Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri 886822920X, 9788868229207

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini e Todo modo (1976) di Elio Petri: due film gemelli ed est

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Italian Pages 328 [330] Year 2020

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Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri
 886822920X, 9788868229207

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Collana diretta da Roberto De Gaetano

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GiacOMO taGliaNi

EstEtichE DElla vERità Pasolini, Foucault, Petri

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Frontiere. Oltre il cinema collana diretta da Roberto De Gaetano Comitato scientifico Gianni canova, Francesco casetti, Ruggero Eugeni, Pietro Montani, Dork Zabunyan Coordinamento alessandro canadè

volume stampato grazie ai fondi dedicati del progetto PRiN 2017 “Archivi audiovisivi del Sud: la modificazione del paesaggio meridiano negli anni compresi fra il 1948 e il 1968” del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo.

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - cosenza - italy Isbn 978-88-6822-920-7 stampato in italia nel mese di ottobre 2020 da Pellegrini Editore via camposano, 41 - 87100 cosenza tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

i diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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iNDicE

introduzione. 1975-1976: alle origini del contemporaneo

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i. il POtERE PastORalE: tEcNichE E iMMaGiNi verità e politica la verità del pastore confessione ed esercizi spirituali sorveglianza, governo, conformazione soggettività e soggettivazione

25 25 33 40 53 60

ii. FRaMMENti Di uN DialOGO iMMaGiNaRiO Foucault, Pasolini, Petri e ancora Foucault Foucault-Pasolini Pasolini-Petri Sciascia-Barthes il paradigma biopolitico della modernità

69 69 73 80 87 94

iii. la laMa taGliENtE DEl PastORatO: Salò O lE 120 giOrnatE di SOdOma Eccezione fascista Balcone, folla lo spettacolo del dolore cortocircuito: sovranità, disciplina, governo Marzabotto o le 120 giornate di salò

105 105 111 123 141 155 5

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Epilogo: Margherita, o l’apertura alla vita iv. il GOvERNO DElla salvEZZa: tOdO mOdO “Bisogna processare i gerarchi DC” Figure e luoghi pastorali imago Christi: conformazione, inversione, deformazione il giudice e il confessore critica del giudizio

170 179 179 185 197 219 235

v. il ciNEMa italiaNO: uN laBORatORiO aNaliticO Oltre Pasolini e Petri confessione e racconto una nuova etica del sé verità e potere Parresiasti

245 245 250 256 268 283

conclusioni. iconologia e teoria critica

303

indice dei nomi e dei film

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introduzione

iNtRODuZiONE 1975-1976: alle origini del contemporaneo

Prima e oltre la verità, l’uomo ha un altro dovere, ben più grande nIkos kazantzakIs, Zorba il greco

Etica ed estetica del sé vincere restando se stessi. anzi, restare se stessi per vincere. Nell’articolazione di questa dinamica c’è il segreto del successo nella società contemporanea, almeno quella italiana. se in principio fu il grande Fratello, e immediatamente dopo tutti i suoi epigoni, ora sembra non vi siano più ambiti dell’esistenza esentati da tale connubio, dallo sport alla politica: la veracità al potere. Sotto i nostri occhi si dispiega ininterrottamente tutta un’etica dell’autenticità, l’ingiunzione ad aderire perfettamente alla propria verità interiore liberandosi dai vincoli delle costrizioni culturali e delle buone maniere, per essere finalmente e pienamente se stessi. D’altronde, questo la gente vuole. O almeno così si dice. L’interiorità dell’individuo non è più oggetto di mistero, ma un vanto, un valore da esibire: di fronte al pubblico si confessano i pensieri più reconditi, la fede è chiamata a dirigere le azioni e successivamente a sanzionarle, la condotta privata è invocata a testimone per la bontà di quella pubblica. 7

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EStEtiChE dElla vErità

A ben vedere, nelle immagini che compongono il variegato panorama audiovisivo contemporaneo si assiste a una riattivazione differita di alcune strategie che hanno segnato la storia occidentale sin dai suoi albori, presentando problemi nuovi e rinnovando la propria efficacia. Nel novero di queste tecniche ritornate oggi così prepotentemente alla ribalta e che Michel Foucault ha definito “tecnologie del sé”1, è la confessione ad aver giocato un ruolo di primo piano, anche perché unica a godere di una dimensione figurativa ben codificata: lo spazio del confessionale, con cui ciascuno ha ormai familiarizzato, se non addirittura interagito. Ma, immergendo lo sguardo più in profondità, è possibile imbattersi in un ventaglio di strategie e tecniche che, prendendo forma sugli schermi e nelle narrazioni che affollano la quotidianità, si presentano come un aggiornamento dislocato di pratiche antiche, quali ad esempio l’esame e la direzione di coscienza, o gli esercizi spirituali. Sono questi gli elementi che compongono quella declinazione specifica del potere definita pastorale, una modalità di governo degli individui molto particolare, capace di adattarsi al mutare delle condizioni storiche, politiche e istituzionali attraverso il semplice aggiornamento dei propri meccanismi di funzionamento. il costante ritorno di un “lessico pastorale” in momenti di crisi recenti ne testimonia già la forza: l’odierna epoca pandemica ha reso di uso comune la

Per un’introduzione si veda, tra gli altri, tecnologie del sé. Un seminario con michel Foucault, a cura di l.h. Martin, h. Gutman e P.H. Hutton, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1992. 1

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introduzione

controversa espressione “immunità di gregge”, così come l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al Soglio Pontificio nel 2013, nel periodo forse più delicato per la Chiesa Cattolica, è stata salutata come l’arrivo di un Papa pastore in grado di recuperare le pecore smarrite e riportare l’unità nel gregge. Lo stesso Francesco i, durante la sua prima Messa crismale, aveva esplicitato chiaramente la sua visione dell’opera sacerdotale: «Questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello, invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge»2. una prerogativa che può essere anche trasferita dentro la sfera secolare: «Che l’esempio di questi pastori preti e “pastori medici” – è stato l’auspicio del Papa nella preghiera per le vittime del Coronavirus nella giornata del Buon Pastore – ci aiuti a prendere cura del santo popolo fedele di Dio»3. Oltre la dimensione ecclesiastica, il pastorato diventa un modello generale di governo che vede impegnato il soggetto nella sua relazione con sé e con gli altri attraverso una serie ben definita di operazioni pratiche e spirituali che inevitabilmente assumono

2 “santa Messa del crisma”, Omelia del santo Padre Francesco, 28 marzo 2013 (consultabile qui: http://www.vatican.va/ content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130328_messa-crismale.html, ultimo accesso 5 maggio 2020). 3 “la mitezza e la tenerezza del Buon Pastore”, Omelia del Santo Padre Francesco, 3 maggio 2020 (consultabile qui: http:// w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/ papa-francesco-cotidie_20200503_mitezza-tenerezza-buonpastore.html, ultimo accesso 5 maggio 2020).

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sembianze lontane, lontanissime dallo spirito che le ha animate, pur continuando a mostrare quel legame originario. Analizzarne le traduzioni visive significa allora anzitutto interrogarne l’efficacia, per cercare le effettive estensioni e implicazioni di questo potere pastorale nella comprensione del presente, all’incrocio tra etica ed estetica. la constatazione – ormai ampiamente condivisa – della proliferazione di tali tecniche di matrice pastorale è stata il punto di partenza di una ricerca iniziata molti anni fa e che inevitabilmente ha dovuto riaggiustare di continuo il proprio fuoco analitico in concomitanza con l’evolversi dei discorsi e, ovviamente, della letteratura su un tema così discusso e attuale. Rispetto al momento in cui queste analisi muovevano i primi passi, da un lato i reality show sembrano aver ceduto il loro “monopolio” configurativo, dall’altro la «vetrinizzazione sociale»4 ha trovato nuovi e più floridi territori sui quali attecchire al di fuori dello schermo televisivo5, intaccando

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v. codeluppi, la vetrinizzazione sociale. il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, apple, hello Kitty, renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano 2015. 5 ippolita, anime elettriche, Jaca book, Milano 2006, p. 49: «La pubblicazione sui social network è un esercizio di scrittura personale praticato da una massa che in alcuni casi ha già superato il miliardo di persone. Solo le grandi religioni monoteiste hanno raggiunto storicamente una tale penetrazione nei tessuti sociali. la scrittura in forma diaristica è un vero e proprio allenamento quotidiano, dove ci si prende cura di sé in una prospettiva di self

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introduzione

tutti gli ambiti della vita pubblica – inclusa la scena della politica – e finendo per travolgere le condotte delle esistenze individuali nella logica ad esempio dell’imprenditoria di sé stessi e delle pratiche di auto-miglioramento finalizzate a un incremento della produzione, piuttosto che a una «buona vita»6. Le strategie che guidano questi processi sono tutte riconducibili a un fondo comune, un fondo che le pagine seguenti proveranno a esplorare attraverso la lente del cinema come luogo di elaborazione specifica delle tensioni che attraversano il corpo sociale e come spazio di codificazione di sintomi appena percettibili7. a costituire il fulcro originario di questa indagine è una congiuntura storica molto ristretta, tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, durante la quale lo spazio etico ed estetico che prenderà corpo solo anni dopo viene sottoposto a una serrata analisi critica da diverse posizioni. in quello snodo cruciale escono infatti in sala, rispettivamente nel novembre del 1975 e nell’aprile 1976, Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultima opera di Pier Paolo Pasolini8, e todo modo di branding. […] si tratta di un rituale di confessione che vincola completamente l’individuo integrando tecniche di dominio […] e tecnologie, o tecniche del sé». J. Butler, a chi spetta una buona vita?, tr. it. a cura di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013. 6

L’esemplarità del cinema per interrogare il regime estetico del presente è stata ampiamente discussa da P. Montani, l’immaginazione intermediale. Perlustrare, testimoniare, rifigurare il mondo sensibile, laterza, Roma-Bari 2010. 7

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Salò viene proiettato in anteprima a Parigi il 23 novembre e a Milano il 23 dicembre 1975, ma arriverà ufficialmente nelle

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Elio Petri, due film destinati a identica sorte censoria da parte di istituzioni e, in parte, critica e pubblico. ambientato nel 1944, Salò racconta il sequestro e le sevizie perpetrate ai danni di un gruppo di giovani ragazzi e ragazze da parte di quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana nel chiuso di una villa nell’Italia del nord, con l’aiuto di alcuni collaborazionisti e di quattro narratrici, che dopo giorni terminerà con un carosello di torture e uccisioni. immaginato invece in un presente non meglio specificato nei sotterranei di un albergo gestito da un prete affarista, don Gaetano (Marcello Mastroianni), todo modo mette in scena un ritiro spirituale al quale prendono parte gli esponenti del potere politico ed economico italiano, tra i quali il Presidente del partito, M (Gian Maria volonté) e sua moglie Giacinta (Mariangela Melato), che si concluderà con un’ecatombe. Già da queste succinte sinossi, si comprende come si tratti di opere che riflettono proprio sul connubio tra potere politico e tecnologie del sé, le loro intersezioni, i loro meccanismi e la loro efficacia per la costituzione del soggetto contemporaneo in relazione a un potere che lo sopravanza ma di cui è anche parte attiva. In modo sorprendente, questi due film incorniciano simbolicamente il corso “Bisogna difendere la società” tenuto da Michel Foucault nel lasso di tempo che intercorre tra le loro uscite in sala e incastonato a sua volta tra Sorvegliare e punire e il primo volume della Storia della sessualità, la volontà di sapere. si tratta di un momento di passaggio decisivo – e

sale italiane solo a gennaio del 1976.

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introduzione

già ampiamente commentato9 – all’interno della teorizzazione del filosofo francese, che da parte sua sembra dedicare una particolare attenzione proprio al cinema, come testimoniano ben quattro conversazioni pubblicate tra ottobre 1975 e novembre 197610. se riconduciamo questo interesse per le immagini cinematografiche nell’alveo più ampio dello “sguardo foucaultiano” e dell’idea di “esperienza” richiesta al lettore dei suoi libri, si percepisce bene come tutta la sua filosofia sia proiettata verso un peculiare incrocio di etica ed estetica che procede per scarti con il campo di efficacia tratteggiato dal potere: «uno scarto che riguarda il corpo, dunque il lato sensibile dell’esteticità, lo sguardo, dunque l’attività percettiva, e infine il delinearsi di un intero orizzonte d’esperienza, dunque qualcosa di simile a ciò che per Kant era la facoltà di giudizio»11. Un’estetica che non coincide con un territorio disciplinare definito,

9

si veda ad esempio h. Dreyfus e P. Rabinow, la ricerca di michel Foucault, tr. it., La Casa Usher, Firenze 2010.

à propos de marguerite duras, in “Cahiers Renaud-Barrault”, n. 89, octobre 1975; Sade, Sergent du sexe, in “Cinématographe”, n. 16, décembre 1975-janvier 1976; Sur histoire de Paul par michel Foucault et rené Féret, in “Cahiers du cinéma”, n. 262263, Janvier 1976, pp. 63-66; Entretien avec michel Foucault, in “Cahiers du cinéma”, n. 271, Novembre 1976, pp. 52-53.

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11

s. catucci, risposte al forum “letteratura e arte in Foucault”, “Materiali Foucaultiani”, 26 ottobre 2011 (consultabile all’indirizzo http://www.materialifoucaultiani.org/it/materiali/ altri-materiali/62-forum-letteratura-e-arte-in-foucault/165materiali-foucaultiani-stefano-catucci-1.html, ultimo accesso 5 maggio 2020).

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piuttosto «con una pratica, un esercizio critico che trasforma il soggetto ed esplicita la cornice in cui si svolge il suo gioco», o ancora «una componente operativa del suo pensiero, quasi un “saper fare” del pensiero critico»12. Attorno alla complessità dischiusa dal concetto di estetica, la trama che lega Foucault, Pasolini e Petri comincia allora a prendere consistenza. in una sorta di dialogo immaginario – silenzioso e mai esplicitato – questi tre autori concentrano la loro attenzione su un tema che da quel momento in poi assumerà un rilievo decisivo nella teoria critica: la sopravvivenza di tecniche antiche, capaci di adattarsi e rimodularsi con il mutare delle esigenze, quale elemento peculiare dei meccanismi di funzionamento del potere nella società contemporanea. lo fanno a partire da sensibilità diverse, conseguendo dunque esiti molto diversi, ma giungendo comunque a un approdo analogo: in tutti e tre, infatti, queste tecnologie del sé diventano il centro di scambio tra le ingiunzioni del potere e le pratiche individuali, il punto di conversione fra assoggettamento e soggettivazione. È un approdo che in qualche modo condensa le riflessioni sulle quali si stavano dedicando almeno dal 1970, anno che vede l’inizio dei corsi al Collège de France per Foucault, la stesura della sceneggiatura del decameron (il primo atto della “trilogia della vita”) per Pasolini e l’uscita in sala del primo capitolo della “Trilogia

ibidem. Dello stesso autore si veda anche Id., Potere e visibilità. Studi su michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2019. 12

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introduzione

della nevrosi”, indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, per Petri. il lessico foucaultiano – a cui ampiamente si farà ricorso – non risulta tuttavia presupposto alle strategie dispiegate dai film: proprio la simultaneità di questi tre diversi esiti permette di comprendere come le immagini siano in grado di dare forma a un pensiero che entra in risonanza con le riflessioni del filosofo francese pur mantenendo una propria autonomia. Ben oltre le coincidenze cronologiche, pure significative e da non trascurare, è la dialettica tra verità del potere e potere della verità il filo conduttore che sembra tenere insieme questi oggetti eterogenei definendone la specifica dimensione politica e al contempo costituire il motivo di interesse per un approccio che cerca nel passato i segni che definiscono il presente. Come notava già Gilles Deleuze, «se il potere produce verità, come concepire un “potere della verità” che non sia più verità di potere, che sia una verità che sorge dalle linee trasversali di resistenza anziché dalle linee integrali di potere?»13. Una teoria critica visuale «siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità»14: la formula

13

G. Deleuze, Foucault, tr. it., cronopio, Napoli 2002, p. 126

14

M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collége de France 1975-1976, tr. it., Feltrinelli, Milano 1998, p. 29.

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folgorante di Foucault – che scandisce la torsione del suo sguardo verso altri orizzonti di ricerca – sintetizza icasticamente il problema che si pone di fronte a noi, a patto di tenere a mente che la relazione tra soggetto e potere attraverso la verità si dà grazie a dispositivi e rituali storicamente determinati, che consentono di volta in volta la possibilità che questa verità dispieghi efficacemente i sui effetti di senso. Nel presente questi dispositivi sono di natura essenzialmente visiva, anche se non sempre tale ovvietà viene presa in carico in tutte le sue implicazioni: le pagine seguenti si cimentano nel tentativo di delineare i contorni di un’analitica del potere attraverso le immagini, piuttosto che usare le immagini come momento esemplificativo di concetti già codificati dalla riflessione filosofica. Se «tutti i principali classici della teoria dell’immagine e della visualità del tardo Novecento – dalla Alpers a Stoichita, da Mitchell a Crary, da Preziosi a Holly, da Jay a Brandt – hanno dovuto fare i conti […] con i problemi sollevati da Foucault»15, la teoria

Questo tema sorreggerà poi id., del governo dei viventi. Corso al Collège de France 1979-1980, tr. it., Feltrinelli, Milano 2014, p. 88: «Perché, in che forma, in una società come la nostra, esiste un legame così profondo tra l’esercizio del potere e l’obbligo, per gli individui, di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione di aleturgia di cui il potere ha bisogno? […] Che cos’è questo doppio senso del termine “soggetto”, soggetto in una relazione di potere, soggetto in una manifestazione di verità?». 15

M. cometa, modi dell’ékphrasis in Foucault, in lo sguardo di Foucault, a cura di M. cometa e s. vaccaro, Meltemi, Roma 2007, pp. 38-39.

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introduzione

critica non si è ancora confrontata così sistematicamente con i problemi sollevati a loro volta dai teorici dell’immagine. Eppure – e questo è un punto decisivo – sembra che la teoria critica stessa non possa fare a meno di concentrarsi sulle immagini per sviluppare le proprie analisi e i propri concetti. in effetti, più che uno spazio neutro, l’immagine è un «fattore costitutivo del reale»16 che non solo rappresenta ma modellizza la realtà con effetti di ricaduta sulle forme di comprensione e di relazione intersoggettiva, proponendosi come fulcro di ogni riflessione sul contemporaneo interessata alla dimensione empirica delle relazioni di potere piuttosto che alle strutture astratte. Di questo intreccio Foucault era del resto ben consapevole e a testimoniarlo restano non solo il suo variegato dialogo con le immagini – pittoriche e fotografiche anzitutto – ma anche la complessa relazione che nel suo pensiero intrattengono dicibile e visibile. come sintetizza Deleuze, «a suo avviso il primato degli enunciati non impedirà mai l’irriducibilità storica del visibile, anzi, proprio al contrario: l’enunciato ha un primato solo in quanto il visibile ha le sue proprie leggi, una sua autonomia che lo mette in rapporto con il dominante, con l’autonomia

16 M. Grande, la commedia all’italiana, a cura di O. caldiron, Bulzoni, Roma 2003, pp. 14-15. si vedano anche la visione e il concetto. Scritti in omaggio a maurizio grande, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 1998, M. Dinoi, lo sguardo e l’evento. i media, la memoria, il cinema, le lettere, Firenze 2008 e lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, a cura di R. Guerrini, G. tagliani e F. Zucconi, le Mani, Genova 2009.

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dell’enunciato»17. una dimensione intrecciata messa bene in rilievo da Dork Zabunyan, secondo il quale gli scritti sul cinema di Foucault «potrebbero diventare il luogo di una diagnosi della nostra attualità più legittimante di quanto facciano i libri propriamente detti», oltre la semplice rivalutazione del ruolo del cinema nel campo del sapere o dei film nella costituzione di un archivio audio-visivo: si tratta piuttosto di considerare le operazioni di pensiero che si rapportano alla ricerca storica in Foucault e di comprendere in maniera speculare come queste innervino le interviste o le conversazioni sul cinema, le quali al contempo lasciano aperta la possibilità di essere riprese per un uso contemporaneo che sia di carattere storico, filosofico o cinefilo (o tutti e tre insieme)18.

È solo nella risonanza tra i concetti e le immagini che l’ambizione di questo libro potrà allora trovare un luogo di elaborazione specifica, lavorando alla convergenza tra una teoria dell’immagine e una teoria critica, cioè tra uno sguardo che si immerge nel dettaglio minuto e uno che risale abbracciando il totale, o ancora, tra un’analisi “microscopica” dei processi di significazione visiva e una diagnosi generale dei discorsi sociali. teoria, analisi, critica: le pagine seguenti intrecceranno continuamente questi

17

G. Deleuze, Foucault, cit., p. 72.

18

P. Maniglier, D. Zabunyan, Foucault va au cinéma, Bayard, Montrouge 2011, pp. 44-45, traduzione mia.

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introduzione

tre aspetti, cercando di mostrare come la teoria debba sempre emergere da un momento analitico denso per orientare successivamente la parte critica; ma allo stesso tempo, di come l’analisi sia mossa a sua volta da una postura critica che definisce la finalità dell’orizzonte analitico e che è comunque sempre condizionata da una cornice teorica che informa lo sguardo sulle opere. Non è possibile, insomma, attribuire unilateralmente un carattere originario a uno di questi tre aspetti: tutti insieme concorrono a definire il movimento tripartito che pensa l’immagine come luogo denso di mediazione tra il soggetto e la realtà, il senso e l’esperienza, il mondo e la sua intelligibilità. Più nello specifico, l’interesse che muove questo lavoro è sondare quelle particolari modalità che tematizzano la verità e le sue forme di produzione all’interno del regime audiovisivo, cogliendo così un’ampia classe di caratteristiche salienti dei discorsi mediali contemporanei. la più evidente tra queste è il processo che ha portato a porre sempre maggiore valore sul momento confessionale dei singoli discorsi, un momento che attraversa diverse forme di espressione e svariati generi afferenti al mondo dell’immagine in movimento, dal reality-show alla docufiction sino al mockumentary, come porzione di una più ampia problematica relativa alla capillarità e all’efficacia delle tecnologie del sé nel definire l’orizzonte etico ed estetico del contemporaneo. immagini e concetti saranno dunque posti a confronto per aprire uno spazio di interrogazione circa temi oggi di estrema rilevanza – la rappresentazione del potere, i processi di secolarizzazione, l’etica del sé, le forme della soggettivazione, la post-verità e il 19

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paradigma fiduciario – a partire da una prospettiva obliqua e inattuale, pensando il cinema non solo come dispositivo di produzione di immaginario ma più propriamente di pensiero, capace cioè non solo di intercettare ma di anticipare snodi concettuali portati a formalizzazione solo successivamente. a differenza di altri approcci e studi pregressi, che pure costituiranno una solida base di partenza per il presente lavoro, le convergenze tra Foucault, Pasolini e Petri non saranno ricercate principalmente nelle loro vite, ma dentro le loro opere, analizzando le strategie di circolazione e traduzione delle idee da un medium all’altro e riflettendo, infine, sulla paradossale necessità contemporanea di identificare la verità e il vero nelle pratiche sociali quotidiane. Se il rapporto tra Pasolini e Foucault è sempre più oggetto di studi nel panorama critico odierno19, la figura di Petri non è invece mai stata considerata all’interno di questa congiuntura; in questo libro si sostiene invece che la sua inclusione sia decisiva per comprendere il passaggio cruciale nella storia delle teorie del soggetto e delle sue relazioni con un potere ad esso esterno che lo pervade sempre di più e dal quale diventa in certa misura inseparabile, nonché per apprezzarne le ricadute sul cinema italiano recente. È con Pasolini e Petri, infatti, che una prima decostruzione di questo paradigma prende forma: nel gesto confessionale

19 si vedano ad esempio Pasolini, Foucault e il “politico”, a cura di R. Kirchmayr, Marsilio, Venezia 2016 e M. A Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, il Mulino, Bologna 2017.

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introduzione

inefficace, negli esercizi spirituali pervertiti, nella direzione di coscienza in bilico tra pienezza e morte trova rappresentazione lo svuotamento di senso di quell’etica di sé a cui Foucault dedicherà i suoi ultimi corsi negli anni Ottanta. Anzi, si potrebbe dire che tutto il cinema politico italiano, da quel momento in poi, per essere efficace nella sua critica alla politica come effetto di senso ha dovuto inquadrare il potere nella cornice del paradigma teologico-politico20, ricongiungendosi alla storia delle teorie dell’immagine che su questa sovrapposizione hanno lungamente riflettuto. Provare a ricostruire questo dialogo a tre voci è uno degli obbiettivi delle pagine seguenti, per mostrare la circolazione tra ambiti diversi di idee e riflessioni che mantengono una propria stringente attualità tanto in ambito filmico quanto teorico. È dunque un libro su Michel Foucault, su un concetto molto preciso ma che non ha conosciuto una risonanza analoga ad altri da lui sviluppati, quello di potere pastorale, alle cui implicazioni e attualità è dedicato il primo capitolo. È inoltre un libro su due film molto famosi ma che tutt’oggi spingono le nostre possibilità di visione al limite, quali Salò e todo modo, nonché una ricostruzione della dimensione intellettuale dei loro autori, Pasolini e Petri, ai quali sono dedicati il terzo e quarto capitolo, preceduti, nel secondo capitolo, da una ricognizione storico-critica

20

Per un ampio e recente inquadramento di questo concetto si veda teologie e politica. Paradigmi a confronto, a cura di E. stimilli, Quodlibet, Macerata 2019.

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degli elementi che autorizzano a immaginare questo scambio dialogico a tre che funziona da raccordo tra il piano filosofico e quello filmico. È infine un libro sullo sguardo specifico del cinema italiano sulle tecniche del sé, nonché sull’utilità della teoria del cinema all’interno di un paradigma teorico-critico aderente al contemporaneo (compito assegnato al quinto e conclusivo capitolo). sono passati molti anni dalla formulazione del nucleo originario alla base di questo lavoro, iniziato come ricerca di dottorato sotto la guida di Omar calabrese e Giovanni careri tra siena e Parigi. Roberto De Gaetano, oltre ai numerosi consigli, nel corso degli anni mi ha consentito di dare visibilità a parti del lavoro sino ad accoglierlo in questa collana da lui diretta: a lui va la mia riconoscenza, così come ai membri del comitato scientifico Gianni Canova, Francesco casetti. Ruggero Eugeni, Pietro Montani, Dork Zabunyan per l’interesse mostrato, in certi casi, già nelle fasi embrionali della ricerca. lungo il cammino sono stati interlocutori preziosissimi Massimiliano coviello e Francesco Zucconi: al dialogo con loro devo molte delle idee qui esposte. Molte sono state le persone che, in tempi anche molto distanti, con me si sono confrontate e che mi hanno convinto a proseguire lungo questa strada, o che mi hanno invitato a esporre alcune di queste idee in convegni, seminari e pubblicazioni: tra loro, desidero ringraziare in particolare Maria Pia comand, Mario Galzigna, Tarcisio Lancioni, Stefano Jacoviello, Francesca Polacci, Jorge Lozano, Marcello Serra, luca acquarelli, Emilie héry, caroline Pane, claudio Pirisino, Gabriele Rigola, simona Busni, luca 22

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introduzione

venzi, alessia cervini, angela Maiello. sono grato per l’attenta e puntuale lettura ad Alessandro Canadè e Maria cristina addis, alla quale va inoltre la mia sincera riconoscenza per l’entusiasmo, l’intelligenza e la competenza nel dialogo su questi temi. Questo libro è, una volta di più, dedicato a Camilla, che di questo lavoro è stata la prima testimone e interlocutrice, nonché scrupolosa lettrice.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

i. il POtERE PastORalE: tEcNichE E iMMaGiNi

verità e politica È noto il compito che Foucault ha assegnato al suo lavoro: rendere intelligibile il funzionamento di quel dispositivo di verità che è prodotto dalla ragione occidentale e che si identifica in essa, per «sapere se è possibile costituire una nuova politica della verità» e «staccare il potere della verità dalle forme di egemonia (sociali, economiche, culturali) all’interno delle quali per il momento funziona»1. Il filosofo e l’intellettuale non dicono la verità – non possiedono e comunicano cioè un sapere che si accorda con un’ideologia – ma, al contrario, sono coloro che mettono a nudo i meccanismi di produzione e circolazione della verità, intesa nei termini di criterio di legittimità degli enunciati all’interno di una data società. Enunciati che, ovviamente, non sono separabili dalle pratiche e dalle tecniche che li accompagnano. La disarticolazione delle procedure che ne sorreggono

1

intervista a michel Foucault, a cura di a. Fontana e P. Pasquino, in M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, torino 1977, pp. 27-28. L’intervista è del giugno 1976.

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le modalità di enunciazione, dunque, non serve semplicemente a confutare il loro statuto di verità, ma è l’operazione necessaria a costruire una politica alternativa della verità. L’insistenza sul termine verità potrebbe risultare anacronistica; eppure, se dovessimo individuare una parola chiave per descrivere il contemporaneo, questa sarebbe una candidata sicuramente molto quotata. assistiamo oggi a una fascinazione indiscutibile per la verità: ecco ogni giorno accorati appelli al ritrovare una verità delle parole, ma anche una rincorsa inesausta a esibire una verità dei gesti e dei sentimenti, dei comportamenti e dei pensieri. È certamente paradossale questo ritorno, a maggior ragione in un’epoca definita da più parti post-veritiera; eppure, questa parola circola tra i discorsi sociali con un’efficacia e una pervasività probabilmente senza pari2. Se la verità non può esistere che come proposizione logica in relazione alle condizioni di verificazione, ci dice la filosofia più accorta, al contrario l’esperienza quotidiana asserisce continuamente che la verità non può esistere che come stile di vita. Come gestire questa insanabile antinomia? Il credere «prima ancora che un prendere per vero

2 Per un riepilogo nonché una conferma di questa tendenza si veda F. D’Agostini e M. Ferrera, la verità al potere. Sei diritti aletici, Einaudi, Torino 2019, dove si propone di definire la presente come epoca della “post-post-verità”, un’epoca cioè che ha preso coscienza di avere un problema con la (mancanza di) verità e può finalmente ripensare la democrazia come «verità al potere» nella cornice di un nuovo «diritto alla verità».

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

è un prendere per buono»3, ha scritto recentemente Salvatore Natoli; constatazione pienamente condivisibile, ma solo a patto di considerare il buono come espressione sensibile del vero, forma visibile che testimonia la congiunzione di un soggetto, di un fatto o di una situazione con un “autentico” presupposto. Quello che dunque è un problema etico – e che orientato sulle forme di vita definisce appunto il campo di un’etica del sé – diviene anche una questione che riguarda le specifiche estetiche della verità conosciute dalla contemporaneità, che hanno riattivato, spostandole, tecniche e pratiche sedimentate nel corso della storia a partire dall’Antichità classica attraverso la successiva rimediazione della cristianità4. Questa congiunzione, così efficace dal punto di vista retorico, governa oggi l’intero ordine dei discorsi, incluso quello politico; anzi, proprio quest’ultimo è forse il terreno sul quale ha meglio attecchito, sancendo il passaggio della questione fiduciaria dalle forme

3 s. Natoli, Il rischio di fidarsi, il Mulino, Bologna 2016, p. 12. Dello stesso Natoli si veda anche l’idea di “semiotica storica” in id., la verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 168-173. 4

sul carattere paradigmatico del concetto di “spostamento” nell’ambito di un’iconologia critica si rimanda a F. Zucconi, displacing Caravaggio. art, media, and humanitarian visual Culture, Palgrave Mcmillan, London 2018, pp. 199-206, che rilegge in chiave post-coloniale alcuni termini della teoria dei media a partire dall’idea warburgiana di nachleben. la rimediazione operata dal Cristianesimo delle tecniche dell’Antichità classica è notoriamente il fulcro della ricerca del cosiddetto “ultimo” Foucault.

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di elaborazione proprie del piano cognitivo a quelle tipiche del piano emotivo, ovvero dalla mediazione del sensibile all’immediatezza della sensazione. E dunque, i tentativi di incrinare la perfetta saldatura tra le forme della veridizione e le condizioni della veracità – «la dote di chi dice il vero, o è abituato a dirlo», recita il dizionario treccani – sono costitutivamente un gesto politico di primaria importanza alla luce proprio dello spostamento subito recentemente dal concetto di verità. L’ossessione per quest’ultima e la parallela impossibilità di definirla in modo univoco – in quanto irriducibile a una semplice possibilità di verificazione, cioè di congruenza su base fattuale – sono forse l’incognita più grande che grava sul futuro della società odierna, attraversata dalla scomparsa di ogni istituzione dotata di autorevolezza epistemica che in qualche modo delega all’esperienza diretta la condizione necessaria e sufficiente per la presa di parola nel pubblico consesso5. si tratta di un insieme di preoccupazioni sulle quali si era già soffermato Foucault nel penultimo dei suoi corsi al collège de France, il primo dedicato al governo di sé e degli altri, nel quale la genealogia dei rapporti tra soggetto e verità era indirizzato specificamente a indagare la dimensione pubblica dei discorsi. sebbene molto restio ad avanzare parallelismi tra il passato e il presente, nella lezione del 2 febbraio 1983 Foucault esplicita fugacemente

5

Per una ricognizione semiotica di questo problema si veda a.M. lorusso, Postverità. Fra reality tv, social media e storytelling, laterza, Roma-Bari 2018, p. 13.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

l’attualità della sua prospettiva, apparentemente sempre più circoscritta al passato remoto. Qui, sotto la lente foucaultiana finisce il rapporto paradossale tra dir-vero (la parresia, sulla quale ritorneremo più avanti) e funzionamento della democrazia, divisa tra una dynasteia (il problema del gioco politico, delle sue regole e dei suoi interpreti, ovvero la politica come esperienza) indicizzata al discorso vero e una politeia indicizzata all’equa ripartizione del potere. Come conciliare la possibilità che tutti i cittadini possano prendere la parola in un pubblico consesso (isegoria) e il fatto che nella pratica politica vi siano effettivamente dei discorsi veri, in quanto dotati di alcuni requisiti e riconoscibili come tali? Ebbene, in un’epoca come la nostra – in cui si ama tanto sollevare i problemi della democrazia in termini di distribuzione del potere, di autonomia di ognuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e di opacità, di rapporto tra società civile e Stato – credo sia forse bene richiamare questa vecchia questione, che è stata contemporanea al funzionamento stesso della democrazia ateniese e alle sue crisi: cioè della questione del discorso vero e della cesura necessaria, indispensabile e fragile che il discorso vero non può non introdurre in una democrazia. Una democrazia che rende possibile il discorso vero e che al tempo stesso lo minaccia senza posa6.

6

M. Foucault, il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-1983, tr. it., Feltrinelli, Milano 2009, p. 179. sulla

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i momenti di esplicita critica del presente sono rari in Foucault, ma forniscono indicazioni preziose per una possibile estensione dell’orizzonte di senso di una ricerca così articolata e tuttavia distante nel tempo. Riassunto oggi sotto l’indeterminato rapporto tra post-verità e fake news nell’ambito dei social network, questo quesito non può però prescindere da un’altra questione più profonda, quella della relazione che lega soggetto e verità nella cornice delle dinamiche di governo, di sé e degli altri. È noto che dagli anni settanta Foucault ha eletto tale relazione a proprio bersaglio analitico e polemico privilegiato, presentandolo come compito urgente e inemendabile. lo aveva anticipato nel primo dei corsi al collège de France, incentrato attorno alla volontà di sapere, sottolineando il carattere politico della verità come strumento di creazione di asimmetrie all’interno delle società: La verità è ciò che permette di escludere; di separare quello che è pericolosamente mescolato; di distribuire in maniera esatta l’interno e l’esterno; di tracciare i limiti tra ciò che è puro e impuro. La verità ormai fa parte dei grandi rituali giuridici, religiosi, morali, richiesti dalla città. Una città senza verità è una città minacciata. Minacciata dalle mescolanze, dalle impurità, dalle mancate esclusioni. La città ha bisogno della verità come principio di partizione. ha bisogno di discorsi di

differenza tra isegoria e parresia, ovvero tra libertà di parola e franchezza nella parola, si veda anche p. 182.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

verità che mantengano le partizioni7.

È in questa cornice – che virtualmente abbraccia tutto il percorso del “secondo Foucault” – che il potere pastorale si innesta come forma specifica di governo attraverso la verità. In quanto tale, definisce delle rigide partizioni riassunte nella celebre formula che identifica l’introduzione del concetto di biopotere nell’analisi foucaultiana: «al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»8. L’effetto di questa dialettica – a tratti paradossale e di difficile ricomprensione entro uno schema unitario – è la creazione di «un regime dal doppio regime: conciliatore con chi sta dentro, spietato con chi sta fuori. così è ogni regime pastorale il cui volto benevolo si associa alla mano correzionale, cioè repressiva»9. E ciò è possibile perché i tre paradigmi che scandiscono l’analitica del potere sviluppata da Foucault – vale a dire la sovranità, la disciplina e la governamentalità – non sono forme reciprocamente escludentisi (nonostante la loro comparsa in tempi diversi e la loro necessaria distinzione), ma si integrano e si compenetrano lasciando affiorare in rilievo, di volta

7

id., lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), seguito da «il sapere di Edipo», tr. it., Feltrinelli, Milano 2015, p. 203. 8

id., la volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1976 p. 120. 9

G. Zagrebelski, liberi servi. il grande inquisitore e l’enigma del potere, Einaudi, torino 2015, p. 264.

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in volta, tratti specifici. in piena epoca governamentale, assistiamo infatti a una rinnovata vitalità degli altri due paradigmi, come le questioni relative alla sorveglianza, ad esempio, testimoniano ampiamente10; allo stesso modo, il dispositivo politico della sovranità «non solo sembra tutt’altro che destinato a dileguarsi, come pure con qualche precipitazione ci si era affrettati a pronosticare, ma, almeno per quanto riguarda la maggiore potenza mondiale, esso pare estendere e intensificare il proprio raggio d’azione»11 pur nella necessaria rimodulazione del proprio profilo. Ed è il pastorato il luogo dove una giunzione fra i due termini si rende possibile: «come il modello sovrano incorpora in sé l’antico potere pastorale – il primo incunabolo genealogico del biopotere –, così quello biopolitico porta dentro la lama tagliente di un potere sovrano che al contempo lo attraversa e lo sopravanza»12. È proprio questa biforcazione a definire la specifica complementarità di Salò e todo modo: dove nel

Gli studi sul tema sono decisamente numerosi; si vedano tra gli altri J. Crary, 24/7. il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, torino 2015, e le immagini del controllo. visibilità e governo dei corpi, numero monografico di “Carte Semiotiche. Rivista di semiotica e teoria dell’immagine”, n. 4 (2016), a cura di M.c. addis, G. tagliani.

10

R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, torino 2004, p. 3. Dello stesso avviso anche G. Agamben, homo sacer. il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, torino 1995, p. 9: «la produzione di un corpo biopolitico è la prestazione originaria del potere sovrano». 11

12

R. Esposito, Bíos, cit., p. 35.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

film di Pasolini è l’aspetto repressivo a prendere il sopravvento, in quello di Petri sono le forme della condotta finalizzate alla pienezza del sé a muovere l’intreccio. Ma, come vedremo dettagliatamente, queste attitudini si scambiano incessantemente di posizione, delineando un profilo tanatopolitico come orizzonte di senso comune a queste diverse pratiche che lascia affiorare un interrogativo inquietante sulle prospettive future della politica globale.

la verità del pastore Nell’introdurre una «storia della governamenta lità»13, Foucault ne indica l’origine in un modello arcaico di pastorato cristiano, proponendosi di analizzarlo attraverso le trasformazioni subite nel passaggio dall’Oriente precristiano all’Occidente moderno. La metafora del pastore per designare chi è alla guida della città sarebbe mutuata dalle culture medio-orientali tramite la mediazione ebraica, che riserva tale appellativo a Dio nella sua relazione con gli uomini, istituendo dunque un potere di stampo tipicamente religioso che si configura «come modello e matrice di procedure di governo degli uomini»:

13 È noto che Foucault ritenesse tale espressione più adatta come titolo per il corso del 1978; si veda M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, tr. it., Feltrinelli Milano 2005, p. 88.

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il pastorato inizia con un processo assolutamente unico nella storia e di cui non c’è traccia in nessun’altra civiltà: il processo grazie al quale una comunità religiosa si costituisce come Chiesa, cioè come un’istituzione che aspira al governo degli uomini nella loro vita quotidiana, col pretesto di condurli alla vita eterna in un altro mondo, non limitandosi a un gruppo circoscritto, a una città o a uno stato, ma rivolgendosi all’umanità intera. Una religione che aspira al governo quotidiano degli uomini nella loro vita reale, col pretesto della loro salvezza e su scala mondiale: questa è la Chiesa, e non si conoscono esempi simili nella storia delle società14.

la portata del pastorato si delinea qui nella sua ampiezza: universalità temporale (la dimensione escatologica) e totalità spaziale (l’universalità della chiamata divina) che si diffonde sino ai più reconditi anfratti della quotidianità umana, evidenziando il legame essenziale con la Chiesa cattolica. la correlazione tra potere politico e religioso non viene proposto però tanto nei termini di un’alleanza strategica, quanto piuttosto sulla permuta di procedimenti e di tecniche che fanno sì che l’esperienza temporale della Chiesa in quanto Stato sia solo un caso specifico all’interno della sua aspirazione di

14 ivi, pp. 115-116. una sintesi delle considerazioni di Foucault sul potere pastorale si trova ora nell’appendice 2 a id., le confessioni della carne. Storia della sessualità 4, tr. it., Feltrinelli, Milano 2019, in particolare pp. 350-363.

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governo. se la controriforma è il momento di avvio della concrezione delle problematiche di governo religioso e politico, con l’aspirazione alla conoscenza capillare delle gesta e dei sentimenti per correggere possibili deviazioni dalla norma15, è nel Xviii secolo che emerge una forma sostanzialmente unitaria non più limitata a un semplice gioco di scambi e di permute, ma che assume il problema del governo come regolamentazione della vita dell’individuo sin nei suoi aspetti più minuti. L’essere umano costituisce il risvolto e l’oggetto su cui si applica un tale potere, venendo considerato contemporaneamente un individuo ben preciso e parte di un’unità omogenea e molteplice, il gregge. L’individuo è dunque sottoposto a un processo, scandito dalle tre tappe dell’identificazione analitica, dell’assoggettamento e della soggettivazione, che mobilita «la storia delle procedure di individualizzazione umana in Occidente», o meglio, l’intera «storia del soggetto»: un soggetto assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta. Mi sembra quindi

Sull’influenza della Chiesa cattolica sulle società europee – e su quella italiana in modo particolare – attraverso l’estensione e la diffusione delle sue tecniche per modellare un corpo sociale moralizzato e disciplinato non solo da costrizioni esterne, ma in primo luogo obbediente a delle auto-limitazioni interiorizzate, si vedano, da prospettive diverse ma con esiti simili, a. Prosperi, tribunali della coscienza. inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, torino 1996, p. iX e N. Elias, Potere e civiltà. il processo di civilizzazione vol. 2, tr. it., il Mulino, Bologna 1983, p. 315. 15

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che siamo di fronte alla costituzione del soggetto occidentale moderno, che rende senza dubbio il pastorato uno dei momenti decisivi nella storia del potere nelle società occidentali16.

Nonostante questo rilievo, il concetto di potere pastorale sembra rimasto più nell’ombra rispetto alla fortuna goduta dai termini biopotere e biopolitica, forse anche per la sua difficile collocazione nello schema analitico proposto da Foucault, situandosi contemporaneamente a monte (come modello astratto) e a valle (come tipo storicamente determinato e circoscritto). Eppure, nel presente, sono molti i casi che questo termine sembra illuminare con singolare ed efficace capacità descrittiva: si pensi soltanto alla questione delle guerre umanitarie condotte sotto l’egida del “minore dei mali possibili”17. un concetto dunque sufficientemente ampio da mettere in risonanza e comparazione fenomeni anche molto diversi, ma abbastanza puntuale da operare una scrematura che esclude il superfluo e il ridondante dal campo analitico. Pastorato, governo e condotta sono i tre poli attorno ai quali si articolano le analisi elaborate a partire dal 1976, segnando uno spostamento decisivo rispetto a quel rapporto sapere-potere rimasto più im-

16

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 141.

17

su questa problematica si veda il fondamentale E. Weizman, il minore dei mali possibili, tr. it. a cura di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013.

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presso negli studi post-foucaultiani18. Oltre a ricostruirne la storia, Foucault ha stilato un tassonomia dei tratti peculiari del potere pastorale, un potere che «si propone di vegliare sulla salvezza di tutti facendosi carico di ogni elemento particolare, di ogni pecora del gregge», senza limitarsi a una funzione coercitiva e disciplinante verso il singolo, ma cercando piuttosto «di conoscerlo, di scoprirlo, di far emergere la sua soggettività e di strutturare il rapporto che questi ha con se stesso e con la sua coscienza»: Le tecniche pastorali del Cristianesimo per quanto riguarda la direzione di coscienza, la cura delle anime, tutte quelle pratiche che vanno dall’esame di coscienza all’ammissione attraverso la confessione (aveu), quel rapporto obbligato nei confronti di se stessi fondato sulla verità: mi sembra questo uno dei punti fondamentali del potere pastorale, che lo rende un potere individualizzante19.

la verità è dunque al centro delle preoccupazioni del potere pastorale, l’oggetto del contendere e il fine a cui tendere attraverso la direzione di coscienza, tratto saliente di questa forma di potere e prerogati-

18

Per questa lettura si rimanda a l. cremonesi, veridizione antica e veridizione cristiana in michel Foucault, in G. Brindisi et al., Foucault e le genealogie del dir-vero, cronopio, Napoli 2014, pp. 93-116. M. Foucault, La filosofia analitica del potere, in id., archivio Foucault 3. interventi, colloqui, interviste. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 110-111. 19

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va del suo custode, il pastore, il cui rapporto con il soggetto si realizza lungo due direttrici: da un lato, il pastore insegna alle pecore del gregge, proseguendo idealmente la tradizione dei maestri di verità e dei filosofi dell’Antichità; dall’altro, il pastore apprende dal suo gregge attraverso le tecniche confessionali. È in questo secondo aspetto che consiste la differenza rispetto alle pratiche antecedenti: l’obbligo per il fedele di esternare anche i più reconditi pensieri dipende da un procedimento assolutamente tipico del cristianesimo, la confessione esauriente e permanente, un dispositivo discorsivo flessibile che prevede una determinata relazione fra il soggetto e lo spazio di enunciazione, e un regime di verità specifico. La confessione è una tecnica che diventa dunque imprescindibile dentro il potere pastorale perché produce una verità nuova, non conosciuta prima né dal pastore né dal soggetto, che «vincolerà in modo permanente il pastore al gregge e a ogni suo componente. la verità, la produzione della verità interiore, la produzione della verità soggettiva è un elemento fondamentale nell’esercizio dell’ufficio pastorale»20. L’insistenza di Foucault su confessione ed esame di sé – in quanto declinazione cristiana specifica dell’esercizio spirituale – è parte fondamentale del progetto di una “genealogia del soggetto moderno” che, nelle intenzioni del filosofo francese, dovrebbe arricchire una filosofia tradizionale del soggetto conferendogli una dimensione storica nonché una finalità diagnostica posta a compito principale della

20

id., Sessualità e potere, in id., archivio Foucault 3, cit., p. 125.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

filosofia21. Per Foucault, così, si tratta di ricercare la natura di tali tecnologie e pratiche perseguendo un’analisi teorica dotata di una dimensione specificatamente politica. lo spostamento da una dimensione transitiva delle forme della conoscenza – orientata dunque sul soggetto nella sua tensione verso l’oggetto – a una riflessiva – le possibilità cioè di modificare se stessi – è il punto centrale di questa impostazione. Rispetto alle aporie insite nell’idea contemporanea di verità, è dunque evidente la sua centralità all’interno del gioco discorsivo attuale. Questo passaggio determina anche l’individuazione di un’ulteriore tipologia di tecniche, almeno rispetto a quelle analizzate da Foucault sino alla prima metà degli anni settanta, le tecnologie del sé appunto, l’insieme di pratiche che il soggetto mette in atto per conoscere, trasformare e migliorare se stesso22. Per analizzare la genealogia del soggetto nelle società occidentali è insomma necessario prendere in esame tanto le “tecniche di dominio” o “tecniche del potere” – la coercizione disciplinare – quanto le “tecniche del sé”, la cui interazione definisce la specifica dinamica tra soggettivazione e assoggettamento. tra queste ultime tecnologie, le più importanti nelle società contemporanee sono quelle legate all’analisi

21 id., la cura della verità, in id., il discorso, la storia, la verità. interventi 1969-1984, Einaudi, torino 2001. 22 id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, tr. it., cronopio, Napoli, 2012, pp. 38-42; si veda comunque anche il capitolo “tecnologie del sé” in M. Foucault (un seminario con), tecnologie del sé, cit.

