome o si deve distinguere? Io dico un unico nome, perché gli estremi sono due, e tutti i gradi intermediari non si hanno se non per il progressivo diminuire dell'uno o aumentare dell'altro. Le forme dell'evento, prese come forme, lo sono al medesimo titolo sotto il quale lo è la forma kat' exochèn, ed ogni istante possono diventare forme kat' exochèn, solo che l'evento a cui si riportano sia obliterato, ed esse vengano soltanto contemplate, e come forme contemplate si pongano in assoluto. È a questo modo che le forme eventiche delle divinità mediterranee divennero le forme sostanziali delle divinità olimpiche. Allo stesso modo, il quadrato, fino a Pitagora, era un simbolo e come tale carico di tutti i valori dell'evento e per intero immerso nell'atmosfera magica: Pitagora, guardandolo, lo vide come quadrato e non altro, e pose le basi della scienza. Questo passaggio dall'evento alla forma eventica e da questa alla forma kat' exochèn non va però preso in assoluto, così da fare dei tre termini tre momenti distinti di un processo a direzione unica e irreversibile. Forma ed evento sono delle categorie e solo come categorie possono essere distinti. Nella realtà vissuta il loro rapporto è instabile e fluido e ad ogni istante reversibile: la medesima divinità che un istante appare come forma, nell'istante successivo è sentita come evento e si confonde col periechon. Noi non viviamo solo nell'esistenza, come credono gli esistenzialisti, né solo nell'essenza, come volevano che si facesse Platone e Aristotele, ma in un'esistenza che continuamente si chiude nell'essenza e in una essenza che ad ogni istante si dirompe nell'esistenza. È per questo che bisogna rifarsi sempre alla storia vissuta. Il rapporto, tuttavia, tra forma ed evento non è sempre il medesimo: v'è sempre una dominante, e i gradi sono infiniti, e questo permette di isolare le civiltà nella loro struttura e di disporle in una scala: vi sono civiltà in cui la forma domina sull'evento, altre in cui l'evento domina sulla forma. Una cosa però è da tener ferma, ed è che, il passaggio dall'uno all'altro estremo essendo qualitativo, v'è un limite oltre il quale la forma kat' exochèn cessa, e tutto quel che segue ha valore funzionale 76
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e simbolico. Al medesimo limite e in senso opposto l'evento perde la sua cosmicità e si riduce a mero accidente. L'opposizione che è tra le due categorie non è soltanto logica, è reale, e questo rende drammatica la vita: il re non può dialettizzarsi col buffone e viceversa. Al limite in cui la forma ed evento separano i loro regni c'è la morte, o di una delle due categorie o dell'uomo. Di qui l'Uno di Plotino, il Brahma e il Nulla degli Indiani, il Nulla di Lao Tze. CARLO
Luglio 1952
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DIANO
«Le M u s e eternano nel canto, oltre il m a r e tempestoso degli eventi, la gloria della forma, nella notte della morte, l'aureola luminosa della forma. Nella notte della morte, che è p u r e la n o t t e da cui si genera la vita. Esiodo la fa col fratello È r e b o figlia del Caos, e da lei e da È r e b o fa nascere Etere e G i o r n o . Al p o s t o del Caos Plotino metterà l'Uno, da cui p r o c e d e l'Intelletto, il m o n d o luminoso e trasparente delle forme e, in terzo grado l'Anima, il m o n d o t e n e b r o s o e a m b i g u o degli eventi: l'Uno, che è al di là della forma e dell'evento, ineffabile, senza figura, di cui si p u ò dire solo che è, immobile e senza pensiero, l'Essere che coincide col Nulla». P u b b l i c a t o p e r la p r i m a volta nel 1952, questo breve saggio si p o n e come u n modello di letture e di analisi che si distingue per l'originalità de tracciato e l'inusitata tensione teorica. E s e m p i o di straordinaria potenza interpretativa, preziosa testimonianza di un clima e di una stagione intellettuale di g r a n d e densità, ci consente, nella galassia della cultura attuale, di riscoprire un classico.
Carlo Diano (1902-1974) è stato uno dei più insigni studiosi del mondo greco antico. Allievo di Vittorio Rossi, Nicola Festa e Giovanni Gentile, a partire da 1950 ha tenuto l'insegnamento di letteratura greca all'Università di Padova Filologo, letterato, filosofo, storico del pensiero antico, ha condensato la sua multiforme attività in una serie di saggi brevi e densissimi, di cui Forma ed evento rappresenta forse la summa più significativa.
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In copertina: Apollo sacrificante, coppa attica a fondo bianco, 475 circa, Museo di Delfi.
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