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Italian Pages 152 Year 1990
Etica e democrazia
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economica
a cura di
lampao lo Crepald i e Roberto Papini
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L’insegnamento sociale cristiano è impegnato da più di un secolo sui grandi problemi della società; ma il suo punto di vista, per lo più governato da una prospettiva di etica sociale generale, ha affrontato la specificità dell’ambito economico, nella peculiarità dei suoi meccanismi e delle sue dinamiche, in tempi recenti. La grande crisi degli anni ’30 e poi, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, la problematica dello sviluppo e la crisi degli anni ’70, hanno centra-
lizzato la questione economica come orizzonte strategico delle società in progressiva interdipendenza. | I contributi competenti di Perroux, Lebret, Vi-
to ed altri e la presa di coscienza sia del Magistero che dei movimenti hanno contribuito per parte loro a preparare gli sviluppi recenti dell’insegnamento sociale cristiano e quella che è stata
chiamata la sua ‘‘entrata in economia”’. Così oggi la parola sulla società di un Magistero meglio situato rispetto al compito di cogliere i problemi dell’uomo contemporaneo risulta anche più critica e più profetica nel denunciare l’ingiustizia sociale sia all’interno dei paesi sviluppati sia nei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri. Questa ricerca di un’umanizzazione dei processi economici domanda altresì la partecipazione degli interessati — uomini e popoli — e quindi
un’espansione dell’ideale democratico. Di fronte alla sfida di grandi concentrazioni orizzontali e verticali, la posta in gioco diviene, così, una ridefinizione del rapporto tra economia di mercato e democrazia. E se l’elemento critico non diviene fattore propulsivo di una maggiore democrazia economica, rispetto al mercato, si esporrà a processi involutivi la democrazia poli-
tica e lo stesso mercato potrà conoscere forme degenerative e causare degenerazioni (sociale, ambientale ecc.). Si capisce allora, ancor meglio, come la dimensione etica sia oggi strategica ai fini di cogliere e di promuovere ciò che, in questo orizzonte, consente od ostacola uno svilup-
po a misura d’uomo.
Grafica di Andrea Musso
Collana «Ragione e ragioni» Idee e dibattiti 2
Istituto Internazionale «J. Maritain» Centro di studi e ricerche di Villa Albrizzi-Franchetti — Treviso
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https .Jlarchive.org/details/eticaedemocrazia0000u nse
A. Ardigò L. Baeck F. Bresolin Mons. F. Charrier G. Crepaldi S. Lombardini Mons. P. Nonis R. Papini A. Sen R. Sugranyes de Franch F. Totaro T. Treu S. Zamagni
Etica e democrazia economica Atti del Seminario di Studio organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro e dall'Istituto Internazionale "J. Maritain" (Roma, 17-18 febbraio 1989)
a cura di Giampaolo Crepaldi e Roberto Papini
WITHDRAWN
I Edizione 1990 Redazione Pier Paolo Rinaldi
© Casa Editrice Marietti S.p.A. Via Palestro 10/8 - Tel. 010 / 891254
16122 Genova
ISBN 88-211-9302-0
Indice
Presentazione
di Giampaolo Crepaldi e Roberto Papini Allocuzione del Santo Padre Giovanni Paolo II ai
partecipanti al Seminario di Studio su «Etica e democrazia economica»
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Introduzione di Siro Lombardini
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Prospettive dell'economia mondiale di Louis Baeck
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Sul reinserimento della dimensione etica nel discorso economico
di Stefano Zamagni
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Razionalità, economia e società
di Amartya Sen
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Razionalità etica e razionalità economica di Francesco Totaro
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Democrazia economica e diritti dei lavoratori di Tiziano Treu
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Nuove teorie e nuove politiche di partecipazione di Ferruccio Bresolin
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Bene comune e governo dell'economia: oltre il neo-contrattualismo e il neo-liberismo di Achille Ardigò
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Sulla «responsabilità» della Chiesa in economia di Mons. Pietro G. Nonis
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Riflessioni conclusive di Mons. Fernando Charrier e Ramon Sugranyes de Franch
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Presentazione
di Giampaolo Crepaldi e Roberto Papini
1. Nei giorni 17-18 febbraio 1989 si è svolto a Roma un seminario di studio su «Etica e democrazia economica» promosso congiuntamente dalla Conferenza Episcopale Italiana e dall’Istituto Internazionale J. Maritain, con la partecipazione di economisti, moralisti ed operatori sociali. Questo volume raccoglie appunto i testi presentati durante il seminario. Quell’incontro
e, ora, questo
volume
si situano
nel quadro
del-
l’approfondimento del discorso sociale cristiano che le comunità cristiane stanno conducendo di fronte alle grandi trasformazioni che il mondo industriale e finanziario sta operando su scala globale. Due sono le novità che da questo sforzo di approfondimento sembrano emergere: da un latoi diversi episcopati nazionali prendono sempre più coscienza del ruolo e del «carisma» che le chiese locali hanno, in comunione con l'insegnamento pontificio, di concorrere attivamente all’elaborazione del pensiero cristiano sui problemi sociali, politici ed economici e, dall’altro, l’intera Chiesa — Papa, vescovi e laici cristiani — avverte progressivamente l'esigenza di quella cheè stata chiamata la sua «entrata in economia» !, cioè di confrontarsi non solo con le conseguenze sociali dei processi economici, ma direttamente anche con i presupposti e i concreti meccanismi di questi processi. Si sta così passando dal tradizionale insegnamento pontificio, prevalentemente deduttivo e normativo, ad un approccio ecclesiale più articolato sulle situazioni, più induttivo e quindi naturalmente più attento ai processi concreti, sia locali che globali. Si tratta di un insegnamento sempre più preoccupato di fondarsi sulla rivelazione biblica e ben conscio — specie dopo il Concilio Vaticano II — che l’azione per la giustizia è ormai parte integrante della missione evangelica del popolo cristiano ° I problemi socioeconomici dei paesi in via di sviluppo; la questione ormai ineludibile dell'ambiente; i problemi sociali dei paesi industrializzati ed il crescente divario tra i paesi ricchi e quelli poveri hanno infatti spinto la Chiesa universale e le chiese locali ad una più approfondita riflessione sul rapporto tra etica, economia e sviluppo ?. In questa riflessione, il fattore «principi» ed il fattore «competenze» sono venuti progressivamente entrando in comunicazione, producendo oltre che un'innovazione metodologica, anche un’ottica destinata a ridefinire il campo del discorso sociale
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ECONOMICA
cristiano, nella continuità dei suoi presupposti. Questo atteggiamento ecclesiale sembra meglio situare la Chiesa nella diffusa perdita di evidenze etiche comuni, in rapporto al compito che oggi ha lo spirituale di rispondere al crescente bisogno di senso nei vari ambiti della vita dell’uomo, bisogno che ormai investe anche il settore economico dove risulta sempre più riduttiva la semplificazione antropologica dell’egoismo (se/f-inzerest) come base dei comportamenti, e la conseguente autoreferenzialità della teoria economica rispetto al senso e ai fini della vita umana.
2. Come è stato osservato anche durante il seminario, in realtà almeno da una decina d’anni è presente in un numero sempre maggiore di economisti la consapevolezza che diversi problemi emergenti evidenziano ad abundantiam l'incapacità della teoria economica dominante, fondata sull’utilitarismo individualista, di fornire soluzioni, ad un tempo efficienti e giuste, alla complessità economica e sociale. Ciò consegue alla diffusa e crescente presenza di «beni pubblici», di «esternalità» sia di produzione che di consumo; di asimmetrie informative; di istanze radicalmente nuove come
quella ecologica. In ipotesi l'operatore economico tende solo alla massimizzazione della utilità individuale e, sempre in ipotesi, l'utilità sociale sarebbe la somma delle utilità individuali. Di fatto questo tipo di razionalità economica non offre un’interpretazione plausibile della realtà. Le motivazioni umane sono molto più articolate e anche diverse nei differenti contesti culturali. Come dichiara Amartya Sen, dell’Università di Harvard: «Io credo che in generale il successo dell'economia capitalista sia difficilmente spiegabile senza far riferimento ad una base motivazionale più complessa di quella prevista dall'analisi standard» *. A titolo di prova, Sen cita il caso del Giappone. Oltretutto questa base ristretta di razionalità della teoria economica dominante ha un effetto pedagogico negativo che non va sottovalutato (anche perché le sue elaborazioni oggi pervadono le altre scienze sociali): utilizzando infatti un approccio individualistico ed utilitaristico essa tende a svalorizzare il comportamento solidaristico che oggi si impone se si vogliono affrontare alle radici le sfide di questa fase di sviluppo. L'incapacità di molti teorici delle scienze sociali, ed in particolare di molti economisti, di staccarsi da griglie interpretative esclusivamente utilitaristiche — eredità di più di due secoli di scienza economica ortodossa? — e di affinare strumenti concettuali perché siano meno legati alle sole situazioni di concorrenza e più adatti a cogliere i veri problemi dello sviluppo, sul piano nazionale e su quello globale, spiega l'insufficienza della teoria economica in generale e di quella dello sviluppo in particolare. Di qui lo sforzo di alcuni di allargare le basi della sua concettualizzazione e, in questo quadro, la ricerca di una rifondazione etica del discorso economico ° A questo proposito è stato notato durante il seminario che il modello di
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sviluppo dominante, come gli altri modelli, non è privo di una sua etica e di una sua visione antropologica; il problema sorge allorquando ci si rende conto che questa etica e questa visione antropologica — quella dell’4omz0 oeconomicus per intenderci — non sono consone con quella immagine dell’uomo come essere personale, relazionale, a «più dimensioni», che emerge dalle trasformazioni culturali che stiamo vivendo; e sono altresì in contrasto, come ha rilevato Mons. Nonis, con il principio del bene comune (o
interesse generale, che dir si voglia). D'altra parte le sfide che oggi confrontano la società non provengono soltanto dai presupposti individualistici della teoria economica dominante; derivano anche, come ha fatto notare Achille Ardigò, dalle teorie sociali oggi considerate le più forti, siano esse macrosistemiche o di matrice individualista (Stato minimo, ecc.). Le prime, quasi cedendo alla complessità sociale, sono per il mantenimento dello staz quo allo stesso modo che le seconde; mentre le vedute neocontrattualistiche, anch'esse alla moda, pur
nella maggior finezza delle loro analisi, pur nella ricerca di una teoria della giustizia, in molti casi, anche per l’attuale fase di indebolimento dello stato
sociale, finiscono per giustificare posizioni neo-corporative. In ogni caso la
sfida che esse pongono è soprattutto nei confronti di una prospettiva di bene comune. i Anche per questo il problema etico investe sempre più l’intero problema dello sviluppo e tocca anche la dimensione politica. Se le priorità sociopolitiche condizionano il mercato, il mercato per parte sua ha impatti con la politica che non possono essere sottovalutati, con un intreccio non facilmente demarcabile. Ha osservato Siro Lombardini: «Bisogna scegliere se stimolare l’attività economica con la produzione delle armi o con quella in grado di promuovere il benessere, soprattutto dei poveri. Bisogna scegliere se lasciare che per la soddisfazione della domanda, che si manifesta sul mercato, si vuol saccheggiare l’ambiente, o se porre come primo obbiettivo dell'economia la conservazione del nostro pianeta».
3. È stato rilevato che questo bisogno di etica, oggi così diffuso, è avvertito anche nella pratica economica. Gli appelli di imprenditori di valore a non disgiungere etica ed economia giungono nel pieno di grandi processi di trasformazione, fusione e accelerazione economico-finanziari su scala globale. Il problema che ci si deve porre è quello delle ragioni di questa domanda etica e di quale etica si tratti. Da un lato v'è certamente un bisogno imperioso di nuove regole del gioco (oltre quelle della pura contrattazione mercantile) in seno ad un capitalismo ormai realmente dominante nel mondo, ed i problemi interni di «giungla competitiva» sono tali da richiedere nuove ragioni di razionalità etica per la sua stessa conservazione ”; da un altro lato v'è probabilmente anche un'esigenza di giustificazione di questo suo ruolo mondiale.
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ECONOMICA
I discorsi, sempre più frequenti, sull’etica degli affari negli Stati Uniti e negli altri paesi industrializzati tendono a far rispettare alcune regole ad un mercato sempre più «imperfetto» nella convinzione che l’etica possa servire all'efficienza. Stefano Zamagni ha sollevato alcune perplessità teoriche sulla realizzabilità di un tale progetto culturale. Riferendosi anche agli scritti dell’ultimo Rawls e all’ampio dibattito che li ha preceduti, egli non crede che la scelta di principi di giustizia politicamente implementabili possa avvenire attraverso un meccanismo che li selezioni come ottimali in base a criteri di sola razionalità individuale. Non è infatti concepibile che si possa chiedere agli individui di rinunciare al proprio se/f-interest per conseguire un obbiettivo, come quello dell’efficienza, che poi per definizione viene concepito in termini di interessi individuali. 4. Negli scenari sociali attuali la dimensione economica è divenuta strategica e la questione del modello di sviluppo è ormai al cuore dei problemi della nostra epoca. Con la «sconfitta» dei modelli socialisti e l’appannarsi delle «terze vie», con l'enorme espansione del potere economico e finanziario favorito dall’allargamento dei mercati e dalle concentrazioni verticali ed orizzontali, il modello di sviluppo dominante esercita un’enorme influenza in tutti i campi della vita umana, ivi compreso quello della politica. Si pone quindi il problema del controllo democratico di questo potere, attraverso la ridefinizione del rapporto tra economia di mercato e democrazia. Il problema ha assunto dimensioni tali che Giovanni Paolo II, ricevendo i partecipanti al seminario e rivolgendo loro un importante discorso sui rapporti tra etica e economia, ha affermato che i modelli economici dominanti, accanto ad «innegabili successi», presentano «germi pericolosi di degenerazione» («la crescita delle vecchie e nuove povertà, l'aumento del
divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, il degrado ambientale»), per cui si impone ai cristiani come «dovere inderogabile, il compito di esercitare la solidarietà sociale e politica» e di apportare «i necessari correttivi» a tali modelli di sviluppo «che non devono essere finalizzati solo al profitto di alcuni, ma devono promuovere il bene integrale della persona e dell’intera umanità» È. Giovanni Paolo II indica nella democrazia economica, nei suoi rapporti con la democrazia politica, una via per correggere il modello di sviluppo in una prospettiva di maggiore eticità ?. Questo sviluppo dell’area della democrazia s'impone, infatti, nell'attuale sistema socioeconomico per le difficoltà evidenti che l’attuale democrazia politica incontra nel compito di governare lo sviluppo verso finalità umane. Questi limiti divengono tanto più evidenti quando si passa dal contesto nazionale a quello planetario. Ormai da tempo l'economia si muove con facilità in questa dimensione, superando agevolmente le frontiere nazionali ed anzi svuotando talvolta di
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contenuto le decisioni degli Stati nazionali (almeno per ciò che riguarda la grande maggioranza di essi), mentre la politica, per troppo tempo bloccata dal conflitto Est-Ovest, non ha ancora saputo dar vita ad istituti adeguati,
anche sul piano transnazionale, ad esercitare un controllo democratico e ad organizzare un nuovo ordine economico e politico mondiale. Oggi le sfide maggiori sono su questo piano ed è su di esso che l’etica sociale dovrà raccoglierle. Tutto questo non perché siano cessate le ragioni per promuovere comportamenti e condizioni di più soddisfacenti livelli di «partecipazione» economica a livello micro (come sottolineano Ferruccio Bresolin e Tiziano
Treu), pre-condizione di un’affermazione della democrazia economica anche a livello macro; ma oggi le sfide decisive nella riarticolazione dei poteri sociali, politici ed economici si spostano sempre più verso gli orizzonti del sistema globale.
! Per riprendere un'espressione dello storico E. Poulat usata durante il seminario su «Etica ed economia: i documenti dei vescovi dei paesi industrializzati» organizzato a Cagliari dall’Istituto Maritain nell’ottobre del 1987 (Cfr. AA.VV., Etica ed economia I, Marietti, Genova 1989).
? Cfr. in particolare l’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI del 1975 e le conclusioni del Sinodo dei Vescovi. ? Cfr. in particolare l’enciclica So/licitudo rei socialis (senza dimenticare le grandi encicliche sociali di Giovanni XXIII e Paolo VI), il documento collettivo dell’episcopato boliviano Dignità e Libertà
(1980), dell’episcopato belga I cristiani e la crisi (1981), dell’episcopato canadese Riflessioni etiche sulla crisi economica (1982), dell’episcopato francese Per nuovi modi di vita (1982), dell’episcopato paraguaiano Il contadino paraguaiano e la terra (1983), dell’episcopato tedesco (assieme alla Chiesa evangelica) Assumersi la responsabilità della creazione (1986), la lettera pastorale dell’episcopato statunitense Giustizia economica per tutti (1986), il documento dell’episcopato italiano Chiesa e lavoratori nel cambiamento (1987), dell’episcopato guatemalteco I/ clamore per la terra (1988), dell’episcopato venezuelano Il recupero del paese (1989), dell’episcopato brasiliano Le esigenze etiche della democrazia
(1989). 4 «Il Sole-24 Ore», 21 febbraio 1989. Dello stesso autore cfr. On Ethics and Economics, Oxford 1987
{tr. it. Etica ed Economia, Bari 1988]. ° Scrive F. Totaro: «Si concede che l’intreccio di utilitarismo e di economia ha influito in misura decisiva ai fini della costituzione di una economia del surplus, oltre i limiti della semplice sussistenza; il destino dell'economia è però quello di rimanere nella struttura che è emersa all’origine oppure l'economia può aprirsi alla prospettiva di beni pi importanti e decisivi per un salto di qualità nella produzione e nella fruizione della ricchezza? Un interrogativo come quello qui formulato non ignora lostatuto di autonomia acquisito dalla forma moderna dell’economia, ma insieme preme sull'economia affinché si liberi dalla sua originaria e ricorrente comprensione nell'orizzonte dell’utilitarismo, e prenda atto invece della nuova domanda sociale che all'economia viene rivolta, domanda che non può più essere formulata nei termini di un'etica e di un ethos utilitaristi». 6 A conclusione della sua relazione L. Baeck, dell’Università di Leuven, ha accennato nel suo
intervento orale ai rapporti tra etica e economia nel corso della storia ed ha ricordato il passaggio, col sorgere del mercantilismo, dalla «fase mediterranea» (rapporto stretto tra etica classica ed economia) alla «fase atlantica» (rapporto più tenue ed in ogni caso fondato su una diversa visione antropologica). Più diffusamente questo autore ha sviluppato le sue idee in Pour 4n nouveau paradigme en économie, «Notes et Documents de l’Institut International J. Maritain», n. 21/22, 1988.
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? «L'etica degli affari si delinea come la condizione indispensabile per la razionalizzazione e l'ammodernamento del capitalismo e necessaria per la razionalizzazione e l'ammodernamento della politica». M. UNNIA, Etica degli affari in Italia: colmare un ritardo e rispondere a un'esigenza, «Btica degli affari», II, 1988, 38.
5 Cfr. l’Allocuzione del S. Padre pubblicata nel presente volume. Cfr. anche la So/licitudo rei socialis, 15. E interessante rilevare che anche i documenti episcopali insistono sulla partecipazione degli interessati alle decisioni che li concernono e sul nesso tra democrazia politica e democrazia economica. ? Afferma il S. Padre: «Il dialogo che si intende iincoraggiare tra etica cristiana e regole economiche non può non toccare il problema della democrazia economica e dei suoi rapporti con la democrazia politica».
Allocuzione del Santo Padre Giovanni Paolo II ai partecipanti al Seminario di Studio su «Etica e democrazia economica»
Il Santo Padre ha ricevuto nella Sala del Concistoro i partecipanti al Seminario di Studio su «Etica e Democrazia Economica» promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana ed ha loro rivolto il seguente discorso:
1. Con gioia porgo il mio più cordiale saluto a tutti voi, riuniti qui a Roma per un seminario di studio sul tema: «Etica e democrazia economica», promosso dalla Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro della c.E.I., che ha chiamato a collaborare per la sua realizzazione l’Istituto Internazionale Jacques Maritain, coinvolgendo proficuamente dei laici cristiani, particolarmente competenti sui problemi sociali ed economici della nostra società e animati dall’ispirazione che proviene dal grande maestro a cui è dedicato il loro Istituto. Saluto in particolare il Presidente della Commissione Episcopale, Mons. Fernando Charrier, e tutti i vescovi presenti, il Presidente dell’Istituto Maritain, prof. Ramon Sugranyes de Franch, ed i suoi membri. Il pensiero va con riconoscente affetto a Jacques Maritain, grande testimone della fede ed insigne filosofo del nostro secolo, nel ricordo dell’illuminante contributo da lui offerto alla formazione di tanti cristiani laici impegnati nel campo sociale e politico e dell’appassionato e lungimirante impegno profuso a sostegno dei diritti dell’uomo e della democratizzazione della società. Il tema della vostra attenta riflessione trova luce nella dottrina sociale della Chiesa, là dove essa afferma che il diritto dell’uomo all’iniziativa economica deve esercitarsi nell’ambito di un sistema sociale che veda coinvolti tutti i cittadini in una prospettiva di corresponsabilità e di
partecipazione !. 2. Ci troviamo, oggi, di fronte all’affermarsi di modelli economici che,
accanto ad innegabili losi di degenerazione, nale. Ne sono segni l’aumento del divario
successi, presentano al loro interno dei germi pericosia a livello dei singoli Paesi che su scala internazioevidenti la crescita delle vecchie e nuove povertà, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, il degrado ambientale.
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In questa situazione per certi aspetti drammatica si impone ai cristiani, come dovere inderogabile, il compito di esercitare la solidarietà sociale e politica °, apportando i necessari correttivi ai modelli di sviluppo, che non devono essere finalizzati esclusivamente al profitto di alcuni ma devono promuovere il bene integrale della persona umana e dell’intera umanità. Infatti, «in una visione cristiana delle cose - dicevo ad un altro Convegno promosso dalla c.E.1. sui problemi del lavoro - l'economia, pur godendo, come ogni altro settore specifico dell’agire dell’uomo, di una sua relativa autonomia, rimane intrinsecamente legata all'etica, che è misura universale dell’autentico bene umano» 3. I diversi modelli di sviluppo economico sono legati, più o meno direttamente, a particolari concezioni dell’uomo, dalle quali discendono determinate norme di comportamento. Avviene non di rado che certe concezioni dell’uomo e le relative norme comportamentali entrino in conflitto con la verità sull’uomo, che la Chiesa custodisce come un tesoro
prezioso donatole dal Signore Gesù Cristo. In tal caso la Chiesa non può tacere. Così, davanti ad affermazioni unilaterali della centralità del profitto e della totale autonomia del potere aziendale, essa, nella sua missione di serva degli uomini “, ricorda che «tra tutte le creature terrene, solo l’uomo è
“persona”, soggetto cosciente e libero e, proprio per questo, “centro e vertice” di tutto quanto esiste sulla terra» °; «Contano non tanto i beni del mondo, quanto il bene della persona, il bene che è la persona stessa» ° Dal riconoscimento coraggioso e coerente della centralità della persona umana potranno trarre vantaggio le stesse scienze economiche: la persona umana, infatti, nella concretezza delle sue esigenze, delle sue aspirazioni, dei suoi propositi è la prima e fondamentale risorsa di ogni sviluppo. La Chiesa, che non intende proporre un particolare modello economico ’ incoraggia la ricerca dei cultori delle scienze economiche e li invita ad un dialogo fecondo affinché siano colte tutte le dimensioni della persona umana, ivi compresa la sua imprescindibile dimensione etica. È peraltro motivo di soddisfazione constatare che la disponibilità a considerare la realtà integrale e la nativa dignità della persona è presente anche in molti operatori economici. Accanto allo sforzo di dotarsi di nuovi strumenti e metodologie in vista di un miglioramento del sistema economico, vi è in molti di loro il sincero desiderio di far partecipare all'economia tutti gli attori della vita sociale. Occorre dunque non stancarsi di ricercare le vie migliori per integrare lo sforzo di razionalizzazione tecnica, proprio di questa complessa fase dello sviluppo, nella prospettiva di una piena crescita umana e morale. 4. Il dialogo che si intende incoraggiare tra etica cristiana e regole economiche non può non toccare il problema della democrazia economica
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e dei suoi rapporti con la democrazia politica. Oggi sempre più l'informazione, la consultazione, la partecipazione alle decisioni, sono viste come espressione naturale della soggettività dei cittadini *, e come elementi indispensabili della riuscita stessa dell'impresa economica. L'economia deve ritrovare dunque la sua dimensione umana ed essere concepita come espressione della vita globale dell’uomo, respingendo l'errore di isolare l'interesse individuale dalla solidarietà sociale. 5.Il dialogo tra etica ed economia va sviluppato particolarmente a livello mondiale, come ho indicato nella Lettera Enciclica So/licitudo rei socialis.
À questo proposito si rivela sempre più urgente una maggiore partecipazione di tutti i soggetti interessati allo sviluppo mondiale nelle sedi dove vengono prese le decisioni che riguardano la vita dell'intera umanità. Quello che possiamo chiamare il «principio di mondialità», secondo cui è di competenza mondiale tutto cio che è di interesse mondiale, dev'essere posto a fondamento dei rapporti sociali, economici e politici. L’interdipendenza non può più essere soltanto il risultato di determinati processi storici: dal punto di vista morale essa si pone ormai come criterio delle scelte e dei comportamenti della famiglia umana. Ciò richiede una revisione profonda dei principi che hanno regolato finora i rapporti internazionali.
6. Al termine di questo incontro desidero confermarvi l'apprezzamento per il lavoro che andate svolgendo ed esortarvi ad ampliarlo e ad approfondirlo, nella luce del Magistero sociale della Chiesa, come autentico servizio
culturale e scientifico al bene comune. Di questi voti è pegno l’Apostolica Benedizione, che volentieri impartisco a voi tutti e a quanti nella Chiesa italiana condividono la vostra ricerca e sollecitudine.
! Cfr. Sollicitudo rei socialis, 15.. 2 Cfr. Sollicitudo rei socialis, 39-40; Christifideles laici, 42-43. 3 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 3, 1987, 1160.
4 Cfr. Christifideles laici, 36. ? Ibid., 37. 6 Ibid., 37.
? Cfr. Sollicitudo rei socialis, 41. 8 Cfr. Sollicitudo rei socialis, 15.
Introduzione di Siro Lombardini
Metodi e finalità dell’analisi economica sono stati messi recentemente in discussione in seguito ad alcuni eventi e al profilarsi di alcuni grandi problemi. 1) Gli insuccessi nelle attività di previsione (crisi delle Borse dell’ottobre 1987, ripresa del 40077 in condizioni sufficiente controllo dell’inflazione malgrado il crescente deficit del bilancio dello Stato registratosi in vari paesi. 2) L'affermazione - specie in Inghilterra e negli Stati Uniti - della destra che professa ideali ben interpretati dalle ideologie - della derega/azion, del bilancio in pareggio, della fiducia nel meccanismo del mercato - strettamente associate agli indirizzi prevalenti della teoria economica, ma che negli Stati Uniti in particolare - attua politiche in netto contrasto con alcuni dei principi professati (espansione del deficit, politiche volte a regolare la dinamica delle quotazioni del dollaro). I successi della destra sono dovuti non tanto a quegli effetti delle politiche che sono indicati dalla teoria economica, quanto dalle condizioni favorevoli che si vengono a determinare allo sviluppo di processi darwiniani - in grado di contribuire allo sviluppo economico - i quali non possono certo essere interpretati dai modelli di equilibrio, lo zoccolo teorico delle nuove concezioni ideologiche. 3) La crescente gravità che vanno assumendo alcuni problemi di rilevanza storica: il problema Nord-Sud, il problema ecologico. 4) I cambiamenti radicali che si prospettano nel sistema economico in seguito alle particolari condizioni - che in larga misura riguardano il sistema socio-culturale - che hanno consentito il forte sviluppo del Giappone e di alcuni altri paesi e alle riforme in atto nei paesi ad economia collettivista. Le riflessioni su questi sviluppi e su questi problemi portano a riconsiderare alcuni temi metodologici ed epistemologici. Ad esempio si impone una riconsiderazione dell’ottica macroeconomica, del tutto inadeguata a trattare i problemi della politica economica. Il 500m ha potuto svilupparsi grazie anche ai deficit della bilancia dei pagamenti, i quali sono però responsabili di gravi squilibri non tanto all’interno delle economie
INTRODUZIONE
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nazionali quanto nell'economia mondiale. Gli economisti si limitano a chiedere la riduzione del deficit: non hanno esaminato le possibili conseguenze a livello di singoli mercati ed industrie delle riduzioni proposte, ammesso che esse siano politicamente realizzabili.
Non intendo, nella mia introduzione, considerare questi problemi metodologici ma i due problemi a monte, che coinvolgono importanti questioni epistemologiche: il problema dei rapporti tra economia ed etica e il problema delle interazioni tra sistema economico e sistema sociopolitico. I due problemi sono connessi. Infatti per Pareto l’assumere come dati i gusti del consumatore significa poter prescindere dagli effetti del sistema socio-culturale che si ritengono unidirezionali: essi si manifestano essenzialmente nella formazione dei gusti. Significa anche consentire alla scienza economica di essere neutrale di fronte al problema etico, che riguarda solo l'individuo nel momento della formazione dei suoi gusti. L'ipotesi che i gusti del consumatore siano dati non basta a rendere la scienza economica neutrale. Essa si fonda su specifiche concezioni antropologiche. Le principali sono la concezione utilitaristica di Bentham e quella darwinistica. Esse hanno portato a diverse impostazioni della teoria e spiegano anche le diverse implicazioni che alcune teorie hanno sul piano politico-ideologico. In effetti non si dà teoria economica che non comporti una concezione antropologica. Una tale concezione può e deve essere discussa al suo interno anche in relazione alla capacità della teoria-che su di essa si fonda - di spiegare i processi reali ed alla esigenza di una sua formulazione non surrettizia, che consenta appunto di esercitare su di essa la critica. La necessità di affrontare esplicitamente il problema etico appare se si considerano i punti seguenti. 1) I gusti degli individui non sono determinati dal solo sistema socioculturale, ma anche dalla dinamica del sistema economico (basti pensare alla dipendenza dei gusti dal livello di aspirazione del consumatore, il quale a sua volta dipende dalla dinamica dei redditi e dall’influenza che sulla loro evoluzione esercita la pubblicità). Anzi, l'introduzione di beni nuovi - come faceva osservare Schumpeter - esige l’uso di tecniche di persuasione. Al riguardo si pone un problema che gli economisti non hanno affrontato: è preferibile che siano le sole imprese a orientare i gusti così da rendete possibile l'affermazione dei nuovi consumi o è opportuno che siano svolte attività promosse da decisioni politiche (come l’istruzione)? La risposta non può essere data solo sulla base di criteri di efficienza, ma anche sulla base di criteri etici. Si può peraltro dimostrare che
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ETICA E DEMOCRAZIA ECONOMICA
l'osservanza di criteri etici assicura la corretta applicazione - in un'ottica di lungo periodo - anche dei criteri economici (la piena valorizzazione delle potenzialità per quanto riguarda inuovi consumi dell’informatica, ad esempio), dipende dai nuovi orientamenti e dal maggiore sviluppo della pubblica istruzione). 2) Lo sviluppo non è il mero risultato delle scelte che si manifestano sul mercato. A monte si collocano, con un peso decisivo, scelte di politica economica (i programmi di esplorazione dello spazio e di riarmo negli Stati Uniti). Con riferimento a queste scelte si pongono problemi di ordine etico oltre che economico
(e politico). Dobbiamo
lasciare che
queste scelte riflettano solo le attuali strutture di potere e le accidentalità del processo storico-politico, o che esse siano il risultato di processi razionali di scelta posti e risolti a livello collettivo? Si possono ripetere, in proposito, considerazioni simili a quelle svolte al punto 1. 3) Non è vero che il motore del processo economico
è l'insieme dei
bisogni, così come sono avvertiti dai singoli individui in modo autonomo. Ciò non solo per le interdipendenze tra funzioni di utilità dei vari individui, ma anche perché certe decisioni - relative ad esempio, negli Stati Uniti, alla politica di riarmo - hanno potuto essere realizzate grazie a forme di solidarietà che se si fossero manifestate, colla stessa intensità ed am-
piezza, per gli aiuti al Terzo Mondo, avremmo avuto meno conflitti e più sviluppo economico. Dobbiamo considerare questo fatto come un fatto ineluttabile e non come un problema che interessa il sistema socio-culturale e il sistema di valori morali?
A valle di questi temi si pongono quelli delle insufficienze del mercato e delle attuali istituzioni e procedure di politica economica. La considerazione degli uni e degli altri può portarci ad individuare le ragioni per cui l’individualismo metodologico non può consentire una corretta impostazione dei problemi dell’economia. Queste considerazioni assumono un particolare rilievo quando si considerano i problemi ecologici, i problemi dell’emarginazione, che sono anche problemi economici (la cui mancata
soluzione incide sulle prospettive di crescita di lungo periodo dell’economia), e i problemi Nord-Sud.
Dal problema dei rapporti tra economia ed etica non si può quindi evadere. Lo si può affrontare in due modi: ritenendo che i valori etici siano stabiliti da un potere politico o spirituale per tutti (si pensi allo Stato etico alla base di certe concezioni fasciste) o ritenendo che possano e debbano esistere diversi sistemi etici. La prima impostazione è inaccettabile per varie ragioni. Quella che ci preme sottolineare è l'impossibilità che valori etici così stabiliti possano ottenere un consenso sufficientemente diffuso da costituire punto di
INTRODUZIONE
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riferimento per la riconsiderazione del campo e dei paradigmi dell’economia. La seconda degrada i valori etici a valori culturali, nel senso weberiano del termine. I grandi rivolgimenti che hanno reso possibili prolungati processi di sviluppo economico e sociale hanno potuto realizzarsi grazie anche all'affermazione di valori che sono stati recepiti come valori etici. Bisogna distinguere i valori come tema del filosofo morale, dai valori come tema rilevante anche per l'economista e per il politico. Naturalmente le trattazioni dei due temi necessariamente si intrecciano: le ottiche e le ragioni dell’analisi restano diverse. Se si esplorano le prospettive storiche quali appaiono quando si considerano anche i possibili sviluppi dei sistemi politici e sociali, appare che la sola possibilità di arrivare a un consenso sufficientemente vasto e stabilito su valori etici comuni (valori cosmici) è affidata alla consapevolez-
za che l'umanità è in grado di suicidarsi. Un individuo cui sia stata puntata una pistola alla tempia può più facilmente essere persuaso del valore della vita. Accettare il valore della vita significa respingere le concezioni individualistiche. Significa riconoscere che l’uomo non può essere concepito nelle sue potenzialità di sviluppo al di fuori della società, che le sue potenzialità di sviluppo possono essere intraviste solo se l’uomo è considerato nel contesto essenziale del cosmo, che l’uomo non puòessere ridotto - come viene fatto dai paradigmi prevalenti nella teoria economica - a consumatore, che l’uomo è essenzialmente bomzo faber, che ciascun uomo
nella società ha una sua specificità; che anche per questo la razionalità non può essere dissociata dall’innovazione per cui deve definirsi in un contesto necessariamente di incertezza; significa riconoscere che l’uomo è persona. È questa la concezione antropologica minima che può consentire di superare le strettoie in cui si è venuta a trovare la scienza economica. All’economista il compito di esplicitare questa concezione e di provarne la fecondità. Al filosofo quello di convalidarla come momento di arrivo della sua speculazione, capace di aprire alla stessa nuovi orizzonti.
Prospettive dell'economia mondiale di Louis Baeck
1. Enunciazione del problema Uno studio che ha per obiettivo l’analisi delle prospettive dell’economia mondiale deve, a titolo di introduzione, chiarire il termine «prospet-
tiva» nel contesto intellettuale, direi ideologico che gli conferisce il suo significato profondo.
A partire dalla fine degli anni Settanta questo contesto è cambiato. Infatti nei primi tre decenni del dopoguerra l’internazionalizzazione dell'economia era stimolata dalle organizzazioni sovranazionali. Il Fondo Monetario Internazionale assicurava la disciplina nel settore monetario; il GATT assicurava la regolamentazione sovranazionale del commercio e l’OcsE aveva cura di armonizzare le politiche economiche generali degli Stati membri. Questo ordine sovranazionale si fondava sull’adesione dello Stato-Nazione, che organizzava il funzionamento dell'economia nazionale sulla base di una concertazione tra il fattore capitale e il fattore lavoro, organizzata dalle associazioni sindacali e padronali con l’arbitrato dei governi. Questo sistema ha ricevuto il nome di «keynesianismo internazionale».
Verso la fine degli anni Settanta il sostegno ideologico per la correzione sociopolitica delle economie di mercato e per la disciplina internazionale esercitata dagli organismi sovranazionali veniva ridimensionato in favore di un maggiore liberalismo. Con la rinascita delle idee liberali, che hanno ricevuto una così larga adesione sia da parte degli attori economici che dei governi, le prospettive sulla sistemazione dell'economia mondiale sono cambiate. Mentre nel periodo 1945-1975 erano in vigore le correzioni sociopolitiche ai meccanismi di mercato, nel periodo seguente la deregulation è diventata la regola dominante. Nella maggior parte delle economie occidentali la deregulation e la privatizzazione dei meccanismi di mercato offrono un ruolo privilegiato alle iniziative degli attori economici e alle imprese private, con una conseguente perdita di potere da parte delle organizzazioni sociopolitiche. Questo cambiamento del paradigma ideologico e delle pratiche economiche ha come risultato una concentrazione
PROSPETTIVE DELL'ECONOMIA
MONDIALE
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del capitale e una «oligopolizzazione» del potere socio-economico o, in altri termini, una «de-democratizzazione».
Il monetarismo ha vinto sul
keynesianismo, sia per quanto riguarda la dimensione nazionale dell’economia sia nella sua sfera internazionale. In effetti, monetarismo è un termine più pudico per indicare il «nazionalismo liberale». In questo modo le organizzazioni sovranazionali hanno perduto la loro presa sulla mondializzazione. Quest'ultimaè,d’ora in avanti, stimolata dalle imprese private. I paesi a economia pianificata, che si erano tenuti in disparte, sono conquistati da questo movimento di «deburocratizzazione» e manifestano il desiderio di aprirsi all'economia del mondo occidentale. Gli effetti della deregulation nel settore economico a scala mondiale portano i differenti blocchi ad impegnarsi in una concorrenza intensificata e provocano degli squilibri e degli choc di ritorno. Nelle pagine che seguono analizzeremo le strategie dei paesi al centro del blocco occidentale (Stati Uniti, Europa, Giappone) con le ripercussioni sui nuovi paesi industrializzati e il Terzo Mondo.
L'economia mondiale è diventata un insieme complesso e si compone di blocchi geografici in relazione l’uno con l’altro secondo gradi di integrazione variabili: I) i paesi del centro, cioè quelli a economia di mercato più sviluppati: gli Stati Uniti, la Comunità Europea ed il Giappone; II) il blocco dell’oPEC;
III) il gruppo dei nuovi paesi industrializzati; IV) il Terzo Mondo sottosviluppato; V) le economie a pianificazione centralizzata. Il campo di forza dell'economia mondiale è complicato ed instabile. Esso presenta spesso degli sviluppi sorprendenti, quali ad esempio il rallentamento generalizzato della crescita dei paesi centrali, la liberalizzazione dei paesi dell'Est e della Cina, la perentoria entrata in scena dei paesi dell’oPEc, la crisi di indebitamento dell'America Latina e dell’Africa, ecc. Ma tra i blocchi summenzionati il rapporto di forza è rimasto molto stabile nel corso degli anni, malgrado alcuni slittamenti di posizione.
Dal punto di vista funzionale l'economia mondiale può essere caratterizzata da un certo numero di evoluzioni maggiori: I) la mondializzazione dell'economia e soprattutto dei mercati finanzia(0:
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II) la finanziarizzazione dell'economia;
III)losviluppo degli squilibri esterni tra le parti (blocchi) che esercitano una consistente influenza sull’insieme;
IV) la fragilità e la //uttuazione dei prezzi, soprattutto per quanto
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ETICA E DEMOCRAZIA ECONOMICA
riguarda i tassi d’interesse, i tassi di cambio ed i prezzi delle materie prime; V) i nuovi rapporti di forza tra gli Stati Uniti, la Comunità Europea ed il Giappone; VI) la marginalizzazione dei paesi periferici (Terzo Mondo).
Nel testo che segue illustreremo un certo numero di queste evoluzioni. 2. Il nuovo rapporto di forze tra Stati Uniti, ceE e Giappone Il cambiamento più importante si è prodotto nel cuore stesso del mondo occidentale, cioè nei rapporti tra Stati Uniti, paesi della Comunità Europea e Giappone. La posizione di egemonia degli Stati Uniti non è più quella di un tempo, quando costituiva il coronamento dell'ordine economico del dopoguerra. Infatti, se poniamo come indice di base (100) la produttività media degli Stati Uniti nel 1950, la Francia si situava allora a livello 44, la Germania
a 40 ed il Giappone a 18. Ma nell’ultimo trentennio la produttività media dei paesi occupanti una posizione centrale nella Comunità Europea (Germania, Francia e Benelux) è aumentata talmente che nel 1987 essa si trova allo stesso livello
degli Stati Uniti. Mentre per quanto riguarda il Giappone essa si è alzata a livello 83. I paesi europei hanno così raggiunto il livello di vita degli Stati Uniti, e il Giappone si è rivelato un concorrente temibile. Le relazioni all’interno del campo di forza Ovest-Ovest si sono pertanto profondamente modificate. Al di là del generale rallentamento che ha subito la crescita economica di queste aree dopo la crisi del 1973, i loro successivi ritmi di crescita si dimostrano nettamente differenti: I) in Giappone la produttività ha conosciuto la crescita più elevata, mente il tasso di disoccupazione si è mantenuto a livelli bassissimi; II) in Europa Occidentale la produttività media per unità di lavoro ha raggiunto un livello di crescita largamente al di sopra di quello medio statunitense (se si escludono questi ultimi anni), mentre l'occupazione ha
avuto uno scarso incremento. Fino alla fine degli anni Settanta, gli Stati Uniti hanno registrato un numero di disoccupati relativamente più grande rispetto ai paesi della Comunità Europea: in seguito, invece, l'Europa Occidentale ha dimostrato maggior rigidità nella creazione di posti di lavoro a paragone degli Stati Uniti; III) gli Stati Uniti distribuiscono il monte salariale tra un numero crescente di persone attive, in modo che la crescita media dei salari si è arrestata, se non ha arretrato. In Europa Occidentale l’incremento dei
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salari ha superato la crescita della produttività durante il periodo 19731979. Questa distorsione è poi sparita, ma la disoccupazione rimane elevata. A metà degli anni Ottanta, l'Europa Occidentale può gettare uno sguardo indietro con qualche soddisfazione, grazie al recupero realizzato in materia di produttività media in confronto agli Stati Uniti. Ma la rapida caduta del numero delle nascite a partire dal 1970, la debole crescita della popolazione attiva, il celere invecchiamento della popolazione e l'elevato tasso di disoccupazione costituiscono ancora una grave preoccupazione. Attualmente, infatti, l'Europa Occidentale è una zona orien-
tata verso la produttività, ma con un debole assorbimento di manodopera nel mercato del lavoro. Negli Stati Uniti, invece, la popolazione totale e la popolazione attiva aumentano ad un ritmo impressionante, anche perché tra le altre ragioni i 44 milioni di neri e di ispanici (pari al 22% della popolazione) portano il tasso della natalità a livelli molto elevati. Ne risulta che la piramide demografica americana rimane giovane. In compenso, però, un gruppo considerevole a bassa produttività comprime il livello medio generale della produttività. Gli Stati Uniti assorbono la manodopera in modo più flessibile, a danno della produttività media. Questo fatto compromette la loro competitività a livello internazionale. Per quanto riguarda il Giappone, è possibile notare i primi segni di un rallentamento della crescita demografica, con il conseguente invecchiamento della popolazione, ed anche quelli di una ridistribuzione degli oneri sociali tra le persone attive e il crescente numero dei pensionati. Ma l'aumento della produttività e la competitività sul piano internazionale rimangono (ancora) impressionanti. L'equilibrio economico tra le generazioni pone meno problemi che in Europa. 3. L'evoluzione dello squilibrio occidentale (1980-1988)
Nell’introduzione abbiamo dato un'immagine succinta del diverso schema di crescita nella sfera reale (cioè nell’evoluzione della produttività)
degli Stati Uniti, dei principali paesi della Comunità Europea e del Giappone. Se passiamo ora dagli indicatori di base nella sfera reale a quelli della sovrastruttura finanziaria e monetaria, notiamo, nell’evoluzione di
quest’ultima, soprattutto dopo il 1980, uno schema di crescita ancora più
divergente. Nel 1983 gli Stati Uniti sono usciti dalla recessione con una ripresa vigorosa, ma sul piano nazionale e internazionale essi hanno mostrato di essere un'economia deficitaria. L'economia giapponese, invece, sta riassor-
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bendo rapidamente il deficit provocato dal secondo choc petrolifero e si presenta nella scena internazionale come un enorme accumulatore di surplus. I paesi della Comunità Europea, infine, si mantengono fedeli alla loro corsa deflazionistica e puntano tutto sulla promozione della produttività, economizzando invece sulla manodopera. I loro investimenti non aumentano e le cifre della disoccupazione si mantengono a livelli record. Si riscontra, inoltre, una consistente fuga di capitali verso gli Stati Uniti, attirati dagli elevati tassi di interesse e dal cambio americano, anche se dopo la caduta del dollaro questa esportazione di capitali europei si è un po’ attenuata.