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interpretativa del sé23: è per questo che Foucault può parlare, con espressione ormai celebre, dell’uomo occidentale come «bestia da confessione»24, a patto di ricordare che l’efficacia di tale pratica dipende essenzialmente dalla predisposizione del soggetto a rimettersi integralmente nelle mani del proprio confessore, operando un lavoro perpetuo di decifrazione interiore che affonda le sue radici proprio nella sfera degli esercizi spirituali codificati nell’Antichità, seppur con significativi spostamenti25. Confessione ed esercizi spirituali La confessione è quel dispositivo che, nella prospettiva occidentale, veicola una verità su se stessi, in quanto tale non dimostrabile e non confutabile, presentandosi dunque dal principio come vera, stabi-

23

come evidenziano h. Dreyfus e P. Rabinow, la ricerca di michel Foucault, cit., p. 232: «attraverso il dispositivo di sessualità, il bio-potere diffuse la propria rete fino ai minimi movimenti del corpo e alle più piccole emozioni dell’anima. Questo fu possibile grazie alla costruzione di una tecnologia specifica: la confessione del soggetto individuale, che avveniva o nella forma dell’introspezione o in quella del discorso. [...] in senso lato, questa tecnologia trovò una prima applicazione sulla borghesia, proprio come la tecnologia disciplinare si era sviluppata come strumento di controllo sulle classi lavoratrici e sul sottoproletariato.» 24

M. Foucault, la volontà di sapere, cit., p. 55.

25

su questo punto si veda ancora id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., in particolare pp. 39 e segg.

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lendo «l’identificazione tra colui che parla e la fonte, l’origine, la radice di questa verità» e definendo un processo «molteplice e complesso che è stato decisivo per la storia della verità nelle nostre società»26. Posta sin dal Medio Evo tra i riti principali da cui si attende la produzione di verità, questa si è iscritta all’interno delle procedure di individualizzazione da parte del potere, contribuendo in termini espliciti alla costituzione del soggetto singolare e conoscibile. secondo Foucault, la confessione è un «rituale discorsivo» definito da quattro punti determinanti: la coincidenza tra il parlante e il soggetto dell’enunciato (dunque un “io” del discorso incarnato che pone il proprio sé al centro dell’argomentazione); il dispiegamento di un rapporto di potere dettato dalla presenza «almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza e interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare»; la presenza di ostacoli il cui superamento diventa la prova dell’autenticità della verità proferita; la produzione di modificazioni intrinseche nel soggetto che la proferisce, indipendentemente dalle conseguenze esterne. Inoltre, questa istituisce uno specifico effetto di verità attraverso l’autorità determinata non dalla tradizione che trasmette, ma «dall’appartenenza essenziale del discorso fra colui che parla e ciò di cui parla. Al contrario, l’istanza di dominazione non è dalla parte di colui che parla, ma da quella di colui che ascolta e tace. [...] E questo discorso di verità

26

id., del governo dei viventi, cit., p. 58.

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produce infine il suo effetto non in chi lo riceve, ma in colui al quale lo si strappa»27. Per assumere questo assetto specifico, il rituale della confessione ha subito un’opera continua di trasformazione e affinamento, resa possibile dal mutamento del rapporto tra sé e verità intercorsa tra l’Antichità classica e i primi secoli della cristianità. se infatti la pratica di indagine interiore nel mondo greco e latino era finalizzata all’analisi e al miglioramento della propria condotta a partire dai precetti trasmessi dal maestro, nei primi secoli dopo cristo verrà invece piegata a una finalità ermeneutica per decifrare la vera natura dell’interiorità del soggetto attraverso una verbalizzazione costante dei pensieri più reconditi ed impercettibili (il principio monastico omnes cogitationes) rivolta a un interlocutore silente. L’inversione è dunque duplice: da un lato l’istanza di parola cambia posto, passando da un discorso vero in quanto caratterizzato dall’autorità del maestro e da determinati artifici retorici (o meglio, dalla loro presunta assenza) a un discorso vero in quanto mosso da una precisa volontà e attinente a un determinato oggetto (l’interiorità del soggetto); dall’altro, il precetto delfico “conosci te stesso” (gnothi seauton) – nei termini di una consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità come momento di quella cura di sé (epimeleia heautou) che godeva di un ruolo di primo piano nell’Antichità – diventa progressivamente un’ermeneutica della verità interiore, la cui finalità interpretativa sussume la totalità del campo

27

id., la volontà di sapere, cit., pp. 57-58.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

di azione del soggetto nei confronti di sé stesso28. La messa a punto definitiva di una tale ermeneutica avviene però solo all’epoca della Controriforma, grazie soprattutto a ignazio di loyola, i cui Esercizi spirituali costituiscono un vero e proprio manuale di teoria dell’immagine a uso dei discepoli per prendersi cura delle proprie rappresentazioni interiori e prevenire così le tentazioni peccaminose29. il metodo di Ignazio trova anch’esso le sue radici nella filosofia antica (seneca, Epitteto, Marco aurelio) concepita a sua volta come un esercizio spirituale secondo una visione che si perderà completamente a partire almeno dalla Scolastica, che invece considererà la filosofia come ancilla theologiae30. È interessante menzionare questo aspetto dal momento che, a partire dal XiX secolo, si assiste al consolidamento di una linea di pensiero che cerca di ripristinare questo

28 su questi punti si vedano soprattutto id., l’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, tr. it., Feltrinelli, Milano 2003; Id., la cura di sé. Storia della sessualità 3, tr. it., Feltrinelli, Milano 1991. 29

ignazio di loyola, Esercizi spirituali, tr. it., sE, Milano 1998. Fu proprio il concilio di trento ad esprimere una posizione definitiva riguardo alla natura divina del sacramento della confessione, uno dei maggiori punti di rottura tra cattolici e Protestanti, i quali sostenevano invece la sua derivazione umana e la sua estraneità alle Scritture; in realtà, bisogna segnalare come su questo punto specifico anche il dictionnaire de théologie sia reticente in materia; si veda comunque la voce “Confession”, in dictionnaire de théologie catholique, Vol. III/2, Letouzey et ané, Paris 1906-1908. P. hadot, Che cos’è la filosofia antica, tr. it., Einaudi, torino 2010, pp. 243-246. 30

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valore originario della filosofia volto a operare una trasformazione dell’essere e del suo agire, linea nella quale si inserisce il proposito foucaultiano di «una politica di noi stessi» come urgenza politica primaria31. Gli esercizi spirituali sono dunque un correlato imprescindibile della confessione e mettono in gioco delle preoccupazioni analoghe in vista di un esito comune, ovvero realizzare una trasformazione della visione del mondo e una metamorfosi dell’essere. Dunque hanno un valore non solo morale, ma esistenziale. Non si tratta di un codice di buona condotta, ma di una maniera di essere nel senso più forte del termine. E quindi la denominazione «esercizi spirituali» è in un’ultima analisi la migliore, poiché sottolinea come si tratti di esercizi che impegnano tutto lo spirito32.

La modificazione del soggetto grazie a un lavoro sul sé costituisce il perno al quale si appoggia il potere dispiegato in questo particolare rapporto

31

su questo ultimo punto si rimanda a M. Foucault, Cristianesimo e confessione, in id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 92. Sul ritorno di una dimensione spirituale all’interno della filosofia contemporanea si rinvia all’opera di P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it., Einaudi, torino 2005, part. pp. 155 e segg.; Id., La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e arnold i. davidson, tr. it., Einaudi, torino 2008, part. pp. 163 e segg.; ma si veda anche M. Foucault, l’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 13-27.

32

P. hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 70.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

per garantire la propria efficacia. A differenza della confessione, però, gli esercizi spirituali conoscono una decisa linea di continuità tra Antichità classica e cristianesimo, seppur con le trasformazioni legate alla loro finalità di cui si è parlato33. Eppure, anche la confessione non ha imboccato immediatamente, in epoca paleocristiana, la strada che l’ha infine portata alla sua codificazione attuale e alla sua estensione come elemento fondante di un sistema di saperi, in particolar modo quelli concernenti il campo clinicodisciplinare (come i lavori dei primi anni settanta sulla nascita del sapere medico e psicanalitico tentano di dimostrare34). Fino al v secolo, infatti, la pratica della confessione era subordinata alla conoscenza di sé: il fedele aveva l’obbligo di decifrare la propria intimità e poi rivelarne il contenuto, testimoniando dunque contro sé stesso. Questo rito, chiamato exomologhēsis, permetteva di riconoscersi come

33

si veda la voce “Exercises spirituels” compresa nel dictionnaire de spiritualité. ascétique et mystique. doctrine et histoire, vol. 4/II, Éditions Beauchesne, Paris 1953, pp. 1902-1950, dove si evidenzia con chiarezza la filiazione latina del termine esercizio, tanto spirituale che corporale, che designa lo sforzo che esige la vita spirituale nei due domini dell’azione (la pratica di virtù, l’ascesi) e della contemplazione (la mistica); l’importanza di tali pratiche – progressivamente perduta nel Medioevo – viene ripristinata proprio dalle teorizzazione di Ignazio, che inaugurano la dimensione del “ritiro” facendo una sintesi delle diverse accezioni antiche, conferendo così agli esercizi spirituali un significato nuovo che tuttavia non eclissa i precedenti. 34

ad esempio, M. Foucault, il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-1974, tr. it., Feltrinelli, Milano 2004; id., Sorvegliare e punire, cit.

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peccatori e di conseguenza penitenti: affrontare la penitenza era allora il mezzo per creare una cesura con il proprio passato e dimostrare di essere in grado di saper affrontare la morte. Non un mezzo per ristabilire la propria identità, dunque, ma per rimarcare il distacco da se stessi, attraverso un autosvelamento che si configura dunque come rinuncia a sé. Ben diversa è l’exagoreusis, affermatasi successivamente, che prescrive invece una continua verbalizzazione dei propri pensieri per verificarne l’aderenza ai dettami del proprio maestro; questa nuova tecnologia di sé prevede allora la rinuncia alla propria volontà di soggetto: è attraverso l’obbedienza che si costruisce il sé. Il momento verbale dello svelamento acquista sempre maggior importanza a scapito di quello drammatizzato; parallelamente, si assiste a una progressiva privatizzazione della procedura penitenziale, doppiamente rinchiusa nell’atto di parola e nel segreto del confessionale. il modello della verbalizzazione attraverserà tutta la storia occidentale, conoscendo una rinnovata fortuna a partire dal XVIII secolo all’interno del nascente campo delle scienze umane, tra le quali la psicanalisi ha svolto un ruolo di primaria importanza nella ripresa e nel rilancio di certe tecniche e di certi effetti35. Ovviamente, piuttosto che una successione rigida, la compresenza delle due modalità di remissione dei peccati durerà,

35 Per una ricostruzione di questo processo si rimanda alla voce “confession” del dictionnaire de théologie catholique, cit.; su quest’ultima conclusione si veda in particolare M. Foucault, “tecnologie del sé”, in tecnologie del sé, cit.

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almeno in linea teorica, sino al Xiv secolo: e tuttavia, tutte le fonti dottrinarie concordano nel conferire al momento dello svelamento verbale una sempre maggiore e più incisiva presenza. la confessione è ora un segno di verità che «ha una forza operativa che le è propria: dice, fa vedere, espelle, libera»36, permettendo sia all’altro sia a se stessi di scoprire ciò che avviene nell’ombra della propria interiorità. Momenti decisivi della direzione spirituale, confessione ed esercizi spirituali sono i due poli che esemplificano quanto nel potere pastorale entra in gioco in termini di assoggettamento e di soggettivazione: da un lato la confessione realizza quella volontà di sapere e di autolimitazione interiore alla quale la pratica degli esercizi spirituali apporta, nella sua formulazione ignaziana, il giudizio sulle rappresentazioni interiori e il loro vaglio; dall’altro, la confessione permette all’individuo che la proferisce di diventare pienamente soggetto attraverso un lavoro di conoscenza della propria interiorità che costruisce, mediante la disciplina fornita dagli esercizi, un’etica del sé improntata su determinati valori. Proseguendo lungo questo percorso di privatizzazione dell’esperienza penitenziale ed ermeneutica, l’idea di pastorato presenta un tratto fondamentale per comprenderne l’efficacia descrittiva nei confronti del presente: la sua contiguità con l’oikonomia, propriamente “amministrazione della casa”37.

36

M. Foucault, le confessioni della carne, cit., p. 140, corsivi miei. 37

si veda G. agamben, il regno e la gloria. Per una genealogia

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È interessante anzitutto notare come tra economia e politica, almeno in prima istanza, si presenti la contrapposizione tra una dimensione privata e una pubblica, facendo cioè del governo qualcosa di legato a una sfera intima e personale: per quanto si possano integrare, oikos e polis designano comunque due ambiti mai pienamente sovrapponibili, come del resto già intuito anzitempo da Hannah Arendt38. L’odierna riduzione della politica all’economia, dunque, non è determinata soltanto dal sopravvento assunto dagli indici monetari nel sanzionare e indirizzare l’attività legislativa ed esecutiva, ma, forse più in profondità, nell’introduzione surrettizia all’interno del discorso politico di un armamentario retorico che attinge ampiamente alla sfera semantica della casa e all’universo valoriale ad essa connesso, postulando di fatto una linea di continuità che ripercorre a ritroso il tragitto compiuto dal termine “governo”. È a partire da questa prospettiva che Giorgio Agamben ha ripreso e amplificato questa relazione integrandola all’interno della cornice teologica e affrontando i due paradigmi di derivazione biblica

teologica dell’economia e del governo. homo sacer, ii, 4, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 76, 77, 84. 38 h. arendt, vita activa. la condizione umana, tr. it., Bompiani, Milano 1998, pp. 62 e segg., dove si evidenzia il deterioramento subito dalla politica nel momento della sua trasformazione in “economia politica” – secondo una dicitura che si mostra come irresolubilmente aporetica in questa prospettiva; per una sua riconsiderazione in ottica biopolitica si vedano R. Esposito, Bíos, cit., p. 162-164, e P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, carocci, Roma 2007, cap. 1.

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che secondo il filosofo sono all’opera nella moderna concezione dello stato, la teologia politica e la teologia economica – che a loro volta aprono a due campi distinti, quello della sovranità e della filosofia politica e quello della biopolitica e del governo – per interrogare le motivazioni dell’egemonia assunta dall’economia nelle società moderne. La risalita sino alle fonti bibliche viene giustificata preliminarmente sulla base dell’affermazione di Carl Schmitt secondo cui «tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati»39, a patto di intendere la secolarizzazione non come un concetto ma come una segnatura, qualcosa cioè che sposta e disloca i concetti da una sfera a un’altra senza però ridefinirli semanticamente, in modo da far loro conservare una traccia o un indizio della loro passata appartenenza40. la secolarizzazione è dunque, nel sistema concettuale del moderno, una segnatura che rimanda inevitabilmente alla teologia, facendo sì, in sostanza, che il concetto secolarizzato preservi una traccia di questa trascorsa esistenza41. ammettendo la validità di questa posizione, è possibile intendere tutte le tecniche del sé affrontate

C. Schmitt, le categorie del «Politico», tr. it., il Mulino, Bologna 1972, p. 49.

39

40

si veda G. agamben, il regno e la gloria, cit., p. 16. una “teoria delle segnature” si trova in id., Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, cap. 2.

Sulla secolarizzazione si veda anche R. Esposito, Bíos, cit., pp. 184-185, che ne illustra la portata a partire dalle crocefissioni di Francis Bacon. 41

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sinora come singole segnature che recano traccia di un paradigma teologico all’interno della sfera sia quotidiana sia politica, confortando l’impressione di una vitalità mai sopita della dimensione religiosa all’interno delle società occidentali odierne. Gli imperativi morali attinenti a una rinnovata etica del sé, la diffusione di molteplici dispositivi confessionali, la ricerca smodata di una verità su se stessi possono essere visti come le tracce che denotano il perpetuo sedimentarsi sul fondo sociale di tecniche, pratiche e ideologie di origine specificatamente cristiana. Affrontare il potere pastorale significa allora anzitutto analizzare le tecniche specifiche che vengono coinvolte all’interno delle dinamiche di scambio tra sfera religiosa e potere politico e che segnano trasversalmente la storia occidentale. Ma perché si è insistito così a lungo nel definire queste pratiche nel dettaglio? Sempre Agamben, in una proposta metodologica che ripercorre l’impostazione foucaultiana, sottolinea il valore paradigmatico della confessione, «tanto exemplum quanto exemplar»42. Dato che il paradigma costituisce «il metodo foucaultiano nel suo gesto più caratteristico»43, la confessione si inserisce entro uno spazio occupato da altre figure a lei equipollenti – quale ad esempio il panopticon – costituendo dunque una rete di fenomeni storici singolari che decidono di un più ampio contesto problematico. la confessione si fonda pertanto su un’articolazione astratta che le

42

G. agamben, Signatura rerum, cit., p. 20.

43

ivi, p. 19.

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conferisce un’efficacia e una flessibilità pressoché illimitate, oltrepassando il campo semantico e operativo di semplice enunciato investito di un particolare valore di verità ed espresso in sedi preposte (il confessionale, il tribunale...), per diventare strategia discorsiva che rende “automaticamente” vero ogni enunciato. Ma questo, come visto, può darsi solo attraverso il supporto di un’indagine sul sé che garantisca che quanto espresso sia veramente il frutto di una congiunzione con la verità del soggetto. Dunque, il carattere esemplare della confessione può rivelarsi solo nella compresenza di un momento di visibilità del movimento etico che insieme la presuppone e la segue. Quello che in primo luogo tiene insieme questi diversi “esempi esemplari” è allora l’idea di dispositivo, luogo di intersezione di curve di visibilità ed enunciazione e linee di potere e soggettivazione44. in effetti, lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo e nelle analisi filmiche, le forme della condotta possono rendersi efficaci solo allestendo dei rituali che dispongono i corpi nello spazio e fanno assumere delle posture codificate ai soggetti coinvolti. E di questo esattamente si tratta: organizzazione di una rappresentazione incentrata sulla veridizione che definisce dei rapporti di potere finalizzati alla costituzione di un soggetto che decifra la propria interiorità rimettendosi all’autorità del pastore, del confessore o del giudice.

44

su queste quattro dimensioni si rinvia a G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, tr. it., cronopio, Napoli 2007.

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in secondo luogo, il carattere esemplare di questi dispositivi si sovrappone all’esemplarità dell’oggetto analitico così come pensato dalla teoria estetica recente, o, per usare un’altra terminologia, all’idea di oggetto teorico sviluppato dalla teoria dell’arte di matrice strutturalista. L’oggetto teorico è qualcosa che costringe l’analista a fare teoria a partire dai mezzi forniti dall’oggetto stesso e, producendo degli effetti attorno a sé, lo obbliga allo stesso tempo a interrogarsi su che cosa la teoria sia45. se la confessione – al pari di tutte le altre tecniche che definiscono i rituali preposti alla produzione di una verità – è exemplar perché allestisce un dispositivo specifico, la sua messa in immagine definisce allo stesso modo il carattere esemplare della rappresentazione allestita, rappresentazione a questo punto di secondo grado, che dischiude lo spazio di un’interrogazione delle peculiari forme estetiche delle procedure governa-

45 Si veda Y.-A. Bois; H. Damisch; D. Hollier; R. Krauss, a conversation with hubert damisch, in “October”, 85, summer 1998, pp. 3-17: «A theoretical object is something that obliges one to do theory; we could start there. Second, it’s an object that obliges you to do theory but also furnishes you with the means of doing it. Thus, if you agree to accept it on theoretical terms, it will produce effects around itself. While I worked on perspective, I began to have apercus with regard to the history of science that are not at all traditional; I began, that is, to produce theory. Third, it’s a theoretical object because it forces us to ask ourselves what theory is. It is posed in theoretical terms; it produces theory; and it necessitates a reflection on theory». Un ampio sviluppo di questa nozione si trova in O. calabrese, la macchina della pittura. Pratiche teoriche della rappresentazione figurativa tra rinascimento e Barocco, La Casa Usher, Firenze-Lucca 2012.

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mentali. È qui che propriamente si innesta una teoria critica delle immagini.

Sorveglianza, governo, conformazione il cortocircuito tra oikos e polis si concretizza nella privatizzazione della dimensione pubblica, alla quale corrisponde un’analoga pubblicizzazione dello spazio privato. Non è un caso che per descrivere la condizione politica e mediale odierna si parli comunemente di reality show: è proprio in quella formula di intrattenimento che vengono codificate definitivamente le basi per la sua diffusione nel tessuto sociale, riattivando pratiche e tecniche che hanno lavorato per la costituzione di un tale soggetto docile. In effetti, la comparsa sugli schermi televisivi del grande Fratello ha scandito simbolicamente il passaggio dal XX al XXI secolo (è alla fine del 2000 che avviene la sua messa in onda in molti Paesi dopo il successo dell’anno precedente in Olanda) e ha segnato uno spartiacque all’interno della cultura di massa, che curiosamente ne aveva comunque già anticipato i contorni. Basti pensare a the running man (in italia tradotto con l’implacabile), film del 1987 di Paul Michael Glaser con Arnold Schwarzenegger, che preconizza la completa sovrapposizione tra dinamiche di credenza spettatoriale e potere delle immagini televisive nella cornice di un cruento reality show che dà il titolo al film, oppure a the truman Show (1998) di Peter Weir, dove il tema del controllo totale dell’uomo sulla vita acquista la sua formulazione più piena, saldandosi al contempo 53

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con l’idea del divenire spettacolo della realtà e della parallela possibilità di strutturarla secondo dei criteri programmabili eliminando la contingenza46. sebbene i reality show sembrino aver perduto la loro centralità nella quotidianità italiana, è tuttavia grazie al loro valore paradigmatico che è possibile identificare con precisione quei tratti salienti di funzionamento del potere attraverso le immagini che definiscono la prestazione specifica della sua dimensione pastorale contemporanea47. la formula è semplice: si tratta di combinare due tendenze diffuse, il voyeurismo e l’esibizionismo, ovvero i due poli (non necessariamente compresenti) di quella pulsione scopica alla quale il cinema ha dato

Entrambi i film si sviluppano tuttavia in una direzione antitetica rispetto a quella delineata in questa sede, facendo dell’ingiunzione a essere sé stessi l’espediente decisivo che permette di rompere le regole e gli schemi delle costrizioni sociali per ristabilire la verità sul potere politico (the running man) o mediatico (the truman Show). 46

47

a tal proposito si veda ad esempio R.W. Greene, Y movies: Film and the modernization of Pastoral Power, in “communication and Critical/Cultural Studies”, Vol. 2, Issue 1 (3/2005), che tratta del «YMCA’s film program within a cultural problematic of liberal governance: namely, how communication technologies shape conduct», concludendo che «the YMCA’s early twentieth century uptake of film as a cultural technology facilitated the modernization of pastoral power within the governing logics of the liberal state. Today, the arrival of digital media alongside neo-liberalism calls for an assessment of media forms and communication practices in the post-modernization of pastoral power and, perhaps, the possibility of a future revolt of the audience» (corsivi miei).

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ampio rilievo – su tutti La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock – mettendo in scena le diverse sfaccettature che la contrassegnano48. il rapporto asimmetrico così delineato – guardare senza essere visti e essere spiati incessantemente senza poter ricambiare lo sguardo – istituisce in sé una relazione di potere, che però in questo caso si sovrappone a una diversa modalità di sguardo mancato, quella sorvegliante-sorvegliato, in virtù della consapevolezza della propria condizione da parte dei due poli e della sanzione dell’uno sull’altro. Ma vi è anche una terza ragione, forse più importante ancora, a generare questa sovrapposizione: si tratta della conformazione da parte dell’osservato a un dispositivo comportamentale amministrato dall’osservatore. Nella descrizione del funzionamento del panopticon, Foucault analizza questa dinamica riconducendola all’essenza stessa del regime disciplinare: «colui che è sottoposto a un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere; le fa giocare spontaneamente su se stesso; inscrive in se stesso il rapporto di potere nel quale gioca

48

sulla pulsione scopica si veda s. Freud, introduzione al narcisismo. inibizione, sintomo, angoscia, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2012, nonché la sua ripresa in J. Lacan, Seminario Xi. i quattro concetti fondamentali della psicanalisi, tr. it., Einaudi, Torino 2003, che affianca al campo della sessualità quello dell’arte anche in virtù delle intersezioni con il pensiero di Merleau-Ponty. Per una ripresa del concetto in campo specificatamente cinematografico si rinvia al classico C. Metz, Cinema e psicanalisi: il significante immaginario, tr. it., Marsilio, venezia 1980, in particolare sez. 1, cap. 4, e sez. 2.

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simultaneamente i due ruoli, diviene il principio del proprio assoggettamento»49. apogeo della disciplina, il grande Fratello televisivo sembrerebbe dunque a prima vista un’estensione naturale della creazione di Jeremy Bentham: spazio di reclusione, totale visibilità, conformazione a un sistema di regole secondo un’ottica normalizzatrice, impossibile reversibilità dello sguardo. la dinamica voyeurismo-esibizionismo contiene in realtà una specie di contraddizione in termini, dal momento che postula la consapevolezza di entrambe le figure: il voyeur, infatti, è per antonomasia colui che ricerca un’autenticità nelle azioni altrui, sfruttando in linea di principio l’ignoranza dell’osservato di essere tale. Vi è qualcosa allora che eccede quanto detto sinora, facendo sì che il momento dell’assoggettamento non solo non esaurisca completamente uno dei due poli, ma si estenda anche all’altro, scambiando incessantemente le rispettive posizioni. Questo eccesso è determinato dalla volontà e dalla non obbligatorietà di questa dinamica: se i carcerati e i sorveglianti erano infatti divisi dal muro della legge, che stabiliva posizioni distinte e ben definite e assegnava a ciascuno un ruolo preciso, i concorrenti e gli spettatori sono invece presi in una reciprocità fluida, che istituisce posture e comportamenti per entrambi i poli, finendo per confonderli. Si tratta probabilmente dell’esito ultimo di un mutamento nelle forme della fruizione mediale, che porta alle na-

49

M. Foucault, Sorvegliare e punire. nascita della prigione, tr. it., Einaudi, torino 1976, p. 221.

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turali conseguenze quanto Francesco casetti notava già nel 1988 a proposito di quella definita al tempo “neotelevisione”: la televisione mutua dalla realtà quotidiana dei comportamenti che elegge a fonte della propria attività comunicativa; contemporaneamente però essa restituisce alla vita quotidiana un’immagine di questi comportamenti che diventa norma per l’attività comunicativa ordinaria. […] Perciò il mondo della vita che pur funziona da referente del mondo televisivo, nel momento in cui viene rappresentato diventa principio di se stesso50.

Nell’istante in cui il “mondo della vita” si trasferisce completamente al di là dello schermo, ovvero nel momento in cui cessa di essere rappresentato, messo in forma da un’istanza esterna per farsi spettacolo in sé (e giungere sino alle modalità odierne di spettacolo del sé), la soggettività si costruisce secondo un simulacro di libertà che nasconde le costrizioni implicite che stanno alla base dei processi di soggettivazione. Da un lato, abbiamo dunque l’ebbrezza del controllo da parte degli spettatori, che possono sanzionare i concorrenti e decidere eventualmente le punizioni più appropriate in caso di comportamenti non conformi, arrivando sino a comminare la “pena capitale” sotto forma di esclusione dal gioco:

50

F. casetti, tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, Rai-Eri, Roma 1988, p. 25.

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sovranità e disciplina si ricongiungono felicemente nel telecomando, al contempo scettro e scudiscio. Dall’altro, in contemporanea, troviamo i concorrenti che si svincolano dall’essere unicamente oggettivati per assumere volontariamente determinate pose in vista di una sanzione spettatoriale. L’esibizione di sé si carica delle forme grottesche di una naturalezza posticcia, costretta entro certi limiti dai gusti del pubblico che giudica, ma al contempo, se efficace, in grado di ri-orientare questi stessi gusti. avere sotto il proprio controllo ininterrotto le gesta dei concorrenti si tramuta inoltre in un controllo inverso esercitato attraverso dati di ascolto, indici di gradimento e ora algoritmi di ricerca, in grado di garantire e indirizzare la fedeltà degli utenti. Ma vi è qui un ulteriore spostamento da prendere in considerazione: la funzione individualizzante del potere disciplinare si esprime nella percentuale di share, riaccorpando la singolarità discreta dentro a un’unica cifra complessiva. Dall’individuo siamo così passati alla popolazione, l’oggetto di esercizio della biopolitica51. La creazione di un’identità necessariamente unica, distintiva, da parte dei concorrenti – e per estensione di tutte quelle forme di esibizione del sé tipiche della contemporaneità che circolano in un panorama mediale sempre in espansione – si concretizza nell’adozione di strategie comportamentali quanto più possibile corrispondenti a modelli riconoscibili dai

51

Per una ricostruzione della storia del governo della popolazione si rimanda a M. Foucault, nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, tr. it., Feltrinelli, Milano 2006.

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diversi spettatori, sotto le spoglie di una autenticità primordiale che enfatizza le pulsioni originarie52. Di riflesso, l’efficacia conformatrice53 di tali pratiche si attua sugli spettatori, che sono chiamati a giudicare queste gesta extra-ordinarie (l’oggetto ricercato dal voyeur) ricondotte all’interno di una realtà “vera” testimoniata da alcuni artifici retorici: la presa diretta, l’ordinarietà anonima dei protagonisti, il contesto quotidiano. il rapporto proteiforme e oscillante tra gli attori in gioco determina così una reciproca influenza nella quale diventa impossibile distinguere con precisione la posizione occupata da ciascuno, elidendo di fatto la separazione tra osservatore e osservato, tra soggetto e oggetto, tra spettatore e spettacolo. E non solo nello spazio della trasmissione, ma sempre con maggior pervasività nell’intera sfera sociale: dalla moltiplicazione degli epigoni, alla loro espansione all’interno dei rispettivi palinsesti, sino alla migrazione in altri media, con altre forme e con altri intenti. il mondo non viene insomma negato, ma semplicemente messo parzialmente tra parentesi in quanto contingenza non controllabile, mentre alcune sue parti vengono sostituite con simulacri appetibili e

Sui “mondi originari” e le loro rappresentazioni cinematografiche si veda G. Deleuze, l’immagine-movimento. Cinema 1, tr. it., Ubulibri, Milano 1984; il grottesco, strategia figurativa peculiare del cinema politico italiano, ne è una delle forme filmiche più efficaci: si veda in proposito R. De Gaetano, il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999. 52

53

sui processi di conformazione attraverso le immagini si veda G. careri, la fabbrica degli affetti. la Gerusalemme liberata dai Carracci a tiepolo, tr. it., il saggiatore, Milano 2010.

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riconoscibili54: ecco qui delinearsi con chiarezza il rapporto di interdipendenza tra le disposizioni etiche e le strategie estetiche che contraddistinguono la contemporaneità, divenendo modello di senso che va ben oltre lo spazio circoscritto dei reality show televisivi, i quali, tuttavia, sembrano fornire la matrice per quei rituali di manifestazione della verità – che Foucault chiama aleturgici – fondamentali per l’odierno esercizio del potere, con il quale intrattengono un rapporto «un po’ lussuoso, un po’ supplementare, un po’ inutile», destinato cioè non a produrre una conoscenza razionale ma a dar luogo a processi di soggettivazione55. la verità è essenziale nel presente solo nella misura in cui è superflua: una merce, e tra le più preziose, nell’universo del consumo neocapitalista.

Soggettività e soggettivazione soggettivazione e assoggettamento sono dunque due facce di un unico processo reversibile, legate alla dinamica particolare tra conformazione e controllo descritta; già il finale di 1984 (1949) di George Orwell, il punto di origine di questi eterogenei oggetti d’analisi, ne profilava chiaramente i contorni, innestando il versante della soggettivazione su un contesto marcatamente disciplinare, quest’ultimo

54 su questo punto si rimanda alle estese analisi di P. Montani, l’immaginazione intermediale, cit., p. 13. 55

M. Foucault, del governo dei viventi, cit., p. 17.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

rimasto nel tempo come unico tratto caratterizzante l’immaginazione orwelliana. E in effetti, la società del controllo capillare sulla vita ipotizzato da Orwell si basa, ancor più che sulla punizione dei reati, sull’interiorizzazione di norme e precetti e sull’eliminazione alla radice dell’eventualità di un comportamento anormale tramite la codifica di una neolingua, la riformulazione del vocabolario e della struttura concettuale implicata che agisce come principale strumento di normalizzazione dei pensieri e degli atti. È al membro della psicopolizia O’Brien, nell’interrogatorio che precede la confessione del protagonista Winston Smith, che viene affidata l’esposizione dei principi e delle finalità che distinguono il Socing (“socialismo inglese”, l’ideologia dominante nell’immaginario Stato di Oceania) dai regimi e dalle istituzioni del passato, impegnate in un’opera esclusiva di repressione che non impediva però la reiterazione dei reati e la loro emulazione: Noi non ripetiamo errori di questo genere. tutte le confessioni che si fanno qui sono perfettamente sincere. Siamo noi stessi che le facciamo diventare sincere. [...] A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abbietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà. Noi non distruggiamo l’eretico perché ci resiste: fino a che ci resiste, ci guardiamo bene dal distruggerlo. Noi lo convertiamo, ci impossessiamo dei suoi pensieri interni, gli diamo una forma del tutto nuova. Polverizziamo in lui ogni male e ogni illusione. Lo riportiamo al nostro fianco non solo apparentemente, ma nel senso più profondo e 61

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genuino, nel cuore e nell’anima. [...] Il comandamento dei vecchi regimi dispotici era: Tu non devi. il comandamento di quelli totalitaristi era: tu devi. il nostro comandamento è: tu sei56.

È esattamente questa spontanea volontà il perno che sorregge i processi di soggettivazione e conformazione; non sorprende pertanto che, a seguito del trattamento riservatogli, Winston Smith trovi finalmente conforto nella frase che chiude il romanzo: «Ma ogni cosa era a posto, ora, tutto era definitivamente sistemato, la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su se medesimo. amava il Grande Fratello»57. vale la pena notare come questa dialettica tra ortopedia etica e libero arbitrio fosse un tema già compiutamente articolato da arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick; e tuttavia, lo sbilanciamento disciplinare della società immaginata da Kubrick sancisce il fallimento della famosa cura ludovico, incapace di plasmare sino in fondo la soggettività del giovane alex (Malcolm McDowell), sulla cui ritrovata turpitudine il film si chiude. Legando l’efficacia

56

G. Orwell, 1984, tr. it., Mondadori, Milano 1950, pp. 267-268 (corsivi originali). 57

ivi, p. 312. Big Brother è un riferimento al lessico famigliare – “fratellone”, si potrebbe tradurre – che la traduzione italiana perde; è singolare il fatto che il nome venga evidentemente scelto per la sua sfumatura rassicurante che rinvia alla dimensione della famiglia, nonostante il proposito del “Grande Fratello” sia appunto quello di disarticolare la famiglia stessa (sottrazione dei figli appena nati, regime di sospetto esteso ai consanguinei...).

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

della riabilitazione a una mera risposta fisiologica di rigetto allo stimolo della violenza, alex, a differenza di Winston, non giunge ad “amare il governo inglese”, come evidenziato proprio dal cappellano del carcere durante la (rap)presentazione ufficiale degli esiti della cura: dimostrazione che il sapere della Chiesa è imprescindibile nella gestione della dimensione pastorale del potere. Ma c’è un’altra ragione per richiamare qui la Cura Ludovico: il suo essere letteralmente una cura per immagini che rappresenta la «decostruzione dell’esperienza ricettiva vissuta dallo spettatore cinematografico» dove, tanto per Alex quanto per lo spettatore empirico, «l’opposizione fra libertà e costrizione, scelta deliberata e sottomissione viene del tutto neutralizzata»58. Da una prospettiva – potremmo dire – “semio-esteto-pragmatica”, questa lunga sequenza interroga infatti criticamente non solo la possibilità che le immagini esercitino un’efficacia cognitiva sullo spettatore attraverso la loro struttura formale, ma che, allo stesso tempo, ne sollecitino anche la facoltà sensibile producendo una “modificazione dell’essere”, avvicinando così l’esperienza della visione al campo delle tecnologie del sé59.

58

G. Marrone, la Cura ludovico. Sofferenze e beatitudini di un corpo sociale, Einaudi, torino 2005, pp. 164 e 169. si veda ancora ivi, pp. 167-168: «Lo spettatore ha vissuto non solo le sofferenze ma anche le beatitudini del protagonista, e le ha vissute contemporaneamente, in quel medesimo istante che ne ha rivelato quella costitutiva ambivalenza forica che il montaggio al tempo stesso rivela e nasconde. Del resto, lo spettatore non viene coinvolto soltanto in questa breve sequenza estetica: l’intero film è un “montaggio totale”, una “summa spettacolare”, che tende a

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Se la soggettività (intesa come emersione dell’io dell’enunciazione) all’interno del discorso filmico ha avuto numerosi analisti ed esegeti, le dinamiche di soggettivazione all’interno del testo filmico decisamente molti meno. certamente, messa in discorso e messa in scena operano su due livelli di teorizzazione distinti; un possibile punto di convergenza può essere tuttavia definito dalla prospettiva adottata, ricucendo la distanza che separa i due aspetti e ponendoli in confronto su un medesimo piano di pertinenza. la costruzione dello spettatore da parte del film procede ovviamente articolando il rapporto mutevole tra i due nei termini di una maggiore o minore inclusione del primo dentro il discorso del secondo, ma ne determina anche delle funzioni esterne al discorso stesso. In sostanza, se il discorso del film istituisce un interlocutore che è al contempo costruttore (soggetto) e portato (oggetto) del discorso stesso60, dall’altro può tematizzare questa dicotomia tra soggettivazione e assoggettamento per collocare lo spettatore in una determinata posizione con un determinato ruolo. Sembra possibile dunque ritrovare il problema che ha aperto il paragrafo precedente ribaltandone però la prospettiva: dove prima la soggettivazione veniva mostrata per sollecitare una sua emulazione da parte dello spettatore, determinandone tuttavia anche l’assoggettamento, ora la messa in scena di tali tecniche

mettere a nudo la sua natura di oggetto composito, di costrutto testuale che stimola i processi sensoriali e somatici di tutti i tipi».

F. casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1985, p. 20. 60

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

è il luogo dal quale prendere le distanze tramite una “imposizione coercitiva”, ovvero la determinazione di un punto di vista, in grado però di aprire a una soggettivazione spettatoriale. in altri termini, se, a diverse profondità discorsive, il ricorso sistematico nei media audiovisivi ad alcune tecniche del sé tende a rimettere in discussione le forme di credenza61 e di relazione tra immagine e senso agendo su una riconfigurazione delle strategie di veridizione, instaurando pertanto un particolare rapporto di potere con il proprio spettatore, dal versante opposto possono emergere altre tattiche che rimettono in questione questa circolarità attraverso una messa a nudo dei meccanismi di funzionamento di tali tecniche del sé e riposizionando al contempo lo spettatore. Francesco casetti parla a questo proposito del cinema come «luogo di messa in forma negoziata delle istanze che circolano nello spazio sociale»62, formulando, sulla scorta dei lavori di Jonathan Crary e Omar Calabrese, un’analoga apertura di senso a partire da una dimensione teorica propria delle singole opere – degli oggetti teorici dunque – e da una loro efficacia

61 la centralità delle forme della credenza nel cinema moderno è stata messa in evidenza da G. Deleuze, l’immagine tempo, cit., p. 192, e ripresa poi estesamente da D. Dottorini, la passione del reale. il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018, soprattutto cap. 1. su questo punto mi permetto di rimandare anche a G. Tagliani, Estetiche del montaggio e regimi di credenza, in “Fata Morgana. n. 33 – medium (settembredicembre 2017), pp. 193-210. 62

F. casetti, l’occhio del novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005, p. 278.

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nei confronti dello spettatore: Dunque è ben vero che il cinema lavora per un occhio docile, ma la docilità non significa remissività. Diciamo insomma che, nel momento stesso in cui il cinema cerca di dare un ordine all’attività scopica, sfida anche la vista, la provoca, la mette alla prova, la porta al limite. Anche per questo c’è bisogno di una disciplina, ma sarà una disciplina aperta, che si misura con un ampliamento dell’attività tradizionalmente connessa63.

le forme e i temi attraverso cui indagare questa contrapposizione sono molteplici e investono trasversalmente discipline differenti. la prospettiva attinente alla messa in scena di particolari tecnologie del sé ha un pregio rispetto ad altre analoghe: conferisce infatti allo spettatore una competenza che gli permette di acquisire un “ruolo attoriale”, a livello di dispositivo filmico, all’interno della relazione di potere che è parimenti tematizzata dal film stesso. Lo spettatore-testimone si configura pertanto di volta in volta come confessore, giudice, direttore spirituale, occupando dunque una posizione costruita dal film e grazie alla quale si accende un circuito di sanzione che rimette in questione le immagini in un’ottica comparativa. L’efficacia dell’immagine diventa insomma strumento di critica nei confronti di un’altra efficacia inversa. Andando oltre l’esempio di arancia meccanica, i film di cui si parlerà nelle prossime

63

ivi, p. 284.

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i. il potere pastorale: tecniche e immagini

pagine (e lo vedremo in misura limpida nei lavori di Petri) mettono al centro della loro dimensione estetica proprio questa preoccupazione, saldando l’aspetto tematico con un fare pragmatico. la questione della costruzione di una soggettività al cinema, insomma, deve essere declinata in termini diversi dall’emersione di un io dell’enunciazione – investito magari di tratti psicologici e sociali – all’interno del discorso o dalla collocazione dello spettatore in posizione di soggetto. in realtà, sembra si tratti esattamente dell’opposto: indagare quali strategie estetiche siano in funzione all’interno dei discorsi audiovisivi per costruire un dispositivo che veicoli o trasmetta una soggettività, questa volta nei termini propri di un dispiegamento della coppia soggettivazione-assoggettamento, come ad esempio il caso della confessione ben evidenzia. uno dei punti decisivi che verrà analizzato nelle prossime pagine è il conflitto che si viene a instaurare tra diversi punti di vista che assolvono funzioni differenti, delineando uno speciale dispositivo testimoniale in grado di assemblare queste posizioni anche contraddittorie. Più che una «rappresentazione filmica del soggettivo»64, dunque, si tratta di rappresentare i processi di costruzione della soggettività come elemento di connessione tra i due spazi definiti dall’immagine, nonché la loro interazione reciproca.

Si veda ad esempio D. Chateau, la subjectivité au cinéma. Représentations filmiques du subjectif, Presses universitaire de Rennes, Rennes 2011. 64

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ii. Frammenti di un dialogo immaginario

ii. FRaMMENti Di uN DialOGO iMMaGiNaRiO

Foucault, Pasolini, Petri e ancora Foucault il ruolo di primo, primissimo piano occupato da Foucault e Pasolini nella letteratura critica e teorica degli ultimi anni è un fatto ormai consolidato. Del resto, si tratta di due delle figure intellettuali più rilevanti del secolo scorso, radicati in due Paesi che hanno intrattenuto una relazione privilegiata negli scambi artistico-culturali, e la cui maturità coincide con una congiuntura storica – tra anni ’60 e ’70 – che questi scambi ha incentivato con particolare insistenza. Discorso diverso riguarda invece Elio Petri «che, malgrado un Oscar e una Palma d’oro, non fu mai davvero riconosciuto nel corso della sua vita, e che fu eliminato dalla memoria del pubblico dopo la sua prematura scomparsa nel 1982»1, come di recente ha scritto ancora Jean Gili, forse il più ostinato studioso J.A. Gili, Prefazione, in Elio Petri, uomo di cinema. impegno, spettacolo, industria culturale, a cura di G. Rigola, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2015, p. 11; lo stesso Gili conclude così la sua introduzione a E. Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di J. Gili, Bulzoni, Roma 2002, p. 30: «Il ricordo di Petri e Pasolini non mi abbandona mai». 1

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dell’opera del regista romano. Non un raffinato intellettuale, dunque, piuttosto un artigiano impegnato, personalità di spicco del genere “politico” che imperversava sugli schermi italiani in quegli anni: questa l’immagine di Petri rimasta impressa. Sembrerebbe allora lecito ipotizzare che in questo schema il ruolo di implicita – e non necessariamente consapevole – figura di raccordo tra Foucault e Petri sia assunto da Pasolini, colui che più di tutti è stato capace di intercettare alcune delle tensioni presenti nel dibattito francese traducendole, nei suoi modi, in Italia; ben inteso, a questo lavoro di mediazione e traduzione corrisponde un analogo lavoro di creazione di nuovi concetti e di identificazione di nuovi problemi, che doneranno così un rilancio alla ricerca dalla quale, probabilmente, avevano preso le mosse. Petri non era però affatto sconosciuto al milieu intellettuale d’oltralpe: con la vittoria del Grand Prix della giuria al Festival di cannes del 1971 con indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e soprattutto della Palma d’oro l’anno seguente con la classe operaia va in Paradiso, l’opera del regista romano incarnava un modello dominante per le contestazioni studentesche dell’epoca2. Ma è nell’ultimo capitolo della trilogia della nevrosi, la proprietà non è più un furto del 1973, che affiora qualcosa di più sorprendente, qualcosa che costringe definitivamente a ripensarne la figura oltre lo stereotipo di un cinema politicizzato posto sotto il segno dell’eccesso

2

si veda la testimonianza di s. toubiana, les fantômes du souvenir, Grasset, Paris 2016.

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ii. Frammenti di un dialogo immaginario

e schiacciato sul presente: è qui che infatti si può rinvenire la chiara anticipazione di alcuni dei temi che diventeranno i cardini del corso di Foucault del 1976. Pur godendo di una discreta attenzione da parte del pubblico (l’eco dei successi raccolti recentemente lo aveva comunque sostenuto, garantendogli la presenza al Festival di Berlino e alla Mostra del cinema di Venezia), il film del 1973 allestisce un’atmosfera molto più cupa rispetto ai due precedenti, portando la critica a prendere ulteriormente le distanze dal discorso petriano su potere e società, comunque mai accolto di buon grado fino in fondo. Eppure, rivista retrospettivamente, quest’opera propone già compiutamente almeno due grandi direttrici che pochissimo tempo dopo avrebbero trovato un orizzonte teorico dentro il quale attecchire con profitto. La prima è proprio la confessione, che attraversa il film in tutta la sua estensione, accostando il discorso dell’inchiesta poliziesca a quello dell’inchiesta interiore: «Lei si deve fidare di me come se fossi il suo confessore», dice a un certo punto il brigadiere Pirelli (Orazio Orlando) al Macellaio (ugo tognazzi) per rincuorarlo dopo i furti subiti ma anche per estorcergli una verità che il primo ritiene ancora celata. Al di là della ricorrenza tematica di superficie, a colpire l’attenzione sono soprattutto i momenti confessionali, dei quali il primo oltretutto costituisce l’incipit del film: si tratta di intermezzi teatrali d’impostazione brechtiana, quattro monologhi su sfondo nero nei quali i personaggi principali si rivolgono direttamente allo spettatore delineando una contrapposizione tra un “io” (la prima parola del film) e un “voi”. Quattro diverse facce della nevrosi che incarnano le pulsioni 71

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principali che scandiscono la dimensione sociale: la politica, il sesso, il denaro, l’ordine. Il film è notoriamente un caustico pamphlet contro la “religione del denaro”, rappresentato come oggetto di devozione e custodito in luoghi deputati all’ufficio di questo culto3; ma forse non è stata messa sufficientemente in rilievo la dimensione securitaria che costituisce la seconda direttrice principale, al punto da concretizzarsi in una fiera dedicata alla difesa personale come dovere sociale (“difenditi, difenditi” si legge infatti sul pavimento dell’esposizione). “Difendere la società” è dunque l’imperativo etico attorno al quale si articola lo scontro tra le varie posizioni in gioco nella storia narrata: una società fondata sul denaro e su uno squilibrio capace di generare ordine solo attraverso coercizione artificiosa («arrestare è bellissimo», conclude Pirelli nella sua confessione). Se Petri poteva apparire come l’anello “debole” di questa catena di reciproche influenze, l’analisi delle sue opere ci costringe invece a ripensarne la ricchezza espressiva e teorica che anticipa alcuni dei nuclei cardine del pensiero critico degli anni successivi4.

3 Mostrando dunque una spiccata sintonia con il frammento di Walter Benjamin “Capitalismo come religione”; per un’ampia riflessione attorno a questo breve scritto si rimanda a il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, a cura di D. Gentili, M. Ponzi e E. stimilli, Quodlibet, Macerata 2014. 4 un auspicio espresso ancora di recente da G. Rigola, Un regista dimenticato?, in Fata morgana Web 2019. Un anno di visioni, a cura di a. canadè e R. De Gaetano, Pellegrini, cosenza 2019, p. 478: «Per ristudiare e riscoprire oggi il cinema di elio Petri non serve la premessa legittimante del suo oscuramento, ma casomai

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ii. Frammenti di un dialogo immaginario

Accostandosi ai suoi film, è difficile non rimanere affascinati da una così minuziosa, accurata e lungimirante indagine sulle forme e i dispositivi del potere: l’inclusione di Petri in questo ipotetico dialogo a più voci appare ora meno arbitraria, alla luce anche della sua padronanza del dibattito critico in corso in quegli anni, come emerge in molti suoi appunti e scritti. Le tracce di rispettiva interazione che verranno di seguito ricostruite non si prefiggono tuttavia in alcun modo di fornire una chiusura a questo dialogo circolare, che rimane costitutivamente “asimmetrico” a causa anche delle significative differenze biografiche tra queste tre figure. Si tratta piuttosto di provare a stendere una rete di riferimenti incrociati capaci di preparare il terreno alle analisi filmiche, che alla fine sono l’oggetto specifico di questo libro. È ora il momento di svolgere i fili che tengono insieme questa architettura ancora immaginaria. Foucault-Pasolini I rapporti tra Foucault e Pasolini sono un tema che di recente ha trovato una notevole risonanza critica; in effetti, la prossimità tra il loro pensiero emerge in modo lampante appena si accostano le rispettive opere, considerando soprattutto la sorprendente convergenza temporale. Non desta stupore insomma l’interesse nel sondarne le corrispondenze sotterraesso deve divenire un tassello nell’apertura di nuove prospettive di ricerca sull’opera e sui discorsi ad essa legati».

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nee, in un momento in cui, per di più, la realtà sembra dare conforto alle loro analisi sullo stato della società e della democrazia. Al contrario, stupisce che non vi siano tracce di un’effettiva interazione intercorsa tra i due e, fatto ancora più insolito, che i rimandi reciproci siano pressoché inesistenti. Pasolini cita Foucault in una nota a piè di pagina di La fine dell’avanguardia, scritto nel 1966 e confluito poi in Empirismo eretico5. si tratta di una polemica contro la neoavanguardia letteraria italiana (in particolare contro Edoardo Sanguineti) che dà a Pasolini l’occasione di riflettere sul suo abbandono della lingua letteraria in favore del linguaggio cinematografico, tanto da fargli esclamare: «Facendo il cinema io vivevo secondo la mia filosofia. Ecco tutto»6. Dopo aver tessuto le lodi di Roland Barthes come uno dei «due più avanzati e straordinari rappresentanti del saggismo europeo»7, Pasolini espone nuovamente il suo celebre programma teorico sulla realtà come cinema in natura e sul cinema come lingua scritta della realtà, concludendo così: «la realtà è un linguaggio. Altro che fare la “semiologia del cinema”: è la semiologia della realtà che bisogna fare!»8. È in questa digressione semio-fenomenologica che

P.P. Pasolini, La fine dell’avanguardia, in Empirismo eretico, ora in id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, tomo i, a cura di W. siti e s. De laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 1400-1428. 5

6

ivi, p. 1416.

ibidem. Torneremo inoltre a breve su Barthes come grande punto di congiunzione tra Pasolini e Petri. 7

8

ivi, p. 1418, corsivi originali.

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compare il nome di Foucault, accostando l’idea del linguaggio della realtà alla «Prosa del mondo, come suona il titolo di un nuovo libro di Foucault che non ho ancora letto»9. “la prosa del mondo”, ovviamente, è il secondo capitolo di le parole e le cose (che sarebbe stato tradotto in italiano solo nel 1967), apparso tuttavia in versione ridotta sulla rivista diogène all’inizio del 1966. Che Pasolini avesse in mente questo articolo o il libro intero non è chiaro; comunque sia, per illustrare meglio le sue posizioni, racconta «la trama del primo episodietto, introduttivo, di un film misto, a episodi, che ho tra i progetti». L’episodio è la terra vista dalla luna, con totò e Ninetto Davoli, terzo segmento di le streghe, uscito in sala nel 1967, anno in cui, tra marzo e aprile, Pasolini gira un altro episodio con gli stessi protagonisti, Che cosa sono le nuvole?, confluito nel film collettivo Capriccio all’italiana del 1968 e i cui titoli di testa sono costituiti da manifesti che riproducono alcune opere di velázquez, in particolare las meniñas. alla luce della cornice cinematografica nella quale si inserisce il riferimento a Foucault, non vi sono dubbi che si tratti di un secondo, evidente rimando al filosofo francese, che come noto introduce le parole e le cose con un

9

ivi, p. 1420. curiosamente, la prose du monde di Maurice Merleau-Ponty verrà pubblicato postumo solo tre anni dopo, nel 1969, quasi raccogliendo l’intuizione pasoliniana che si interroga appunto se il suo discorso possa «rientrare – magari attraverso l’esistenzialismo sartriano – nell’ambito della ricerca fenomenologica».

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lungo saggio su questo quadro: proprio il nome del regista – che appare su un ritaglio di carta incollato sulla riproduzione della tela – assume funzione autenticante, sorta di glossa autografa al contenuto del libro. Un interesse che ricorre, dislocato, anche in Calderón, testo teatrale ideato proprio nel 1966 ma pubblicato solo nel 1973, dove Pasolini sembra tradurre in ambito letterario l’analisi svolta da Foucault sul dispositivo della rappresentazione classica10. in termini così diretti Pasolini non si riferirà più a Foucault, che da parte sua lo citerà, post mortem, solo all’inizio del 1977, recensendo a quasi quindici anni di distanza Comizi d’amore (1963) per il quotidiano “le Monde”11. Quel breve articolo sarà l’occasione per esprimere tra le righe una profonda convergenza di vedute, lasciando affiorare qua e là la piena conoscenza delle opere di Pasolini, almeno quelle filmiche e saggistiche. Di sfuggita, Foucault registra la distanza del film dalla forma confessionale delle inchieste in cui si cercano di stanare i segreti più intimi, annotando l’inquietudine di Pasolini di fronte a un periodo incerto che prenderà appunto il volto della tolleranza solo anni dopo, diventando uno dei bersagli degli attacchi pasoliniani negli Scritti corsari. È un omaggio che giunge a più di un anno di distanza da un clamoroso “incontro mancato”, te-

Per un’analisi approfondita si rimanda a G. D’Agostino, Pensiero Corsaro. Una biopolitica dell’esistenza, Effigie, Milano 2016, pp. 33-40. 10

11

M. Foucault, i mattini grigi della tolleranza, tr. it., “aut aut”, 345, gennaio-marzo 2010, pp. 55-59.

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stimoniato dall’intervista Sade, sergente del sesso12, realizzata nel dicembre 1975 subito dopo l’anteprima parigina di Salò. Nonostante i continui riferimenti da parte del suo interlocutore, la sua ostinazione nel non parlare di Pasolini – appena scomparso – suona sorprendente; in quell’occasione, Foucault si limita infatti a decostruire il nesso tra sadismo e fascismo, data la mancanza di componente erotica in quest’ultimo, postulando una connessione esclusiva tra il marchese de Sade e il regime disciplinare. Solo qualche mese più tardi, durante le lezioni al collège e in la volontà di sapere, tornerà invece per due volte sui legami tra il marchese libertino e la pastorale cristiana, evidenziando come entrambi leghino l’atto sessuale alla sua espressione verbale meticolosa e integrale e come la dimensione sovrana vi giochi un ruolo considerevole13, fatto ben compreso da Pasolini, come vedremo nel prossimo capitolo. vi è inoltre forse un secondo riferimento, ben più implicito ma nel caso molto più significativo, un vero e proprio omaggio che Foucault riserva a Pasolini: il titolo del suo ultimo corso al collège, il coraggio della verità14. È forte la tentazione di ve-

12

si veda id., Sade sergente del sesso, in id., discipline, poteri, verità. detti e scritti 1970-1984, tr. it., Marietti, Milano 2008.

13 si veda id., la volontà di sapere, cit., pp. 23-24 e 131-132 e id., “Bisogna difendere la società”, cit. 14

Questa suggestione è stata proposta da Wu Ming in un articolo online su “Giap!” nel 2011 con il titolo Pasolini-Foucault: appunti per un «vite parallele», https://www.wumingfoundation. com/giap/2011/05/pasolini-e-foucault-appunti-per-un-«vite-

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dervi il richiamo a uno dei passaggi più famosi della saggistica pasoliniana, apparso nell’articolo del 14 novembre 1974 il romanzo delle stragi e pubblicato poi in quegli Scritti corsari citati nella recensione a Comizi d’amore: «È proprio la ripugnanza a entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in italia»15. così fosse, si tratterebbe di un lascito testamentario rilevante, considerando soprattutto l’argomento del corso, la parresia, l’arte del parlar franco, che farebbe dunque di Pasolini un parresiasta esemplare; a tal proposito, non sono mancate le letture di impostazione foucaultiana dell’esistenza, prima ancora che dell’opera, di Pasolini stesso16. a margine di questi rimandi più o meno espliciti, sono in ogni caso tante le tematiche che uniscono i due, a partire dal già menzionato de sade sino all’interesse per Edipo e al suo governo attraverso la verità la quale, nella rispettiva rilettura, si trasforma in un vero e proprio pharmakon, insieme rimedio e veleno17. Ma è sicuramente la riflessione incrociata

parallele»/ (ultimo accesso 3 gennaio 2020) 15

P.P. Pasolini, il romanzo delle stragi, in id., Saggi sulla politica e la società, a cura di W. siti e s. De laude, Mondadori, Milano 1999, p. 364. 16

si veda ad esempio M.W. Bruno, Corpus Christi Pasolini, in Corpus Pasolini, a cura di a. canadè, Pellegrini, cosenza 2007, pp. 85-102. 17

Su questo punto specifico R. Kirchmayr, Pasolini, Foucault

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su verità e sessualità nella cornice di una dimensione positiva e produttiva del potere a definire il campo di maggiore vicinanza, quello dove si registrano le convergenze più lampanti, soprattutto perché sviluppate pressoché in contemporanea in un periodo durante il quale sostanzialmente non stavano pubblicando libri (Foucault) oppure si esprimevano attraverso articoli confluiti poi in volumi (Empirismo eretico e Scritti corsari) che sarebbero stati tradotti in francese solo a partire dal 1976. Un potere che non è più pensato come semplice coercizione, ma che dispone di una sua “vita psichica” che agisce da collante tra lo spazio delle norme sociali e la loro spontanea interiorizzazione da parte dei soggetti che, anzi, diventano tali solo grazie all’adesione a queste stesse norme18. un potere dunque dal volto seducente, che normalizza gli individui gratificandoli attraverso il sentimento di appartenenza a un sentire comune e a un senso comune. Pasolini, si sa, diede un nome molto preciso a questo processo: genocidio culturale. una rivendicazione alla differenza che lui per primo avanzò almeno a partire dal 1961, all’uscita del suo primo film, accattone, e sulla quale costruì buona parte della sua teoria del “cinema di poesia”, un cinema liberato dalle «possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di

e il sapere di Edipo, in Pasolini, Foucault e il “politico”, cit., pp. 21-56. Questa dinamica è affrontata nel dettaglio da J. Butler, la vita psichica del potere. teorie del soggetto, tr. it., Mimesis, Milano 2013.

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ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria19». una visione estetica che avrebbe trovato in Petri uno dei maggiori sostenitori.

Pasolini-Petri tra Pasolini e Petri i momenti di incontro sono stati diversi e i rimandi decisamente più fitti, sebbene solo da una parte in termini espliciti. i due si incontrano probabilmente prima del 1959, in occasione dell’ideazione di un film poi diretto da Leopoldo Savona, le notti dei teddy boys, la cui sceneggiatura viene affidata a Petri, tra gli altri, sotto una sorta di amichevole supervisione di Pasolini20. Petri al tempo faceva parte della redazione di “città aperta”, rivista fondata da Tommaso Chiaretti nel 1957 che raccoglieva l’ala intellettuale “dissidente” del PCI e che trovò come compagno di strada in varie occasioni proprio Pasolini, il quale sottoscrisse il manifesto Questioni per un programma, apparso in prima pagina nel primo numero nel maggio del ‘5721. L’illustrazione

19

P.P. Pasolini, il cinema di poesia, in Empirismo eretico, cit., p. 1477, corsivi miei. 20

la ricostruzione minuziosa di questa vicenda si trova in t. Mozzati, l’estate calda dei teddy boys. Pier Paolo Pasolini, Elio Petri e una collaborazione alla fine degli anni Cinquanta, carocci, Roma 2019. 21

ivi, pp. 44-45.

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che l’accompagna è di Renzo Vespignani, del quale Pasolini aveva scritto la presentazione nel catalogo della mostra alla Galleria L’Obelisco di Roma nel ‘56 e che per Petri (di cui era amico) avrebbe realizzato i manifesti per la proprietà non è più un furto e le mani sporche (1982), figurando inoltre come presenza iconografica ricorrente nella messa in scena del regista romano già a partire da l’assassino (1961). Entrambi, come noto, hanno anche successivamente condiviso un medesimo spazio di azione pubblica sorto su idea dello stesso Petri a seguito della strage di Piazza Fontana nel 1969, il comitato cineasti italiani contro la repressione, del quale facevano parte alcuni dei nomi più importanti della cinematografia nazionale dell’epoca, tra i quali appunto Pasolini. A firma del collettivo escono nel 1970 due lavori, uno coordinato da Nelo Risi (giuseppe Pinelli) e uno da Petri (ipotesi sulla morte di Pinelli). Questa necessità di tentare di gettar luce su uno snodo cruciale della storia italiana riguarderà anche Pasolini che, nel 1972, supervisionerà per conto di lotta continua il documentario 12 dicembre. Petri ha certamente guardato da subito a Pasolini come a un riferimento principale, benché ciò – considerandone la formazione politica e cinematografica – non sembri scontato. All’inizio del suo secondo lungometraggio, i giorni contati (1962), un’inquadratura brevissima subito dopo un piano sequenza chiude la scena del morto sul tram. si tratta di movimento di macchina in avanzamento che, fuori dalla carrozza e senza apparente motivazione diegetica, stringe su un articolo nel giornale che copre il volto del defunto giusto il tempo per riuscire a leggere il titolo: “come 81

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Pasolini concilia cinema e letteratura”, articolo di Adolfo Chiesa pubblicato su “Paese Sera” nel settembre del 1961. Al di là dell’omaggio, conciliare cinema e letteratura sarebbe stata una costante del lavoro del regista romano, già a partire dalla sua opera successiva, il maestro di vigevano (1963) tratto dal romanzo di Lucio Mastronardi: una ricerca di affinità che si appoggia anche su basi cronologiche (entrambi girano il primo film nel 1961) e, inizialmente, tematiche e stilistiche22. curiosamente, per il ruolo andato poi a salvo Randone uno dei nomi in lizza era quello di Totò, verso il quale Petri ha espresso più volte la propria ammirazione, tracciandone anche un parallelo con il suo attore-feticcio, Gian Maria volonté23; se non fosse stato per problemi di costi – così ricorda Petri – si sarebbe trattato probabilmente del primo ruolo “pasoliniano” per l’artista napoletano, quattro anni prima dell’effettiva collaborazione con Pasolini. Petri torna ciclicamente a parlare di Pasolini anche dopo la morte di quest’ultimo e sin quasi alla fine della propria vita, per esempio richiamandone le analisi sulla “mutazione antropologica” accorsa in Italia in un’intervista con Umberto Rossi apparsa su “cinema60” nel marzo del 198224. Ma è soprattutto

Su questo si veda anche G. Rigola, Un cinema dell’uomo. Prospettive di ricerca del primo Petri, in Elio Petri, uomo di cinema, cit., p. 30. 22

23 si veda F. Pitassio, Carne e carnevali. attorialità, stile e politica nel cinema di Elio Petri, in Elio Petri, uomo di cinema, cit., p. 97. 24

intervista ora inclusa in E. Petri, Scritti di cinema e di vita,

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in una conversazione con Jean Gili del febbraio del 1976 che prende risolutamente le difese di Salò («un film magnifico che nessuno ha capito») contro le accuse dei detrattori, sulla base di un riscontro dell’inadeguatezza della critica, registrando oltretutto un parallelo tra la scansione degli esercizi spirituali da parte di Sant’Ignazio e quella delle scene in de sade25. Ed è proprio a partire dal rapporto tra Salò e todo modo che può prendere avvio un percorso di ricostruzione di un secondo dialogo a distanza, sviluppato in modo più o meno autonomo eppure incredibilmente attiguo, al punto da ipotizzare di dover considerare queste due opere come un dittico sulla forma contemporanea del potere, nel quale le parti acquistano senso compiuto solo attraverso il riferimento reciproco. E se tale questione è sin troppo condivisa dalla temperie culturale del tempo per poter essere considerata una discriminante decisiva, c’è tuttavia un aspetto molto particolare che sembra unire i due lungo una consonanza singolare nella visione del presente. «Col potere non ho avuto che vincoli puerili»: è la citazione dal poeta russo Osip Mandel’štam posta in esergo a Petrolio. altri si sono già interrogati sul significato da attribuire a questa scelta, intendendola comunque come un’appropriazione da parte di Pasolini, un autoriferimento, probabilmente in virtù

cit., pp. 104-109. J.A. Gili, Elio Petri et le cinéma italien, Rencontres du cinéma italien, annecy 1996, pp. 13-14. 25

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della prima persona singolare26. Che, da un certo punto di vista, è certo l’opzione più immediata visto che, come scrive ad Alberto Moravia, «in queste pagine io mi sono rivolto al lettore direttamente e non convenzionalmente. […] io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa, come scrivo a te questa lettera, o come spesso ho scritto le mie poesie in italiano»27. Eppure, se si considera la particolare struttura enunciativa del romanzo, nel quale «la voce narrante si esibisce di continuo ma questa voce non è collocabile in un punto determinato, [...] che usa decine di maschere diverse»28 assumendo uno «stile piano, oggettivo, grigio», e dove non sempre si riesce a «capire se si tratta di fatti reali, di sogni o di congetture fatte da qualche personaggio»29, questa attribuzione può non essere così scontata. Perché, ad esempio, non riferirla a Carlo, il protagonista? O perché, più in generale, non pensare che questi vincoli siano una condizione immanente all’esercizio stesso del potere nella cornice storica dell’avvenuto passaggio al neocapitalismo descritto dal romanzo? In fin dei conti, se Petrolio è un’opera pensata per raccogliere in una forma organica le considerazioni

26 su tutti si vedano c. Benedetti, Quattro porte su ‘Petrolio’, in aa. vv., Petrolio, cronopio, Napoli 2013 e B. Moroncini, la morte del poeta. Potere e storia d’italia in Pier Paolo Pasolini, cronopio, Napoli 2019. 27

P.P. Pasolini, Petrolio, a cura di s. De laude, Mondadori, Milano 2005, pp. 579-580. 28

M.A Bazzocchi, Esposizioni, cit., p. 19.

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P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 4.

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che Pasolini aveva espresso negli ultimi anni in interventi pubblici, articoli, saggi brevi, questo esergo potrebbe anche essere letto come una cornice di senso che tiene insieme i frammenti sparsi di una ricognizione analitica sul tempo presente che procede in direzioni divergenti e non sempre facilmente circoscrivibili in un’unità coesa. Ma come si manifestano esattamente questi vincoli puerili? Qui è Petri a suggerirci una risposta, a partire dal primo capitolo della trilogia della nevrosi, indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. a rinfacciarlo al personaggio di volonté è dapprima l’amante, Florinda Bolkan («sei un bambino, fai l’amore come un bambino!») e poi, alla fine, i colleghi riuniti in casa sua. Tutto il film è attraversato da questa tensione puerile, che si manifesta tanto come regressione (la scena dell’interrogatorio dello studente Pace) quanto come attitudine infantile (la continua incapacità a ricoprire il ruolo fino in fondo e ad attuare efficacemente le dovute strategie, la motivazione futile che adombra continuamente il movente del delitto). i vincoli puerili sono quelli che il potere chiede dunque di intrattenere con sé nel momento in cui un soggetto vi si accosti per stabilirvi una relazione, di qualsiasi tipo essa sia. È facile vedere come da lì in poi Petri esplori continuamente questa linea puerile. con la classe operaia va in Paradiso (1971) nell’operaio Lulù Massa (sempre Volonté) che viene assorbito totalmente dal lavoro disinteressandosi delle lotte sindacali in corso, nei sindacati conniventi con i padroni, nel massimalismo studentesco dovuto all’estraneità a quella vita: tre sfaccettature di quell’“infantilismo 85

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politico” che avrebbe segnato la storia della sinistra italiana. L’indagine prosegue – dall’altro lato del rapporto – nel film successivo, la proprietà non è più un furto, dove il Macellaio incita continuamente all’instaurazione di una relazione puerile tanto con i soggetti (ad esempio la necessità del conforto sulle sue prestazioni sessuali richiesto alla fidanzata, Daria Nicolodi) quanto con gli oggetti (la frenesia del possesso, l’eccitazione per i soldi in quanto banconote), alla quale sintomaticamente si contrappone l’allergia del cassiere total (Flavio Bucci) al denaro. con todo modo tale interrogazione trova il suo ultimo atto quando, ponendo i rappresentanti del potere politico e finanziario di fronte alla fine (della loro vita, di un’epoca, dei tempi…), questa regressione dismette qualsiasi tratto ironico (ancora rintracciabile nei film precedenti) per farsi cupa, mortifera: l’infanzia come condizione crepuscolare dell’essere umano. Una consapevolezza esplicitata da Giacinta (Mariangela Melato) che, riferendosi al marito M (ancora volonté), esclama: «io mi lascio succhiare perché lui diventi più forte, ma una madre non può fare l’amore con il proprio figlio!». Che tutto il cinema di Petri degli anni ‘70 non sia allora leggibile come una grande, articolata riflessione sui vincoli puerili che necessariamente si intrattengono con il potere30?

30 Una lettura implicitamente suffragata anche da A. Tovaglieri, la dirompente illusione. il cinema italiano e il Sessantotto 19651980, Rubbettino, soveria Mannelli 2014, in particolare pp. 144 e segg., e intravista esplicitamente da c. Bisoni, il potere e

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Sciascia-Barthes alcune semplici considerazioni di carattere generale aiutano a circoscrivere la plausibilità di un rapporto così stretto tra Salò e todo modo. Oltre alla prossimità temporale della loro realizzazione (si è detto di come i due film uscirono nelle sale italiane a soli quattro mesi di distanza), questi condividono anzitutto un’identica sorte censoria, osteggiati e banditi a causa della loro oscenità. Entrambi, inoltre, assumono retrospettivamente una sorta di inconsapevole valenza testamentaria, dato che la vita di Pasolini finì tragicamente il 2 novembre del 1975 e la carriera di Petri sostanzialmente si interruppe, sino alla morte sopraggiunta nel 1982. il gioco di rimandi trova una prima, visibile incarnazione in sergio citti, attore simbolo del cinema di Pasolini, a cui Petri farà interpretare l’autista di Volonté: una figura cardine che in qualche modo sembra fare da cornice alle vicende di todo modo, sorta di intercessore pasoliniano posto ai bordi estremi (appare infatti nella prima e nell’ultima scena) della rappresentazione e della macchinazione narrativa. Forzando un po’ la mano, si potrebbe forse paragonare la figura di Citti a quella del maresciallo velázquez in las meninas, cioè colui il quale è responsabile dello svelamento

l’impegno: le traiettorie del cinema civile di Elio Petri, in Elio Petri, uomo di cinema, cit., in particolare p. 129: «in todo modo troviamo lo scenario (già presente in indagine) della regressione infantile (Moro attaccato al seno della moglie premurosa) e della necessità di sottomissione a un padre primordiale».

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della rappresentazione rimanendo nel punto di fuga, in profondità di campo, e che, secondo la lettura di Foucault, «coglie a rovescio l’intera scena, ma vede frontalmente la coppia reale, che è lo spettacolo stesso», diventando un simulacro dello spettatore del quadro dentro lo spazio stesso della rappresentazione31. Quest’ultimo è un punto molto importante, sul quale torneremo nel prossimo capitolo. certamente, le analogie non si esauriscono qui. C’è infatti un primo autore a legare i due registi: Leonardo Sciascia. L’ultima recensione letteraria di Pasolini per il settimanale “il Mondo”, la cui raccolta confluirà nel volume descrizioni di descrizioni, è infatti proprio todo modo, pubblicato nel 1974 e da lui accolto come uno dei lavori migliori dello scrittore siciliano. Pasolini esordisce prendendo congedo dal lettore in vista dell’inizio delle riprese di un film «estremamente sgradevole32» su sade e il fascismo, individuando alcuni tratti del romanzo che sembra possibile riscontrare anche nel suo ultimo film, su tutti la «concezione quasi dantesca del mondo»33. Ma l’occhio attento di Pasolini scorge altre affinità con il proprio sentire, che prenderanno corpo solo qualche mese dopo, poco prima della sua morte, in alcuni articoli sul “Corriere della Sera”, quali l’idea

31

M. Foucault, le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it., BuR, Milano 1998, p. 29.

32

P.P. Pasolini, leonardo Sciascia. todo modo, in descrizioni di descrizioni, ora in id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, tomo ii, cit., pp. 2219. 33

ivi, p. 2223.

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di processo e di ibridazione tra giudice e giustiziere, idee che troveranno infine forma compiuta nel lavoro di Petri; e forse, uno spunto o una conferma di quanto stava preparando giunsero anche da un rapido scambio di battute presente nel romanzo sulla fede cristiana di de sade34. Pochi anni dopo, Sciascia ricorderà Pasolini «fraterno e lontano» nelle pagine iniziali del libro su aldo Moro, partendo da l’articolo delle lucciole per fornirne una lettura retrospettiva dopo quell’evento catastrofico quale il rapimento e l’uccisione del Presidente della Dc e per riprendere «dopo più che vent’anni una corrispondenza»35. lo scrittore siciliano affronta di petto la questione del nuovo linguaggio adottato dai politici democristiani, specialmente Aldo Moro, colui che «appare il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 a oggi»36 e che, durante la prigionia, «è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso […]: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire»37. È da

34

l. sciascia, todo modo, Einaudi, torino 1974, p. 39.

id., l’affaire moro, Adelphi, Torino 1994, pp. 12-13. Il riferimento è a P.P. Pasolini, il vuoto di potere in italia, apparso su “il corriere della sera”, 1 febbraio1975 e pubblicato poi come l’articolo delle lucciole in Scritti corsari, ora in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 404-411. 35

36

P.P. Pasolini, l’articolo delle lucciole, cit., p. 410.

37

l. sciascia, l’affaire moro, cit., p. 17.

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questo confronto a distanza che prende avvio l’analisi linguistica sui testi che Moro scrisse nei giorni del sequestro; ma se raccordiamo queste considerazioni sul linguaggio – che appaiono poche righe prima di un richiamo a Foucault, tra l’altro38 – con un altro passaggio dell’articolo pasoliniano («Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri»39), ecco che di fronte agli occhi si staglia nitida la messa in scena di Petri. sciascia non si era fatto sfuggire questo possibile parallelismo, dichiarando, subito dopo l’uscita del film e in difesa del suo autore, che todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo. Ed è un processo che suona come un’esecuzione… Non esiste una Democrazia cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare

Del resto, in un’intervista rilasciata a Giampiero Mughini nel 1978 per “Mondo Operaio”, ora in id., la palma va a nord. articoli e interventi 1977-1980, a cura di v. vecellio, Gammalibri, Milano 1982, dirà: «Mi interessa sempre Michel Foucault. Sto attendendo con ansia la prosecuzione della sua histoire de la sexualité di cui è uscito finora il primo tomo».

38

39

P.P. Pasolini, l’articolo delle lucciole, cit., p. 409.

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definitivamente e radicalmente i conti40.

Dal canto suo, anche lo stesso Petri aveva posto l’accento su un aspetto che poteva tenere insieme il romanzo di sciascia e Salò e che lui aveva enfatizzato nel film appena concluso, commentando che L’interesse del libro consiste nel fatto di mettere in una situazione sado-masochista un gruppo di notabili democristiani nel momento in cui risulta chiaro che questa classe dirigente cattolica è destinata a naufragare, a colare a picco, a scomparire. [...] la sceneggiatura si basa esclusivamente su un principio teatrale, su una scansione regolata dalle diverse posizioni fisiche e dalle meditazioni successive. Sant’Ignazio suddivide i propri esercizi spirituali in circoli rigidi, esattamente come de sade41.

È qui che interviene un’ulteriore figura di mediazione, capace di tenere assieme queste due ricognizioni sulle forme del potere all’apparenza distanti. come noto, Pasolini decide di inserire nei titoli di testa di Salò una bibliografia di riferimento. I legami del regista friulano con il pensiero filosofico a lui contemporaneo sono ampiamente conosciuti, e peraltro mai celati; eppure una bibliografia è un gesto insolito che evidentemente sfugge alle consuetudini e rafforza la dimensione saggistica, se non propria-

40 intervista a leonardo Sciascia, a cura di a. stabile, in “la Repubblica”, 5 maggio 1976. 41

J.A. Gili, Elio Petri et le cinéma italien, cit., pp. 13-14.

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mente filosofica, alla base del film42. Ma, e qui risiede probabilmente la sua peculiarità più spiccata, serve anche a esplicitare una visione comunitaria attorno alla quale potersi raccogliere, tanto per il regista in qualità di intellettuale del proprio tempo (e dunque in risonanza con un pensiero coevo) quanto per lo spettatore perché messo in condizione di ricostruire e valutare la trama dei riferimenti alla base dell’opera. Un’operazione scientifica, se vogliamo, che si rende improrogabile probabilmente a seguito della consapevolezza del mutare dei tempi e della conseguente necessità di impostare un discorso su nuove basi, come del resto la famosa abiura alla trilogia della vita del 1975 testimonia43. Al primo posto di questa bibliografia – beneficiando se non altro dell’ordine alfabetico – figura Sade, Fourier, loyola, libro di Roland Barthes apparso nel 1971 ma tradotto in italiano solo nel 1977, dove l’accostamento inconsueto di queste tre figure viene giustificato sulla base di un’identità di scrittura come creazione di un nuovo linguaggio. a questo testo anche Petri farà ampio ricorso (in francese) per commentare todo modo, indicandolo come fonte primaria d’ispirazione e mostrando quella conoscenza del Per un’analisi di questa bibliografia si veda in particolare F. Palombi, salò e le 120 giornate di sodoma come opera filosofica, in Corpus Pasolini, cit., pp. 173-192. 42

43 P.P. Pasolini, abiura dalla trilogia della vita, articolo scritto il 15 giugno 1975 ma pubblicato postumo con il titolo ho abiurato alla trilogia della vita in “il corriere della sera”, 9 novembre 1975, e poi in lettere luterane, ora in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 599-603.

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dibattito teorico che raramente gli è stata riconosciuta nella dovuta misura44. Ma, preliminarmente, vi è forse un’altra dimensione che ha colpito entrambi i registi, quella critica, con la quale Barthes conclude la sua introduzione al libro: L’intervento sociale di un testo (che non si attua necessariamente nel tempo in cui questo testo appare) non si misura né dalla popolarità della sua udienza né dalla fedeltà del riflesso economico-sociale che vi s’inscrive o che esso proietta verso qualche sociologo avido di raccorgliervelo, ma piuttosto dalla violenza che gli consente di eccedere le leggi che si dà una società, un’ideologia, una filosofia, per accordarsi a sé stessa in un bel movimento di intelligibilità storica. Questo eccesso ha un nome: scrittura45.

Anni dopo Barthes proverà a donare un senso a Salò – non riuscendoci sino in fondo, a dire il vero – nonostante il nesso sade-fascismo, secondo lui articolato dal film in modo doppiamente erroneo46, senza riscontrarvi quell’eccesso che invece riemergerà qualche anno dopo come «supplemento d’intensità» nella visione in una lettera indirizzata a Michelangelo antonioni, dove si sottolinea il portato sovversivo

44

E. Petri, Scritti di cinema e di vita, cit.

R. Barthes, Sade, Fourier, loyola, tr. it., Einaudi, torino 2001, p. XXvii.

45

46

id., Sade-Pasolini, in id., Sul cinema, il melangolo, Genova 1994, p. 158-160.

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di questa insistenza e il suo carattere socialmente osceno, non per ciò che rappresenta ma per le modalità e le forme attraverso le quali questo sguardo viene esercitato47. indipendentemente dal riscontro di Barthes, resta il fatto che l’eccesso come strategia che agisce sul sociale, e che dunque si carica di una valenza politica, estende la sua efficacia su differenti piani dell’espressione, ovviamente rispettandone le specificità. Fare un film con sade, come Salò, e fare un film con ignazio di loyola, come todo modo, esplicitando (a monte e a valle rispettivamente) un debito di creazione, rappresenta un segno tangibile della contiguità tra le due opere secondo una comune idea di lavoro culturale.

il paradigma biopolitico della modernità Se Barthes e Sciascia sono i riferimenti principali che delimitano i confini di un legame sotterraneo tra i film in questione, questa convergenza incrociata acquista ulteriore solidità all’interno delle pieghe filmiche, immergendosi nelle quali si evince come lo spazio circoscritto dalla teoria critica del tempo trovasse un’estensione assai produttiva nelle immagini cinematografiche. Il libro di Barthes non è infatti solo una semplice fonte di ispirazione tematica, ma più specificatamente strutturale, che si innesta sulle riflessioni appena intraviste a proposito del romanzo di sciascia (il quale a sua volta fornisce,

47

id., Caro antonioni, in id., Sul cinema, cit., pp. 170-176.

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come visto, una prima indicazione strutturale colta sia da Petri che da Pasolini). Nel testo barthesiano vengono definite quattro operazioni che stanno alla base di questa pratica logotetica: isolarsi, articolare, ordinare, teatralizzare. sono questi, secondo il teorico francese, i cardini attraverso i quali individuare le analogie formali tra la scrittura di sade, Fourier e loyola. Tre gironi, quattro con l’antinferno: la struttura adottata da Pasolini è di evidente derivazione dantesca, costante influenza della sua ultima produzione, mantenendo comunque fede all’impostazione del romanzo come articolazione in momenti e quadri e alla fissazione di Sade per il numero quattro. Petri, analogamente, scandisce todo modo in tre Giornate più una vigilia, ciascuna introdotta da un cartello e suddivisa in meditazioni, saldando così la scansione proposta da sade e quella di ignazio, ed avvicinandosi al contempo all’ispirazione dantesca di Salò. A livello di scheletro, la corrispondenza fra i due è pressoché perfetta. La dialettica tra apertura e chiusura occupa dunque un ruolo centrale; e tra le funzioni operative comuni agli autori presi in esame da Barthes, la prima a comparire è proprio l’isolamento. separarsi dal mondo viene posta come condizione imprescindibile per la formulazione di un nuovo linguaggio, elemento necessario per rompere con la tradizione in una fase di elaborazione dottrinaria e metodologica, ma anche per assicurare successivamente a queste l’efficacia necessaria. Il Marchese de Sade scrive soprattutto in prigione e ambienta le sue avventure romanzesche in dimore e ville inviolabili, come il castello di silling 95

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in le 120 giornate di Sodoma48; Sant’Ignazio prescrive il ritiro a sé e ai futuri esercitanti in un luogo raccolto. insomma, la nuova lingua – e con essa le nuove pratiche – devono essere preventivamente immunizzate dalle interferenze del mondo esterno. Costruire uno spazio impermeabile alle influenze del fuori diviene così il primo aspetto condiviso dalle due strategie filmiche: la villa di Marzabotto, nella quale viene ambientato Salò, e l’albergo di Zafer, dove si svolgono i ritiri spirituali di todo modo, assolvono alla medesima funzione. la creazione di uno spazio di reclusione interagisce costitutivamente con il dispiegamento di un rapporto di potere, istituendo due mondi distinti e portando alla massima divergenza la relazione tra il dentro e il fuori. È chiaro quale fu l’esito più tragico di questa dinamica: il campo di sterminio, all’interno del quale la cifra decisiva diventava paradossalmente l’indistinzione tra il chiuso e l’aperto, dato che l’eccesso che lì si intendeva normalizzare era la “nuda vita”, la vita stessa nella sua naturalità. E tale indistinzione era rintracciabile a tutti i suoi livelli interni, come ad esempio nelle due figure-limite a cui dà origine, il kapò, ovviamente, e più ancora il musulmano, «un essere indefinito, nel quale non soltanto l’umanità e la non-umanità, ma anche la vita vegetativa e quella di relazione, la fisiologia e l’etica, la medicina e la politica, la vita e la morte transitano

48

D.a.F. de sade, le centoventi giornate di Sodoma, tr. it., Es, Milano 1991.

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le une nelle altre senza soluzione di continuità49». la detenzione preventiva della vita non poteva compiersi dunque che all’incrocio inscindibile di sapere medico e pratica politica, sovrapponendo due ordini che sino a quel momento avevano comunque mantenuto ampi margini di autonomia. la vita si piegava così alla legge tanto quanto quest’ultima si modellava continuamente in funzione della vita50. È questo l’esito estremo del paradigma di immunizzazione in quanto potere di conservazione della vita. Può sembrare paradossale che tale funzione si eserciti al massimo grado attraverso il genocidio eppure, in quanto protezione negativa della vita, è questa la sua espressione più compiuta. È stato Roberto Esposito a fornire la sistematizzazione più rigorosa di tale categoria interpretativa capace, a suo giudizio, di risolvere le indecisioni foucaultiane e arendtiane in materia e al contempo di rilanciare la funzione dirimente del suo rovescio concettuale, la communitas, che in quanto polo positivo viene presupposto logicamente dalla dimensione negativa dell’immunitas51. Se l’immunizzazione si profila

49 G. agamben, Quel che resta di auschwitz. l’archivio e il testimone. homo sacer, iii, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 43. 50

Per tutte queste considerazioni si rimanda a R. Esposito, Bíos, cit., cap. 4.

Ai due termini Esposito ha dedicato rispettivamente due libri, id., Communitas, Einaudi, torino 2006 (nuova edizione), e id., immunitas, Einaudi, Torino 2002; una sintesi e un rilancio in relazione a tematiche connesse con le forme del potere è presente invece in id., Bíos, cit., part. cap. 2. 51

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come la cifra peculiare della modernità, ecco che di questa modernità il campo diventa il «paradigma biopolitico»52, svincolandosi dalla sua contingenza storica per costituirsi come dispositivo entro il quale identificare – in condizioni per così dire ideali – le linee di forza che attraversano il presente. Intendendo questi concetti come figure astratte, o meglio, segnature, si può cominciare a intravedere la loro piena operatività in contesti eterogenei e difformi. il campo diventa così tanto motivo quanto tema, elemento figurativo che si carica di una dimensione diagrammatica, assumendo pertanto anche una funzione teorica all’interno dello spazio della rappresentazione53. E sono proprio Salò o le 120 giornate di Sodoma e todo modo a mettere in scena tale spazio di reclusione all’interno del quale esercitare le tecniche di condotta sugli individui. condotta assume qui un significato chiave nella sua accezione ambivalente, attiva e passiva: Foucault la inserisce tra gli elementi fondamentali introdotti dal pastorato cristiano nella società occidentale, in qualità di tramite che permette di passare da un governo delle anime a uno degli uo-

52

G. agamben, homo Sacer, cit., p. 189.

Sulla compresenza di motivo e diagramma all’interno di un’unica figura si rimanda a O. Calabrese, “Uno sguardo sul ponte”, in la macchina della pittura, cit. L’applicazione del paradigma immunitario alle immagini è già presente in W. J. T. Mitchell, Cloning terror. la guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La Casa Usher, Firenze 2012, cap. 4, dove le problematiche connesse con le questioni sollevate dalla biopolitica sono declinate nell’analisi della rappresentazione della guerra contemporanea e delle politiche di lotta al terrorismo da parte degli Stati Uniti. 53

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mini, dalla sfera del privato e quella pubblica, dalla religione alla politica54. Dal canto loro, Pasolini e Petri circoscrivono queste dinamiche di governo dentro un luogo di clausura impermeabile nelle sue relazioni verso un esterno, che continua comunque ad esercitare una pressione sensibile in virtù del suo carattere estremo e ineludibile. Ecco qui un primo problema di fondo che accomuna entrambi i film: investire un tema strutturante (quello dello spazio isolato) di una funzione teorica nuova. lo spazio di reclusione – al quale Foucault aveva appunto dedicato una delle sue opere più celebri, Sorvegliare e punire, uscita in Francia nel febbraio del 1975, e sul quale si sofferma molto rapidamente per la prima volta nella nuova cornice biopolitica della sua analitica del potere nella lezione del 17 marzo 197655 – trova nei due film due declinazioni complementari che compiutamente pensano un luogo isolato, immunizzato nei confronti dell’esterno, come coestensivo al campo di sterminio in quanto paradigma della modernità. Non sono stati i primi a intraprendere questa strada: la grande bouffe (la grande abbuffata, 1973) di Marco Ferreri – co-produzione italo-francese che già a partire dalla scelta degli attori evidenzia la specificità della relazione tra i due Paesi – costituisce forse il più autorevole predecessore che interseca i temi sin

54

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 167-168.

55

si veda id., “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 224-225, passaggio dedicato al biopotere nazista e poi socialista dove l’unico nome a comparire è, curiosamente, quello di Fourier.