Gli squilibri interni Il governo Reagan può essere considerato come la locomotiva del cambiamento nel sistema finanziario e monetario occidentale. Dopo la politica morbida di Carter, che portò il dollaro al suo livello più basso del dopoguerra, arrivò al potere un uomo forte in materia di difesa e deciso a ristabilire l'egemonia militare di fronte all'Unione Sovietica. In politica interna, invece, egli lanciò un programma misto di populismo repubblicano e di rigidità monetaria. Si verificò così un inizio di deregulation e la pressione fiscale fu allentata. L’accoppiamento di una politica della spesa flessibile da parte dei poteri pubblici con una politica monetaria restrittiva, che non aveva fissato un tetto ai tassi d'interesse, fece risalire il valore del dollaro e di questi ultimi. Questo ripiegamento politico provocò, a partire dalla ripresa economica del 1983-85, un crowding out (massiccio assorbimento) sul mercato finanziario e su quello dei capitali statunitensi. Il risparmio privato netto americano - quello delle imprese e delle famiglie - fu assorbito dal deficit pubblico a partire dal 1982. Quando poi nel 1983 iniziò la ripresa economica degli Stati Uniti, questo crowding ont si accelerò ancora di più. La somma della domanda di spesa da parte delle famiglie e della domanda di investimenti da parte delle imprese determinò un prosciugamento sul mercato finanziario e dei capitali. Conseguentemente i tassi di interesse e il dollaro furono spinti a dei livelli record, cosicché essi svolsero la funzione di una calamita sui mercati finanziari e dei capitali internazionali. Sempre più numerosi i risparmiatori giapponesi ed europei, così come alcuni sceicchi del petrolio, videro in questo una buona occasione per depositare il loro surplus di liquidità negli Stati Uniti. Sebbene il deficit pubblico di Giappone, Germania e Gran Bretagna non sia stato all’inizio inferiore a quello degli Stati Uniti, in questi paesi l’effetto di crowding out è stato meno considerevole, dato il livello relativamente elevato del risparmio netto nelle loro economie. Tuttavia anche
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Germania e Gran Bretagna dopo il 1982 non conoscono una vera ripresa,
tanto che la domanda di investimento rimane inerte fino al 1985. Rimanevano però delle risorse in quantità sufficiente da cercare un deposito redditizio negli Stati Uniti. La Francia, che si era presentata agli anni Ottanta con un leggero surplus di bilancio, lo vide esaurirsi rapidamente dopo l’arrivo al governo dei socialisti. Nel 1982, in particolar modo Giappone e Germania rafforzarono la loro politica deflazionistica e si mostrarono decisi a comprimere il loro deficit pubblico e a combattere l’inflazione. Gli alti tassi di interesse determinarono, in tutte le economie occiden-
tali, degli effetti a spirale autonomi sul debito totale pubblico e quindi sul budget pubblico stesso. Infatti, se i tassi di interesse reali sono portati da un effetto a spirale ad un livello più alto del tasso di crescita reale del prodotto nazionale, ciò provoca un effetto a catena che gonfia l'ammontare del costo degli interessi gravanti sul debito pubblico totale. Tale effetto a catena esercita, quindi, una pressione supplementare sul budget pubblico già deficitario. Inoltre gli alti tassi di interesse conducono ad un ulteriore slittamento nel funzionamento dell'economia. Una volta che i tassi di interesse reali raggiungono, attraverso un movimento a spirale, livelli più elevati rispetto al tasso di crescita della produttività nel settore privato, ne risulta un trasferimento dei redditi della produzione (investimenti) e del lavoro verso i redditi delle operazioni finanziarie. Gli alti guadagni che si possono trarre da queste collocazioni (passive) sul mercato finanziario, indeboliscono considerevolmente la propensione a investire. Il condizionamento derivante da questo tipo di rendite è stato più forte in Europa Occidentale che in Giappone e negli Stati Uniti, dove la ripresa del 19831985 ha assicurato degli investimenti supplementari. Lo squilibrio delle bilance estere: sconvolgimento della geografia dei pagamenti Nel periodo 1975-1988 la configurazione dei pagamenti esteri si è completamente modificata. Durante il decennio 1970-1979 il centro di gravità degli squilibri esterni si situava tra i paesi esportatori di petrolio (opec), che accumulavano delle importanti eccedenze, ed i paesi in via di sviluppo, che invece lamentavano dei deficit altrettanto importanti. Al fine di colmare questi disavanzi, i paesi in via di sviluppo hanno fatto ricorso all’indebitamento presso il mondo bancario occidentale. A partire dal 1980 i paesi dell’opec hanno assistito all’erosione delle loro eccedenze in dollari (esportazioni). Da quel momento i paesi che potevano vantare una bilancia dei pagamenti in attivo sono stati Giappone e Germania, mentre gli Stati Uniti si sono profilati come il paese con un enorme deficit esterno. Lo squilibrio è venuto pertanto a porsi proprio nel cuore del blocco occidentale.
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Durante gli anni Ottanta abbiamo assistito al continuo accrescimento del deficit delle bilance estere delle economie occidentali. Per giustificare questa evoluzione si è spesso fatto ricorso all'aumento del prezzo del petrolio; ma dal 1982, i prezzi internazionali
del petrolio sono stati
tendenzialmente più bassi e a partire dalla fine del 1985 hanno subito una netta contrazione. Gli squilibri hanno dunque delle ragioni più profonde: essi non possono essere dissociati dall'evoluzione degli indicatori di base nella sfera reale (cioè la reale capacità concorrenziale) e dall'evoluzione dei tassi di cambio. I) Il Giappone ha rapidamente riassorbito il deficit del secondo choc petrolifero e si trova ora nel collimatore internazionale mentre il successo delle proprie esportazioni non conosce freno. Dopo che dalla bilancia estera sono stati sottratti i servizi, rimane ancora un consistente surplus per alimentare le esportazioni ed i capitali. II) La Francia rimane in rosso. Ma trattandosi di un’ex-potenza coloniale, essa beneficia ancora del reddito positivo proveniente dalla bilancia dei servizi, che attenua il deficit commerciale. Lo stesso discorso vale per la Gran Bretagna che, grazie ai ricavi degli investimenti all’estero, può pareggiare una bilancia commerciale in via di deterioramento. III) La Germania gode parimenti di un considerevole surplus (quasi
uguale a quello del Giappone, per abitante), ma soffre di una grande perdita dal lato della bilancia dei servizi. IV) Gli Stati Uniti detengono, comunque, il primato in materia di deficit esterno. Tavola 1. Bilancia estera
1980 Stati Uniti
1982
1987
1988
TEST
-8,69
-153,96
-132,0
Giappone
-10,75
+6,85
+87,20
+79,0
Germania
-13,83
POT
+44,95
+45,0
(Conti correnti in miliardi di dollari)
Attualmente gli Stati Uniti assorbono l'11% del risparmio mondiale, più di Brasile e Messico. L’inversione, nei flussi annuali della bilancia dei pagamenti, dalla posizione di esportatore di capitali a quella di importatore di capitali ha intaccato la posizione di potenza degli Stati Uniti (cioè il surplus degli attivi esterni rispetto ai passivi esterni). Le conseguenze di questo fatto sono conosciute.
I) Il deficit in capitali degli Stati Uniti ha funzionato come polo di
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2%
attrazione ed ha attirato i capitali stranieri. Il deficit esterno americano ha fatto innalzare i tassi di interesse, e ciò ha provocato un effetto a catena attirando ancor più capitali verso gli Stati Uniti. Paradossalmente, il mondo bancario statunitense, dalla fine del 1979, aveva concesso degli enormi crediti a una serie di nuovi paesi industrializzati: Brasile, Messico, Corea del Sud, ecc. Ma, poco a poco, questi ultimi minacciarono di essere strangolati dagli alti tassi di interesse e di dichiarare forfait. Da quel momento, il problema dei debiti del Terzo Mondo è stato esposto ed analizzato, nelle varie pubblicazioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, in modo regolare ma rituale. Si tralascia sempre più di rilevare che il nostro mondo finanziario vi godeva di allocazioni redditizie e che il nostro mondo industriale avrebbe potuto consegnare delle attrezzature ai debitori. Al contrario, l’attenzione si è focalizzata in maniera puntigliosa sull'effetto trainante del deficit esterno americano. Mentre sull’effetto destabilizzatore (sui tassi di cambio ed i
tassi di interesse), conseguenza dell’assorbimento americano di un grande ammontare di liquidità, le stesse pubblicazioni tacciono pudicamente, come nelle famiglie in cui il padre beve (troppo). II) La forza di attrazione del mercato finanziario e dei capitali statunitensi ha inoltre innalzato a livelli record il dollaro. Dal 1980 al 1986, il valore medio nominale del dollaro è aumentato effettivamente del 58%;
in particolare, l'aumento è stato del 142% rispetto al franco francese, dell’83% rispetto al marco tedesco e del 18% rispetto allo yen giapponese. I dirigenti americani si sono, però, lavati le mani delle conseguenze derivate dal loro deficit, interno ed esterno, cioè della sopravvalutazione del dollaro e degli elevati tassi di interesse, come se si potesse non tenerne conto (derign neglect). E questo atteggiamento è continuato finché la retroguardia, che soffriva di queste conseguenze, non ha esercitato una pressione politica attraverso: I) l'agricoltura esportatrice; II) le banche, che avevano concesso dei grossi prestiti ai paesi del Terzo Mondo e che temevano il crollo della piramide finanziaria, già vacillante per alcuni dei loro debitori e per se stesse; III) il settore industriale produttore di beni di consumo tradizionali, che vedeva crollare la propria capacità concorrenziale sul piano internazionale o la sua capacità di esportare. 4. La traiettoria di crescita giapponese
A partire dall'inizio degli anni Settanta, il Giappone si è elevato al rango di grande potenza economica. Tra il 1955 e il 1974, il paese del sol
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levante ha realizzato un tasso di crescita spettacolare. Trattandosi di un'economia povera di materie prime ed ancora orientata verso i settori di base, il Giappone ha risentito fortemente dello choc provocato dalla prima crisi petrolifera. Da allora, esso ha deciso di intraprendere la strada della riconversione strutturale, verso una produzione ad alta tecnologia. Questa politica, nella quale poteri pubblici e settore privato lavorano congiuntamente con flessibilità, ha dato i seguenti risultati: I) lo spostamento della produzione dall'industria di base a largo consumo di materie prime e di energia a beni più nobili, ha prodotto un notevole risparmio di materie prime e di energia; e dal momento che queste ultime sono prodotti importati, il cambiamento avvenuto nella produzione ha allo stesso tempo ridotto le importazioni; II) il passaggio a prodotti con maggior valore aggiunto ha consentito di produrre dei beni che meglio rispondevano alla dinamica della nuova domandae che erano quindi in grado di affermarsi sia sui mercati nazionali che su quelli internazionali. Il Giappone ha sorpreso tutto il mondo non solo per aver creato in breve tempo un'industria di punta, ma soprattutto per l’elevata produttività da essa rapidamente raggiunta. La robotizzazione è fortemente presente. Il cambiamento della produzione è stato spinto all'estremo soprattutto nei settori della costruzione meccanica ed elettrica (elettronica) e dell’au-
tomobile. Il successo del paese per quanto riguarda la crescita economica e l'export è spiegato, nella letteratura giapponese, da una serie di fattori: I) la disciplina sociale è ancorata alla cultura collettiva;
II) la regolazione flessibile nella ripartizione del reddito nazionale tra il capitale e il lavoro. In Giappone il sistema di contratti collettivi è legato all'impresa. E l'assegnazione degli stipendi e dei salari viene decisa ex post sulla base del rendimento delle imprese. In questo modo è stato posto un freno alla deriva «anticipativa» dei salari e dei prezzi. Con questo sistema flessibile di contratti collettivi, il Giappone ha raggiunto un elevato grado di impiego (quindi un basso livello di disoccupazione) insieme ad un’inflazione contenuta. III) Una politica macro-economica, attraverso la qualeipoteri pubblici mirano, tra le altre cose, ad influenzare la spontanea correzione verso l’altro del tasso di cambio nazionale, mantenendo allo stesso tempo il più basso possibile il tasso di sconto (o tasso di interesse). Una politica che
concede denaro a basso costo stimola l’attività interna e contemporaneamente induce i risparmiatori e l'economia esportatrice a mantenere i propri surplus all’esterno. Essa attiva, quindi, l'esportazione di capitali, il che attenua nuovamente la correzione verso l’altro del tasso di cambio, alimentata dall'enorme surplus esterno.
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IV) Nell’economia giapponese un armonioso rapporto di affari si è sviluppato tra le grandi imprese, spesso internazionali (z4/batsz), e tra le loro P.Mm.I1. che funzionano principalmente come subappaltatrici delle zaibatsu. Nei nostri paesi, le P.M.I. sono spesso delle subappaltatrici di società straniere ed in questo modo diventano maggiormente dipendenti dagli stimoli esterni. Questa accentuazione della ripartizione internazionale del lavoro riveste una notevole importanza per la velocità con cui gli choc congiunturali vengono assimilati. Rispetto ai loro omologhi giapponesi, le nostre P.M.I. reagiscono più lentamente, poiché sono messe in movimento dagli stimoli esterni. L'economia giapponese è, dunque, un’enorme economia di trasformazione che, in modo molto produttivo, sa convertire in prodotti finiti le materie prime ed i prodotti energetici importati. Tali derivati hanno riscontrato un grosso successo sui mercati nazionali, ma sopratutto in quelli internazionali. Il surplus globale trova poi una valvola di sicurezza en in una consistente esportazione di capitali, grazie alla quale il Giappone penetra in misura crescente nelle strutture di produzione straniere (attraverso degli investimenti diretti), così come nei mercati finanziari e dei capitali internazionali (attraverso degli investimenti in titoli).
Il Giappone rappresenta, quindi, un modello di crescita stimolata dalle esportazioni. Ma dal 1980 la politica mercantilistica è stata troppo aggressiva e la crescita si è appoggiata troppo sui mercati «esterni». Una riallocazione del centro di gravità verso i mercati «interni» ci sembra, quindi, inevitabile per risanare gli squilibri esterni dell'economia occidentale. È soprattutto lo squilibrio esterno tra Giappone e Stati Uniti che costituisce un grosso problema. 5. La Comunità Europea
All’inizio di questo studio abbiamo fatto riferimento alla manovra di recupero dei principali paesi della Comunità Europea nei confronti degli Stati Uniti in materia di produttività media. L'aumento della produttività nel secondo dopoguerra, dunque, è stato più elevato in quest'area che in quella statunitense. Dopo il 1983, l'aumento della produttività dell'Europa Occidentale per unità di lavoro uguagliava ancora quella degli Stati Uniti, ma a prezzo di un elevato costo sociale: diminuzione dei posti di lavoro e livelli record di disoccupazione. Rispetto agli Stati Uniti, l’area cee ha condotto una politica piuttosto debole in materia di impiego, per tutto il periodo del
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dopoguerra. È possibile inoltre notare nell’industria, a partire dall’inizio degli anni Settanta, una perdita di manodopera in conseguenza di una deindustrializzazione totale.
Questa politica ha creato un problema di disoccupazione strutturale. Dopo il 1979, solo il settore terziario assistito (we/fare state) ha continuato a reclutare nuovi addetti, anche se in maniera più lenta. Ma quando, poco dopo, i paesi della ceE hanno fatto ricorso a una politica per il risanamento dei deficit pubblici, l'assorbimento di manodopera negli organici statali ha avuto termine. Nel 1988, la percentuale di disoccupati all’interno della ceE è balzata al 10% della popolazione attiva. Al contrario degli Stati Uniti, il nostro continente registra un surplus esterno, ma questo dato positivo è controbilanciato da un maggiore deficit nel mercato del lavoro. In Europa, i
consistenti sussidi, concessi dai poteri pubblici al fine di dare nuovo slancio all’industria, non hanno ancora suscitato degli investimenti rilevanti. La CEE gode di un surplus esterno globale (sia della bilancia commerciale che dei conti correnti) in gran parte prodotto dalla Germania. La caduta del dollaro costituirà sicuramente, a medio termine, un freno
per le esportazioni europee verso gli Stati Uniti. Ma le esportazioni della cEE verso l’area del dollaro hanno un peso nettamente inferiore rispetto alle importazioni comunitarie conteggiate in valuta americana. L'ammontare del debito petrolifero (anche quello con il Medio Oriente) e l’esborso per il pagamento di certe materie prime sono d’altronde conteggiati in dollari. La ripercussione negativa dovuta alla caduta del tasso di cambio del dollaro non è perciò così grave come la /obby degli esportatori europei vorrebbe far credere. Un corso del dollaro più realista garantisce all'Europa Occidentale una serie di effetti positivi: I) l’inflazione importata, nascosta dietro ad un dollaro sopravvalutato (importazioni provenienti dagli Stati Uniti, importazioni di petrolio e di altre materie prime), avrà un ruolo minore rispetto al passato; la caduta del prezzo del petrolio agisce nello stesso senso per strozzare l’inflazione; II) dopo l’abbassamento del dollaro, gli investimenti di portafoglio in valuta americana sono diventati meno attraenti. I paesi dell'Europa Occidentale possono d’ora in poi condurre una politica più autonoma sul tasso di interesse (un tasso di interesse reale più basso). Ciò potrebbe comportare un doppio stimolo: a) nel senso di dare nuova vitalità agli investimenti nel nostro continente, grazie al fatto che il denaro diventa meno caro;
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b) scoraggiando le esportazioni di capitali verso gli Stati Uniti e quindi rendendo disponibili nel nostro continente un maggior volume di capitali europei.
E nostra opinione che l'Europa Occidentale può da questo momento intraprendere una politica orientata verso una maggiore crescita economica e l'aumento dell'impiego. La disoccupazione, che interessa circa il 10% della popolazione attiva, e la considerevole somma di trasferimenti improduttivi che ne deriva e che pesa sulla Comunità (pubblici poteri), non ci sembrano costituire un progetto sensato. L'attuale congiunzione favorevole, che ha ridotto il pericolo dell’inflazione, consente all'Europa
Occidentale di rischiare una politica più attiva in materia di crescita economica e di creazione di nuovi posti di lavoro.
6. L’indebitamento dei paesi in via di sviluppo L'ammontare dell’indebitamento è massiccio ed è stato stimato dalla Banca Mondiale per un totale di mille miliardi di dollari. Approssimativamente i due terzi dei crediti sono detenuti da banche private alle condizioni di mercato (cioè a tassi di interesse elevati). Mentre un terzo dei
debiti è detenuto dagli organismi di aiuto ufficiali e dalle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazio-
nale. Il debito dei paesi in via di sviluppo è caratterizzato da una forte concentrazione: I) dal punto di vista dei debitori, tredici paesi hanno preso in prestito circa i due terzi del debito totale mentre, i quattro più grossi debitori (tutti dell'America Latina: Brasile, Messico, Argentina e Perù) rappresentano la metà del debito totale;
II) anche dalla parte dei creditori, comunque, si riscontra una grossa concentrazione; tra questi ci sono le più grandi banche dei paesi industrializzati (soprattutto banche americane), ad essere le più impegnate nei prestiti ai paesi in via di sviluppo. Per molti paesi in via di sviluppo il debito rappresenta un multiplo degli incassi annuali ricavati dalle esportazioni, e il servizio del debito (cioè il totale dei tassi di interesse da sborsare annualmente) può giungere a rappresentare un quarto delle esportazioni. Nella tavola n. 2 il lettore troverà alcune cifre e coefficienti per i quindici paesi che fanno parte del gruppo Baker.
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Tavola 2. Coefficienti significativi del debito
1. Totale del debito dei quindici paesi In percentuale sulle esportazioni 2. Totale esborsi per interessi annuali In percentuale sulle esportazioni
1981
1988
348 212%
505 315%
36 22%
42 26%
(In miliardi di dollari)
A causa di questa enorme mole, l'indebitamento conquista l’immaginazione e suscita delle emozioni sia da parte dei creditori che da parte dei debitori. Da qualche anno le grandi istituzioni finanziarie e monetarie delle due parti in causa stanno cercando una soluzione. Le proposte prese in considerazione sono le seguenti:
I) la prima soluzione prospettata prevede un indebitamento supplementare attraverso la concessione di nuovi crediti. Ciò comporterebbe un ulteriore aumento del debito. Di fronte a questa soluzione i creditori, soprattutto le banche americane, sono reticenti. Dal momento che gli stessi Stati Uniti hanno un deficit finanziario esterno, una soluzione di
questo genere creerebbe dei grossi problemi ai mercati finanziari americani e diminuirebbe la credibilità del dollaro. II) La seconda soluzione propone, invece, il riequilibrio interno dei
paesi debitori. Dietro questo termine tecnico si nascondono delle politiche di rigore il cui obiettivo è duplice: frenare severamente le importazioni e stimolare invece le esportazioni. Ne risulterebbe una diminuzione del prodotto (reddito) interno per i paesi debitori e ciò costituirebbe un freno per la loro crescita economica e quindi per il loro sviluppo. Un tale rigore ottenuto col freno della crescita economica di un paese, sicuramente, non manche-
rebbe di far insorgere problemi sociali e politici. Questa politica del riequilibrio interno è minacciata da un doppio pericolo: a) pericolo di tensioni sociali e sindacali;
b) pericolo politico per il mantenimento della democrazia: le politiche di rigore hanno da sempre invitato i militari al potere, al fine di disciplinare le aspirazioni della massa dei consumatori. III) La terza soluzione prospettata è un piano di ristrutturazione dei
rapporti finanziari attraverso la tecnica della titolarizzazione dei debiti. Ciò comporta la mutazione di un debito bancario in una partecipazione
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50)
finanziaria. Quest'ultima soluzione è stata raccomandata dal presidente di una delle più grandi banche americane (la Citycorp), ma la realizzazione di questa tecnica necessita di tempi lunghi e di un senso di solidarietà che fa ancora difetto negli ambienti finanziari occidentali. Per un certo numero di paesi la titolarizzazione del debito è già iniziata. Tuttavia il volume di questa riconversione è ancora modesto, come mostrano le cifre della tavola n. 3. Tavola 3. Il volume della titolarizzazione
Argentina Bolivia Brasile Cile
5% 10% 8% 16%
Filippine Messico Nigeria Venezuela
4% 3% 1% 1%
(In miliardi di dollari)
IV) Una quarta soluzione propone di mobilitare e di far rimpatriare le fughe di capitali all’estero dei residenti nazionali. Infatti, uno dei paradossi consiste nel fatto che alcuni cittadini ricchi dei paesi indebitati depositano somme considerevoli presso banche estere, per timore della svalutazione della moneta nazionale. Tavola 4. Totale del capitale depositato all’estero
Argentina
1980
1982
1987
Io!
35
46
Bolivia
il
Il
Brasile
6
8
Cile Colombia Costa d'Avorio
(0) (0) 1
Îl 0 1 4
g
31 2 7 0 7
Ecuador
3
Filippine
fit
9
D2:
Messico
19
14
84
Marocco
(0)
Nigeria
6
Perù
(0)
Îl
D
Uruguay
0
2
4
15
33
58
3
3
6
Venezuela
Yugoslavia (In miliardi di dollari)
(0)
13
3
20
34
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E DEMOCRAZIA
ECONOMICA
I paesi in cui i beni della borghesia e dei ricchi sono stati esportati in maggior quantità, sono Brasile, Argentina, Venezuela, Messico e Filippine. Coloro che ricorrono all’esportazione di capitali considerano l’estero come un rifugio contro l’inflazione o contro le misure fiscali del governo nazionale. I creditori stranieri (banche estere) citano spesso questo paradosso, per cui essi prestano denaro a paesi che si indebitano, ma dove un gran numero di ricchi esportano i propri capitali all’estero. Si tratterebbe quindi, in parte, di un circolo vizioso. 7.Le trasformazioni del Sistema Monetario e finanziario Internazionale
Nel corso degli ultimi quindici anni lo sMI si è profondamente trasformato. I cambiamenti e le evoluzioni più caratteristiche sono le seguenti. Evoluzione verso la libera fluttuazione dei tassi di cambio Dopo più di un quarto di secolo di stabilità dei tassi di cambio (regime
di Bretton Woods dal 1945 al 1973), si è giunti ad una fluttuazione abbastanza rilevante nelle parità tra il valore esterno del dollaro, del marco tedesco e dello yen giapponese. Questa instabilità del cambio stimola e alimenta i movimenti speculativi. Per mettersi al riparo dagli effetti perversi di questa fluttuazione, alcuni paesi europei hanno dato origine allo sME (Sistema Monetario Europeo).
L’internazionalizzazione dei mercati dei capitali La rinascita di idee neoliberiste ha favorito la deregulation dei mercati finanziari ovvero l’abolizione degli impedimenti burocratici; questo fatto ha consentito ai grandi attori multinazionali (grandi banche, industrie multinazionali, investitori internazionali, ecc.) di integrare i circuiti fi-
manziari in uno spazio finanziario mondiale e globale. L'integrazione dei circuiti finanziari è diventata molto più rapida dell’interpenetrazione tra le sfere reali dell'economia ed anche della cooperazione intergovernativa, ad esempio, nel settore monetario. Le valute che circolano in questo mercato finanziario internazionale sono molte, il dollaro è preminente (50%), seguono le monete europee (25%) e lo yen giapponese (25%). All’avanguardia del mercato globale c'è stato e continua ad esserci l’euromercato. Secondo un'indagine compiuta nel 1986, una giornata di transazioni sul mercato dei cambi equivale ad un volume medio di 50 miliardi a Tokyo e di 90 miliardi a Londra. Mentre una giornata calcolata sulla cifra
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SÒ
d’affari del commercio mondiale non oltrepassa i 15 miliardi di dollari. Il volume degli scambi reali (commercio mondiale di merci) è da 15 a 20 volte inferiore al volume degli scambi finanziari (movimenti di capitali) che si verificano ogni giorno. La crescita più rapida della sovrastruttura finanziaria rispetto alla sfera reale dell'economia (dai beni ai servizi) è stata chiamata, tecnici, la «finanziarizzazione» dell’economia.
in termini
Finanziarizzazione e globalizzazione dell'economia sono i caratteri salienti del momento attuale. Gli squilibri esterni, soprattutto quello degli Stati Uniti, hanno stimolato lo sviluppo del mercato finanziario globale.
Attraverso la globalizzazione del mercato internazionale, il finanziamento di un deficit di bilancio nazionale oppure di un aumento di capitale di una grande impresa non è più un onere da ripartire tra il contribuente ed il risparmiatore nazionale. Oggi la ricerca dei capitali necessari viene fatta su tutto il pianeta. Il risparmiatore giapponese ed in minor misura il risparmiatore europeo vanno a sostituirsi al contribuente ed al risparmiatore statunitense per finanziare i due deficit americani: la bilancia estera ed il disavanzo dello Stato Federale. I paesi ad economia forte si sono evoluti al di fuori della disciplina del Fondo Monetario Internazionale. Mentre quest’ultimo è diventato sempre più l’agente di controllo della disciplina finanziaria dei soli paesi in via di sviluppo.
A causa della finanziarizzazione dell'economia, il rapporto tra la sfera reale (gli investimenti per aumentare la capacità produttiva) e la sfera finanziaria è stato profondamente sconvolto. Il guadagno immediato e di tipo speculativo ha avuto la meglio sui rischi che possono derivare dall’investimento nella sfera reale. La finanziarizzazione ha, cioè, prodotto un trasferimento di risorse verso collocazioni puramente finanziarie, sottraendole al settore industriale. Per il futuro prevediamo la necessità di ridurre le fluttuazioni dei tassi di cambio e di allargare il sistema monetario internazionale, attualmente basato solo sul dollaro, anche ad altre monete, quali ad esempio lo yen giapponese ed il marco tedesco. Sono finiti i tempi in cui la moneta di una sola nazione poteva garantire il funzionamento del sistema monetario internazionale.
Vecchia e nuova vulnerabilità Nel sistema finanziario economico a base nazionale la vulnerabilità deriva dal fatto che una nazione deve risolvere essa stessa gli choc interni ed esterni attraverso un riequilibrio al proprio interno. Tale vulnerabilità agli choc esterni è stata attenuata grazie alla globalizzazione dei mercati finanziari. Questa mondializzazione, infatti, fa sì che il mercato finanzia-
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ECONOMICA
rio internazionale sia pronto ad assorbire i debiti esterni cui hanno dovuto ricorrere i paesi in deficit. Il sistema bancario internazionale ha accordato dei prestiti, per un ammontare considerevole, alle imprese in difficoltà nei paesi in via di sviluppo e dal 1982 agli Stati Uniti per colmare il loro disavanzo. La finanziarizzazione dell'economia ha intensificato ancora questo sviluppo. Essa è un movimento attraverso il quale l’intermediazione finanziaria delle banche è amplificata per mezzo della titolarizzazione dei debiti, cioè attraverso una mobilitazione diretta da parte delle imprese di risorse finanziarie sotto forma di titoli: azioni, obbligazioni ed altri effetti. In questo modo ci stiamo avviando verso «un'economia dei mercati di capitali».
Se la globalizzazione dei mercati finanziari aiuta a meglio regolare gli squilibri interni, bisogna tuttavia constatare che la coerenza interna di questi mercati globali è sempre più fragile. Infatti la globalizzazione e le innovazioni tecniche creano, attraverso l'enorme massa di interventi quasi automatici, la loro propria instabilità. Inoltre, i mercati finanziari manifestano una tendenza innata a reagire in funzione di informazioni 0 anticipazioni di certe perturbazioni, quali ad esempio il cambiamento nel rapporto di parità tra i tassi di cambio americano, tedesco e giapponese. Il mercato, quindi, presenta delle «bolle speculative», ma lo choc borsistico dell’ottobre 1987 ha dimostrato che i responsabili hanno imparato a gestire le crisi meglio che in passato. 8. La ristrutturazione del capitale Dall'inizio degli anni Ottanta, gli Stati Uniti hanno conosciuto una notevole smania di fusioni ed acquisizioni (F & A) di imprese e di offerte pubbliche (opa). Questo fenomeno ha fatto la sua comparsa in Europa da qualche tempo. Qui il fermento suscitato dalle F & A e dalle OPA si è intensificato a motivo delle prospettive dell’Euromercato integrato del 1993. La prospettiva 1993 ha come risultato il fatto che alcune imprese nazionali si fondono per dare vita a delle «imprese europee». Il numero ed il volume di F & A e di oPA dimostrano comele economie occidentali siano in piena ristrutturazione. Questa ristrutturazione ha molteplici aspetti.
L'ostruzione della crescita esterna Le F & A e le OPA costituiscono un mezzo di crescita esterna per le imprese. Infatti, la fusione o l'acquisizione sono mezzi per appropriarsi del mercato del partner. In Europa questo fattore riveste un’enorme importanza in vista del 1993. L’internazionalizzazione delle imprese stimola la mondializzazione della concorrenza. In presenza della globalizzazione dei
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mercati, la creazione di filiali, succursali o uffici di rappresentanza non è più conveniente per le imprese che intendono conquistare a breve termine nuove fette di mercato. L'acquisto di un'impresa generalmente risolve in modo più rapido il problema di allargare il proprio mercato. Concentrare l'attività delle imprese sulla Specializzazione La moda dei grandi conglomerati è passata. La borsa sottovaluta abbastanza spesso i conglomerati, che sono anche difficili da gestire. La vendita di una parte di un conglomerato può nascondere molteplici ragioni. La Fr& A può essere fatta per realizzare un profitto immediato o per liberarsi di un management considerato insufficiente o non ottimale. Il rapporto di forza tra capitale e management Nel periodo del dopoguerra abbiamo assistito alla «rivoluzione manageriale», prima negli Stati Uniti e poi in Europa. Dei managers professionisti assumevano una posizione preminente rispetto all’azionariato (il capitale), che era mantenuto in una posizione più o meno passiva. La rinascita del paradigma neoliberale ha ridato maggiore sicurezza ai detentori di capitali e all’azionariato, mentre le F & A e le OPA destabilizzano la posizione dei managers. 9. Conclusione
La rinascita dell’ideologia liberale ha influenzato la struttura della percezione che sostiene la teoria economica dominante. Il paradigma dominante postula infatti una più grande libertà per le imprese ed un funzionamento dei meccanismi di mercato in cui l’intervento delle organizzazioni di correzione sociopolitica èminimo. A livello internazionale le organizzazioni intergovernative di arbitraggio (FMI e GATT) hanno perduto l’iniziativa a favore di una concorrenza
nazionale più intensa. Questo sistema del capitalismo «libero» non crea solo delle ingiustizie, ma anche degli squilibri interni ed esterni. Infatti nella maggior parte delle economie nazionali la parte di reddito imponibile (monte salariale globale) si è abbassata e la parte dei profitti e delle rendite di capitali è aumentata considerevolmente. Nell’economia internazionale i paesi del Terzo Mondo ed anche i paesi in via di industrializzazione sono marginalizzati e indebitati nei confronti del centro.
Ad ogni modo, da un movimento dialettico nelle idee e negli sviluppi concreti, si può notare in certi ambienti intellettuali un nuovo interesse per la dimensione etica negli affari economici. Per il momento questo
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ECONOMICA
salutare movimento «controcorrente», che invoca la giustizia sociale come criterio di valutazione e di politica economica, prende forza. Per esempio, alla K. U. Leuven, la mia università, abbiamo creato un centro
di studi e ricerche sull’etica economica. Simili iniziative sorgono contemporaneamente nei centri universitari di numerosi paesi. Ed infine è molto incoraggiante che la Chiesa italiana voglia sostenere questa corrente benefica con i lavori di questo convegno.
Sul reinserimento della dimensione etica nel discorso economico
di Stefano Zamagni
Introduzione
In questo saggio mi propongo di dare conto del perché in questi ultimi tempi si stia assistendo, nel campo della teoria economica, ad una vigorosa ripresa della dimensione etica nel discorso economico e di discutere le prospettive che da tale ripresa paiono emergere. Certo può fare specie parlare di rapporto tra etica ed economica dopo oltre un secolo di asserzioni e di pronunciamenti sulla neutralità della scienza economica. C'è, su questo tema del nesso tra economia ed etica, un silenzio un tantino ossessivo che sa un po’ di rimozione. Quando esso viene rotto, come accade sempre più di frequente in questi anni, si ha un'impressione mista di sorpresa e di fastidio. Eppure la passata di moda dello statuto epistemologico neopositivista dovrebbe rendere sempre più manifesta la insostenibilità, oltre che la indesiderabilità, della tesi neutralistica in un ambito di
studio quale quello economico. In quel che segue verranno criticamente discussi itre punti seguenti. Primo, qual è il fondamento della tesi della neutralità della scienza economica. Secondo, quali ragioni e quali circostanze hanno provocato l’entrata in crisi di quella tesi, facendo in tal modo crollare antiche certezze. Terzo, perché una via credibile di uscita dall’im2passe non può fare a meno di affrontare il nodo del rapporto tra equità e efficienza e quindi perché soluzioni del tipo «etica degli affari» non pare possano sortire gli effetti sperati. 1. Il fondamento della tesi della neutralità della scienza economica
Consideriamo dapprima, seppure brevemente, il contesto nel quale nasce e si consolida la tesi della neutralità della scienza economica, la tesi
cioè secondo cui esiste una sfera di relazioni sociali, quelle che transitano per il mercato, che non ha alcun bisogno di essere assoggettata al giudizio morale. Gli storici delle idee narrano che l'economia, ai suoi albori disciplinari, riesce ad emanciparsi dall’etica, e in tal modo riesce a
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ECONOMICA
risolvere il conflitto morale, attraverso l'affermazione del principio secondo cui l’agire economico è di per sé orientato al bene. L'azione economica si differenzia da ogni altro tipo di azione umana in quanto elude la moralità senza però esservi contraria.
Infatti l'osservazione
corrente,
mentre ci informa che gli individui sono orientati a soddisfare passioni 0 interessi egoistici, ci mostra anche che le azioni che i singoli pongono in essere hanno conseguenze positive a livello collettivo, senza peraltro tendervi coscientemente. Come si ottiene questa armonia degli interessi individuali e collettivi? Semplicemente, postulando l'identità degli obiettivi economici individuali e sociali. L'atteggiamento acquisitivo, competitivo dell’uomo viene concepito come un dato di natura. D'altra parte, le passioni egoistiche, dirette dalla switbiana mano invisibile, raggiungono necessariamente un grado di coordinamento che permette la realizzazione dell’interesse generale senza bisogno di interventi esterni, espressione di un'autorità morale o politica estranea al mercato. Non è dunque necessario subordinare l’interesse personale a fini superiori. La socializzazione delle passioni umane ha infatti luogo per mezzo di quel meccanismo automatico e naturale che è il mercato concorrenziale, un'istituzione che emerge essa stessa dalla naturale propensione umana alla divisione del lavoro e quindi allo scambio. È ad A. Smith che si deve la prima chiara ed esplicita «dimostrazione» dell’asserto secondo cui il mercato, in quanto luogo nel quale tutti i soggetti agiscono parametricamente e atomisticamente, è il solo tipo di istituzione necessaria e sufficiente ad assicurare la compatibilizzazione degli obiettivi individuali e sociali. Infatti, se gli individui vogliono di più, lo stesso vuole la società; gli uni e l’altra perseguono dunque il medesimo obiettivo. D'altro canto il perseguimento di questo comune obiettivo è realizzato, nel miglior modo possibile, per mezzo del mercato, il quale presuppone, però che i soggetti aderiscano ad un ben preciso codice di comportamento etico la cosiddetta «moralità mercantile», caratterizzata da valori quali onestà (mantenere gli impegni presi) e fiducia (credere che gli altri siano onesti). Insomma, interesse personale, moralità mercantile e un ordinato sistema di leggi è tutto quanto occorre per il conseguimento dell’armonia sociale e del bene comune. La nascita del pensiero economico moderno è caratterizzata dal fatto che esso si configura prevalentemente come descrizione di meccanismi a mano invisibile cui si propone di affidare le sorti del benessere. Ciò costituisce il punto di arrivo di una lunga tradizione di pensiero. Quando, a partire dal XVII secolo si comincia ad esaminare in modo sistematico il funzionamento effettivo dei mercati, gli studiosi di cose economiche scoprono qualcosa di altrettanto traumatico quanto quello che Machiavelli e Montesquieu avevano scoperto sul fronte della scienza politica. Non mi riferisco soltanto al celebre paradosso di Mandeville sui vizi privati che,
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ETICA NEL DISCORSO ECONOMICO
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stimolando il commercio di generi di lusso, produrrebbero benefici pubblici. Tempo prima, già alla metà del XVII secolo, alcuni pensatori francesi profondamente religiosi - il più insigne dei quali è Pascal - si accorgono che una società ben ordinata può esistere e sopravvivere anche senza essere basata sul’amore o sulla carità. Un altro principio - essi scoprono - può adempiere la funzione di organizzatore sociale: il principio dell'interesse personale. Sappiamo bene quale imbarazzo tale scoperta provoca in costoro e soprattutto quale enigma inquietante essa finisce col porre: una società che non è tenuta insieme dall'amore è peccaminosa, come può allora funzionare in maniera così ammirevole da sembrare che vi abbia messo mano
la Divina Provvidenza?
Come si è detto, occorre
attendere oltre un secolo prima che Smith arrivi a dissipare queste inquietudini. Dunque il pensiero economico moderno al suo nascere presuppone che nulla osti a pratiche di governo che intendono come bene preminente il benessere medio, senza riguardo al destino di ciascun individuo nel ciclo di vita considerato. Medio è il benessere cui principalmente si guarda sia sul piano sincronico che su quello diacronico; nel senso che un ciclo preso in considerazione sarà benigno se mediamente il benessere sarà maggiore, ossia se i sacrifici precedenti saranno più che compensati dai vantaggi seguenti. Se si conviene di chiamare «mentalità utilitaristica» quel modo di intendere i rapporti tra gli uomini a) che fa ritenere del tutto normale che non sia importante il destino di Tizio o di Caio, ma il destino degli uomini numericamente intesi; b) che riduce la libertà e i diritti al solo valore strumentale, cioè alle conseguenze da essi ricavabili, senza riconoscerne la validità intrinseca; c) che non riesce a tenere distinta la irridu-
cibile dualità del concetto di persona (la persona in termini di facoltà di agire viene brutalmente sottomessa alla persona in termini di benessere), si può allora concludere, con qualche semplificazione storica, che è sulla premessa etica dell’utilitarismo che l'economia, nella sua versione ortodossa, si costituisce come disciplina scientifica '. Non deve sfuggire la sottigliezza di una simile operazione culturale. Il discorso economico non ha bisogno alcuno di sottomettersi 0, quanto meno, di fare i conti con l’etica per la semplice ragione che esso incorpora già, a livello di fondamenti, un'etica, quella utilitarista appunto. E su ciò che si appoggia la tesi della neutralità e, più specificatamente, quella logica di duplice separazione che ha consentito all'economia di affermarsi, nel corso di quasi due secoli, come la più solida e «prestigiosa» delle scienze sociali: la separazione tra creazione e distribuzione della ricchezza da un lato e la separazione tra motivazione delle azioni individuali e il loro risultato collettivo dall’altro. Conviene soffermarsi un istante sul senso della prima operazione di
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ETICA
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ECONOMICA
separazione, una separazione che afferma che giustizia distributiva ed efficienza sono tra loro antitetiche, sussistendo tra le due un irriducibile
trade-off. Si tratta del celebre dilemma di Bentham che Alfred Marshall traduce nei seguenti termini: «Dato per scontato che è desiderabile una distribuzione del benessere più uniforme, fino a che punto questa giustifica cambiamenti negli istituti della proprietà o limitazioni della libera impresa, quando da ciò scaturisce una diminuzione della ricchezza globale?» ?. In altri termini, per massimizzare - come esige il criterio di Bentham - la sommatoria delle utilità individuali occorre favorire politiche di redistribuzione della ricchezza in senso egualitario e ciò in vista del principio dell'utilità marginale decrescente. D'altra parte politiche del genere tendono ad annullare quel sistema di incentivi individuali che solo può assicurare una crescita della ricchezza. In epoca recente, Arthur Okun ha compendiato elegantemente il punto di vista dei più scrivendo: «Tutti i tentativi per dividere la torta in parti eguali riducono le dimensioni della stessa» ?. In Equality and Efficiency Okun esprime l’inefficienza degli interventi in chiave redistributiva con l’efficace immagine del «secchio bucato»: «Il denaro deve essere trasportato dal ricco al povero in un secchio bucato. Parte di esso sparirà semplicemente durante il tragitto». Alla base dell’idea, ancor'oggi assai diffusa, dell’antagonismo tra efficienza e giustizia sta il convincimento che il mercato, mentre è in grado di assicurare la prima (cioè l’ottima allocazione di risorse scarse) non è
anche attrezzato a risolvere questioni afferenti la seconda. Donde la ben nota giustificazione pragmatica dell'economia di mercato che, se può essere discutibile sotto il profilo della giustizia, resta tuttavia il più efficiente dei sistemi di organizzazione socioeconomica. Giova osservare che la giustificazione pragmatica del mercato è andata soggetta, nel corso del tempo, a numerose e contrastanti interpretazioni. Conviene qui far menzione a quella che Robertson avanza nel suo famoso
saggio What does the economist economize? del 1956 *. Secondo lo studioso inglese ciò che l'economista economizza - come appunto chiede il titolo del saggio-è «quella risorsa scarsa rappresentata dall'amore». «Amore» sta qui per solidarietà ovvero, come si era espresso Smith, benevolenza. È compito specifico della scienza economica quello di mostrare in che modo una adeguata diffusione del benessere possa essere assicurata senza fare eccessivo affidamento sulle esigue riserve di solidarietà di cui la società dispone e che pongono un limite ai trasferimenti di reddito che essa è in grado di tollerare. Economizzare
la solidarietà
(ovvero
la benevolenza)
non
significa
dunque, per Robertson e per la gran parte degli economisti, limitare l'offerta di misure solidaristiche e dunque il soddisfacimento di certi bisogni sociali, ma contenerne la domanda, procurando che il soddisfaci-
LA DIMENSIONE ETICA NEL DISCORSO ECONOMICO
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mento dei bisogni avvenga il più possibile per altra via, in primo luogo per mezzo del mercato. Di qui l'adesione a quel vasto programma economico efficacemente espresso dallo slogan trade not aid, nato appunto in quel torno di tempo. Alla concezione robertsoniana della solidarietà come risorsa soggetta a un rapido esaurimento è stato obiettato, da Fred Hirsch, che essa è
piuttosto una facoltà umana che si rafforza con l'esercizio e che rischia, se non esercitata, di atrofizzarsi ?. La tesi di Hirsch, che si rifà ad una antica
linea di pensiero economico e che include tra i suoi primi esponenti J.S. Mill, è che l'economia di mercato fa troppo poco affidamento sulla solidarietà e più in generale su quell’insieme di valori che è indispensabile al vivere sociale. Così facendo essa rischia di tagliare il ramo sul quale è seduta, dal momento che i valori che condanna a una lenta estinzione sono
indispensabili al suo stesso funzionamento: interesse personale e moralità mercantile non basterebbero infatti ad assicurare il regolare funzionamento di un'economia di mercato di tipo capitalistico. In sostanza l’errore starebbe nella confusione tra l’uso di una risorsa e la pratica di una capacità. L'amore e la solidarietà possono essere considerate delle risorse, ma certamente non delle risorse scarse, da economizzare. Esse possono invece migliorare con la pratica ed impoverirsi con il loro risparmio, anche se non sono certo inesauribili. La società capitalistica alimenterebbe dunque le sue stesse ragioni di crisi diffondendo la convinzione dell’autosufficienza degli interessi individuali e conducendo alla atrofia di quelle virtù sociali necessarie per la sua sopravvivenza. Un modo interessante di mediare tra la posizione di Robertson e quella di Hirsch è stato recentemente suggerito da Albert Hirschman °, quando afferma che occorre riconoscere l’esistenza di due «zone di pericolo», caratterizzate l’una da un eccessivo e l’altra da un insufficiente appello alla solidarietà. La medesima zona di pericolo, inoltre, non si raggiunge contemporaneamente in tutti gli ambiti della vita sociale. Persone che, in qualità di contribuenti, sono nella zona di pericolo
superiore, nella loro qualità di donatori di sangue - per usare l'esempio tratto da una ricerca di R. Titmuss - possono benissimo trovarsi nella zona di pericolo inferiore, con potenzialità che rischiano di inaridirsi per mancanza di sollecitazione. Generalizzando, la conclusione di Hirschman
è che il principale ostacolo al mantenimento di sistemi fiscali a ispirazione marcatamente solidaristica è rappresentato proprio dal contrasto fra tale ispirazione e quella, di segno opposto, che pervade il resto della vita e dell’organizzazione sociale. Di qui l’accorato invito di Hirschman a considerare come facente parte a pieno titolo della teoria economica la ricerca di «regole del gioco» adeguate alle finalità solidaristiche che la società intende darsi.