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qui presentati senza tuttavia portarli alle loro estreme conseguenze, bensì calandoli dentro a un contesto di quotidianità che conferisce la tipica tonalità irreversibile al grottesco ferreriano56. il meticoloso auto-sterminio progettato dai quattro amici riuniti nella villa di uno di loro (e le cui identità coincidono nominalmente con quelle dei quattro attori) scaturisce infatti da una situazione personale agiata e collocata in un contesto di normalità da grande città europea. La realtà storica presenta dunque un’ospitalità superficiale sotto la quale progressivamente si nasconde, lasciando emergere la spazio composto dalla villa e dal giardino nella sua irrelazione con il mondo malgrado la loro stretta contiguità (la villa è nel centro città): i continui ingressi che bucano l’isolamento del luogo non fanno che apportare pezzi di realtà che finiscono fagocitati – in questo caso letteralmente – dalla sua condizione utopica. in Salò e todo modo la radicalizzazione di questa dinamica conduce invece a trasformazioni significative. la contestualizzazione iniziale crea infatti un primo sistema di pertinenze e traccia il profilo di una condizione di eccezionalità57: la guerra nel primo, più precisamente la Repubblica di Salò, un’epidemia

56

su questo aspetto si rimanda alle analisi di M. Grande, marco Ferreri, nuova edizione a cura di a. canadè, Bulzoni, Roma 2016. 57 il riferimento è ovviamente al concetto di eccezione sviluppato da Carl Schmitt in teologia politica ii. la leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, tr. it., Giuffrè, Milano 1992, e ripreso da G. agamben, Stato d’eccezione. homo sacer, ii, 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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mortale e inspiegabile nel secondo (sulla cui stringente attualità all’interno dello scenario contemporaneo torneremo in sede conclusiva). in conseguenza di ciò, lo spazio di reclusione viene allestito in un luogo che si presume isolato ma che non riesce comunque a sfuggire alla capillarità dell’eccezione, la cui presenza diventa sempre più palpabile riuscendo a penetrare all’interno attraverso fori di diversa natura. Si arriva così a una perversione estremizzata del grottesco di Ferreri che mostra il risvolto più nero e mortifero dello stato di eccezione che qui ora prende corpo e figura, seppur in forme molto diverse nei due casi. E l’eccezione si costruisce attraverso procedure, pratiche e tecniche che, ancora una volta, sono visibili nella loro purezza proprio all’interno del campo. anzitutto, nel campo si assiste a un particolare intreccio di arbitrio e legge che crea «uno spazio antinomico in cui l’arbitrio diventa legale e la legge arbitraria58», dove cioè eccezione e regola si congiungono indissolubilmente. così, i direttori delle rappresentazioni sadiane e il direttore spirituale condividono un identico destino di legislatori a priori (la declamazione – più o meno esplicita – delle regole che governano questi spazi) e in corso d’opera (gli eventi che inducono a modificare anche drasticamente il quadro normativo vigente). in secondo luogo, la finalità del campo nei confronti dei detenuti non è principalmente di carattere detentivo, bensì ortopedico, sino ai limiti aporetici del campo di sterminio come ortopedia definitiva in quanto impossibile se

58

R. Esposito, Bíos, cit., p. 151.

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non nella forma preventiva dell’eugenetica nazista. Essere sottoposti a una “rieducazione” in uno stato di eccezione sembra dunque essere il principio ultimo contenuto nella figura del campo: un luogo dove si può delineare con precisione la sinergia tra le tre tappe dell’analitica foucaultiana, ovvero la sovranità, la disciplina e la governamentalità. la disciplina, da questo punto di vista, si costituisce come dimensione di interscambio tra le disposizioni del sovrano che esercita il proprio potere di dare la morte e le tecniche biopolitiche di assicurazione e regolazione della vita. tanto la villa attraversata dalla lama tagliente della sovranità in Salò quanto il sotterraneo dell’albergo pervaso dalla capillarità del controllo in todo modo poggiano su una stretta normatività disciplinare che inquadra i corpi entro posture codificate e rituali precisi, mostrando allora il doppio risvolto del potere pastorale: congiunzione tra decisione sulla morte e disposizione sulla vita nel primo caso, incitazione alla condotta retta in funzione della salvezza individuale nel secondo. Ma sia i notabili repubblichini sia il direttore del ritiro spirituale si trovano a gestire un gruppo coeso di individui attraverso l’impegno profuso nel conoscerli nei minimi dettagli come il pastore di fronte al proprio gregge. Non solo oggettivare gli individui – i reclusi – ma incentivare una loro soggettivazione: in questo doppio movimento si definisce il profilo di una rinnovata concezione della relazione tra il soggetto e il potere attraverso la verità. Tale doppio movimento chiude così il cerchio tracciato e ci riporta all’inizio di questa ricostruzione, aprendo la strada al percorso analitico vero e proprio 102

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dentro le opere filmiche. Un percorso che sarà a volte tortuoso, spesso minuzioso, soffermandosi sul gesto minimo e sul dettaglio significante, assecondando quasi “filologicamente” il discorso audiovisivo sviluppato dai due film, opere estremamente complesse e volutamente opache che richiedono di essere viste da vicino, immergendo lo sguardo dentro lo schermo59. Un percorso abbastanza particolare, che come detto deve procedere necessariamente all’incrocio tra teoria dell’immagine e teoria critica: solo così si potrà dischiudere un orizzonte di senso più ampio capace di andare oltre il velo di quel «mistero» che, per entrambi i registi, è la cifra peculiare delle rispettive operazioni60.

59 Due esempi di questa postura analitica si trovano, rispettivamente nel campo della pittura e del cinema, in D. arasse, il dettaglio. la pittura vista da vicino, tr. it., il saggiatore, Milano 2004, e L. Miccichè, Filmologia e filologia. Studi sul cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002. I prossimi due capitoli cercheranno idealmente di unire questi due approcci. 60

P.P Pasolini, de Sade e l’universo dei consumi, in id., Per il cinema, tomo ii, a cura di W. siti e s. De laude, Mondadori, Milano 2001, p. 3020: «perché il mio è un mistero; è quello che si chiama mistery, il mistero medievale: una sacra rappresentazione, e quindi molto enigmatica»; E. Petri, Scritti di cinema e di vita, cit., p. 171: «tutti gli interrogativi di tipo razionale, e tradizionale, che possono sorgere durante la visione di todo modo non devono avere alcuna risposta, poiché io credo che tutta la vita politica italiana degli ultimi dieci anni sia piena di misteri che non avranno mai soluzione».

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iii. la lama tagliente del pastorato: salò o le 120 giornate di sodoma

iii. la laMa taGliENtE DEl PastORatO: Salò O lE 120 giOrnatE di SOdOma

Eccezione fascista Quattro uomini, quattro narratrici (di cui una pianista), nove ragazzi e nove ragazze (che diventeranno ben presto otto e otto), quattro collaborazionisti, quattro giovani soldati, cinque inservienti (di cui una afro-discendente): sono queste le figure protagoniste di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ambientato principalmente all’interno di una villa isolata nei dintorni di Marzabotto. Tema: l’esercizio del potere sugli uomini da parte di altri uomini. semplice e lineare – «esatto come un cristallo»1, dirà Pasolini a lavorazione quasi ultimata – Salò mette in scena i giorni della Repubblica sociale descritta come un qualsiasi impero decadente esclusivamente dedito alla coltivazione degli eccessi più turpi. Porno-peplum, decamerotici, nazi-porno: gli anni ’70 svilupparono un fiorente immaginario per quanto concerne l’erotismo in tempi di crisi politiche e sociali. in questo scenario, Pasolini venne additato da più

1

P.P. Pasolini, de Sade e l’universo dei consumi, cit., p. 3023.

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parti come un ispiratore inconsapevole di tali filoni, o di alcuni di essi, che ne sfruttarono la notorietà e l’idea di un’emancipazione del sesso sul grande schermo. Fatto strano, tenendo conto del fatto che lo stesso Pasolini aveva del resto già tracciato una distinzione netta tra la permissività nei confronti di una pornografia di consumo e la proibizione di una pornografia artistica (indipendentemente dai visti di censura), la cui funzione era di sottrarsi al conformismo «dell’ideologia neo-edonista che è tipica della dittatura consumistica totalitaria in quanto totalizzante», all’interno di un movimento più generale di nuove «opere estremistiche»2. Rilette alla luce delle reiterate prese di posizione sulla continuità tra regime fascista e regime democristiano e della sua variante più recente rappresentata dalla società dei consumi, queste affermazioni chiudono il cerchio delle analogie: la metafora acquista una piena comprensibilità e dissipa il suo mistero, la Repubblica sociale è una condizione presente. È proprio così? Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una paten-

id., Tre riflessioni sul cinema, in la Biennale di venezia. annuario 1975. Eventi del 1974, ora in id., Scritti sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2694-2707. È interessante notare come le vicissitudini di Salò ricalchino in maniera pressoché perfetta quelle dell’altra grande opera che affronta a viso aperto il concetto di oscenità, Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Ōshima, presentato a Berlino nel febbraio del 1976, tre mesi dopo l’anteprima del film di Pasolini, e per descrivere il quale il regista giapponese ricorrerà a parole analoghe a quelle pasoliniane. 2

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te di antifascismo reale. si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto un fascismo arcaico che non esiste più e non esisterà mai più. [...] Per me la questione è molto complessa, ma anche molto chiara, il vero fascismo, l’ho detto e lo ripeto, è quello della società dei consumi e i democristiani si sono ritrovati ad essere, anche senza rendersene conto, i reali ed autentici fascisti d’oggi. In questo ambito i fascisti ufficiali non sono altro che il proseguimento del fascismo archeologico: e in quanto tali non sono da prendere in considerazione3.

Pronunciate durante un’intervista pubblicata nel dicembre 1974, queste famose parole segnano una posizione netta; eppure, solo poche settimane dopo, Pasolini inizierà la lavorazione di Salò, smentendo a prima vista questo disinteresse per il vecchio fascismo. Perché allora dare corpo a questa discontinuità attraverso un’analogia lineare? Com’è possibile insomma conciliare questa posizione polemica, espressa ripetutamente in numerose sedi, con la messa in scena di un’orgia che vede protagonisti dei repubblichini negli ultimi giorni dell’occupazione nazi-fascista dell’Italia? Rivisitazione storica o metafora del presente, Salò lascia interdetti i critici e gli osservatori. sade e il fascismo, la società contemporanea e la degenerazione: come possono stare

3 id., Fascista, in id., Scritti corsari, ora in id., Scritti sulla politica e sulla società, cit., pp. 518 e 520. una considerazione analoga è presente in u. Eco, il fascismo eterno, in Cinque scritti morali, Bompiani, Milano 1997, che parla infatti di «ur-fascismo».

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assieme senza scadere nel banale accostamento che non esprime altro se non una nostalgia per un tempo mitico e gioioso? Eppure, se Pasolini è così orgoglioso di questa sua «illuminazione»4, forse qualcosa in più c’è. Qualcosa in grado di rigenerare – o addirittura andare oltre – la metafora, ma anche di presentare i due poli sotto aspetti diversi. sade senza il sadismo, il fascismo senza Salò. Raschiare sotto la scorza del visibile per far emergere una profondità nascosta eppure tangibile, almeno su un versante: ecco che la bibliografia comincia a mostrare la sua funzione. Eliminare la psicanalisi, eliminare la storia: che cosa rimane? Partiamo intanto da un punto fermo: la connessione tra fascismo e sadismo, che ha costituito un facile bersaglio per attaccare il regista, può mostrare un’apertura di orizzonte solo se pensata nell’ottica di questo spostamento di fuoco da parte della denuncia pasoliniana. E al contempo, acquista un completo rilievo solo se si ripensa la questione del potere in relazione alle intuizioni di Pasolini a proposito della sua dimensione positiva – l’esortazione al godimento, l’edonismo diffuso, l’omologazione dei comportamenti – che lo stesso Foucault comincerà ad affrontare pochi mesi dopo, mostrando tuttavia scarso interesse nelle connessioni proposte dal film. Da questo punto di vista, si potrebbe preliminarmente ipotizzare che la riflessione di Pasolini attorno al con-

4

P.P. Pasolini, il potere e la morte, in id., Per il cinema, cit., p. 3017, a proposito dell’idea di trasporre il romanzo alla fine della seconda guerra mondiale.

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cetto di fascismo si svolga lungo tre grandi direttrici. La prima è legata all’attualità, che vedeva il ritorno di pulsioni totalitarie ed eversive d’ispirazione neofascista, attorno alle quali si concentrava buona parte della cinematografia italiana del periodo che affrontava il passato per parlare del presente5. Ma questa non è che un pretesto attraverso il quale Pasolini prende le distanze dalla polemica politica per mostrare quella che a suo avviso era la povertà concettuale delle analisi riguardo alla condizione della società italiana dell’epoca. La seconda è invece interpretativa: qual è la forma del fascismo contemporaneo e quali strumenti bisogna inventare per combatterlo in modo efficace. In questo caso, la preoccupazione di Pasolini è rivolta alla definizione delle strategie di azione del potere sui corpi e sulle coscienze nella nuova cornice della borghese società dei consumi, segnata appunto dal passaggio dalla coercizione disciplinare alla tolleranza governamentale sorretta dall’efficacia conformatrice della scuola e della televisione. La terza, infine, è di carattere memoriale: che cosa resta del fascismo storico nella società moderna. È quest’ultima direttrice che riguarda più da vicino il ruolo delle arti, capaci di interrogare lo spazio dell’immaginario prima ancora che quello del simbolico mettendo in relazione tempi distanti in un movimento volutamente anacronistico che produce nuovi e più fecondi effetti di senso.

5

una ricognizione di questo fenomeno si trova in M. Zinni, Fascisti di celluloide. memorie del ventennio nel cinema italiano (1945-2000), Marsilio, venezia 2010.

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Proprio quest’ultima sembra definire l’orizzonte più specifico della poetica pasoliniana, in particolare in campo cinematografico. Una prima traccia si può scorgere proprio all’inizio della sceneggiatura del film su San Paolo, scritta a partire dal 1968, dove si legge che «gli antichi dominatori romani sono dunque sostituiti dall’esercito hitleriano, e i farisei dalla classe conservatrice e reazionaria francese, tra cui naturalmente i collaborazionisti di Pétain»6. L’essere «una forza del passato»7 permette a Pasolini di sviluppare un personalissimo principio di comparazione che consente di vedere a rovescio lo stato delle cose presenti, di illuminarlo e rischiararlo: adesso preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente8.

immergersi sino in fondo in questo oggetto terribile per portare il film oltre i limiti della metafora e provare a istituire una sorta di sintonia con esso, malgrado tutto: questo il piano di lavoro delle pagine seguenti. Per

6 P.P. Pasolini, Abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo, in id., Per il cinema, cit., p. 1883. 7

id., Poesia in forma di rosa, in id., tutte le poesie, tomo i, a cura di W. siti, Mondadori, Milano 2003, p. 1099. 8

id., ideologia e poetica, in id., Per il cinema, cit., p. 2995.

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fare ciò, sarà però necessario soffermarsi a lungo sui minimi dettagli, mettendoli a sistema e muovendosi tra la verticalità della loro significanza incrociata e l’orizzontalità della loro evoluzione sintattica. intrappolati nella perfezione di questo cristallo infernale, occorre far giocare differenze e ripetizioni: solo attraverso l’ostinazione di questo sguardo analitico sarà possibile individuare un varco di uscita.

Balcone, folla L’orizzonte mitico che definiva ancora il centro focale della trilogia della vita assume ora una tonalità politica totalizzante, benché questa si ponga quasi ai limiti della leggibilità: «se posso dare attualmente l’impressione di ricercare un linguaggio ermetico e prezioso, apparentemente aristocratico, è proprio perché considero la tirannia dei mass media come una forma di dittatura a cui mi rifiuto di fare la minima concessione»9. L’inizio di Salò mostra perfettamente in che cosa consista questo ermetismo pasoliniano: un inizio tipicamente classico eppure completamente disorientante nell’asciugare il momento dell’esposizione del mondo normale al punto da renderla totalmente incomprensibile, benché tutti gli elementi siano effettivamente presenti e definiti. Ma è certamente qui che devono essere ricercati gli indizi sul modo di procedere di questa “illuminazione” pasoliniana.

id., Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot, in id., Scritti sulla politica e sulla società, cit., p. 1454. 9

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BlaNGis [Duca]: Eccellenza. cuRval [Eccellenza]: Presidente. DuRcEt [Presidente]: Monsignore. vEscOvO [Monsignore]: tutto è buono quando è eccessivo10.

se i quattro personaggi sono eredi degli omonimi letterari creati da sade, tale identità viene preservata solamente nella sceneggiatura: nel film, infatti, nessun nome proprio incorre mai a indicare alcuno di essi. Duca, Eccellenza, Presidente, Monsignore: le figure del potere sopravvivono all’incedere del tempo. Quattro battute, alquanto laconiche, esauriscono così lo spazio sonoro dell’introduzione; prima di queste solo due cartelli introduttivi e due rapide inquadrature in dissolvenza incrociata si frappongono ai titoli di testa e alla bibliografia inziale: contestualizzazione storica (“1944-45 nell’Italia Settentrionale durante l’occupazione nazifascista”), strutturale (“antinferno”) e geografica (il cartello “Salò” sul quale termina la panoramica iniziale). Dopo il totale della sala, un primo piano sulla copertina di un quaderno dove campeggia la scritta “Regolamenti” chiude infine la prima sequenza – tale a dispetto della brevità – che permette di intravedere alcune linee di fuga rispetto al contesto critico ricostruito in precedenza [fig. 1 e fig. 2].

10

id., Salò o le 120 giornate di Sodoma, in id., Per il cinema, cit., p. 2033. tra parentesi quadre sono riportati i titoli dei personaggi, unici appellativi effettivamente utilizzati nel film per indicare i quattro protagonisti.

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Fig. 1

Fig. 2

la discontinuità e la densità semantica di questa sequenza ne fanno un elemento quasi estraneo rispetto alle scene successive che compongono il resto del prologo, creando una contrapposizione su molteplici livelli: cavalletto (incluso il piano fisso centrale) e macchina a mano (al limite della disinquadratura); piani cadenzati e montaggio rapido; interni (nonostante i due rapidi esterni iniziali sul lungolago, più 113

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in continuità con i cartelli precedenti che con i due piani successivi) ed esterni; colori caldi e freddi; saturazione e desaturazione; anonimato e identità dei personaggi attraverso nomi propri (claudio, Ezio, Luigi, ma successivamente anche Signora Maggi, ecc.). Questa rapida alternanza trova una risoluzione nel ritorno agli ambienti della prima sequenza: più lunga ed eterogenea della precedente, il secondo episodio con i notabili repubblichini si incarica di contaminare l’interno con l’esterno, tanto a livello formale (con l’ibridazione dei tratti appena elencati) quanto concettuale (nell’inclusione del fuori), e introduce un nuovo elemento che unisce il raccordo tematico con la frase del vescovo in chiusura del primo scambio di battute (l’eccesso costituito qui dallo sposare le reciproche figlie, chiamate anche in questo caso per nome) con l’unione indissolubile dei rispettivi destini [fig. 3 e fig. 4].

Fig. 3

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Fig. 4

L’antinferno circoscrive dunque un vero e proprio dispositivo: delineazione degli attori coinvolti, delle coordinate spazio-temporali (durante il trasferimento dei prigionieri appare il cartello “Marzabotto”), degli ambienti e prefigurazione dell’inferno vero e proprio con la villa dove si svolgono i provini delle vittime. [fig. 5]

Fig. 5

Se davvero esiste, è qui che si può iniziare a rintracciare quella struttura teorematica, nella quale «non 115

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c’è più posto per la metafora, non c’è più nemmeno metonimia», che getta le basi affinché «il cinema giunga a un vero e proprio rigore matematico, che non concerne più semplicemente l’immagine […], ma al pensiero dell’immagine, al pensiero nell’immagine»11. Tuttavia, lo sguardo per il momento rimane all’esterno della villa: al suo interno non siamo ancora autorizzati a entrare, benché il terreno per un riconoscimento dei diversi assiomi del teorema venga preparato in modo esaustivo. L’accesso ai gironi è appena oltre la porta. il primo tratto evidente è la contrapposizione fra i quattro signori, identificati attraverso la loro carica, e gli altri personaggi, che vengono invece sempre nominati, inclusi quelli scartati dalle selezioni preliminari (albertina) o uccisi durante un tentativo di fuga (Ferruccio). sade viceversa apre il suo romanzo con una lunga descrizione introduttiva sull’identità dei suoi libertini, presentandone la storia personale e alcune elementari connotazioni psicologiche. In questo spostamento, l’anonimato dei signori, enfatizzato dalla costante appellazione reciproca (come nel primo dialogo), non designa altro che il meccanismo di esercizio del potere pastorale. la permanenza dei titoli nobiliari e delle cariche nel testo filmico lascia dunque permanere le funzioni elidendone i tratti identitari contingenti: l’istanza di potere si presenta come impersonale e astratta. Ma a questa impersonalità deve contrapporsi una individualizzazione: ecco allora l’esigenza di nominare tutti, anche chi non farà parte dei rituali successivi. il matrimonio incrociato, espediente desunto dal

11

G. Deleuze, l’immagine-tempo, cit, p. 194.

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romanzo, aggiunge due elementi ulteriori. in primo luogo, sancisce un’unità dal punto di vista funzionale: la saldatura dei destini individuali è anche la sinergia tra i poteri. Non a caso, Pasolini introduce una lieve ma significativa modifica rispetto al testo sadiano, includendo in questo contratto circolare il Monsignore (Giorgio Cataldi), escluso invece da Sade per l’evidente illegittimità – secondo l’ordine sociale – di un’eventuale scelta in questa direzione. il cambiamento è ancor più significativo se si considera che, rispettando in questo caso la prescrizione dello scrittore francese, il Monsignore non ha prole ed è il Duca (Paolo Bonacelli) a dare in spose due figlie, a questi e al Presidente (Aldo Valletti). Quello che in Sade appare come un rafforzativo dell’abiezione morale dei personaggi, in Pasolini si carica di un valore aggiuntivo: l’unione tra il sangue (come ghenos) e il sesso12. Questa seconda unità, di carattere simbolico, chiude provvisoriamente il cerchio attorno ai quattro libertini, garantendo loro una caratterizzazione che si profila come esaustiva: le dimensioni proprie dei vari regimi si ibridano per dar vita a un corpo coeso e ripiegato su se stesso. Mentre l’istanza di potere è definita, due elementi sono ancora mancanti: l’oggetto sul quale il potere si esercita e la relazione tra i due. se il primo viene per il momento lasciato in sospeso, salvo l’allusiva introduzione della questione dell’individualizzazione, il secondo emerge in due punti distinti, sui quali è ne-

12

si vedano al riguardo M. Foucault, la volontà di sapere, cit., p. 132; Id., “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 224 e segg.; R. Esposito, Bíos, cit., cap. 4.

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cessario soffermarsi. Nella prima sequenza, la frase del Monsignore sulla bontà degli eccessi si articola lungo due piani successivi, il totale dei libertini al tavolo impegnati a firmare un foglio che passa circolarmente di mano in mano e un dettaglio della copertina del quaderno dei Regolamenti manoscritti. Ma nel discorso dal balcone di fronte alle vittime adolescenti, rimando evidente alla cornice retorica nazi-fascista, questi Regolamenti si sono già trasformati in Leggi [fig. 6]: Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere. spero non vi siate illusi di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. siete fuori dai confini di ogni legalità, nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti… Ed ecco le leggi che regoleranno qui dentro la vostra esistenza13.

Fig. 6

13

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2036.

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Esposito nota come l’apparente contraddizione insita tra l’apertura di uno spazio di totale illegalità e l’elencazione delle leggi si risolva interamente nella coalescenza di legalità e arbitrio, creazione di territorio dove la nuova legge si presenta come il rovescio di quella tradizionale, ma talmente forte da includere anche il suo contrario, l’illegalità14. Ma se nell’eccezione chi decide è il sovrano, secondo la nota formula di Schmitt15, questa restaurazione di una sovranità indivisibile (il matrimonio incrociato ha appena sancito questa unità) si accompagna anche con l’apertura di uno spazio particolare, adatto ad accogliere la nuova giurisprudenza. La reiterazione dell’avverbio «qui» a indicare un luogo «fuori dai confini di ogni legalità» investe la villa di uno statuto antinomico, costituito contemporaneamente da un dentro (una nuova legalità) e un fuori (una vecchia). L’inclusione dell’esterno in una coalescenza i cui legami con il mondo sono stati definitivamente recisi è il paradosso del campo, dove le leggi regolano l’esistenza di individui «già morti». A questa prima indistinzione si aggiunge anche quella tra sovranità e governo: la legge regola, ma è passibile di sospensione immediata16.

R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, torino 2010, p. 203. 14

15

Si veda C. Schmitt, le categorie del «Politico», cit.

16

Per questo il Duca potrà esclamare: «Noi fascisti siamo i soli veri anarchici. Ovviamente una volta che ci siamo impadroniti del potere», P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., pp. 2041-2042. Su questa singolare «voglia di assoluta anarchia accoppiata a una maniacale vocazione all’ordine e alla regola-

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L’articolazione di uno spazio così definito costituisce una prima chiave di accesso alla clausura delle scene rappresentate successivamente. Sul piano figurativo, la partizione tra un dentro e un fuori si presenta come rigida, strutturando due universi semantici contrapposti; su quello plastico, alcuni indizi di una progressiva integrazione vengono invece distribuiti con crescente intensità. Infine, il riferimento dantesco indica un’estesa zona di sovrapposizione aporetica tramite il prefisso “anti-”: la contrapposizione è al contempo commistione. Lavorando su tre livelli differenti, il film sviluppa dunque questa dimensione paradossale e la estende lungo l’intero corso degli eventi rappresentati. L’intreccio così ricostruito orienta ora un possibile percorso di lettura, instaurando una prima correlazione all’interno di un sistema coerente di riferimenti incrociati tra due fenomeni, il sadismo e il fascismo, il cui accostamento sembrava non poter essere plausibile al di fuori di una analogia lineare. il punto di contatto è la nozione ambigua di condotta, «l’attività che consiste nel condurre, è la conduzione, ma è anche la maniera di farsi condurre, la maniera in cui ci si comporta sotto l’effetto di una condotta»17, in grado di tenere uniti i due versanti lungo i quali si muove il rapporto di potere tra i soggetti. Elemento cardine del pastorato, come visto, il concetto di condotta ha il pregio di contemplare le diverse forme di

mentazione» si rimanda anche a G. Borgna, Pasolini integrale, a cura e con un’introduzione di C. Benedetti, Castelvecchi, Roma 2015, p. 119. 17

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 143.

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potere e innestare l’aspetto della soggettivazione in una dinamica marcatamente disciplinare in quanto esercitata come imposizione e coercizione sui corpi. solo su questo sfondo può adesso acquisire senso compiuto la seconda parte del discorso dal balcone: il salone e le altre stanze saranno adeguatamente riscaldati. tutti i presenti, vestiti secondo le circostanze. adagiati sul pavimento e seguendo l’esempio di animali, cambieranno posizioni, si mescoleranno, si intrecceranno, si accoppieranno incestuosamente, adulterinamente, sodomiticamente. Tale sarà l’ordine quotidiano di procedura. [...] Qualunque uomo trovato in flagrante delitto con una donna verrà punito con la perdita di un arto. i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte18.

L’idea di mescolanza indistinta emerge con forza in questo passaggio, la cui icasticità è tale da farne un’anticipazione figurativa di quanto avverrà nel corso delle diverse giornate. Seguendo l’esempio degli animali, gli uomini dovranno formare una massa indistinta dove le differenze di genere sono evidentemente abolite e anzi proibite, salvo diversa disposizione. in questa

18

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2036. Da notare che se il sesso è concepito come momento finalizzato alla riproduzione della specie secondo una precisa codificazione, le pratiche sessuali prospettate da questo discorso infrangono le norme condivise sul triplice versante culturale (l’incesto), sociale (l’adulterio) e naturale (la sodomia).

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immanenza orgiastica, il trascendente è bandito, pena la morte. Ma il potere non è capace solo di uccidere, sa anche prendersi cura degli uomini: le stanze, ad esempio, saranno «adeguatamente riscaldate». così, nei saloni della villa, gli uomini seguiranno l’esempio degli animali, i ruoli sessuali saranno aboliti, la dimensione religiosa verrà secolarizzata, il diritto di morte si accompagnerà alla presa in carico della vita: i profili di una biopolitica rovesciata in tanatopolitica – la loro azione solidale e la loro reciproca reversibilità – cominciano a delinearsi con sufficiente chiarezza. Non è casuale che questa cornice teorica venga introdotta in questa scena. il balcone, infatti, è il dispositivo retorico e iconografico specifico del fascismo: è il luogo che istruisce la partizione rigida tra il Duce e la folla, tra la gloria del primo e la fede del secondo; è la soglia di conversione tra il credere e l’obbedire, il momento cruciale nel quale la parola esercita la sua efficacia sui corpi. Pasolini prese forse questa idea performativa della parola fascista da Che cos’è il fascismo di Fabio Mauri, performance andata in scena nel 1971 e alle cui prove Pasolini assistette. Un’amicizia, quella con Mauri, che sfocerà più volte nella collaborazione artistica, come la proiezione di il vangelo secondo matteo (1964) sulla camicia bianca di Pasolini nel maggio del 1975, proprio durante le riprese di Salò, o come, vent’anni prima, nel 1955, nella redazione del breve saggio di apertura del catalogo della prima personale di Mauri alla galleria L’Aureliana di Roma19, mostra nella quale figurava

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id., Fabio mauri, in id., Scritti sulla letteratura e sull’arte,

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una delle poche opere esplicitamente politiche di quella fase dell’artista romano: Balcone, folla20. Il quadro che inizia a prendere forma fuori dalla villa – fuori dal campo – prepara dunque concettualmente e visivamente lo spazio interno, trovando un corrispettivo strutturale nell’ultima, lunga sequenza che, per quanto si svolga integralmente nelle stanze della villa, rimette in questione il rapporto topologico descritto, problematizzando ulteriormente il corpo centrale dell’opera21. spostiamoci subito alla fine, prima di affrontare il cuore di Salò. lo spettacolo del dolore il Duca si accinge a godersi lo spettacolo. assiso in trono, ai piedi le pantofole, addosso una vestaglia: l’aspetto regale trascende nel domestico. Di fronte a lui una finestra, chiusa, forse i rumori esterni potrebbero disturbare l’accompagnamento musicale del pianoforte. sistemato sullo scranno il corpo imponente,

cit., pp. 609-610. 20 l. iamurri, Espace performatif, espace de mémoire : Fabio mauri, Che cos’è il fascismo et Ebrea, 1971, in mémoires du ventennio. représentations et enjeux mémoriels du régime fasciste de 1945 à aujourd’hui, a cura di E. héry, c. Pane, c. Pirisino, Chemins de tr@verse, Paris 2019.

Come noto, il film si sarebbe in realtà dovuto concludere con una scena nella quale Pasolini ballava il boogie-woogie con parte della troupe, ma a causa del misterioso furto di alcune bobine parte del girato andò perso; un altro dei misteri che caratterizza quest’opera. 21

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tutti i preliminari per una visione ottimale vengono espletati. Un ragazzo, Umberto (Umberto Chessari), fucile a tracolla, è incaricato di questo compito: tira la tenda che nasconde la finestra e porge un binocolo. attraverso le lenti, il Duca osserva i suoi amici sulla scena che comincia a prendere forma. Per prima cosa, due spettatori, vestaglia e pantofole indosso, braccia conserte dietro la schiena o lungo i fianchi: sua Eccellenza (uberto Paolo Quintavalle) e il Monsignore. Poi, il protagonista, l’uomo d’azione, la cui nudità integrale è mitigata solo da un paio di mutande di pelle e un coltello alla cintola: il Presidente. con una candela in mano, questi si dirige verso la prima vittima, bruciandogli i genitali: lo spettacolo è iniziato. L’ultima sequenza di Salò è costruita in tre parti, che alternano gli attori rispettando un’analogia strutturale di base: inquadratura di profilo del soggetto che guarda, soggettiva binoculare sulla scena, inquadratura frontale sulle sue reazioni emotive [fig. 7, fig. 8 e fig. 9].

Fig. 7

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Fig. 8

Fig. 9

Cambiano i soggetti, la relazione tra questi e l’evento, la musica che accompagna i tre atti, la durata degli episodi e gli incisi che frammentano il dispositivo delineato, ma comunque una medesima struttura soggiace al fondo delle diverse parti. tre e non quattro: la predilezione sadiana per il numero quattro viene mantenuta da Pasolini solo per essere sistematicamente ridotta di 125

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un’unità. Lo spettacolo del dolore è qui posto nella sua evidenza più esplicita, fissando posizioni e modalità: vittime, carnefici, aiutanti, spettatori. Ma questi ultimi non si situano solo sulla scena, assistendo in prima persona e in diretta alle atrocità che li circondano e delle quali si rendono consapevolmente complici se non altro per essere nel medesimo posto nel medesimo istante; da una posizione sicura, perché lontana e rialzata rispetto alla scena, i notabili repubblichini a turno – con l’eccezione significativa del Monsignore – godono dell’intrattenimento che si presenta di fronte ai loro occhi in una visione a distanza attraverso due filtri, un binocolo e una finestra: una “tele-visione” alla quale è stata sostituita la colonna sonora originale con un’altra più conforme alla situazione informale e domestica così creata. Nelle lenti ingrandenti, un carosello degli orrori sfila incessante: torture, mutilazioni, necrofilia, parodia, sino a un balletto improvvisato dal Duca, dal Presidente e dal Monsignore, rigorosamente in vestaglia e pantofole, più dadaumpa da gemelle Kessler che galop infernal di Offenbach22. Nel caso di Salò, il finale si presenta come un oggetto dalla doppia faccia, esito coerente sul piano narrativo ma straniante su quello visivo, nel quale la tematizzazione del piacere scopico viene sviluppata nella

22 il gioco di parole con Dada in riferimento a slogan pubblicitari e canzonette è presente anche in un altro punto, alla fine di una discussione filosofica senza costrutto, per opera del Duca: «Canto/ quel motivetto che mi piace tanto/ e che fa dadà dadà dadà»; si veda. P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2043, leggermente modificata in conformità con i dialoghi presenti nel film.

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sua dimensione più estrema. il carattere problematico e a tratti incostante del film è stato sottolineato da quasi tutti i commentatori: per salvarlo, si è fatto ricorso perlopiù al suo statuto metaforico come atto d’accusa della società dei consumi, il principale bersaglio polemico degli ultimi anni pasoliniani. se è indubitabile tale parallelismo, ciò non toglie che questa lettura tralasci altri aspetti, centrali invece per comprendere sino in fondo quell’eccesso che Pasolini assume come orizzonte specifico del suo lavoro. Nell’ultima sequenza è forse possibile rinvenire una traccia in grado di riorientare l’interpretazione dell’opera: la sua distanza dal resto del film è il risultato della messa a sistema degli scarti minimi disseminati in precedenza che, riuniti ora in una nuova costruzione organica, sembrano poter dispiegare compiutamente le posizioni complesse del Pasolini saggista e critico sociale.

Fig. 10

Sul piano figurativo, la caratterizzazione privata, domestica dei quattro signori contrasta con il loro usuale abbigliamento, composto da completo scuro 127

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e cravatta [fig. 10], eccezion fatta per la scena del matrimonio (dove il vestiario è comunque indice di ufficialità) e in quella successiva, l’uccisione di Ezio (Ezio Manni), che muore con il pugno alzato dopo esser stato colto in flagrante durante un amplesso con la serva nera alla fine di una catena delatoria (che si svolge all’esterno dello spazio chiuso della villa, a testimoniare la extra-località giurisdizionale dell’infrazione compiuta)23. All’interno della dialettica tra apertura e chiusura a cui si faceva accenno in precedenza, questo epilogo assume un ruolo centrale, anche in relazione alla costituzione di uno spazio legislativo particolare che il film tematizza proprio nella sua prima parte, su cui torneremo a breve. il carattere informale dell’abbigliamento non è qui indice di nudità, piuttosto dimensione privata sapientemente costruita che reca con sé le insegne del potere: il cortocircuito tra oikos e polis si presenta in tutta la sua problematicità, con l’enfasi di un’aureola lignea posta dietro la testa che congiunge sfera religiosa e sfera politica nelle forme Ezio è una figura molto particolare, mostrato nel prologo nell’atto di scusarsi con le figlie dei notabili e unico a opporre un atto di resistenza e di non conformazione al potere costituito. Non è un caso che la sua morte avvenga senza alcuna tortura per mezzo della più distaccata tra le armi, la pistola, e che sia rappresentata da uno zoom che incornicia frontalmente il volto immobile e il pugno chiuso, definendo un avvicinamento solo cognitivo e non motorio, evidenziato dall’espressione sconcertata dei quattro: il Potere è vigliacco, in special modo quanto non indossa le proprie insegne. tommaso subini arriva addirittura a proporre una possibile identificazione di Pasolini con il ragazzo; si veda T. Subini, alcune considerazioni su salò, in Corpus Pasolini, cit., pp. 171-172.

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cristomimetiche dell’iconografia bizantina24. Sul piano della sintassi filmica, il reiterato ricorso a inquadrature di profilo di soggetti che guardano e la rispettiva soggettiva sul guardato riprende un elemento presente solamente in un’altra occasione, la scena di coprofagia aperta dall’irrefrenabile desiderio che pervade il Duca in seguito al primo racconto della signora Maggi (Elsa De Giorgi) e alle lacrime di Renata (Renata Moar), la ragazza che ha visto sua madre morire nel tentativo di difenderla dal rapimento. con un totale di profilo si conclude la defecazione del Duca, il quale, allontanandosi dal luogo del “banchetto”, trasforma il profilo in frontalità rivolgendosi direttamente alla ragazza («Mangia!») [fig. 11 e fig. 12]: è la prima volta che la posizione spettatoriale coincide inequivocabilmente con quella di un personaggio, al punto che la soggettiva sembra coniugarsi a un’interpellazione25. Questo schema così evidente diventa principio strutturante dell’ultima sequenza (tanto che si potrebbe

24 Su visione di profilo e visione frontale in relazione al sacro come «questione tecnica» e stilistica che costituisce una differenza decisiva tra cinema e televisione secondo Pasolini si rimanda a a. canadè, Pasolini, la televisione e il sacro, in Corpus Pasolini, cit., in particolare pp. 197-198. 25 Qui Pasolini ricorre a una giustapposizione di episodi presenti nel romanzo e inverte la relazione coprofagica, adesso compiuta da Renata, nuda e in ginocchio, al posto del Duca (al contrario di quanto ci si aspetterebbe dal tenore del racconto, che magnifica il cibarsi delle feci). Il suo sguardo svela la costruzione in soggettiva della vittima, suggerita comunque dal punto di vista ribassato (la ragazza è in ginocchio) e dalle figure alle spalle del Duca che fissano immobili lo stesso punto di fronte a loro.

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ipotizzare che l’ingiunzione al mangiare si trasformi in un’ingiunzione al vedere), seppur con due spostamenti: anzitutto, il punto di vista non coincide più con quello di una vittima ma con quello dei carnefici; in secondo luogo, il carattere soggettivo delle inquadrature è indicato principalmente dalla simulazione delle identiche condizioni visuali dei soggetti (il raddoppiamento dei bordi del quadro dovuti alla visione attraverso il binocolo) più che dalla costruzione attraverso il montaggio.

Fig. 11

Fig. 12

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Infine, si assiste qui per la prima volta a uno sguardo che si dirige dall’interno della villa verso l’esterno. Un’anticipazione di tale movimento avviene con la signora Maggi, che durante i preparativi per la sua narrazione si affaccia in campo lungo a una finestra della stanza, scostando la tenda e scrutando il cielo incuriosita evidentemente dal rumore di aerei in sottofondo; la pressione del mondo esterno su quello ovattato delle stanze della villa si esercita attraverso il campo sonoro, sorta di basso continuo che riempie i vuoti nei quali non risuonano note, né urla o parole26 [fig. 13]. Qui, lo scostamento della tenda avviene in autonomia, ovvero è il soggetto stesso che agisce per assicurarsi la miglior visione possibile, contrariamente a quanto accade nel finale, dove compare un aiutante che si incarica di tale mansione. sovrapposizione tra dimensione pubblica e privata, articolazione rigorosa di una sintassi di sguardi, incrinatura della struttura chiusa sono dunque le tre diverse strategie che rompono l’incedere ricorsivo delle giornate nella villa. Sinora le torture inflitte assicuravano un godimento in prima persona: non si dava infatti supplizio senza azione diretta. i racconti che scandiscono la narrazione avevano dunque il compito di eccitare i sensi e fornire spunti per

26

È interessante notare come questa irruzione della storia (il rumore degli aerei da guerra) sia definita tramite un richiamo a un topos ricorrente nella pittura olandese del Seicento, all’interno di uno spazio fortemente segnato da una componente autoriflessiva grazie all’enorme specchio tondo che riflette i preparativi della narratrice.

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sperimentare su corpi docili pratiche e idee sul loro funzionamento e sui loro limiti. adesso, invece, si passa a un piacere esclusivamente scopico. La figura del voyeur è già stata individuata come sintomatica di una certa modalità di fruizione delle immagini, non solo contemporanee. Mai come in questo caso, però, la saldatura tra il piacere di vedere e la violenza è stata posta con tale forza: spettacolo e tortura mostrano qui il loro connubio ferino, instaurando una reciproca reversibilità che implica la mutua interdipendenza27. Ma la pulsione scopica – nella società dello spettacolo – diviene di secondo grado, configurandosi come piacere di veder vedere28. lo spettacolo, insomma, non si può dare se non assieme a uno spettatore. Di questo si compiacciono propriamente i tre signori che si alternano sullo scranno: identificarsi con i testimoni dell’evento, presenti sulla scena ma non attivi. La reversibilità dello sguardo è una funzione che il cinema ha interrogato attraverso molteplici artifici retorici. È stato Merleau-Ponty il teorico che forse più di altri ha spinto sino ai suoi limiti estremi tale potenza della visione, conferendole uno statuto comunitario nei termini di compresenza con la carne del

27

È un tema centrale in s. sontag, di fronte al dolore degli altri, tr. it., Mondadori, Milano 2003. 28

su questo piacere scopico e sul regime di visibilità instaurato dal film in relazione anche alle differenze con la disciplina foucaultiana e orwelliana si vedano le belle riflessioni di G. Canova, divi duci guitti Papi Caimani. l’immaginario del potere nel cinema italiano, da rossellini a The Young Pope, Bietti, Milano 2017, pp. 49-50.

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mondo, condivisione tra il soggetto e la realtà29. Ma l’inscrizione di tale capacità emancipativa all’interno di una rappresentazione contiene anche il rischio di un suo pervertimento: vedendosi visto, il soggetto si fa spettatore del proprio spettacolo30, a maggior ragione perché il ricambio dello sguardo è solamente fittizio. Se si ripercorrono le tappe più significative attraverso le quali il film costruisce questo dispositivo, si comprende come la proliferazione dei delegati alla visione sia il tratto dirimente che distingue quest’ultima parte dalle precedenti. 120 giornate per concludere: godetevi lo spettacolo. Ma come?

Fig. 13

29 si vedano le considerazioni contenute in M. Merleau-Ponty, l’occhio e lo spirito, tr. it., SE, Milano 2001; per una riflessione in ambito cinematografico, si veda P. Montani, l’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini, Milano 1999. 30

l. Marin, della rappresentazione, tr. it. a cura di l. corrain, Meltemi, Roma 2001, pp. 152-153.

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Per prima cosa, lo spettatore deve essere messo nelle migliori condizioni possibili, assicurandogli un posto in prima fila. Allo scopo, occorrono una sedia comoda, il cui schienale alto conferisce sacralità e regalità (accentuate da un’inquadratura dal basso), dei mezzi idonei e una visione nitida, compito al quale è preposto umberto, vittima successivamente promossa ad aiutante. tirare la tenda, porgere il binocolo: lo spettacolo è servito [fig. 14]. Se la prima operazione è un artificio retorico di consolidata tradizione31, la seconda include elementi originali, che definiscono la straordinarietà della sequenza. un primo problema concerne il raddoppiamento del filtro costituito dalla finestra chiusa: la visione ottimale è ostruita da un doppio impedimento, che sembra vanificare il ricorso al binocolo come strumento di potenziamento ottico. inoltre, a un piano visivo ravvicinato non corrisponde un analogo sonoro, perché di questo, semplicemente, non c’è traccia, neppure quando la musica cessa per alcuni istanti o quando una finestra viene aperta: solo il basso continuo del rombo degli aerei è udibile in lontananza. Non sembra certo il pudore a trattenere Pasolini dal rendere partecipi gli spettatori delle grida dei soggetti coinvolti: il doppio filtro marca dunque la costruzione di uno spazio separato dalla scena delle torture sul quale vi può essere accesso solo attraverso

31 su tenda o sipario come dispositivo di presentazione della rappresentazione si veda, tra gli altri, H. Damisch, teoria della nuvola. Per una storia della pittura, tr. it., costa&Nolan, Genova 1992.

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diverse operazioni di messa in forma e incorniciatura che alla fine ne stravolgono il senso. La finestra non dà più sul mondo – il rumore degli aerei ci ricorda infatti cosa avviene realmente nella storia – ma questo non è estraneo alla scena. Il legame che si instaura denota un lavoro di sottrazione della seconda (la scena) ai danni del primo (il mondo): punto di vista privilegiato, esclusione del “rumore di fondo”, selezione della porzione di visibile e della distanza dall’azione, combinazione arbitraria di suono e immagine.

Fig. 14

la complessa dinamica di identificazione e straniamento tra lo spettatore esotopico – noi, gli spettatori del film – e quello endotopico – il personaggio cinematografico – si costruisce attraverso l’articolazione di un percorso dello sguardo che modula le trasformazioni della soggettività spettatoriale. inizialmente, allo spettatore esotopico non è consentito accedere alla visione inscritta all’interno della rappresentazione: la perfetta lateralità fa infatti 135

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del Duca un delegato endotopico paradossale, replica differita e ruotata di novanta gradi dello spettatore stesso. Per il momento, dunque, noi vediamo vedere; o meglio, consentiamo il vedere. Posto al margine sinistro del quadro, umberto tira la tenda e si volta di tre quarti porgendo il binocolo al Duca: figura di cornice, il ragazzo diventa così il delegato sul piano pragmatico, orientando il percorso dello sguardo con il gesto del braccio e includendo in questo suo movimento – che smargina dai limiti dell’inquadratura – lo spazio antistante allo schermo, quello della ricezione. Non dunque solo un commentator albertiano inscritto all’interno della rappresentazione come «figura patemica di incorniciatura» che indica allo spettatore quale atteggiamento tenere di fronte all’immagine32, ma un vero e proprio osservatore partecipante che ri-chiama lo spettatore e lo definisce complice dell’azione. La costruzione di questa complessa architettura scopica si fonda sulla moltiplicazione dei soggetti della visione, declassando lo spettatore a semplice aiutante e sottraendogli così di fatto la possibilità di vedere: quanto gli è consentito,

32

secondo la nota predilezione espressa da l.B. alberti nel secondo volume del de Pictura: «Et piacemi sia nella storia chi admonisca et insegni ad noi quello che ivi si facci: o chiami con la mano a vedere o, con viso cruccioso e con li occhi turbati minacci, che niuno verso lor vada; o dimostri qualche pericolo o cosa ivi meravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere». si vedano comunque l. Marin, la cornice della rappresentazione e alcune sue figure, in id., della rappresentazione, cit., e J. Shearman, arte e spettatore nel rinascimento italiano, tr. it., Jaca Book, Milano 1995.

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al momento, è solo assistere al piacere altrui, oppure contemplare il quadro posto a chiusura dello spazio scenico, la cui opposizione con la finestra invisibile a sinistra rinforza la dicotomia tra apertura e chiusura33. lo spettacolo non si dà per noi: si dà grazie a noi34. Per tornare a godere di un privilegio spettatoriale bisogna attendere una soggettiva, ma a quel punto la posizione diventa ancora più scomoda: da aiutante inconsapevole a testimone cosciente. Neppure questo basta però a riacquistare la facoltà perduta: attraverso le lenti del binocolo, quanto appare sono altri due personaggi che guardano qualcosa che a noi è ancora precluso. alle spalle del Duca, intanto, i collaborazionisti replicano la posa del Monsignore e di sua Eccellenza – in piedi con le braccia lungo i fianchi – e il loro angolo visivo abbraccia la totalità del dispositivo spettatore-schermo, benché, data la loro distanza dalla finestra, non possano accedere comunque allo spazio della rappresentazione che si svolge in cortile [fig. 15]. La loro posizione rinvia

Sulla contrapposizione tra finestra e quadro nello spazio della rappresentazione figurativa si rimanda a V.I. Stoichita, l’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, tr. it., il saggiatore, Milano 1998. 33

Sulle implicazioni della visione di profilo per la costruzione di una pittura di storia si veda l. Marin, a proposito di un cartone di le Brun: il quadro storico ovvero la denegazione dell’enunciazione, in Semiotica della pittura, a cura di O. calabrese, il Saggiatore, Milano 1980, pp. 141-177; un riepilogo accurato e un impiego in termini di dialogicità con lo spettatore si trova in l. corrain, Semiotica dell’invisibile. il quadro a lume di notte, Esculapio, Bologna 1996, p. 90. 34

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dunque continuamente a quella dello spettatore esotopico, quasi un monito nei confronti di quest’ultimo a considerare il fatto che l’accesso allo spettacolo avrà un prezzo, un prezzo che infine si rivela essere evidentemente insostenibile: da testimone a carnefice.

Fig 15

la continua variazione del punto di vista copre tutte le angolazioni prospettiche e include pertanto anche le reazioni emotive e passionali che investono i soggetti della visione, orientando la ricezione tramite primi piani frontali dei tre diversi osservatori, attraverso i cui occhi lo spettacolo è percepito. Ma questa frontalità chiude anche il cerchio delle posizioni adottate, ponendo infine lo spettatore come spettacolo, al quale lui stesso assiste occupando simultaneamente i tre diversi ruoli delineati. assicurare, vedere, essere lo spettacolo: la triplice articolazione con la quale viene definito lo spettatore palesa una condizione aporetica e al contempo senza uscita. il piacere scopico viene tematizzato 138

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nelle sue perversioni più acute, ripensando quella pornografia artistica che Pasolini lanciava come programma estetico improrogabile. Marco Dinoi riprende le riflessioni Susan Sontag in relazione alle immagini di guerra – «Qualunque immagine mostri la violazione di un corpo attraente è, in una certa misura, pornografica»35 – estendendole dalla pretesa di totale visibilità del voyeur (il Duca che, ribaltando il binocolo, lo trasforma in grandangolo, strumento di visione d’insieme, o addirittura di montaggio, cioè visione d’insieme dell’intera opera36) alla relazione tra oggetto e soggetto: Pornografico è lo sguardo senza soggetto, uno sguardo in cui non vi è relazione possibile con l’oggetto della visione, in cui il soggetto viene a essere completamente assorbito nella funzione e nella performance dell’oggetto o in cui esso aderisce interamente alla superficie dell’immagine perché questa non mostra vuoti o luoghi in cui il soggetto possa mettersi in situazione, per quanto labile o povera di coordinate essa possa essere, e quindi per quanto difficile sia immaginare un’azione possibile in rapporto ad essa37.

35

s. sontag, di fronte al dolore degli altri, cit., p. 91.

L’idea di un sottotesto relativo al processo di produzione filmica in Salò è stata avanzata tra gli altri da a. costa, dal realismo al nominalismo, in “cinema & cinema”, anno Xii, maggio-agosto 1985, ed E. terrone, il sistema Salò, in “segnocinema”, n. 134, luglio-agosto 2005.

36

37

M. Dinoi, lo sguardo e l’evento. i media, la memoria, il

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Uno sguardo pornografico così definito rimescola di colpo le problematiche emerse sino a qui, lasciando però ancora un vuoto dalla parte dello spettatore. In questa direzione, la finestra si fa schermo e non rimanda più ad alcun fuori, se non a quello che si configura come lo spazio della ricezione. Omar Calabrese parla di una triplice spazialità in pittura veicolata dalla prospettiva come illusione referenziale, organizzazione sintattica e codificazione pragmatica, la cui funzione sarebbe quella di elidere i confini tra uno spazio reale e uno spazio virtuale mediante le regole dell’illusione prospettica, giocando con la materialità del testo pittorico, ovvero ponendo il quadro all’incrocio tra la funzione di finestra sul mondo e di specchio. Solo che, prosegue, «a questo punto una conseguenza è inevitabile sul piano simbolico: tutte le storie possibili e tutta la storia reale convergono in un solo punto, il presente e il suo spettacolo. È il presente che fa la storia. E poiché ciò che è raccontato è illustrazione inserita nei luoghi del potere: è il potere che fa la storia»38. analogamente, la struttura di quest’ultima sequenza crea un plesso problematico che istituisce posizioni variabili per le figure coinvolte, determinate di volta in volta dalla costruzione sintattica. Questa instabilità rinvia esattamente alla dinamica che coinvolge soggettivazione e assoggettamento, nei termini di una condizione spettatoriale sempre in bilico tra l’essere attiva e passiva. Ma

cinema, le lettere, Firenze 2008, p. 266. 38

O. calabrese, la macchina della pittura, cit., p. 272, corsivi miei.

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l’elemento che qui manca, almeno nella stanza dove i tre signori si alternano, è proprio la storia. E se quest’ultima manca, cosa fa il potere? Fermiamoci qui, per il momento, e concentriamoci sulla ricerca dell’elemento mancante, nella speranza che emerga e corra in soccorso di questo intreccio senza uscita. Fascismo, sadismo, avanguardie: tutto sembra concorrere alla messa in scena di una società putrescente, dedita ai vizi peggiori e basata integralmente sulla violenza e il suo culto. Ricostruzione storica o metafora sull’oggi, poco importa: in fin dei conti, la loro continuità è stata espressa con forza da Pasolini nei termini più netti possibili. Ma prima di giungere a delle conclusioni sulla base degli elementi emersi nell’analisi, proviamo a riannodare i fili alla luce di questo finale e a partire dall’inizio, per verificare la plausibilità dell’analisi sin qui svolta e individuare dei percorsi di senso all’interno di questo scenario infernale.

Cortocircuito: sovranità, disciplina, governo i giorni, nella villa, scorrono tutti uguali. al di là degli eccessi, che rientrano comunque in un piano d’azione ben calcolato, la tonalità predominante è la noia; articolare e ordinare, notava Barthes a proposito dell’opera di Sade, sono le direttrici di un trattamento entomologico del piacere39. L’asimmetria dello sviluppo complessivo contrasta solo

39

R. Barthes, Sade Fourier, loyola, cit.

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parzialmente la ripetitività dei gesti e delle azioni, e gli attacchi di collera sono espressioni localizzate di carattere estatico, che come tali devono essere ricondotte quanto prima nell’alveo dell’autocontrollo: il godimento è insomma un atto scientifico e mediato, anziché spontaneo e repentino. L’approccio “sperimentale” dei quattro signori, che desiderano sempre mettere in pratica quanto appena udito per verificarne eventuali limiti, è dunque un riflesso diretto di tale mentalità schematizzante. In questa prospettiva, i racconti delle narratrici svolgono una triplice, complessa funzione: rituale (scansione del tempo), pragmatica (incitazione all’eccitazione) e dispositiva (costruzione dello spazio secondo determinati criteri). Rispetto alle sequenze affrontate precedentemente, il corpo centrale del film risente maggiormente dell’influenza del romanzo di Sade, ma al di là dei rapporti, delle comparazioni e delle deviazioni rispetto al modello originale, quanto interessa è lo sviluppo dell’analogia tra i quadri descritti dal marchese e le modalità di funzionamento della pastorale cristiana, che prende forma attraverso la capacità poietica della parola. Benché i tre gironi abbiano durata filmica simile, il peso del racconto al loro interno varia sensibilmente, passando da un ruolo preponderante a uno decisamente marginale. tra il Girone delle manie, il primo, quello della merda, il secondo, e quello del sangue, l’ultimo, si assiste a un prosciugamento del ruolo delle narrazioni, che mantengono però inalterata la propria funzione efficace di esempio e rilancio, al contempo episodio afferente a una singolarità storica (il vissuto delle signore) e matrice astratta sulla 142

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quale dar forma a nuove e variabili configurazioni di godimento. Da questo punto di vista, il primo e unico racconto della signora castelli (caterina Boratto), nel Girone del sangue, si configura come schema della “soluzione finale”, dopo il quale non ci può essere più alcun altro esempio. Da qui, nel finale, la necessità dei tre signori di collocarsi a turno in una posizione spettatoriale isolata e privilegiata: la percezione attraverso lo schermo assicura una concentrazione degli stimoli secondo quei criteri di economicità descritti in precedenza. lo spettacolo, in quanto irripetibile, deve essere memorabile. Del resto, lo spettacolo accompagna costantemente i racconti nella forma di un dispositivo che procede progressivamente verso una maggiore classicità della relazione tra scena e pubblico e, parallelamente e inversamente, verso un maggiore libertà di infrazione delle pertinenze dei due spazi. Dalle prime narrazioni su modello “assembleare” della signora vaccari (Hélène Surgère), che non presentano tuttavia vere interazioni o sconfinamenti di campo, e della signora Maggi, durante le quali viene improvvisato un ballo con il Monsignore (uno spettacolo nello spettacolo), si giunge a quella della signora Castelli che, a fronte di un pubblico decisamente sfoltito, si svolge in una stanza che ormai simula apertamente il dispositivo scenico classico, evidenziato dal tappeto-palco che sostituisce il tavolo e dall’abito della donna (la quale tuttavia infrangerà lo spazio così ripartito sedendosi sulle ginocchia del Presidente). In concomitanza con questo movimento di cristallizzazione della scena e infrazione degli spazi, si assiste a una traslazione del punto di vista, incluso fra gli spettatori nel primo 143

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caso (come lo sguardo in macchina della signora vaccari di fronte alle rimostranze di sua Eccellenza conferma) [fig. 16], partecipante allo spettacolo attraverso il piano-sequenza con macchina a mano che accompagna il ballo nel secondo [fig. 17], dalla parte della narratrice nel terzo, dove lo sguardo in macchina viene rivolto dagli uditori rimasti [fig. 18].

Fig. 16

Fig. 17

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Fig. 18

Dire tutto senza omettere i minimi particolari: l’ingiunzione sadiana riprende i termini dell’ermeneutica del sé di matrice cristiana ma ne perverte il senso e la direzione. il racconto delle narratrici deve quindi portare in superficie tutti gli elementi per consentire ai libertini di trarre il massimo godimento40. L’esemplarità delle storie si coniuga dunque con una funzione pratica, il cui effetto non ricade però sul soggetto che parla – il versante della soggettivazione confessionale – ma sui destinatari. L’inversione investe anche il piano tematico: in quanto racconti (im)morali, la loro funzione è edificante solo nella reiterazione del male, configurandosi pertanto come parabole alla rovescia. Il programma d’intenti viene esposto durante il primo quadro per bocca di sua

40 P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2037: [- Eccellenza]: «È necessario non trascurare assolutamente i particolari; è solo così che possiamo trarre dalle sue storie quelle forme di eccitamento che ci servono e che aspettiamo da esse».

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Eccellenza, un magistrato, sancendo il fondamento del modello giudiziario come matrice per l’indagine su di sé nella logica del racconto pubblico, quale è propriamente quello delle narratrici41. la sanzione non avviene però secondo un principio di verità, accordata a priori, ma di piacere: l’atto di parola deve insomma essere efficace, e per risultare tale è necessario che sia minuziosamente dettagliato senza tuttavia essere completamente spiegato, come un esercizio spirituale, in modo da far lavorare l’immaginazione degli esercitanti e permettere loro di trarre «maggior soddisfazione e frutto spirituale che se colui il quale dà gli esercizi avesse diffusamente spiegato e sviluppato il senso della storia»42. Anche in questo caso, non si tratta di un movimento che parte dal soggetto e ricade sul soggetto stesso, ma che si riversa all’esterno. Il racconto sadiano implica dunque una saldatura tra due diverse tecnologie del sé, ripartendole però tra più soggetti e dispiegando pertanto un diverso rapporto di potere. se nella pastorale cristiana confessione ed esercizi spirituali conducono un percorso circolare che trova la fine nella propria origine dopo essere passato da un’istanza terza, il confessore o il direttore spirituale, Sull’adozione di un modello giudiziario nelle pratiche di indagine sul sé si veda, tra gli altri, M. Foucault, mal fare, dir vero. Sulla funzione della confessione nella giustizia. Corso di lovanio (1981), tr. it., Einaudi, torino 2013.

41

42 ignazio di loyola, Esercizi spirituali, cit., p. 15. sul ruolo dell’immaginazione in Sant’Ignazio si veda anche I. Calvino, lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, p. 94.

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qui la parola abbandona il soggetto originario per ripartire la sua efficacia su soggetti differenti. La parola è infatti veicolo di soggettivazione per i libertini, che si riconoscono come tali solo nel godimento, e di assoggettamento per le vittime, alle quali vengono fatte assumere le pose istituite dal racconto. sono i libertini che diventano i direttori di queste rappresentazioni, a partire però da un’enunciazione terza, che accende la verità di questi e ricade sulle vittime nei suoi effetti oggettivanti. seppur eterodiretta, una trasformazione dell’essere, per riprendere Pierre Hadot, costituisce comunque uno dei fini di questa liturgia del sesso, ripartita in forme asimmetriche sul doppio versante della sua ricaduta; se da un lato realizza i libertini come tali nel raggiungimento del massimo godimento, allo stesso modo si prefigge di portare alla luce una verità non ancora conosciuta da chi la detiene: «non c’è dubbio, amici miei, che la signora vaccari in due settimane le farà diventare delle puttane di prim’ordine, non c’è nulla di più contagioso del male»43. le narratrici forniscono dunque il piano di lavoro sul quale innestare una dinamica pastorale, forzata e non spontanea. la disciplina in sade gioca infatti un ruolo di primo piano: la disgiunzione di soggettivazione e assoggettamento istituisce una divisione rigida di ruoli e posizioni, sempre però in procinto di essere messi in discussione. il punto di crisi di un tale sistema è la connivenza delle vittime. Da più parti è stato notato come l’unico gesto in grado di disinne-

43

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2039.

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scare il godimento del sadico sia l’attiva e spontanea partecipazione al gioco di queste. se il piacere di un soggetto deriva dall’infliggere la sofferenza a un altro, la vittima può mettere in scacco l’autorità solo nella volontaria accettazione della propria condizione44. Un’aporia sembra però aprirsi di fronte a questo scenario. Da un lato si tratta di combattere il totale assoggettamento con la piena soggettivazione della vittima che si riconosce in quanto tale; ma così facendo, quello che scompare è il sadico. Dall’altro, la vittima spontanea cessa di essere tale, perdendo la propria identità nel momento in cui sembrava averne assunta una45. Al di là dei risvolti psicanalitici, e delle letture che si sono incentrate su questa progressiva connivenza come ultima strategia di resistenza46, è invece interessante notare come la pratica sadista e la pastorale cristiana non siano sovrapponibili sino in fondo, in quanto la prima non riesce maiccorpare definitivamente i due poli del rapporto. sade e il potere pastorale possono interagire solo a patto che uno dei due non arrivi sino alle proprie estreme conseguenze: la sovranità che fa da sfondo comune ad entrambi deve insomma a un certo punto decidere se accordarsi con un regime disciplinare o governamentale. la differenza tra prigione e campo trova qui il proprio

44 È la celebre lettura di J. Lacan, Kant con Sade, in id., Scritti. volume ii, tr. it., Einaudi, torino 2002. 45

su questo scacco si rimanda a G. Deleuze, il freddo e il crudele, tr. it., sE, Milano 2007, pp. 46-47.

46

R. Esposito, Pensiero vivente, cit.

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sfondo concettuale e operativo: si tratta ora di vedere come il film sviluppi questa dialettica. la parola dispone i corpi nello spazio e istituisce posizioni: è un mezzo cioè propriamente disciplinare. L’elemento repressivo continua a detenere una decisa influenza nell’esercizio del potere e per questo una disciplina e un’ortopedia sono necessarie47. curiosamente, a differenza di quanto avviene in 1984 e, come vedremo, in todo modo, non vi è però una continuità (almeno virtuale) dell’azione disciplinare, elemento imprescindibile nelle teorizzazioni foucaultiane; gli accertamenti avvengono infatti a cadenze regolari, dando la possibilità di trasgredire le regole e gli obblighi imposti, con conseguente punizione annotata ma rinviata, per la sua esecuzione effettiva, a un giudizio alla “fine dei tempi”. Corpi ribelli devono così essere addomesticati, ognuno con la propria singolarità, sino a far scomparire le differenze in una livellazione indistinta. Nei mesi che precedono la realizzazione di Salò, Pasolini insiste molto sulla dimensione specificatamente politica del corpo come elemento di resistenza al potere, e più ancora ne fa un possibile luogo d’inscrizione di una lettura implicita del reale48. Ma i corpi, seppur trattati alla stregua di semplici ammassi di carne da parte dei quattro aguz-

47 su questo tema, si veda la ricognizione di E. Passananti, il corpo e il potere. Salò e le 120 giornate di Sodoma, Joker, Novi ligure 2008, dedicata precisamente alle strategie di costituzione di un corpo docile presenti nel film. 48

su tutti si vedano P.P. Pasolini, abiura della trilogia della vita e tetis, in id., Saggi sulla politica e la società, cit.

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zini e dei loro aiutanti, reagiscono secondo una logica differente di volta in volta, emancipandosi – anche se quasi mai compiutamente, pena la morte – dalla propria riduzione oggettuale. Non vi è infatti solo Ezio che alza pugno chiuso come atto di resistenza; anche le effusioni tra Franco (Franco Citti) e Renata o Eva e Antinisca spezzano l’ordine comportamentale e posturale imposto, agendo come espressioni di controcondotta che comunque, nota Foucault, «non portano a un rifiuto globale di ogni condotta, ma a una ricerca molteplice dell’essere condotti nella maniera e nella direzione adeguata»49. Ma più ancora è proprio Renata, rappresentata sempre come vittima, a costituire la possibilità stessa di una alterità irriducibile all’interno del campo. Ciò che la contraddistingue, e che la caratterizza sin dalla sua prima apparizione in scena, è il sentimento della pietas, il dolore per la morte di un’altra persona (la madre), sacrificatasi nel tentativo di sottrarla al rapimento, e al contempo il rispetto verso Dio, da lei invocato nella sua pia bontà. Alla fine della scena dell’esperimento sulla sessualità che precede il suo matrimonio con Franco, la ragazza accasciata si aggrappa alle braccia della signora vaccari, componendo una Pietà dove la narratrice occupa il posto della Vergine – la madre che compatisce il figlio morto – in un’inversione delle relazioni passionali che si contraddistinguono come tratto dirimente della sua innocenza [fig. 19].

49

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 169 (nota).

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Fig. 19

L’opposizione alla condotta non sembra più aver luogo nelle forme di elaborazione di una strategia di resistenza, bensì si articola come rifiuto dello schema concettuale imposto che trova piena espressione nelle lacrime, esternazione tangibile del dolore che ne preservano l’integrità pur nella consapevolezza della loro funzione eccitante nel mondo alla rovescia dentro la villa. attraverso Renata e il suo corpo irriducibile alla disciplina e alla soggettivazione imposte passa così una possibile via di fuga verso l’esterno che comincia a poco a poco a prendere forma. La lama tagliente del pastorato, che oscilla tra una sovranità e un biopotere, si connatura per essere individualizzante: deve sapere tutto di chiunque, senza lasciare scarti o residui, incitando ognuno a raggiungere la propria verità. Ma in quanto luogo aporetico che si esercita attraverso l’azione minacciosa di una disciplina punitiva di matrice sadiana, tende a un continuo assoggettamento dei singoli per renderli corpo massificato e indistinto. La duplice tensione trova il suo punto massimo nella animalizza151

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zione delle vittime come indistinzione tra bios e zoe, soglia limite di una politica della vita che si tramuta in politica di morte, come del resto la lettura iniziale delle leggi aveva preannunciato50 [fig. 20].

Fig. 20

Il divenire animale dell’uomo apre dunque a una zona di indiscernibilità dove la carne (chair) diviene materia inanimata e inerte, carne macellata (viande)51. Ma questa riduzione dell’elemento umano a una nuda vita, e per di più martoriata, come il pasto con i chiodi dimostra con orrore, riannoda le trame della sovranità e del biopotere, sancendo definitivamente la continua reversibilità tra potere di morte e gestione della vita. I docili cani che attendono con

Gli individui «già morti» richiamano ovviamente la figura dell’homo sacer in quanto uccidibile da chiunque ma insacrificabile; si veda G. Agamben, homo sacer, cit. 50

51

Per questa distinzione si rimanda a G. Deleuze, Francis Bacon. logica della sensazione, tr. it., Quodlibet, Macerata 2004, cap. 4.

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ansia il pasto condividendo la ciotola con i propri compagni sono dunque tanto artefici della propria sottomissione quanto vittime impossibilitate a fare altrimenti, pena una punizione corporale feroce e spropositata. sarà Renata, ancora una volta, a trattenere questa caratterizzazione anche in seguito: nella scena coprofagica già descritta, il suo avanzare a carponi ne rimarca però l’irriducibilità del bios sulla zoe. soggettività e postura corporea si trovano qui disgiunte [fig. 21].

Fig. 21

Chi nel gruppo è costantemente posto al livello più degradante sono le figlie, che dal momento del loro ingresso della villa vengono presentate sempre nude, senza cioè quei tratti esteriori che designano immediatamente la dimensione culturale del corpo, segno di umiliazione già presente nel romanzo. sono loro a essere oggetto delle violenze più aberranti, come lo stupro durante il primo pasto o la polenta con i chiodi. A loro è inoltre preclusa totalmente la parola, che riusciranno a conquistare solo alla fine, legate 153

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insieme agli altri dannati in una tinozza ricolma di liquame, per proferire un (vano) rimprovero a Dio, chiedendogli ragione del suo abbandono, citazione lievemente modificata delle ultime parole di Cristo sulla croce. Il matrimonio incrociato che aveva unito indissolubilmente i destini dei quattro egregi (in senso propriamente etimologico) non deve lasciare resti, ma divorare quanto attorno a questo sincretismo si profila come orpello e accessorio. Salò descrive così un dispositivo di condotta pastorale che si è trasformato in modo irreversibile nel suo rovescio mortifero: «Pasolini mette in scena non tanto il fascismo in vivo, ma il fascismo agli estremi, racchiuso nella piccola città, ridotto a una pura interiorità, che coincide con le condizioni di chiusura in cui si svolgevano le dimostrazioni in sade. Salò è un puro teorema morto, un teorema della morte»52. la salvezza eterna promessa dal pastore alle pecore del gregge che seguiranno l’esempio proposto si tramuta ora in una dannazione senza fine: chi seguirà l’esempio potrà infatti sperare di non uscire dall’inferno entro il quale si trova. Non per niente Renata supplicherà una punizione orribile – «la più tremenda» – in modo da poter raggiungere la madre morta per lei. la costante inversione dei topoi cristiani si innesta su un piano d’efficacia che ne ricalca esemplarmente i contorni, esibendo propriamente il versante sovrano di decisione sulla vita e la morte che compone oscuramente il moderno biopotere. Raffigurazione certamente estremistica, in consonanza con le

52

id., l’immagine-tempo, cit., p. 196.

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convinzioni di Pasolini, come visto, il film procede al cuore di uno dei dilemmi più imperscrutabili del Novecento e della storia dell’umanità53, mostrandone l’attualità. Si tratta ora di riemergere dalla prossimità del dettaglio per circoscrivere uno sguardo d’insieme e chiudere così il cerchio attorno a questo oggetto misterioso, ripartendo dall’inizio. marzabotto o le 120 giornate di Salò Salò non è Salò: crisi del principio d’identità. I segni di contestualizzazione storica rinvenuti all’inizio dell’analisi devono ora essere rimessi in discussione, per provare a rilanciare le considerazioni affiorate nelle pagine precedenti. salò è un cartello, un lungolago, una villa signorile, una meta immaginaria, distante e salvifica: «Gli altri, a patto che continuino a collaborare, potranno sperare di venire con noi a salò»54, prospetta il Duca ai ragazzi come alternativa alla dannazione finale. Luogo utopico, tranquillo e sgargiante, si contrappone a tutto il resto come fuoricampo assoluto avulso dalla realtà, spazio privo di un luogo reale. Un’utopia si accompagna sempre a un’ucronia, scrive Foucault55: la sospensione delle coordinate spaziotemporali è il contrassegno dunque delle prime due inquadrature, il piano rovesciato sul quale tutto il testo poggia. Sorprendentemente, allora, dato che queste

53

su questa linea si veda R. Esposito, Pensiero vivente, cit.

54

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2058.

55

M. Foucault, Eterotopia, tr. it., Mimesis, Milano 2010.

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coordinate sono introdotte proprio dal titolo attraverso un accostamento anacronistico che unisce due tempi e due luoghi implicando la mediazione artistica che lo rende possibile sotto le forme della citazione. Ma qui le cose si complicano ulteriormente, introducendo una supposta temporalità diegetica definita, le 120 giornate, che però si pongono in una relazione disgiuntiva – “o” – con il primo termine dell’equivalenza. Se al titolo aggiungiamo il cartello iniziale che fa riferimento a un tempo e a un luogo storicamente e geograficamente determinati, l’Italia settentrionale durante l’occupazione nazi-fascista del 1944 e 1945, il cortocircuito si infittisce. Da questo punto di vista, allora, la struttura allegorica acquista una piena validità, a patto di riuscire a considerare i vari strati che la compongono in termini complessi anziché di comparazione binaria. Nel testo sono così presenti tre spazi e tre tempi corrispondenti: lo spazio utopico di salò, consolante e mitico, lo spazio reale di Marzabotto, effettivo e preciso, lo spazio eterotopico della villa, sospeso e incompossibile. Ma tutti e tre sono situati all’interno di una stessa cornice, come il cartello iniziale evidenzia. la sovrapposizione di storia e mito, costante in Pasolini, si attua qui nella massima divaricazione possibile, coinvolgendo la tragedia storica con gli antecedenti originari relativi alla collera divina (la distruzione di sodoma) e alla punizione riservata all’umanità (l’inferno dantesco) innestando la mediazione letteraria di sade come piano di conversione e scambio tra queste due polarità. la contrapposizione binaria rimarca dunque su più livelli la prima parte del film, in chiara antitesi rispetto all’intero prosieguo, sino a giungere a una zona di confluenza 156

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indistinta che immette nella dimensione sospesa della villa. Ma questa costruzione concentrica, che si avvita in un gorgo per culminare nell’allestimento di uno spettacolo che si palesa come coalescenza di temporalità e atemporalità, è continuamente circondata da una Storia che preme ai suoi margini. il concetto di campo è davvero il più appropriato per descrivere la dinamica così delineata: inclusione del fuori nel dentro, la sua struttura aporetica si complica dal momento che questo fuori risulta a sua volta un dentro concentrato, corpo coeso che si fonda sulla contrapposizione irriducibile con un’alterità estranea dalla quale bisogna proteggersi attraverso una preventiva immunizzazione. Punto di massima condensazione, la villa si trova immersa in un ulteriore spazio eterotopico, propriamente un’utopia effettivamente realizzata, la Repubblica sociale, dove però la capitale salò, nella sua funzione metonimica e simbolica, viene confinata in una dimensione scissa dai suoi legami con la realtà storica. «È la prima volta che affronto il mondo moderno, in tutto il suo orrore»56, dice Pasolini durante la lavorazione del film. Riletta alla luce di altri articoli celebri – l’abiura alla trilogia della vita, la scomparsa delle lucciole – la frase non desta più a questo punto particolari sorprese: il nuovo fascismo è la società dei consumi, la sua dimensione edonistica e pornografica consente di accostarlo pienamente al pensiero di sade57. In più, l’elisione di qualsiasi

56

P.P. Pasolini, Per il cinema, cit., p. 3025.

57

su questa fedeltà di Pasolini a sade si rimanda a F. Palombi,

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riferimento al mito – caratteristica fondamentale in Pasolini – sottolinea l’erosione dei legami con il passato di un presente che trae le proprie origini nella violenza più efferata e quantunque più recente. Eppure, lo statuto utopico, se davvero fosse tale, di salò e della Repubblica sociale solleva dei problemi in quest’ottica. Nel delineare i tratti precipui dell’urfascismo, umberto Eco pone come prima condizione proprio il culto della tradizione in quanto investitura e legittimazione ricevuta dal potere fascista alle origini dell’umanità: il fascismo appare insomma essere intrinsecamente legato al mito. È allora in questo rimando di secondo grado che il mito appare di riflesso, mostrandosi in un’assenza rumorosa ed evidente, anzi rimanendo in filigrana come l’unico aspetto che resiste allo scorrere del tempo: «un’utopia degenerata è un’ideologia realizzata sotto le forme di un mito»58. la contrapposizione tra due temporalità, dove la terza, quella eterotopica, si carica di una funzione dialettica tra quella reale della storia e quella utopica del mito, configura dunque la villa come uno spazio contrassegnato da tensioni che però rimangono al suo esterno, creando una rottura con il tempo ordinario. Nella tassonomia di immagini-cristallo stilata da Deleuze, l’ultimo tipo viene indicato come «cristallo in decomposizione», caratterizzato da quattro ele-

salò e le 120 giornate di sodoma come opera filosofica, in Corpus Pasolini, cit., pp. 188-190. 58

l. Marin, Utopiques. Jeux d’espace, Minuit, Paris 1973, p. 297, traduzione mia.

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menti variabili e distinti, riscontrabili compiutamente nell’opera di Luchino Visconti. Il primo è il mondo aristocratico dei ricchi, «un cristallo sintetico, perché fuori dalla storia e dalla Natura, fuori dalla creazione divina»; il secondo un processo di decomposizione interiore che oscura questi mondi e li opacizza; il terzo è la storia, «presente fuori campo [e] mai in scena», ma che arriva a sezionare il cristallo, come un laser, «sotto una pressione tanto più potente in quanto esterna»; il quarto e ultimo elemento, quello più importante, è «l’idea che qualcosa arriva troppo tardi» a causa della storia e della Natura stesse e della struttura intrinseca del cristallo, un qualcosa che, in caso contrario, avrebbe potuto impedirne la decomposizione59. in Salò, analogamente, si registra la presenza dei primi tre elementi – i quattro ricchi sodali del romanzo, trasposti nei quattro gerarchi, la marcescenza che attraversa i vari gironi, la pressione silenziosa e nascosta della storia – ma quanto manca è invece questo ultimo tratto connettore, assenza che stravolge il senso rispetto alla messa in scena viscontiana. E questo proprio perché non può sussistere un troppo tardi dove non esiste diacronia tangibile, ma solo reiterazione rituale di gesti tesi alla distruzione completa. «Imbecille, non sai che noi ti uccideremmo mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se solo l’eternità avesse un limite?»60 esclama il Monsignore a chiusura della gara per eleggere il miglior dereta-

59

G. Deleuze, l’immagine-tempo, cit., pp. 109-110.

60

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2056.

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no aperta con una disquisizione sulla differenza tra il gesto del carnefice e quello del sodomita e sulla possibile reiterazione infinita del primo, entrambi comunque espressioni di una temporalità bloccata ed eterna. salò senza il fascismo, abbiamo azzardato ad analisi appena accennata: nella sottrazione di una dimensione storica, la possibilità dunque di costruire un universo in grado di comprendere la critica al presente e il suo aggancio con un passato problematico e mai effettivamente superato. Un’ultima annotazione su questi spazi altri. Secondo Foucault, una figura assicura l’oscillazione tra la dimensione utopica e quella eterotopica, lo specchio: nella compresenza di riflesso e figura reale, si assiste infatti all’apertura simultanea di due mondi ben distinti ma legati da un vincolo così forte da non poter essere spezzato. in Salò questa capacità di scissione dello specchio gioca un ruolo fondamentale, benché in termini quasi inaspettati, configurandosi come connettore delle principali istanze che abbiamo provato a descrivere nelle pagine precedenti [fig. 22]. All’interno di questo cristallo che assomiglia tanto a una monade, «senza porte né finestre» dice Deleuze sulla scorta di leibniz61, è però forse possibile scorgere un foro che buca le pareti isolanti della struttura e permette di intravedere una via di fuga, un barlume di vita e di umanità.

61

G. Deleuze, la piega. leibniz e il Barocco, tr. it., Einaudi, torino 2002, p. 31.

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Fig. 22

Lo schema compositivo con il quale iniziano i tre gironi contiene analogie e inversioni nelle sue tre varianti, che accomunano i primi due e distanziano il terzo. la funzione teatrale del racconto viene introdotta da alcuni espedienti classici – la preparazione dell’attore allo specchio nella propria camera, la discesa delle scale – ma solo il Girone delle manie e quello della merda li presentano entrambi, in successione dopo la comparsa del cartello; il Girone del sangue, invece, si apre con un altro tipo di vestizione allo specchio, quella dei tre signori in occasione del loro matrimonio, mentre la signora castelli fa la sua comparsa lungo le scale solo dopo la scena nuziale. le differenze intraviste sono evidentemente molteplici, eppure anche i primi due Gironi contengono elementi di distanza che sembrano concorrere alla delineazione di una linea di fuga che attraversa l’intero tessuto filmico e prende forma in diverse modalità. via di fuga è qui da intendersi in senso letterale: quanto è in gioco è la possibilità di uscire dalla villa. Se la rappresentazione dello spettacolo “finale”, così come descritta, ha davvero la capacità di riorien161

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tare la lettura dell’opera, la creazione di uno spazio di reclusione gioca su un doppio registro, indicando un dispositivo di potere tanto nei suoi meccanismi di funzionamento (il campo) quanto nei suoi effetti (la chiusura). Se il campo si mostra come motivo e schema diagrammatico nella prima parte, il finale ne rilancia le funzioni all’interno di un regime scopico: in questa chiusura circolare, però, il film dissemina elementi che creano una breccia, o almeno concorrono a porre in questione questo ripiegamento senza uscite. Le due figure che esemplificano questa contrapposizione sono, classicamente, lo specchio e la finestra. Qual è il postulato teorico e pratico della rappresentazione? Attraverso la prospettiva, l’organizzazione tridimensionale dello spazio, il rilievo e la profondità vengono raffigurati su una superficie e un supporto materiali che sono al tempo stesso negati, poiché tutto avviene come se il quadro fosse una finestra aperta sulla “realtà”: lo sguardo, nell’appropriarsene, non viene intercettato da nessuna griglia o filtro interpretativo. Ma per poter rappresentare la “realtà”, il quadro come superficie-supporto deve esistere: sul quadro-specchio la realtà viene proiettata come immagine, e su di esso e per suo tramite l’occhio riceve il mondo. Spettacolarità-specularità: la finestra è uno specchio. L’esatta visibilità del referente data dalla specularità si coniuga con la sua assenza: il mondo è effettivamente lì sul quadro, ma ciò che il dipinto mostra sulla sua superficie non è che l’immagine, il riflesso del mondo. Lo schermo rappresentativo è una finestra attraverso la quale lo spettatore 162

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contempla la scena rappresentata sul quadro come se vedesse la scena reale del mondo. Ma questo schermo, poiché è un piano, una superficie, un supporto, è anche un dispositivo riflessivoriflettente sul quale, e grazie al quale, gli oggetti “reali” sono disegnati e dipinti. [...] È l’invisibilità della superficie-supporto a rendere possibile la visibilità del mondo rappresentato. il diafano è la definizione teorico-tecnica dello schermo plastico della rappresentazione62.

si è visto come sia possibile tracciare una linea, dentro il film stesso, che porta dallo specchio alla finestra, dapprima come loro sovrapposizione e poi come contrapposizione. il ripiegamento dello spazio rappresentato su se stesso nella moltiplicazione dei riflessi e nella chiusura ermetica di ogni apertura con un esterno mai mostrato presenta tuttavia delle piccole crepe che sfociano nell’ultima sequenza in un possibile ripensamento. Finestra e quadro, nelle tre inquadrature dei signori che osservano con il binocolo le torture finali, si contrappongono spazialmente per assolvere un’identica funzione speculare di chiusura opaca e non di rinvio trasparente; ma più lontano, in un’altra stanza, la loro equivalenza viene messa in discussione. Torniamo all’ultima scena per analizzare lo spettacolo nelle sue componenti costitutive. il montaggio audio-visivo opera un lavoro di divaricazione e ricongiunzione progressiva delle due linee, ricorrendo a

62

l. Marin, della rappresentazione, cit., p. 143.

163

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una musica diegetica che cambia tanto nel supporto di produzione/riproduzione quanto nel genere e nella forma. la prima parte con protagonista il Duca si apre con un pezzo per pianoforte la cui tonalità maggiore crea un’ambiguità morale insostenibile: la ieraticità dell’aguzzino-spettatore e la serenità del brano si infrangono sulle scene di tortura percepite esclusivamente attraverso la soggettiva del Duca stesso63. Il fatto che tali immagini siano completamente mute e rechino le marche del supporto ottico che le mostra (il binocolo) accentua il loro essere riprodotte, creando al contempo una distanza e una familiarità complice. Gestrice della colonna sonora è ovviamente la pianista (o la “virtuosa”, secondo la sceneggiatura), figura sempre muta a parte un intermezzo da cabaret insieme alla signora vaccari, la cui inquietudine e il cui orrore vengono silenziosamente evidenziati a più riprese durante la narrazione. abituata ad accompagnare le narratrici e le occasioni sociali, come il matrimonio dei signori, si trova ora a suonare senza un pubblico, quasi in filodiffusione, per allietare la visione ai piani superiori. il suo suicidio tramite caduta nel vuoto da una finestra fa cessare provvisoriamente il sottofondo musicale, lasciando irrompere il rumore di fondo nella villa [fig. 23].

63

sulle possibilità insite nella divaricazione della colonna sonora e di quella visiva cfr. P. Montani, l’immaginazione intermediale, cit., pp. 25-26. Ma si veda anche M. Chion, l’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, tr. it., lindau, torino 2009.

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Fig. 23

Questo gesto, preparato narrativamente da molteplici episodi di angoscia e incredulità che ne hanno caratterizzato il personaggio, contiene anche dei problemi di ordine teorico che possono costituire una chiave di lettura “rovesciata” dell’intero film. A differenza di altri approcci che si sono focalizzati esclusivamente sulla funzione ancillare dell’arte nei confronti del mondo dei consumi descritta da Pasolini, e di cui la pianista condenserebbe i caratteri nel suo mutismo e nell’evidente incapacità di svolgere un ruolo critico malgrado la coscienza della situazione64, sembra più proficuo concentrarsi su alcuni elementi che punteggiano la breve scena del suicidio della pianista e operano una frattura del dispositivo ermetico ed impermeabile descritto. il suo gesto estremo non sembra premeditato, almeno

64

tra gli altri s. Murri, Salò o le 120 giornate di Sodoma, lindau, Torino 1998; più specificamente in relazione alla colonna sonora, si veda. E. Passananti, il corpo e il potere, cit., pp. 64-66.

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non coscientemente: arriva quasi per caso, come un riflesso incondizionato di fronte a una visione insostenibile. Ma questa visione emerge solo nel momento in cui la finestra si apre sul mondo e dà accesso alla storia. il vagare nella casa vuota – mostrata nella sua natura di casolare di campagna e non villa degli orrori – quasi senza meta, permette per la prima volta di avere accesso al fuori, inizialmente attraverso i vetri chiusi di un paio di finestre. La comparsa di un paesaggio sfocato prelude a questa irruzione, che si concretizza nell’apertura delle ante e viene ulteriormente sottolineata dal vento che muove i capelli della donna seduta sul davanzale. il gesto della mano alla bocca e il rantolo convergono nell’espressione dell’indicibilità dell’orrore: il difetto di testimonianza si converte così nel suicidio, che, ad ogni modo, ha lasciato aperto un varco, come il primo piano sonoro del cinguettio di uccelli denota. [fig. 24]

Fig. 24

È interessante notare come il gesto si carichi qui di una polarità tensiva in quanto espressione di un 166

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affetto intriso di una forza che si traduce immediatamente in azione65. la messa in forma di questa complessa dinamica si definisce così per contrasto rispetto all’incapacità di messa in forma che caratterizza l’azione della pianista: l’arte nella villa viene dunque meno al proprio ruolo. Sacrificio o espiazione66, l’estremo gesto ha comunque l’effetto di incrinare la compattezza dello spettacolo: subito dopo, infatti, il rombo degli aerei penetra sin nella stanza dell’osservatore. Se vi è stata connivenza tra arte e fascismo – un dato che sembra innegabile nell’ottica filmica – questa contiene in sé anche una capacità rigenerativa e salvifica. L’atto d’accusa ha senso solo se si legge in controluce il messaggio di poetica. La necessità di ricompattare l’unitarietà dello spettacolo – la sua prestazione audiovisiva – obbliga alla sostituzione della musica dal vivo con una riprodotta. È probabilmente azzardato leggervi anche una storia del cinema dietro questo passaggio, ma ciò non toglie che la ritrovata solidarietà tra visivo e sonoro si renda possibile grazie alla radio, altro elemento che compare fugacemente in altri punti del testo. come vi è un raccordo «a percezione ritardata»67 per svelare la natura diegetica dell’accompagnamento pianistico, allo stesso modo sono le ultime tre inquadrature e

65

si veda G. Deleuze, l’immagine-movimento, cit., pp. 109-110.

66

il tema della caduta è generalmente connesso con la dannazione, ma in effetti nessuna delle due ipotesi perde validità.

L’espressione è di N. Burch, Prassi del cinema, tr. it., il castoro, Bologna 2001. 67

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determinare la provenienza radiofonica delle due diverse colonne sonore che sorreggono i due episodi restanti, un canto popolare italiano seguito da una lettura di un estratto dal novantanovesimo dei Cantos di Ezra Pound e un brano tratto dai Carmina Burana, veris leta facies, di Carl Orff. Anche in questo caso, la giustapposizione non svolge un’opera pacifica e trasparente, ma presenta alcune discordanze, contraddicendo l’apparente concordanza dell’audiovisivo “filo-fascista”. L’ammirazione del poeta americano per il fascismo italiano è cosa nota, al punto che questi aderì alla Repubblica sociale nel momento della sua costituzione, per essere successivamente processato in patria come traditore; dall’altro lato, però, vi è un dato biografico a mettere in questione questa aderenza, dato che Pasolini divenne amico dello scrittore americano, e lo intervistò proprio sui Cantos per un programma televisivo. a complicare il quadro incorre infine un deliberato anacronismo: il poema risale al 1962. la risoluzione di questo intreccio sembra risiedere nel canto stesso. anzitutto, la scelta del novantanovesimo canto non è un atto innocente all’interno di un sistema testuale che opera un rimando così esplicito alla Comedia dantesca: l’articolazione in un antinferno esterno allo spazio della villa e tre gironi interni ristruttura la partizione del poema, rendendo autonomo così il primo canto dell’Inferno e associando per metonimia le tre cantiche ai tre gironi restanti, ristabiliti nella loro eguale lunghezza. Il novantanovesimo canto diventa in tal prospettiva l’ultimo dell’intero sistema cosmologico di Dante, quello dal quale si intravede l’uscita e la 168

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conclusione del viaggio. Le poche righe recitate alla radio contengono inoltre alcuni elementi di grande interesse, dato che si fa riferimento a una specie di famiglia composta dalle nove arti e al loro mutuo concorrere in una visione organicista, dove il tumulto e il disordine romperebbero questa armonia famigliare. il brano si conclude con un salto, presente nell’opera originale e nondimeno spiazzante: «uccelletti cinguettano in coro,/la proporzione dei rami armonizza/come chiarezza»68. Su queste parole l’episodio del Presidente si interrompe per raccordarsi con un taglio con quello che vede protagonista sua Eccellenza; a dispetto del tono grave e cadenzato, il brano veris lieta facies è posto da Orff in apertura della sezione omonima dedicata all’arrivo della nuova stagione come rinnovamento esistenziale, trattando del volto lieto della primavera e del diffondersi dei suoi odori e suoni trascinati da Zefiro. L’eterogeneità del reale che irrompe nella sospensione artificiale all’interno della villa grazie al vento – pneuma, vero e proprio soffio vitale – si propaga e si trasforma in parola poetica, secondo un procedimento ekfrastico che sottintende un’indicazione interpretativa. Appena prima che il brano giunga ai versi sul canto degli uccelli, claudio, uno dei collaborazionisti, ruota la manopola della radio e cambia stazione: la canzonetta Son tanto triste che ha accompagnato i titoli di testa ritorna e chiude il testo. claudio e Fabrizio, improvvisando un ballo sulle

68

P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2060.

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note della canzone, si scambiano due rapide battute: «[CLAUDIO]: Come si chiama la tua ragazza?» «[FABRIZIO]: Margherita»69.

Margherita. Il tema floreale giunge sino alle parole dei ragazzi e conclude il testo, aprendo definitivamente lo spazio chiuso verso la realtà esterna, come già Gabriella con la fotografia del fidanzato tenuta segretamente sotto il cuscino aveva tentato di fare: la storia si ricongiunge con la sua dimensione privata.

Epilogo: margherita, o l’apertura alla vita Salò si chiude con un mistero, «non deve essere capito», dirà Pasolini a lavorazione ancora in corso70. Misteriosa la natura del film, misteriosa la natura del mistero stesso: in effetti, cosa esattamente deve rimanere segreto tra i tanti punti poco chiari presenti nel film? A prima vista, si tratterebbe di un’incertezza dovuta a decisioni contingenti, se fosse vero che il riccetto un tempo amato è divenuto un pericoloso criminale: ha appena goduto partecipando a un’impiccagione e ora, noncurante, danza evocando il nome di Margherita. Il personaggio interpretato da claudio troccoli sarebbe stato ancora più sconcertante se fosse stato, come Pasolini avrebbe in un

69

ibidem.

70

ivi, p. 3020.