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2. Le ragioni della caduta di antiche certezze Cosa ha provocato l’entrata in crisi della sistemazione teorica e metodologica raggiunta dall'economia, da questa roccia della solidità positivista? Perché mai si è ad un certo punto cominciato a dubitare dell’immagine giustificazionista della razionalità economica, un'immagine che per così lungo tempo ha consentito all’economista di lavorare «indisturbato» da preoccupazioni etiche? In definitiva, cosa ha reso sempre meno credibile l’idea dell’economista-come-tecnico, esonerato, per così dire, dalla
necessità di pronunciarsi su questioni quali la scelta fra fini alternativi? In primo luogo è accaduto che, per un insieme di ragioni legate al processo stesso della crescita economica, si è andato sempre più dilatando il conflitto tra azione individuale e soddisfacimento delle stesse preferenze individuali. Ottenere quel che si vuole e fare come si vuole risultano incompatibili laddove sono presenti massicci fenomeni di interazione sociale. Mi limito ai casi più significativi. Il caso dei commons ’ (soggetti, ognuno alla ricerca dell’interesse personale, interferiscono tra loro a tal punto che collettivamente essi potrebbero stare meglio solo se il loro comportamento potesse venire vincolato, ma nessuno, individualmente, ha interesse ad auto-vincolarsi), e il caso dei «beni posizionali» nel senso
di F. Hirsch. In queste situazioni - che diventano sempre più frequenti mano a mano che un'economia avanza sul sentiero dello sviluppo - l’azione individuale non è più un mezzo sicuro per conseguire gli stessi obiettivi individuali. Si può mostrare che questi ultimi possono essere meglio raggiunti o mediante l’azione collettiva oppure ancorando l’azione individuale ad un codice morale di comportamento più «ricco» del codice di moralità mercantile (più ricco nel senso che esso, oltre a onestà e fiducia, include
valori quali derevolenza o solidarietà). Si considerino ancora i numerosi casi descritti dal celebre dilemma del prigioniero - casi che puntualmente si registrano ogniqualvolta si abbia a che fare con «beni pubblici»: i soggetti razionali sono condotti a scegliere l'alternativa che non massimizza il loro benessere. Sono note le argomentazioni dei sostenitori della tesi del libero mercato. Seguendo Coase, gli studiosi della scuola di Chicago ritengono che situazioni del
genere non rappresentano un fallimento del mercato, ma unfallimento delle istituzioni, nel senso che una corretta allocazione dei diritti di proprietà tra gli individui interessati al bene pubblico di cui si tratta risolverebbe il problema. Maè chiaro che in tal modo il problema viene solo rinviato e non risolto. In primo luogo perché potrebbe essere moralmente non accettabile attribuire diritti di proprietà per mezzo di un meccanismo d’asta. Secondo, perché anche a prescindere da ciò, si dimostra che schemi allocativi del
LA DIMENSIONE ETICA NEL DISCORSO ECONOMICO
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genere funzionano solo in assenza di rilevanti costi di transazione, cioè in assenza di un numero rilevante di agenti * Infine si considerino i casi, frequentissimi, dei mercati con informazio-
ne asimmetrica. Una delle condizioni del corretto funzionamento del mercato è un'informazione perfetta sui beni e servizi oggetto di contrattazione. Ora, è un fatto che la conoscenza del compratore è spesso di gran lunga inferiore a quella del venditore. (Si pensi al rapporto medico-paziente, al rapporto tra il meccanico e l'automobilista in pazze, e così via). In situazioni del genere, il soggetto in possesso di maggiore informazione viene sospinto dal criterio stesso di razionalità in una situazione di m0r4/ hazard o di adverse selection: ha l'incentivo a dire il falso, a violare cioè il codice di moralità mercantile che pure è necessario al corretto funzionamento del mercato. Come ha osservato tempo fa K. Arrow ?, l'adesione ad un codice kantiano di etica professionale può rimediare a queste forme
specifiche di insufficienza del mercato. Il fatto che vi sia bisogno di un comportamento etico non utilitaristico in situazioni in cui mercato e interesse personale, abbandonati al loro meccanismo, produrrebbero risultati indesiderabili ha riportato alla ribalta la nozione di benevolenza, quella nozione che Smith aveva irriso quando scrisse: «Non è dalla berevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal riguardo che essi hanno per il loro interesse. Il bisogno di norme e di comportamento etico che integrino e, all’occasione, sostituiscano l'interesse personale appare oggi con grande chiarezza nelle situazioni sopra rilevate di insuccesso del mercato, situazioni - si badi - tutt'altro che marginali. Ora, la diversità di risultati cui conduce
«l’azione
benevolente»
e
l’azione ispirata al familiare criterio di razionalità economica - il criterio reso popolare dal modello di rati0n4/ choice - non solo obbliga a rivedere quest’ultima (che razionalità è mai quella che porta a risultati subottimali), ma soprattutto getta seri dubbi sulla possibilità logica di mantenere tra loro separati il giudizio di razionalità inteso come giudizio circoscritto alla relazione tra scelte e preferenze («Date le sue preferenze, la scelta dell’azione compiuta fu razionale») e il giudizio morale inteso come giudizio sulle preferenze stesse («Posto che le sue azioni seguano razionalmente dalle sue preferenze, ritengo che si tratti di preferenze moralmente non giustificabili»). Si noti che l’impossibilità di restringere la nozione di razionalità al giudizio di adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini è qui di natura logica in quanto essa consegue allo scarto che l'interazione sociale determina tra intenzione e risultato dell’azione, alla divergenza cioè tra
risultati attesi e risultati effettivi della scelta individuale. Quale il senso ultimo dell’argomento? Quello di indicarci che i principi dell’interesse personale e della moralità mercantile sono incompleti come strumenti di organizzazione sociale laddove sono massicciamente presenti
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ETICA E DEMOCRAZIA ECONOMICA
fenomeni di interazione sociale, come appunto il caso nelle moderne economie ad avanzato grado di industrializzazione. In situazioni del genere il perseguimento del se/f-inzerest, se non è sostenuto e, in un certo senso, corretto da istanze etiche ben più forti di quelle di onestà e fiducia,
cessa di assicurare il raggiungimento dell’obiettivo dell’efficienza, quanto a dire che il meccanismo di mercato, da solo, non assicura più un risultato
che è Pareto-ottimale. La seconda ragione che ha costretto, in epoca recente, l'economista ad uscire allo scoperto e a confrontarsi sul terreno dell’etica è legata all’emergere nel dibattito scientifico, in forma del tutto nuova, di serie perplessità a proposito della validità del principio paretiano quale criterio di scelta in materia distributiva. (Si badi che l’impiego del criterio paretiano è un’acquisizione relativamente recente in economia. Esso si accompagna al passaggio dallo statuto cardinalista a quello ordinalista che si realizza intorno agli anni Trenta di questo secolo !°). Se si scorre la vastissima letteratura di economia del benessere e di teoria delle scelte sociali, non può certo non colpire il fatto della centralità del principio di Pareto, tanto che in tutti i casi in cui tale principio entra in rotta di collisione con altri principi - come accade nel celebre teorema di impossibilità del liberale paretiano dovuto a A. Sen !! - è su questi ultimi che si cerca di intervenire per renderli «compatibili» con quello di Pareto. Perché questa riluttanza ad intervenire sulla condizione di Pareto? Quali specifiche ragioni rendono questa condizione più desiderabile di diritti quali quello di libertà e di valori quale quello di equità, comunque definita? Dove attinge il criterio paretiano quell’aura di sacralità di cui sembra circondato? Indubbiamente una sua grossa virtù è la possibilità che esso offre di valutare stati sociali alternativi e quindi di fondare raccomandazioni di politica economica senza alcun bisogno di fare appello a confronti interpersonali di utilità o di benessere: determinare se ciascun individuo migliora o peggiora la sua condizione è tutto quanto viene in pratica richiesto. A ben considerare, si tratta di virtù di non poco conto se le preoccupazioni sono quelle di chi, come Walras, ritiene che la scelta di un certo stato sociale è legittima solo se su esso c'è il consenso di tutti o quanto meno non c'è l'opposizione di qualcuno - il cosiddetto «principio della valutazione unanime delle allocazioni» -. Invero, è questo aspetto centrale della dottrina liberale che il criterio di Pareto cattura e traduce in programma scientifico. Ciò non basterebbe però ancora a spiegarci. la centralità del principio di Pareto nella teoria economica. Il fattoè che il principio paretiano assolve ad una funzione assai più delicata: svincolare il discorso economico dall’imbarazzante questione del suo rapporto con l'etica. Vediamo come.
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Uno stato sociale è definito Pareto-ottimale se, e solo se, non esiste
alcuno stato alternativo possibile in cui almeno un individuo stia meglio e nessun altro stia peggio. D'altro canto, uno stato sociale x è definito Pareto-superiore ad uno stato socialey se e solo se vi è almeno un individuo che sta meglio in x che non in y, senza che nessun altro individuo stia peggio in x rispetto ad y. Pertanto, qualora si passasse da uno stato Paretoinferiore ad uno Pareto-superiore, chi potrebbe avere alcunché da obiettare o da criticare? Infatti, poiché almeno un soggetto guadagna e nessun’altro perde da un passaggio del genere, opporsi ad esso significherebbe esibire una «invidia irrazionale». Dunque individui razionali necessariamente acconsentono al criterio paretiano. Purtroppo così non è, come vogliamo ora mostrare. La nozione di utilità presupposta dal principio di Pareto è quella per cui il soggetto preferisce, e perciò sceglie, il più anziché il meno di ciò cui egli attribuisce valore. Pertanto, delle due l’una: o si mostra che aumentando l’utilità di un individuo si fa sempre il suo interesse (cioè il suo «bene») oppure occorre proporre un altro argomento per giustificare il principio
in questione come principio di razionalità. Cominciamo ad esplorare la prima via. Il problema è quello di sapere cos'è che ha valore per l'individuo. Certo, non ci sarebbe alcun bisogno di dare risposta a una domanda del genere
solo se ciò cui i soggetti attribuiscono valore esibisse grande stabilità e predittibilità. Nella pratica, si sa, la questione viene risolta ricorrendo alla moneta, a questo mezzo universale per parecchi fini, che tutti vogliono possedere in quantità maggiori anziché minori. Ma la moneta non può essere un surrogato soddisfacente di una teoria sostantiva del valore, per la semplice ragione che è essa stessa un mezzo e non un fine. Dove sta allora la difficoltà? Nella illusorietà dell’affermazione secondo cui accrescere l’utilità di una persona è necessariamente un bene per essa. La ragione è semplicemente che la persona possiede parecchie funzioni di utilità, una per ciascun periodo della sua vita, e non c'è alcuna buona ragione per pensare che l’una rappresenti meglio delle altre il suo bene. Ha per caso questo a che vedere con la «coerenza dinamica» !° delle funzioni di utilità? Se il nostro individuo possiede funzioni di utilità dinamicamente coerenti, egli può in ogni istante, ad esempio ora, pianificare i suoi consumi, futuri senza voler mai cambiare in seguito il suo piano. Con il passare del
tempo formulerà piani su ciò che allora sarà futuro e in quel momento le sue preferenze coincideranno con quelle che sono ora. Sotto la condizione di coerenza dinamica, si potrebbe essere allora tentati di concludere che la funzione di utilità di oggi possiede titolo speciale a rappresentare il bene dell’individuo, posto che questo dipenda dal consumo presente e futuro. Pertanto, se scegliamo il consumo presente e futuro in modo tale da massimizzare la funzione di utilità di oggi, dato il consumo passato, non
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stiamo per caso massimizzando il bene ovvero l’interesse del soggetto? La risposta è negativa. Assumiamo pure che U,, e U,, siano dinamicamente coerenti. Questo non ci autorizza affatto a concludere che le due funzioni di utilità ordinano nello stesso modo la sequenza di consumo compresa trat, e t,. All'epocat,, il soggetto può rammaricarsi delle scelte compiute int, (Comincio a fumare: int int , potrei desiderare di non avere mai co-
minciato a fumare, anche se in LO continuo a fumare lo stesso numero di sigarette che al tempo t, avevo pianificato di fumare). La teoria, secondo cui è bene per un soggetto ciò che egli vuole o preferisce, deve tener conto non solo di ciò che egli vuole o preferisce ora, ma anche di ciò che egli vorrà o preferirà ad ogni stadio futuro della sua vita. Giova osservare che il problema qui sollevato nulla ha a che vedere con la familiare incertezza circa gli stati futuri del mondo. Il problema riguarda piuttosto la non conoscibilità delle condizioni future dell’io che esprimerà le valutazioni. Una persona che sceglie razionalmente deve essere in grado di valutare le conseguenze della sua scelta nei termini del suo interesse personale. Ma gli interessi dell’io di ora non sono gli stessi degli io futuri. Il principio di razionalità esige che anticipiamo l’utilità delle conseguenze delle scelte che compiamo. Ma quando si anticipano le conseguenze si deve considerare che queste non riguardano l’io che sceglie, ma uno successivo. E in generale non conosco il modo in cui l’io futuro valuterà la situazione in cui si troverà in conseguenza della scelta che fa ora - e ciò anche se la situazione futura è esattamente prevedibile ! Il fatto è che, come il filosofo Harry Frankfurt ha efficacemente chiarito,
l'uomo ha la capacità di mettere in questione i suoi voleri o preferenze e di chiedersi se veramente egli vuole quei voleri o se preferisce quelle preferenze. È tipico della persona la capacità di «fare un passo indietro di
fronte ai suoi desideri, volizioni e preferenze rivelate» !*. Un «passo indietro» che permette la riflessione sulle preferenze e dunque la formazione di metapreferenze, o preferenze del secondo ordine, che possono differire dalle preferenze del primo ordine. Ora, se preferenze e metapreferenze coincidono sempre, così che l'agente è sempre in pace con sé qualunque sia la scelta compiuta, le seconde sono una mera ombra delle prime e possono essere trascurate. Ma se quella condizione non si dà, il problema che sorge è che, assieme al paniere di beni scelto perché in linea con le sue preferenze (di primo ordine), il soggetto «sceglie» anche rammarico, senso, di colpa, in una parola, infelicità !?. Allora nei casi in cui la scelta rivela le preferenze, ma non le metapreferenze, a quale scelta deve attribuirsi valore? Alla scelta guidata dalle preferenze o a quella guidata dalle metapreferenze? Né si può pensare di superare l’impasse negando come si fa di solito - l’esistenza delle metapreferenze perché ciò equivarrebbe a negare l’idea stessa di persona !° La conclusione che traggo è che un argomento di sostegno del principio
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paretiano, come principio di razionalità, non può essere che esso opera sempre nella direzione dell'interesse degli individui. E dunque che la tesi secondo cui le scelte dei soggetti sono la base corretta su cui fondare la valutazione di stati sociali alternativi attende ancora un dimostrazione. Va da sé che questo non significa negare validità a principi del tipo «sovranità del consumatore». Come è noto, alla base della posizione liberale classica da J.S. Mill in poi sta l’idea secondo cui le scelte del singolo, anche se derivate da preferenze irrazionali (da preferenze cioè che non sono preferibili) e pure se non conducono al suo interesse, così come questi lo definisce, vanno comunque assecondate purché, ovviamente, non interferiscano con le scelte altrui. Nessuna autorità esterna agli individui può prescrivere cosa sia meglio per loro, dal momento che ciascuno è sovrano sul proprio schema di voleri. Ma occorre prestare attenzione, perché non è la tesi del valore scelta nella versione che discende dal principio liberale fondamentale (7: «se A, dovendo scegliere tra gli stati sociali x e y, sceglie x, allora, a condizione che i termini della scelta attengano alla sola sfera privata di A, x è “migliore” di y») che è qui in discussione. Il punto in discussione riguarda piuttosto la tesi del valore scelta secondo la ben più nota formulazione utilitarista (7: «se A, dovendo scegliere tra gli stati sociali x e y, sceglie x, allora, almeno per quanto concerne A, x è almeno buono quanto y». Ebbene, pensare di appoggiare la giustificazione del principio paretiano sulla 7, equivarrebbe ad asserire che tale principio va accolto non perché conduce a risultati superiori ma perché è «buono» il processo che conduce a quei risultati, quali che essi siano. Invero, ciò che ha valore nella 1° è la
scelta libera del soggetto, non il risultato della stessa: se un individuo possiede un diritto alla scelta su una coppia di alternative, ciò che conta è solamente il fatto che la scelta sia sua !”. Ma allora questo vorrebbe dire abbandonare quel pilastro della filosofia utilitarista che è il consequenzialismo !*. Con quale esito? Quello di decretare la totale irrilevanza e dunque inutilità del principio paretiano, perché senza consequenzialismo non c’è spazio per un'economia del benessere e dunque per quel principio. In definitiva l’impianto teorico ordinalista non pare sfuggire al seguente dilemma fondamentale: o riesce a darsi una teoria sostantiva - e non meramente formale - del valore e allora deve distaccarsi dal suo esasperato soggettivismo, oppure si rassegna all’irrilevanza delle sue applicazioni. Se il valore non è misura di qualcosa, quanto piuttosto il criterio in base al quale si misura qualcosa, allora la teoria paretiana della scelta razionale implica una concezione della razionalità che inverte il rapporto naturale tra ciò che vale e il modo in cui lo si valuta.
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3. Efficienza e giustizia distributiva nella società post-industriale Come si è reagito in questi anni di fronte alla caduta delle antiche certezze posta in luce nella sezione precedente? Le tendenze più significative in atto, quelle che si riconoscono nel cosiddetto neo-liberalismo !, rinunciano alla dottrina del mercato come unico strumento di realizzazione degli equilibri sociali in favore del mercato come metodo analitico. Là dove era il modello pratico del mercato a fornire il supporto teorico per l'elaborazione
di un determinato
metodo
analitico,
ora è il modello
simbolico del mercato a delineare un metodo capace di fornire il supporto teorico dell’attività pratica. E questo il senso ultimo del progetto culturale della frastagliata new political economy. Il mercato continua ad esercitare quel ruolo decisivo che aveva in passato, solo recupera a livello simbolico quello che non pare in grado di offrire a livello pratico: è il principio razionale, astrattamente possibile, di un'economia di mercato concreta-
mente impossibile. Certo un’elasticità concettuale così ampia da consentire al mercato di continuare a svolgere la medesima funzione, a condizioni storiche mutate, non sarebbe concepibile se non restasse immutata l’esigenza culturale di fondo: l’indifferenza antropologica. È questa l'eredità del passato che le attuali prospettive coltivano con maggior impegno, almeno nella forma più sfumata secondo cui è impossibile raggiungere il consenso sociale sui valori o sui fini, mentre sarebbe sempre possibile raggiungerlo sui mezzi. Il mercato da mezzo di calcolo diventa così un modello di calcolo che consente di sviluppare processi di verifica delle scelte razionali senza che sia necessario esprimere alcuna opzione sulla natura umana. Sia questa altruistica o egoistica, votata al bene o al male, la tendenza alla armoniz-
zazione degli interessi non deflette dal proprio corso, giacché risultati buoni si realizzano senza che gli individui siano costretti a volerli. Tra gli autori che, in modo lucido e consapevole, vanno portando avanti questo progetto vi è certamente Gauthier, al quale si deve soprattutto il tema del mercato come modello ideale. L'assunto da cui muove il filosofo americano ci riporta all'idea della «società automatica» su cui aveva a lungo discettato C. Lindblom negli anni Settanta °°. Quanto più vogliamo razionalizzare la ricerca dei nostri interessi, tanto più scopriamo di dover operare altruisticamente e moralmente. Scrive Gauthier: «Il dovere va oltre il vantaggio, ma l’accettazione del dovere è vantaggiosa» °!. Per scegliere razionalmente bisogna dunque scegliere moralmente. Ecco perché, secondo Gauthier,
sarebbe possibile fondare razionalmente
il
sistema morale sulla base di un generale accordo di cooperazione che, ponendosi al servizio degli interessi individuali, produce vantaggi collettivi. Ma come questo potrebbe venire realizzato? Secondo Gauthier si tratta
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di procedere all’individuazione di una «zona moralmente libera» (morally
free zone) in cui ciascuno pur perseguendo solo il proprio interesse sviluppa al tempo stesso, il massimo di cooperazione. Se si riuscisse a individuare questo punto di Archimede sarebbe possibile ricostruire, a sua misura, tutta l’attività morale come un modello sempre meno imperfetto quanto più riesce a riprodurre queste condizioni ideali. Ebbene, questa «zona moralmente libera» non è altro che il mercato perfettamente competitivo. Dove c'è un mercato perfetto - osserva Gauthier - non è necessaria la moralità perché i mutui vantaggi sono assicurati dall’attività liberamente spontanea di ciascuno alla ricerca del proprio guadagno. È solo l’insufficienza ed impossibilità pratica del mercato perfetto che ci impone di fare ricorso alla morale: «la moralità sorge dall’insufficienza del mercato» ??. A ben considerare è questa posizione teorica, condivisa sia pure con sfumature diverse da non pochi filosofi ed economisti, ad aver alimentato, in anni recenti la cosiddetta «etica degli affari» (0usiness etbics).
E dalla
scoperta che l’etica serve all’efficienza, che essa è diventata condizione necessaria al suo raggiungimento, che deriva l’interesse crescente a discutere di questioni etiche negli stessi ambienti imprenditoriali ??. Ma è credibile una posizione del genere? È ragionevole pensare che essa possa essere tradotta in progetto operativo? No, perché non è immaginabile chiedere a soggetti che vivono in società come le nostre di rinunciare al loro interesse personale per conseguire un obiettivo - l’efficienza -
definito in termini della massimizzazione degli stessi interessi personali. È interessante osservare che la prospettiva dell’ultimo Rawls °*, significativamente diversa da quella del celebre A_Theory of Justice del 1971, esprime il medesimo punto di vista negativo. «Così, è stato un errore della Theory, e un errore veramente fuorviante, descrivere una teoria della giustizia come parte di una teoria della scelta razionale» ‘°. Quanto Rawls qui afferma equivale a riconoscere che la scelta dei principi di giustizia non avviene attraverso un meccanismo che li selezioni come ottimali in base a criteri di razionalità. In questa sede vogliamo sostanziare il nostro parere negativo seguendo una via diversa da quella battuta dall'ultimo Rawls. Mostreremo, infatti,
che l’accoglimento di una posizione come quella presupposta dall’etica degli affari conduce ad un risultato di impossibilità qualora si cercasse di trovare - come pure si deve per le ragioni indicate più sopra - una via d'uscita dal trade-off tra efficienza e giustizia. Iniziamo dalla domanda: quale nozione di giustizia distributiva può essere accolta e sottoscritta da un sostenitore convinto e coerente della tesi del libero mercato nella sua versione pura, vale a dire quella della «mano invisibile»? Per rispondere si ponga mente a quelli che sono i due pilastri filosofici della tesi in questione.
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Il primo è quello dell’individualismo etico secondo cui qualunque azione o intervento sociale va valutato in termini delle conseguenze che esso produce sugli individui, i quali sono i soli che contano. La società è un mero aggregato di individui e dunque nessuna etica esterna può essere applicata alle decisioni sociali che non sia quella che scaturisce dalla volontà di individui razionali. Concretamente ciò implica che nessun governo o pianificatore centrale può imporre norme quali equità, eguaglianza o simili solo perché esso le valuta positivamente. L'altro pilastro della tesi del libero mercato è che gli individui sono soggetti autointeressati e razionali, nel senso che essi conoscono le loro preferenze - sanno ciò che vogliono - e sono capaci di calcolare tutto ciò che è necessario al perseguimento del loro interesse in modo efficiente. La riduzione di qualsiasi criterio di valutazione all'interesse proprio implica che la valutazione di stati sociali alternativi da parte del singolo va effettuata in termini delle allocazioni di beni che il singolo ottiene senza alcun riguardo per le conseguenze che il realizzarsi di uno stato sociale, piuttosto che un altro, può avere per le allocazioni di beni spettanti agli altri individui. L’implicazione importante di politica economica che discende da questi principi è che lo Stato non ha alcun diritto di giudicare e di alterare i risultati sociali determinati dalla libera contrattazione di individui che rispettano le regole del gioco sociale. Tali risultati sono infatti espressione dell’ «ordine naturale» realizzato da individui liberi e razionali. Questa posizione - che è quella propria della versione pura della tesi del libero mercato - viene anche espressa dicendo che è al processo piuttosto che allo stato finale che si deve prestare attenzione quando si devono esprimere valutazioni. L'atteggiamento «process-oriented» asserisce che nel giudicare i risultati di istituzioni sociali ci si deve attenere solo al processo attraverso cui quei risultati sono ottenuti e il processo è accettabile se esso rispetta i diritti degli individui. Dunque, il processo giustifica il risultato, quanto a dire che il mezzo giustifica il fine e non viceversa, come sancisce invece la posizione «end-state-oriented». L'atteggiamento «process-oriented» conduce a parlare di giustizia nei termini della ricerca di istituzioni sociali giuste, di regole di interazione sociale giuste - le cosiddette «costituzioni sociali ottimali» di cui parlano Hayek e Buchanan. E tali regole sono giuste se esse possono pensarsi come quelle su cui individui razionali concorderebbero qualora fossero inseriti in uno stato di natura lockeano. Una volta che ciò fosse assicurato, i risultati del processo non possono essere toccati. Se gli individui credono
nella razionalità e nel diritto degli altri di curare l’interesse proprio, allora i risultati che sono definiti da azioni razionali ed autointeressate non possono essere respinti come ingiusti. Possono essere non desiderabili, ma non ingiusti °°.
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Disponiamo ora degli elementi essenziali per dare risposta all’interrogativo: quale nozione di giustizia possa essere resa compatibile con la tesi del libero mercato. Chiaramente individui che credono nei due postulati di base della tesi in questione accetteranno solo teorie della giustizia che siano endogene e orientate al processo. Osserviamo subito che le principali teorie della giustizia a tutt'oggi sviluppate in filosofia morale non si conformano a tali requisiti. Ad esempio le teorie del primo Rawls, di Gauthier, di Harsanyi, nonostante
le differenze anche profonde che le
contraddistinguono, sono teorie esogene e orientate al risultato. D'altro canto la teoria di Varian e Foley della giustizia come «envy-freeness» è una teoria endogena, ma orientata al risultato; mentre quella di Nozick è una
teoria orientata al processo, ma esogena. Una teoria endogena e orientata al processo è quella recentemente proposta da Schotter °’. Si tratta della giustizia come «assenza di biasimo» (blame-freeness): un risultato v nella società z con struttura istituzionale i è
giusto se nessun agente in z può biasimare un qualunque altro genere per le azioni intraprese o le scelte effettuate nel determinare v. In sostanza si fa ricorso all’empatia: mi pongo nella situazione decisionale dell’altro e mi chiedo «se fossi al suo posto ma conservassi le mie preferenze e dovessi scegliere l’azione che massimizza la mia funzione obiettivo, farei ciò che egli ha fatto?». Se la risposta è affermativa, non posso più biasimare il mio simile per l’azione da questi compiuta, così che la sua azione va giudicata giusta. Come si comprende, si tratta certamente di una nozione di giustizia che rispetta i canoni dell’endogenità e dell’orientamento al processo e come tale di una nozione che qualunque convinto assertore della tesi del libero mercato deve poter sottoscrivere. Eppure l’accoglimento di una nozione del genere può giustificare risultati sociali che sempre il sostenitore della tesi del libero mercato deve respingere. Un esempio, ovviamente banale, serve ad illustrare come una situazione paradossale del genere possa determinarsi. Vi siano tre individui, un grande musicista, un bravo atleta e un ottimo oratore, e si assuma che le preferenze dei soggetti sono tali per cui sono i talenti atletici ed oratori a risultare altamente apprezzati. In vista di ciò, si abbia che l’atleta ottenga 100, l’oratore 70, e il musicista nulla. (Tecnicamente, si dice che vi è una «soluzione d’angolo» a sfavore del
musicista). Per Nozick (o per Hayek) un simile assetto distributivo non è ingiusto e pertanto nessun intervento correttivo del meccanismo di mercato può risultare giustificato. Si assuma ora che il musicista riesca a «rubare», nel senso di piegare le regole del gioco di mercato a suo favore, così da determinare alla fine un assetto distributivo del tipo 90, 65 e 15. Può qualcuno biasimare il comportamento del musicista? Certamente no, in base alla definizione sopra data di giustizia come assenza di biasimo. Il
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musicista risponde in modo razionale all'ambiente in cui si trova e la distribuzione finale è perciò b/ame-free. A ben considerare, siamo arrivati ad una sorta di risultato di impossibilità. Il mercato è capace di determinare un assetto sociale in cui i soggetti hanno un incentivo a violare diritti, come quello di proprietà, in un modo non censurabile. In altri termini un insieme di individui razionali e autointeressati, che credono nel mercato e perciò in teorie della giustizia endogene e orientate al processo, possono arrivare a giustificare assetti sociali che violano i diritti che gli stessi individui hanno di mantenere ciò che il meccanismo di mercato ha consentito loro di ottenere. Quanto a dire che una teoria della giustizia coerente con i postulati filosofici su cui si erge la tesi del libero mercato si autocontraddice, e dunque che una teoria della giustizia endogena e orientata al processo è impossibile. Ecco allora il punto di arrivo del mio argomento: una teoria della giustizia credibile e non contraddittoria non può rinunciare ad essere
esogena, deve cioè porre il proprio fondamento in qualcosa che va oltre le preferenze, comunque definite, degli individui. Le difficoltà cui conduce l’individualismo etico discendono da una pretesa troppo esigente: pretendere che le preferenze degli individui siano, al tempo stesso, origine del valore e criterio è metro di giudizio dello stesso. Ritengo che anche l'economista debba ormai convenire sul carattere «aperto» della disciplina. Dopo parecchi decenni di sfibranti tentativi volti a dimostrare la «chiusura» delle categorie di pensiero economiche, s’intravvede oggi un orizzonte nuovo, una prospettiva di discorso entro la quale l’etica cessi di essere invocata solo come strumento o come condizione necessaria per conseguire l'efficienza. Se è vero - come a me pare - che de valoribus est disputandum, allora l’auspicato ampliamento del raggio d’azione della teoria economica non può che partire dalla presa d'atto che le nostre credenze circa la natura umana concorrono a plasmare la natura umana stessa. In verità ciò che noi pensiamo circa noi stessi e le nostre possibilità determina, almeno in parte, ciò che aspiriamo a diventare. Non solo, ma le teorie sul comportamento economico concorrono a mutare i nostri comportamenti effettivi, non trasmettono solo risultati di esperimenti; sono, direttamente o indirettamente, veicoli di ideologie e strumenti di modificazione degli assetti esistenti. Come con efficacia ha scritto L. Eisenberg: «I moti planetari conservano una sublime indifferenza rispetto alle nostre astronomie terrestri. Ma il comportamento dell’uomo non presenta una pari indifferenza rispetto alle teorie sul comportamento adottate dall'uomo». In questo senso, l’effetto più deleterio della dottrina del se/f-interest è stato ed è quello di farci credere che un comportamento che si ispiri a valori diversi da quello dell’interesse personale conduce al disastro economico. Il che non è. Tale consapevolezza è importante, perché da essa può nascere una passione per il possibile, proprio dalla fiducia nelle possibilità della
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morale di dilatare il nostro orizzonte conoscitivo e di concorrere ad allar-
gare l'indispensabile area comune di consenso.
! Non è qui il caso di richiamare, neppure a grandi linee, le tappe del tragitto dell’utilitarismo all’interno del discorso economico, dall’originaria formulazione di J. Bentham alla successiva sistemazione diJ.$. Mill, fino alle più recenti versioni. Cfr. Utilitarismo e oltre, a cura di A. Sen e B.
Williams, il Saggiatore, Milano 1985. ? A. MARSHALL, Principles of Economics, Macmillan, London 1949, 91.
; $ Oxkun, Eguality and Efficiency: the Big Trade-off, The Brookings Institution, Washington LO TORA * D.H. RoBERTSON, Economic Commentaries, Staples, London 1953, 147. ° F. HirscH, Social Limits to Growth, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1978 [tr. it.
I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani, Milano 1981]. s de HIRSCHMAN, Contro la parsimonia in L'economia come scienza morale e sociale, Liguori, Napoli LISTRIZE:
7 G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, «Science», 1968. Si noti che la situazione dei corzzons è qualitativamente diversa da quella del dilemma del prigioniero. Per fissare le idee si pensi a fenomeni quali congestione, inquinamento, sfruttamento irrazionale delle risorse, ecc.
8 Si veda l’importante lavoro di J. FARRELL, Information and the Coase Theorem, «Economic Perspectives», 1987, 113.
? K. ARROW, Social Responsability and Economic Efficiency, «Public Policy», 1973, 303. !° Sulle ragioni della svolta, che si consuma negli anni Trenta, dall’utilitarismo cardinalista a quello ordinalista si rinvia a S. ZAMAGNI, Da//a teoria del valore utilità a quella del valore scelta, «Teoria Politica»,
1987.
Conviene qui precisare che è a seguito dell’affermazione in economia dell’ordinalismo paretiano che l’utilitarismo finisce per diventare un’apologia filosofica dello status quo. Agli inizi, infatti, l’utilitarismo ha risvolti prettamente riformisti. ll A. SEN, Scelta, benessere, equità, Il Mulino, Bologna 1986. !° Per 1 St, St, ST, dove T denota l'orizzonte temporale del soggetto, le due funzioni di utilità U,, e U,, sono dinamicamente coerenti se esse concordano nell’ordinamento delle sequenze di consumo (C..... C.)), data la sequenza (C,,... C.,,)dei consumi passati. !3 Si badi che questo tipo di conoscibilità - che Pizzorno chiama «incertezza riguardo ai valori» - nulla ha a che vedere con l’incertezza presa in considerazione dalla teoria della probabilità. Cfr. A. Pizzorno, Sl confronto intertemporale delle utilità, «Stato e mercato», 1986.
14 H. FRANKFURT, Freedom of the Will and the Concept ofaPerson, «Journal of Philosophy», 1971, ILE
!5 A scanso di equivoci il problema qui sollevato non va confuso con il problema, assai noto in letteratura, del condizionamento culturale o sociale dei gusti, e quindi delle scelte dell'individuo. 16 Sulla tematica delle metapreferenze il riferimento d’obbligo è, oltre a Sen e Hirschman, T.
ScHELLING, Choice and Consequence, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1984. !7 La posizione libertaria è stata rinverdita, in epoca recente, da R. Nozick e, negli ultimi lavori, da F. von Hayek. 18 Il consequenzialismo richiede che tutte le variabili di scelta, ivi incluse le azioni, le regole, le
istituzioni e le motivazioni, debbano essere giudicate in termini della bontà delle loro rispettive
conseguenze. !9 Per un inquadramento si veda R. DAHRENDORE, Per ur nuovo liberalismo, Laterza, Bari 1988.
2° C. LinpBLoM, The Intelligence ofDemocracy, Free Press, New York 1965. Per un'analisi storica della «società automatica», C. Mc MAHON, Morality and the Invisible Hand, «Philosophy and Public Affairs» 1981. © 2! D. GAUTHIER, Mora/s by Agreement, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1986, 2. 22 Ivi, 84.
2 Per restare al solo ambiente italiano si veda, fra i tanti, AA.VV., Etica ed economia. Riflessioni
dal versante dell'impresa, Edizioni Il Sole-24 ore, Milano 1988.
24 Justice as fairness, cit., 237. 2 J. Raw1s, Kantian Constructivism in Moral Theory, «Journal of Philosophy», 1980; Ip., Justice
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as fairness: Political not Metaphysical, «Philosophy and Public Affairs», 1985; Ip., The idea of an Overlapping Consensus, «Oxford Journal of Legal Studies», 1987. 2° Si può osservare, a margine, che su tale questione si registra una forte tensione tra la versione libertaria e la versione utilitarista della tesi del libero mercato. L’utilitarista convinto crede alla posizione «end-state-oriented». In quanto consequenzialista, l’utilitarista giudica infatti il processo dal fine che esso permette di raggiungere e non viceversa. 27 A. SCHOTTER, Free Market Economics, St. Martin’s Press, New York 1985.
Razionalità, economia e società di Amartya Sen
1. Idee di razionalità
La razionalità non è tanto un'idea quanto una classe di idee. L'elemento comune è costituito dalla nozione sottostante dell’uso della ragione nella riflessione, scelta ed azione. Quell’elemento comune avrebbe potuto essere un fattore unificante, e forse in alcuni contesti ed entro certi limiti, l'elemento comune a quel ruolo. Ma l’interpretazione di come la ragione
va usata è variata così radicalmente tra differenti formulazioni di razionalità che c'è frequentemente molto poco in comune tra i differenti usi dell’idea di razionalità. Questa diversità non costituirebbe un problema serio se la razionalità non avesse soltanto un ruolo secondario nei suoi vari usi. Ma, in numerosi
contesti, l’idea di razionalità gioca un ruolo centrale nell’analisi. Ne segue che differenze nella interpretazione della razionalità assumono frequentemente un'importanza pratica sostanziale. Ad esempio, l’economia tradizionale dipende dalla particolare interpretazione della razionalità che in essa è stata ampiamente adottata. La
cosiddetta assunzione di «comportamento razionale», benché ristretta nella sua concezione, è estremamente ampio nel suo uso in economia. Ha avuto un suo ruolo importante nel far assumere alle moderne economie la loro forma. Non si può comprendere perché l’analisi economica moderna proceda nel modo in cui procede senza venire alle prese con la profondamente ristretta interpretazione di comportamento razionale che sembra essere invocata ogni volta, esplicitamente o implicitamente. Né possiamo comprendere alcuni dei maggiori insuccessi dell'economia moderna senza analizzare la sua concettualizzazione di razionalità. Gli insuccessi sono particolarmente importanti nel contesto etico, in quanto, come vedremo, una delle maggiori conseguenze della visione ristretta di razionalità utilizzata in economia comporta l’eliminazione del ruolo degli aspetti morali nell’influenzare il comportamento. Gli insuccessi sono di particolare importanza nelle politiche dell'economia dato che la caratterizzazione di razionalità usata nell'economia tradizionale ha
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l’effetto di ridurre l’influenza della coscienza sociale e della motivazione cooperativa sul comportamento economico. La conclusione è abbastanza importante per il tema di questa conferenza. In questo lavoro, discuterò brevemente le interpretazioni e gli usi prevalenti della nozione di razionalità nell'economia moderna. Discuterò inoltre alcuni problemi generati da questa tradizione. Nel riesaminare l’idea di razionalità, mi chiederò come le considerazioni di cooperazione sociale possano influenzare la nostra concettualizzazione del comportamento razionale, e come ciò possa influenzare la natura dell'economia e la valutazione della politica dei governi. È un programma ambizioso, ma ritengo che la discussione debba essere necessariamente breve, dato il tempo a disposizione ! 2. Scopo dell’analisi della razionalità in economia L'interesse per il concetto di razionalità in economia nasce da due differenti motivazioni. La motivazione diretta è data dalla comprensione di quale forma il comportamento razionale dovrebbe avere. Questa motivazione è parzialmente normativa ma non è necessariamente etica. Se una persona agisce «irrazionalmente» ciò rappresenta, in maniera chiara, una insufficienza che potrebbe richiedere una correzione. Ciò non è necessariamente una insufficienza dal punto di vista etico, e la correzione che è suggerita non necessita alcuna particolare caratteristica morale.
Sbagliare nella valutazione o nella scelta è una sfortuna ma non è necessariamente immorale in qualsiasi senso comune. Per la verità, dato il modo in cui l'economia ha inteso definire la razionalità, il comportamento morale potrebbe richiedere la sistematica violazione della asserita «razionalità».
La motivazione indiretta, al contrario, riguarda la descrizione e la predizione del comportamento effettivo. Essa prende la forma della comprensione, spiegazione e della previsione del comportamento effettivo attraverso:
1) caratterizzazione
del comportamento
razionale,
e 2)
assunzione che il comportamento effettivo coinciderà con il comportamento razionale. In questo secondo uso, l’idea di razionalità gioca un ruolo di intermediazione, ed una parte del richiamo superficiale che essa esercita si fonda sulla semplificazione che essa comporta. Attraverso questa procedura a due stadi, la concettualizzazione
ristretta alla razionalità adottata in
economia ha l’effetto di restringere la caratterizzazione del comportamento effettivo delle persone nell’analisi economica. Il concetto di razionalità
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scelto, quindi, finisce con l’avere un profondo effetto sulla natura dell’economia descrittiva e previsiva. In verità, la cosiddetta «razionalità economica» non sarebbe stata una
questione così importante se non per il fatto che, attraverso quella idea, l'economia moderna restringe inoltre l’analisi delle scelte effettive, delle azioni e del comportamento di tutti gli agenti analizzati in questa tradizione. L'analisi della razionalità nell'economia moderna finisce quindi per influenzare tutte le maggiori branche della disciplina. 3. Coerenza ed interesse personale
Passo ora all’interpretazione della razionalità nella teoria economica prevalente. Ci sono, in realtà, due differenti interpretazioni standard del concetto
di «scelta razionale»:
1) coerenza
interna della scelta e, 2)
massimizzazione nel raggiungimento dell’interesse personale.
La prima interpretazione (approccio
«coerenza
interna») valuta la
relazione tra scelte in situazioni differenti, confrontando ciò che è scelto da «menù» differenti (cioè, da diversi insiemi di alternative disponibili
per la scelta). Naturalmente, le condizioni di coerenza interna possono essere definite in modi diversi °, ma fondamentalmente nessuna di esse comporta
alcun
riferimento
esterno
(cioè, la scelta è confrontata
con
un’altra scelta, non come obiettive, valori, preferenze, o con qualsiasi altra variabile che non sia una scelta).