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primo tempo voluto, interpretato da Ninetto Davoli: la vista dell’ingenuo Ninetto alle prese con stupri e impiccagioni avrebbe chiuso il senso in termini assolutamente univoci di una sequenza su cui si leggono, a tutt’oggi, le opinioni più discordanti71.

tuttavia, se la lettura sviluppata sinora si rivelasse accurata, si potrebbe al contrario ipotizzare che quanto di più misterioso è presente è la capacità rigeneratrice dell’arte sulla vita, e di come la vita sia in grado di superare l’orrore e di riprendere un proprio cammino. il ballo dei due giovani collaborazionisti, insomma, non si configurerebbe come un ultimo atto di incoscienza di fronte alla tragedia della storia, ma sarebbe il tentativo di riacquisire il possesso della propria esistenza di fronte a un’espropriazione di cui non sono colpevoli sino in fondo [fig. 25]. Certamente, a quelle torture prendono parte in maniera attiva, violentando una ragazza prima della sua impiccagione; eppure, quelle torture non le guardano, non gli interessano: non godono dello spettacolo della violenza come gli aguzzini. la loro ignobile correità si attua insomma come omologazione a comportamenti aberranti divenuti norma, preservando tuttavia un’apertura oltre la finestra che dà sul mondo72 che sembra «schiudere uno spiraglio

71

t. subini, alcune considerazioni su salò, in Corpus Pasolini, cit., p. 172.

72

È forse quanto intravede i. calvino, Sade è dentro di noi (Pasolini, Salò), in id., Saggi, II, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 2007, p. 1933, nella sua lettura del film, peraltro molto

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liberatorio, sottintendere una parziale fuoriuscita dallo spazio intrasgredibile della bolgia»73. la progressiva prossimità tra carnefici e vittime preserva dunque molteplici sfumature intermedie, rendendo ardua un’opposizione categoriale netta e lasciando l’intera rappresentazione su un crinale scivoloso, dove dannazione e salvazione sono separate da un’esile linea. Ma dove rintracciare, nelle immagini stesse, un possibile conforto a questa tesi?

Fig. 25

Con «Margherita» il film finisce. Se davvero la

poco convincente, uscita sul “corriere della sera” il 30 novembre 1975: «Pasolini ha voluto lasciare qualche porta aperta per una lettura del film ottimistica, “umana”, incoraggiante». 73

a. Ferrero, il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, venezia 1994, p. 155, che comunque non sembra propendere sino in fondo per questa ipotesi poiché prosegue: «Ma su quei volti c’è anche il segno dell’abitudine e dell’accettazione e, comunque, l’orrore può essere dimenticato solo mettendolo tra parentesi, allontanandolo dietro la finestra, nell’atonia di un paesaggio troppo lontano perché possano arrivare gli urli e i lamenti dei torturati».

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parola in Sade ha valore dispositivo, se è in grado alla pari della parola biblica di creare un mondo, di comporre un luogo, direbbe Sant’Ignazio, il tema floreale può condurre ancora più lontano. Renata è la vittima in quanto preserva la sua innocenza sotto forma di sentimento pietistico nei confronti della madre morta per lei, sacrificio che contraddice il motto del Duca sulla contagiosità del male. unica fra le ragazze, mantiene sempre un elemento distintivo, all’apparenza insignificante, ma dal quale non si separa mai: il fermaglio per i capelli con tre margherite [fig. 26].

Fig. 26

spille e orpelli sono naturalmente indossati da quasi tutte le ragazze, ma nessuna li esibisce con questa evidenza. Nel cortile delle torture, però, il fermaglio sparisce, subito prima che la pianista compia il suo gesto estremo. la conversione dei simboli, dei suoni e delle immagini legati alla primavera allarga il suo orizzonte, donando allo spettatore la possibilità di decidere quale punto di vista adottare: o quello degli aguzzini, che osservano godendo, o quello 173

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della vittima, che ne costituisce lo spettacolo. Il ricorso a due tipi di soggettive che istituiscono questi due opposti investimenti figurativi propone così due universi valoriali rispondenti a due strategie e a due dinamiche inconciliabili. La soggettiva apre qui a due modelli di soggettivazione antitetici, convocando lo spettatore all’interno della rappresentazione e ponendolo di fronte a un bivio etico, nel quale il sacrificio dell’arte ha ancora senso solo se è capace di aprirsi – letteralmente – verso il fuori-campo. Salò affronta («in tutto il suo orrore») i processi di costruzione del senso attraverso le immagini e l’oscenità dell’atto della visione moderna, portando in scena tutto ciò che tradizionalmente ne deve essere escluso. Un’utopia, in definitiva, che si costituisce come rovescio dell’altra utopia a sua volta già rovesciata messa in scena, e che diventa «critica dell’ideologia dominante nella misura in cui è una ricostruzione della società presente attraverso lo spostamento e la proiezione delle sue strutture in una zona di finzione»74. Barthes scriveva che la lingua è fascista perché obbliga a dire75. al di là della veridicità di questa affermazione, il film sembra tradurla in campo visivo: l’ordine discorsivo dell’audiovisivo è oggi fascista perché obbliga a vedere, tutto e senza interruzioni. il lavoro critico e quello artistico di Pasolini si ricongiungono in questo punto nodale, operando una ricognizione atroce sullo stato di salute delle immagini.

74

l. Marin, Utopiques, cit., p. 249, traduzione mia.

75

R. Barthes, lezione, ora in Sade, Fourier, loyola, cit., p. 178.

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Il saggio barthesiano posto in apertura della bibliografia a inizio film si chiude con un paragrafo dedicato al principio di delicatezza come chiave per leggere sade in opposizione a un progetto di violenza: È una potenza d’analisi e un potere di godimento: analisi e godimento si uniscono a vantaggio di un’esaltazione sconosciuta alle nostre società e con ciò stesso costituisce la più formidabile utopia. [...] il principio di delicatezza postulato da sade è il solo a poter costituire, dal momento in cui saranno cambiate le assise della storia, una lingua assolutamente nuova, la mutazione inaudita, chiamata a sovvertire [...] il senso stesso del godimento76.

La conclusione di Barthes prende spunto da una frase apparentemente pretestuosa scritta dal Marchese mentre era in prigione e rivolta alla moglie, «incantevole creatura». Questa lunga frase compare anche nel film, nella sequenza fortemente autoriflessiva dove i libertini intavolano una conversazione filosofica, ed è pronunciata dal Monsignore, seduto solo in una stanza separato dagli altri tre compari. le sue parole si innestano in assenza sul dialogo altrui, incentrato sul sangue come principio di ogni grandezza e ricondotto, dopo alcune incerte attribuzioni di paternità (Baudelaire, san Paolo), al movimento Dada, dando origine a un movimento circolare della macchina da presa che perlustra la quasi totalità della stanza per arrestarsi sulla porta

76

id., Sade, Fourier, loyola, cit., pp. 157-158.

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aperta dalla quale provengono i suoni. la presenza di numerosi specchi – la stanza è la stessa della vestizione prematrimoniale dei tre signori, dalla quale ancora una volta il Monsignore è escluso – e gli affreschi alle pareti chiudono lo spazio della rappresentazione su se stesso, costituendo oltretutto due ambienti distinti, origini dei due principi che si confrontano e si oppongono [fig. 27 e fig. 28].

Fig. 27

Fig. 28

la parola ritorna ancora come elemento poietico 176

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ed ermeneutico, dispiegando due linee di sviluppo antitetiche che trovano ad ogni modo sempre un punto di intersezione, qui rappresentato dall’affacciarsi del Monsignore sulla soglia dell’altra stanza che, alla fine della citazione, esclama: «Eh sì, vecchi rotti in culo, esprit de délicatesse!»77. il Monsignore, evidentemente, non si fa portatore di questo spirito, ma le parole alle quali si è limitato a prestare un corpo, una voce, hanno catturato l’attenzione della macchina da presa e l’hanno condotta alla ricerca di tale principio sovversivo, formidabile utopia. Ma questo sarà possibile solo quando saranno cambiate le assise della Storia: il lavoro della macchina da presa sarà allora interamente dedicato all’apertura di una breccia che possa apportare gli elementi del cambiamento all’interno di questo spazio chiuso. Mentre queste sequenze venivano montate, la preoccupazione del regista friulano si stava però concentrando anche su un altro tema, realizzando un’opera per certi versi gemella di Salò in campo letterario, Petrolio, che non avrebbe mai visto compiutamente la luce a causa della morte del regista: un atto d’accusa esplicito nei confronti della classe dirigente italiana. così, tra il 24 agosto e il 28 settembre, un paio di mesi prima della morte, su alcuni

77 P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2043. una lettura opposta di questo “spirito di delicatezza” come possibile apertura si trova in a. Ferrero, il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 155, che comunque non fa riferimento al testo di Barthes.

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settimanali e quotidiani uscirono una serie di articoli di Pasolini incentrati sull’idea di un «processo ai gerarchi DC»78. In quegli stessi giorni, c’era qualcuno che stava evidentemente pensando qualcosa di analogo. E lo metteva in pratica.

78

si veda il corpus di scritti contenuti in P.P. Pasolini, lettere luterane, cit.

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iv. il governo della salvezza: todo modo

iv. il GOvERNO DElla salvEZZa: tOdO mOdO

“Bisogna processare i gerarchi dC” «se gli esercizi spirituali sono condotti bene, qualcosa succede sempre», sentenzia il prete una volta presa coscienza che l’eccidio degli esercitanti rientra in un oscuro piano prestabilito. il risvolto pragmatico delle tecniche messe a punto da Ignazio di Loyola – la loro dimensione efficace – giunge sino alle estreme conseguenze coinvolgendo il mistero più grande, la morte. la deformazione iperbolica delle parole del santo spagnolo è una delle linee portanti di todo modo di Elio Petri e si accompagna, sul piano figurativo, alla restituzione grottesca di luoghi, figure, iconografie: è solo all’incrocio delle due direttrici che si riesce a cogliere l’estensione dell’impianto complessivo1. il ricorso agli esercizi spirituali non si configura solamente come espediente narrativo, ma diventa un fattore che lega il livello ermeneutico e

1

sul grottesco come modalità di sguardo e visione del mondo si vedano R. De Gaetano, il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 2003 e S. Ghelli, la tradizione grottesca nel cinema italiano, L’orecchio di Van Gogh, Ancona 2009.

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quello pragmatico, creando un momento di incontro tra i due lati dello schermo, lo spazio della rappresentazione e lo spazio dello spettatore. analogamente a quanto avviene in Salò, la determinazione di un particolare punto di vista produce un’inclusione dello spettatore nello spazio della rappresentazione, mobilitandone i sensi e richiedendogli una partecipazione attiva: la costruzione di un determinato tipo di sguardo e la sua messa in questione sono i due poli di una dialettica le cui implicazioni, di ordine estetico e insieme politico, sembrano essere la posta in gioco di questo dittico. A differenza del film di Pasolini, quanto è ora al centro dell’attenzione è il versante governamentale del potere pastorale, esplicitato dal passaggio dal regime totalitario a quello democratico, che non impedisce tuttavia la definizione della morte come orizzonte di questa prassi di governo. todo modo riprende il tema e numerosi accorgimenti dal romanzo di sciascia, introducendo però molteplici inversioni che fanno brillare le intuizioni dello scrittore siciliano2. il titolo allude a una frase di ignazio di loyola, «todo modo para buscar la voluntad divina», il cui carattere volutamente ambiguo viene declinato in molteplici direzioni semantiche. alla base di entrambi vi è il racconto dei ritiri spirituali compiuti in un luogo isolato da alti esponenti del potere politico ed economico come risposta alla crisi

2 Per una lettura del film a partire dai «tre versanti di questo iato» tra Sciascia e Petri si rimanda a L. Donghi, l’utopia grottesca: todo modo e l’apocalisse dC, in Elio Petri, uomo di cinema, cit., pp. 205-212.

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morale che affligge con regolarità la nazione, così da fornire ai cittadini un’immagine rassicurante e insieme penitente, il cui esito sarà tragico in virtù di una serie di misteriosi omicidi lasciati senza mandante e spiegazione. Ma se il romanzo si limita a dissacrare il legame tra potere laico e religioso, il film espande questa idea sino a farne una dominante visiva e concettuale che riflette sulle modalità di costruzione dell’immagine dell’uomo devoto e sul potere esercitato da tale iconografia. Le strategie attraverso le quali si attua questa espansione sono molteplici e il loro ancoraggio sul piano visivo determina l’efficacia di questo lavoro di traduzione che riconfigura il testo originario ampliandone l’orizzonte di senso. Il tema degli esercizi spirituali contagia dunque gli altri livelli della struttura filmica, analogamente a quanto avviene con il dispositivo confessionale, facendo di todo modo un momento di elaborazione decisiva del discorso sulle immagini del potere pastorale3. a livello generale, la dissacrazione operata da Sciascia si inasprisce per trasformarsi in un atto d’accusa mirato contro una classe dirigente che ha gestito il potere in modi esecrabili. L’anonimato conferito dal romanzo ai suoi personaggi permane nel film, Si veda anche A. Scarlato, religione, in lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. iii, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2016, p. 146: «todo modo è opera ancora sconvolgente per la lucidità con cui esibisce la logica sacrificale del dispositivo teologico-politico, ma a ridosso del sequestro e dell’assassinio di Moro apparve come un film violentemente dissacratorio, la cui stessa visibilità confliggeva con il rispetto per la memoria del politico ucciso dalle BR».

3

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dove però i tratti figurativi e le posture adottate da Gian Maria volontè (nel ruolo di M o il presidente) e Michel Piccoli (Lui) creano un gioco di riconoscibilità sufficientemente esplicita che consente allo spettatore di collocare con precisione le vicende all’interno della cornice del presente dell’epoca; le fisionomie di Aldo Moro e Giulio Andreotti assurgono così a simbolo dell’Italia degli anni settanta dopo trent’anni di governo democristiano. L’idea di processo – in senso propriamente penale – condivide molti punti con confessione ed esercizi spirituali: l’ascendenza giuridica dell’inchiesta strettamente confessionale e più in generale dell’ermeneutica del sé coinvolge infatti tutti i gradi delle diverse procedure, il cui esito è comunque un giudizio, rivolto sia fuori di sé sia al proprio interno. Da questo punto di vista, la direzione spirituale assomma entrambi i versanti, costituendosi dunque propriamente come governo di sé e degli altri, nella cui linea evolutiva il momento della sanzione assume sempre maggior importanza. la compresenza di assoggettamento e soggettivazione si manifesta con la massima evidenza in queste pratiche, ma è l’idea di direzione spirituale che conferisce loro la possibilità di essere reiterate virtualmente all’infinito su soggetti sempre diversi e a gradi sempre più profondi e circoscritti. L’istituzione di un processo che vede imputata la classe dirigente italiana pare essere l’obbiettivo ultimo del film, in consonanza anche con le parole dello stesso Petri, e la cui messa in scena si sviluppa attraverso la preservazione di un mistero di fondo circa le cause e i mandanti, lasciando allo spettatore 182

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solo una flebile possibilità di intuizione. Lo scopo immediato andrebbe però in questo caso a detrimento dell’orizzonte di senso sviluppato, esaurendo la sua portata nel momento di un superamento della fase storica alla quale rimanda. La peculiarità del film pare invece risiedere nella messa in processo del processo, ovvero dell’estensione della dimensione critica al di là di un intento circoscritto e di breve gittata. come Salò, todo modo si apre con un cartello la cui funzione non è semplicemente illustrativa, ma orienta propriamente una lettura complessa del testo: Col nome di Esercizi Spirituali si definisce una pratica religiosa introdotta da s. ignazio di loyola nei primi decenni del 1500. Ufficialmente approvata dalla Chiesa nel 1548, per la grande efficacia spirituale, essa fu subito adottata come mezzo di formazione di uomini del potere economico e politico.

La centralità delle pratiche del sé si unisce all’idea della giunzione fra poteri, ma è nella loro natura di strumenti di formazione che questa unità si traduce in reiterabilità infinita e dislocata. Il concetto di governo costituisce l’espressione corrente in grado di articolare i diversi ambiti di efficacia di tali pratiche, fattore che diviene il motivo dirimente della loro adozione. Da questo cartello iniziale prendono così avvio due differenti linee di sviluppo, l’una – di superficie – incentrata sulla parodia corrosiva dei legami fra esponenti del potere religioso e politico e sul carattere pretestuoso della loro professione di fede, l’altra – più profonda – concernente le dinami183

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che di passaggio tra ambiti eterogenei di tecniche di matrice cristiana. situato in una posizione liminale tra le parole che precedono e le immagini che seguiranno, questo cartello svolge propriamente un ruolo «non solo di transizione, ma di transazione»4, analogamente a quelli presenti in Salò, condensando così – anche se solo parzialmente – la bibliografia iniziale con le contestualizzazioni successive presenti nel film di Pasolini. si tratta evidentemente di una complessa funzione di incorniciatura5 in quanto luogo di passaggio tra una soglia d’ingresso all’opera e lo spazio della rappresentazione vera e propria, ben evidenziato nel dispositivo-cinema dalla contrapposizione tra linguaggio verbale scritto e audiovisivo. D’altro canto, svolge anche un ruolo simile alle citazioni presenti in esergo al romanzo di sciascia, tratte da Dionigi Areopagita e Giacomo Casanova; l’accostamento inconsueto qui presente, già incontrato in Barthes, pare però finalizzato rispettivamente ad anticipare la scelta narrativa in termini ironici (l’ineffabilità della voluntad divina) e a insistere sulla dimensione impudica del ricorso alla fede: il discorso critico di Petri dichiara così subito la propria originalità rispetto al modello di riferimento. L’articolazione della struttura filmica in una

4

G. Genette, Soglie. i dintorni del testo, tr. it., Einaudi, torino 1989, p. 4. Sul concetto di cornice e le sue funzioni si veda l’ampia ricognizione contenuta in la cornice. Storia, teorie, testi, a cura di D. Ferrari e A. Pinotti, Johan & Levi, Milano 2018. 5

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vigilia e tre giornate introdotte da cartelli riporta alla mente quanto avviene in Salò, dove si è visto essere presente una costante tensione tra il quattro di sade e il tre cristiano. in todo modo l’ossessione trinitaria è un tema già presente esplicitamente nel romanzo, benché la simbolica numerica non costituisca un elemento di decisivo rilievo strutturale; la netta cesura introdotta dai cartelli distanzia inoltre il film dal testo originario, che costruisce invece delle transizioni graduali tra gli episodi, avvicinandolo piuttosto alla scelta pasoliniana della suddivisione in gironi di derivazione dantesca. il rimando alla Comedia punteggia tuttavia anche il racconto di sciascia, dove si costituisce però come elemento di comparazione figurativa – innestando ovviamente anche una dimensione assiologica – che determina una costruzione scenica modellata su un immaginario condiviso per quanto irreale: la riattivazione di un archivio eterogeneo attraverso un montaggio intertestuale è uno dei tratti più singolari dell’opera dello scrittore e in todo modo questa dimensione acquista un rilievo del tutto particolare, favorendo una sua trasposizione in immagine.

Figure e luoghi pastorali L’anonimato dei luoghi e dei volti non ha impedito sinora di individuare come referente del film un contesto storicamente determinato. Eppure, proprio questa riconoscibilità concreta cela una sottotraccia più generalizzante, che sembra essere il vero oggetto del contendere nella sua radicalità e originalità. 185

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Rispetto al romanzo di sciascia e a Salò, nel film di Petri si assiste a un passo ulteriore nell’elaborazione di questa dimensione astratta che si presenta nonostante la voluta riconoscibilità di alcune figure, specialmente quella di aldo Moro. la dialettica tra universale e particolare crea ora una tensione estremamente produttiva: la doppia dinamica di analisi e critica è il tratto che più mostra l’efficacia del lavoro di Petri e che ha certamente costituito il principale motivo di scandalo dell’opera. Così, a M e Lui, unici portatori di tratti riconoscibili per lo spettatore, si contrappongono Capra-Porfiri, Caprarozza, Caudio, Schiavò, ma anche don Gaetano, Scalambri, ecc., tutti dotati di una precisa identità che però non trova riscontro nella realtà extra-diegetica; attorno all’albergo di Zafer, si estendono infatti «la Nazione» e «il Paese» dell’«oggi» e dei «nostri giorni». se M e lui sono accomunati da questo investimento figurativo, a cui corrisponde la loro posizione di capi del partito all’interno del racconto, hanno tuttavia un rilievo assai diverso nell’economia del racconto: mentre il primo ne è il protagonista, tanto che alcune letture critiche gli attribuiscono il punto di vista sulle vicende, il secondo si ritaglia un ruolo più marginale, seppur già presente nell’assenza attraverso le parole dei convenuti. un altro aspetto però li unisce: la loro capacità di presentarsi come meta-immagini. L’aspetto della teatralizzazione individuato da Barthes come tratto condiviso dalla scrittura di Sade e Sant’Ignazio è stato rinvenuto in Salò come disposizione scenica che instaura una dinamica di scambio reciproco con i racconti delle narratrici; in todo modo, questa è parimenti rintracciabile nell’organizzazione delle proces186

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sioni, veri e propri dispositivi spettacolari già descritti accuratamente da sciascia, ad esempio quella del santo Rosario. Nel film di Petri si innesta però un’ulteriore dimensione che coinvolge direttamente queste figure, così da conferire loro un’immagine sdoppiata – per riprendere una nota distinzione operata da Deleuze6 – in una faccia attuale (il rinvio contingente) e una virtuale (l’apertura al generale) che si scambiano incessantemente di posto: un cortocircuito che evidenzia la necessità del Potere di darsi come immagine, sebbene attraverso due strategie differenti. Nel caso di M, questa scissione prende forma attraverso lo specchio di un “camerino”7, dove l’uomo politico è intento a provare i discorsi che dovrà tenere dinnanzi ai colleghi: una prima volta mimando il lavoro preparatorio dell’attore che si cosparge il viso di cerone prima del trucco, e una seconda assumendo la postura dell’oratore, mentre la moglie Giacinta lo asciuga dopo il bagno [fig. 1 e fig. 2].

6

G. Deleuze, l’immagine-tempo, cit.

7

sulla dialettica tra antro (il soggetto ripiegato su se stesso del grottesco, esito estremo di un processo di deformazione) e camerino (il luogo dove l’attore costruisce la sua maschera esternandone il carattere, dunque ipertrofia della conformazione) in relazione proprio a questo film si rimanda a M. Grande, Eros e politica, Protagon, Siena 1995, pp. 84 e segg.: «La maschera del soggetto appartiene all’antro della politica, dove il volto si fa “camerino” di uno spettacolo continuo: lo spettacolo delle trasformazioni tipiche della performance politica. Ma il gioco tra antro e camerino è percettibile anche in una diversa connotazione del gioco teatrale, in un gioco a incastro fra le diverse maschere della pulsione nel camerino privato (la stanza di “M.”) e le diverse maschere del potere nell’antro pubblico della riunione politica».

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Fig. 1

Fig. 2

L’evoluzione posturale si accompagna alla specularità dei due piani, che preservano comunque una profonda analogia compositiva: compresenza del viso di M, la cui vista è impedita allo spettatore dall’angolazione dell’inquadratura, e riflesso a mezza figura, per mostrare il lavoro congiunto di gestualità ed espressività. Nel secondo caso, però, subentra un elemento esterno, Giacinta appunto, che ricopre 188

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le nudità del marito conferendogli al contempo dei tratti nuovi grazie all’ambivalenza semantica dell’asciugamano bianco, superficie coprente e al tempo stesso in attesa di essere ricoperta: il cortocircuito si fa dunque circolare, rendendo interscambiabili le posizioni non solo tra l’attore e il personaggio, ma anche tra l’immagine dell’attore e quella del politico, illustrando il processo di adeguamento del volto alla maschera8.

Fig. 3

su questa direttrice si innesta la scelta adottata per caratterizzare lui, fatto entrare in scena (letteralmente) su un tappeto rosso illuminato da una luce circolare in mezzo alle file di panche ove sono seduti i suoi colleghi durante la predica [fig. 3]. Più che un rimando al divismo come apice della progressiva convergenza tra politica e spettacolo, tale scelta enfatizza ulteriormente la dinamica di scambio che

8

M. Grande, la commedia all’italiana, Bulzoni, Roma 2003.

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intercorre tra il potere e la sua messa in immagine, in questo caso restituita nelle forme parodiche di attore capriccioso. lui si presenta dunque come il risvolto “pubblico” di M, colui che impersona il lato visibile della vita dell’attore, la sua dimensione mondana nell’immaginario collettivo: «un attore, vale a dire un essere drammatico per eccellenza. Ma questa era già la situazione dell’attore in sé [...]. L’attore è aderente al proprio ruolo pubblico, rende attuale l’immagine virtuale del ruolo, che diventa visibile e luminoso»9. La distanza che separa questi due personaggi rispetto agli altri convitati è evidentemente legata a una critica puntuale della composizione del partito di maggioranza come agglomerato di figure di scarso rilievo e profilo; ma il processo coinvolge tutti senza sconti, né per meriti né per demeriti. il progressivo incremento dell’ecatombe, sorta di Apocalisse cruenta e a tratti irriverente nel suo sfigurare corpi e fisionomie dei cadaveri, investe quasi senza preavviso l’albergo, generando il panico e un’abiezione morale, se possibile, ancora maggiore. L’ironia che attraversa il film trova nel finale uno dei suoi momenti più acuti, lasciando trapelare l’ipotesi che a ordire l’eccidio sia stato M in persona: dopo esser stato caratterizzato come un impacciato mediatore «tra passato e futuro, Chiesa e stato, noi e loro», impaurito dai giudizi

9

G. Deleuze, l’immagine-tempo, cit., p. 86. sulla comparazione tra attore ed esponente politico nei termini di figura e analogo modello comportamentale, si vedano le analisi di G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Einaudi, torino 2001, cap. v.

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altrui, il Presidente acquista i tratti di un raffinato e lucido stratega, riapparendo inaspettatamente dopo la sua scomparsa nelle catacombe dell’albergo. La camminata finale nel parco con il fidato autista esaspera questa progressione, facendo coincidere il sacrificio personale con la vittoria finale. L’ultima inquadratura, che mostra l’esecuzione di M da parte del suo aiutante con il classico colpo alla nuca, sembra acquisire una piena intelligibilità solo riattivando il circuito degli esercizi spirituali delineato all’inizio. Se il fine di tali pratiche è l’affermazione di una soggettività propriamente cristiana, questa potrà emergere nella sua specificità solo nei termini di una rinuncia a sé, secondo il principio della askesis, l’ascesi di derivazione greca rimodulata nei secoli dalla dottrina cattolica10; soggettività e rinuncia a sé si incontrano così virtualmente nel punto limite dell’esistenza, la morte, che costituisce allora l’esito ultimo degli esercizi spirituali, punto cieco dove la vittoria si realizza come auto-sacrificio. Il piano di cui M sembra farsi esecutore, anche se non materiale, può attuarsi solo nell’eliminazione fisica di tutti i soggetti coinvolti: assicuratosi che nessuno sia rimasto in vita, al Presidente non resta che fornire le ultime disposizioni all’autista e accettare con serena rassegnazione 10 Sulla centralità della pratica dell’askesis nelle pratiche spirituali greche e successivamente cristiane e sul cambiamento di senso che si verifica in questo passaggio si veda. M. Foucault, l’ermeneutica del soggetto, cit. pp 277-290 Per una lettura di tale rinuncia a sé nella cornice di una critica del presente si rimanda a E. stimilli, il debito del vivente: ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011.

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la chiamata divina. Inginocchiato, lo sguardo al cielo, assorto nella preghiera ignaziana, l’immagine di M si conforma ora a quella del devoto che attende la propria sorte con consapevole timore e pia fiducia: i ritiri spirituali sono terminati con successo, mentre il movimento ascendente della macchina da presa lascia pietosamente la morte fuori campo11 [fig. 4].

Fig. 4

La sentenza capitale che chiude il processo resta paradossalmente con un boia e senza un giudice, dato che non esiste un’investitura figurativa né posizionale: lo spettatore rimane dunque preso all’interno di una dinamica apparentemente inconciliabile di occupazione di un posto istituzionale (nella frontalità pressoché perfetta) e dislocazione negli attimi

11 Per una prospettiva critica su questo movimento di macchina in relazione alle forme dello “svelamento del filmico” si rimanda a c. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, tr. it., Esi, Napoli 1995, pp. 95-103.

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in cui il verdetto viene eseguito (nel movimento ascendente). come Salò, anche todo modo si snoda attorno all’idea di mistero, inteso tanto in senso tematico (i misteri di Sant’Ignazio), tanto come mysterion teologico, cioè «una prassi, un’azione o un dramma, anche nel senso teatrale del termine, cioè un insieme di gesti, di atti e di parole attraverso i quali un’azione o una passione divina si realizza efficacemente nel mondo e nel tempo per la salvezza di coloro che vi partecipano»12, quanto come carattere lacunoso cha caratterizza la verità storico-processuale italiana13. Il film di Petri sembra così prendere le mosse nel punto esatto in cui si interrompe Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, tratto a sua volta da un romanzo di sciascia del 1971, il contesto. uscito in sala solo due mesi prima di todo modo, il film di Rosi si concentra sulla dimensione oscura della storia italiana recente e si conclude con un duplice omicidio i cui mandanti sono volutamente lasciati nell’ombra, ultimo atto di una striscia di delitti ai

G. agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 30; è in effetti in termini simili a questa accezione che Pasolini parla di Salò e Petri postula la vicinanza tra Sant’Ignazio e de Sade. Sulla congiunzione di mistero e rappresentazione negli Esercizi Spirituali in relazione alle immagini si veda anche L. Corrain, Semiotica dell’invisibile, cit., pp. 99-101. 12

13 Quest’ultima accezione ha rappresentato un interesse costante della cinematografia italiana a partire dagli anni sessanta; si veda in proposito Strane storie. il cinema e i misteri d’italia, a cura di c. uva, Rubbettino, soveria Mannelli 2011.

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danni di alcuni magistrati. la speculare simmetria tra il lavoro di Rosi e quello di Petri comporta un’installazione del punto di vista su versanti opposti – quello della legge e dell’inchiesta (impossibile da portare a compimento) per il primo, quello della politica e della diagnosi per il secondo – che realizzano due diverse strategie spaziali: Cadaveri eccellenti inizia infatti nel sottosuolo, all’interno delle catacombe di Palermo, sulle cui facoltà rivelatrici si concentra il dialogo iniziale, per risalire presto in superficie, nel mondo attuale e presente; todo modo opera invece un movimento inverso che, a partire da una sorta di fuga dalla realtà mondana, si immerge in una dimensione ctonia che conosce diversi gradi di profondità, di cui l’ultimo è costituito proprio dalle catacombe. Per rappresentare figurativamente la transizione tra due questi due mondi non comunicanti, il film di Petri ricorre a un ascensore cilindrico inquadrato dall’alto all’inizio (movimento discensionale) e alla fine (movimento ascensionale) del film, producendo un’ulteriore inversione rispetto al suo modello letterario: la trasformazione di una verticalità euforica verso l’alto – a sancire la propensione poco penitente dei convenuti – in una disforica verso il basso. L’ascensore non costituisce però solo una cornice spaziale per le vicende, ma anche concettuale, assumendo un evidente carattere profilattico. il ritiro spirituale si svolge infatti in un contesto di crisi politica, morale e sanitaria: mentre i primi due aspetti sono desumibili implicitamente dal testo di sciascia, l’ultimo è un apporto originale non rinvenibile nel romanzo, dove si accenna al contrario a piacevoli 194

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giornate estive14. L’epidemia investe l’intera narrazione, giungendo entro le pareti grigie e asettiche dell’albergo attraverso l’elenco sempre rinnovato del numero delle vittime – comunicato dagli schermi presenti capillarmente nella struttura – e spingendosi sino ai confini materiali del luogo apparentemente inviolabile, come mostra la disinfestazione finale nello spiazzo degli ascensori15. così facendo, il fuori si definisce solo come risvolto negativo del dentro sui cui margini preme, analogamente alla storia in Salò, rinviando nuovamente al paradigma del campo. al suo interno si trova ora la piena realizzazione di una dimensione governamentale attraverso la condotta pastorale che porta a compimento la dinamica reversibile tra assoggettamento e soggettivazione. L’inversione di senso è qui ottenuta mediante la collocazione in posizione di vittime degli esponenti del potere, soggetti a loro volta a un’istanza superiore che non coincide tanto con quella temporale della Chiesa di Roma – dato che ai ritiri prendono parte anche alti prelati, seppure il film ne riduca sensibilmente la presenza rispetto al romanzo – ma più propriamente con la specifica declinazione pastorale del governo sugli individui. Nell’intreccio tra pratica politica e tecniche religiose,

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l. sciascia, todo modo, cit.

Una scena, è quasi ridondante sottolinearlo, che nell’odierno scenario di emergenza causato dal covid-19 testimonia di una potenza immaginifica che illustra, una volta di più, il carattere attuale del film e dell’immaginario da esso sviluppato; torneremo nelle pagine finali su questo aspetto. 15

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il conflitto tra i due esponenti che, dai rispettivi fronti, le gestiscono con maggiore sagacia, don Gaetano e M, si risolve con la morte di entrambi, determinando l’impossibilità di ricondurre la voluntad divina che ordisce la trama a una figura univoca16. il campo, così delineato, non gode però solo di una differenza spaziale e funzionale rispetto a ciò che lo circonda, ma propriamente igienica. il campo deve essere immunizzato dall’esterno per essere totalmente altro, nella cornice comunque di una più vasta preoccupazione per una prevenzione di tipo medico. È proprio questo che appare nella breve sequenza iniziale, incorniciata da due cartelli che ne fanno dunque un luogo teorico denso. Seduto sul sedile posteriore, dietro al suo autista, M volge lo sguardo verso il presidio della croce Rossa, uno dei tanti sorti ovunque per rendere effettiva la campagna anti-epidemica contro un’ignota malattia che affligge il Paese e miete vittime in continuazione. un sospiro di sconforto, nelle mani un rosario stretto nervosamente; in sottofondo, la voce degli altoparlanti ricorda a tutti i cittadini l’obbligatorietà della vaccinazione: chi contravviene, incorre nella sanzione prevista da un codice non meglio specificato a causa della dissolvenza sonora. Gli elementi di una politica che prende in carico la vita sono tutti presenti, con l’introduzione di un generico “Articolo 1” che evidentemente regola le disposizioni in

Sui rapporti indissolubili e tuttavia in perenne conflitto tra potere spirituale e potere terreno si veda M. cacciari, il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013, part. pp. 72-73. 16

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materia profilattica ed eleva a suprema preoccupazione il principio di immunizzazione come risposta protettiva di un sistema chiuso nei confronti di un rischio proveniente dall’esterno che minaccia di contaminarlo nella sua purezza e identità17. Ma l’ultimo paradosso che il film mette in scena è il progressivo restringimento dell’area da preservare dal contagio sino alle soglie fisiche di separazione di interno ed esterno nel momento in cui l’albergo si svuota dei suoi ultimi avventori: nel tragitto che accompagna M fuori dall’ascensore e dentro il giardino antistante la reversibilità dei due spazi si completa e si fonde, rendendo vana ogni ipotesi di distinzione. il cortocircuito che si viene dunque a creare estende all’infinito e restringe all’infinitesimale l’ambito di efficacia del paradigma del campo, lasciando in sospeso una risoluzione unilaterale di questa dialettica. Imago Christi: conformazione, inversione, deformazione Per proteggersi dagli inganni del maligno – prescrive Sant’Ignazio – bisogna chiedere a Cristo la grazia per imitarlo, subito dopo essersi figurati «la composizione visiva del luogo»18 nel quale svilup-

17

su questo si rimanda a R. Esposito, immunitas, cit., e in particolare all’introduzione, dove viene segnalato anche il carattere antinomico di immunità e comunità oltre al loro possibile intreccio paradossale nella sfera della biopolitica.

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ignazio di loyola, Esercizi Spirituali, cit., p. 55. Si veda anche

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pare l’immaginazione devota. Il tema della imitatio Christi segna profondamente la storia del cristianesimo a partire da san Paolo, ma riceve una completa formulazione con il testo anonimo del Xv secolo, de imitatione Christi, proveniente da ambienti monastici, probabilmente certosini. le modalità di questa imitazione sono molteplici e si legano strettamente al tema della rinuncia a sé. un peso particolare è però qui assunto dalla conformazione morale dettata da un’analogia posturale con Cristo; il capitolo LVI del libro iii, “Rinnegare sé stessi e imitare cristo nella croce”, espone chiaramente questo programma d’intenti di carattere estatico: O figlio, tu potrai trasmutarti in me, a misura che riuscirai a uscire da te stesso. Ché l’intimo oblio di se stessi conduce a Dio, come la mancanza di desideri esterni porta la pace interiore. io voglio che tu apprenda a rinnegare pienamente te stesso, in adesione alla mia volontà, senza obiezioni, senza lamentele. [...] O signore Gesù, dura fu la vita tua, e disprezzata da tutti; fa’ che io ti possa imitare, disprezzato dal mondo19.

P.a. Fabre, ignace de loyola: le lieu de l’image. le problème de la composition de lieu dans les pratiques spirituelles et artistiques de la seconde moitie du Xvie Siècle, vrin, Paris 1992. de imitatione Christi, San Paolo, Alba (CN) 2011; sulla centralità dei processi di conformazione in ambito artistico come fondamento di una teoria della rappresentazione, visiva e verbale, si rinvia nuovamente al lavoro di Giovanni careri, in particolare la fabbrica degli affetti, cit. 19

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L’influenza di questo testo sui teologi dell’età controriformista è nota, e del resto gli Esercizi di Sant’Ignazio ne recano traccia in numerosi punti, declinando il tema della conformazione in un’ottica strettamente estetica. Per «lodare, adorare e servire Dio nostro signore»20, il fine per cui l’uomo è stato creato, la questione della somiglianza con cristo, natura visibile e terrena della trinità, acquista dunque un rilievo centrale: per cantare le lodi del signore serve passare attraverso un’immagine. A Zafer, le immagini del Cristo abbondano [fig. 5]. Nelle stanze private, in quelle comuni, persino in giardino ad accogliere i visitatori all’ingresso: la loro presenza accompagna costantemente i momenti all’interno dell’albergo, fornendo un archivio di motivi passionali, cognitivi e posturali dal quale gli esercitanti possono attingere. Gli ambienti austeri e spogli, da parte loro, esasperano questa atmosfera penitenziale, favorendo la focalizzazione dell’attenzione sugli esempi iconografici. Come la cornice nel dipinto implica la struttura della sua ricezione, circoscrivendo l’opera d’arte nella sua dimensione presentativa ed espositiva e permettendo allo spettatore di non disperdere lo sguardo dalla rappresentazione21, allo stesso modo il grigio cemento armato che fa da sfondo alle numerose statue di gesso che

20

ignazio di loyola, Esercizi Spirituali, cit., p. 26.

21

l. Marin, della rappresentazione, cit., pp. 158 e 200-201, che a sua volta prende le mosse dalla famosa lettera di Poussin a Chantelou contenuta in N. Poussin, lettere sull’arte, tr. it., hestia edizioni, como 1995, part. pp. 30-31.

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si trovano nei corridoi e nelle sale consente alle figure del Cristo e dei santi di risaltare nella loro essenzialità. Questa analogia funzionale si realizza però come rovescio: la dimensione propriamente ontologica della cornice, che la definisce come oggetto dotato di relativa autonomia e la manifesta nel suo esserci, scompare nel caso della parete che si mostra invece nella sua nudità e regolarità. Ma è proprio l’assenza di qualsiasi elemento eterogeneo (l’intonaco, la vernice) a implicare un movimento di focalizzazione centripeta che segue logicamente la massima dispersione centrifuga messa in atto dall’occhio alla ricerca di un qualsiasi appiglio in grado di apportare una variazione e donare così senso alla massa omogenea che si pone di fronte.

Fig. 5

A ben guardare, l’aspetto di queste statue risulta decisamente bizzarro, sia dal punto di vista iconografico che da quello cromatico. La familiarità di alcune scene contrasta con lo straniamento provocato da posture insolite, così come il bianco del gesso viene 200

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saltuariamente alterato da elementi colorati che si configurano come oggetti provenienti dal mondo reale, piuttosto che come integrati nella rappresentazione plastica. L’analogia tra parete e cornice presenta dunque una validità solo circoscritta: una cornice vera e propria avrebbe infatti contribuito a separare lo spazio della rappresentazione da quello della ricezione, distinguendo lo spazio dell’arte da ciò che ne rimane esterno, mentre l’efficacia della rappresentazione passa necessariamente dalla delimitazione univoca del proprio spazio. Le statue dell’albergo contengono insomma degli aspetti contraddittori, che ne fanno degli oggetti di difficile collocazione entro una direttrice di filiazione genealogica. Non solo elementi decorativi, bensì più propriamente coadiuvanti allo sviluppo dell’immaginazione degli esercitanti (la funzione principale nei precetti ignaziani), queste costruiscono un universo iconografico che si distanzia dalla tradizione storico-artistica attraverso scarti minimi: è proprio questa leggera distanza a conferire loro una specifica tonalità perturbante22. Di fronte a tale scenario, la ricaduta nei confronti dei convenuti devoti è pertanto imprevedibile. a questa indeterminabilità preventiva il film conferisce un rilievo consistente. la sicurezza e la licenziosità – almeno iniziale – che connotano i personaggi che popolano il romanzo di Sciascia si trasformano da subito in austera mediocrità che sfocia

Propriamente l’Unheimlich indagato da s. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, tr. it., Bollati Boringhieri, torino 1991.

22

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nella deformazione grottesca in parallelo all’aumento dei delitti. la consapevolezza e la forza ostentate dai convitati nelle pagine dello scrittore siciliano lasciano così il posto a una blanda incapacità da funzionari obbedienti e svogliati. Generalizzando, queste inversioni trovano un primo corrispettivo spaziale nella già menzionata sostituzione di una profondità filmica (l’edificio è interamente sottoterra) a un’elevazione romanzesca (in Sciascia, ad esempio, l’onorevole Voltrano muore cadendo dal settimo piano), che si carica di una dimensione valoriale complessa riconducibile all’opposizione tra piena visibilità e occultamento. Da questa premessa discendono numerosi altri elementi, come la presenza femminile all’interno dell’albergo – espressamente vietato dalle regole imposte e nondimeno infrante – che Petri riduce alla sola Giacinta a partire da un numero molto più nutrito: la funzione di rafforzativo dell’ipocrisia dei convenuti si spoglia di ogni connotazione morale per trasformarsi in elemento ausiliario alla figurazione di dispositivi legati alla cristianità, come vedremo a breve. il conferimento di una tonalità cupa unita a un’instabilità decisionale traccia dunque una linea di demarcazione sempre più sottile e incerta tra lo spazio della vita e quello della morte. la morte sulla croce come presupposto della vita eterna, tanto per il Cristo quanto di riflesso per il credente secondo il principio dell’imitatio, sembra rovesciarsi nei corridoi e nelle stanze di Zafer facendo discendere una dimensione mortifera a partire da un’adesione troppo letterale agli esempi proposti. Questo pervertimento dei dettami ignaziani è un tratto ricorrente che si ritrova su diversi livelli della strut202

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tura filmica. Vi è così un primo piano letterale che depura i precetti contenuti negli Esercizi dalla loro componente metaforica, legandosi poi, nel contesto della faida tra le correnti che compongono il partito, a un nuovo investimento figurato che nulla a più a vedere con i precetti di Sant’Ignazio. L’esempio più evidente è l’ingiunzione a placare gli appetiti disordinati, che attorno alle tavole del refettorio diventa una disputa sull’utilità o meno del digiuno e si conclude in una schermaglia verbale circa le malefatte della fazione avversa23, senza che il discorso esca mai dai binari del riferimento gastronomico. sul piano visivo, invece, una prima strategia concerne il ricorso al grottesco come lente attraverso la quale far passare tutta questa rappresentazione invertita24, a partire dagli ambienti, nei quali il perturbante proprio delle immagini sacre presenti nell’albergo costituisce il risvolto estremo di questa tendenza. a essere segnati integralmente da tale filtro deformante sono però principalmente i personaggi in scena, maschere di un potere vuoto e patetico che si dissolve nel nulla al momento della loro condanna sotto la scure della voluntad divina. L’arroganza che dovrebbe contraddistinguerli si mescola sin dalle prime battute a un’alterazione fisiognomica e posturale che collide con il loro status

23 È anche un evidente riferimento all’epiteto con cui si era soliti indicare i politici democristiani: “forchettoni”. 24

sulle inversioni contenute nel grottesco e nel carnevale in generale si veda V.I. Stoichita e A. Coderch, l’ultimo carnevale. goya, de Sade e il mondo alla rovescia, tr. it., il saggiatore, Milano 2004.

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onorifico e li trasforma in caricature che esercitano la loro funzione con inconsapevolezza delittuosa [fig. 6]. La disperazione progressiva che si insedia sui volti degli esercitanti esibisce l’evidenza dell’impossibilità di salvezza che prelude a un esito negativo degli esercizi spirituali, segnando da questo punto di vista uno scarto con il personaggio di M, la cui serenità finale lo pone in antitesi con i suoi colleghi di partito.

Fig. 6

Già Deleuze aveva definito i contorni del naturalismo come prolungamento surreale del realismo nei termini di un’operazione di «diagnosi della civilizzazione»25, sottolineando così il valore critico della descrizione dell’irruzione delle pulsioni originarie all’interno di un ambiente che si deforma e si degrada. Eppure, si perderebbe di vista la specificità di todo modo se si limitasse lo sguardo a questa strategia rappresentativa, sottostimando il contesto

25

G. Deleuze, l’immagine-movimento, cit., p. 150.

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strettamente religioso nel quale viene inserito. Un’ulteriore inversione è dunque riscontrabile a livello di immagini alle quali conformarsi ed è questa dinamica di duplice deformazione a risultare decisiva. la creazione e il consolidamento di un canone compositivo e figurativo è una preoccupazione che ha attraversato in modo tensivo il rapporto tra Cristianesimo e arte, giungendo con la controriforma a una codificazione sistematica che intendeva attuare una pedagogia capillare e prevenire la diffusione delle Chiese riformate. A fianco di un’iconografia tradizionale e riconoscibile da tutti i fedeli, dunque, si poneva anche il problema di stabilire delle forme canoniche per rappresentare i misteri della vita di cristo e dei santi, ovvero una gestione dei rapporti tra il visibile e l’invisibile. Victor Stoichita ha dettagliatamente analizzato il caso della pittura spagnola del seicento come luogo di continua sperimentazione teorica da parte dei suoi esponenti e che assurge a modello paradigmatico in virtù, tra le altre ragioni, della contemporanea presenza durante il Xvi secolo di due dei più grandi santi visionari della Cristianità, Sant’Ignazio appunto e Santa Teresa d’Avila. È da questo repertorio figurativo che si possono rinvenire numerosi spunti utili ad analizzare la strategia di inversione che investe tutto il film26. 26 V.I. Stoichita, Cieli in cornice. mistica e pittura nel Secolo d’Oro dell’arte spagnola, tr. it., Meltemi, Roma 2002. Per quanto riguarda ignazio e teresa, i due principali santi del periodo controriformista, la loro biografia procede per binari singolarmente paralleli, seppure non vi sia certezza di un loro incontro. ad ogni modo, la loro contiguità è riconosciuta per prima dalla Chiesa stessa: Papa Gregorio Xv li canonizzò infatti nello stesso giorno,

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Nel privato della sua stanza, M recita il Pater noster; al suo fianco Giacinta, che lo invita alla preghiera con il trasporto prescritto. tentando di rifuggire il peccato, entrambi intonano con sempre maggiore gravità il testo, sino al contatto fisico che si configura come apice dell’esperienza estatica, dalla quale vengono immediatamente interrotti per la visita inaspettata dell’onorevole Voltrano. Elemento introdotto dal film, la donna è ben conscia di essere tanto figura di conforto e supporto quanto fonte di tentazione, ma questo aspetto doppio non riesce mai a sciogliersi definitivamente, lasciando che improvvisamente uno dei due poli prenda il sopravvento. in questa sequenza, quella della sua comparsa sulla scena, è Giacinta a invitare M alla preghiera, ma al contempo sembra essere lei ad incentivare la brama carnale dello sposo, che si avventa su un seno esposto fuori dalla vestaglia. il topos della lattazione mistica è solitamente associato all’iconografia propria di San Bernardo di Chiaravalle, la cui origine è ignota (le biografie del santo non ne fanno infatti menzione); Stoichita ne ravvisa tuttavia una possibile fonte nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, l’opera più famosa di Bernardo: lo sposo parla dunque così: voi avete, o mia sposa, ciò che avete chiesto, e un segno l’avete ed è che le vostre mammelle sono diventate più eccelse del buon vino. Una prova certa che avete ricevuto un bacio è che voi sentite che avete concepito. È ciò che fa sì che le vostre mammelle si gonfino di un latte

il 12 marzo 1622.