Al contrario, la seconda interpretazione (approccio «interesse personale») vede come scelta razionale la selezione di quelle alternative che sono in grado di far ottenere il massimo dell’interesse personale. Essa, pertanto,
comporta un chiaro riferimento esterno. Anche se il concepire la razionalità come coerenza interna ha un certo richiamo, esso non ci porta in realtà molto lontano. Ad esempio, una persona può essere ostinatamente stupida nelle sue scelte. Una persona che sceglie sempre le cose che valuta meno e che odia di più avrebbe un comportamento coerente, ma difficilmente potrebbe essere considerata razionale ?. Non sorprende che la visione «coerenza interna» di razionalità, benché frequentemente sostenuta, non abbia profondamente influenzato l’economia moderna. Infatti, è la visione di razionalità «interesse personale» che è stata in effetti dominante nell'economia contemporanea 4. Le origini di questo approccio sono spesso rinvenibili negli scritti di Adam Smith, e frequentemente si afferma che il cosiddetto «padre dell'economia moderna» vide
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ogni essere umano instancabilmente proteso al conseguimento del suo interesse particolare. Come frammento della storia del pensiero, questo è, quantomeno, estremamente dubbio, dato che la convinzione di Adam Smith nella forza dell'interesse personale in alcune sfere di attività (ad esempio, nello scambio) fu ulteriormente qualificata dalla sua convinzione che tante altre motivazioni siano importanti nel comportamento umano in generale?.Ma è certamente vero che una visione ristretta di razionalità come perseguimento dell'interesse personale e la caratterizzazione del cosiddetto «uomo economico» hanno giocato un ruolo principale nell’analisi del comportamento economico per tanto tempo. Tale assunzione ha l’effetto di semplificare la modellizzazione del comportamento economico in modo radicale, perché dissocia il comportamento individuale dai valori e dall’etica. L'individuo può dare valore a qualsiasi cosa, ma in questa visione egli sceglie completamente secondo la (sua) interpretazione del proprio interesse. Altri elementi possono entrare nel calcolo che una persona fa per quanto riguarda la scelta razionale solo nella misura in cui le loro azioni e condizioni influiscono sul suo benessere e vantaggio. Questa assunzione è usata ampiamente in economia e la maggior parte dei teoremi centrali dell'economia moderna (ad esempio, i teoremi di Arrow-Debreu sull’esistenza ed efficienza dell’equilibrio economico generale in una economia concorrenziale senza esternalità e senza rendimenti crescenti) sono completamente dipendenti
da essa. 4. Modificazione o rifiuto?
Questa visione ristretta di razionalità come massimizzazione dell’interesse personale conduce a seri problemi di descrizione e di previsione in economia. In molte nostre azioni, evidentemente, prestiamo attenzione a richieste di cooperazione, e la visione ristretta non può prendere atto di tale condotta entro i limiti del cosiddetto comportamento razionale. In realtà, è difficile spiegare, all’interno della visione ristretta, come le persone lavorino insieme in attività di produzione interdipendenti, o) perché comportamenti rivolti al beneficio collettivo non siano del tutto assenti in molti settori della vita economica e sociale, o perché comportamenti basati su regole sistematicamente si integrino con azioni rivolte al conseguimento dell’interesse personale. L'osservazione di tale dissonanza tra comportamento teorico e comportamento effettivo ha prodotto un'enorme letteratura su come aggiustare il modello basato sull’interesse personale per affrontare la suddetta divergenza. Modelli interessanti ed ingegnosi sono stati costruiti introdu-
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cendo nuove ipotesi, senza abbandonare l’assioma del perseguimento dell'interesse personale. Tuttavia, queste modificazioni non portano ai risultati desiderati se non introducendoiignoranza od errori nel ragionamento delle persone considerate°
L'incapacità di offrire un modello di razionalità che possa spiegare il verificarsi, il successo e la stabilità della cooperazione razionale senza dover assumere errori nel ragionamento o nei convincimenti è una seria limitazione della visione standard di razionalità usata in economia. Ha un significativo effetto distorsivo nell’economia previsiva, e conduce anche ad una non corretta qualificazione della natura dell’azione pubblica e del ruolo del ragionamento nel comportamento sociale. La cooperazione può essere raggiunta e sostenuta attraverso ragionamenti privi di errori, senza alcun sbaglio o illusione obbligatoria, se la motivazione comprende l’attribuire importanza positiva agli obiettivi sociali ed alle regole sociali di comportamento. Non vi è dubbio sull’importanza di tali più ampie motivazioni nel comportamento sociale. Infatti, Adam Smith stesso, ritenuto il grande «guru» della scuola dell’interesse personale, aveva molto chiaramente indicato quella direzione ” L'analisi di Karl Marx sulla natura sociale della nostra identità e del nostro modo di valutare sottolinea in maniera forte la complessità della motivazione umana influenzata dalla nostra esistenza sociale * Ingenuità e capacità analitica spese nella modifica delle conseguenze del modello basato sull’interesse personale per affrontare lo iato tra teoria ed osservazione ha prodotto solo risultati limitati in quanto le modifiche hanno consisitito nell’introduzione di carenze nella conoscenza o nel ragionamento, senza abbandonare l’assunzione di una continua ricerca dell’interesse personale. L’irrilevanza dei risultati ottenuti dimostra il ruolo limitato che la visione ristretta di razionalità occupa prepotentemente nella costruzione dei modelli economici moderni. Sia per una migliore analisi previsiva, sia per una più completa spiegazione della natura della vita umana nella società, è necessario essere più radicali nel riconoscere validità ad una più ampia classe di motivazioni, tenendo conto della condizione sociale degli esseri umani. 5. Differenze internazionali ed interculturali
Il rifiuto del modello di interesse personale non implica che dobbiamo assumere che ogni persona in ogni società persegua gli stessi obiettivi
sociali e segua le stesse regole sociali. Ci sono enormi differenze nelle tradizioni delle motivazioni nelle diverse società e nelle diverse comunità della stessa società. Il rifiuto del modello di razionalità basato sull’interes-
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se personale non produce un modello di comportamento alternativo uniforme. Per un utilizzo vincente dell’analisi economica nei problemi di allocazione delle risorse, queste differenze possono essere estremamente importanti. Uno degli effetti più dannosi del persistere del modello di interesse personale in economia è stato quello di trascurare le differenze tra le società nelle indagini economiche. L’uniformità della massimizzazione dell’interesse personale è stata ostile allo studio della diversità nei comportamenti. Di conseguenza l'economia formale ha poco da dire su alcuni dei più importanti temi delle interferenze intersociali nella produttività e nei risultati economici. Per esempio, gli straordinari livelli di efficienza industriale del Giappone non possono essere spiegati senza analizzare la natura della motivazione al lavoro e lo sviluppo di cooperazione nelle attività di produzione. La spiegazione del successo del Giappone in termine di perseguimento delle motivazioni personali non regge nella maniera più assoluta. Si deve considerare la storia economica e sociale del Giappone e la natura della sua evoluzione culturale per comprendere le basi motivazionali del suo successo industriale ? L'importanza di un allontanamento dalla visione ristretta di razionalità è evidenziata dallo studio dell’esperienza giapponese, ma questa lezione non è ancora stata assorbita dalla disciplina. Il «Wall Street Journal» può citare la divertente osservazione di un giornalista italiano, che il Giappone è «l’unico paese comunista che funziona» !°, ma il fatto peculiare che l'economia capitalistica di maggior successo al mondo si basi così profondamente su una complessa struttura di motivazioni socialmente orientate è una questione di estrema importanza per i fondamenti comportamentistici dell'economia moderna !!
Il caso del Giappone è, naturalmente, solo un esempio di differenze motivazionali rispetto al modello ristretto di razionalità dell'economia moderna. Il fatto è che le tradizioni e le realtà delle motivazioni variano largamente tra nazioni e società diverse. Il tipo di politica distributiva pubblica che può funzionare, ad esempio, nei paesi nordici può incontrare difficoltà in Gran Bretagna. Dato che i parametri della motivazione non sono immutabili, abbiamo molto da imparare dall’uno e dall’altro. Il primo compito è quello di considerare la prima gamma di indagini come parte legittima ed importante dell’economia, rifiutando il conformismo senza fondamento della visione ristretta di razionalità economica che ha notevolmente ristretto il campo.
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6. Conclusioni
In questo lavoro ho cercato di riesaminare il concetto di razionalità usato in economia e gli effetti controproducenti che questo concetto ha avuto sulla natura dell'economia moderna. Ho cercato di discutere il perché l’analisi di razionalità è importante per l'economia e quali sono le attrazioni superficiali del modello ristretto di razionalità adottato nell’economia moderna. Ho cercato inoltre di mostrare il perché quel modello è teoricamente debole, empiricamente fuorviante e di nessun aiuto per la politica economica. Il caso per introdurre differenze nelle motivazioni è forte. Ho discusso come le osservazioni empiriche possono fruttuosamente integrare la nostra analisi teorica e la base sociale del comportamento umano. Le recenti esperienze sia delle economie capitalistiche che socialiste ci forniscono materia per riesaminare i convincimenti radicati nelle differenti scuole di pensiero. Primo, il fatto che l'Unione Sovietica, i paesi dell'Est europeo e la Cina
abbiano cercato di introdurre elementi dell'economia di mercato nei loro sistemi socialisti dimostra il riconoscimento di un certo tipo di carenza nei loro metodi tradizionali di organizzazione. Nel frattempo, però, sono sorti nuovi problemi, che meritano un serio e scrupoloso esame economico. Ad esempio, con le riforme economiche e sociali introdotte in Cina nel 1979, la produttività agricola è cresciuta rapidamente, ma allo stesso tempo il tasso di mortalità è cresciuto, la vita media è diminuita e il tasso di mortalità infantile in particolare si è innalzato di molto. È degno di attenzione il fatto che un paese che ha potuto aumentare la vita media da circa 40 anni appena dopo la rivoluzione a quasi 70 anni nel 1979, senza grossi incrementi nel consumo di cibo pro-capite, abbia avuto un declino significativo nella vita media dopo il 1979 quando la produzione agricola è cresciuta di molto. Il ruolo delle differenze nelle motivazioni può aver giocato in tutto questo un ruolo molto importante, specialmente perché i servizi sanitari pubblici e le cure mediche hanno forti elementi di interdipendenza sociali, così come la cura dei neonati e
dei bambini ! Secondo, la persistenza della povertà, della fame e di sacche di malattie nelle più ricche economie del Nord America e dell'Europa indica che qualcosa di più di una semplice espansione economica è necessaria per una
nuova società. Ancora una volta il ruolo dell’iniziativa pubblica è importante. Ma i sistemi di we/fare finanziati dallo stato creano anche vincoli finanziari, e le imposte connesse creano problemi di incentivi. Per questa
ragione, la necessità di riesaminare le basi culturali del comportamento
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sociale che determina la natura del problema degli incentivi, è centrale in questo campo di analisi. Il punto centrale, non sta tanto nel fatto se le modificazioni
nei comportamenti
saranno
facili o no (sembra di no),
quanto nel fatto che è un errore considerare il comportamento sociale come immutabile, dato che vi sono precise esperienze empiriche che segnalano modifiche internazionali ed intertemporali nelle basi delle motivazioni delle azioni. Inoltre, la possibilità di utilizzo di impegni cooperativi non finanziati dallo stato nell’assistenza sanitaria e nella rimozione della povertà dipende per lo più da motivazioni comuni e dalla natura dell'identità sociale degli individui. Terzo, il contrasto di produttività industriale e l'efficienza (ed i loro movimenti nel tempo) nelle diverse economie di mercato segnalano la necessità di affrontare il tema dei requisiti motivazionali per i sistemi di mercato in generale e per le economie capitalistiche di successo in particolare. Sotto questo aspetto la recente esperienza delle economie dell’Est asiatico - non solamente Giappone ma anche Corea, Hong Kong e altri - fa sorgere profondi interrogativi sulla modellizzazione del capitalismo nella teoria economica tradizionale. Il ruolo del «comunismo» del Giappone, come lo chiama il «Wall Street Journal», nel suo successo economico è meramente un caso estremo di un fenomeno molto generale. Quarto, la serietà dei problemi ambientali, la scomparsa delle foreste, l'espansione del fenomeno delle piogge acide, la contaminazione dei fiumi e dell’aria, la riduzione dello strato di ozono - sottolinea inoltre l’importanza di un comportamento socialmente motivato e razionalmente valutato. Ancora una volta l’interdipendenza è una caratteristica centrale del problema, e qualsiasi soluzione reale richiede un ampliamento delle basi motivazionali del comportamento. Noi viviamo in un'era di sfida. Molti degli antichi convincimenti delle differenti scuole di pensiero sono ora in discussione, confrontati con esperienze empiriche contrastanti. Nell’accettare la sfida, la necessità di abbandonare la camicia di forza della razionalità economica ristretta è un punto centrale. Vi è un intero mondo di differenze nelle motivazioni al di fuori degli stretti confini della razionalità economica. I compiti importanti che l'economia moderna affronta ci invitano in quel vasto mondo. L'invito merita una risposta adeguata.
Traduzione a cura del prof. Guglielmo Garlato dell’Università degli Studi di Venezia. ! Ho discusso alcuni di questi problemi anche in altri lavori: Rationality, Interest and Identity, in Development, Democracy and Art of Trespassing: Essays in Honor of Albert O. Hirschman, a cura di A.
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Foxley, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1986; On Erbics and Economics, Blackwell, Oxford-New York {tr. it. Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988].
° Si può dimostrare che molte condizioni di coerenza apparentemente diverse possono essere comunque matematicamente equivalenti; si veda il mio lavoro Choice Functions and Revealed Preference,
«Review of Economic Studies», 38, 1971. Ciò nonostante ci sono parecchie classi distinte
di requisiti di coerenza.
? Inoltre, può essere dimostrato che quello che conta come «coerenza interna» può non essere di aiuto per decidere se non si ha una qualche idea su cosa una persona sta cercando di perseguire. Su questo si veda il mio Razionality and Uncertainty, in Recent Developments in the Foundations of Utility and Risk Theory, a cura di L. Daboni, A. Montesano e M. Lines, Reidel, Dordrecht 1986; e Consistercy,
Presidential Address to the Econometric Society, 1984, di prossima pubblicazione su «Econometrica».
* Poiché il perseguimento individuale dell'interesse personale genera pure una qualche coerenza interna di scelta, la visione di razionalità che si basa sull’interesse personale sembra essere più in linea con l'approccio di razionalità di coerenza interna. Ciò è, naturalmente, al massimo una congruenza parziale. Anche se il perseguimento dell’interesse personale genera coerenza interna, non è vero il contrario. Ad esempio, anche la minimizzazione sarebbe in linea con la coerenza interna. ° Ciò è discusso in dettaglio nel primo capitolo del mio On Erbics and Economics. ° Su questo si veda il capitolo terzo del mio Or Ethics and Economics. Vorrei illustrare la natura del problema con una classe di proposte di modificazione. Molte situazioni delle relazioni sociali ed economiche prendono forma di giochi del tipo « il dilemma del prigioniero», che portano a risultati inefficienti in relazione al comportamento basato sull’interesse personale. Per evitare ciò, si è tentato di considerare la ripetizione del gioco molte volte, in modo tale che chi si comporta in modo non cooperativo debba affrontare la conseguenza della rappresaglia degli altri. Tuttavia, risulta che nella misura in cui uno non ha alcuna illusione sulle motivazioni che si basano sull’interesse personale di tutti gli altri e nella misura in cui si conosce quante volte il gioco viene fatto, lo stesso risultato inefficiente si avrà coerentemente. Allo scopo di uscire fuori dalla suddetta difficoltà, senza far cadere l'assunzione di comportamento basato sull’interesse personale, carenze nel ragionamento o ignoranza
devono
essere
introdotte
nel modello,
ad esempio
convincimenti
(erronei,
data la
specificazione del modello) che altri non siano soggetti che necessariamente massimizzino completamente l’interesse personale, o che non si conosca quante volte il gioco verrà ripetuto. Modelli interessanti che utilizzano carenze di conoscenza o nel ragionamento sono stati costruiti da Axelrod, Basu, Kreps, Milgrom, Roberts e Wilson, Maskin e Fudenberg, Radner e altri.
? A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, 1790; il trattamento che A. Smith fa del problema è discusso nel mio Adam Smith's Prudence, in Theory and Reality in Development: Essays in Honour ofPaul Streeten, a cura di S. Lall e F. Stewart, Macmillan, London 1986; ed anche nei capitoli primo e terzo
del mio On Ethics and Economics. 8 Si veda in particolare Grundrisse (1857-1858), {tr. ing. Marx's Grundrisse, Macmillan, London 1971]. Sulle connessioni tra analisi e discussioni contemporanee sulla razionalità si veda il mio
Goals, Commitment and Identity, in «Journal of Law, Economics and Organization», 1, 1985.
? Per due spunti sul tema si veda M. MorisHIMa, Wby Has Japan “Succeeded” ?Western Technology
and Japanese Ethos, Cambridge University Press, Cambridge 1982; e R. Dore, Goodwz/! and the Spirit of Market Capitalism, «British Journal of Sociology», 34, 1983. 0 «The Wall Street Journal», 30 gennaio 1989, 1. !! Sulla rilevanza delle esperienze empiriche per la valutazione della struttura assiomatica dei fondamenti comportamentistici dell'economia moderna, si veda il mio Bebaviour and the Concept of Preference, «Economica», 40, 1973, e Rational Fools: A Critique of the Behavioural FoundationS of Economic Theory, «Philosophy and Public affairs», 6, 1977, entrambi riprodotti nel mio Choice Welfare and Measurement {tr. it. Scelta, benessere, equità, Il Mulino, Bologna 1986]. In quel volume si veda inoltre l’Inzroduzione di S. ZAMAGNI (in realtà è molto di più di un'introduzione ai saggi) che collega i saggi alle preoccupazioni interrelate dell'economia moderna, la teoria delle decisioni e l’etica. 1? Sulla valutazione della recente esperienza cinese si veda il mio Food and Freedom, Sir John Crawford
Memorial
Lecture,
1987, di prossima pubblicazione su «World
Development»,
e il
capitolo undicesimo di A. SEN, J. DREZE, Hunger and Public Action, di prossima pubblicazione presso la Clarendon Press, Oxford.
Razionalità etica e razionalità economica di Francesco Totaro
1. Un modello comune di razionalità
Il rapporto tra razionalità etica e razionalità economica si è di fatto ripresentato, nei tempi più recenti, come una vera e propria querelle. Si è
così acceso un contenzioso che forse è bene non placare con troppa fretta, per non soffocare tutta la fecondità che da esso può scaturire (sebbene ciò procuri «rompicapi» e «grattacapi» a parecchi, a cominciare dai filosofi costretti a sconfinare incautamente
nell’economia).
Qui potrei esordire
con il racconto dei numerosi duelli intrecciati tra custodi dell'economia e paladini dell’etica, duelli nei quali i contendenti per lo più rimettono la spada nel fodero non sapendo più cosa colpire con precisione oppure rendendosi conto che le armi della contesa sono improprie. Se ho evocato una scena a sfondo piuttosto cruento, è solo perché ho deciso, al contrario, di evitare un attacco polemico. Preferisco infatti partire da ciò che razionalità etica e razionalità economica sembrano avere in comune. D'altronde, se manca una base comune d’intesa, o una comune
«posta in gioco», non è possibile nemmeno il contrasto. Ora, razionalità etica e razionalità economica sembrano avere in comu-
ne un modello di comprensione e costruzione dell’agire «ottimo». L’agire ottimo o, se si preferisce, «ottimale» è quell’agire riguardo al quale si pensa ad una congruenza tra attese e risultati (per parafrasare analisi celebri di Max Weber '). L’agire infatti appare, nella sua configurazione più sommaria, come una sequenza che conduce da un progetto (come fine) a una esecuzione, da un'attesa a un esito, da una premessa a una conseguen-
za che le sia conforme; l’agire è in ogni caso un trascorrere o un passare a un incremento di realtà, sia che tale incremento rimanga in colui che ha dato inizio all’azione, sia che produca qualcosa fuori di lui (agire intransitivo e agire transitivo). Anche le azioni che la filosofia più recente considera prive di uno scopo ma, piuttosto, puramente espressive o orientate a un intendersi senza altro scopo che non sia l’intendersi stesso, rientrano a loro volta nell'orizzonte dell’agire come incremento di realtà. Comunque l’agire è tensione a uno stato di cose, sia interne che esterne, superiore a quello già dato.
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All’agire che conduce a uno stato migliore noi siamo propensi a riconoscere un crisma di razionalità. Riteniamo invece irrazionale un agire che conduce a un decremento di realtà o a una smentita della congruenza tra attese e risultati, specie quando questa sia non occasionale ma sistematica. Unagire irrazionale, ovviamente, non è né impossibile né irreale; anzi razionale e irrazionale sono connotati sempre intrecciati nell’agire. Ciò non toglie che possiamo disporre di un criterio evidente, almeno a livello formale, del senso di marcia che discrimina il cammino razionale dell’a-
gire dal suo procedere irrazionale; a tal punto che diciamo autenticamente dotato di senso solo il primo e dichiariamo insensato il secondo. Queste precisazioni vogliono portare l’attenzione sul darsi di un orizzonte di precomprensione comune tra economia e filosofia o, meglio, tra il modello generale di razionalità al quale fa riferimento l’economia (e ancor più gli economisti) e il modello generale di razionalità cui fa riferimento la filosofia (e in modo più specifico i filosofi che si occupano di etica, sebbene non si possa ritenere scontato tra tutti i filosofi il quadro che ho tracciato).
2. Etica ed economia: due punti di vista diversi Entriamo allora nel merito. Da quanto sopra detto emerge che razionalità etica e razionalità economica non si occupano di cose diverse ma forse, come vedremo meglio in seguito, si occupano diversamente delle stesse cose. Perciò, piuttosto che affannarsi nella ricerca del ponte tra i due tipi di razionalità, si tratta innanzitutto di capire come, all’interno di un
medesimo orizzonte di razionalità, si siano venuti a costituire due punti di vista fra loro diversi, cioè quello dell'economia e quello dell'etica. In seconda battuta si tratta di capire se la diversità o la differenza tra etica ed economia sia da declinare in termini di divergenza assoluta oppure in termini di relativa convergenza. Infine si tratta di vedere se dal convergere in qualche modo di etica ed economia non derivino delle provocazioni contenutistiche allo statuto dell'economia da parte dell’etica e un impegno nuovo per l’etica stessa. Non si può negare che il discorso etico attualmente rivolto all'economia suoni spesso generico, anche se - è il caso di rilevarlo - generico non sia affatto sinonimo di insignificante. Ora questo avviene proprio perché la regione dell’etica e la regione dell'economia, nel processo della modernità, si sono costituite come diverse e, precisamente, la regione dell'economia si è costituita nel riferimento al compito specifico dell'incremento della ricchezza, intesa come insieme di beni e servizi materiali o oggettivi, mentre la regione dell’etica si è costituita nel riferimento a doveri e norme prive di oggetto. Questa differenza di statuto ha spesso esposto, e continua ad esporre,
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E DEMOCRAZIA
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l’etica al rischio dell’astrattezza ideologica o ad esonerarla dalla valutazione dei beni concreti. Di ciò però si tratta di render conto. 3. La costituzione del punto di vista economico nella modernità
Procederemo per grandi scansioni temporali per dare conto, appunto, di ciò che abbiamo chiamato la costituzione del punto di vista economico sulla realta in quanto punto di vista 44t0n0mo. Per punto di vista economico sulla realtà intendiamo insieme sia delle forme di sapere sia un complesso di pratiche, che poi sono quelle proprie della produzione di beni che in quanto valori di scambio consentono profitti e interessi monetari oltre che il pagamento di salari. Non c'è dubbio che, prima della nascita dell'economia di mercato, l’economia facesse corpo con l’etica senza soluzione di continuità (almeno in linea di principio) e che le regole dell'economia fossero quelle che derivavano dalla disciplina etica delle azioni. Si può persino pensare che, come per S. Agostino non era il caso di parlare di un tempo prima della creazione del mondo, altrettanto non sarebbe il caso di parlare di un'economia davvero degna di questo nome prima della formazione dell'economia moderna. Quale che sia la soluzione di tale questione, a noi interessa mettere in rilievo come, senza lo scorporamento dall’etica e dalle sue regole, l’economia non si costituisce nello statuto proprio assunto nella modernità. In ciò l'economia, del resto, ha seguito le orme della politica. È significativo che sia Machiavelli sia Adam Smith invochino, per così dire, la censura o - almeno - la sospensione della benevolenza affinché politica ed economia possano conseguire la loro efficacia specifica (fare stati ordinati e aumentare la ricchezza).
In questa analisi della nascita dell'economia come sfera autonoma (0 come sottosistema) non bisogna però cadere in letture superficiali Se si guarda al di là della superficie, non è difficile scoprire - come è già stato fatto - che la fondazione moderna dell’economia non manca affatto di etica, per lo meno
non manca
di uno zoccolo robusto (o, se si vuole,
grossolano) di etica utilitaristica. Rispetto all'etica dell’utilitarismo ° anzi, l'economia della divisione del lavoro e dello scambio si presenta come il modello di interazione più accreditabile, cioè come il migliore dei mondi possibili per conciliare gli interessi di ciascun individuo con la somma degli interessi collettivi. Perciò, nel suo codice genetico, la forma moderna dell’economia 0, se si
vuole, la forma capitalistica dell'economia porta impressa la matrice di un modello etico particolare che è quello dell’utilitarismo elementare. Tradotto in linguaggio economico il principio dell’utilitarismo suona così: nel campo della accumulazione e della transazione della ricchezza la
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relazione che fa perno sull’individuo, il quale persegue il proprio interesse, è quella che porta al risultato con i costi minori e i benefici maggiori, cioè è la relazione più efficiente. Se quanto abbiamo dettoè plausibile, dobbiamo rettificare il filo della nostra analisi: l'economia si costituisce come punto di vista autonomo sulla realtà, e guadagna il suo oggetto proprio (la produzione di ricchezza), non perché si sgancia in assoluto dall’etica, ma perché si lega a un tipo particolare di etica che è quella dell’ utilitarismo O, per essere più precisi, dell’egoismo dell’utile. Economia capitalistica e utilitarismo si rinforzano a vicenda; l’economia non cessa di dare verifica empirica all’utilitarismo
e l’utilitarismo non cessa di fornire motivi di buona coscienza all’economia. Se è così, la amoralità rimproverata alla forma moderna dell’economia non si può configurare affatto come amoralità assoluta, ma piuttosto come amoralità relativa alla pressione che sull'economia può essere esercitata da istanze etiche più esigenti di quella rappresentata dall’utilitarismo egoistico. Ridotta all’osso la questione potrebbe suonare in questi termini: l’etica utilitaristica è l’unica compatibile con l’agire economico oppure l’agire economico è chiamato a essere responsabile della produzione di nuovi beni, nuovi beni di natura tale che il permanere dell’agire economico nell’orizzonte etico dell’utilitarismo individualistico non permetterebbe o verrebbe addirittura a compromettere? Detto diversamente : si conceda che l’intreccio tra utilitarismo dell'individuo ed economia ha influito in misura decisiva ai fini della costituzione di un’economia del surplus, oltre i limiti della semplice sussistenza; il destino dell'economia è però quello di rimanere nella struttura che èemersa all’origine oppure l'economia può aprirsi alla prospettiva di beni pi2 importanti e decisivi per un salto di qualità nella produzione e nella fruizione della ricchezza? Un interrogativo come quello qui formulato non ignora lo statuto di autonomia acquisito dalla forma moderna dell’economia, ma insieme preme sull’economia affinché si liberi dalla sua originaria e ricorrente comprensione nell’orizzonte dell’utilitarismo dell’individuo e prenda atto invece della nuova domanda sociale che all'economia viene rivolta, domanda che non
può più essere formulata nei termini di un'etica e di un ethos «egoistici». 4. La costituzione del punto di vista etico nella modernità A questo punto però la palla ritorna nel campo della riflessione etica e, precisamente, tocca le competenze che ad essa possono essere attribuite. Dico subito che per riflessione etica non intendo soltanto l'operazione esplicita di giustificazione delle norme morali o soltanto le compagini sistematiche di norme e valori; intendo piuttosto ogni disposizione a chiarire e dare ragione dei motivi per cui si vive, quale che sia il livello di
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elaborazione concettuale di tale disposizione.
Ora, come
sopra s’era
cominciato ad accennare, anche la forma moderna dell’etica si costituisce
come un punto di vista specifico sulla realtà, diverso da altri punti di vista (quello politico, economico, estetico, scientifico ecc.). Ma la specificità dell’etica si realizza in una ricerca delle massime universali dell'agire a prescindere da ogni oggetto specifico dell’agire stesso. Il modello etico certamente più emblematico e duraturo della modernità, quello kantiano,
nelle sue versioni più stereotipe, esprime nel modo più risoluto il rifiuto di misurarsi con i deri dell’agire. Il bene morale infatti è tutto nella forma di un agire universalizzabile, ma al tempo stesso tale agire è deresponsabilizzato riguardo alla valutazione dei beni concreti? Un’etica chiusa nella formula del dovere per il dovere non fornisce un discernimento per orientarsi nel mondo dei beni; nel deserto di contenuti che in tal modo si determina, si impone con facilità la valutazione dei beni dettata dall'economia. L’ordine dei beni tende ad appiattirsi sulla serie illimitata dei prodotti disponibili nella sfera del mercato e la stessa felicità del vivere, prima affidata all’impasto personale di beni e virtù, viene reinterpretata come semplice stato di benessere. L’etica dell’astratta soggettività universale e perciò esposta alla perdita del contatto con il mondo, mentre, d'altro canto, emerge dalla spontaneità dei mondi vitali una massa incontenibile di bisogni e desideri, i quali, non selezionati da abilità pratiche conformi a virtù, si riversano senza filtro e senza misura sui beni di consumo. La forma moderna dell’etica appare quindi scissa tra l’assunzione di principi universali astratti e una quotidianità privata di criteri di giudizio, portata perciò all’adattamento o alla imitazione di stili di vita eterodiretti. In queste condizioni viene meno la possibilità di ponderare chiaramente la congruenza tra attese e risultati: attese illimitate, invece di avvicinarsi al conseguimento del risultato, se ne allontanano quanto più crescono. L'esperienza dell'agire non riesce a configurarsi come un'esperienza di incremento della realtà, si tratti della realtà individuale o di quella collettiva, e si consegna a un «fare» senza ragione. La vicenda della modernità ci pone di fronte al rischio di un duplice blocco : quello dell’economia, nella comprensione restrittiva che le deriva dal riferimento agli interessi individuali, e quello dell’etica nella incapacità dei principi universali di offrirsi come guida efficace dell’agire effettivo. 5. Una controlettura dello statuto dell'economia A correzione del profilo unilaterale dell'economia moderna che sopra abbiamo tracciato, bisogna subito aggiungere che, a guardar meglio le cose, l'economia non è rimasta mai del tutto in balia della sua autocom-
RAZIONALITÀ ETICA E RAZIONALITÀ ECONOMICA
prensione utilitaristica. Innanzitutto perché, come
gel
è stato notato, nel
comportamento economico è rimasto perdurante l’influsso dell’etica precapitalistica * con la sua riserva di valori tradizionali di solidarietà che ha fatto da cuscinetto alle conseguenze possibili di un individualismo esasperato. Inoltre perché le tendenze del liberismo economico a plasmare l’assetto sociale a propria immagine e somiglianza hanno abbastanza presto messo in evidenza i costi intollerabili di una piena adeguazione tra mercato e società e hanno messo in movimento controspinte di imbrigliamento politico-istituzionale determinanti, come è fin troppo noto, nella strutturazione dello Stato sociale. Perciò, detto in breve, la forma capitalistica dell’economia, con la filosofia sociale che le faceva da supporto, non ha mai realizzato la sua essenza pura; anzi, la sua progressiva estensione nel mondo delle relazioni sociali non è mai avvenuta in caduta libera, ha su-
bìto invece freni e correzioni, del resto richieste pure dalle stesse deviazioni dell'economia reale dalla finzione ideale della concorrenza pura. Si può ricordare inoltre che gli stati di equilibrio e i calcoli di allocazionedistribuzione ottimale delle risorse, progettati e gestiti con i criteri endogeni al sapere e alla pratica economica (v. economia marginalista), hanno ricevuto smentite puntuali e ricorrenti da crisi che non hanno trovato il loro antidoto soltanto nelle capacità di innovazione e di rilancio del ciclo economico ?, ma anche in una più adeguata rete politico-istituzionale che ha sostenuto il terreno franoso dell'economia. Infine, sappiamo tutti come la stagione dell’economia keynesiana abbia fatto gridare al miracolo della ricomposizione armonica tra economia, politica ed etica, mentre attualmente viviamo nella fase di un vistoso rigetto reciproco o, se non altro, di un intreccio polemico che spesso la razionalità economica intenderebbe tagliare bruscamente esibendo le credenziali rinnovate di un'autonomia che non vuole più sopportare lesioni o diminuzioni. L’utopia dell'economia pura non è però oggi un ancoraggio possibile più di quanto lo fosse nel passato. Ciò viene messo in iuce dagli esponenti del sapere economico che ci hanno reso ormai familiare il concetto di economia come attività, per cosi dire, «connessa» ‘e hanno individuato in
una nozione più ricca e articolata dell’agire i livelli di soddisfazione ai quali la realizzazione dell’individuo e la convivenza sociale potrebbero oggi elevarsi. 6. Una controlettura dello statuto dell’etica
D'altra parte, e non insisterò a lungo su questo versante, anche la riflessione etica si è progressivamente portata oltre la soglia del formalismo dei principi e, ove non è incappata nelle angustie scientistiche di un neopositivismo senza sbocchi, è riuscita a guadagnare lo spazio di una rinnovata capacità di argomentazione etica. Una argomentazione etica dai
V2.
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E DEMOCRAZIA ECONOMICA
toni meno perentori di quelli usati nel passato, ma disposta a entrare nel merito della discussione sui mezzi oltre che sui fini, nella consapevolezza che la razionalità etica non può consistere in una semplice, per quanto convinta e doverosa, proclamazione dei principi ma si esercita, più propriamente ed efficacemente, nello sforzo di ricerca di una coerenza (e
di una congruenza) non aprioristica tra principi e strumenti, i quali si plasmano a vicenda, in una interpretazione reciproca che si ripropone incessantemente ed esige una saggezza capace di discernimento dinamico. Il nuovo profilo assunto dalla argomentazione etica ha perciò superato la
cornice del pensiero etico di marca generica, che aveva poi come inevitabile contrappunto la consegna al cosiddetto realismo della routine quotidiana, e si affida piuttosto alla elaborazione faticosa di un consenso che deve scaturire dalla capacità di intendersi da parte di soggetti i quali facciano prevalere le ragioni di verità sulle ragioni della forza (o del ruolo e della posizione). L'evoluzione della razionalità etica ”, nonostante
le
apparenze, può sfociare così nella maturazione di un abito etico che metta insieme l’analisi dei dati con il riferimento ai principi e l'assunzione di responsabilità dirette. È questa la via per l'acquisizione di una competenza etica che si sottragga al rischio dell’agire per adattamento o per imitazio-
ne. 7. Oltre l’economicismo e il moralismo la ricchezza dell’uomo
I punti di arrivo che si possono evidenziare nel processo di evoluzione della sfera economica e in quello della dimensione etica dovrebbero facilitare, innanzitutto, il superamento delle rispettive ideologie. L’ideologia economica o economicismo consiste nella pretesa o nell'ambizione di estendere le regole della produzione e del mercato al funzionamento e alla normazione della relazione sociale complessiva. Ora, se l'economia diviene consapevole della non autosufficienza della propria definizione come sistema chiuso e insieme riconosce motivazioni dell’agire, al di là del
calcolo dei costi e dei benefici di utilità, le quali non possono essere fagocitate o espropriate, viene a dotarsi di almeno due buone ragioni per non cadere nell’economicismo. L'ideologia dell’etica o moralismo consiste nella pretesa o nell’ambizione di dettare norme e valori senza tenere conto dei nessi funzionali e regolativi degli ambiti ai quali norme e valori dovrebbero essere applicati; va da sé che il moralismo si condanna alla sterilità e permette solo gratificazioni narcisistiche. Ora, se l’etica, fatto
salvo l’irrinunciabile, diviene matura al punto tale da rendersi intrinseca ai problemi e alle esigenze di soluzione espresse nei campi specifici dell’agire, allora, senza porsi come magico toccasana o formula di immediata validità tecnica, può aspirare però ad un ascolto legittimo e può fornire indicazioni credibili.
RAZIONALITÀ ETICA E RAZIONALITÀ ECONOMICA
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Ma dal superamento degli equivoci ideologici scaturisce, per l’economia e per l'etica, l’importanza di misurarsi insieme con il paradigma radicale di razionalità che ad entrambe sovrintende. Tale paradigma, lo si è detto all’inizio, risiede in un'idea dell’agire come capace di incrementare o arricchire la realtà cui esso si applica. Ma, a ben vedere, la realtà alla quale l'agire - ogni tipo di agire - si applica è innanzitutto l’uomo stesso: gli uomini e le donne in relazione con altri uomini e altre donne. Perciò, su
questo piano, etica ed economia non possono non avere un medesimo
criterio di valutazione degli esiti che dalla loro esplicazione scaturiscono. Ecco perché si è sottolineato giustamente che la ricchezza prioritaria, da promuovere e salvaguardare, è la ricchezza che riguarda direttamente ogni uomo e ogni donna nelle condizioni del loro potersi dire tali a pieno titolo (e con i diritti che ad essi competono) *. Perciò un incremento di ricchezza
economica (in termini di profitto), il quale comporti al tempo stesso un impoverimento antropologico (in termini di diminuzione di diritti e di opportunità: dalla salute, alla casa, al lavoro, all'ambiente, ecc.) è già nell'ottica economica da considerarsi in contraddizione con i traguardi dell’incremento dello sviluppo. Ciò significa che l'economia non può non prendere in considerazione, come conseguenze indotte dalla sua stessa impostazione, i costi sociali e i sacrifici umani legati alla produzione della ricchezza, soprattutto quando di questi non si preveda per tempo una ripartizione equa, che eviti
emarginazione e sofferenza per alcuni in cambio di maggiore opulenza o, addirittura, di privilegio per altri. 8. Problemi cruciali
Tutto ciò ci porta a dire che, senza pretendere ingenue armonie prestabilite e pur mettendo in conto frizioni e conflitti, razionalità etica e razionalità economica sono oggi chiamate a non arroccarsi negli stereotipi di una differenza di statuto che implichi divergenze sistematiche e irre-
versibili, ma a tentare le vie di una relazione costruttiva per una possibile convergenza. La prospettiva che qui vogliamo indicare è resa oggi necessaria dai problemi inediti che si pongono al processo storico e allo sviluppo dell'umanità su scala planetaria, problemi che né l’etica né l'economia da sole sono in grado di affrontare adeguatamente, ma che entrambe hanno interesse a risolvere. Si va facendo strada infatti la convinzione che problemi nodali, i quali condizionano pesantemente la convivenza civile, esigono una conversione o trasformazione del tipo di beni attualmente dominanti e del modo di guardare ad essi. Il rapporto non distruttivo con la natura e l’ambiente, la giusta partecipazione alle opportunità di lavoro e insieme la gestione non dissipativa del tempo libero dal lavoro, la pace
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E DEMOCRAZIA ECONOMICA
intesa come sconfitta della logica di antagonismo e di dominio, quindi il superamento della scissione profonda tra paesi in condizioni di ipersviluppo e paesi in condizioni di sottosviluppo ? sono gli elementi vistosi di una sfida radicale al #jpo di beni oggi prodotti dall'economia e ad atteggiamenti diffusi a livello di costume. Riprendo qui la tematica già affrontata nella riflessione precedente. Il tipo di beni prevalente nel sistema della produzione finalizzata a se stessa !° è quello dei beni che potremmo chiamare materiali o quantitativi, i quali sono caratterizzati dal fatto che vengono considerati oggetto di appropriazione esclusiva («beni escludenti»), tali cioè che il loro godimento è possibile nella misura in cui se ne esclude il godimento e la fruizione da parte di altri. A parte la disutilità della ricerca generalizzata della esclusività («Se tutti stanno sulla punta dei piedi, nessuno vede meglio»!!), lo stile di vita, individuale e di convivenza sociale, alimentato
dall’incremento produttivo illimitato delle quantità, finisce con il serrare la qualità dell’esistenza nella tenaglia del produrre e del consumare. L'esistenza diviene cioè indisponibile a se stessa: anche gli spazi liberati dalla produzione, e pieni delle potenzialità di un vivere umanamente più ricco e completo, vengono continuamente risucchiati nello stile di vita improntato all’economicismo, con il suo carico di bisogni e desideri senza limiti che non siano quelli della capacità, incessantemente riprodotta, di acquistare e consumare. Questo meccanismo della disposizione dei beni, nel quale consiste precisamente il paradigma produttivistico dell’economia (dell’economicismo), e dell’intera esistenza da essa condizionata, è, a
ben vedere, profondamente incompatibile con il perseguimento dei fini che lo scenario già del presente, e ancora più del futuro prossimo, ci propone come urgenti e irrinunciabili. Rischiamo perciò di ingabbiarci in un paradosso: da un lato mai come oggi l’umanità ha potuto disporre di risorse materiali e di un potenziale tecnologico tanto cospicui, dall’altro la gestione incongrua di questo enorme patrimonio di ricchezza può procurare una mole di costi e di sofferenze, per il vivere individuale e collettivo, superiore ai benefici immediati e apparenti. Il permanere nelle spire di questo paradosso significa consegnare all’irrazionalità sia l’agire etico sia l'agire economico. Si profilano così in modo netto i problemi cruciali: come vincere il paradosso di un impoverimento che può derivare da una ricchezza eccessiva ma insieme mal governata? Come superare lo scoordinamento della ricchezza attuale da quella ottenibile nel futuro? Come andare oltre la polarizzazione della ricchezza materiale tra regioni che ne posseggono troppa e paesi che ne sono esclusi? Il persistere nel
modello attuale di produzione e distribuzione dei beni avvicina oppure allontana da queste mete?
RAZIONALITÀ ETICA E RAZIONALITÀ ECONOMICA
Via)
9. E possibile un'economia oltre l’homo economicus? Non mancano certo economisti che hanno colto il carattere decisivo di questi problemi; qualcuno ammette che «il concetto stesso di sviluppo deve sempre essere rivisitato» e si spinge fino a pronosticare nel calendario storico delle «rivoluzioni economiche» quella che potrebbe chiamarsi la «rivoluzione etico-economica», ove al sostantivo etico - si precisa - deve darsi un contenuto di civiltà e di umanità !°. A tale prospettiva, che è dichiarata immanente alle stesse possibilità evolutive dell’economia, la razionalità etica può contribuire con l’approfondimento delle condizioni di una convivenza disposta a privilegiare i beni qualitativi o spirituali rispetto ai beni materiali. Beni qualitativi o spirituali sono quelli che riguardano ciò che si è, per sé e per gli altri, piuttosto che ciò che si 4a, per sé contro gli altri e a scapito degli altri. Essi non richiedono un illimitato incremento quantitativo ma la capacità di coltivare una ricchezza umana integrale, per la propria persona e quella degli altri (in quanto il rapporto all’altro è costitutivo di cio che anch'io sono). Beninteso, la figura dei beni spirituali non ha niente da spartire con la maldestra proposta di uno spiritualismo astratto; infatti il primato dei beni spirituali è autentico (e non cade nel vizio terribile dell’esclusivismo dello spirito) se esige e quindi si traduce in una assunzione profondamente diversa dei beni materiali, cioè in un atteggiamento di condivisione e di solidarietà quanto alle opportunità e ai diritti che li concernono. La solidarietà è innanzitutto la persuasione che la ricchezza è un bene comune e che la ricchezza di ciascuno non è tale se non è insieme la condizione per la ricchezza degli altri, non come residuo a cui provvedere dopo aver soddisfatto il proprio bisogno ma come va/ore che orienta ed è regola per la stessa soddisfazione del bisogno proprio. Il richiamo alla solidarietà è spesso sospettato di volontà di edificazione. Occorre allora dire che, nella situazione attuale di dotazione delle risorse e, insieme, di governo giusto che esse esigono, la solidarietà puo uscire dall’alone del discorso edificante e proporsi come regola efficace di razionalità sociale. Le linee evolutive che abbiamo tracciato chiedono certamente all’economia di progettare investimenti diversi delle risorse, all’interno di una ridefinizione del calcolo di attese e risultati e quindi di costi e benefici, con una misura di efficienza che non potrà essere disgiunta da una accresciuta pregnanza di senso derivante dal riferimento dell’economia a una realizzazione più completa e partecipata di umanità. È in grado l’agire economico di corrispondere a queste esigenze e di farsi protagonista di uno «sviluppo autentico» !5? Forse l'economia protesterà ancora una volta la sua natura di semplice funzione strumentale che non può tendere come tale alla ridefinizione dei fini 14. I fini, infatti, sarebbero
dati all'economia solo dall’esterno. Ma ciò che, appunto, si tratta di capire è se l'economia può finalmente uscire dalle finalità in essa incorporate
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dell’bomzo economicus e diventare strumento effettivo dell’uomo in quanto tale (di tutti e di ciascuno). Sarebbe questo il modo migliore per dimostrare che l'economia non è legata al determinismo dei fini già costituiti ed è piuttosto una via di accesso alla libertà di uno sviluppo umano integrale.
! M. WeBER, Gesammelte Aufsiitze zur Religionssoziologie, Mohr, Tiibingen 1920 [{tr. it. Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982, vol. I, 227 ss.}. Per una lettura del testo weberia-
no sull’etica economica delle religioni sotto l'aspetto della problematica fondamentale del conferimento di senso all’agire rinvio a F. TorarO, Produzione del senso. Forme del valore e dell'ideologia, Vita e Pensiero, Milano 1989, 132-136.
? Per etica dell’utilitarismo intendiamo qui l’etica dell’utilitarismo individualistico 0, più semplicemente, dell'utile egoistico la quale è sottesa alla visione dell'agire economico che compare originariamente in Adam Smith (più precisamente nella Ricchezza delle nazioni, a differenza delle opere in cui egli tratta del sentimento morale; per un’analisi articolata cfr. S. CREMASCHI, Sistema della
ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith, Angeli, Milano 1984). Questa accezione dell’utilitarismo come perseguimento dell’utile o del vantaggio di ciascuno che condurrebbe spontaneamente all’armonizzazione dell’utile o del vantaggio di tutti, sebbene sia la più ricorrente nella motivazione prevalente dell’agire economico non è certo l’accezione più cospicua, né in confronto alle posizioni della scuola benthamiana e dell’utilitarismo «classico» né tantomeno in confronto alla sofisticata riflessione attuale sul tema del cosiddetto neoutilitarismo. Per l'avvio a una documentazione più adeguata vedi G. PONTARA, «Utilitarismo», in Dizionario dipolitica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, UTET, Torino 1983°, 1225 ss. Ip; Filosofia pratica, Il
Saggiatore, Milano 1988, parte terza; E. MusaccHIO, Indirizzi dell'utilitarismo contemporaneo, Cappelli, Bologna 1981; Uti/itarismo oggi, a cura di E. LecaLDANO, S. Veca, Laterza, Bari 1986. Importante, per il neoutilitarismo,J.HARSANYI, L'utilitarismo, Il Saggiatore, Milano 1988 (con ricca
bibliografia). è Cfr. la celebre critica al formalismo kantiano di M. ScHELER, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, in Gesammelte Werke, Band 2, Francke, Bern 1966. La valutazione severa del
modello etico kantiano qui da noi espressa è indubbiamente finalizzata a esigenze di schematismo tipologico. Una trattazione teoreticamente equilibrata dell’etica deontologica kantiana nel confronto con l’etica teleologica di ascendenza aristotelica, con buona padronanza della letteratura più importante, nel recente A. DA RE, L'etica tra felicità e dovere. L'attuale dibattito sulla filosofia pratica, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1986. 4 Cfr. F. HirscH, Social Limits to Growth, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976 {tr.
it. I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1981, parte terza]. ° Cfr. J. SCHUMPETER, T'heorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Duncker & Humblot, Berlin 1926? {tr. it. Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1977, in particolare il cap. II]. © Vedi, tra le riflessioni più significative e di facile accesso, la raccolta di saggi di A.O. HIRSCHMAN, L'economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, Napoli 1987; A. SEN, On Ethics and Economics, Basil Blackwell, Oxford 1987 [tr. it. Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988. Nel contesto italiano vedi, tra gli altri, S. LOMBARDINI, I/ metodo della scienza economica: passato e futuro,
UTET, Torino 1983; S. ZAMAGNI, Introduzione alla raccolta dallo stesso curata, Saggi di filosofia della scienza economica, La Nuova Italia Scientifica, Roma
1982.
7 Per una documentazione articolata si puo prendere l’avvio dagli studi di autori vari raccolti in E. BERTI, Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova 1988; sui maggiori esponenti dell'etica comunicativa si vedano nello stesso volume i saggi recenti di G. Cunico, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch e di R. MANCINI, Linguaggio e etica. La semiotica trascendentale di Karl Otto Apel. 8 Cfr. Commissione cei problemi sociali e lavoro, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, Edizioni Dehoniane, Bologna 1987, n. 30, 27. ? GIOVANNI Paoto II, So/licitudo rei socialis, Edizioni Dehoniane, Bologna 1988, n. 28, 25 s.
'° L'espressione mi è suggerita da C. NAPOLEONI, O/tre la “spettrale oggettività”2,in C. NAPOLEONIM. Cacciari, Dialogo sull'economia politica, «Micromega», 1988, n. 1, 160. Sempre C. NAPOLEONI, Discorso sull'economia politica, Boringhieri, Torino 1985, 136, ha delineato un'ipotesi di liberazione dell'economia dalla «prospettiva della produzione-appropriazione-dominazione”.
! E l'osservazione di buon senso ricordata da F. Hirsca, I limiti sociali allo sviluppo, tr. it. cit., 13
RAZIONALITÀ ETICA E RAZIONALITÀ ECONOMICA
VEL
e 49, a corroborare l’idea del «potenziale spreco sociale» che si verifica con irrazionalità controproducente «nella misura in cui il risultato complessivo della serie di spostamenti individuali lascia tutti gli interessati in una condizione peggiore di quella in cui si troverebbero se avessero concertato le loro azioni conoscendo le probabili reazioni degli altri». '° Cfr. A. Quanrio Curzio, Interdipendenza e solidarietà. Profili di sviluppo economico mondiale, in AA.VV., L'insegnamento sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1988, 132. !3 Cfr. GIOVANNI Paoto II, So/licitudo rei socialis, cit., nn.17, 15 e passim.
!* Cfr. L. RoBBINS, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, MacMillan & Co., London 1932 {tr. it. Saggio sulla natura e l'importanza della scienza economica, UTET, Torino 1947, 117}: «Non vi sono fini economici, ma soltanto modi economici ed antieconomici per raggiungere
determinati fini», cit. in F. DUCHINI, Insegnamento sociale della Chiesa e problematica economica: da Leone XIII a Pio XII, in AA.VV., L'insegnamento sociale della Chiesa, cit., 61.
Democrazia economica e diritti dei lavoratori di Tiziano Treu
1. Introduzione
Fome di partecipazione dei lavoratori nelle imprese e nell'economia sono teorizzati e praticati in tutti gli ordinamenti moderni. Le ispirazioni ideali e le tipologie della partecipazione, nonché i loro legami con obiettivi più vasti di democrazia economica, sono alquanto differenziate fino al punto che le stesse formule di partecipazione appaiono sovente ambivalenti se non cariche di ambiguità. La ambivalenza di tali formule emerge nella stessa Costituzione italia-
na, la quale riflette anche qui una sintesi fra le maggiori correnti politicoculturali presenti nella nostra tradizione, da quella liberale a quella cristiano-sociale a quella socialista. I diritti di partecipazione dei lavoratori costituiscono il fondamento dell'assetto costituzionale ipotizzato nel 1947. Appare più appropriato parlare di diritti di partecipazione che non di democrazia economica, concetto forse ancora più indeterminato e meno attentamente elaborato nella nostra tradizione. I diritti di partecipazione costituzionale riconosciuti riguardano i lavoratori sia in quanto individui, cioè in quanto parte del rapporto individuale di lavoro, sia in quanto soggetti collettivi. Hanno intensità diversa, in quanto implicano talora solo garanzie di libertà, altre volte poteri attivi di intervento nel tessuto sociale ed economico: dai diritti di libertà sindacale nelle sue varie accezioni, al potere di contrattazione collettiva (art. 39) ed al diritto di sciopero (art. 40), che esprimono
la possibilità di autotutela collettiva dei lavoratori, nonché su un piano diverso, al diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione dell’impresa
(art. 46) cuifa riscontro la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori come di altri rappresentanti delle categorie produttive, nelle istituzioni dell'economia, a cominciare dal cNEL (art. 99). La scelta costituzionale di
riconoscere tali diritti «diseguali» ai lavoratori esprime l’intenzione, sancita solennemente nell’art. 3, comma II, di valorizzare il lavoro come criterio generale ordinatore dei rapporti tra Stato e società e come fondamentale per una maggiore partecipazione della forza del lavoro nella gestione dell'assetto produttivo e sociale. Se questa scelta èinequivoca, le
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ECONOMICA
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modalità e gli strumenti istituzionali risentono di profonde divergenze valutative, se non di ambiguità. La diversità delle concezioni ideali sottostanti ne ha influenzato profondamente i significati. Ciò vale già per i diritti fondamentali di libertà. Pur oggetto di unanime riconoscimento formale, sono variamente configurati nella loro effettiva estensione e capacità di incidenza all’interno dei luoghi di lavoro, specie in rapporto alla.logica dell'impresa. È appena il caso di ricordare che fino allo Statuto dei lavoratori del 1970 tali libertà sono state ritenute inoperanti dalla nostra giurisprudenza nei rapporti interprivati, secondo le concezioni liberali classiche, non sufficientemente contrastate
da denunce sindacali e politiche. L'estensione concreta di tali diritti di libertà, in rapporto alle esigenze economiche dell’impresa, è stato a lungo uno dei punti più controversi dell’applicazione dello Statuto: una controversia che si poteva ritenere sopita, ma che è stata bruscamente riaperta da recenti «casi» aziendali. Senza dire che ancora oggi la protezione di tali libertà è largamente negata dall’ordinamento nella diffusa area delle piccole unità produttive. Cosicché per queste aree sono tuttora da riconoscere diritti di cittadinanza industriale dei lavoratori, senza i quali è arduo ipotizzare una loro partecipazione economica.
2. Diritti di partecipazione e contrattazione collettiva Un terreno di incontro, significativo ancorché compromissorio, fra le
varie concezioni espresse alla Costituente si realizzò a proposito di quegli strumenti fondamentali della partecipazione dei lavoratori che sono il sindacato e la contrattazione collettiva. La soluzione dell’art. 39 si presentò come una via mediana tra la concezione «liberale», incline a configurare un sindacato privo di rapporti giuridici e di responsabilità rispetto alla Stato, e la concezione, di origine corporativa, che lo intendeva «come ente di diritto pubblico giuridico riconosciuto dallo Stato e sottoposto al controllo delle autorità tutorie». Tale «via mediana», pur rifiutando una configurazione pubblicistica del sindacato e della contrattazione collettiva, ne superava altresì una visione meramente economicistica, di mero strumento per la tutela del lavoro sul piano del rapporto. Sindacato e autonomia collettiva erano valorizzati come strumenti per la realizzazione di obiettivi anche sociali, e come espressione di poteri operanti sul piano del rapporto di lavoro, ma «sostanzialmente valutabili sul piano politico-costituzionale come competenza concorrente con quella dello Stato a determinare lo sviluppo dell'assetto globale dei rapporti sociali». In effetti la contrattazione collettiva, autonomamente praticata dal sindacato, è stata per decenni lo strumento principale di partecipazione
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ECONOMICA
dei lavoratori, anzitutto alla determinazione delle loro condizioni di la-
voro, ma poi via via anche alla definizione di importanti scelte economico-sociali: della cosiddetta contrattazione delle riforme degli anni Settanta; alla contrattazione delle ristrutturazioni industriali nei gruppi privati c pubblici; alle intese sociali degli anni Ottanta, reiteratesi in varie forme triangolari e bilaterali fino a oggi. Tale evoluzione ha da tempo alterato la tradizionale funzione «privatistica» della contrattazione collettiva, riproponendo la questione di fondo, affrontata ma non risolta dal costituente: come raccordare in forme efficaci e democratiche l’azione collettiva con l’assetto complessivo del sistema economico politico. Non a caso dopo decenni di parentesi i problemi della rappresentatività sindacale e della riforma della contrattazione collettiva sono ritornati di attualità come parte integrante delle riforme istituzionali. Ma la via segnata dal costituente appare difficilmente utilizzabile priporio nei suoi punti centrali: registrazione del sindacato, regola di maggioranza, efficacia generale automatica dei contratti collettivi. Tutti punti che prospettavano un modello pluralistico fortemente istituzionalizzato e non privo di suggestioni organicistiche, ove le autonomie della società pluralistica avrebbero dovuto risolversi in un quadro ove i ruoli delle varie parti sociali dovevano essere prefissati. La partecipazione collettiva dei lavoratori e sindacati alle scelte economico-sociali, anche attraverso la contrattazione collettiva, richiede forme
istituzionali meno rigide, più complesse e forse più precarie di quelle «forti» prospettate dall’art. 39. È infine significativo che la concezione partecipativa espressa nella disciplina costituzionale del sindacato e della contrattazione non si sia espressa in una normativa definita, per l’irriducibile disaccordo fra le stesse forze costituzionali, su due aspetti critici per l’equilibrio del sistema sociale e produttivo: il rapporto fra azione sindacale e assetto politico, drammatizzato dalla questione della legittimità dello sciopero politico (su cui si realizza l’impasse dell'art. 40) ed il rapporto fra azione sindacale e impresa, affrontato ma non risolto dall'art. 46. Cosicché proprio i due profili «estremi» dei diritti di partecipazione dei lavoratori - diritto di sciopero e partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa dovevano restare indeterminati, segnati da quel peccato di origine della Costituzione che sarà indicato come «lo spirito di rinvio». 3. Caso italiano e resistenze alla partecipazione
La «debolezza» normativa dell’art. 46 e l'assenza per molti decenni di esperienze partecipative nell'impresa riflettono sia la forte conflittualità dell'ambiente sociale italiano sia altrettanto forti divergenze presenti
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nelle maggiori correnti politico-culturali italiane rispetto all'impresa e in genere al sistema capitalistico industriale di cui l’impresa è l’epicentro. Nella cultura marxista il punto critico è rappresentato dalla funzione che la partecipazione (piuttosto che altri strumenti, come la nazionalizzazione) può assumere per la trasformazione dell’impresa, e dello stesso sistema capitalistico, fino al suo superamento. Il che postula un uso della partecipazione come strumento di controllo operaio sull’impresa mentre accentua la diffidenza per le sue possibili declinazioni cogestionali con i connessi rischi di subalternità alla logica di impresa. Nel clima conflittuale del dopoguerra tale differenza equivarrà a un progressivo abbandono della ricerca di forme partecipative. Neppure nella cultura cattolica mancava la consapevolezza delle diverse valenze della partecipazione rispetto all’assetto capitalistico dell'impresa e dell'economia. Nell’ispirazione cristiano-sociale sono tradizionali le ipotesi dell’azionariato operaio e della partecipazione agli utili che sottolineano la partecipazione come strumento di integrazione in senso organico - se non organicistico - dei lavoratori nella comunità aziendale. Tale impostazione si congiunge con l’enfasi sulla proprietà privata come diritto naturale e come legittimazione del potere, e con l’idea che la sua diffusione (limitata)
fosse strumento di ordine sociale. La diffidenza della cIsL verso queste forme e verso ogni partecipazione istituzionalizzata dei lavoratori nell’impresa fu motivata fin dall'inizio dalla preoccupazione per l'autonomia del sindacato. Essa doveva dimostrarsi un salutare antidoto contro ogni prospettiva di soluzione del genere ben oltre gli anni Cinquanta, nei quali del resto aveva poche possibilità di porsi in concreto. Altrettanto presenti nella tradizione cattolica sono le suggestioni di iscrivere organicamente la partecipazione dei lavoratori e dei vari gruppi economici all’interno di istituzioni pubbliche di governo dell’economia di cui il CNEL è un pallido riflesso. Anche queste ipotesi furono presto messe in discussione dalla pratica e dalla riflessione
sindacale
(in particolare
della cisl) che accentuarono
progressivamente la diffidenza verso ogni forma di partecipazione istituzionalizzata e organica accentuando invece il valore partecipativo conflittuale dello strumento contrattuale sia nell'ambito aziendale, sia rispetto alle grandi scelte economiche della programmazione. Non a caso queste accentuazioni contrattualistiche si sono sviluppate in parallelo con le critiche alla concezione pubblicistica e organicistica del sindacato presente nel dibattito costituente. Da una parte si avvertiva che l'egemonia del sindacato di ispirazione comunista non era contrastabile entro un sindacato configurato quale ente autarchico dello Stato, ma accettando la competizione sul campo aperto della contrattazione libera, prima teorizzata e poi faticosamente avviata.
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Inoltre le ipotesi organiche e pubblicistiche contrastavano con la prospettiva di una rapida industrializzazione della società italiana ritenuta necessaria dalla cisti per far uscire il sindacato dalla situazione di debolezza endemica cui il sottosviluppo l’aveva fino ad allora costretto. Le ipotesi pubblicistiche erano legate a una visione integralistica della società, più omogenea al tradizionale blocco fondiario-redditiero, che non alla borghesia attiva capitalistica industriale, su cui la Dc puntava per lo sviluppo. 4. Peculiarità del caso italiano
In ambedue le principali aree politico-culturali, cattolica e marxista, si affermarono così - per motivi diversi - tendenze contrarie allo sviluppo di forme partecipative soprattutto nell'impresa. Del resto tali forme avevano poche possibilità effettive di affermarsi nel contesto economico-sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Le resistenze politico-culturali accennate avrebbero continuato a influire non poco nei decenni successivi, quando pure motivi strutturali e soggettivi, attinenti cioè alle trasformazioni economiche (internazionalizzazione e informatizzazione) e alle modifiche della forza lavoro (terziarizzazione, femminilizzazione) mettono in crisi i
modelli di relazioni industriali contrattualistiche (e conflittuali) spingendo gli attori sociali a ricercare un loro aggiustamento. Il sistema italiano è più esposto di altri a tali trasformazioni, sia per i ritardi storici del suo sviluppo (quindi per la sua perdurante fragilità e dualismo economico-sociale) sia anche perché più radicalmente di altri ha adottato il modello pluralista conflittuale delle relazioni industriali: come si vede dalla prevalenza di una contrattazione collettiva informale, di conflitti industriali non regolati e sostenuti senza condizioni dal legislatore dello Statuto dei lavoratori. Le incertezze e il ritardo con cui il nostro sistema reagisce alla crisi del pluralismo conflittuale sono riconducibili alle sue caratteristiche strutturali e ai precedenti storici. Il contesto italiano è sufficientemente consolidato e gode di sufficiente consenso sociale e politico da non poter essere facilmente smantellato per dare spazio a una regolazione individuale di mercato dei rapporti di lavoro. All’affermarsi di relazioni industriali apertamente liberiste ostano altri caratteri, non meno radicati nella storia italiana: la tradizione interventi-
sta del potere pubblico, sostenuta (per motivi diversi) dalla maggioranza degli attori politici e sociali , imprenditori compresi; la scarsa compattezza
e vocazione egemonica di questi ultimi; la forza ancora diffusa del sindacato ed il suo radicamento nelle istituzioni; il peso e le posizioni dei partiti più vicini al sindacato. La combinazione di questi caratteri è più
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univoca nell’escludere alternative forti, come quella neoliberista o neointerventista, che nell’indicare il percorso di un’altra strada. Gli stessi imprenditori del resto hanno avvertito la difficoltà di rimediare alle difficoltà ed agli inconvenienti della contrattazione collettiva con soluzioni neoliberistiche diffuse: anche se soluzioni del genere sono state adottate in alcuni casi particolari di grande rilevanza e risultano agevolmente praticabili nella crescente area delle piccole unità produttive e del lavoro sommerso. D'altra parte non sono pochi i fattori che ostacolano una correzione del sistema con una introduzione di modelli partecipativi «forti»: divisioni interne al sindacato, e la debolezza delle organizzazioni centrali, che impediscono l’adozione di linee strategiche di lungo periodo e fortemente condivise, necessarie per il successo di prassi partecipative; di/fidenze degli imprenditori circa la reversibilità degli orientamenti conflittuali, se non massimalisti, del sindacalismo italiano; incertezza dei rapporti fra parti sociali e potere pubblico ed instabilità di quest’ultimo, che lo rendono scarsamente affidabile nel sostenere gli esperimenti partecipativi, com'è necessario. 5. Gli anni Settanta e la concertazione sociale
Significativamente le prime trasformazioni rispetto alle prassi tradizionali si verificano a livello macroeconomico con l’avvio, fin dal 1976, di
tentativi di concertazione sociale. Una simile scelta non è sorprendente. In quel periodo l’asse portante del modello partecipativo, e lo stesso fulcro dell’attenzione teorica, si collocano in tutta Europa al livello macroeconomico e politico, in parallelo con una generale tendenza alla centralizzazione delle relazioni industriali. L’analisi sulla crisi del contrattualismo - che ne denuncia gli eccessi «destabilizzanti» e porta a interrogarsi sulle possibilità di correggerne il funzionamento con un'evoluzione in senso partecipativo -pone in primo piano motivi riguardanti gli equilibri generali delle economie capitalistiche ed il ruolo dello Stato nella loro regolazione. Il crescente coinvolgimento dello Stato nella vita economica - indotto dalla pressione sociale organizzata - ha spostato la sede decisionale dal mercato al sistema politico allargando gli interventi di questo anche nelle relazioni industriali: legislazione protettiva, welfare, politiche di pieno impiego. Queste pratiche concertative sono sostenute con diverso grado di intensità dalle varie correnti politico-sindacali italiane. In generale esse corrispondono sia alle tradizionali impostazioni delle forze riformistelaiche sia a quelle dell’area cattolica «cislina», che attribuiscono alle forze sociali organizzate, fra cui in primo luogo il sindacato, un ruolo essenziale
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nel governo dell’economia per garantire le compatibilità fondamentali e orientarle a obiettivi congiunti di equità e di stabilità. Una simile esigenza non è disconosciuta neppure dal partito e dal sindacalismo comunista, che in questo periodo so propongono esplicitamente come forze di governo e avallano le pratiche di concertazione sociale (anche se non esclusivamente) come strumento di proprio coinvolgimento nelle scelte di governo. Tali prassi saranno criticate e poi denunciate nel 1984, anche se non esclusivamente, per la loro inadeguatezza - o estraneità
- a tale scopo. La concertazione sociale come forma di partecipazione economica trova ostacoli diversi, in parte comuni alle esperienze europee, in parte tipici dell’Italia (le divisioni sindacali, la tuttora scarsa centralizzazione delle
relazioni industriali, la debolezza e la inefficienza del potere pubblico). Fra questi c'è il sovraccarico di contenuti, che assumono tali prassi di concertazione sindacale, sproporzionato rispetto alle oggettive possibilità e l’enfasi particolare sul ruolo politico del sindacato. Emblematico è l'accordo cd. Scotti del 22 gennaio 1983, che rappresenta il tentativo ambizioso di disegnare una riforma complessiva dei rapporti di lavoro quasi esclusivamente fondata sull’autogoverno delle parti, cioè sul contratto (sia pure contratto triangolare e politico) con minimo intervento legislativo. Non a caso si parlerà di neo-contrattualismo - e non di neocorporativismo - per indicare questa posizione della CISL. Altrettanto o ancor più significativa è la proposta del Fondo di solidarietà dei lavoratori avanzata nel 1980. Tale proposta riprende una tesi originaria della cis sul risparmio contrattuale aggiornandola anche alla stregua di suggestive proposte nordeuropee (il cd. piano Meidner, svedese). Nelle intenzioni più esplicite il Fondo rappresenta uno strumento macro-economico alimentato dalla solidarietà collettiva, con cui il sinda-
cato agisce quale grande operatore economico capace di orientare risorse a fini occupazionali anche in forme nuove ed autogestite. In prospettiva si propone di alimentare col Fondo uno sviluppo dell’autogestione tale da costruire un terzo settore dell'economia, a cui i lavoratori partecipano direttamente con intensità maggiore del classico modello cooperativo. Né mancano proposte di estendere il modello autogestionario alla difficile area dei servizi sociali e pubblici, con l’idea che possa servire da antidoto sia al burocratismo pubblico sia alla privatizzazione speculativa e d’altra parte portare le forme partecipative settoriali e «minoritarie» e spesso
«subalterne» del sindacato nelle istituzioni che sono alquanto diffuse nella tradizione non solo italiana (collocamento, enti previdenziali).
Queste posizioni della cis, che «radicalizzano» il ruolo politico del sindacato, trovano prevedibili resistenze non solo in area imprenditoriale,
ma nello stesso contesto politico-sindacale. In definitiva nessuno dei maggiori partiti politici è disposto a ricono-
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scere un ruolo di così alto profilo al sindacato nella società italiana. Esso è accettato da poco anche come partner contrattuale, ed ètemuto per la sua carica conflittuale, per le sue interne tensioni e divisioni. La cGIt è in una posizione di incertezza rispetto alla concertazione come tale, se non di incapacità a sostenere un proprio ruolo autonomo; mentre la ur è incline ad accettare una istituzionalizzazione del sindacato con tratti di partecipazione organica e venature pubblicistiche in parte ispirati alle socialdemocrazie mitteleuropee (ma che peraltro presuppongono un rapporto di interdipendenza tra sindacato e partiti pro /4bor non facilmente trasponibile nel caso italiano).
6. Tentativi di introduzione di elementi partecipativi Mentre la concertazione sociale è relativamente recente nell’esperienza italiana, questa conosce da tempo forme di partecipazione delle parti sociali nelle istituzioni economiche sociali. Tali forme si sono andate intensificando negli anni Settanta, sotto l’impulso della crescente autorevolezza del sindacato maggiormente rappresentativo, avallata dal legislatore (espressione anche questa del clima di concertazione sociale). L'efficacia di tali forme partecipative è peraltro variamente apprezzabile. È alquanto limitata in ordine alle decisioni più significative di indirizzo economico sociale. I poteri di queste istituzioni sono circoscritti dalla prevalente influenza delle strutture tradizionali di controllo dell’economia espresse nel potere esecutivo ed amministrativo dello Stato, nonché nella concentrazione del potere economico. D'altra parte l'influenza dei rappresentanti delle parti sociali all’interno di queste istituzioni è indebolita dallo stesso fondamento di tale partecipazione, che poggi su intese settoriali e precarie fra gruppi pur sempre in posizione conflittuale. Si pensi alla fragilità delle pratiche concertative all’interno degli organismi del mercato del lavoro, che risentono sovente più dell'anima rivendicativa dei rappresentanti di uanto non siano agevolate dal contesto istituzionale tripartito in cui si collocano (esso stesso, indirizzo).
del resto,
incapace
di esercitare
un
ruolo
di
Le istituzioni in parola hanno dunque espresso in modo parziale la loro potenziale capacità di diffondere pratiche partecipative, nei rapporti socio-economici, e di selezionare le dinamiche sociali provenienti dalle varie organizzazioni. In ciò sono state ostacolate sia dalle «propensioni» interne dei partecipanti sia dalla stessa struttura istituzionale, entrambi poco favorevoli a massimizzare tali potenzialità. L'esistenza di una rete di istituzioni tripartite - diffuse sia a livello
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nazionale sia ancora di più a livello locale - non è tuttavia irrilevante. Ha contribuito a diffondere fra gruppi consistenti di operatori sociali una cultura gestionale e di collaborazione, sia pure precaria e circoscritta; ha costituito un fattore di difesa e di stabilizzazione, sia pure relativa, dei rapporti fra gli attori sociali in un periodo di alta turbolenza sociale. 7. Comportamenti sindacali ed imprenditoriali contrari alla partecipazione La correzione del modello pluralistico con l’introduzione di elementi partecipativi incontra difficoltà specifiche a livello d’impresa, che pure costituisce un punto di massima crisi dello stesso modello. Queste difficoltà si sono rilevate particolarmente consistenti nel sistema italiano, che rappresenta a tutt'oggi uno dei pochi ordinamenti privi di /s7/tzt7 di partecipazione nell’impresa diffusi e riconosciuti dal legislatore. Fra i fattori ostativi vanno annoverate le già ricordate resistenze manifestate specificamente nei confronti della partecipazione nell’impresa da parte delle organizzazioni sindacali, non solo quelle di stretta osservanza comunista, ma anche quelle ispiratesi alla tradizione contrattualista anglosassone. L’argomento più ripetuto è quello secondo cui ogni istituto di partecipazione operaia all’impresa, e soprattutto le forme cogestionali forti, in quanto coinvolgono i sindacati in responsabilità gestionali, ne minaccerebbero l'autonomia e la capacità di tutelare efficacemente gli interessi, dei rappresentanti, nonché la libertà e il benessere collettivo dei lavoratori. Questo argomento è lungi dall'essere superato. Ma ha perso molto della sua cogenza, anche in seguito alle esperienze di consultazione-informazione ripetutesi in questi ultimi anni, che non avvalorano preoccupazioni del genere e correlazioni così semplicistiche. L'osservazione comparata offre elementi nello stesso senso, anche in riferimento alle forme più compromettenti di partecipazione come la cogestione tedesca: osservatori non sospetti hanno ritenuto che essa non giustifichi simili timori di perdita di autonomia dei rappresentanti dei lavoratori. Preoccupazioni del genere non sono di solito espresse dalle parti sociali, e dal sindacato in particolare, nei confronti della partecipazione alle istituzioni pubbliche: evidentemente quest'ultima è ritenuta meno «compromettente» per l'autonomia e l’identità del sindacato di quanto non sia la partecipazione nell’impresa. Si tratta peraltro di una valutazione che andrebbe attentamente verificata a fronte sia delle debolezze «contenutistiche» sopra rilevate della partecipazione istituzionale del sindacato, sia della scarsa selettività e trasparenza democratica delle designazioni dei
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rappresentanti sindacali che a dir poco ne attenua il valore di espressione partecipata dei lavoratori. Certo è che la relativa diffusione di forme partecipative nelle istituzioni e lo sviluppo di prassi concertative centralizzate hanno reso progressivamente più grave la carenza di strumenti partecipativi veri nell’iimpresa. L'altro fattore critico per la diffusione delle esperienze partecipative nell’impresa deriva dal loro rapporto con le cosiddette prerogative del management. Queste hanno configurato un limite alla partecipazione anche nei sistemi dove il modello partecipativo è più forte e consolidato come i paesi scandinavi. Anzi proprio il rispetto di questo limite costituisce in tali paesi la condizione del compromesso raggiunto fra capitale e lavoro già negli anni Trenta e solo in parte rivisitati negli anni Settanta. La questione delle prerogative del management investe l’intero spettro delle attività collettive in azienda non escludendo la contrattazione collettiva, la cui pratica si è sovente tradotta in tentativi di forzare tale confine. Tuttavia essa assume una rilevanza particolare per le varie forme di partecipazione, perché, come insegna la storia dei paesi mitteleuropei e nordeuropei, proprio tali forme sono state finalizzate a svolgere funzioni più ampie della contrattazione collettiva, cioè ad avere accesso ad aree e processi decisionali considerati, dalla legge o dalla prassi, come rientranti nell’esclusiva disponibilità dell'impresa. Su queste dunque si acutizza periodicamente la questione del confine fra le rispettive sfere degli attori delle relazioni industriali in azienda. D'altra parte la partecipazione si rileva oggi critica anche per le «prerogative» del sindacato, a seguito di una inconsueta iniziativa del management nel valorizzare forme partecipative con rapporti diretti nei confronti dei dipendenti come singoli o a piccoli gruppi che possono mettere in crisi la già indebolita rappresentatività sindacale. Come si vede elementi attinenti al comportamento sindacale, a quello imprenditoriale e all'assetto consolidato delle relazioni industriali, hanno ritardato in Italia l'adozione di forme partecipative; inoltre le hanno allontanate dall’ipotesi discussa dai costituenti, che avevano presente una collaborazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa in qualche modo istituzionalizzata per legge. Tale distanza è ancora più netta di quanto sia avvenuto per la partecipazione alle istituzioni ed alle scelte economicosociali. Senonché la indeterminatezza finale del testo costituzionale circa tutti i principali elementi qualificativi del tipo di soluzione lascia completamente aperte le soluzioni. A distanza di tempo si può confermare che la normaè priva o povera di valore direttivo, promozionale, ma ha il pregio di nonostacolare nessuna sperimentazione che utilizzi l’esperienza sviluppatasi nelle relazioni industriali dei vari paesi.
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8. Trasformazioni economiche e spinte alla partecipazione
Questa esperienza offre diversi motivi per una rinnovata attenzione alla partecipazione nell’impresa, in Italia più controversa che altrove. Su questi vorrei richiamare la riflessione, anche con l’occhio agli appuntamenti europei del 1992 che a mio avviso costituiscono già di per sé uno stimolo in questa direzione. Ancora una volta tali motivi si connettono ai profondi mutamenti in atto dal dato sia della domanda sia dell’offerta di lavoro, almeno nel settore
privato dell’economia. Il settore pubblico presenta problemi diversi e, in parte, tendenze contrastanti. Fra i primi sono decisivi, come si diceva, i processi di accelerata innovazione tecnologica e di crescente internazionalizzazione e interdipendenza delle vicende economiche con i connessi fenomeni di decentramento e diversificazione produttiva, di crescente incertezza e turbolenza dei mercati. Dall’altro lato sono rilevanti i mutamenti nella qualità intervenuti e nella composizione della forza-lavoro: la sua accresciuta valorizzazione e professionalità e la massiccia entrata nel mercato del lavoro di fasce nuove di soggetti, giovani e donne, portatori di valori e di esigenze molto più complessi, diversificati e personalizzati di quelli dell’operaio-massa su cui si sono costruite le relazioni industriali dell’industrialismo classico. La portata di queste trasformazioni è ancora oggetto di discussione, ma alcune implicazioni circa il nostro tema possono essere individuate al di fuori delle contrapposizioni ideologiche che hanno tradizionalmente percorso questa problematica. I fattori accennati contribuiscono tutti ad accentuare gli elementi di incertezza nella gestione dell'impresa, mentre valorizzano gli aspetti qualitativi della produzione, e quindi il rilievo decisivo delle risorse umane nonché i legami di interdipendenza fra i vari fattori. Essi costituiscono una spinta oggettiva a ricercare strumenti di regolazione delle relazioni industriali, specie a livello di impresa, più sofisticati delle tecniche normative della contrattazione collettiva tradizionale e fondati su assunti meno antagonistici e più collaborativi, quali gli strumenti partecipativi. Gli elementi di incertezza del contesto richiedono di essere controbilanciati da fattori di stabilità quale può offrire una forte coesione fra gli attori endoaziendali, basata su obiettivi comuni proiettati a lungo termine. L’enfasi sulla competizione qualitativa richiama il coinvolgimento e la valorizzazione delle risorse umane. Queste pratiche corrisponderebbero, d’altra parte, alle aspettative della manodopera interessata, trovando in essa un sostegno diretto ed una più intensa partecipazione. Se tali fattori sembrano accentuare il bisogno e l’utilità di forme par-
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tecipative, non sono però zr/voci nel definirne il senso con riguardo in particolare al ruolo reciproco del sindacato e dell’impresa. Esse possono essere valorizzate dal sindacato per arricchire la propria presenza ed attività nell'impresa; ma possono al contrario favorire forme partecipative di tipo individuale o a piccoli gruppi attuate per iniziativa prevalente dell’impresa ed espressione di tendenze particolaristiche. L’evidenza comparata finora disponibile non avvalora soluzioni nette né nel senso della possibilità dei sindacati tradizionali di utilizzare in modo generalizzato tali forme, come in altro contesto hanno utilizzato la contrattazione collettiva
quale strumento espressivo della loro capacità rappresentativa, né all’opposto circa l'avvento di relazioni industriali post-sindacali, che avrebbero nella partecipazione e nella contrattazione individuale gli strumenti caratteristici. Le stesse analisi comparate confermano che il prevalere di una piuttosto che dell’altra alternativa dipende da fattori complessi, attinenti non solo alle caratteristiche oggettive dei settori economici e del mercato, ma all'assetto tradizionale delle relazioni industriali ed alle strategie degli attori. Dalla parte degli imprenditori la disponibilità a perseguire relazioni industriali individualistiche e di esclusione del sindacato (influenzata da
fattori quali la coesione politico-organizzativa del padronato e dai suoi legami col potere politico) può favorire l’uso di tecniche di relazioni umane e partecipazioni individualistiche. L’esperienza europea di questo dopoguerra mostra uno sviluppo considerevole e una diversificazione di forme partecipative, quanto alle dimzensioni, agli attori protagonisti, agli strumenti istituzionali ben più complessi rispetto ai prototipi semplici a cominciare dalla cogestione tedesca, ai contenuti, che si estendono dai temi dell’organizzazione del lavoro,
all’introduzione delle nuove tecnologie, fino alla partecipazione alla produttività e alla stessa accumulazione capitalistica. L'accresciuta complessità della tipologia partecipativa fornisce nuove opportunità alla sperimentazione della democrazia economica e favorisce potenzialmente il superamento di contrapposizioni meramente ideologiche. Per ciò stesso suggerisce cautela nelle eventuali proposte di ingegneria istituzionale, in particolare nel sistema italiano. Se la diagnosi finora proposta è corretta, è comprensibile che in Italia abbiano trovato finora resistenza le proposte dirette a stabilire per legge forme di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori negli organi dell'impresa. E ciò nonostante negli ultimi tempi esse si siano alquanto diversificate rispetto alla cogestione tedesca, adottando varianti tali da adeguarle il più possibile alle esigenze del contesto italiano: in particolare prevedendo canali di rappresentanza dei lavoratori controllati dal sindacato, configurando interventi di controllo sulle decisioni di impresa piuttosto che una vera e
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propria partecipazione alla gestione (conformemente ad una tendenza comune agli stessi sistemi mitteleuropei).
Per i medesimi motivi si comprende che la sperimentazione finora esistente in Italia si sia attuata in via contrattuale, spesso nella forma temporanea e giuridicamente poco impegnativa dei protocolli d'intesa, a cominciare da quello IRI, e presenti margini accentuati di indeterminatezza nonché una diffusione alquanto disuguale. 9. Strategie di impresa e partecipazione
In tale contesto è importante una ripresa di attenzione ai fini delle varie forme partecipative, nell'impresa e fuori, in relazione ai loro attori e fruitori principali, che sono gli stessi lavoratori; ed è importante una riflessione che le raccordi a obiettivi più ampi di democrazia economica. Il dibattito sui fini della partecipazione dei lavoratori diviene parte di
una riflessione più ampia sul senso del lavoro nella società e della stessa impresa. Per il sindacato l'urgenza della riflessione è segnalata dalla sua crisi di rappresentatività, che rivela anzitutto la difficoltà a rispondere ai bisogni dei soggetti rappresentati più complessi e diversificati di quelli tradizionali. Ma vale anche per l'impresa, se è vero che la sua riaffermata e ritrovata capacità di profitto non ne garantisce da sola l’utilità sociale e quindi la legittimazione. Sono convinto che la ricerca di nuovi diritti di partecipazione può servire molto nella difficile opera di ricomposizione solidaristica degli interessi fra i lavoratori della società post-industriale, ora sollecitati da forti spinte individualistiche e particolaristiche. Un'’esigenza comune a tutti i lavoratori, anche e soprattutto a quelli di professionalità crescente, è quella di acquisire capacità di controllo e di indirizzo sui profondi mutamenti produttivi e tecnologici in atto nonché su quelli sociali che li accompagnano. La ricerca di tale capacità può costituire una forte motivazione aggregante e anti-individualistica, non solo perché non può essere realizzata a livello individuale, ma perché mostra direttamente la crescente interdipendenza fra diverse realtà economico-produttive nel mondo odierno e quindi delle varie sorti individuali. L'elemento di aggregazione su cui puntare non è più solo la tutela di condizioni salariali e di lavoro minime per cui molti di questi lavoratori possono fare da soli, o ricevere garanzie uno per uno dall'impresa. D'altra parte è gravemente rischioso continuare in una pratica contrattualistica indifferenziata che asseconderebbe le spinte dei più forti e favorirebbe le spinte ad aumentare le vecchie e nuove diseguaglianze sociali. Nell'attuale momento di incertezza questo obiettivo può offrire un
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motivo forte di coinvolgimento, di identità personale e ideale, oltre che
di sicurezza, ai lavoratori di un sistema sociale e produttivo tecnologicamente avanzato e mutevole. La sfida per il sindacato è di fare proprie queste istanze di coinvolgimento dei lavoratori e fornire gli strumenti adeguati alla loro realizzazione. Per l'impresa la sfida non è mero significativa, perché il coinvolgimento dei lavoratori costituisce una condizione essenziale per la massima valorizzazione delle risorse umane e per una mobilitazione convergente, entrambe necessarie in un'epoca di alta competizione, giocata sulla qualità dei prodotti e dei servizi. La criticità di queste forme partecipative per l’impresa moderna è confermata anche da ricerche empiriche. Esse ne hanno sottolineato il valore strategico, anche rispetto alle innovazioni tecnologiche, nel senso che l’efficacia di queste innovazioni è dubbia se non si accompagna con un rinnovamento delle relazioni di lavoro in senso partecipativo. Il punto controverso riguarda il ruolo rispettivo dell’azienda e del sindacato nell’indirizzo di queste forme partecipative. Iniziative unilaterali da parte dell’azienda non mancano, in assenza e anche in contrasto con quelle del sindacato. La loro praticabilità in un ambiente di tradizioni sindacali radicate com'è quello italiano è peraltro dubbia. Analogamente dubbio è che possano contribuire alla costruzione di una partecipazione effettiva e stabile nell'impresa e a una sua legittimazione sociale solida. Potrebbero invece alimentare quelle spinte particolaristiche che già incrinano la solidarietà dei lavoratori; né d’altra parte è detto che apportino sicuri benefici per il clima aziendale se è vero che esso non si giova di motivazioni strettamente individualistico-utilitarie ma viceversa di impegni collettivi coordinati a fini ritenuti (almeno provvisoriamente) comuni. La strumentazione delle forme partecipative potrà essere varia e perseguire finalità differenti a seconda dei livelli e oggetti della partecipazione. Le indagini mostrano come il coinvolgimento dei lavoratori è più agevole a livello di piccoli gruppi di produzione, dove si realizza in forme immediatamente percepibili riguardanti direttamente gli interessi dei singoli al miglioramento della qualità del lavoro, allo sviluppo professionale e all'incremento retributivo (attraverso forme di collegamento con la produttività). Ma questo è anche il livello ove la partecipazione dei lavoratori può essere più facilmente declinata in forme particolaristiche, se non antisindacali. Il coinvolgimento dei lavoratori diventa più arduo via via che si dirige a temi più vasti e di medio periodo riguardanti le opzioni in materia di qualità-quantità della produzione, di innovazione tecnologica e le conse-
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guenti modifiche dell’organizzazione del lavoro. Eppure l’effettività della partecipazione e il suo significato di democratizzazione economica dipende in larga misura dalla possibilità dei lavoratori di incidere in tempo utile, cioè anche con grande anticipo, su tali opzioni; perché solo con in-
terventi tempestivi di tale ampiezza, che risalgono a monte nella fase di progettazione delle scelte di impresa, queste possono essere orientate a obiettivi socialmente accettabili e non subiti come ineluttabili. Questo è un punto critico di ogni prospettiva partecipazionistica: richiama la questione dei limiti entro cui l'impresa e l'apparato produttivo in genere sono effettivamente democratizzabili. La difficoltà di rendere efficaci le forme partecipative è accresciuta dalle crescenti interdipendenze e complessità dell’organizzazione produttiva, che si presentano spesso in forme di gruppo e su dimensioni multinazionali; cosicché le decisioni da rendere «partecipate» sono dislocate non solo oltre la fabbrica ma oltre l’impresa singola nell’intricato labirinto decisionale dei gruppi. Altrettanto, se non più problematica, è l'introduzione di elementi «partecipativi» negli aspetti economico-finanziari della gestione delle imprese. Mentre è crescente l’interesse di lavoratori e imprese a forme di retribuzione collettiva, alla redditività dell'impresa, ben maggiormente contrastati, anche in paesi più avanzati del nostro su questa strada, sono i tentativi di utilizzare la stessa modifica degli assetti finanziari e proprietari per rafforzare la partecipazione dei lavoratori agli indirizzi delle imprese. 10. Partecipazione aziendale e democrazia economica
Come si è più volte ripetuto, la ricerca di forme partecipative non si limita all'impresa. Un'area in cui si pone con particolare significato tale ricerca è quella dei servizi, in particolare di alcuni servizi, che riguardano direttamente gli interessi dei lavoratori: dalla formazione professionale alla mobilità, alla previdenza integrativa. Nella società terziarizzata e culturalmente ricca i
bisogni dei servizi sono crescenti; sono troppo personalizzati per essere gestiti dallo Stato già sovraccarico di compiti e troppo socialmente rilevanti per la qualità della consistenza personale e collettiva per essere lasciati alla fruizione individuale e di mercato. Esistono d’altra parte le potenzialità per sviluppare forme di auto-organizzazione sociale e democratizzazione di questi servizi, che siano indirizzate, in parte ma non necessariamente solo, tramite il sindacato e capaci di ritessere le trame della solidarietà e di allargare gli spazi di espressione di professionalità e
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di autonomia del lavoro. Il caso della previdenza integrativa, come quello della formazione, è eclatante di fronte alle difficoltà del welfare state. Si riconosce che la copertura universalistica pubblica può essere mantenuta solo ridimensionandone le «promesse». Dall’altra si ritiene necessario che il sindacato contratti collettivamente una fascia di we/fare aggiuntivo, per sottrarlo a gestioni solo individualistiche e utilizzare quote del risparmio previdenziale dei lavoratori a fini socialmente rilevanti. Ma la questione più delicata di tutto il nostro tema è come raccordare le varie forme di partecipazione aziendale e settoriale in un disegno ampio di democratizzazione economica e sociale. L'obiettivo èben presente nella storia, non solo italiana ma europea, la quale ha sperimentato i rischi particolaristici di forme partecipative anche forti ma limitate a singole imprese o settori. Niente dell’esperienza recente induce a ritenere che l’esigenza così espressa sia venuta meno. Anzi questa esigenza appare accresciuta dalle spinte alla diversificazione ed al decentramento indotte dall’attuale situazione produttiva. Non è affatto certo che la diffusione di forme partecipative a livello di impresa - o di singoli settori della vita economica - sia sufficiente o utile a garantire l'equilibrio generale del sistema, al punto tale da rendere meno urgenti i grandi patti sociali tipici degli anni Settanta. Al contrario gli stessi fattori sopra ricordati tendono a circoscrivere la capacità diffusiva e stabilizzatrice di forme micro-partecipative. Le vicende del pubblico impiego, non solo in Italia, sono significative al riguardo. La diffusione di forme partecipative circa diversi aspetti della gestione del rapporto, favorita dalla legislazione e dalla prassi, non ha ridotto - anzi - gli squilibri nella distribuzione dei salari e nelle stesse condizioni di lavoro nei vari comparti pubblici: né ha facilitato l’armonizzazione rispetto alle parallele condizioni, di lavoro e salariale, nei settori privati. È altresì significativo che all’interno dei vari sistemi nazionali si registra non solo la persistenza di squilibri distributori, ma la compresenza, in diversi settori ed aree, di modelli partecipativi forti, di modelli contrattuali tradizionali e di forme di regolazione individuale dei rapporti di lavoro con esclusione del sindacato e con declino della contrattazione collettiva. È dubbio che simili assetti dualistici di relazioni di lavoro fra settori pubblici e privati, e fra diversi settori privati, possano assicurare una certa stabilità al sistema «nazionale», magari compensando le rigidità residue della regolazione collettiva dei settori sindacalizzati con la flessibilità dei settori di libero mercato. C'è il rischio che dualismi, non controllati e
semmai enfatizzati da forme di micro-corporativismo, acuiscano fenomeni di disparità e polarizzazione economico-sociale pregiudizievoli per la stabilità oltre che per l'equità del sistema.