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abbondante e migliore del vino della scienza secolare che inebria davvero, ma di curiosità e non di carità, che non riempie né nutre per nulla; che gonfia e non edifica, che ubriaca e non fortifica affatto27.

Fig. 7

27

ivi, p. 164.

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la lactatio diventa qui allegoria dell’infusione della scienza divina nell’anima, i cui effetti sono la sacra ispirazione che si traduce in bontà dell’eloquio. Questo tema manifestamente erotico comporta ovviamente delle difficoltà di trasposizione iconica – quasi sempre risolte comunque con uno zampillo di latte dal seno nudo della Madonna nella bocca aperta per la preghiera e non per suzione, come ad esempio nella lattazione di San Bernardo di Bartolomé Esteban Murillo del 1660 [fig. 7] – e ancora più problemi pone agli autori controriformisti di manuali d’iconografia sacra, per chiare ragioni di pudore. Ad ogni modo, questa teofania rimane del tutto particolare, data la “pericolosità” di una traduzione visiva troppo aderente al livello letterale del passo. Se finora l’elisione della dimensione metaforica delle parole di Sant’Ignazio è stata intesa come il tratto decisivo che apre la strada all’emersione del grottesco, in questo specifico caso, invece, le inversioni precedenti lasciano il posto a una vera e propria deformazione: attaccato al seno della moglie, M ne succhia il “nettare divino” ispirato direttamente da Cristo, come la soggettiva della donna sul crocefisso sembra indicare. il ribaltamento delle posizioni dei due personaggi li dispone secondo un dispositivo consolidato: l’orante inginocchiato di fronte all’immagine della Madonna, che nell’estasi della preghiera si tramuta sia in visione sia in presenza reale, secondo una compresenza ontologica che l’iconografia bernardina continuamente promuove [fig. 8]. Ma una volta sedutasi sul letto, il dispositivo sopra delineato scompare, lasciando il posto al solo versante erotico del processo estatico [fig. 9]. 208

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Fig. 8

Fig. 9

in effetti, il duplice ruolo assunto dalla donna emerge con chiarezza e per sua stessa bocca durante la confessione improvvisata al cospetto di don Gaetano: «lui è cristo, è in alto, lui per me è cristo … ecco, forse questo è il mio peccato, io mi lascio succhiare perché lui diventi più forte, ma una madre non può fare l’amore con il proprio figlio». È importante notare l’implicito parallelo tra sé e la Madonna e la componente profondamente erotica associata con l’atto di suzione: la deformazione così delineata si 209

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presenta dunque come apice della degradazione di un potere famelico e ipertrofico che appiattisce la complessità stratificata del reale su un piano letterale e immediato, restituendo visivamente (e ironicamente) quei vincoli puerili menzionati in precedenza.

Fig. 10

L’eros mistico non concerne solo San Bernardo; l’esempio più famoso di una visionarietà che investe tutti i sensi e si configura come esperienza limite, anche per le sue rappresentazioni visive, è senza dubbio il caso della transverberazione di santa teresa, modello successivo per tutte le condizioni estatiche legate all’infusione dello spirito divino e di trapasso interiore. il passo della santa al riguardo è singolarmente dettagliato, il che gli conferisce una potenza icastica fuori dal comune, ma al contempo rende estremamente problematica la sua traduzione figurativa, come dimostra il celebre complesso scultoreo di Bernini realizzato tra il 1647 e il 1652 [fig. 10]: 210

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vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo in forma corporea [...] non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare brucino tutti in ardore divino. [...] Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva sino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto28.

Fig. 11

28

ivi, p. 150.

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Preparandosi alla Meditazione sul peccato, la prima, M invita Giacinta ad aiutarlo nella riflessione; la moglie acconsente senza indugiare, ma la digressione dotta iniziata da M si trasforma immediatamente in un’unione estatica continuamente interrotta e ripresa attraverso i movimenti dei due personaggi [fig. 11], sino all’irruzione del fuori assoluto sotto forma di notizia sullo stato dell’epidemia. Ma il rimorso della donna per essere fonte di tentazione per il proprio sposo si deve comunque tradurre in un gesto espiatorio, enfatizzato dal movimento di avvicinamento della macchina da presa che si conclude con un dettaglio: l’espressione di patimento sul volto, le mani portate al petto che stringono un seno con contrizione29 [fig. 12] e il crocifisso che pende dalla collana sono i tre poli di una postura desunta dalla crasi tra il pentimento per il peccato commesso, l’estasi delle grandi mistiche e la richiesta di grazia alla Madonna da parte del devoto in presenza del mistero supremo della fede cristiana30.

29

la contrizione è un affetto centrale nella fede cattolica e indica, secondo G. careri, la fabbrica degli affetti, cit., p. 37, «il perfetto pentimento scaturito dalla disproporzione tra la fede umana e l’amore di Dio» e come tale gode di una codificazione gestuale ben definita.

30

un analogo dispositivo è descritto da id., voli d’amore. architettura, pittura, scultura nel «bel composto» di Bernini, laterza, Roma-Bari 1991, pp. 44-53, a proposito del busto del medico portoghese Gabriele Fonseca nella cappella dell’Annunziata in san lorenzo in lucina.

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Fig. 12

il gesto di Giacinta condensa dunque questa ambiguità convocando nuovamente il tema della lattazione come infusione del sapere attraverso l’emersione in superficie di un affetto che trova diretta corrispondenza sul piano pragmatico e corporeo31. Ma questa postura sfaccettata sembra essere l’esito dell’adesione al dettato degli Esercizi portato alle sue estreme conseguenze. Nella metodologia proposta da Ignazio, infatti, l’applicazione dei sensi riveste un ruolo centrale di cerniera tra il soggetto passionale che conforma lo spirito e il soggetto fisico che imita la postura. L’applicazione dei sensi si dispiega nella meditazione prescelta secondo l’argomento della meditazione stessa, la subiecta materia: e la meditazione sul peccato, evidentemente, si presta con estrema facilità a un trascendimento carnale che investe e travolge la dimensione sensoriale, dato

Si tratta della definizione deleuziana, ripresa da Bergson, di affetto come «tendenza motrice su un nervo sensibile» come si legge in G. Deleuze, l’immagine-movimento, cit., p. 109. 31

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che «più che in ogni altra maniera di pregare, nella pratica gesuita la sensibilità del corpo non si oppone alla spiritualità dell’anima ma ne è il prolungamento immaginario»32. Giacinta diventa dunque una figura che assomma due diverse polarità contraddittorie, la cui resa si modella su un principio di deformazione come “smarginamento” del livello letterale dell’iconografia che di volta in volta le viene associata. Il suo ruolo si oppone allora risolutamente a quello riservato alla presenza femminile da sciascia – come espressione della corruzione dei costumi e dell’ipocrisia della classe dirigente – per definirsi come elemento portante di una strategia tesa a trasfigurare le immagini filmiche verso una stratificazione del senso all’interno di un gioco di trivializzazioni e raddoppiamenti. se inversione grottesca e deformazione sacrilega sono i due esiti sin qui analizzati, la figura di Giacinta apre al contempo a una terza strategia, forse la più significativa proprio perché coinvolge i due protagonisti, don Gaetano e M: sono loro, in virtù delle rispettive posizioni, a essere investiti del compito della imitatio Christi come fine ultimo dell’uomo. Nelle stanze private dell’albergo, la figura del Cristo, patiens o triumphans, non è presente sui crocifissi, contrariamente a quanto avviene negli spazi comuni e nella cappella. In un’ottica di conformazione al Cristo, la croce senza il corpo del figlio di Dio assolve una funzione ovviamente diversa, più exemplar che exemplum, ricorrendo alla terminologia proposta da

32

G. careri, voli d’amore, cit., p. 59.

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agamben. lo sviluppo di una immaginazione produttiva e dettagliata è invece uno degli scopi e al contempo dei presupposti degli esercizi spirituali, come Sant’Ignazio si premura di specificare ripetutamente nel corso del suo manuale (e come lo stesso M ribadisce in occasione della preparazione alla Meditazione sul peccato). Dunque, l’esemplarità della croce deve necessariamente passare da un investimento figurativo supplementare, il corpo del cristo appunto, dato il fine delle pratiche spirituali è proprio l’imitazione delle gesta sante attraverso l’adeguamento posturale all’immagine devozionale. L’efficacia conformatrice diventa così il luogo della valutazione del buon esito dei ritiri, fondendo in un solo movimento pragmatica e patemica. Ma in tutti i casi in cui M e don Gaetano si accostano alla croce, qualcosa sfugge al loro controllo, e il confronto tra la loro immagine e quella del Cristo rivela immancabilmente degli scarti che non consentono questa specularità piena. Alla fine della predica che apre la Meditazione sul peccato, don Gaetano, in piedi davanti all’altare, allarga le braccia pronunciando la parola «aquile»; alle sue spalle, in una sovrapposizione esatta enfatizzata dal raccordo in asse che allarga il campo sul totale della sala, si staglia il Cristo sulla croce [fig. 13]. il raddoppiamento operato dalla figura del prete sembra pressoché perfetto, eppure qualcosa non coincide sino in fondo. il punto di vista ribassato, in analogia con la postura seduta dei convenuti, e la sua centralità geometrica in corrispondenza del tappeto rosso sul quale è appena transitato lui, conducono con un movimento di fuga verso la profondità di campo, dove lo spazio liturgico si rialza rispetto al resto della cappella. il con215

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trasto cromatico oppositivo tra il bianco della statua e il nero dell’abito talare accentua la scansione dei piani, mentre le ampie maniche replicano lo spessore “fuori taglia” dei due bracci della croce. Ma dove le mani del Cristo sono rivolte con i palmi verso l’alto, quelle di don Gaetano rinviano inequivocabilmente al suolo, operando una divaricazione tra l’apertura al divino e la chiusura terrena, che si carica di un valore simbolico preciso e riconfigura semanticamente le altre differenze: il «prete cattivo» – per sua stessa ammissione – non riesce insomma ad accogliere il messaggio spirituale del sacrificio di Cristo, preoccupato più della gestione delle cose mondane che delle anime dei suoi fedeli.

Fig. 13

Analogamente, quando l’ecatombe comincia a mostrare per intero la sua dimensione universale e M riappare dopo la sua scomparsa misteriosa, il dialogo tra lui e don Gaetano assume i contorni di una dramma sentimentale tra due persone che incarnano anche dei poteri in perenne tensione ma reciproco accordo. Alla richiesta del politico di essere confessato il prete oppone un rifiuto, interpretando alla lettera il mandato 216

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confessionale come viatico non sufficiente per una piena remissione dei peccati. la gravità della scena si manifesta qui proprio attraverso il rispetto integrale della regola, fatto insolito in epoca moderna, al punto che diversi concilii e bolle papali dovettero esprimersi sull’argomento33. M si inginocchia in posizione orante, ma il destinatario non è Dio, al cui figlio infatti volta la schiena, ma solo don Gaetano; la supplica si carica dei simboli cristiani, il rosario e il collare bianco dell’abito talare, e l’avanzamento sulle ginocchia porta M a sovrapporsi con il grande crocefisso alle sue spalle [fig. 14]. A differenza di quello presente nella cappella, qui le braccia del cristo sono protese obliquamente verso l’alto, ma come don Gaetano, anche M inverte la direzione di tale analogia a causa del bilanciamento che deve conferire al suo movimento instabile. La contrapposizione alto-basso agisce dunque in entrambi i casi come inversione semantica tra la salvezza promessa e la dannazione imminente.

Fig. 14 33

Per una ricostruzione di tale discussione si rinvia nuovamente alla voce “confession” del dictionnaire de theologie, cit.

217

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Queste due deformazioni sono qualcosa di più particolare rispetto alle altre strategie di inversione incontrate nel film. Inversione grottesca e deformazione letterale sono infatti due stadi più generali, seppur a diversi livelli di profondità e specificità, di una strategia tesa a ribaltare sistematicamente i tratti necessari per una piena efficacia di un’immagine del potere. in questo senso, è possibile parlare propriamente di una cattiva conformazione per don Gaetano e M, la cui mancata sopravvivenza dipende proprio dalla loro incapacità di assumere le fattezze dell’immagine efficace per eccellenza, quella di cristo sulla croce34. il loro fallimento è il fallimento di una classe politica, di un intero sistema di potere e di un connubio, quello tra la Chiesa e lo Stato, che si basa su uno scambio di reciproche convenienze e menzogne. il processo dispone le sue evidenze, lasciando ora allo spettatore il compito di trarre le sue conclusioni in un’inclusione attiva all’interno dello spazio diegetico.

34

Questa conformazione fallita si attua così a tutti i livelli: per M, ad esempio, si tratta di non essere in grado di adottare una lingua specifica, mondata dagli orpelli mondani presenti prima dell’ingresso in ritiro, come previsto invece tra gli esiti della buona condotta degli esercizi, mancanza ben evidenziata dai suoi discorsi ai colleghi (con esplicito riferimento parodico, inoltre, al linguaggio figurato tipico di Aldo Moro). Sulla prescrizione di tale cambiamento linguistico si veda comunque R. Barthes, Sade, Fourier, loyola, cit., pp. 38-39.

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il giudice e il confessore «Il film è un vero e proprio esercizio spirituale»35 dichiara Petri dopo l’uscita del film. Ma chi lo compie materialmente? L’esercizio spirituale, abbiamo visto con hadot, comporta un lavoro del soggetto su se stesso al fine di ottenere una trasformazione della visione del mondo e una modificazione dell’essere. Che il filosofo francese faccia riferimento testualmente a una visione è molto più che un semplice modo di dire dato che, come già scriveva Merleau-Ponty, «la visione non è una certa modalità del pensiero, o presenza a sé: è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall’interno alla fissione dell’Essere, al termine della quale soltanto mi richiudo su di me»36. trasformare la visione implica dunque agire contemporaneamente sull’oggetto (il mondo) e il soggetto (colui che guarda), comportando uno sforzo attivo sul piano cognitivo ed esistenziale: e la messa in scena di determinate pratiche del sé diventa lo strumento per rappresentare il reale attraverso una lente singolare che rigenera uno sguardo là dove sembrava che l’orizzonte del senso si fosse esaurito e prosciugato. se nelle pagine precedenti tutto ciò è stato

35

E. Petri, Scritti di cinema e di vita, cit.

M. Merleau-Ponty, l’occhio e lo spirito, cit., p. 56; si veda anche la ripresa operata da P. Montani, l’immaginazione narrativa, cit., cap. 4, sulla convergenza di trasformazione del sé e del mondo e sulla compresenza di visibile e invisibile dispiegate in modo paradigmatico dalle arti. 36

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analizzato sul versante della rappresentazione dei rapporti tra il potere politico e quello religioso articolata come inversione grottesca che palesa il lato mortifero e degenerato della classe dirigente italiana, la sua ricaduta fuori dalla cornice dello schermo è l’interrogativo che ancora resta da decifrare, in conformità con la duplice polarità (direttore-esercitanti, confessore-confessato) inscritta nelle due tecniche del sé al centro di questo capitolo. la dimensione specificatamente politica dell’impostazione di Petri sembra così risiedere non solo nella trattazione dell’oggetto, ma, con maggiore profondità, nella messa in discussione del ruolo e della posizione del soggetto-spettatore37. Foucault riassume chiaramente questa posizione esponendo il proprio metodo in relazione all’interesse sulle tecniche del sé in una conferenza al Dartmouth College: Si tratterebbe di un’analisi teorica dotata, al tempo stesso, di una dimensione politica. con questa espressione, “dimensione politica”, intendo un’analisi che si riferisce a ciò che siamo disposti ad accettare nel nostro mondo; ad accettare, rifiutare e cambiare sia in noi stessi, sia nella nostra situazione. in sintesi, si tratta di cercare un altro tipo di filosofia critica: non una filosofia critica che cerchi di determinare le condizioni e i limiti della

Sul ruolo dello spettatore nella meccanica testuale del film, si veda G. canova, divi duci guitti Papi Caimani, cit., p. 57, che definisce todo modo «la più dura chiamata in correo che abbia mai prodotto il cinema italiano». 37

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nostra possibile conoscenza dell’oggetto, ma una filosofia critica che ricerchi le condizioni e le indefinite possibilità per trasformare il soggetto, per trasformare noi stessi38.

Chiave di volta di quest’ultimo passaggio diventa proprio l’assegnazione di un ruolo attivo allo spettatore che si realizza, in un certo senso, in opposizione alle tipologie di sguardo presenti nel film: i dispositivi di controllo diventano così una componente imprescindibile all’interno dell’immagine, sia sotto forma di oggetti sia di modalità scopiche. In questa seconda prospettiva c’è uno scarto deciso rispetto all’idea originaria di Sciascia: lo spettatore diventa infatti testimone dei fatti non attraverso un delegato finzionale, l’io narrante appunto, ma mediante degli strumenti tecnici che moltiplicano i punti di vista e le occasioni di sguardo, restituendo una visione macchinica, de-antropomorfizzata, prolungamento ideale dei monitor che costellano stanze e corridoi di Zafer. i momenti dove questa dinamica occorre sono molteplici e costituiscono il punto più rilevante di raccordo con Salò: la partecipazione “attiva” dello spettatore agli esercizi diventa dunque l’espediente per una sua “trasformazione”. La rinuncia all’io narrante e la conseguente elisione del delegato endotopico presente nel romanzo sono un’alterazione palese dell’architettura testuale che comporta però delle conseguenze estremamente

38

M. Foucault, Soggettività e verità, in Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., pp. 37-38.

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interessanti. Anzitutto, vi è l’assunzione di una posizione testimoniale diretta da parte della macchina da presa all’interno delle vicende attraverso il ricorso insistito a oggettive irreali, inquadrature che simulano il punto di vista di un osservatore definito ma non sono assegnabili a nessun personaggio della storia. Il primo esempio è rintracciabile dopo pochi minuti, all’arrivo della vettura di M a Zafer, dove il movimento di macchina sembra spiare dalle feritoie di un portone l’ingresso della vettura del politico all’interno del parco dell’albergo, richiamando un topos abbastanza frequente connesso all’infrazione di divieti espliciti da parte della camera come privilegio spettatoriale e potenza poietica del cinema. Ma è nelle soglie tra il dentro e il fuori – le due scene nell’ascensore – che questa particolare inquadratura si definisce come introduzione simulata di un osservatore che riempie un posto vuoto, o meglio vacante. L’io narrante di Sciascia viene così sostituito dalla presa in carico da parte del film di un ruolo testimoniale al quale tuttavia la messa in scena e la costruzione sintattica impediscono di assegnare un corpo attoriale. I personaggi presenti nell’ascensore sono infatti numericamente determinati prima della chiusura delle porte, che esclude e lascia all’esterno la macchina da presa alla loro apertura, inaspettatamente, la prospettiva diventa interna, seguendo i tre uomini nel loro incedere e andando a collocare il punto di vista in una posizione contro-intuitiva, dove parte del campo visivo è occluso da una statua [fig. 15]. Allo stesso modo, nella risalita prima della passeggiata finale, a M e al suo autista si aggiunge al momento dell’arrivo al piano del giardino un terzo 222

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attore, le cui fattezze non sono date e sarebbero anzi in contrasto con quanto mostrato nelle due inquadrature precedenti.

Fig. 15

Un’ulteriore sovrapposizione di punti di vista si determina nell’adozione della prospettiva degli strumenti di controllo. la proliferazione di monitor e telecamere è un’idea ricorrente che attraversa tutto il racconto, accentuando il ripiegamento su se stessa della struttura sotterranea mediante il raddoppiamento degli interni nelle immagini trasmesse dai monitor, sino alla creazione di un’immagine duplice, che accosta alla realtà la sua copia riprodotta [fig. 16]. L’immaginario orwelliano del controllo capillare e della continuità dell’indottrinamento tramite schermi di varia natura viene riproposto quasi didascalicamente: nei monitor e nelle televisioni, infatti, transitano tanto la riproduzione delle azioni presenti quanto le trasmissioni dedicate alla preghiera, così come le telecamere concedono solo pochi angoli bui all’interno dell’edificio. In un’ulteriore rilancio 223

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della dimensione autoriflessiva, le riprese televisive degli eventi – messe in scena attraverso la lente del grottesco, come nel caso del chierichetto-operatore – creano una successione di filtri attraverso i quali l’esperienza del mondo deve necessariamente passare: parafrasando Damisch, la riproduzione – il carattere riprodotto – della realtà non è mai meglio assicurato, in quanto tale, che là dove si dà apertamente per una riproduzione, o per la riproduzione di una riproduzione39. Ciò implica che la frequente interposizione di un’altra camera o di un visore tra la macchina da presa e il dato rappresentato comporta anche un effetto di distanziazione, più ancora che dalla trasparenza del mezzo, dal carattere neutro e oggettivo della messa in scena: l’autoriflessività implica un giudizio, nella fattispecie di natura politica.

Fig. 16

Si veda. H. Damisch, teoria della nuvola, cit., p. 88, dove il termine in questione è quello di “rappresentazione” e non di “riproduzione”. 39

224

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Ma se questo concerne il livello tematico, su quello enunciativo si manifesta come onniscienza e ubiquità della focalizzazione (che tuttavia, emblematicamente, manca di svelare il mandante e l’autore della strage) che arriva a far coincidere il punto di vista con lo stesso apparato di sorveglianza. lo sguardo di M in direzione della (presunta) ubicazione della telecamera a parete che chiude il primo incontro con don Gaetano contiene alcuni elementi di rilievo, che portano alla coincidenza di queste due strategie delineate [fig. 17]. Anzitutto, l’interpellazione insistita diventa una vera e propria apostrofe nel momento in cui non trova alcuna giustificazione narrativa ed emerge anzi come movimento innaturale: lo spettatore viene dunque ri-chiamato dentro lo spazio filmico anche dagli attori stessi e non solo attraverso la costruzione focale. Secondariamente, l’inquadratura non è fissa, ma opera un movimento laterale verso sinistra, assumendo così una posizione ascrivibile alla telecamera senza simularne la visione, saldando dunque le due prospettive descritte. lo spettatore si trova insomma installato su una duplice soglia: tra interno ed esterno da un lato, mediante delle oggettive irreali, e tra organico e inorganico dall’altro, attraverso la coincidenza con un punto di vista non antropomorfo. la singolarità di tale angolazione prospettica marca una distanza con le scelte presenti in Salò, dove la macchina da presa rimane ad “altezza uomo”, testimone attiva dell’orrore e sempre in bilico tra l’aderire alle vittime o ai carnefici; in todo modo, invece, la totale estraneità rispetto ai personaggi presenti consente ai punti di vista di moltiplicarsi e di dislocarsi nello spazio costituendo una tipologia di sguardi stranianti la cui ricaduta sullo spettatore è di ordine cognitivo e pragmatico. 225

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Fig. 17

in contrapposizione con modelli troppo aderenti alle teorie linguistiche, Christian Metz riteneva l’enunciazione filmica «metadiscorsiva più che deittica», un’enunciazione che parla del film come atto e alla quale propone di conferire la qualifica di «impersonale»40. al di là della portata generale che Metz conferisce all’elisione dell’elemento antropomorfo dall’enunciazione filmica, l’idea di un’impersonalità che commenta il proprio farsi assume un ruolo determinante nel film di Petri, dove la continua coincidenza dello spettatore come soggetto empirico con alcuni dispositivi di riproducibilità tecnica determina un “cine-occhio” che assomma i caratteri delle due polarità in gioco. la reversibilità tra lo sguardo umano e quello macchinico instaura dunque una bidirezionalità nell’influenza: se lo spettatore si trova associato a un punto di vista di mera registrazione, la macchina da presa viene al

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c. Metz, l’enunciazione impersonale, cit., pp. 30-31.

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contempo investita di tratti passionali e cognitivi che ne permettono – fuor di metafora – un giudizio e un pensiero, con ancor più vigore e forza in quanto non filtrati attraverso un elemento del mondo della rappresentazione. Eppure, un investimento figurativo è presente, localizzato e fugace, ma non per questo meno significativo. Appena giunto nelle catacombe di Zafer, M viene distolto dalla preghiera dalla comparsa di don Gaetano, verso il quale si precipita per esprimere la sua riverenza mediante la rituale prostrazione con bacio della mano [fig. 18]. Mostrata attraverso la soggettiva del prete, questa scena introduce sin dalle prime battute la costituzione di un ordine gerarchico tra i poteri in gioco, ponendo in posizione subordinata quello politico rispetto a quello religioso. Ma l’espediente della soggettiva comporta al contempo una sovversione, grazie alla sovrapposizione della posizione spettatoriale con la figura del prete: il Presidente si china dunque dinnanzi allo spettatore, la cui reazione viene guidata dal volto infastidito di don Gaetano nell’inquadratura successiva. Tra i due si frappone la porta a inferriata, diaframma che separa i corpi e assume un chiaro significato simbolico con riferimento alla clausura e alla distanza tra le istituzioni che i due personaggi incarnano, destinata a scomparire non appena la relazione di scambio inizia a transitare in ambedue le direzioni: il potere politico viene così incontro alle esigenze terrene – e ben poco spirituali – di quello religioso.

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Fig. 18

Ma questa membrana, proprio in virtù della soggettiva, diventa anche e soprattutto un raddoppiamento della quarta parete, dove la mano di don Gaetano cinta alla sbarra è il vettore che collega le due dimensioni, punto di raccordo tra lo spazio della rappresentazione e quello della ricezione. in quanto “segno enunciativo”, elemento cioè che parla del film in quanto atto e processo e che in un certo senso ci obbliga a fare teoria, riprendendo Damisch, la porta a inferriata determina la messa in scena della soggettività nel discorso come posizione e compito assegnato allo spettatore, linea di sviluppo che accompagna surrettiziamente tutto l’incedere del film, e al contempo come programma d’intenti del film stesso. Non a caso, allora, la seconda soggettiva presente è quella dall’interno del confessionale nella sequenza della dichiarazione dell’obbligatorietà per gli esercitanti della confessione, che segue quella improvvisata conferita da don Gaetano a Giacinta nella sua camera: la centralità dell’episodio nell’economia del racconto si accompagna alla sua esemplarità teorica, chiudendo il cerchio attorno al ruolo dello spettatore. 228

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la prescrizione del sacramento confessionale è un’invenzione originale del film rispetto al romanzo e rappresenta un punto di svolta per quanto concerne la linea narrativa, data la reticenza insistita di don Gaetano nell’accordare la remissione dei peccati agli esercitanti («non è il momento», sentenzia lapidario) che, per quanto è dato sapere, non hanno ancora goduto di tale privilegio dal momento del loro arrivo all’albergo. Nonostante ciò, l’ingresso nel confessionale si presenta come puro pretesto, dato che i convenuti vengono immediatamente allontanati dalla cappella lasciando solo il prete con i propri aiutanti e le forze dell’ordine. Ma maggior interesse ancora riveste l’azione canonica del confessore che, inquadrato con un’oggettiva, tira le tende per rimanere nel buio e nel segreto, salvo riaprirle nello stacco successivo in soggettiva e sporgersi verso l’esterno per controllare che la cappella sia stata effettivamente sgomberata [fig. 19]. Il gesto dello scostamento ricalca quello affrontato in precedenza nella sequenza del bacio della mano, grazie alla presenza del braccio del prete che si protende dal fuori campo frontale, oltrepassando l’invisibile quarta parete, e si carica di un’ulteriore valenza metadiscorsiva tramite l’espediente della tenda, elemento che assicura la rappresentazione, come del resto visto già in Salò. Il balletto dei chierichetti e degli aiutanti, che si defilano accennando un inchino, rimarca la teatralità della sequenza, nei termini appunto di spettacolo e di frontalità interattiva, moltiplicando le occasioni di sguardo in macchina all’interno di un breve piano in continuità che sottolinea con evidenza la natura antropomorfa della visione in oggetto. 229

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Fig. 19

Ma vi è a questo punto un ulteriore salto compiuto da questo intreccio di sguardi che conduce al cuore del problema nelle forme di una dialogicità sempre in bilico tra spazi eterogenei. Proseguendo lungo l’inquadratura in soggettiva appena analizzata, un nuovo personaggio entra in contatto con la trama di rimandi scopici, compiendo un movimento di avvicinamento verso il primo piano che istruisce una complessa interazione con il balletto dei chierichetti in uscita verso sinistra e la panoramica verso destra: il giudice Scalambri (Renato Salvatori) [fig. 20]. avanzando longitudinalmente dalla profondità di campo verso il limite frontale della scena, il magistrato pare in principio voler sfondare con il proprio corpo la parete divisoria, lo schermo, salvo in ultimo deviare a sinistra accompagnato dalla chiusura della tenda del confessionale e dall’apertura di quella che occlude la grata di interazione tra il confessore e il confessato, ripreso in continuità con una panoramica verso sinistra, opposta dunque a quella verso destra che ha segnato la prima parte dell’inquadratura. I ruoli sono ora pienamente delineati e lo stacco di 230

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montaggio può riportare l’imminente dialogo tra “il giudice e l’inquisitore” verso una costruzione sintattica più aderente al rappresentato.

Fig. 20

Eppure, anche qui si crea uno scarto che racchiude il percorso intravisto per farne interagire tutti gli elementi. L’inquadratura in soggettiva termina sulla grata divisoria, veicolando una direzionalità dello sguardo del prete che tecnicamente non corrisponde alla postura del confessore, posto ortogonalmente rispetto al confessato, che invece gli si rivolge fissandolo. La soggettiva prepara dunque l’investimento figurativo e posizionale, benché al momento la funzione non sia ancora esercitata. L’inizio del dialogo avviene infatti nell’inquadratura successiva, un’oggettiva dentro il confessionale che rimarca il normale dispositivo ortogonale dell’atto sacramentale, unica capace di inglobare i due personaggi nello stesso piano [fig. 21].

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Fig. 21

Per tutta la durata della sequenza la macchina da presa non abbandona mai la sua posizione interna dalla parte del confessore benché costruisca un trattamento a prima vista analogo per entrambe le figure, la ripresa frontale. il falso campo e controcampo così sviluppato si compone insomma come oggettiva frontale su don Gaetano – il cui volto diviso longitudinalmente dalla zona d’ombra ruota verso destra pur non incrociando mai lo sguardo del confessato – e presunta soggettiva sul viso di scalambri, riquadrato dalle sbarre della grata e parzialmente invisibile, che si muove tra le fessure cercando di catturare l’attenzione – e forse qualche segreto – del confessore. Ma osservando con attenzione, quest’ultima soggettiva si palesa come una successione di oggettive irreali, testimoniate dalla divaricazione tra punto di vista e direzione dello sguardo del magistrato. E altrimenti non potrebbe essere, pena la rottura della complessa normalità scopica che regola questo particolarissimo dispositivo di potere [fig. 22 e fig. 23].

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Fig. 22

Fig. 23

«lei non riesce a dimenticare di essere un giudice, come io non posso dimenticare di essere un prete». L’insistenza di Scalambri nei confronti di don Gaetano per ottenere delle informazioni e magari trovare degli indizi o delle prove sulla colpevolezza di tutti i convenuti, prete incluso, fanno vacillare la consueta direzionalità dello scambio confessionale. il confessato rivolge le domande al confessore, lo incalza, lo sprona a raccontare una verità, non su se stesso ma su terzi: in fondo non riesce a dimenticare 233

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di essere un giudice. Si tratta di ruoli analoghi seppur non pienamente sovrapponibili, che testimoniano tuttavia una profonda connessione delle rispettive tecniche: «In questa sovrapposizione della forma sacramentale e della forma giudiziaria, al centro stesso dell’edificio e, in un certo senso, per far tenere insieme queste due parti (la cui sovrapposizione pone peraltro tanti problemi teorici e pratici), avremo proprio la confessione»41 che dal XII secolo in poi, prosegue Foucault, si svilupperà come una tecnologia estremamente progredita. la rappresentazione del versante giudiziario era già stata al centro di indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto nella scena dell’interrogatorio. Anche in quel caso si trattava di una confessione mancata, dato il disconoscimento dell’autorità da parte del giovane interrogato e le accuse da lui rivolte contro il commissario; e tuttavia alla necessità di un riconoscimento delle proprie colpe era attribuito un ruolo fondamentale per il corretto funzionamento della macchina penale. todo modo articola invece compiutamente la doppia matrice sacramentale e giudiziaria della pratica confessionale lasciandola però nella sua struttura astratta, in potenza più che in atto. Ma ne evidenzia anche la specifica dimensione «drammatica», nei termini di ogni elemento, all’interno di una scena, in grado di fare apparire il «fondamento di legittimità o di senso» di quanto vi si svolge42.

41

M. Foucault, mal fare, dir vero, cit., p. 182.

42

ivi, p. 202.

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se la confessione è exemplar all’interno dell’edificio genealogico foucaultiano, Petri la mostra come elemento autoriflessivo che costituisce la porta di accesso alla dimensione teorica del film, il luogo dove il film mostra il suo farsi, il suo darsi come atto, e il punto di giunzione tra la sua strategia enunciativa e la sua dimensione pragmatica. il dispositivo confessionale, nel momento in cui viene disarticolato e reso inefficace dentro lo spazio della rappresentazione, esce dai confini dello schermo per estendersi alla scena dove lo spettatore è collocato, in uno scambio continuo che il braccio di don Gaetano ha incarnato figurativamente in due riprese. E se riguardo all’inquisire e al giudicare Sciascia commenta «che Cristo avrà voluto forse affermare che solo i peggiori possono assumersi un simile compito; soltanto gli ultimi essere in questo i primi...»43, la visione di Petri rispetto a tale compito è probabilmente indirizzata altrove.

Critica del giudizio Da questo scontro tra ruoli analoghi, ma non omologhi, lo spettatore viene lasciato in disparte, testimone ormai competente e autonomo il cui compito è stato tracciato. Dopo esser stato associato alle fattezze di don Gaetano, infatti, il punto di vista viene così dislocato nuovamente in una posizione indefinibile, a fianco del confessore ma in opposizione a questi, duplicando l’insistenza giudiziaria sul prete

43

l. sciascia, todo modo, cit., p. 112.

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ma separato da un griglia invalicabile. Non a caso, l’uscita dal confessionale avviene con una semisoggettiva di don Gaetano che con il suo movimento verso il centro della cappella pone un’inesorabile distanza tra sé e la macchina da presa: l’unione tra spettatore e personaggio è in frantumi. Ma in questo limbo concentrato e denso che è il confessionale, l’obbiettivo del testo non è più equivocabile: giudicare, dunque, questo è l’invito mosso. Giudizio che non pare poter più rimanere rinserrato entro una dimensione strettamente speculativa, ma che di necessità si deve tradurre anche in una performativa: l’esito degli esercizi spirituali. La soggettività si fa dunque soggettivazione? L’associazione con un delegato infra-diegetico è una strana occorrenza, in effetti, considerando la caratterizzazione totalmente negativa del personaggio di don Gaetano, al quale, nella trasposizione filmica, rimane solo un barlume della sagacia che lo contraddistingue nelle pagine del romanzo e che ne fanno un soggetto la cui competenza cognitiva è addirittura superiore a quella dell’io narrante, che infatti non manca di tributargli ammirazione in più punti. Oltre a preservare una coerenza narrativa in funzione della futura morte del prete, però, la distanziazione dei punti di vista nel confessionale determina anche una sorta di sincretismo tra funzioni diverse, accorpando le varie forme di giudizio e sopraelevando lo spettatore rispetto al livello del racconto, che infatti termina con una banale e difficilmente veritiera conclusione giudiziaria affidata alle parole di Scalambri mentre l’ecatombe giunge a compimento. L’invenzione del film risiede dunque nella 236

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progressiva fusione tra espedienti propri della soggettività nel discorso e costruzione di una competenza spettatoriale in quanto soggettivazione che si prolunga in atto simulato all’interno del discorso filmico. La dimensione agìta del manuale redatto da Sant’Ignazio può trovare un corrispettivo solo come capacità di giudizio nei termini di una trasformazione dell’essere, ritornando a Hadot. La messa in scena delle pratiche del sé si configura insomma come luogo peculiare di un incontro al limite tra un io del discorso e un io che si forma dal discorso: valenza politica, diagnosi critica ed elaborazione estetica si congiungono e si riflettono sul mondo. Perché ciò avvenga, la tematizzazione di tali pratiche deve però necessariamente accompagnarsi alla creazione di forme adatte alla loro conversione effettiva nel linguaggio cinematografico, forme che – in linea generale – sono poste sotto il segno dell’eccesso, di quel supplemento di intensità ipotizzato da Barthes: come nota Marco Dinoi, «è questo eccesso a produrre una mutazione del soggetto, ma anche una mutazione del mondo e della sua immagine che per essere tale non può essere completa, ma è semplicemente un’immagine tra le altre – almeno per il soggetto»44. Eccesso e uscita da sé che possono essere letti come ironiche profanazioni, ovvero restituzione «alla sfera comune di ciò che è stato separato nel sacro»45, dei precetti spirituali di Sant’Ignazio e di Santa Teresa, non più destinati alla congiunzione mistica con il

44

M. Dinoi, lo sguardo e l’evento, cit., p. 247.

45

G. agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 9.

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divino ma indirizzati a una rinnovata comprensione della relazione tra sé e il mondo che al cinema si realizza in primo luogo attraverso la costruzione di punti di vista scomodi, mai pacificati e definiti una volta per tutte: È necessario, in altre parole, collocare lo spettatore in uno spazio e poi fargli cambiare posizione all’interno di esso, ciò che Christian Metz ha chiamato identificazione primaria e secondaria, con il meccano cinema e i suoi personaggi. Ma è proprio nella problematizzazione di tale assunto che alcuni cineasti hanno trovato la base di operazioni estremamente feconde. lasciare lo spettatore “senza posto”, o in un posto che fosse estremamente instabile, per la contraddizione tra la sua presupposta costituzione morale e l’identificazione di un personaggio che la mette in discussione (Lang o Hitchcock), per l’inassegnabilità di un punto di vista che presenta tutte le marche di una soggettività che tuttavia non è chiaramente identificabile (Lynch o Haneke), per la polverizzazione stessa del punto di vista in una coralità vertiginosa della storia e delle storie (Rossellini)46.

il punto di vista nelle vicende è necessariamente legato a doppio filo al punto di vista sulle vicende ed è questa fuoriuscita, questo spostamento – ricorda Merleau-Ponty – che consente di percepirsi parte di un’unica carne del mondo, aprendo alla componente

46

M. Dinoi, lo sguardo e l’evento, cit., p. 112.

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intersoggettiva insita nell’atto della visione, sempre rinnovato, mobile e in disaccordo47. la natura politica di tali riflessioni estetiche è stata ripresa da Roberto Esposito per leggervi uno degli snodi cruciali di configurazione di una dimensione comunitaria contro la prevenzione immunitaria a cui ha dato luogo il movimento convergente di una spiritualizzazione del corpo trasposto dall’originario luogo teologico alla dottrina dello stato: Si può dire che prima l’Impero e poi i nascenti stati nazionali attivarono, secolarizzato, lo stesso meccanismo teologico-politico: anche in quel caso, per potersi riscattare dai rischi della ‘nuda vita’ – impliciti in quella condizione eslege definita ‘stato di natura’ – la ‘carne’ di una moltitudine plurale e potenzialmente ribelle doveva integrarsi in un corpo unificato dal comando sovrano48.

come visto in precedenza, il passaggio dallo stato sovrano al governo sulla popolazione mantiene tratti analoghi seppur riattivati su differenti livelli, mentre l’estensione delle considerazioni di Merleau-Ponty dall’ambito estetico a quello politico rafforza la centralità delle arti in quanto momenti di ricognizione di processi legati al rapporto tra l’uomo e il mondo nelle forme di una loro controllabilità e programmabilità49. la complessa e paradossale dialettica tra soggettiva-

47

si veda M. Merleau-Ponty, l’occhio e lo spirito, cit.

48

R. Esposito, Bíos, cit., p. 180.

49

su questo punto si veda P. Montani, Bioestetica, cit., pp. 33-36.

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zione e assoggettamento in funzione nel dispositivo cinema trova in todo modo una nuova declinazione come prolungamento attivo della dimensione agìta del manuale ignaziano: la trasformazione dello spettatore in un “giudice-giustiziere”, come riconobbe anzitempo Pasolini al fondo del romanzo di sciascia, obbedisce in primo luogo alla riconfigurazione di una modalità di sguardo imposta dal film stesso attraverso quella “disciplina aperta” di cui parlava Francesco casetti. Quanto lo spettatore viene spinto a fare è propriamente esercitare la sua facoltà di giudizio. Nella sua lettura della terza Critica kantiana, Hannah Arendt spinge le considerazioni sul giudizio di gusto del filosofo tedesco sino alla sfera della politica – dal momento che arte e politica sono entrambe fenomeni del mondo pubblico – trovando la mediazione nel concetto di senso comune che fonda e garantisce l’appartenenza a una comunità: Che la capacità di giudicare sia un talento specificatamente politico, proprio nel senso Kantiano, della capacità di vedere le cose non solo dal proprio, ma anche dal punto di vista di tutti quanti si trovano a essere presenti, e persino che il giudizio possa essere una delle facoltà fondamentali dell’uomo in quanto essere politico (in quanto gli consente di orientarsi nella vita pubblica, nel mondo comune), sono intuizioni praticamente vecchie quanto l’elaborazione concettuale dell’esperienza politica. [...] tanto in estetica quanto in politica, giudicando si prende una decisione, la quale, benché sempre condizionata da un certo grado di soggettivismo, 240

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per il semplice motivo che ognuno ha un proprio posto da dove osserva e giudica il mondo, si appoggia anche sul fatto che il mondo stesso è un dato oggettivo, comune a tutti i suoi abitanti. [...] Quindi cultura e politica sono in stretto legame perché non implicano un rapporto con la conoscenza e la verità, bensì giudizio e decisione, un giudizioso scambio di opinioni in merito alla vita pubblica e al mondo comunitario, la decisione del tipo di attività da intraprendervi e insieme il suo futuro aspetto, le cose che in esso dovranno apparire50.

la soggettività molteplice del punto di vista viene ricondotta dal film in un punto preciso, per la mediazione di una soggettiva, assoggettando insomma lo spettatore con un’imposizione coercitiva; ma di converso, questo arbitrio permette di rilanciare incessantemente la singolarità del procedimento come schema originario di uno sguardo libero dall’obbligo del consenso, in grado di aprire una frattura sempre riproducibile nell’ordine dell’esperienza visiva. Riprendendo le posizioni di arendt, Pietro Montani si riposiziona sul versante estetico del pensiero kantiano, chiudendo così il cerchio attorno al giudizio come somma dei punti di vista non solo su un dato problema, ma più in generale all’interno dello spazio della comunità: il senso comune non può essere in nessun modo

50

h. arendt, tra passato e futuro, tr..it., Garzanti, Milano 1999, pp. 283, 285 e 286.

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confuso con un conformistico consenso, con un passivo adeguamento alla doxa. Sta a significare, piuttosto, che l’orizzonte della sensatezza nel quale si costituisce e si riconosce una comunità, quell’orizzonte nel cui ambito sentiamo di dover contenere il nostro giudizio, non è qualcosa di dato ma è un orizzonte mobile e aperto al possibile51.

doxa: l’orizzonte chiuso di un senso comune appiattito si sovrappone alla Gloria, come ricorda Agamben, fine dell’uomo e unica azione che potrà essere compiuta dopo la venuta del Giudizio52. L’acclamazione dossologica dentro la sfera pubblica ha però bisogno di un’immagine riconoscibile alla quale rivolgersi: è il fenomeno di spettacolarizzazione della politica, che comincia ad assumere rilievo quotidiano a partire dalla fine degli anni sessanta grazie alla pervasività crescente delle immagini riprodotte tecnicamente. alla privatizzazione della dimensione pubblica corrisponde dunque un’analoga pubblicizzazione dello spazio privato, riempito dalle insegne del potere che hanno ormai accesso in ogni luogo. La bidirezionalità degli schermi preposti al controllo nell’universo finzionale immaginato da Orwell (trasmissione dei dettami del Grande Fratello e sorveglianza delle azioni dei singoli) si riconver-

51

P. Montani, Bioestetica, cit., p. 44.

52

G. agamben, il regno e la gloria, cit., p. 179 e poi p. 280: «che il termine greco per gloria – doxa – sia lo stesso che designa oggi l’opinione pubblica è, da questo punto di vista, qualcosa di più che una coincidenza».

242

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iv. il governo della salvezza: todo modo

te oggi nelle vesti della persuasione accattivante, mostrando come effettivamente la relazione tra l’esponente politico e il cittadino sia diventata una faccenda di devozione privata pronta a concentrarsi nelle liturgie di piazza che sanciscono la formazione di un corpo politico alla cui testa c’è il sovrano, o chi ne fa le veci nell’epoca governamentale53. sono questi i sintomi della sopravvivenza di un dispositivo teologico-politico che si presumeva scomparso in questa epoca secolarizzata: «la teologia della gloria costituisce, in questo senso, il segreto punto di contatto attraverso cui la teologia e la politica incessantemente comunicano e si scambiano le parti»54. in questi termini, la questione del potere pastorale assume contorni ancora più precisi e insieme più allargati, facendo di questo dittico un punto di concrezione delle riflessioni sulle forme del potere e sul senso della politica nel contemporaneo che il cinema italiano ha sempre perseguito, e che da lì in poi si sarebbero riconfigurate soprattutto in chiave analitica, piuttosto che esplicitamente militante.