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Le esperienze della concertazione sociale svoltesi in Italia dal 1975 in qua indicano la necessità di modificarne i contenuti per renderli più selettivi e i metodi, per tener conto delle istanze di decentramento, di
flessibilità e di diversificazione espresse dal dato della domanda come dell’offerta di lavoro. Le difficoltà di procedere in tale direzione sono note, e si riconducono a caratteri non contingenti del nostro sistema socio-politico: quegli stessi che hanno mantenuto limitate e settoriali le esperienze di partecipazione. L'ampliamento e la diffusione di tali esperienze richiederebbe modifiche significative di tali caratteri, su cui non è facile esprimersi. Richiederebbe sia revisioni procedurali istituzionali (probabilmente un ridimensionamento delle questioni oggetto della concertazione centrale, una migliore proceduralizzazione della stessa, una maggiore articolazione della struttura contrattuale) sia una modifica delle condizioni sindacali e
politiche (rinnovata rappresentatività del sindacato e coalizioni favorevoli
allo scambio politico). Ma l’esigenza di ampliare le esperienze di partecipazione e di indirizzarle verso obiettivi unificanti individuati con un largo consenso sociale rest più che mai viva, se non si vogliono ridurre anche i diritti di partecipazione a diritti «disuguali». Tali obiettivi non sono «dati» una volta per tutte, ma vanno individuati tramite larghe intese che coinvolgano gli attori rappresentativi della realtà sociale. Solo l’assunzione di alcuni obiettivi comuni da parte degli attori può favorire quella coesione ed equilibrio del sistema, che il contrattualismo non garantisce. La qualità dei risultati e lo stesso senso della concertazione sociale dipendono dalla qualità degli obiettivi che si assumono in comune. La difesa dall’inflazioneè stata il nucleo minimo delle esperienze europee di concertazione degli anni passati: forse era allora necessario, ora è insufficiente anche solo per satbilizzare il sistema e tanto più indirizzarlo a fini di equità sociale. La sfida attuale della concertazione è di dirigerla ad obiettivi più ambiziosi: non solo la quantità ma la qualità della crescita, e quindi la sua compatibilità con un uso non distruttivo ma di valorizzazione delle risorse ambientali e umane, la valorizzazione in particolare della risorsa lavoro con la diffusione di pari opportunità di impiego per i diversi gruppi di lavoratori, e pur sempre il mantenimento continuamente da ricercare di criteri distributivi equi della ricchezza e dei servizi prodotti. La difficoltà di una sfida del genere è correlata a quella degli obiettivi proposti; è aggravata dalla crisi di rappresentanza che investe tutte le grandi organizzazioni sociali e politiche rispetto alle loro stesse costitzencies tradizionali e tanto più rispetto a soggetti «diversi» largamente esclusi dalle prassi dei patti sociali. Senonché questi sono i test decisivi per un qualsiasi programma di effettiva democratizzazione economica: decisivi
DEMOCRAZIA
ECONOMICA E DIRITTI DEI LAVORATORI
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perché l’obiettivo della democratizzazione economica e sociale non può disgiungersi - senza contraddirsi - da quello dell’uguaglianza. Le indicazioni qui accennate assumono rilievo particolare nel contesto italiano, dove il relativo successo dell’economia si congiunge con il permanere di gravi aree di sottosviluppo, di disoccupazione e di povertà, a cominciare dal Mezzogiorno. Zone di lavoro protetto e qualitativamente valorizzato anche da significativi esperimenti di partecipazione, convivono con larghe zone di economia informale e semisommersa, spesso prive non solo di diritti di partecipazione ma delle elementari tutele collettive legali. Questi dualismi, non alleviati, anzi per certi versi favoriti dalla forte
innovazione economica e tecnologica, richiamano la insufficienza di interventi isolati di partecipazione; sottolineano l'urgenza di ritrovare un disegno di democrazia economica e sociale, magari ridimensionato nei contenuti e costruito con maggiore elasticità, ma preoccupato di garantire minimi di equità nella distribuzione del reddito e nella fruizione dei beni collettivi dell’attuale società (dal lavoro al welfare), non meno
che nei
diritti di partecipazione. ! Ho sviluppato più ampiamente questi temi in I/ futuro del diritto del lavoro: contrattualismo, interventismo, liberalismo, «Jus», 1985, 387 ss.
Nuove teorie e nuove politiche di partecipazione di Ferruccio Bresolin
1. Introduzione
Le teorie della partecipazione non sono nuove nella storia del pensiero economico. L'approccio al problema fu dapprima di tipo microeconomico come tentativo di soluzione ai problemi dell’alienazione del lavoratore, per poi sfociare in tentativi di risposta ai problemi macroeconomici della distribuzione e della stabilità dei redditi e dell’occupazione. Di recente con Weitzman, alla cui opera è seguita una fioritura di analisi critiche, di proposte e di modificazioni, e, più recentemente ancora, con Meade, ab-
biamo interessanti e originali approcci alla «share economy» che puntano anche su obiettivi di benessere collettivo, quali distribuzione, occupazione e stabilità dei prezzi, oltre che su obiettivi di efficienza a livello microeconomico e di migliori relazioni industriali all’interno dell'impresa. È chiaro però che il problema non può essere solo di tipo economico. Partecipazione significa coinvolgimento, responsabilità, rischio, ma anche controllo e quindi informazione, in ultima analisi essa esige una «nuova cultura» economica e d'impresa in grado di avvicinare il lavoratore a quelle funzioni fondamentali dell’imprenditore che sono le decisioni circa l’organizzazione, il coordinamento della gestione, l’investimento e l’introduzione dell’innovazione. La moderna tecnologia informatica di per sè «decentratrice»
(rispetto a quella meccanica
«accentratrice»)
unita
a
nuovi modelli organizzativi a «rete» ha consentito la moltiplicazione dei centri decisionali, così come l’evoluzione in atto nel sociale porta la società a deverticalizzarsi ed a riaggregarsi dal basso. La nascita della piccola impresa e la sua grande mobilità (partendo dal lavoratore autonomo e dal subfornitore decentrato) non va vista infatti solo come il risultato di una
innovazione organizzativa che consente il raggiungimento di maggior
flessibilità produttiva, ma anche come un processo che affida all'uomo potenzialità più elevate rispetto al passato di diventare quanto meno «imprenditore» di se stesso. In senso macroeconomico, la diffusione dell’imprenditoria minore, da un lato, e l’ingresso di schemi del tipo «share economy», dall’altro, non sono che delle forme di un processo di
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crescente partecipazione della collettività alla gestione del fatto economico. Il problema semmai si sposta su di un altro livello; se cioé questa partecipazione investa una «cultura» sottostante, e quindi un'etica della partecipazione, o non sia piuttosto che mera espressione di una ricerca di soluzioni efficientistiche in cui l’elemento solidaristico in esse contenuto,
ancorché esaltato, rappresenti solo una fortunata coincidenza e non una consapevolezza. . In questo contesto dobbiamo innanzitutto chiederci perché esista e sia crescente l’esigenza, sia sul piano scientifico che su quello pratico, di trovare forme nuove, più adatte ai tempi, di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa. È questa una tappa di un processo verso una fortuita «nuova alleanza» tra la razionalità della scienza economica tradizionale e la razionalità insita nelle argomentazioni etiche? O una presa di coscienza del capitalismo più illuminato e della scienza economica circa la necessità di dover partire da considerazioni etico-solidaristiche per il progresso del sistema, superando sia la pretesa razionalità di comportamenti individuali basati
sull’esaltazione del «self interest» sia l’idea,
piuttosto diffusa anche tra gli studiosi, circa l’esistenza di un «trade-off» tra efficienza e solidarietà? Una prima risposta potrebbe essere che la maggior partecipazione consente il passaggio da una fase conflittuale dei rapporti all’interno della fabbrica e della società, ad una fase di competizione collaborativa, quindi a rapporti di cooperazione pur nella competitività e nello scontro di diversi interessi. Un secondo motivo è di carattere economicistico. Vi è una crescente consapevolezza che l’economia della partecipazione è un'economia più efficiente che evita gli sprechi costosi e socialmente pericolosi della disoccupazione, dell’istabilità, delle crisi.
Un terzo motivo è un motivo legato ad alcuni aspetti evolutivi della nostra società che sta crescendo in dimensioni di autonomia e di libertà ma anche di consapevolezza del ruolo di ciascuno rispetto al tutto e della crescente interdipendenza che lega le scelte di ognuno. I limiti di questo processo sono dati soprattutto dai comportamenti individuali (in cui sono ancora presenti componenti di tipo utilitaristico e di massimizzazione del proprio tornaconto) per i quali occorre trovare nuove forme istituzionali che evidenzino maggiormente queste consapevolezze. La separazione dell’etica dall'economia, tipica dell’avvento del capitalismo, ha fine con lo sviluppo del sistema. Oggi, anche da parte di molti studiosi, è avvertita la necessità di ricondurre icomportamenti economici, e quindi la razionalità economica, alla razionalità insita nelle argomentazioni etiche. Appare evidente oramai la non percorribilità 0, meglio, la non applica-
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bilità della razionalità dell’egoismo individuale a tutti i comportamenti umani, tipico il caso dei cosiddetti «beni pubblici», in cui i comportamenti razionali massimizzanti il tornaconto individuale si dimostrano non essere razionali nel complesso e quindi per il singolo. L'odierna estensione dei fenomeni di esternalità, di beni pubblici e di prodotti congiunti e soprattutto la crescente interdipendenza delle decisioni individuali e la presenza di problemi di «assimetria» di informazione, portano a riconsiderare la razionalità dei comportamenti massimizzanti le funzioni di utilità individuali nonché i rapporti tra scelte e preferenze. Alla luce di questo contesto vi è lo spazio per rimeditare il concetto di partecipazione e quindi di distribuzione delle risorse, nel senso che anche la redistribuzione del reddito appartiene a quei fenomeni sociali che consentono la massimizzazione del benessere collettivo e quindi la stabilità del sistema. Come la separazione dell’etica dall'economia di fatto riconosceva la presenza nella sfera economica di un'etica, quella utilitaristica, in grado di garantire lo svolgimento della vita economica in condizioni «pareto-ottime», così la irrilevanza degli aspetti distibutivi (che nell'economia neoclassica venivano fatti discendere direttamente da quelli produttivi «via» la produttività marginale e la scarsità), consentiva di non incorrere nel dilemma benthamiano tra giustizia distributiva ed efficienza, ma di fatto affidava al processo decisionale individuale un valore etico in sé che prescindeva dai risultati. In definitiva, poiché nell’economia di mercato si stanno moltiplicando le situazioni in cui l’individualismo e l’interesse personale portano a risultati non desiderati e non desiderabili, si ripropone la necessità di ripartire proprio dalle considerazioni etiche per fondare nuovi paradigmi, nuove regole del gioco e nuove «istituzioni». In questo senso il “fallimento” del mercato non è solo un fallimento delle istituzioni come per Coase e gli istituzionalisti. Così è anche per l’«economia della partecipazione» in cui aspetti distributivi si intersecano con aspetti di suddivisione di rischi e di responsabilità coinvolgendo la solidarietà tra occupati e disoccupati non meno di quella tra imprenditori e lavoratori. Se il posto di lavoro è un «bene individuale» e la occupazione un «bene comune», il conflitto tra questi interessi, ove esista, deve trovare soluzioni anche attraverso innovazioni
«istituzionali» ben radicate in motivazioni etico-solidaristiche. 2. Forme di partecipazione Ma una volta accertate le ragioni profonde di una ripresa in termini nuovi del problema, l’attenzione si sposta sulle soluzioni concrete.
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POLITICHE DI PARTECIPAZIONE
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In sostanza l'approccio alla partecipazione in economia si colloca in uno spettro di soluzioni molto articolato, che vanno dall’accettazione delle «regole del gioco» esistenti, tipiche di un capitalismo maturo e delle sue istituzioni, magari migliorandole, fino all’introduzione di incentivi e istituti nuovi senza peraltro modificare la struttura fondamentale del sistema.Da questo punto di vista l'approccio allo studio della «share economy» non può che essere di tipo istituzionalista e non solo economi-
cistico. In altri termini non si tratterebbe solo di far funzionare meccanismi esistenti, bensì di introdurre formule e meccanismi nuovi.La peculiarità della scienza economica, che non sempre gli economisti hanno posto nella giusta luce, è quella di essere una particolare scienza del comportamento: i fenomeni economici non possono essere correttamente studiati e discussi se vengono trascurate le diverse «dimensioni» che li contraddistinguono. I problemi che costituiscono l'oggetto di studio dell'economia politica sono sempre caratterizzati da una dimensione storico-temporale, legati ad implicazioni di ordine etico e morale (coinvolgendo la sfera personale dei soggetti) e sono condizionati dall'ambiente e dalle istituzio-
ni. Se l'economista vuole fornire un contributo valido alla crescita della conoscenza, non può procedere isolando i fenomeni che lo interessano dal contesto in cui sono sviluppati e non può depurare i problemi economici di quegli elementi che li legano ad una particolare realtà storica, ma deve mantenere una visione d'insieme della situazione reale. L'esigenza di un riferimento etico emerge oggi più che mai nell’economia politica per effetto della constatazione che il preteso automatismo della maggior parte dei meccanismi istituzionali del mercato non è più in grado di prescindere dalla reponsabilità e della scelte di chi in questi meccanismi si trova ad
operare. Ad un estremo dell’ampio ventaglio di soluzioni tecniche ed istituzionali al problema della partecipazione appartengono tutte quelle forme di partecipazione che, lasciando inalterate le istituzioni esistenti nell’economia di mercato, potrebbero essere ottenute in un sistema ad alti salari come il nostro, allorché i risparmi familiari conseguenti potessero venire agevolmente convogliati verso le imprese attraverso il mercato dei capitali. Ciò potrebbe avvenire non solo per la grande impresa quotata in borsa ma, attraverso la presenza di istituzioni finanziarie funzionanti come «brokers», anche per imprese minori. È chiaro che in questo caso alti salari significano alti risparmi, gli alti risparmi confluendo al mercato dei capitali consentono una diffusione dell’azionarato e quindi della partecipazione, quanto meno finanziaria, alle strutture produttive capitalistiche. In questo caso si tratterebbe di far funzionare meglio il mercato dei capitali, la borsa e le istituzioni finanziarie atte a intermediare il capitale sotto forma di capitale di rischio. Certo in presenza di una borsa scarsamente funzionante e poco trasparente, in
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presenza di un massiccio indebitamento dello Stato, il rischio è che questi risparmi preferiscano altre vie più sicure all'investimento in capitale proprio dell’azienda. In un sistema dominato dalla piccola impresa occorrerebbe consentire a quest'ultima di emettere quote che pur non collocabili in borsa, potrebbero trovare in istituzioni finanziarie ed in intermediari finanziari nuovi il tramite per il piazzamento presso le famiglie. Si tratta in definitiva di innovare o far funzionare meglio strumenti e meccanismi economici già esistenti, quali la borsa, le istituzioni finanziarie, ecc.
Anche le teorie della partecipazione di Weitzman e Meade appaiono in questo senso come dei tentativi di rendere maggiormente funzionali alcuni aspetti istituzionali, peraltro consolidati, delle moderne economie perché è proprio puntando su alcuni paradigmi economici largamente condivisi che questi autori dimostrano l'efficacia di queste, pur limitate, innovazioni d’«ingegneria» economica.Ecco allora che, rispetto ad un’economia partecipativa di tipo «finanziario puro», legata cioè al miglior funzionamento del mercato dei capitali e della intermediazione, si passa ad un'economia partecipativa in cui oltre al miglioramento di questi mercati, pur sempre necessario, vengono modificate alcune regole del
gioco tra soggetti economici, in particolare tra sindacato e imprenditori, tra sindacato e lavoratori disoccupati e tra imprenditori esistenti e imprenditori nuovi o potenziali. La classica dicotomia tra imprenditori e lavoratori, o tra apportatori di capitale e apportatori di lavoro, va infatti lentamente superandosi sia a livello macroeconomico, dimensioni
con l'apparire dell’azionarato operaio, sia su
microeconomiche,
attraverso
un'evoluzione
delle relazioni
industriali, caratterizzata da una crescente implicazione dei lavoratori nel processo produttivo. Questo coinvolgimento si traduce in forme molteplici: dalla creazione dei circoli di qualità, alle tecniche nuove di gestione delle risorse umane e di comunicazione interna.Tutto questo fiorire di iniziative si inserisce in quello che potremmo definire «filone capitalistico» e in questo quadro si colloca la forma di partecipazione più semplice, quella finanziaria .Questa, pur implicando un interessamento materiale dei lavoratori, in quanto essa chiama in causa in modo fondamentalei rapporti sociali all’interno dell’; impresa, non assicura tuttavia la coincidenza con la partecipazione effettiva alle decisioni. La partecipazione finanziaria può prendere diverse forme, in particolare: 1) l’azionariato dei lavoratori, nel quale distinguiamo l’azionarato diretto, come nell'esempio delle «stock options» o come nel caso belga nella legge Monoroy !, e l’azionariato indiretto nel quale il coinvolgimento dei salariati passa per l'elaborazione di piani quali gli «employer stock ownership sli » (EsoP) e il «leverage management buy-out» (LMBo) degli Stati Uniti°
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2) La partecipazione remunenativa, o partecipazione dei salariati ai risultati dell'impresa: qui si tratta di consentire, mediante una convenzione tra personale e direzione, la distribuzione di un «surplus» di remunerazione proveniente dai profitti. Un esempio di questo sistema è quello proposto dal governo belga, chiamato «dividend travail». 3) La formazione di un «patrimonio» salariale nel quadro di un piano di risparmio: questo piano di risparmio si finanzia con i contributi dei lavoratori. Questi contributi, operati sotto forma di prelevamento dal salario, sono integrati da contributi di parte padronale che non proviene dai profitti, ed è pari ad una data percentuale dei contributi dei salariati; i fondi sono investiti in forme differenti (fondi comuni, investimenti
mobiliari, ecc.) con l’obiettivo di diversificare il risparmio che verrà reso disponibile al momento della quiescenza. Queste forme rappresentano un campo molto vasto del quale forse più interessante è l’azionariato dei lavoratori. Il primo tentativo di dare una sistemazione teorica - per alcuni aspetti innovativa
? - all'argomento
fu Weitzman
(1983,
1984, 1985) che,
scomponendo il compenso del lavoratore in una parte fissa ed in una parte variabile ancorata al profitto, mise in luce l’impatto della «profit sharing» sulla efficienza delle imprese e su grandezze aggregate, come occupazione e inflazione. La prima dimensione con cui affrontare analiticamente la ripartizione dei profitti è microeconomica; essa costituisce infatti un incentivo alla produttività. La remunerazione dei lavoratori, viene esplicitamente legata, almeno in parte, alle «performances» dell’impresa, per cui i lavoratori
si sentono più «coinvolti» nel processo produttivo. Questo interesse per le formule che motivano i dipendenti non avviene a caso; una produzione sempre più specializzata, l'esigenza di una manodopera sempre più qualificata, i costi di riorganizzazione legati ai sempre più rapidi muta-
menti tecnologici, esigono una maggiore cooperazione tra lavoratori e tra lavoratori e «staff» dirigenziale. Non solo, ma in uno scenario tecnologico in cui comunicazioni e capitale umano sono diventati gli elementi motori del sistema produttivo e costituiscono «inputs» di sempre più difficile controllo attraverso gli strumenti tipici dell’organizzazione del lavoro e dei premi individuali, la promozione di formule originali di «profit sharing», così come la partecipazione dei lavoratori alle decisioni o, ancora, una organizzazione del lavoro meno rigida, appaiono strumenti più adatti a proteggere gli investimenti specifici dell’impresa, in particolare quelli in:capitale umano e in tecnologia. L'evidenza empirica circa l'efficacia delle relazioni cooperativistiche all’interno delle imprese giapponesi o tedesche, certamente ha contribuito ad enfatizzare questi aspetti.
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Un secondo effetto che si attribuisce alla «profit sharing» è quello di tipo macroeconomico legato, ad esempio, alla flessibilità salariale. Tali
formule infatti permettono di rispondere più rapidamente alle condizioni del mercato, allorchè la produzione e l'occupazione devono essere stabilizzate nel tempo. Questa qualità della «profit sharing» è concettualmente differente dalla prima in quanto riguarda l’impatto di «shocks» esterni sull’economia e sull’impresa. Generalmente i salari sono retti da contratti tra imprenditori e lavoratori che introducono una certa rigidità delle remunerazioni in rapporto a quelle che si stabilirebbero in un mercato concorrenziale puro. Di conseguenza le variazioni della domanda e dei prezzi tendono a portare, almeno temporaneamente, l'economia in condizioni di squilibrio. Di fronte a questo fatto sono possibili tre reazioni: la prima è quella tipica della situazione di rigidità delle remunerazioni ovvero di affidare alla politica macroeconomica il ruolo di stabilizzatore, ed è la posizione keynesiana; la seconda è di rimettere in discussione la rigidità dei contratti per riavvicinarsi a formulazioni del salario di tipo neoclassico, (ovvero più flessibili); la terza è quella di ricercare un arricchimento dei contratti
affinchè la formazione dei salari tenga conto delle condizioni economiche del momento, è l’ottica che guida la posizione di Weitzman. Le tesi di Weitzmansi collocano nell’ambito di una corrente di pensiero che si sviluppa verso la fine degli anni Settanta. In un contesto macroeconomico fortemente turbato da «shocks» petroliferi e monetari vi sono molti keynesiani che si sforzano di trovare dei sostituti alle consuete politiche di stabilizzazione attraverso la politica fiscale e monetaria. La politica dei redditi avrebbe potuto essere una soluzione, soprattutto negli Stati Uniti, mentre le esperienze di controllo dei salari legate al «riflusso» verso l'economia dell’offerta, portano invece a escogitare altri metodi che anziché procedere per regolamenti ed esortazioni, si fondano su strumenti fiscali per influire sui comportamenti
(Okun,
1978). Parallelamente la
ricerca si impegna su vie nuove, mentre analisi comparate mettono in luce le diversità dei comportamenti salariali nei grandi paesi industriali e le loro incidenze sulle risposte di queste economie agli shocks interni ed esterni (Gordon, 1982; Branson e Rotenberg, 1980).
In questo contesto la specificità di Weitzman è quella di studiare una indicizzazione macroeconomica dei salari, cioè di tener conto, nella loro
formazione, dei risultati di impresa. Lo stimolo viene dal Giappone dove le grandi imprese generalmente remunerano i loro salariati in buona parte sotto forma di «bonus» che spesso sono legati ai profitti, ed è proprio questa soluzione, afferma Weitzman, a spiegare la grande «performance» di questo paese in tema di occupazione (Freeman e Weitzman, 1986). Questa interpretazione del miracolo giapponese non si limita solo ad
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opporsi al modello americano a salario rigido e impiego flessibile contrapponendovi un modello a salario flessibile e impiego rigido, ma vi è sottolinea Weitzman- un effetto in più, vale a dire che, nel calcolo eco-
nomico d’impresa,il costo del lavoro dipende dai propri risultati piuttosto che dallo stato generale dell’economia. Una indicizzazione microeconomica dei salari sui profitti comporta inoltre un costo marginale del lavoro minore della remunerazione effettiva dei lavoratori; le conseguenze di ciò sono una accresciuta domanda di lavoro insoddisfatta in condizioni di pieno impiego. Questo eccesso di domanda di lavoro costituisce allora una specie di riserva che fa sì che «shocks» deflazionistici o crisi di ampiezza limitata siano assorbiti senza variazione dell’occupazione effettiva. Una economia che distribuisca il profitto, quindi, è, in condizione di prossimità al pieno impiego, molto più stabile di una economia a puro salario. È questa certamente una proprietà interessante, ma Weitzman va oltre; egli sottolinea come la generalizzazione della ripartizione dei profitti renderebbe anche la stessa politica monetaria e quella di bilancio più efficace, più credibile in termini di consenso e, comunque, meno deflazionistica in termini di disoccupazione. Le tesi di Weitzman sono originali ed hanno il fascino delle idee semplici che propongono rimedi «soft». La dimostrazione che offre non è certo senza punti deboli e numerosi lavori critici (vedasi ad esempio Nuti, 1986) li hanno analiticamente evidenziati.
In definitiva in uno schema di «share economy», la presenza di contratti di partecipazione ai profitti dovrebbe creare fluttuazioni di prezzi al posto delle fluttuazioni di quantità prevalenti nelle economie con salari predeterminati. In un sistema «a salari», come lo chiama Weitzman, sebbene
il tasso di salario sia influenzato da forze concorrenziali ex are, esso è rigido ex post, quindi ogni imprevisto disturbo dell’economia influisce sul livello dell'occupazione ma non sui salari. Una «share economy», invece, avrebbe il compito di incoraggiare l’impresa a rispondere agli incrementi della domanda espandendo l’«output» piuttosto che incrementando i prezzi di vendita.
3. Aspetti critici della «profit-sharing». Le tesi di Meade Le osservazioni che possono venir fatte allo schema di Weitzman sono di due tipi: di natura macroeconomica e quindi di benessere complessivo e di natura microeconomica, ovvero di comportamenti individuali. Lo schema di Weitzman intende dimostrare che una modificazione dei contratti salariali rafforzerebbe le proprietà di stabilità dell'economia in una congiuntura caratterizzata da ampie fluttuazioni della domanda e dei
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prezzi relativi. L'intenzione è chiara: si tratta di trovare un sostituto alle politiche macroeconomiche che renda meno doloroso il «trade-off» inflazione-disoccupazione. Dei tre possibili contesti di disoccupazione che possono affliggere una economia - quello classico o strutturale in cui la disoccupazione è legata a carenza di capitale fisico (dato un certo livello di tecnologia, la produttività marginale del lavoro si annulla prima di raggiungere la piena occupazione); quello keynesiano in cui la disoccupazione (o sottoutilizzazione della capacità produttiva) è causata da insufficienze di domanda effettiva; o infine quello neoclassico in cui la disoccupazione è legata alla rigidità salariale - la ricetta di Weitzman sarebbe in grado di affrontare solo la disoccupazione di tipo neoclassico. Conciliare la flessibilità microeconomica e gli imperativi globali della politica economica è oggi una esigenza prioritaria; per cui il tentativo delle imprese di sperimentare nuove forme di remunerazione più individualizzate e meno strettamente legate alle condizioni economiche dell’insieme sono auspicabili, ma non sono ancora del tutto chiari gli effetti complessivi, soprattutto quelli di natura microeconomica. Nell’attuale contesto di competitività e di specializzazione gli investimenti in capitale umano, in tecnologia, in sistemi organizzativi hanno assunto un ruolo predominate nel processo produttivo rendendo così estremamente costosa la mobilità del lavoratore. Ciò tende a creare un problema di contrattazione ex post, tra lavoratore e direzione per quanto riguarda la ripartizione del surplus, rispetto al costo opportunità dei fattori. I lavoratori possono diminuire il loro sforzo e appropriarsi così di una parte di questo surplus sotto la forma, non monetaria, di tempo libero. Questo problema diventa sempre più difficile da risolversi quanto più esistono all’interno dell'impresa asimmetrie di informazione tra lo sforzo soggettivo del lavoro e i vantaggi dell'impresa. A questo proposito, in presenza di costi di «informazione», la teoria è concorde nella necessità di instaurare sistemi (non solo finanziari) di coinvolgimento e di partecipazine dei lavoratori alle decisioni, che costituirebbero così un incentivo ad
occuparsi dell'impresa e quindi a immobilizzare volontariamente le loro qualità, «proteggendo», in un certo qual modo, gli investimenti specifici che essa realizza. In un contesto di informazione costosa e asimmetrica, queste sarebbero condizioni preliminari a investimenti specifici da parte dell'impresa in quanto, al pari dei contratti a lungo termine, contribuiscono a creare un clima di fiducia reciproca tra direzione e lavoratori. Queste conclusioni piuttosto ottimistiche sull'efficacia microeconomica dei sistemi «profit sharing» sono tuttavia criticate dai teorici della scuola chiamata dei «property rights» che, sulla base di considerazioni utilitaristiche, ritengono questa formula di trasferimento di ricchezza
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scarsamente efficace. Infatti, in un tale sistema, al lavoratore singolo non spetterebbe che una frazione del prodotto marginale dell’impresa e non verrebbe perciò incentivato nel suo sforzo; al contrario egli sarebbe incoraggiato a diminuire il suo sforzo per appropriarsi dei vantaggi derivanti dalla riduzione del suo tempo di lavoro, senza con ciò subire una forte diminuzione della parte variabile del suo salario, poiché le perdite di
produttività sono distribuite tra tutti i salariati ‘. In sostanza il sistema ad incentivi individuali accentuerebbe i comportamenti egoistici e «non collaborativi» del lavoratore, mente un istema a incentivi o forme di partecipazione «collettive» favorirebbe gli atteggiamenti cooperativi tra lavoratori ?. Grazie ai rendimenti di scala della cooperazione l’effetto della «profit sharing» sulla produzione e sulla produttività è più evidente nell’ambito di una organizzazione del lavoro che facilita questa interazione tra lavoratori (Cable e Fitzroy, 1980). È per questo che una partecipazione accresciuta dei lavoratori, nel loro posto di lavoro e a livello d’impresa, è un
complemento efficace a ogni formula di ripartizione dei profitti. Questa partecipazione può essere informale, come nello spirito paternalistico e di mutua confidenza che regna nell'impresa giapponese, o istituzionalizzato come nel caso della Germania e, in parte, della Francia.
Come si è detto in premessa, la teoria e l'evidenza empirica consentono ormai di respingere le argomentazioni dei sostenitori del «calcolo razionale individuale» e del puro utilitarismo, secondo le quali una soluzione cooperativa al problema della negoziazione salariale sarebbe impossibile da raggiungere in un contesto di razionalità puramente individuale. In presenza di funzioni di utilità interdipendenti degli agenti, anche in un approccio strategico sulla base della «teoria dei giochi», il comportamento da conflittuale si trasforma in collaborativo, qualora si faccia riferimento a un contesto dinamico e a strategie che comportino scelte
interteporali °. Del resto quando lavoro e capitale operano insieme producono nelle loro relazioni due elementi: uno di cooperazione e uno di conflitto. Se il valore assoluto della quota distribuita al lavoro è prefissato, vi dovrà essere un incentivo per realizzare un atteggiamento cooperativo nei confronti del capitale. Non va peraltro dimenticato che i tentativi di stimolare gli aspetti cooperativi delle relazioni capitale/lavoro certamente possono aumentare la produttività complessiva del sistema ma hanno anche dei «trade-off» in termini di rischio di fluttuazione del compenso, rischio che può avversare l’introduzione di simili misure. La naturale avversione al rischio del lavoro rispetto al capitale dipende, naturalmente, dalla maggiore diversificazione degli impieghi possibili ,
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per il capitalista rispetto alla specializzazione e all’investimento in capitale umano che caratterizza il detentore di capacità lavorativa. Certo è che in un mercato di concorrenza imperfetta, anche in una condizione di salari prefissati e rigidi, il lavoro affronta il rischio della disoccupazione. In un mondo di concorrenza perfetta, anche nel mercato del lavoro, il rischio potrebbe essere quello invece di una oscillazione del salario. Evidentemente, più elevati sono i livelli e le componenti monopolistiche del mercato del lavoro, più grande è il grado di rischio che può colpire i lavoratori in termini di disoccupazione. L'introduzione di un elemento di «share economy» può quindi, da un lato aumentare il rischio di fluttuazioni del reddito di un lavoratore occupato ma può, dall’altro, trasformare la natura del rischio a livello aggregato, da fluttuazioni nell’occupazione in fluttuazioni nel reddito. Un ulteriore aspetto critico importante riguarda il mercato del lavoro in termini di «principio di discriminazione». Se i lavoratori esistenti tendono a massimizzare i loro redditi pro-capite in presenza di un principio non discriminatorio (ovvero del principio che dichiari eguale salario per eguale lavoro), allora l'espansione dell'occupazione non avverrebbe,sebbene lavoratori «esterni» siano desiderosi di entrare nell'azienda a minore salario - in quanto i lavoratori già occupati tenderanno a preservare il preesistente livello di remunerazione. Infatti un'impresa che opera in un sistema di «profit sharing» è spinta ad occupare un numero maggiore di lavoratori di quello occupabile in un sistema che funziona a salari fissi.
Tuttavia questa occupazione aggiuntiva è raggiunta a spese di un minor pagamento per i lavoratori esistenti che, di fatto, avrebbero tutto l’interesse a non espandere l'occupazione oltre al livello al quale il profitto per occupato viene massimizzato. Questa, in definitiva, è la ragione per cui le cooperative di lavoro tendono ad essere restrittive in termini di occupazione. Con un sistema di salari diversificati, questo problema verrebbe evitato in quanto l’impresa può assumere nuovi lavoratori a più bassi salari senza ridurre la remunerazione dei lavoratori esistenti. Queste implicazioni circa l'applicazione del principio «discriminatorio» sono rilevanti per tutti gli aspetti in cui il lavoro partecipa nell’assunzione di decisioni circa l'espansione dell'impresa, come avviene in molte forme di «share economy». Una proposta che introduce ulteriori elementi di flessibilità ma che si colloca nel filone della «profit sharing», è quella di James Meade, che già nel 1972 e nel 1979 aveva dato contributi notevoli alla teoria dell’impresa cooperativa a conduzione manageriale da parte dei lavoratori. E più recentemente nel 1982, in un saggio critico sulla fissazione dei salari, nell’affrontare alcuni aspetti della «profit sharing», Meade offre un sistema di remunerazione alternativo che egli chiama «discriminated labour
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capital partnership» (DLCP) e che sarebbe immune dagli aspetti critici della teoria di Weitzman. Secondo la proposta di Meade un'impresa che paga ordinariamente un saggio di salario prefissato, potrebbe essere convertita in un sistema DLCP emettendo due tipi di azioni: 1) azioni di capitale, che dovrebbero venir distribuite a tutti coloro che si attendono un reddito da capitale; 2) azioni di lavoro, che dovrebbero venire distribuite a tutti gli occupati in proporzione ai loro guadagni individuali, cosicché il lavoro nel complesso continuerebbe a ricevere la stessa quota del reddito di impresa. Le quote di capitale si comportano come azioni ordinarie, mentre le quote di lavoro verrebbero ad essere cancellate quando il lavoratore si ritira o abbandona l’impresa. In sostanza si tratta di un accordo tra lavoro e capitale, accordo che è definito come «discriminatorio» da Meade in quanto i lavoratori addizionali possono venir assunti con differenti contratti e quindi ricevere una remunerazione inferiore a quella degli operai già occupati. Così pure gli investimenti addizionali verrebbero finanziati
emettendo nuove azioni sufficienti a incrementare e a finanziare l’investimento ma con redditi inferiori rispetto alle azioni esistenti. Il punto di partenza di Meade è in sostanza, al pari di Weitzman, il concetto che un sistema di «share economy» conferisce maggior stabilità occupazionale che una economia a puro salario. Si produrrebbe infatti un conflitto di interessi per così dire rovesciato tra operai e possessori di capitale, in quanto i lavoratori sarebbero favorevoli ad ogni investimento che produca valore aggiunto o comunque un incremento di «output» dell'impresa, mentre i detentori di capitale potrebbero essere più favorevoli ad incrementi di occupazione anziché di investimento. Per questo motivo il sistema proposto da Meade potrebbe essere più favorevole all’incremento occupazionale rispetto ad una normale impresa che attui un sistema alla Weitzman. Secondo Meade, perciò, il sistema di «profit sharing» renderebbe l’occupazione più stabile in quanto le imprese nel breve periodo si troverebbero in condizioni di eccesso di domanda di lavoro, e ciò in quanto verrebbe meno la controversia tra «insiders» e «outsiders» circa la convenienza ad estendere l'occupazione, ovvero verrebbe meno la controversia tra chi è già occupato e tende a mantenere inalterati i propri livelli di reddito e chi è disoccupato ed è disposto a lavorare a salari inferiori.
I vantaggi quindi sono di due tipi: in termini di efficacia, in quanto un sistema che tende a remunerare i lavoratori con diretto riferimento alla «performance» aziendale, può essere meno contraddittorio se il dividendo è influenzato da fattori non sottoposti al controllo dei lavoratori; in termini solidaristici, in quanto lo schema di incentivi individualizzati ,
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potrebbe scoraggiare gli aspetti cooperativi che, viceversa, potrebbero essere favoriti da incentivi di gruppo come il DLCP. Alcune analisi compiute in Gran Bretagna (Smith, 1986), hanno dimostrato che gli schemi di partecipazione hanno sviluppato un forte senso di cooperazione all’interno dell'impresa, così come si dimostra nell’evidenza empirica degli Stati Uniti che i profitti sono più alti nelle imprese ad elevata partecipazione azionaria da parte dei lavoratori (Conte e Tanenbow, 1978). Importante, a questo proposito, è l’esperienza giapponese. Com'è noto, in Giappone parte della remunerazione dei lavoratori è legata alla efficacia
dell’impresa. Vi è un «bonus» biennale che nella media è del 20-25% dei guadagni annuali di un lavoratore. Naturalmente in Giappone esiste un doppio mercato del lavoro che facilita una certa flessibilità, con occupazioni temporanee e occupazioni definitive. Come Aoky (1984) dimostra, il Giappone può essere considerato come un esempio di managerialismo corporativo, con i «managers» che tendono a mediare e integrare tra differenti gruppi di interessi all’interno dell'impresa. Ma l'esperienza giapponese ci insegna qualcosa che va oltre un'analisi degli effetti della partecipazione in termini di efficienza. In quel sistema la partecipazione, in qualsiasi forma applicata, si radica su rapporti di fedeltà,
se non
addirittura
di fede nell’azienda,
e su sentimenti
di
appartenenza e di solidarietà in cui il calcolo individuale massimizza aspetti fuori dalla portata del calcolo razionale, tipico dell’bonzo economicus, vivisezionato dall’economista tradizionale.
Sul piano generale, infine, sia Weitzman che Meade concordano che le forme di partecipazione debbano essere incoraggiate dalla politica economica attraverso incentivi vari, in particolare fiscali. Infatti i guadagni privati ottenibili da questo sistema sono minori di quelli sociali. In particolare la quota del lavoro in termini di valore aggiunto all’interno dell'impresa è minore che a livello dell'economia nel complesso. Come risultato l'elasticità della domanda di lavoro a livello di impresa è inferiore a quella a livello macroeconomico. Pertanto, se la «profit sharing» riduce il rischio di disoccupazione, con un guadagno «privato» del lavoratore più basso rispetto al guadagno «sociale» della collettività, ciò giustificherebbe l’interesse dei pubblici poteri ad incentivare queste forme di partecipazione. 4. Partecipazione e distribuzione: considerazioni conclusive Certo siamo ancora lontani dall’idea di partecipazione come strumento di realizzazione anche in economia, del «bene comune», e di valorizzazio-
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ne della persona attraverso il lavoro, ma non vi è dubbio che i tentativi descritti costituiscano dei passi, e non tanto timidi, in questa direzione. Ed è questa anche la direzione che muove, sul piano teorico scientifico e ideologico, verso il superamento della dicotomia produzione-distribuzione cara al pensiero marxista o della meccanicistica unificazione del momento produttivo con quello distributivo dell’analisi marginalistica. Cresce altresì negli studiosi la consapevolezza che razionalità etica e razionalità economica non possono venire separate in un mondo che vede crescere, da un lato, l’interdipendenza delle scelte individuali e dall’altro,
il ruolo delle preferenze valoriali nel determinare i comportamenti e le scelte specie se queste si riferiscono, in senso diacronico, a contesti inter-
temporali. Il modello di equilibrio economico generale anche nella versione più sofisticata e completa di Arrow e Debreu, porta ad un equilibrio competitivo e ad una allocazione ottimale delle risorse, in senso paretiano, in presenza di un'unica istituzione, il mercato, e affidandosi a
comportamenti «massimizzati». Ma lo fa partendo da soluzioni che sono relative alla distribuzione iniziale delle risorse - e quindi del potere - che peraltro potrebbero essere profondamente inique secondo un giudizio etico, «esogeno» al modello. È su questi fronti che si gioca molto dell’avanzamento della teoria e della politica economica in termini di vincoli, di istituzioni, di paradigmi e di regole del gioco secondo ottiche in cui il concetto di giustizia non discende dal calcolo razionale «endogeno» al modello (Rawls, 1985).
Coinvolgere i lavoratori nelle fortune dell’impresa significa associarli nella organizzazione del lavoro e nella partecipazione alle decisioni. Vi è quindi l’esisgenza non solo di una serie di «innovazioni» nell’economia di mercato, ma anche di interventi atti a favorire l’interazione tra forme di
incentivi finanziari e partecipazione effettiva dei lavoratori, al fine di aumentare efficienza e solidarietà a dimostrazione, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che solidarietà ed efficienza non sono principi alternativi, come non vi è «trade-off» fra partecipazione e cooperazione. Nel senso che il comportamento solidaristico non appartiene alla sfera della «carità» e quindi di una motivazione morale e perciò “irrazionale”, mentre il com-
portamento efficiente è quello conseguente alla massimizzazione del proprio tornaconto e perciò stesso “razionale”.
Dalla verifica di alcuni campioni di impresa che applicano i vari metodi, i risultati sembrano tuttavia ancora controversi in quanto casi di «profit-sharing» con incremento di produzione e occupazione (ma non di produttività) coesistono con casi di partecipazione in cui avvengono incrementi di produttività ma senza effetti occupazionali.
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La ricerca di risposte di medio termine che tengano conto delle esigenze dell’etica, non è certo facile, attanagliata com'è la dottrina economica nella ricerca di soluzioni «efficienti» in senso tradizionale.
Vi è un altro aspetto che vale la pena di considerare. Il problema della partecipazione, in sostanza, è ancora pur sempre un problema di potere, sia all’interno dell'impresa che nella società. In questo senso la partecipazione è anche pari opportunità di accesso alle risorse, e quindi partecipazione è anche un problema di equità e solidarietà nella ridistribuzione dei redditi e della ricchezza, ovvero è un problema di diritti.
I sistemi sociali non si dissolvono o declinano semplicemente per ragioni misurabili in termini economici ma a causa, soprattutto, di vuoti di diritto connessi con la formazione di blocchi di interesse che paralizzano la dinamica collettiva, che determinano l’esaltazione degli interessi corporativi e che impediscono l’accesso alle risorse e la loro valorizzazione. La stessa parabola del we/fare state che da apparato di garanzia e di assistenza passa a sistema di esclusione e di burocratizzazione, da elemento di distribuzione delle risorse a strumento di spreco delle stesse, è una delle tante dimostrazioni che i problemi della democrazia non sono di tipo quantitativo. In una società che cresce la solidarietà (in senso sincronico, tra occupati e disoccupati e, in senso diacronico, tra generazioni) diventa essenziale, ma diventa essenziale anche la garanzia di un reddito minimo garantito che non deve essere il risultato di una utopia comunitaria del reddito separato dal lavoro, bensì la conseguenza di un rafforzamento dei diritti civili e della volontà di eliminare la possibilità che l'individuo possa essere escluso senza colpa dal mondo produttivo. Il reddito minimo garantito viene quindi derivato da una questione di diritti fondamentali, in primis quello di «cittadinanza». Questa concezione dei diritti non si contrappone peraltro alla concezione dell’analisi economica della democrazia, proprie di Hayeck e Tullock, e si lega alle moderne impostazioni di filosofi della politica da Rawls, a Nozik e Hirshman. L'intenzione di garantire diritti civili per tutti attraverso la redistribuzione del reddito, tipica dello stato sociale tradizionale, non era sbagliata ma va migliorata ed integrata. Anche in futuro sarà necessario tenere in vita meccanismi di redistribuzione, soprattutto fiscali, per dare ai governi la possibilità di aiutare coloro i cui diritti civili resterebbero vuote promesse senza simile aiuto. In questo modo diritti, democrazia, partecipazione e potere devono trovare un loro equilibrio nel sistema sia con l’introduzione di nuove «regole del gioco» sia con il più razionale uso di quelle esistenti sia, ancora, con l’istituzionalizzazione di alcuni diritti
fondamentali.
Paradossalmente
nel momento
di maggior crisi della
NUOVE TEORIE E NUOVE POLITICHE DI PARTECIPAZIONE
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scienza economica i suoi paradigmi e i suoi modelli stanno aiutando (peraltro con risultati molto limitati e forse viziati in origine) il funziona-
mento di altre discipline, si veda per tutte la teoria economica della democrazia 0 della politica. La rimeditazione della «vera» razionalità insita nei fatti economici fa apparire in modo forse ottimistico, una nuova «alleanza» con la razionalità propria dei principi dell'etica. Ma forse non è nemmeno un'alleanza, ma una consapevolezza che razionalità etica, della
quale forse troppo poco si sono evidenziati i contenuti nella sfera «economica», e razionalità «economica» costituiscono un 4750472 il cui fine è il
miglioramento della qualità del vivere e del benessere economico complessivo, fini che oggi più che mai si identificano con il fine ultimo della sopravvivenza dell’uomo nel suo pianeta. A questi fini vanno ricondotti anche i paradigmi di efficienza dell'economia politica e della politica economica. La scienza economica - come tutte le scienze, del resto - rappresenta al tempo stesso una sfida e una risposta alle sollecitazioni dell'ambiente, non solo, ma anche un tentativo costantemente rinnovato di superamento dei vincoli che l’ambiente circostante impone. Ma i fatti che riguardano la presenza dell’uomo nella società non sono percepibili senza un quadro di riferimento di valori. ! In Belgio, paese che per primo ha vissuto questa esperienza, l’azionariato dei salariati si è sviluppato in misura limitata e soprattutto grazie ad alcune forme di incoraggiamento fiscale di carattere parziale e temporaneo. Questo sistema non solo incoraggia i lavoratori a diventare azionisti dell’impresa in cui lavorano ma costituisce anche uno stimolo all'introduzione di capitale innovativo eall’utilizzazione di personale qualificato. In questa ottica le «opzioni» sulle azioni della società costituirebbero anche un incentivo a conservare o ingaggiare i quadri aziendali più competitivi. Negli Stati Uniti le «stock options» sono di carattere elitario e tendono a conferire un incentivo significativo a un numero ristretto di quadri qualificati. L’azionariato indiretto è una forma di coinvolgimento del lavoratore che passa attraverso la elaborazione di piani di società ad hoc (come appunto le formule EsoP o LMBO). Gli Stati Uniti, in cui questa forma è diversificata e molto estesa, abbiamo i piani di opzione sulle azioni, generalmente destinati ai quadri dirigenti, e i piani d’opzione sui «bonus» o «stock bonus plan», più estese dei primi, che sono in grado di interessare l’insieme del personale di una stessa società e sono alla base della stessa formula ESOP. 2 Il «leveraged management buy-out» (LMBO) è apparso negli Stati Uniti verso la fine degli anni Sessanta. Questa tecnica di acquisizione dell’impresa da parte del gruppo manageriale (quadri o dirigenti) non ha molti sviluppi in Europa, tranne che in Gran Bretagna e in Francia. Con questa tecnica si permetterebbe ad una équipe di quadri, che possiedono l’esperienza e le capacità necessarie a produrre un «cash flow» sufficiente a coprire il servizio del debito, di diventare il principale o uno dei principali azionisti. Il LMBO è quindi una tecnica che permette l'acquisizione, ir toto o in parte, di una società da parte del suo «management», con un apporto di fondi propri relativamente basso e un apporto di fondi esterni più cospicuo. L'acquisizione della società viene così parzialmente finanziata dal suo «cash flow». Va notato che dal 1984 in Francia opera una forma simile all’.mBO, che per altro ha avuto applicazione limitata. In ogni caso, grazie a queste tecniche, vi è un incentivo all'aumento della produttività e della redditività. è Non è mancato chi ha sostenuto di trovarsi di fronte ad una innovazione di portata pari a quella keynesiana. 4 In contrasto
con questo sistema molte imprese tendono a proporre
forme di incentivo
individuale che possono indurre a comportamenti di rivalità tra lavoratori di una stessa squadra,
2
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anziché di maggiore cooperazione e solidarietà. Tra l’altro le verifiche evidenziano che gli incentivi individuali riducono la cooperazione volontaria tra i salariati mentre attivano i dirigenti. La risposta dei lavoratori in presenza di incentivi individuali tuttavia non è stata affrontata in maniera sistematica nemmeno dagli analisti della organizzazione del lavoro, mentre ha avuto qualche seguito in termini di analisi dei comportamenti strategici sulla base della «teoria dei giochi». ° In un sistema di incitamenti collettivi ogni azione individuale impone delle esternalità sugli altri membri della équipe e incita i lavoratori ad aumentare la cooperazione tra di essi ai fini di
internalizzare queste esternalità. Non vi sarebbe quindi riduzione collusiva dello sforzo, ma al contrario i lavoratori prendono coscienza dell’esistenza dei rendimenti di scala della cooperazione,
il che comporta, oltre a guadagni di produttività, anche vantaggi psicologici che aumentano il livello di cooperazione. 5 Se in un tipico «equilibrio di Nash» i premi individuali non hanno alcun effetto sui processi di interazione tra salariati, l’introduzione della «profit sharing» in tale contesto non cooperativo rilancia automaticamente un lavoro di équipe e permette di allontanarsi dall’equilibrio non collaborativo (Fitzroy e Kraft, 1986). Tra l’altro si dimostra che anche nel cosiddetto «dilemma del prigioniero», che darebbe luogo ad un equilibrio non ottimale in senso paretiano, in un contesto di prove ripetute la strategia da individualista si trasforma in collaborativa.
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Bene comune e governo dell’economia: oltre il neo-contrattualismo e il neo-liberismo di Achille Ardigò
1. Introduzione
Il concetto di bene comune, centrale alla dottrina sociale cristiana anche recente, rimanda - nella letteratura delle encicliche sociali - ad un diritto-
dovere di molteplici attori sociali: pubblici poteri internazionali e nazionali, corpi intermedi, gruppi sociali, associazioni, famiglie, persone. Il diritto-dovere di intervenire nel governo della cosa pubblica perché gli interessi pur legittimi delle singole parti influenti siano composti avendo riguardo alla promozione di tutte le persone umane. In base a tale concetto, il governo dell'economia viene subordinato esplicitamente, per principio, all’«attenuazione delle disparità sociali», con speciale attenzione al miglioramento delle condizioni sociali dei deboli e dei poveri. Mentre invece si assiste al contrario (Gaudium et spes, n. 63).
Tale dottrina del bene comune sembra subire oggi attacchi radicali da parte delle teorie macrosistemiche della società che esplicitamente sacrificano, come zavorra pesante, i valori e vincoli etici, di fronte al difficile compito della selezione della complessità da parte delle organizzazioni sociali. Dai sostenitori delle teorie e prassi neo-liberistiche e neo-contrattualistiche, poi, l'accento è troppo ritornato sull’ottimistica esaltazione del decentramento delle decisioni e sulla deregalation pubblica, sulla fiducia nell’assetto non intenzionale della società prodotto anche da limitate azioni intenzionali individuali, perché il ruolo e la responsabilità dei pubblici poteri per il bene comune possano essere condivisi più di tanto. Non a caso, sono riemerse vecchie teorie circa la felicità pubblica spontaneamente risultante da vizi privati, o circa la mano invisibile del mercato. Di fatto, il contesto socio-culturale attuale appare, per diverse ragioni,
insieme eccessivamente miope o eccessivamente presbite, rispetto alla dottrina suddetta del bene comune. Da ogni parte si riconosce il crescere della complessità nelle società avanzate contemporanee, una crescita che alimenta ondate di neo-liberismo, anche se la concorrenza giapponese fa /
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ETICA
E DEMOCRAZIA ECONOMICA
insinuare in Europa occidentale e nel Nord America la tentazione di qualche misura protezionistica più o meno mascherata. In ogni caso, proprio mentre emergono con aspetti di gravità problemi sociali ed umani che si pensava lo stato sociale avesse risolto (il degrado della scuola, la scarsa protezione ai bambini, la povertà, l'abbandono o la ghettizzazione di molti anziani non autosufficienti, la crescita delle malattie mentali e
delle devianze per droga e violenza) v’è chi propone lo «Stato minimo», o il nuovo
slogan (del sociologo M. Crozier)
«Stato
moderno,
stato
modesto». 2. Definizione di «bene comune»
Bisogna anche dire che il concetto di «bene comune» appare non di rado con formulazioni troppo superficiali e troppo semplici per essere considerato con l'impegno che merita, da quanti si confrontano con le sfide della complessità societaria presente. È perciò necessario un previo approfondimento del medesimo concetto, a partire dai più recenti documenti del Magistero della Chiesa. ‘Secondo il documento conciliare Dignitatis humana, il bene comune «consiste nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della persona». Il bene comune, sempre per la Digritatis humana, consiste soprattutto «nell’esercizio dei diritti della persona umana e nell'adempimento dei rispettivi doveri {...]» (Dignitatis bumana, n. 6).
Secondo la Pacem in terris di Giovanni XXIII, tutti gli esseri umani e tutti i corpi sociali intermedi sono tenuti a portare il loro specifico contributo all’attuazione del bene comune. Quello comune «è un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri della comunità politica [...}» Pacem in terris, n. 33). Per la Gaudium et spes, il bene comune è «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente {...}» (Gaudium et spes, n. 26). Una perfezione sia nell’ordine corporeo che in quello spirituale. Condizioni di vita per il bene comune significa anzitutto, secondo
il medesimo
documento
conciliare, «che siano rese
accessibili all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a
scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, all’educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla necessaria informazione,
alla possibilità di agire secondo il retto dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso» (Gaudium et spes, n. 26).
BENE COMUNE E GOVERNO DELL'ECONOMIA
ELS
Elementi di bene comune sono anche le peculiarità etnico-culturali di ogni gruppo umano (Pace in terris, n. 33). Il patrimonio valoriale e culturale di un gruppo non esaurisce, tuttavia, il contenuto del bene comune. «Il quale, nei suoi aspetti essenziali e profondi, non può essere solo concepito in termini dottrinali[...} (Pacer
in terris, n. 33) o solo in termini privati e personali ma richiede l’azione delle comunità politiche come tali.
3. Bene comune e pubblici poteri La funzione e la legittimazione dei pubblici poteri sono chiamate direttamente in causa. È il perseguimento del bene comune che legittima il pubblico potere. E ciò secondo contenuti postulati dalle situazioni storiche (Pacem in terris, n. 32), quindi dinamici, senza preferenze» (Pacem in terris, n. 33).
«a vantaggio di tutti
La Pacem in terris ha due precisazioni al riguardo: quella relativa alla storicità delle forme e strutture d'intervento dei pubblici poteri per il bene comune e quella del necessario aggiornamento delle medesime forme e strutture. La struttura e il funzionamento dei poteri pubblici «non possono non essere in relazione con le situazioni storiche delle rispettive comunità politiche: situazioni che variano nello spazio e mutano nel tempo» (Pacem in terris, n. 41).
Ed «è indispensabile che i poteri pubblici si adeguino nei metodi e nei mezzi alla natura e complessità dei problemi che sono chiamati a risolvere nell'ambiente in cui operano {...}» (n. 42). In questo senso, esiste un
rapporto intrinseco «tra i contenuti storici del bene comune da una parte, e la configurazione e il funzionamento dei poteri pubblici, dall’altra» (sé£1):
Tale flessibilità e dinamismo previsti nella funzione dello Stato, se da un lato sollecitano a revisioni, ad esempio, nelle strutture e nei criteri
gestionali di welfare state, oggi così acutamente riconosciute, dall’altro non legittimano a processi involutivi. Un'altra dimensione che è presente, quanto al necessario processo evolutivo delle azioni per il bene comune, è quella che spinge al superamento dei limiti nazionali verso l’organizzazione dei pubblici poteri, per una funzione di bene comune a scala mondiale (Pace în terris, n. 71).
Ma proprio nel perseguimento del bene comune universale, non si può perdere di vista il principio di sussidiarietà che qui viene invocato per preservare, nella grande organizzazione, l’obiettivo fondamentale dei diritti della persona.
Jo
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4. Bene comune e complessità sociale È su tale costante attenzione all’interfaccia tra organizzazione aggiornata a scala sempre più vasta e attenzione alla persona, che la teoria del bene comune si scontra con quelle macrosistemiche di impianto cibernetico |. La dottrina sociale della Chiesa appare, al riguardo, attenta a suggerire che, nel governo della cosa pubblica, si tengano presenti modalità diverse. Il bene comune può essere perseguito: «con un'azione diretta, quando il caso lo comporti {...]}» (Pacem in terris, n. 73), «o creando un ambiente a
raggio mondiale in cui sia reso più facile ai poteri pubblici delle singole comunità svolgere le proprie specifiche funzioni», comunque «rispettando anche nei rapporti internazionali il “principio di sussidiarietà” (n. 74), ed avendo sempre come tema di riferimento la promozione di tutte le persone a partire da quelle più sfavorite». Ebbene, sono le due ultime modalità che sembrano inconciliabili di
fatto, a non pochi scienziati sociali, con le urgenze e le priorità dei governi delle società complesse, in rapporto al crescere delle sfide del loro ambiente umano e fisico. Se tale governabilità ha da richiedere qualcosa di più dello «Stato minimo»? o dello «Stato modesto», allora - si sostiene da più parti - non è più possibile avere, come base di consenso e come riferimento interno, le singole persone, con le loro limitate intenzionalità soggettive. Il sistema ha da affidarsi a processi selettivi macro-sistemici in tempi reali, che non sono quelli delle persone. Perciò la seguente affermazione della Gaudium et spes, al n. 26, si presenta in contrasto con le due correnti principali della sociologia contemporanea, la socio-sistemica e la corrente dell’individualismo metodologico: «L'ordine sociale {...} e il suo progresso debbono sempre lasciar
prevalere il bene delle persone, giacché nell’ordinare le cose ci si deve adeguare all'ordine delle persone e non il contrario {...}». Per i socio-sistemici ispirati alla cibernetica, l'ordine sociale è frutto di sola selezione interna al sistema di comunicazioni; è operazione di stretta autoreferenza macro-sistemica e il macro-sistema non può adeguarsi altro che alle proprie onerose necessità di selezionare la complessità incalzante dall’esterno'. Per gli individualisti metodologici, l’ordine sociale può essere soprattutto il frutto non intenzionale delle moltitudini di scelte individuali, con meno centri di potere volontaristicamente operanti ad ordinare, a programmare, le condotte collettive. All’interno delle correnti di pensiero dell’individualismo metodologico, ci imbattiamo - è vero - anche in due apparenti alleati della teoria del bene comune, se considerato rivolto alla persona. Mi riferisco al meo-
liberismo (cioè alle nuove forze, dottrine e prassi, che dalla fine degli anni Sessanta hanno ripristinato il liberismo economico come antidoto alla
BENE COMUNE E GOVERNO DELL'ECONOMIA
AL
crisi dello Stato keynesiano, interventista industriale e stato sociale) e al
neo-contrattualismo che tende ad emergere - tutto nel privato - dopo il declino del neocorporativismo centralizzato, specie nelle relazioni industriali. Esaminiamo brevemente le due dottrine individualiste. 5. Bene comune e neo-liberismo
Il neo-liberismo è quella corrente di pensiero e quello stile di governabilità caratterizzato da una quasi universale fiducia nel mercato libero e da un atteggiamento contrario all’intervento regolatore dello Stato nella vita economica di un Paese. Negli Stati Uniti della presidenza Reagan, ove si è affermato, esso è stato applicato con la contrazione di parte della spesa dello Stato sociale, nell’indebolimento dei sindacati e del potere d’acquisto dei lavoratori (ma con incrementi di occupazioni) e con la deregulation rispetto alle precedenti legislazioni di pubblico controllo sulla concorrenza commerciale e finanziaria e sulla tutela dell'ambiente. Non si è applicato alla spesa militare. Nella Gran Bretagna della Thatcher, il neo-liberismo si è manifestato con la privatizzazione di quasi tutte le imprese nazionalizzate, con la messa in ginocchio dei sindacati, con lo smantellamento di parte del welfare state e dei livelli metropolitani del governo locale. Il neo-liberismo, che ispira la liberalizzazione degli scambi e delle monete, e la libera circolazione dei capitali e delle persone, sta per affermarsi anche a scala euro-occidentale, pur se con resistenze e contemperamenti, a partire dal 1993. Anche l’Europa dell’Est ne è penetrata a partire dalla Jugoslavia. Da noi, anche il pci sembra abbandonare il marxismo e scoprire il mercato, con la sola ricerca di garanzie per i lavoratori, in direzione della democrazia economica, per garantire il diritto di tutti ad «essere protagonisti» anche delle scelte dell’impresa in cui si lavora °. Ma le forze del neoliberismo sembrano oggi proiettate, in vista del mercato euro-occidentale unificato dal 1993, a non far crescere nemmeno una comune legislazione di partecipazione alle informazioni dei lavoratori dipendenti da grandi e medio-grandi imprese Criticare il neo-liberismo non significa, peraltro, negare la rilevanza della libera iniziativa del mercato. Nelle recenti encicliche e documenti di Giovanni Paolo II, appare chiara la distinzione tra diritto alla libera iniziativa economica
di ognuno
(in cui si esprime - come
afferma la
Sollicitudo rei socialis, n.15 - la «soggettività creativa» della persona) e la
logica a tutto tondo del capitalismo liberista. Al capitalismo liberista manca il riconoscimento del ruolo non minimo dei pubblici poteri per il
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ETICA E DEMOCRAZIA ECONOMICA
bene comune; manca perché, nella concezione suddetta, la società va piuttosto governata dal decentramento del mercato. E cioè da «meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali benché governati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri». (Sollicitudo rei socialis, n. 16). E proprio in un tempo in cui si torna ad esaltare de Mandeville teorico della felicità pubblica risultante dai vizi privati”, e l’automatismo del mercato decentrante, la So/licitudo rei socialis dichiara: «sarà necessario sottoporre {...] questi meccanismi {gli automatismi decisionali} a un'attenta analisi sotto l'aspetto etico-sociale» (n. 16).
Il che significa che se prevalgono tali meccanismi, il bene comune non è assicurato. 6. Bene comune e neo-contrattualismo
Il contrattualismo è, com'è noto, quella dottrina filosofico-politica che assume come fondamento della società e dello Stato un contratto espresso o tacito fra il principe ed i sudditi o fra i cittadini tra loro. Da Hobbes a Kant, da Rousseau a Locke e, più di recente al neo-contrattualismo dell’etica democratica di John Rawls * e dello Stato minimo di Robert Nozick ?, le teorie contrattuali della giustizia e dello Stato cercano di fondare il passaggio di ogni legittimazione del potere politico dalla soggezione al consenso pattuito. E proprio del contrattualismo fondare la normazione consensuale, su basi quindi di reciprocità, attorno a tre quesiti: «1 {...} come giungere alla definizione di regole che siano di mutuo vantaggio di tutti gli attori in una situazione di scarsità {...}; 2 la definizione degli attori {...}; 3 {...} la si-
tuazione di scelta delle regole» !°. Ma se non ci si attesta su una provvidenza più o meno naturalistica da «mano invisibile», che porta - come sosteneva Kant - dall’insocievole socievolezza delle motivazioni individuali al progresso della vita sociale, è difficile credere che basti la proceduralità del contratto, supposta la propensione di ognuno alla reciprocità con eguaglianza di posizioni procedurali, per fondare e mantenere regole di ben vivere. La concezione generale di Rawls («tutti i beni sociali principali - libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé - devono essere distribuiti in modo eguale a meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati»'')richiede ben altro, per mantenersi, che consenso su criteri di giustizia procedurale pura!’? È difficile pensare che «l’idea di massimizzare il bene [...] finisca per prendere il sopravvento» solo «per mancanza di alternative», nella caduta di ogni teleologismo, come invece sostiene Rawls!?.
BENE COMUNE E GOVERNO DELL'ECONOMIA
119
A sua volta, Robert Nozick sfonda porte aperte quando critica lo Stato sociale (di massimo interventismo degli anni Sessanta e Settanta nell’Occidente europeo) come produttore di programmi di welfare, risoltisi soprattutto a vantaggio della classe media, specie in corrispondenza di periodi elettorali‘. Ma la contro-idea di uno Stato minimo, con una ridottissima funzione
distributiva e le istituzioni ridotte ad agenzie per tutelare il diritto di reclamo dei cittadini, può valere a livello di una consolidata società di affari, non per società nazionali e internazionali duramente segnate da lotte di interessi quando non di classe, e da fortissimi dislivelli di reddito,
di opportunità di riuscita, oltre che da rapporti tra creditori e debitori. Tale prospettiva neo-contrattualistica, anche se non priva di suggestioni e di utili stimoli critici all'eccesso di normativismo ideologico di passate politiche, si fonda su relazioni simmetriche che prescindono dalle motivazioni altre dallo scambio di prestazioni reciprocamente riconosciute. Vale a dire prescinde da motivazioni di dovere morale, anche unilateralmente inteso, come di propensione al dono, di volontariato e d’empatia. Perciò, come ha giustamente osservato J. Habermas, se l'accordo contrattuale
«{...}] si regge
unicamente
su motivi
empirici (quali la
propensione, l’interesse, il timore di sanzioni) non si vede perché un contraente, appena mutano i suoi motivi originari, dovrebbe sentirsi ancora vincolato alla norma convenuta»! È lo stesso Habermas a suggerire il modello adeguato per superare contrattualismi e neo-contrattualismi: quello di «una comunità di comunicazione degli interessati» !°, anche se tale comunità tende in lui ad essere circoscritta alla componente cognitiva circa la validità delle norme. Ma i neo-contrattualisti non sembrano in grado di accogliere la tesi della «comunità di comunicazione», specie nei casi molto recenti in cui il neo-contrattualismo rinasce come ricerca di fondazione quasi solo nel privato di nuove relazioni industriali tra rappresentanti dell’impresa e del lavoro dipendente. Proprio il requisito più prezioso del contratto, quello della reciprocità delle aspettative, non può fare del neo-contrattualismo la forma moderna della attuazione del bene comune. Esso non può essere
applicato alle fasce deboli, incapaci di scambio di equivalenti, della popolazione ed è piuttosto debole di fronte alla crescente necessita di porre vincoli e valori sullo sfruttamento industriale del suolo. 7. Neo-contrattualismo e caso italiano
Il tema del neo-contrattualismo merita comunque un particolare approfondimento oggi in rapporto alla tematica del bene comune, in Italia. Ciò perché esso sta divenendo, dopo gli anni della lotta di classe ,
120
ETICA
E DEMOCRAZIA ECONOMICA
marxista o del neo-corporativismo politico alla Carniti, l'orientamento di ‘punta nelle posizioni più autorevoli sia della Confindustria che delle tre Confederazioni sindacali. Dopo un anno e mezzo di incontri riservati, e con la mediazione di influenti giuslavoristi e di sociologi del lavoro, si è avuto a Torino, a meta febbraio 1989, in sede FIAT, un seminario con la
partecipazione dei vertici confindustriali e confederali sindacali, per cercare nuove regole contrattate nelle relazioni industriali! Per quanto auspicabile sia che i portatori di interessi e di forze contrattuali dell’imprenditoria industriale maggiore e delle Confederazioni sindacali si intendano, per la pace sociale nel progresso economico, nemmeno il loro neo-contrattualismo può assorbire tutti gli obiettivi del bene comune. Il neo-contrattualismo può agire ove non vi è necessità di un intervento
diretto dei pubblici poteri per il bene comune, ma non può presumere, come invece è avvenuto in passato, che la contrattazione collettiva assorba anche compiti decisorii in materia di assistenza pubblica alle fasce deboli, sprovviste di soglie minime di potere contrattuale, agli inabili, agli emarginati, agli esclusi. C'è invece chi concepisce il neo-contrattualismo proprio come alternativa al solidarismo di bene comune, e viceversa. Sarà un caso, ma il pur pregevole documento della Federmeccanica che -con elementi anche innovativi rispetto a precedenti posizioni del presidente stesso della Federmeccanica, F. Mortillaro - apre al neo-contrattualismo, (verso «un patto sindacale strategico, un accordo di prospettiva», pur
graduale) è un testo al contempo vivacemente critico della «posizione solidaristica». Posizione solidaristica che il documento vede espressa da due ideologie prevalenti «ancorché in declino nella società italiana - la cattolica e la comunista - {...}». La posizione solidarista viene stigmatiz-
zata dal documento della Federmeccanica perché essa «ancora tende a valorizzare nella società i bisogni piuttosto che i prodotti, la povertà piuttosto che il successo, l’austerità piuttosto che il benessere»"5 E nona caso tra imovimenti della società italiana più criticati dal citato documento confindustriale figurano, accanto ai «verdi», la Caritas, le ACLI,
«Famiglia Cristiana» e movimenti cattolici pacifisti e contro la produzione e il commercio delle armi, quali Pax Christi e Nigrizia!?. 8. Conclusione
In conclusione, anche aprendoci allo spirito dei tempi che vede crescere in tutto il mondo l’aspirazione dei singoli e delle unità familiari a contare di più nella organizzazione sociale e mostra insofferenze per passate forme assistenzialistiche di intervento pubblico o di diaconia di Chiesa, forme cariche non di rado di asimmetrie di potere paternalistico, non
BENE COMUNE
possiamo comune. liberismo elementi lezza che
E GOVERNO
DELL'ECONOMIA
421:
rinunciare ad approfondire aspetti antichi e nuovi del bene Uno degli approfondimenti da proseguire è al di là del neoe del neo- contrattualismo. Delle due linee occorre cogliere gli di innovazione nel reviva/ recente, ma con la chiara consapevonessuno di essi può dirsi la forma storica di attuazione delle
strategie di bene comune rettamente inteso. Queste necessarie strategie,
devono andare ben oltre.
! In argomento, cfr. A. ArDIGÒ, Per una sociologia oltre il post-moderno, Laterza, Bari 1988.
° Cfr. R. NozicK, Anarchia, Stato e Utopia, Le Monnier, Firenze 1981. ì M. CROZIER, Stato modesto, Stato moderno, Lavoro, Roma 1987.
4 Cfr. in specie N. Luhmann. ° Cfr. in specie K. Popper e R. Boudon. ° Secondo il segretario del PCI, on. Occhetto, l'offensiva del Pci sul tema della democrazia in fabbrica non è altra cosa dalla scelta di campo (del pc1) in favore delle imprese private e del mercato. A Firenze, il 4 febbraio 1989, l’on. Occhetto ha annunciato che occorre andare «oltre il liberalismo e il marxismo» ma «per stabilire tra loro un rapporto reciprocamente fecondante». Talché, sempre
secondo Occhetto, «allo Stato spetta anzitutto il compito di fissare le regole, e insieme di favorire il libero accesso al mercato. Ma anche soddisfare le esigenze di una più equa distribuzione della ricchezza» agendo sulla leva fiscale anche per «alleggerire il carico fiscale delle imprese». Cfr. // Pci oltre il marxismo, «La Repubblica», 5 febbraio 1989.
7 L’opera di BERNARD DE MANDEVILLE, (tr. it. La Favola delle api, ovvero vizi privati benefizi pubblici, Boringhieri, Torino 1961) è del 1714. Per Mandeville, i lavoratori dovevano essere sempre a buon mercato. «Bisogna evitare - scriveva - che essi muoiano di fame, ma bisogna ugualmente evitare che essi accumulino risparmi». Perché la laboriosità dei lavoratori dipende, per Mandeville, solo dal bisogno. Cfr. tr. it. cit., 190 s. 8 J. RawLs, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982. L’edizione originale è del 1971. ? R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, cit. L'edizione originale è del 1974. TARAWIS TIP 12 Iyj, 256.
2IDÌSÌ
13 Ivi, 476. 4 R. NozicK, Anarchia, Stato e Utopia, cit., 290. 15 J. HABERMAS, La crisi di razionalità nel capitalismo maturo, ed. Laterza, Bari, 1975, p. 115. sel pilo.
EVE #3 su «La Repubblica» del 15 febbraio 1989. Cosi è stato titolato l’articolo dedicato al convegno: Imprenditori e sindacalisti d'accordo sulla necessità di cambiare le regole: mai più un braccio di ferro come quello sul caso Fiat. 18 Cfr. Federmeccanica, Imprese e lavoro - 3. I rapporti con le istituzioni, 1988, 47, 60.
Di
,50)
Sulla «responsabilità» della Chiesa in economia di Mons. Pietro G. Nonis
1. Sul termine-concetto di «responsabilità» La parola «responsabilità» è di quelle che oggi vanno molto, ma fuori dei sistemi di etica, che dovrebbero porsi come quadri di riferimento per la giustificazione radicale delle persuasioni morali (Vanni Rovighi) 0, più elementarmente, degli strumenti linguistico-concettuali di normale consultazione, è difficile trovarne una trattazione soddisfacente, soprattutto in rapporto alla Chiesa per un aspetto, all'economia per l’altro. Se ne può fare una prova. Una raccolta di documenti sociali della Chie!, da Pio IX a Giovanni Paolo II, permette di scorrere analiticamente i vari usi del termine, e del concetto, «responsabilità» da un lato, di «economia» dall’altro, di «Chiesa» da un altro ancora: orbene, non si dà, a
quanto ci è stato possibile constatare, un solo caso in cui i tre termini possano ragionevolmente correlarsi o combinarsi, in modo da permettere di riscontrare l’esistenza, se non di verificare la consistenza, di un discorso
su «Responsabilità della Chiesa per un'economia dell’uomo».
Forse sarebbe bene intendersi, anzitutto, su un significato possibilmente non equivoco, se non proprio non ambiguo, di «responsabilità». Max Scheler ha contribuito seriamente a chiarire la distinzione tra «responsabilità» e «imputabilità», o «attribuzione di un’azione a un agente come alla sua causa» °, già presente in Platone secondo il quale «ciascuno è la causa della propria scelta {della scelta dell'anima che lo individua, addirittura], la divinità non ne è imputabile» (Repubblica, X, 617 e). Il concetto
di «responsabilità» in senso moderno, riferita cioè ad una determinata rappresentazione della libertà, della scelta o decisione, e della possibilità sia di prevedere le conseguenze di un atto libero sia di portarne responsabilmente il peso, è relativamente recente; risale a un paio di secoli fa, ha per patria l'Inghilterra e conobbe fin dall'inizio un uso giuridico- politico. Lalande* afferma che non «bisogna [...} porre in primo piano, in questa parola, l’idea di rispondere a una domanda, senso che è esso stesso un
derivato abbastanza lontano e molto indebolito della radice primitiva». Nel nostro caso, tuttavia, il richiamo dell’etimo latino re-spordeo, rispon-
do, implica positivamente e preliminarmente
(o presuppositivamente)
SULLA «RESPONSABILITÀ» DELLA CHIESA IN ECONOMIA
123
una chiamata, un'istanza, l’attribuzione di un impegno da parte di qualcuno o l’esistenza in quest'ultimo, del diritto di avere una risposta. In questo senso potremmo dire, col Semerari ‘, che «responsabile si dice chi è tenuto a rispondere, cioè a rendere ragione e a subire le conseguenze di un'azione o di uno stato di cose, quale presunta causa libera delle medesime». Il dizionario latino della nostra giovinezza, il GeorgesCalonghi ’, non offre il corrispettivo, che non esiste nella lingua di Cicerone, della moderna responsabilità se non adducendo un'espressione esemplificativa: «sulla mia responsabilità» si traduce meo periculo (e «prendo su di me la responsabilità» diventa, con dubbia eleganza, periculum in me recipio). Sarà poco elegante, ma è interessante, per l'accostamento del termine-concetto di «responsabilità» a quello di pericu/um o rischio. Anche l’unico testo da noi reperito °, usa dire senza andar molto per il sottile, «responsabile» per «imputabile» o «colpevole», là per esempio dove afferma che «le lacune dell’analisi teologica sono in gran parte responsabili delle inadeguatezze {della Chiesa] sul piano pratico» 7. Coste stesso non manca, comunque, di avvertire che «l’analisi storica del comportamento della Chiesa non sarà corretta se non sarà di tipo teologico», stando al quale, mettendosi dal punto di vista del Vangelo, ci si rende conto che «Gesù Cristo deve essere il punto di riferimento assoluto» *: Lui soltanto. 2. La Chiesa come chiamata
La Chiesa può essere vista come
chiamata:
Dio convoca
l’uomo a
costituirsi in assemblea; anzi, lo costituisce in assemblea da Lui, Dio, istituita e convocata. Sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, l’inizia-
tiva divina assume spesso il carattere di una libera e positiva chiamata. «Gesù chiama a sé i Dodici discepoli» (Mc 6,7; Le 9,1); «molti sono i chiamati ma pochi gli eletti» (Mz 22,14); la chiamata divina è legata alla divina volontà: «chiamò sé quelli che Egli volle» (Mt 5,1; Lc 6,12); «Dio, dicono gli apostoli, ci aveva chiamati ad annunziarvi la Parola» (At 16,10);
«quelli che ha predestinati li ha anche chiamati» (R72 8,30); i cristiani devono «comprendere a quale speranza sono stati chiamati». Per San Pietro l’arrivo alla fede è conseguente all'appello di Colui «che chiama dalle tenebre alla sua luce» (1 P? 2,9); «chiamati alla Sua gloria» (1 P7
310) La Chiesa è insieme il luogo e il mezzo della chiamata: è attraverso di essa che l’uomo può ricevere i doni e l'appello che Paolo chiama «irrevocabili» (Rm 11,29): per questo l’Apostolo esorta i cristiani a considerare la propria chiamata (1 Cor 1,26) ed augura ai Tessalonicesi (2 75 1,11) che
Dio li renda degni della Sua chiamata.
124
ETICA
E DEMOCRAZIA ECONOMICA
La chiamata divina che fonda la Chiesa è, evidentemente, soprannaturale. C'è una chiamata anche di ordine naturale, quella che permette alla coscienza retta di scoprire una «voce», la via al fine proprio dell’uomo che un tempo si chiamava «legge naturale». Esiste chi, come Dewey, ritiene «che unicamente nell’ambito di una prospettiva dalla quale sia escluso il ricorso al soprannaturale, può avere senso e giustificazione la dignità dell’uomo come coscienza conseguente della sua responsabilità» ?. Qui la visione è totalmente rovesciata: l’uomo è compiutamente, radicalmente «chiamato» a «rispondere» nella misura in cui resiste alla tentazione di «affidarsi a un potere esterno»: «l’uomo religioso è colui che s7 assume interamente la responsabilità del suo compito di vita, sapendo che questo compito non potrà adempiere se non attraverso un lavoro continuo ed associato con gli altri uomini». Allorché si rinuncia alla responsabilità come «impegno radicale di se stessi nella interrelazione universale ci si abbandona al soprannaturale» le cui manifestazioni principali, nota Dewey, «sono l'egoismo e il millenarismo» *°. Quanto è distante da codesto relazionismo immanentistico il messaggio paolino, che esalta il Cristo risorto come l’immagine del Dio invisibile, colui che è prima d’ogni cosa, nel quale ogni cosa sussiste, «supremamente personale, supremamente personalizzante», «centre psychique ultime de rassemblement universel», come dice Teilhard de Chardin !!
Secondo la fede, ogni essere umano è chiamato alla piena realizzazione di sé in Cristo, in vista di quell’assoluta, suprema perfezione che solo il Padre realizza compiutamente (M? 5,48). «Au regard de la foi chrétienne,
toute personne humaine a sa vocation particulière: les cellules vivantes du Corps Mystique ne sont nullement interchangeables. D’après le plan divin, créateur et rédempteur, chacun a son ròle à jouer. Chacun doit contribuer, pour sa part irremplagable, à la construction de l’humanité, appelée à devenir le Corps Mystique» *?. 3. La Chiesa come risposta alla chiamata e al mandato La vocazione non è generica, ma specifica, anzi individuale. Come la creazione, la redenzione non è dell'umanità in generale, ma dei singoli esseri umani. I quali sono creati, certo, per stare insieme, e prima mettersi insieme, e insieme rimanere almeno nella misura in cui colgono la necessità o l'opportunità della reciproca integrazione; Tommaso d’Aquino non ha dubbi sul fatto che «inest homini inclinatio ad bonum secundum naturam rationis, quae est sibi propria; sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo, et ad hoc quod ‘7 soczetate vivat» !?. Che uscendo dallo stato di natura originario per entrare nello stato civile subisca un cambiamento notevole, sostituendo la
SULLA «RESPONSABILITÀ» DELLA CHIESA IN ECONOMIA
I2S
giustizia all’istinto, e dando alle proprie azioni la moralità che ad esse «prima» mancava, l’afferma J.J. Rousseau, il quale non manca di riconoscere tuttavia che col nobilitarsi dei sentimenti, l’elevarsi dell’anima,
l'uomo «devrait bénir sans cesse l’instant heureux qui l’en arracha pour jamais, et qui, d'un animal stupide et borné, fit un étre intelligent et un homme»
!*
Quale che sia l'origine dello Stato, o società civile, la Chiesa si co-
stituisce per mandato divino: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi», dice il Signore Gesù ai discepoli, ai quali assicura d’essere insieme «per tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli» (Mt 28,20).
Si tratta di un mandato preciso, non generico: le prime colonne della Chiesa «Giacomo, Giovanni e Cefa, ritenuti le colonne», dice Paolo (Ga/
2,9) hanno il compito di andare affinché gli uomini realizzino per mezzo loro ciò che Gesù è venuto a realizzare, «sì che abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Il mandato ha forma e valore di comandamento: produce immediatamente nei suoi ricevitori un’obbligazione precisa e radicale: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra: andate, dunque {...] ed insegnate atutte le genti, ammaestrandole ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,18-20). È molto più che vocazione: è missione; va ben oltre il piano di pur suggestive proposte, è comandamento. È vincolante. Fonda un ‘obbligazione, esige un atteggiamento di obbedienza che trascende di molto ogni dovere semplicemente umano: «E necessario obbedire piuttosto a Dio che agli uomini» (At 5,29).
Di questa obbedienza a Dio, dell’obbligazione che vincola la coscienza cristiana anche oltre le convenienze semplicemente umane, può farsi maestra e garante la Chiesa, almeno in quei casi nei quali lo Spirito non provveda da sé, eccezionalmente e indubitabilmente, ad illuminare i fedeli, specialmente quando costoro fossero per necessità di cose perseguitati e isolati:«E chi vi potrà fare del male - chiede Pietro - se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate Cristo, il Signore,
nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,13 ss.).
Così nella Chiesa si attua, per la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, la possibilità, anzi l'obbligazione di rispondere alla chiamata e al mandato, principalmente per ciò che concerne l'oggetto primario, il mistero principale della fede: Gesù Cristo Dio fatto uomo, morto e risorto, salvatore. Gesù Cristo, il testimone fedele - come dice esplicitamente l’Apocalisse, (1,5) - stabilisce quali suoi testimoni apostoli e discepoli: «coloro che ne furono testimoni fin da principio» (Lc 1,2), «che lo videro
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ETICA
E DEMOCRAZIA ECONOMICA
risuscitato» (Mc 16,14), «rendevano testimonianza della risurrezione» (A? 4,33), e potevano dire «siamo testimoni noi e lo Spirito Santo» (A? 5,32).
Di che cosa erano testimoni? Riguardo a che cosa affermavano che «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini?». «Il Dio dei nostri padri, rispose Pietro al Sinedrio nel processo, ha risuscitato Gesù, che voi avevate ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a Lui» (At 5,29,32).
Pietro, come Paolo Giacomo Giovanni e gli altri - la Chiesa, quindi, fondata sugli apostoli, (Ef 2,20) - rispondono alla chiamata, rispondono della chiamata: insegnano a rispondere alla chiamata, e della chiamata. Questo è il principio della risposta cristiana, del cristianesimo come risposta; della responsabilità cristiana, della fede operante come responsabilità.
4. Rispondere a chi? Di che cosa? La Chiesa deve rispondere anzitutto a, è responsabile anzitutto di fronte a Dio, suo autore e salvatore dell'umanità. Deve rispondere del mandato ricevuto, in conformità
ad esso. Ma che cosa riguarda il mandato,
comandamento, sul quale è fondata cristiani sia della Chiesa globalmente, Una prima indicazione particolare, a to didattico proposto - «Andate in tutto
o
la responsabilità sia dei singoli organicamente intesa? specificazione dell’ampio mandail mondo, ammaestrate [...]}tutte
le genti, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato», (Mt 28,19) - e dell'assistenza garantita, si ha negli Azt7, con l’organizza-
zione caritativa: In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, corse un malcontento tra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque fratelli tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera ed al ministero della Parola(6,14). Il testo va posto in relazione con l’altro, notissimo, che indica a sua volta
a quali problemi pratici la Chiesa primitiva si trova di fronte quando l'attuazione del precetto caritativo vien presa alla lettera per quanto concerne l’uso dei beni materiali: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed
SULLA «RESPONSABILITÀ»
DELLA CHIESA IN ECONOMIA
27
un'anima sola, e nessz70 diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni
cosa era fra loro in comune (4,32).
Una siffatta situazione comunionale nei confronti dei beni non era altro
che la derivazione immediata della «testimonianza» alla quale gli Apostoli erano stati, e si sentivano, chiamati. Sentiamo come prosegue, senza soluzione di continuità, il testo della narrazione: Con grande forza gli Apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti era tra loro bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto, e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At 4,33-35).
Eppure, nonostante che molte immagini, parabole e riferimenti del messaggio evangelico appartenessero al linguaggio e alla sfera dell’economia, nessuno come Gesù era sembrato alieno sia da preoccupazioni sia da problemi economici. «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano - aveva detto accumulatevi invece tesori nel cielo [...}» (M? 6,19). «Per la vostra vita
non affannatevi di quello che mangerete o berrete [...}; la vita non vale forse più del cibo, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo {...}. E chidi voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (Mt 6,25 e ss.).
«Basta ad ogni giorno la sua pena; il domani avrà la sua. Meglio è cercare il regno di Dio e /4 sua giustizia, così diversa da quella degli uomini; il resto sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33). «La perfezione è nell’essere e nel volere, non nell’avere e nel potere: il regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). «Chi vuol essere perfetto vada, venda ciò che ha, ne dia il ricavato ai poveri, e avrà un tesoro nel cielo» (Mz 19,21).
La ricchezza è ingannatrice e vana: «la vita di uno non sta nella ridondanza dei beni» (Lc 12,15). È insensato colui che pensa di potersi
concedere lunghi tempi di soddisfazioni rare, per il fatto d’essersi messo da parte un raccolto abbondante, frutto magari di lavoro non suo. Chi adora Mammona, personificazione del denaro, è idolatra. E chi mercanteg-
gia nel tempio viene cacciato. «Un comportamento e un tal giudizio sulla ricchezza, che turbano i farisei “avari” e disturbano le classi dominanti, sono arditi e nuovi. Dilatano l'economia terrena a una economia divina, e creano un’antitesi tra il giudizio di Dio e il comportamento della maggior parte degli uomini» !?. Eppureè proprio dalle pagine del Vangelo, dai comandamenti o dalle proibizioni generali riecheggianti o riguardanti l'economia come dalle
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ETICA
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vivide parabole, che emerge e si configura il principio, la verità, il fatto della responsabilità. Basti pensare a tre significative rappresentazioni: la parabola dei talenti (Mt 25,14 e ss.), quella del fattore infedele (M? 20,8), quella del ricco e di Lazzaro (Lc 16 ,20); 0, ancora più persuasivamente, all’ affresco cosmico del
Giudizio finale (Mz DS] 1). In ognuna di queste efficaci raffigurazioni, il fare umano ha per oggetto qualcosa che appartiene alla sfera economica, e per fine - fine come conclusione o termine, fine come scopo - un giudizio, che comporta la valutazione di chi giudica, la posizione di chi deve rispondere, la sanzione terminale. Il «padrone» (nella parabola dei talenti) o il re-giudice (nel giudizio finale) è Colui al quale non solo ogni uomo, ma la Chiesa - da lui fondata,
in nome suo operante - deve rispondere. Costruita sulla Pietra, ossia su colui al quale vengono promesse le Chiavi del Regno, ma di cui viene preannunciato anche il triplice rinnegamento, la Chiesa dovrà rispondere anzitutto di se stessa, del proprio atteggiamento nei confronti del Regno. Risponderà, attraverso i suoi capi visibili, se avrà ceduto alla tentazione di costruire sulla sabbia (M? 7,24 e ss.), o di farsi regno terrestre, uno di quelli che Satana promette a chi, prostratoglisi dinnanzi, lo adora (M? 4,8).
Ma la Chiesa dovrà rispondere, soprattutto, dell’uso che avrà fatto della Parola affidatale, del «depositum fidei», prezioso talento affidato agli Apostoli e da essi ereditato (1 772 6,20; 2 77 1,12; «custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo», 2 77 1,14), sia del tesoro -
deposito costituito dai «pauperes Christi», dai poveri di Cristo. Anche questo, del «deposito», è un termine derivato dal linguaggio economico-finanziario: e se nei testi paolini significa il patrimonio della fede, tesoro del Nuovo Testamento, come oggetto della responsabilità della Chiesa si possono intendere non tanto i beni e i regni di questo mondo, quanto gli uomini e il loro destino, la volontà di orientali al fine ultimo e i mezzi idonei per raggiungerlo, soprattutto se si tratta degli esseri umani più deboli e indifesi. Quando Lorenzo, diacono romano, viene sollecitato a consegnare i beni della Chiesa, è questo il tesoro che indica, senza ironia, al magistrato: i
poveri cristi che sono, appunto, i poveri di Cristo. Nella sua storia della civiltà cristiana !9, Federico Ozanam ricordava che
«in primo luogo, il Cristianesimo si proponeva la conquista delle coscienze, a cui Roma non aveva posto mai mente», ma ammetteva che la novità stessa di tale dottrina non necessariamente commuoveva i cuori, come accadde nel caso di Rathbod, duca di Frisia, il quale essendosi fatto de-
scrivere da San Vulframo il paradiso cristiano come alternativo del Walhalla dei suoi padri, avrebbe finito per dichiarare: «Preferisco andare a
SULLA «RESPONSABILITÀ» DELLA CHIESA IN ECONOMIA
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raggiungere i miei antenati, che imbrancarmi con tanti mendicanti» !?. Nessuno avrebbe tuttavia potuto negare, né potrebbe farlo oggi, che il Cristianesimo promuovesse «il rispetto per la dignità dell’uomo», come soggiungeva Ozanam !: il che equivale, anzitutto, ad attribuirgli la costante affermazione della priorità dell’essere sull’avere, dell’uomopersona sul suo stesso fare, almeno in via di principio: sul piano dei fatti, poveri uomini di Chiesa possono ben aver trascurato i poveri, beni della Chiesa, costituendosi in tal modo in uno stato di responsabilità diversa da quella di cui stiamo parlando. 5. Rispondere dell’uomo È noto che fin dalla prima generazione cristiana, che vide l’avvio e la presumibile fine dell’entusiastico tentativo comunistico nella Comunità di Gerusalemme, e Paolo elemosiniere tra le Chiese dell’oriente a favore
dei poveri, la Chiesa si trovò di fronte a problemi enormemente complessi. Non si arriva al cielo senza passare (e vivere) prima sulla terra; non si giunge all’anima dell’uomo se non attraverso il suo corpo. Paolo stesso, venendoa sapere di qualcuno che ritiene di poter vivere sulle spalle di altri, censura l’abuso e sentenzia lapidariamente «Chi non lavora, neppure mangi» (2 753,10). Il cristiano «si dia da fare lavorando onestamente» (Ef 4,28), come fa l’Apostolo stesso, che può dire «ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (1 Cor 4,12).
La stessa carità, precetto primario e originale del Cristianesimo !, non esclude ma presuppone la giustizia, che ha nella concezione, nella produzione, nell’uso dei beni economici tanta parte del proprio ambito. Se da un lato la dottrina di molti Padri intorno ai beni, alla loro produzione e utilizzazione, si svolge sulla base del principio della appartenenza di essi a tutti gli uomini °°, dall’altro la Chiesa cristiana non solo matura una estimazione positiva della ricchezza onestamente prodotta e caritativamente usata, ma matura pure un’esegesi più provveduta intorno ai più recisi comandamenti riguardanti i beni, il loro valore e uso: non gli squattrinati in quanto tali, non i «fuggifatica» vengono beatificati dal Cristo, ma coloro che tengono il cuore e lo spirito povero, pur operando per umanizzare la terra e migliorare le condizioni di vita degli uomini. É stato giustamente osservato che, a proposito dei primi secoli cristiani, «nelle altre correnti religiose e filosofiche del tempo non si rintracciano notevoli prove che si occupassero con certa attività e sistematicità dei problemi dell’economia; e uno dei fattori umani del più rapido successo del cristianesimo sulle altre religioni appoggiate dallo Stato o propagate dall’esercito, stette proprio in questo interesse umano portato alla soluzio,
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ne dei problemi della proprietà, del denaro e del lavoro, come condizionata dai precetti di carità e giustizia e ordinata, risolutivamente, al problema stesso della salvezza eterna» ?!. In fondo, la Chiesa sapeva di essere stata programmata, prima ancora che sulle rive del Lago - dove furono promesse a Pietro le Chiavi e ad essa la perpetuità, o dove, dopo la Resurrezione pasquale, furono affidati all’Apostolo pecore e agnelli (Gv 21,15 e ss.) - nella Sinagoga di Nazareth, entro la quale il Cristo si era direttamente riconosciuto nel vaticinio d’Isaia: Lo Spirito del Signore è sopra di me [...] e mi ha mandato per annunziare 47 poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e 47 ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi {...} (Lc 4, 18 e ss.).
Le pecore e gli agnelli da pascere erano pure uomini e donne da conservare in vita, da condurre o mantenere a quella dignità anche materiale che non si può avere sotto i limiti della pura sopravvivenza. Nulla giova all'uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde se stesso, ma per essere o diventare figlio di Dio egli deve prima passare per le fasi della crescita umana, salire la scala dei valori morali naturali che non sono preliminari ma, semmai, impliciti in quelli di cui il cristianesimo si fa banditore e
portatore. In parole, forse, più semplici: la Chiesa si propone al mondo, fin dalle origini del Cristianesimo, come esperta in umanità. Ogni credente deve poter dire, coi fatti se non con le parole, ciò che in senso forse diverso Terenzio aveva scritto: «Homo sum, nil humani a me alienum puto». Rifiutando di riconoscere l’autonomia dell’attività economica nei confronti della morale o la strutturale assolutezza dei valori e delle funzioni economiche nei confronti della restante realtà che sarebbe costituita da «sovrastrutture»,
la Chiesa non ha solo voluto costantemente
indicare
nell’approdo ultraterreno il fine dell’esistenza: anche se non sempre lo ha formulato e dichiarato con l’esplicita chiarezza della Rerum Novarum (n. 32), ha sempre considerato inalienabile il principio secondo il quale «a nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all'acquisto della vita eterna». Tale dignità, tale perfezionamento sono, insieme, condizione e via al fine. L'economia, in particolare, «è un fatto umano, o meglio, una successione di fatti che, compiuti dall'uomo, rivestono un carattere di responsabilità di fronte a Dio, alla coscienza, e alla società» °°. Nonostante l’enorme
trama d’implicazioni di taluni fatti economici, nei quali interagiscono «fattori complessi e quasi imponderabili che tentano di sottrarsi al controllo umano», la vita economica è libera manifestazione di volontà
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umane, dipende in ultima analisi dallo spirito, come ricordava Pio XII: «Nei rapporti tra gli uomini, anche solo economici, nulla si produce da sé, come accade nella natura, soggetta a leggi necessarie; ma tutto, in sostanza, dipende dallo spirito» °. Ben prima dei moderni documenti, delle sempre più note, discusse ed apprezzate prese di posizione della Chiesa in campo economico, molte attuazioni pratiche, non necessariamente derivanti da (o orientate a) formulazioni teoriche, stavano a dimostrare più che l’interesse, il doveroso
senso di responsabilità che la Chiesa provava nei confronti della sfera economica e, in particolare, del mondo del lavoro. Basti citare, per tutti, due fatti molto distanti nello spazio e nel tempo: il programma benedettino, all'attuazione del quale tanto dovette 1’economia europea in tempi difficili, e le «Riduzioni» dei Gesuiti nel Paraguay‘ Certo, a fronte si possono citare fatti e situazioni economico-storiche di enorme portata: citiamo, per tutti, il genocidio degli Indi, la tratta dei Negri e la schiavitù conseguitane Oltreatlantico, dalle colonie inglesi e francesi destinate a diventare gli Stati Uniti sino alle regioni meridionali del Brasile. Se ricordiamo che in quest’ultimo paese, il più vasto tra quelli a maggioranza cattolica, la schiavitù è formalmente finita solo con l’avvento della struttura repubblicana, un secolo fa, non possiamo non chiederci, perplessi, se e in che misura anche la Chiesa (alla quale universalmente si riconosce il merito d’aver fatto gradualmente sparire la schiavitù del mondo antico) possa dirsene responsabile: non come fautrice, certo, ma come sistema di potere parallelo a quello più propriamente economicopolitico, che forse non trovò in ogni caso, in ogni modo, la forza di scongiurare prima, di far cessare poi, il mortificante fenomeno. 6. Risposte mancate, responsabilità negative Marie-Dominique Chenu ha potuto scrivere che «in nessun modo la costruzione del mondo e la promozione dell’uomo sfociano per se stessi nell’avvento del Regno; né la natura né la storia hanno la capacità di rivelare il mistero di Dio
{...}. Nutrire gli uomini non equivale a salvarli,
anche se la mia salvezza m’impone di nutrirli {...]}. Sia pure nella loro angosciante ambiguità, soggiunge tuttavia il Teologo, {quest}i valori profani sono, per la loro stessa natura, in attesa. Essi hanno un serso implicito, senza dubbio non formulabile, al di là dell'apparenza materiale che li sostiene. Negli eventi che li fanno emergere davanti alla coscienza collettiva degli uomini, {...} la fede attenta potrà leggere i disegni di Dio PSSp=® Sarebbe interessante indagare se e in qual senso la Chiesa abbia inteso e potuto leggere, di volta in volta, i «segni dei tempi» nel corso della ,
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storia. Proprio perché essa stessa è nella storia, nella medesima storia in cui fluisce il mondo degli uomini, della quale i fatti economici - o riconducibili all'economia - sono tanta parte; proprio perché la Chiesa non può, essendo fatta di uomini, prescindere, nella sua stessa maniera d’essere e di
operare, dalla sfera economica, sia per l’organizzazione e l’amministrazione sua interna, sia per i rapporti che la collegano vitalmente al mondo, sia infine per la missione che le compete, di guidare l’uomo alla salvezza soprannaturale senza disincarnarlo, destoricizzarlo, ritagliarlo dal contesto
di cose e idee, sentimenti e risentimenti, azioni e reazioni, nel qualeè iscritto: tale impegno della Chiesa, che le viene dal suo stesso Fondatore «Ipocriti, sapete discernere l’aspetto della terra e del cielo, e come non discernete questo tempo?». (Lc 12,56) - figura tra le sue precise responsabilità.
Il discernimento dei «segni dei tempi» la colloca tra memoria e profezia, tra passato e futuro: esso è un diritto-dovere oggi meglio sentito che in passato. In Gaudium et spes (4 a) lo si dichiara apertamente: «È dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempie di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, inun modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche». A solo titolo di esempio, per non venir meno a un’elementare esigenza di oggettività, si potrebbe attribuire a uomini responsabili di Chiesa la «responsabilità» di non aver potuto, o saputo, leggere i segni dei tempi in tre stagioni cruciali della storia moderna, legate, ognuna a suo modo, alle trasformazioni poi in-
tercorse in campo sociale ed economico: la rivoluzione scientifica, la Rivoluzione francese, la rivoluzione industriale.
Dal secondo Ottocento - soprattutto in Francia e Germania - e dal pontificato di Leone XIII (c’è un gran salto di stile, metodo e contenuto
tra il Si//abo e la Rerum Novarum, anche se le prime parole dell’Enciclica sono tutt'altro che elogiative per i «molitores» di novità) alla corretta e tempestiva lettura e interpretazione dei segni dei tempi si accompagna nella Chiesa una crescente consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti dell'economia. Dato che un’ardente brama di novità agitava da tempo gli Stati, diceva Leone XIII introducendosi al tema, ne veniva come conseguenza che «i desideri di cambiamenti si trasferissero infine dall’ordine politico al settore collegato dell'economia [...}. Questa situazione
preoccupa e impegna [...} al punto tale che oggi non c'è problema che impegni maggiormente l’umanità» °°.
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7.La legittimazione delle «responsabilità» effettive Venuto meno, come Stato tra gli Stati, quel «principato civile» pontificio del quale papa Leone ricordava la provvidenziale funzione di «riparo dell’indipendenza» della Santa Sede (Immortale Dei, 5), constatato che da
ogni parte avanzavano i principii fondamentali del «nuovo diritto» contrario alla legge cristiana e al diritto naturale (14., 10), il pontefice rievocava Tertulliano, per indicare ai cattolici le posizioni da riconquistare, le presenze da rendere attive in ogni settore della vita pubblica: «Siamo da ieri, ed ecco che riempiamo tutti i luoghi che vi appartengono, le città, le isole, i castelli, imunicipi, i circoli, le caserme stesse, le tribù, le decurie,
il palazzo, il Senato, il foro» (Apo/., 37). «Ora - soggiungeva Leone - le presenti condizioni esigono che si rinnovino questi esempi dei nostri antichi» (12m. Dei, 20). In vista di quel rinnovato impegno, fatta attenzione a non cedere al razionalismo e al naturalismo, dichiarata la libertà
di scelta tra le varie forme di governo, l'Autore dell’Immortale Dei invitava i cattolici impegnati in politica alla concordia e alla carità, in termini che a noi sembrano di sorprendente attualità: «Nella lotta, che attualmente si combatte per cose della più alta importanza, bisogna assolutamente far tacere le discordie intestine e le gare di partito; e debbono tutti con lo stesso intendimento e con il medesimo spirito indirizzare le loro forze allo scopo comune, che è quello di salvare i grandi interessi religiosi e sociali» (n. 21 b). In tal modo i cattolici avrebbero permesso di conseguire due scopi importanti: agevolare alla Chiesa la missione di fare e conservare cristiano il mondo, e nel tempo stesso rendere il più ampio servizio alla società civile minacciata da «dottrine sovversive e passioni colpevoli» (I0.). Con la Graves de communi (18 gennaio 1901) papa Leone partiva prendendo atto che «anche gli avversari dei cattolici, colpiti dalla verità dei fatti, non esitarono a dichiarare che alla Chiesa cattolica compete la missione di dare aiuto a classi sociali, e specialmente ai diseredati dalla fortuna» ?”. Effettivamente veniva gradualmente a chiarirsi, e con frequenza crescente ad essere recepita, la serie delle motivazioni non contingenti ma sostanziali che giustificavano le responsabilità, intese come legittime competenze, anzitutto, e gli interventi quindi, della Chiesa in re @economi-
ca. Ben prima che Paolo VI la definisse, con moderna eloquenza, «esperta in umanità», la Chiesa asseriva, da sempre, la connessione vigente tra economia e morale, ed allargava al di sopra delle divisioni di classe e delle frontiere i criteri, i principii, i comandamenti, i divieti che in materia de
fustitia et jure occupavano tanta parte dei manuali di teologia morale applicabile per lo più in ambito privatistico e 44 usum confessariorum. La Chiesa è una società di origine divina, ma fatta di uomini e per gli uomini. Poiché le connessioni tra economia e politica, politica e morale,
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morale ed economia, e religione morale economia politica, andavano via via chiarendosi e rinforzandosi anche a livello teorico e dottrinale (sul pia-
no pratico vigevano da quasi sempre), come avrebbe potuto la Chiesa, depositaria di un messaggio destinato a tutto l’uomo, a tutti gli uomini, ignorare la formazione e la disponibilità di spazi - di evangelizzazione, di ricerca, di dibattito - già contesi tra le grandi forze culturali, economiche, sociali che polarizzavano gli interessi le attenzioni le speranze di tanta parte dell'umanità? Giovanni XXIII avrebbe osato dichiarare, nell’Enciclica Mater et Ma-
gistra (il cui titolo già è programmatico, riferito alla Chiesa): «Riaffermiamo anzitutto che la dottrina sociale cristiana è parte integrante della concezione cristiana della vita» (n. 231). Se ci fosse stato bisogno di ribadire
un tale asserto, papa Giovanni avrebbe aggiunto che «la verità e l’efficacia della dottrina sociale cattolica vanno dimostrate soprattutto offrendo un orientamento sicuro per la soluzione dei problemi concreti {...}» (n. 234).
Ma nessun documento ecclesiastico precedente il Concilio uguaglia per ampiezza d’orizzonte, suggestione descrittiva e coerente ricchezza concettuale la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, detta, dalle prime parole latine (molto belle esse stesse), Gaudium et spes: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali {...} hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la storia (Proemzo, 1).
Umanità, solidarietà, salvezza; educazione, partecipazione, responsa-
bilità: sono gli elementi portanti di quelle pagine della «Costituzione» che ruotano attorno ai nn. 30 e 31. E nel titolo di quest’ultimo, «De responsabilitate et partecipatione» che il termine responsabilità appare non solo come neologismo latino, ma come espressivo di un valore non facilmente ottenibile. «Ad hunc responsabilitatis sensum homo vix pervenit», a tale senso di responsabilità l’uomo giunge con difficoltà, se le condizioni di vita non gli permettono di prender coscienza della propria dignità, e di rispondere alla propria vocazione, prodigandosi per Dio e per gli altri (n. 31).
8. Dalla responsabilità alle responsabilità Anche in quanto conosce per lunga esperienza tale difficoltà, la Chiesa rivendica, non riconosce soltanto, a se stessa la competenza e il diritto, anzi
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il dovere e la responsabilità, di educare l’uomo al senso della responsabilità, a considerarsi, cioè, responsabile, dinanzi a Dio ed ai propri simili, così co-
me la Chiesa lo è da parte sua. Proprio per rispondere efficacemente al fine per cui è stata istituita - che è quello di aiutare l’uomo a raggiungere il fine soprannaturale - la Chiesa si ritiene obbligata a proporre, anzitutto, il messaggio di cui è depositaria. È un messaggio di giustizia e di carità, di verità e di amore: un messaggio affascinante ma esigente. Ad un’umanità che sta rapidamente ripiegando, dopo una millenaria fatica dispiegata dalla Chiesa per diffondere insieme il senso della responsabilità individuale e della solidarietà caritativa, sugli angusti spazi dell’egoismo utilitaristico, la Chiesa propone il superamento dell'etica individualistica. L'osservanza degli obblighi sociali, all'adempimento dei quali non basta la coercizione delle leggi umane munite di sanzioni, va posta «tra i doveri principali dell’uomo» (n. 30). E poiché la crescita culturale e l’approfondimento e l'allargamento del senso della responsabilità, appunto, sono legati alle condizioni materiali di vita, «bisogna stimolare la volontà di tutti ad assumersi la propria parte nelle comuni imprese» (n. 31). E anche se la missione fondamentale della Chiesa non è di ordine politico e sociale, i credenti «quando agiscono quali cittadini del mondo [...} non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi [...]: escogitino senza tregua nuove
iniziative, ove occorra, e le realizzino»
(n. 42 b). C'è in questa
vigorosa esortazione del Concilio un’anticipazione dell’impegno che Giovanni Paolo II, nella So/licitudo rei socialis (n. 38) assegna ai cristiani ed a
tutti gli uomini di buona volontà perché aprano nuove vie, tra i «massimi {due] sistemi del mondo», tra il liberismo capitalistico e il collettivismo
marxistico, alla partecipazione e alla socialità, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. C'erano già nella Gaudium et spes (nn. 68 e ss.) le forme espressive della responsabilità che la Chiesa sente, ed insegna, riguardo alla partecipazione dei lavoratori nell'impresa, delle condizioni di lavoro, del tempo libero, del diritto di associazione per tutti i lavoratori, alla luce del grande principio cristiano, formulato sulla scorta della Bibbia fin dai Padri dei primi secoli: «i beni della Terra sono destinati a tutti gli uomini». Se l’accesso alla proprietà privata, nella misura necessaria allo sviluppo della persona, è da aprire possibilmente a tutti, la funzione sociale di essa va ugualmente tenuta presente (n. 71, a-e).
Queste erano, e rimangono, solo alcune espressioni dell’impegno responsabile che la Chiesa dei nostri tempi si riconosce da un lato, e fa presente ai cristiani dall’altro. Si tratta, com'è noto, di posizioni non sem/
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pre facilmente componibili; di principî generali che per essere concretamente applicati esigono mediazioni culturali e riflessioni teoretico-pratiche tutt'altro che agevoli. Perciò va riconosciuto che la Chiesa, quasi per recuperare tempo e terreno perduto nel corso di secoli interi, durante i quali il suo sforzo di meditazione e di insegnamento si concentrava in altre direzioni, o astrattamente ideologiche o puramente difensive, si sta sottoponendo ad uno sforzo, di ricerca teorica e di engagement pratico, non più unidirezionale in senso verticalistico, non semplicemente soprannazionale ma planetario, per farsi portatrice di principî, che, se appartengono alla
novità cristiana delle origini, sembrarono - e forse di fatto furono - per lunghe stagioni eclissati 0 obliterati. Si pensi alla responsabilità, di cui la Chiesa si fa carico, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo (cfr. dalla Gaudium et spes, 69 b - 70 a), e all’elaborazione ulteriore del concetto stesso di sviluppo, intercorsa tra la Populorum progressio di Paolo VI e la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II; all'’argomentazione sulla responsabilità dei ricchi (Populorum progressio, passim), alla recisa dissociazione della Chiesa dalle posizioni plutocratiche 28, Anche una semplice elencazione delle prese di posizione, degli interventi compiuti a livelli diversi (dalla tribuna dell’o.N.u. alle Conferenze
episcopali) in base alle responsabilità che la Chiesa ritiene di avere, e al senso di responsabilità che intende promuovere il più ampiamente possibile, diventerebbe ardua, oltre che poco producente.
9. Il coraggio della responsabilità: l'esempio della Chiesa negli Stati Uniti In tutto il mondo, non si stenta a riconoscerlo, la Chiesa si sta muo-
vendo, come forse mai era accaduto negli ultimi secoli, al fine di chiarire sempre meglio il rapporto vitale che lega l’uomo e l'umanità al mondo per
un verso, a Dio per l’altro. L’inaudita diffusione dei mezzi di comunicazione sociale, che collegano rapidamente gli uomini viventi sulla faccia della terra, e l’interdipendenza delle comunità politiche, delle vicende
economiche, dei fenomeni sociali, allargano su scala mondiale problemi - come quello della fame o della sanità - che per lunghe epoche riguardavano o colpivano singole zone della Terra, e lasciavano ignare o indifferenti le altre. Ma oltre a figure di singoli profeti, come potrebbero definirsi Helder Camara in Brasile, Madre Teresa a Calcutta, esistono organismi ecclesiali degni di particolare attenzione per le posizioni prese negli ultimi tempi in fatto di assunzione di responsabilità in campo economico-sociale. Citiamo, come esempio, l’Episcopato degli Stati Uniti, proprio perché in passato non era sembrato particolarmente distinguersi in tale direzione,
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data la specifica articolazione di quella vasta chiesa locale. In Economic Justice for All ??, documento approvato dall'Assemblea generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti nel novembre del 1986, i Vescovi hanno indirizzato ai fedeli una lunga lettera come invito personale (ecco la pedagogia della responsabilità) «affinché usino le risorse della {...]} fede, la forza dell’ {...] economia e ciò che è offerto dalla {...} democrazia per
formare una società che meglio protegga la dignità e i diritti fondamentali dei nostri fratelli e delle nostre sorelle nel {...} Paese e in tutto il mondo» (5-6).
Si profilano fin dall’inizio, nel pregevole documento della Chiesa nordamericana, sfidata più di tante altre dall’efficientismo produttivistico, dal mercantilismo capitalistico e dal culto del reddito che caratterizzano la grande
Federazione,
tre fattori connessi
tra loro strettamente:
fede,
economia, democrazia. Si dichiara apertamente che «i seguaci di Cristo devono evitare una tragica separazione tra la fede e la vita di tutti i giorni» (7); si ricorda che in quanto cattolici si è eredi di una lunga tradizione di pensiero e di azione sulle dimensioni morali dell’attività economica (n. 8, 8); e non si teme di affermare, dissociandosi da un certo trionfalismo economicistico che dal Paese risuona nel mondo, che i Ve-
scovi proprio in quanto tali sentono «i dolori e le speranze del nostro popolo {...}. I poveri e i membri vulnerabili della società sono sulla soglia della nostra casa» (n. 10, 9).
Per chi, come noi, respira da un secolo l'atmosfera creata dall’insegnamento sociale della Chiesa, non fa meraviglia lo schema di una presa di posizione che ha suscitato negli Stati Uniti reazioni notevoli, di segno diverso. Giova tuttavia rivederne sommariamente le indicazioni salienti,
che prospettano recisamente le responsabilità di cui la Chiesa si sente investita: - ogni decisione ed istituzione economica dev'essere giudicata da questo: se protegge o se scalza la dignità della persona umana; - la dignità dell’uomo può essere realizzata e protetta solo nella comunità;
- tutta la gente ha il diritto di partecipare alla vita economica della società;
- tutti imembri della società hanno un obbligo speciale verso i poveri e coloro che sono vulnerabili;
- i diritti umani sono la condizione minima per la vita in comunità; - la società nel suo insieme, agendo attraverso istituzioni pubbliche e private, ha la responsabilità morale di aumentare la dignità dell’uomo e di proteggerne i diritti (nn. 13-18, 10-12). Il massimo dell’assunzione di responsabilità, da parte della Chiesa, consiste nel lavorare efficacemente affinché i poveri possano «ottenere il
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potere di farsi carico del proprio futuro e diventare responsabili del proprio avanzamento economico» (n. 201, 136). Ora è noto che la povertà è tan-
to più mortificante quanto meno permette a chi ne è afflitto di prenderne coscienza, di diventare consapevole del proprio diritto di uscirne e dei relativi doveri che incombono sul corpo sociale. Aiutare la gente indifesa a prendere coscienza dei propri diritti, sentire questo «aiuto» come una diretta responsabilità, mettere i «poveri» in condizione di agire responsabilmente, e anzitutto di trovarsi di fronte un interlocutore valido che li ascolti e si prenda cura di loro, altro non è che realizzare il messaggio evangelico nella sua prima fase: «ai poveri è portata la lieta Novella» (MI d55) 10. Conclusione
Se l’ingiusta distribuzione dei beni materiali costituisce una minaccia per il mondoe la pace, e la minoranza dei ricchi e la moltitudine dei miseri è un sintomo grave per le nazioni, come dichiarò appassionatamente Giovanni Paolo II all’o.N.u. il 2 ottobre 1979 9, strettamente collegati con la gestione economica del mondo sono i pericoli che incombono sull’ambiente, sulla natura, sulla Terra tutta, casa dell’uomo. Anche in questo
campo la Chiesa sta assumendosi le proprie responsabilità, e va precisando sempre meglio un atteggiamento e un insegnamento che in passato si fermavano alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, padrone, sulla natura
a lui finalizzata ?', sulla base di quanto già il Concilio andò insegnando. E ancora Giovanni Paolo II che, aprendo solennemente la Laborem exercens ricorda, tra i fattori nuovi operanti in relazione al mondo del lavoro, «la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale, e del suo insopportabile inquinamento». Le nuove condizioni di vita e di attività, le esigenze nuove continuamente emergenti, richiedono per un verso «un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell'economia odierna», per l’altro impongono alla Chiesa, come suo compito e responsabilità, «di richiamare sempre la dignità e i diritti degli uomini del lavoro, e di stigmatizzare le situazioni in cui essi vengono violati, e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società» (L.E., 1 0). Richiamare, stigmatizzare, orientare: tre momenti dell’assunzione, e dell'esercizio, di evangelica, reale, morale responsabilità della Chiesa di
oggi e di domani nei confronti dell'economia, per il bene dell’uomo.
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! I documenti sociali della Chiesa, Massimo, Milano 1983.
° N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1964, 729. ì A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, ISEDI - Mondadori, Milano 1980, 748.
* G. SEMERARI, Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1957. ° GEORGES-CALONGHI, Dizionario latino-italiano, Casa Editrice Libraria, Torino 1945.
° R. COSTE, La responsabilité politique de l’Eglise, 1973 {tr. it. La responsabilità politica della Chiesa, Roma
1974].
4R. Coste, La responsabilité politique de l’Eglise, tr. it. cit., 36. Ivi, 38. ; ? G. SEMERARI, Responsabilità e comunità umana , Bari 1960, 257. 10 Iyj, 258.
!! R. COSTE, Morale internationale, Paris 1964, 99-100. 12 Iyg, 535.
13 Tommaso D'AQUINO, I-II, 94, 2.
14 J.J. Rousseau, Dx contrat social, Paris 1962, I, 8, 247. ! I. GIORDANI, I/ messaggio sociale del cristianesimo, Roma 1960, 50. È F. OzaNAM, La civilisation crétienne chez les Francs {tr. it. Civiltà cristiana, Torino 1933]. Ult; 32.
18 Ivi, 36.
!? AA.VV., La Carità, teologia e pastorale alla luce di Dio-Agape, EDB, Bologna 1988. 20 Cfr. Clemente Alessandrino, P4ed., II, 12; Novaziano, De Trinit., I: «Tutte le cose Dio ha dato in servitù dell’uomo, mentre lui solo volle fare libero»; in I. GIORDANI, I/ messaggio sociale del cristianesimo, cit., 554, n.
2 Ibidem, 553. 2° Cfr. A. PIAZZA, in P. PAVAN, L'ordine economico, Torino-Roma 1957, 5. 3 Radiomessaggio natalizio del 1944, in P. PAVAN, L'ordine economico, cit. 24 Sulle quali anche L.A. MURATORI si esercitò con un’opera apologetica interessante: // cristianesimo felice delle missioni de' Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, Venezia 1743. 2 M.D. CHENU, I segni dei tempi, in La Chiesa nel mondo contemporaneo, Brescia 1967, 99 s. 26 Introduzione alla Rerum novarum, in 1 documenti sociali della Chiesa, cit., 99. 27 N. 2, in I documenti sociali della Chiesa, cit., 152.
28 III Sinodo dei Vescovi: Documento su La giustizia del mondo, 1971.
29 Economic Justice for AU {tr. it. Giustizia economica per tutti, Edizioni Lavoro, Roma 19871. 30 Cfr. in I documenti sociali della Chiesa, cit., il n. 40, 1217 ss. 3! Cfr. Gaudium et spes, 33 a, 67 b, 53 a.
Riflessioni conclusive di Mons. Fernando Charrier e Ramon Sugranyes de Franch
1. L'articolazione del Seminario
Il Seminario si è articolato in due giornate. La prima, consacrata ad una ricognizione di prospettive degli Scenari di evoluzione dell'economia, ha portato l’attenzione, attraverso due relazioni, su due aspetti diversamente rilevanti degli attuali processi di innovazione economico-finanziaria: il primo riguarda le dinamiche e le potenzialità che, attraverso profonde mutazioni degli equilibri di questi ultimi decenni, stanno ridisegnando gli assetti delle relazioni economiche a livello mondiale; il secondo concerne invece l’impatto che questi processi stanno esercitando sui paradigmi della scelta economica che si trovano oggi investiti dall’esigenza di riformulare le basi e le prospettive della loro stessa concettualizzazione. La seconda giornata ha affrontato alcuni nuclei tematici essenziali che le trasformazioni in corso fanno emergere come livelli strategici di un'evoluzione degli scenari che si proponga il mantenimento e l’espansione dell’ideale democratico: la ridefinizione dei rapporti tra etica ed economia, sia come base di una rappresentazione più comprensiva, e più integralmente umana del fatto economico, sia, e conseguentemente come base della ricerca di nuove regole dei comportamenti economici; la riprogettazione da una parte dei modi e degli strumenti della partecipazione dei lavoratori ai processi economici e, dall’altra, degli obiettivi e delle istituzioni politiche del governo di questi processi; la presa di coscienza della responsabilità della Chiesa e dei cristiani in ordine all’esigenza di cooperare ad una riuscita umana del cambiamento. I nodi così toccati nella sede del Seminario non potevano formare che l'oggetto di una prima riflessione, ma a partire dalle prospettive che ne sono emerse, il Seminario ha fornito alcune piste per lo sviluppo di ulteriori maturazioni.
2. Gli obiettivi del Seminario
La prospettiva del Seminario si situa nello sforzo che la Chiesa, sia nel
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suo magistero universale sia in quello particolare dei vari episcopati nazionali (e continentali) sta dispiegando attorno ai problemi specifici del campo economico. L'insegnamento sociale cristiano è impegnato da più di un secolo sui grandi problemi della società; ma il suo punto di vista, per lo più governato da una prospettiva di etica sociale generale, è venuto ritrovando la specificità dell'ambito economico, nella peculiarità dei suoi meccanismi e delle sue dinamiche, in tempi più recenti. Fattori diversi hanno contribuito a maturare questa prospettiva. Nella società, prima la grande crisi degli anni Trenta e poi, nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, la problematica dello sviluppo e la crisi degli anni Settanta, hanno progressivamente centralizzato la questione economica come orizzonte strategico delle società in progressiva interdipendenza (di pari passo con la centralità che la disciplina economica andava conquistando nelle scienze umane alle quali finiva per imporre l’immagine di uomo che era venuta elaborando nei suoi cantieri). Nella Chiesa, i contributi competenti di Perroux, Lebret, Vito ed altri,
e la presa di coscienza sia del magistero che dei movimenti, contribuivano per parte loro a preparare gli sviluppi recenti dell’insegnamento sociale cristiano e quella che è stata chiamata la sua «entrata in economia». Questa acquisizione di campo non rimaneva senza conseguenze sull’insieme di questo insegnamento. Proprio attraverso una più attenta considerazione dei fattori economici all’opera nella società, la Chiesa si apriva il varco per prendere dimestichezza con la «complessità» dei sistemi e con l’esigenza, pertanto, di accostarne i problemi «in diretta», nella varietà dei campi, delle situazioni e delle interazioni. L'integrazione del fattore «principi» e del fattore «competenze» diveniva così, oltre che una prospettiva di innovazione metodologica nella formazione stessa dell’insegnamento sempre più aperto all’apporto laicale, un'ottica destinata a ridefinirne il campo, nella continuità dei presupposti. Così, in questi sviluppi, non solo risulta evidente l’abbandono di un'ipotesi di modello di società cristiana da far entrare in competizione con gli altri modelli storici, magari al modo di una «terza via»; ma risulta pure evidente che il luogo specifico dell’insegnamento sociale cristiano diviene sempre più consapevolmente teologico (e questi sviluppi, nella recente So/licitudo rei socialis di Giovanni Paolo II, trovano la loro decisiva conferma).
Questo insegnamento domanda alla parola di Dio i criteri di un discernimento delle situazioni e dei valori che vi sono in gioco per suscitare coscienza e comportamenti conseguenti. Meno esposto alla cattura ideologica, risulta più efficace nell’identificare le cause delle distorsioni dei sistemi e quindi nell’indicare le azioni da intraprendere per umanizzare funzionamento e effetti. L’evangelizzazione, così, raggiunge sempre più Ni
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gli uomini nei loro habitat effettivi e nelle condizioni concrete della loro esistenza. Tutto questo aiuta a capire come oggi la parola sulla società di un magistero meglio situato rispetto al compito di cogliere i problemi dell’uomo contemporaneo, risulti anche più critica e profetica nel denunciare l'ingiustizia sociale sia all’interno dei paesi sviluppati sia nei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri. In una prospettiva di ascolto e di interpretazione, il Seminario ha contribuito alla presa di coscienza di uno degli aspetti più significativi dell’attuale situazione: l'apparente contraddizione tra la diffusa perdita di evidenze etiche comuni e un crescente bisogno di senso nei vari ambiti della vita dell’uomo e della società. Al di là della teoria, è oggi sempre più avvertito anche nella pratica economica il bisogno di nuove regole che consentano di integrare lo sforzo di «razionalizzazione tecnica» di questa fase dello sviluppo con la prospettiva di una «razionalizzazione morale». Unsecondoobiettivo del Seminario è stato quello di approfondire il fatto che, al di là dei miti neo-liberisti, proprio questo bisogno di integrazione, nella misura in cui orienta alla ricerca di un’umanizzazione dei
processi economici, domanda altresì la partecipazione degli interessati uomini e popoli - e quindi una espansione dell'ideale democratico. La nostra età di cultura sta prendendo coscienza che, rispetto alle formulazioni tradizionali dei modelli sociali, gli spazi di praticabilità di una terza via sembrano esaurirsi; le ipotesi di una seconda via - quelle propugnate dai socialismi reali - sono in profonda crisi; pare che oggi la sfida resti quella di misurarsi con i successi e gli squilibri della prima. La posta in gioco diviene, così, la ricerca di una ridefinizione del rapporto tra economia di mercato e democrazia. E in questa ricerca, se l'elemento etico non diviene fattore propulsivo di una maggiore democrazia economica, rispetto al mercato, si esporrà a processi involutivi la de-
mocrazia politica e lo stesso mercato potrà conoscere forme degenerativa ed espandere degenerazione (sociale, ambientale, ecc.). Si capisce allora, ancor meglio, come la dimensione etica sia oggi strategica ai fini di cogliere e di promuovere ciò che, in questo orizzonte, consente od ostacola uno sviluppo a misura d'uomo. Nel suo discorso ai partecipanti al Seminario, anche il Santo Padre ha insistito sull’urgenza della democrazia economica, intesa non solo come partecipazione di tutti i soggetti interessati alle decisioni che li concernono nell'impresa, ma anche alle strategie macroeconomiche della società. Giovanni Paolo II ha ricordato, inoltre,
che il profitto non può essere di pochi, ma deve essere equamente ripartito. 3. Piste di riflessione
Il Seminario, anche per individuare meglio la specificità del proprio
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contributo di riflessione, ha tenuto presenti almeno le seguenti tre piste di riflessione. a) Gli scenari internazionali risultano oggi molto più articolati e depolarizzati, dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Questo vale sia per le aree sviluppate che per le cosiddette aree in via di sviluppo. Nell’economia di mercato del Nord - com'è stato osservato - emergono tre poli le cui rispettive economie giocano oggi ruoli sensibilmente differenziati sulla scena mondiale: gli Stati Uniti, con un'economia individualistica all’interno e di dominio o controllo internazionale all’esterno; l'Europa, con un’economia cooperativistica all’interno e di mediazione internazionale all’esterno; e, infine, il Giappone con un’economia di mercato gerarchizzata e di espansione ‘internazionale anche attraverso l'integrazione. Per parte sua anche il Sud non può più essere rappresentato unitariamente e conosce al proprio interno ritmi e forme diverse di sviluppo e di aggregazione. Queste economie, e i rispettivi sistemi, si trovano oggi a vivere un accelerato processo di interdipendenza che, ormai, non è più solo tra loro, ma che, progressivamente, con la crisi della «seconda via», si apre a nuovi grandi soggetti che non potranno non esercitare un impatto sul sistema globale. Tutto ciò, mentre mette in crisi le forme e le istituzioni dei governi nazionali dei sistemi, richiede sempre più efficacemente regole e istituzioni in grado di governare a livello globale.
b) Lo sviluppo delle economie, il progresso tecnico, particolarmente delle comunicazioni, hanno reso possibile questa fase di interdipendenza delle società e dei sistemi. E in questo quadro che si registra l'espansione dell’economia di mercato anche a contesti che non ne erano stati prima
toccati e questo sicuramente rende possibili nuove prospettive di sviluppo. E tuttavia non si può non vedere che questa può essere anche l’occasione di un'espansione di quei processi degenerativi che le economie di mercato non sono riuscite a mettere efficacemente sotto controllo al proprio interno. In particolare la dimansione ecologica costituirà sempre più in avvenire la grande sfida per l'economia dei paesi altamente industrializzati e non. E proprio attraverso questa dimensione di globalità di interdipendenza diventerà sempre più quella di una comunità di destino.
c) È sempre più chiaro che la dimensione etica diverrà sempre più la chiava decisiva sia per orientare gli strumenti dell’analisi e dell’interpretazione del cambiamento, sia per orientare i criteri di elaborazione della progettualità storica.
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Lo «spirituale» e le Chiese devono prendere sempre più coscienza che questa fase del divenire delle società, lungi dal marginalizzarne il contributo, le interpella direttamente: non per un ruolo politico ma per una animazione «sapienziale» dello sforzo comune dell'umanità. I laici cristiani, per parte loro, si troveranno così sempre più impegnati non solo in comportamenti coerenti con la loro etica nella pratica economica, ma ad orientare le loro energie in uno sforzo di creatività e di elaborazione teorica che consenta sia di interpretare il nuovo alla luce di una ispirazione etica cristiana, sia di individuare piste e strumenti di progettualità al servizio di una economia più umana.
Gli Autori
Prof. Achille Ardigò, Università di Bologna Prof. Louis Baeck, Università Cattolica di Leuven Prof. Ferruccio Bresolin, Università di Venezia S.E. Mons. Fernando Charrier, Presidente della Commissione
Episcopale per i problemi sociali e il lavoro - C.E.I.
Giampaolo Crepaldi, Direttore dell'Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro - C.E.I. Prof. Siro Lombardini, Università di Torino S.E. Mons. Pietro G. Nonis, Vescovo di Vicenza
Prof. Roberto Papini, Università di Trieste, Segretario Generale dell’Istituto Internazionale «J. Maritain»
Prof. Amartya Sen, Università di Harvard
Prof. Ramon Sugranyes de Franch, Università di Friburgo, Presidente dell'Istituto Internazionale «J. Maritain» Prof. Francesco Totaro, Università di Macerata
Prof. Tiziano Treu, Università di Pavia
Prof. Stefano Zamagni, Università di Bologna
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Finito di stampare nel giugno 1990
con i tipi della Casa Editrice Marietti presso il Consorzio ‘‘Tipogréfia Umbra” L a Città di Castello - Perugia
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