Sulla raffigurazione del corpo politico nel leviatano di hobbes e la sua rilevanza nella riattivazione di un paradigma sovrano nel XXi secolo si rimanda a c. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore. Saggi di iconografia politica, tr. it., Adelphi, Torino 2015. Su questa specifica componente del populismo contemporaneo si veda, tra gli altri, il recente N. urbinati, io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, il Mulino, Bologna 2020. 53

54

G. agamben, il regno e la gloria, cit., p. 215.

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Oltre Pasolini e Petri Pastore, gregge, campo: sono questi i tre poli della struttura di esercizio del potere pastorale che mostrano la complessa interazione tra totalitarismo, democrazia e religione e che sempre di più attirano l’attenzione della teoria politica recente. Da questo punto di vista, l’anacronismo di Salò traccia una prima, possibile direzione verso un rinnovato paradigma interpretativo del fascismo come congiunzione tra incentivazione al godimento e repressione dell’anormalità all’interno di una cornice rovesciata e paradossale. la conversione di biopolitica in tanatopolitica, la loro prossimità consustanziale e la comune riattivazione di tecniche di soggettivazione che passano necessariamente attraverso un assoggettamento sono i centri nodali di una ricognizione sulla condizione presente che nasconde le proprie inclinazioni coercitive sotto la patina della seduzione. L’oscenità in quanto estremismo della rappresentazione costituisce la conseguenza coerente di un discorso sull’attualità che scavalca il limite incerto tra spazio della vita e spazio della morte per collocarsi nell’alveo di quest’ultimo, osservando dunque il mondo da questa prospettiva straniante. 245

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Pasolini rende esplicito quel passaggio tra sovranità e biopotere che Foucault avrebbe sintetizzato poco dopo con la celebre formula «al vecchio potere di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o respingere nella morte»1. in effetti, se la lama tagliente della sovranità presenta costantemente il suo potenziale di morte, allo stesso tempo il fine della detenzione di individui «già morti», come li definisce il Duca, è quello di favorire una soggettivazione come trasformazione del sé: l’addestramento, come nella scena della masturbazione del manichino, acquista senso compiuto solo se pensato come propedeutica a questa trasformazione. Il sesso è l’elemento attorno al quale si regge questa disamina, tanto in Pasolini, con la sua critica all’erotizzazione diffusa della società, quanto in Foucault, dove il dispositivo di sessualità costituisce una delle più importanti connessioni concrete della tecnologia del potere che prende forma a partire dal XIX secolo come unione di disciplina e biopotere, tecniche di controllo e principi regolatori. Petri lavora invece su un piano nel quale la dimensione religiosa acquista la centralità della scena, appiattendo la gerarchia verticale e installando il punto di vista nel cuore dell’esercizio del potere. Il versante della sovranità viene dislocato in un fuori campo assoluto come voluntad divina, focalizzandosi sulla questione del governo di sé come momento indispensabile per il governo degli altri. il portato caustico di todo modo interviene così sotto una

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M. Foucault, la volontà di sapere, cit., p. 122.

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forma duplice di analisi delle strategie connesse all’esercizio del potere – l’espediente degli esercizi spirituali introdotto dal cartello iniziale – e parodia della sua effettiva realizzazione concreta nel presente – la subordinazione degli esponenti del partito a don Gaetano. la soggettivazione come “formazione degli uomini del potere politico ed economico” propedeutica all’assoggettamento degli individui attraverso le tecniche di individualizzazione si attua qui mediante un analogo processo di assoggettamento, sancendo la necessaria compresenza dei due aspetti non solo all’interno di un rapporto di potere, ma più propriamente in ogni polo di tale rapporto. Detenere un potere si rivela in fondo illusorio perché vi è sempre un’istanza superiore che esercita a sua volta un potere maggiore: ogni notabile è un semplice anello di una catena di relazioni di forza che dispone la sua efficacia istituendo posizioni di dominazione concentriche al cui centro si situa un elemento sfuggente, il mistero del Potere. con Salò e todo modo si conclude la stagione del politico nel cinema italiano per lasciare spazio a quella dell’impegno civile, in una sorta di ripiegamento provinciale di una cinematografia sempre meno capace di parlare al di fuori dei confini dell’Italia, salvo rare eccezioni. Eppure, la traccia sotterranea lasciata da Pasolini e Petri è riemersa dopo il 2001, quando il discorso sul potere è tornato al centro del dibattito teorico a causa dell’azione convergente di emersione dei fondamentalismi su scala globale e risposta militare con la guerra al terrore, diffusione dei media digitali e dominio dell’economia sulla politica, che a loro volta hanno portato a un ripen247

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samento integrale dell’estensione dei processi di secolarizzazione e della persistenza del legame tra teologia e politica, o meglio, di quanto accomuna l’ambito teologico e quello politico. Se il filone del biografico-politico affronta in termini espliciti la questione dell’immagine efficace e della teoria del doppio corpo sovrano all’interno del paradigma governamentale2, la riflessione sull’estensione contemporanea delle tecnologie del sé è invece più sfumata perché al contempo più strettamente legata alla sfera delle arti e più difficilmente inscrivibile dentro la rappresentazione audiovisiva. Da questo punto di vista, la confessione continua a essere davvero exemplar non solo dentro il discorso foucaultiano, ma nella cornice della riattivazione contemporanea e dislocata di queste tecniche pastorali. E il cinema italiano si presenta come un campo ideale per indagare questo scenario, perché questo interesse confessionale lo ha attraversato in molteplici occasioni, anche prima dei lavori di Pasolini e Petri, seppur mai con la stessa intensità. Basti pensare a film molto diversi (nelle forme e nella fortuna della loro ricezione) realizzati agli inizi degli anni Settanta, che già contengono le tracce di un discorso critico sviluppato poi con maggiore ampiezza, per rendersi conto della sua importanza nell’immaginario culturale italiano. n.P. – il segreto (1971) di silvano agosti, un racconto distopico ambientato in un futuro prossimo e

su questo tema mi permetto di rinviare a G. tagliani, Biografie della nazione. vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, soveria Mannelli (cZ) 2019. 2

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imprecisato, descrive la progressiva meccanizzazione della società automatizza anche i rituali liturgici, creando delle “tele-confessioni” che consentono di ricevere l’ostia dispensata attraverso un nastro trasportare in una vera e propria catena di montaggio sacramentale. Nello stesso anno (anche se nel 1972 viene presentata a venezia una versione rimontata), Marco Bellocchio con nel nome del padre mette in scena un grande teatro delle pratiche di condotta all’interno di un collegio cattolico per giovani ricchi nel 1958, anno della morte di Papa Pio XII, affrontando forse per la prima volta esplicitamente – almeno nel contesto italiano – il potere disciplinare nella cornice del governo pastorale. Nel 1972, Marco Ferreri dirige l’udienza, satira kafkiana nella quale il concetto complesso e sfuggente di mistero dell’ufficio liturgico3 entra in cortocircuito con la sua dimensione secolarizzata e più strettamente burocratica, nella calura stordente della Roma odierna. Infine, la scena confessionale di amarcord (1973), diventa per Federico Fellini l’occasione per allestire la galleria forse più completa del suo variopinto immaginario sul femminile (le contadine al mercato, la professoressa di matematica, la Gradisca, volpina, la Tabaccaia), mentre l’atto perde la sua efficacia a causa anche del disinteresse del confessore stesso verso i racconti dei ragazzi. In tutti questi casi, l’ironia è il carattere dominante, anche se non esclusivo, volto a parodiare una Per un’archeologia del concetto di ufficio in ambito liturgico si rimanda a G. agamben, Opus dei, cit. 3

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credenza consuetudinaria così radicata nella società italiana, nonché più in generale i processi di gestione delle condotte individuali nella cornice di un modello religioso. Altre opere, più di recente, hanno affrontato invece la questione confessionale sotto una luce più cupa, riflettendo su tale dispositivo all’incrocio tra teoria del racconto e teoria del soggetto.

Confessione e racconto L’écriture de soi costituisce sin dall’Antichità classica un topos letterario, ripreso e trasformato nel corso dei secoli attraverso inversioni di senso anche radicali4, che da una funzione di accrescimento spirituale assume progressivamente i contorni di un’ermeneutica del sé5. Da Agostino almeno fino a Tolstòj, la presenza del termine confessione all’interno di titoli, sottotitoli o programmi d’intenti ha

4

una ricognizione analitica si trova in l. Marin, l’écriture de soi. ignace de loyola, montaigne, Stendhal, roland Barthes, Presses universitaires de France, Paris 1999; sulla scrittura di sé come esemplificazione letteraria della confessione si veda invece. G. Mazzoni, teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, pp. 84-85.

5 la questione costituisce ovviamente uno degli aspetti sui quali si sofferma con maggiore insistenza Foucault; si veda ad esempio M. Foucault, l’ermeneutica del soggetto, cit., in particolare la lezione del 24 febbraio 1982; Id., la cura di sé. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1985; si vedano comunque P. hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 119-133, e id., ricordati di vivere. goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, tr. it., Raffaello cortina, Milano 2009.

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marcato molte fasi della storia letteraria e filosofica: già nel cuore del Romanticismo Friedrich Schlegel aveva definito il nascente romanzo moderno come «una confessione, più o meno velata, dell’autore, il frutto della sua esperienza, la quintessenza della sua peculiarità»6, evidenziando la rottura epistemica introdotta dal nascente genere letterario. Bisogna aspettare però la metà del Novecento perché la confessione venga considerata anche nella sua dimensione narrativa grazie al lavoro di María Zambrano, capace di sviluppare un confronto analitico con il romanzo al di là delle implicazioni metaforiche ancora contenute in Schlegel. Un confronto che permette allora di evidenziare non solo le analogie ma anche le differenze, riguardanti principalmente il soggetto e il tempo e di conseguenza «la necessità della vita che li ha originati», dato che «la Confessione si verifica nel tempo reale della vita; parte dalla confusione e dall’immediatezza temporale»7. la confessione sembra allora qui estremizzare la funzione del racconto nei processi di costruzione del senso dell’esperienza intersoggettiva umana, proponendo una forma quasi immediata (propriamente non mediata) di congiunzione tra lo spazio della vita interiore e quello del mondo esteriore, perché la scrittura di sé è, in questa prospettiva, sempre e comunque anche un procedimento estatico, un’uscita

6 F. Schlegel, dialogo sulla poesia, tr. it., Einaudi, torino 1991, p. 62. 7

M. Zambrano, la confessione come genere letterario, tr. it., abscondita, Milano 2018, p. 21.

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da sé, «un metodo attraverso cui la vita si libera dai suoi paradossi e giunge a coincidere con se stessa»8. Genere letterario specifico della cultura occidentale, la confessione non ha ottenuto lo stesso successo nelle sue diverse fasi storiche, ma «vi compare nei momenti decisivi, nei momenti in cui la cultura sembra essere in rotta, in cui l’uomo si sente solo e abbandonato. Sono i momenti di crisi in cui l’uomo, l’uomo concreto, appare allo scoperto nel suo fallimento»9. Non è allora casuale che il cinema abbia attinto a questa pratica sin dai propri albori, come testimonia il proliferare di titoli contenenti questo termine già a partire – sorprendentemente per certi versi – dall’epoca del muto. se le prime attestazioni risalgono al 1905, è tra la fine del primo decennio del secolo e l’inizio degli anni ’20 che la confessione sembra diventare un topos cinematografico internazionale con film quali l’italo-francese la confessione per telefono (1908) di Gaston Velle, l’italiano tragica confessione di ivo illuminati (1914), gli statunitensi Confession (1918) di sydney Franklin e the Confession (1920) di Bertram Bracken, l’austro-magiaro Frau dorothy Bekenntniss (1921) di Michael Kertész. Il motivo continua tutt’oggi a mostrare una certa fortuna, considerando la notorietà di film come Confessioni di una mente pericolosa (2002) di George clooney o di serie televisive come the Confession (2011) di Brad Mirman. Il fatto è che il dispositivo confessionale presenta

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ivi, p. 28.

9

ivi, p. 29.

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una flessibilità tale da poter essere “depotenziato” senza in fin dei conti perdere la propria efficacia, seppur particolare e circoscritta. in tal senso, la confessione costituisce da sempre uno dei principali espedienti narrativi, potendo far leva al massimo grado sulla dialettica tra segreto e menzogna e istituendo tutta una gradazione di scarti fra le competenze di personaggi e spettatori. così, a seconda delle relazioni stabilite dal singolo racconto, si riescono ad ottenere gli elementi di base per la quasi totalità dei generi narrativi – dal thriller alla commedia romantica – e delle tipologie di risoluzione dell’intreccio. Ovviamente la confessione non è l’unico mezzo per costruire un percorso narrativo incentrato sul segreto, né per instaurare una discrepanza cognitiva tanto tra gli attori che con gli spettatori; tuttavia, il frequente ricorso a questa modalità indica una predilezione, almeno da parte di un certo tipo di cinema, per la risoluzione sul piano verbale dei meccanismi regolatori del suspense, come del resto ben mostrato da Alfred Hitchcock in un’opera dal titolo emblematico, io confesso (1953) appunto. come parte integrante di una più ampia problematica relativa a un’etica del sé, i momenti confessionali presenti nel cinema italiano oltrepassano la semplice funzione narrativa appena descritta. Ricondotta alla sua origine religiosa, la confessione conserva così da un lato la dinamica di potere implicata e dall’altro un particolare regime di veridizione, mettendo però radicalmente in questione entrambi. ciò avviene tramite la riconfigurazione del dispositivo all’interno di un orizzonte critico che investe il sistema delle rappresentazioni e la loro efficacia. La confessione, gli esercizi 253

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spirituali e più in generale i nessi tra potere politico e prassi religiosa conoscono insomma un’estensione rispetto al singolo piano tematico: tecnologie del sé e potere pastorale diventano ora matrici formali e oggetti da scomporre nel loro rapporto intrinseco con la dimensione iconica. in questo senso si può affermare che il discorso sulla confessione è allora una delle modalità che il cinema contemporaneo ha ritenuto adeguate a provare a rappresentare il rapporto che lega verità e rappresentazione. la messa in scena di un vero e proprio dispositivo confessionale sembra dunque ingaggiare un corpo a corpo con il regime veridittivo della contemporaneità, la cui garanzia non è determinata tanto dagli enunciati quanto piuttosto dalle configurazioni discorsive: inquadratura frontale, creazione di uno spazio assimilabile al confessionale, interpellazione dello spettatore. Il cinema italiano non è l’unico luogo dove è possibile riscontrare questo interesse, basti pensare al lavoro di Pablo larraín e in particolare a El Club (2015)10; e tuttavia, è qui che si continua a pensare simili questioni con una costanza e una profondità tali da farne uno dei suoi punti maggiori di originalità, tanto che si potrebbe concepire buona parte della cinematografia nazionale come un’unica grande riflessione attorno al ruolo sociale e politico della religione. una delle ragioni – al di là dei legami pri-

10 Un’analisi di questo film che procede lungo una direzione analoga a quella qui sviluppata si trova in M. coviello e F. Zucconi, Sensibilità e potere. il cinema di Pablo larraín, Pellegrini, cosenza 2017.

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vilegiati tra l’Italia e la Chiesa cattolica – potrebbe essere rintracciata nella ricezione di Schmitt e dei suoi allievi da parte del “pensiero italiano” nella sua componente di sinistra, secondo la quale «la problematica teologico-politica non è solo più attuale, ma riguarda la filosofia in quanto filosofia»11. E se la filosofia italiana ha definito a propria cifra caratterizzante una propensione per il non-specialistico12, è altrettanto vero che il cinema italiano presenta una decisa inclinazione per il “filosofico”, strutturandosi come luogo di elaborazione estetica di molti dei plessi teorici che attraversano il dibattito contemporaneo13. le prossime pagine prenderanno in esame alcuni film che esemplificano questa relazione e questo sguardo particolare, raccogliendo – più o meno esplicitamente – l’eredità di Pasolini e di Petri e ripensando, singolarmente, proprio l’evoluzione della ricerca di Foucault a partire dalla congiuntura così ristretta dalla quale ha preso le mosse questo lavoro. se tra 1975 e 1976 tutti e tre delineano i contorni di una prima analisi delle forme governamentali nella loro declinazione pastorale, che mostra appunto C. Jouin, religione civile o metapolitica? note sulla teologia politica in germania e in italia, in teologie e politica, a cura di E. stimilli, cit., p. 61.

11

12 su questo punto si veda R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., part. cap. 1, che come visto include proprio l’opera di Pasolini all’interno della ricostruzione genealogica proposta.

Sul cinema italiano come declinazione specifica del pensiero italiano si rimanda a R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, cosenza 2019. 13

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l’antinomia tra biopolitica in quanto politica sulla popolazione e biopotere in quanto politica dell’individuo in una reversibilità tra vita e morte, da lì in poi Foucault (si è detto della sorte di Pasolini e Petri) esplora invece più nel dettaglio le singole tecniche e le possibili tattiche di resistenza all’incrocio tra governo e verità, compiendo un tragitto che, come visto, lo riconduce proprio a quella congiuntura originaria. Una nuova triade sembra dunque catturare l’attenzione del filosofo francese a partire dal 1980: ermeneutica del sé, confessione, parresia (ovvero il “parlar-franco”). con il governo dei viventi, l’ipotesi di lavoro sviluppata da Foucault diventa quella di ricostruire la genealogia del soggetto moderno per formularne una nuova politica che sappia liberarsi dell’eredità cristiana che lo ha configurato sotto il segno della rinuncia a sé14. Nelle analisi di questo capitolo si proverà a risalire le tappe di questo percorso attraverso alcuni film che si situano proprio all’incrocio tra la riflessione sui concetti critici e quella sulle nuove configurazioni mediali, tematizzando in forme esplicite la questione della spettatorialità tra verità e (auto)rappresentazione.

Una nuova etica del sé la necessità di mettersi in mostra – di produrre

14

Per la ricostruzione dettagliata di questo itinerario si rimanda alla nota conclusiva di Michel Sennelart, curatore di M. Foucault, del governo dei viventi, cit., pp. 329-358.

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cioè un’immagine di sé che sia riconoscibile da un pubblico diversificato e che dia valore al soggetto della rappresentazione secondo modalità di selfbranding – è una delle caratteristiche più dibattute e studiate del rapporto tra l’essere umano e i media nell’epoca della (ri)producibilità tecnica. Le forme dell’auto-ritrattistica che hanno segnato la storia dell’arte occidentale si sono espanse e democratizzate diventando appannaggio di chiunque, ma allo stesso tempo hanno radicalmente mutato il processo di soggettivazione al quale davano luogo: non più l’artista consapevole del suo status in quanto eccezione rispetto alla norma, ma un individuo che deve “editare” il proprio sé verso un’esemplarità rispetto alle norme. Questo «edited self» obbedisce evidentemente a logiche tese a ottimizzare il proprio valore – in termini di capitale e impatto sociale, quantità di pubblico e ampiezza di visibilità – trasformandosi nella tecnologia di governo di sé (e di riflesso degli altri) più tipica e appropriata dentro la cornice della “ragione neoliberale”15. Non è difficile ricondurre al grande Fratello televisivo l’emersione definitiva di tale processo di ottimizzazione della facoltà sensibile e della nostra esperienza intersoggettiva: in effetti, «basta guardarsi intorno per incontrare dovunque macchine, dispositivi, rituali, spettacoli che tendono a ridurre la

15 Questa lettura foucaultiana delle forme di autorappresentazione nel presente è sviluppata da a. Marwick, Status Update. Celebrity, Publicity, and Branding in the Social media age, Yale university Press, New haven 2013.

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contingenza del mondo o – paradossalmente – a programmarla (come nel caso esemplare del cosiddetto reality show)»16. E forse nessun’altra attività riesce a mostrare nel modo più puntuale quella reciproca implicazione tra soggettivazione e assoggettamento, quel nodo irrisolto di una politica del sé che sia davvero capace di liberarsi dalle costrizioni di un potere che ha dismesso la maschera della coercizione per assumere quella della seduzione: il decorso storico della confessione – da pratica obbligatoria e saltuaria a pratica volontaria e pluri-quotidiana – sembra allora racchiudere esemplarmente il mutamento di segno delle strategie governamentali, nonché la sua perdurante centralità nella costituzione di un’etica del sé. il 17 febbraio del 1982, durante il corso dedicato all’ermeneutica del soggetto, Foucault cerca di chiarire l’intento della sua ricerca con queste parole: quando ai nostri giorni constatiamo il significato, o per meglio dire l’assenza quasi totale di significato – e l’assenza di pensiero che così si manifesta – che viene attribuita a espressioni che pure ci sono familiari, che oggi impieghiamo correntemente, e che ritornano incessantemente nei nostri discorsi – come per esempio l’espressione “ritornare a se stessi”, “liberare se stessi”, “essere se stessi”, “essere autentici” e così via – ritengo che non vi sia di

P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, laterza, Roma-Bari 2004, p. 391.

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che essere molto fieri degli sforzi attualmente compiuti per restaurare un’etica del sé. E allora, nella serie di tentativi e di sforzi, più o meno bloccati e chiusi su se stessi, per restaurare un’etica del sé, così come nel movimento che, ai giorni nostri, fa sì che ci riferiamo continuamente a tale etica del sé, ma senza però mai conferirle alcun contenuto, penso vi sia forse da sospettare qualcosa come un’impossibilità, e precisamente l’impossibilità di costituire un’etica del sé. Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé17.

come dunque conferire a questa relazione mediata tra sé e verità una tonalità emancipativa, come trasformare il processo di costituzione di un’etica del sé in una politica di noi stessi che sia davvero alternativa alle dinamiche di assoggettamento e conformazione? reality (2013) di Matteo Garrone e Selfie (2019) di agostino Ferrente affrontano questi problemi da prospettive e angolazioni opposte, ma la loro comparazione è funzionale a mostrare il passaggio che Foucault intendeva delineare e che in queste pagine si è provato a raccogliere e rilanciare dentro l’ambito del visivo. Il primo racconta la deriva patologica che affligge il protagonista luciano (aniello arena) una volta

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M. Foucault, l’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 221-222.

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ventilata l’ipotesi di poter esercitare la sua innata propensione allo spettacolo dentro la dimensione pubblica del grande Fratello: incitato da amici e parenti, si presenta alle selezioni del programma e si convince che il dispositivo di sorveglianza ininterrotta abbia tracimato lo spazio controllato della trasmissione per riversarsi nella realtà quotidiana, sviluppando così una strana mania di persecuzione che lo induce a comportarsi come se fosse già dentro il programma televisivo. Se i reality show sono considerati il momento di rottura dei filtri di mediazione tra realtà e rappresentazione (l’inclusione integrale e senza scarti del mondo della vita dentro il mondo mediale), il film di Garrone ne mostra l’effetto di ritorno e le conseguenze sul fuori campo, gli esiti cioè dei processi di conformazione a cui danno origine e a cui si è fatto cenno nel primo capitolo. La completa de-realizzazione del mondo che scaturisce da questo meccanismo di filtraggio invisibile della contingenza della realtà è assunta da reality come cornice inglobante delle vicende: un lungo piano sequenza aereo che restringe il campo sino a inquadrare l’arrivo di una carrozza trainata da cavalli bianchi dentro il cortile di una villa per matrimoni nella periferia napoletana. la dimensione favolistica – propria di un mondo diventato favola18 – istituisce sin dalle prime battute una rigida cesura tra lo spazio dell’eccezione (la celebrità di luciano presso i conoscenti) e quello

Sulle ricadute in campo cinematografico di questa dinamica si veda P. Bertetto, lo specchio e il simulacro. il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano 2007. 18

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della norma quotidiana (la sua professione di pescivendolo al mercato rionale); ma l’arrivo alla festa di Enzo, ospite d’onore ed ex-concorrente del grande Fratello, convince luciano a tentare di normalizzare l’eccezione, di trasformare cioè quel momento di inversione carnevalesca (il suo personaggio più riuscito è quando assume le fattezze di una vecchia zia) nel vissuto di ogni giorno. Dopo aver partecipato ai provini e ricevuto una chiamata dalla produzione per un’ulteriore selezione, Luciano si convince che il tempo dell’attesa non sia altro che una messa alla prova, uno studio preliminare per saggiarne il carattere prima dell’ingresso nella casa (lasciando dunque i due ambiti ancora distinti), sino allo sviluppo di una patologia che lo conduce a sovrapporre il reality alla realtà: la monomania del protagonista arriva a invertire il processo della conformazione, accusando gli autori del programma di aver plagiato le sue posture e i suoi gesti, che infatti ritrova puntualmente nei concorrenti dello show in onda. Il film di Garrone piega dentro il registro del fiabesco (che è la caratteristica più tipica del suo ultimo cinema, da il racconto dei racconti – tale of tales del 2015 a Pinocchio del 2019) molti dei nodi affrontati nel paragrafo dedicato al fenomeno dei reality show, mostrando le derive di una soggettivazione pensata come libero spontaneismo emancipato dalle costrizioni sociali, come imperativo etico di essere sé stessi che prova a replicare le posture comportamentali – efficaci dentro lo spazio programmato – nel mondo del vissuto quotidiano. L’aspetto più interessante di questo processo di trasformazione è il ruolo occupato dal dispositivo confessionale come anello di congiun261

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zione tra questi spazi antinomici. luciano costruisce infatti un confessionale televisivo dentro lo sgabuzzino di casa (dal quale può seguire ininterrottamente la trasmissione, ricreando lo spazio di reclusione al di là dello schermo), che si configura dunque come luogo irriducibilmente altro rispetto all’eterotopia costituita dalla casa del grande Fratello, ma capace di connettere ambienti distanti [fig. 1].

Fig. 1

Il confessionale diventa insomma l’interfaccia tra un interno e un esterno non solo nella struttura del reality show, ma più in generale per suo statuto storico e culturale: è la matrice di questa interfaccia. in chiesa, è questo il luogo dove l’interiorità del fedele trova il suo sbocco esteriore e riceve l’assoluzione del peccato, in un percorso di andata e ritorno tra il mondano e il trascendente attraverso la figura vicaria del confessore; nel programma televisivo è l’unico momento in cui può avvenire uno scambio diretto tra il dentro e il fuori senza una preliminare autorizzazione. Questo dispositivo si configura insomma come il punto imprescindibile di pubblicizzazione di un’etica del sé, che è quello su cui si interrogava 262

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Foucault nel 1982 e che oggi assume quei contorni ipertrofici e capillari delle piattaforme confessionali che incitano alla verbalizzazione di tutti i pensieri, fino alla condensazione iconica e sintetica del selfie. Proprio da questa constatazione si sviluppa Selfie, un film che imposta una possibile forma di controcondotta19 a partire dalle nuove forme di produzione e consumo dei discorsi veri. L’opera di Ferrente si presenta come un oggetto bifronte: da un lato documentario di inchiesta sulla tragica morte di Davide Bifolco, sedicenne del rione traiano di Napoli ucciso da un carabiniere perché scambiato per un latitante in fuga, dall’altro racconto di formazione (ancora inespressa e infine inconclusa) di due suoi amici, Alessandro Antonelli e Pietro Orlando. L’aspetto più originale del film consiste nell’affidare le redini del racconto a questi ultimi, i quali si mettono in scena nella loro quotidianità ripetitiva e sfilacciata portando a galla speranze e frustrazioni, rassegnazione e desideri. Ecco dunque la ragione del titolo: il regista rinuncia a parte della sua autorità per delegare ai due ragazzi la gestione del materiale girato e negoziarne le configurazioni in relazione all’ambiente20, lasciando loro una (controllata) libertà di scelta riguardo a narrazione e messa in scena. Rispetto ad altre operazioni che hanno segnato la storia

19 Per una lettura foucaultiana “oltre Foucault” delle tattiche di controcondotta in termini di possibilità emancipativa e soggettivante si veda M. tazzioli, Politiche della verità. michel Foucault e il neoliberalismo, Ombre corte, verona 2011.

si veda G. Ravesi, Come in uno specchio. Selfie di agostino Ferrente, in Fata morgana Web 2019, cit., pp. 267-269. 20

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del cinema italiano (si pensi solo ad anna di alberto Grifi del 1975), Selfie non è il semplice ritratto in presa diretta di una “vita minuscola”21, piuttosto è il ritratto in presa diretta di un autoritratto di gruppo, nel quale traspare in filigrana un processo di soggettivazione che incede a tentoni, senza meta apparente, irriducibile all’efficacia conformatrice di modelli esterni così forte da far collassare – come in reality – la realtà dentro lo spazio controllato, appunto, del reality22. Per certi versi, si tratta di un esito paradossale. il selfie – «performance digitale che riunisce l’immagine di sé, la tradizione dell’autoritratto dell’artista da eroe, e l’immagine meccanica dell’arte moderna»23 – sembra in effetti essere lo stadio più avanzato di un processo di cristallizzazione delle forme di autorappresentazione che si costruisce, necessariamente, attraverso la reiterazione di un modello configurativo 21 Ovvero la biografia di un soggetto che, secondo i canoni del genere, non ne meriterebbe una; si veda in proposito P. Michon, vite minuscole, tr. it., Adelphi, Milano 2016.

Un processo di soggettivazione che, come nota A. Cervini, il cinema politico, in Il cinema del nuovo millennio. Geografie, forme, autori, a cura di Ead., carocci, Roma 2020, pp. 19-35, passa anche attraverso la contrapposizione tra due diverse idee di cinema che i ragazzi a un certo punto perseguono: «uno immagina che il film che stanno girando debba rappresentare la realtà così com’è (senza necessità di abbellimenti e finzioni), l’altro cerca di piegare la narrazione alla forma più canonica di film e serie TV che in anni recenti hanno raccontato la malavita e il degrado di certi quartieri napoletani» (p. 26). 22

23

N. Mirzoeff, Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora), tr. it., Johan & Levi, Milano 2017, p. 50.

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riconoscibile. se in epoca moderna potersi rappresentare sulla base di un modello specifico era considerato un privilegio – l’artista-eroe che arrivava a condividere la prerogativa sovrana secondo la quale il ritratto era già di per sé «il tutto del re»24 – oggi la diffusione degli autoritratti digitali polverizza tale privilegio per dar vita a una nuova tecnologia che definisce i processi di costruzione del soggetto. si tratta insomma di una vera e propria tecnologia del sé, una protesi tecnica in grado di apportare una trasformazione del soggetto che, attraverso questa particolare incorniciatura mediale, può dotarsi di un’identità da utilizzare come strumento di comunicazione con il mondo. i due protagonisti di Selfie sfuggono invece a questa cristallizzazione. Mentre i loro amici e conoscenti – che appaiono in alcuni “provini confessionali” gestiti da Ferrente in prima persona – adottano le pose che da loro ci si aspetterebbero, pur con ingenua e titubante sincerità, conformandosi spontaneamente all’orizzonte di attese dello spettatore ed evidentemente del regista, alessandro e Pietro non riescono a trovarsi a proprio agio nell’interazione pacificata con il dispositivo. Se la brevitas è il tratto dirimente di queste dinamiche di interazione attraverso l’auto-rappresentazione, la gestione dell’intero intreccio narrativo diventa un orizzonte troppo vasto per essere ricompreso dentro la struttura stereotipata di questa tipologia discorsiva e mediale, facendo smarginare la vita oltre i confini del dispositivo. allargate sino a diventare slabbrate, le

24

l. Marin, le portrait du roi, Minuit, Paris 1977, p. 258.

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maglie di questa brevità permettono ora allo spettatore di accedere al fuori-campo, che spesso altro non è che un contro-campo, come nella sequenza nella quale i due ragazzi prendono il sole facendo finta di essere in qualche luogo esotico o esclusivo, salvo rivelarsi essere un’aiuola pubblica brulla e desolata: il tentativo di conformarsi all’ordine visuale condiviso fallisce proprio nell’impossibilità di sostenere quella postura troppo a lungo [fig. 2].

Fig. 2

Ma questo fallimento è tutt’altro che una sconfitta; piuttosto, è una tappa fondamentale di un processo di rivendicazione dell’identità come differenza: la lotta per una soggettività moderna passa attraverso la resistenza alle due forme attuali di assoggettamento, l’una che consiste nell’individuarci in base alle esigenze del potere, l’altra che consiste nel fissare ogni individuo a un’identità saputa e conosciuta, determinata una volta per tutte. la lotta per la soggettività si manifesta allora come diritto 266

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alla differenza, e come diritto alla variazione, alla metamorfosi25.

usando in senso emancipativo queste protesi tecniche che producono processi di soggettivazione – tecnologie della sensibilità che assumono le funzioni di tecnologie del sé, evidentemente – è allora possibile inoltrarsi lungo percorsi eccentrici all’interno dei meandri di una nuova etica del sé nel tempo presente. Significa, detto altrimenti, invertire il rapporto tra il mondo e la sua immagine, facendo del primo non più uno spazio subordinato alla seconda, la quale a sua volta si fa carico di segmentarlo e trasformarlo in un ambiente adatto alla sua inclusione mediale, ma il residuo necessario e ineliminabile dentro il quale l’immagine deve essere sempre pensata. A differenza di luciano in reality, alessandro e Pietro divengono soggetti attraverso il mezzo tecnico perché rilavorano l’apparato senza farsi catturare dalle sue logiche anestetizzanti. se di confessione si tratta, questa è una confessione che si disfa del giudizio del confessore; una “confessione politica”, che mostra un possibile processo elaborativo nell’ambito di una tecnoestetica creativa26. Una forma di appropriazione che il cinema aveva già intravisto, seppur da prospettiva rovesciata: la possibilità cioè che la politica – in quanto ambito di esercizio del potere – piegasse a proprio vantag-

25

G. Deleuze, Foucault, cit., p. 140.

26

Per una disamina approfondita di queste possibilità si rinvia a P. Montani, tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello cortina, Milano 2014.

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gio le tecniche del sé di matrice confessionale per liberarsi di quel residuo di giudizio che flebilmente tiene ancora a freno il suo operato.

verità e potere Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del verano. si passeggiava e io scelsi quel luogo singolare per chiederti in isposa [sic]. Ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno, e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il Potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il Potere sono stato io. la mostruosa e inconfessabile contraddizione: perpetuare il Male per garantire il Bene. la contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. la responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. a tutti i famigliari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stato anche per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di centro come la Democrazia Cristiana l’hanno definita “strategia della tensione”; sarebbe più corretto dire “strategia della 268

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sopravvivenza”. Roberto, Michele, Giorgio, Carlo alberto, Giovanni, Mino, il caro aldo, per vocazione o per necessità, ma tutti amanti irriducibili della Verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la Verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire la fine del modo in nome di una cosa giusta! abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il Male per avere il Bene! Questo Dio lo sa; e lo so anch’io.

vale la pena riportare per intero il monologo della scena più famosa e analizzata di il divo. la spettacolare vita di giulio andreotti (2008), il film di Paolo sorrentino dedicato a un punto di svolta cruciale nella storia d’Italia e nella vita di Andreotti (il biennio 19911992) e che ha rilanciato un’idea di cinema politico che rimanda esplicitamente alla tradizione italiana degli anni ‘60 e ‘70 per trasporla in una cornice strettamente contemporanea. Questa confessione porta a compimento tutti i temi individuati nella ricognizione delle pratiche del sé sin qui svolta – costituzione del dispositivo, prima persona dell’enunciazione, condensazione dei temi e del lessico religiosi e politici – e, nella sua apparente semplicità dietrologica, racchiude numerosi elementi che collegano esplicitamente lo svelamento di una verità interiore con la propria ascendenza religiosa all’interno della gestione e della conservazione del potere. Effettivamente, tutto il film è attraversato dal rapporto tra la politica e la Chiesa: nel dialogo tra il parroco e andreotti (toni servillo), 269

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incentrato sulla differenza tra quest’ultimo e De Gasperi; nell’elezione del Presidente della Repubblica (il massimo rituale della politica italiana), propiziato dalla benedizione delle stanze; nell’ufficializzazione della candidatura di andreotti a Presidente della Repubblica, sancita attorno a una tavola dagli esponenti della sua corrente, dove l’iconografia sacra è richiamata da Franco Evangelisti (Flavio Bucci, il total di la proprietà non è più un furto) nel riferimento a «una teocrazia con un capo indiscusso». In quest’ultimo caso, il ruolo di Giuda – lo “squalo” Sbardella, che ha già tradito – è solo apparentemente vacante: si presenta infatti sotto forma di enorme mozzarella al centro della tavola, banchetto sacrificale impostato su un’inversione valoriale (da purezza a impurità) che non inaugura sotto i migliori auspici la candidatura. la confessione di un «segreto inconfessabile» è un tratto ricorrente nel cinema di sorrentino e si basa su una struttura precisa: il soggetto enigmatico allude allo svelamento di una verità decisiva e mai rivelata, sollecitando le aspettative dell’interlocutore per disattenderle con l’insignificanza della verità proferita. in le conseguenze dell’amore (2004), ad esempio, titta di Girolamo (toni servillo), ex-cassiere di una società criminale esiliato in un albergo svizzero per sfuggire alla vendetta del clan, confida al direttore dell’hotel il furto di una marmellata quando era bambino, lasciando quest’ultimo visibilmente amareggiato27; allo stesso modo, nel finale di il divo, Per un’analisi delle problematiche confessionali in questo film mi permetto di rimandare a G. Tagliani, “Le conseguenze 27

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durante una conversazione in seguito all’avviso di garanzia per associazione mafiosa, Andreotti dichiara a la sua infatuazione giovanile per Mary Gassman, suscitando l’incredulità in Cossiga. A differenza di le conseguenze dell’amore, il divo assegna però al tema della confessione un ruolo narratologicamente più complesso: Andreotti chiede infatti di essere confessato una prima volta nel dialogo con il parroco prima dell’insediamento del suo Governo, poi dopo la caduta del Governo da lui presieduto in seguito alla morte di Salvo Lima, e infine nel cuore della battaglia giudiziaria che coinvolge lui e gli esponenti della sua corrente. Questi tre episodi non presentano il rito nella sua interezza, ma concorrono insieme a delineare una parabola di realizzazione dell’atto: si parte con il suo annuncio nel primo caso, si esordisce già in medias res nel secondo, si arriva direttamente alla conclusione nel terzo. la confessione riportata inizialmente si inserisce tra la seconda e la terza, trasformando tuttavia gli elementi interni del dispositivo. È bene richiamare il fatto che questa scena confessionale – al pari di quella in todo modo – è segnata da numerosi segni enunciativi nell’inquadrature di transizione che immette in questa drammaturgia della verità: le tende tirate a simulare il sipario, con l’attore al centro; la doppia incorniciatura della porta in primo piano e della finestra sullo sfondo; i faretti posizionati in alto, a definire un’illuminazione di

del vissuto”, in lo spazio del reale nel cinema italiano, a cura di R. Guerrini, G. tagliani e F. Zucconi, cit., pp. 91-103.

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tipo scenico; il movimento di rotazione di 180 gradi del corpo di Andreotti che lo porta a una perfetta frontalità, come appunto un attore che inizi un monologo apostrofando direttamente lo spettatore28. la dimensione autoriflessiva definisce dunque l’atto confessionale come il luogo teorico di emersione del legame singolare tra verità e rappresentazione, come il crocevia di scambio tra i meccanismi di significazione propri del visivo e quelli di intelligibilità che regolano la relazione tra soggetto e mondo. seduto su una poltroncina, in mezzo a una stanza vuota, illuminato da un faro circolare in lieve assolvenza che fa uscire la figura dall’oscurità iniziale, andreotti alza il viso e, come se avesse udito il segnale d’inizio, il ciak, comincia il suo racconto. la costruzione frontale propone una direzionalità precisa dell’interlocuzione che si sviluppa tra un’istanza presente, l’enunciatore-confessato, e una assente, il destinatario-confessore, quest’ultimo convocato tuttavia attraverso due diversi espedienti.

Le implicazioni etiche ed estetiche di questo movimento sono state analizzate – con riferimento al cinema di herzog – da M. coviello e F. Zucconi, dall’apostrofe allo sguardo etico nel cinema di Werner herzog, in retorica del visibile. Strategie dell’immagine tra comunicazione e significazione. 3. Contributi scelti, a cura di t. Migliore, aracne, Roma 2015, pp. 73-83, dove si mostra l’equivalenza tra la frontalità del personaggio e la figura retorica dell’apostrofe che «chiama in causa lo spettatore e i suoi delegati all’interno del testo […]: la frontalità delle figure inquadrate costituisce dunque un luogo di “riflessività” della rappresentazione, [...] la più marcata costruzione di un’interfaccia con lo spettatore da parte dell’opera». 28

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«Livia»: il vocativo che apre la confessione identifica il destinatario, la donna che è stata accanto a lui per tutta una vita e che ne conosce i segreti più reconditi. «livia», esordisce ancor prima andreotti – mostrato nel riflesso di un vecchio specchio opaco – quando informa la moglie della decisione del tribunale di Palermo. L’anafora congiunge inestricabilmente questi due episodi, delineando un unico blocco che ricrea le condizioni del giudizio (in una forma tuttavia opposta rispetto a quella delineata da todo modo) attraverso il mantenimento dell’ortogonalità degli sguardi nei tre momenti di questo “a parte”, ovvero il dialogo con livia, la serata di fronte alla televisione, la confessione vera e propria. Ma per quanto la moglie si sforzi di avvicinarsi per scrutare il sentire dello sposo illustre e misterioso (i dettagli dei particolari anatomici preposti alla percezione, occhio, naso, bocca, orecchio, nella scena della televisione), per quanto forte gli stringa la mano per stabilire un contatto, la verità le rimarrà sempre sconosciuta ed estranea. livia, «tu non sai e non puoi sapere»: è questa la cifra del terzo atto della densa sequenza. Il movimento di avvicinamento frontale che caratterizza la prima parte è il segno usato per creare un legame intimo con un racconto intimo. sguardo prolungato, eccesso di visione, il carrello frontale è uno stilema che ricorre spesso nel corso del film, tentativo di instaurare una prossimità fisica per decifrare l’enigma. Nella vicinanza epidermica, le proiezioni dell’interiorità del soggetto prendono forma: la passeggiata con Livia nel cimitero del Verano per chiederla in sposa, quello stesso cimitero presagio di quella che sarà la sua responsabilità come politico nel secondo 273

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flashback ormai svuotato di ogni presenza umana viva. andreotti non ci guarda, non ci interpella, il suo sguardo rimane rivolto a un altrove, un fuori campo assoluto e utopico, uno spazio irreale. in altri punti la quarta parete è stata e sarà infranta, nella presenza delle mani che entrano dal fuori campo frontale, associando lo spettatore alla figura del Divo Giulio, o in un gesto eloquente rivolto alla moglie, il cui punto di vista è simulato anche attraverso la disinquadratura che ne accompagna il movimento di risposta. Ma in questo caso la grata del confessionale si fa ermetica e invalicabile; si può assistere, ma non partecipare: la promessa di una chiamata in causa che il prologo autoriflessivo aveva adombrato viene disattesa. in consonanza con il pensiero paolino, il Male per Andreotti è un’evenienza necessaria e inevitabile, non può essere eliminata ma solo differita, collocandosi completamente dalla parte del katechon, il potere che trattiene, che si oppone alla Verità in quanto forza apocalittica e distruttrice. Spetterà al Giudizio finale stabilire assoluzioni e dannazioni, in fondo «siamo tutti dei medi peccatori»; sino a quel giorno, il Potere è obbligato a perpetuare il Male per garantire il Bene: e il Potere è Andreotti. L’interpretazione paolina si fa letterale e quantunque contraddittoria: il mandato divino diviene così la dilatazione infinita del tempo che resta prima della fine del mondo, di questo mondo terreno che minaccia di crollare sotto il peso della verità. L’interpretazione è dunque letterale perché la seconda venuta di cristo è condizionata dalla manifestazione dell’Anticristo, il Male che consente il Bene, ma è anche contraddittoria in quanto pare differire continuamente il momento di tale venuta, anziché accelerarla. 274

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la storia si presenta come un campo di tensioni percorso da due forze opposte: la prima – che Paolo, in un celebre quanto enigmatico passo della Seconda lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon – trattiene e incessantemente differisce la fine lungo il corso lineare e omogeneo del tempo cronologico; la seconda, mettendo in tensione origine e fine, continuamente interrompe e compie il tempo. Chiamiamo Legge o Stato la prima, votata all’economia, cioè al governo infinito del mondo; e chiamiamo messia o Chiesa la seconda, la cui economia, in quanto economia di salvezza, è costitutivamente finita. Una comunità umana può costituirsi e sopravvivere solo se queste due polarità sono compresenti e se una tensione e una relazione dialettica permangono fra esse. È proprio questa tensione che sembra oggi esaurita. Man mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si indebolisce e cancella, l’economia estende il suo cieco, irrisorio dominio su tutti gli aspetti della vita sociale. L’esigenza escatologica, abbandonata dalla Chiesa, ritorna in forma secolarizzata e parodica nei saperi profani, che, riscoprendo il gesto obsoleto del profeta, annunciano in ogni ambito catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e di eccezione permanente che i governi del mondo proclamano in ogni luogo non è che la parodia secolarizzata dell’aggiornamento incessante del Giudizio universale nella storia della Chiesa. All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo fa riscontro un’ipertrofia del diritto, che, pretendendo di legiferare su tutto, tradisce attraverso un eccesso 275

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di legalità la perdita di ogni legittimità. lo dico qui e ora misurando le mie parole: oggi non vi è sulla terra alcun potere legittimo e i potenti sono essi stessi convinti di illegittimità. La giuridificazione e l’economizzazione integrale dei rapporti umani, la confusione tra ciò che possiamo credere, sperare o amare e ciò che siamo obbligati a fare o a non fare, a dire o a non dire, segnano non soltanto la crisi del diritto e degli stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché la Chiesa può vivere come istituzione soltanto mantenendosi in relazione immediata con la propria fine. E – è bene non dimenticarlo – secondo la teologia cristiana vi è una sola istituzione legale che non conosce interruzione né fine: l’inferno. Il modello della politica odierna, che pretende a un’economia infinita del mondo, è, dunque, propriamente infernale29.

Questa lunga citazione tratta da agamben condensa molti dei temi che emergono nella scena con-

29

G. agamben, la Chiesa e il regno, Nottetempo, Roma 2010, pp. 16-18. Sul tema della giustificazione del Male slegata dal contesto escatologico, Agamben è tornato anche in il mistero del male, cit., p. 37: «Dopo le due guerre mondiali, lo scandalo davanti all’orrore ha, cioè, spinto filosofi e teologi, fondandosi nel momento kenotico del cristo, a radicare in Dio il mysterium [iniquitatis], in una sorta di mostruosa – mi si perdoni il termine – “kakokenodicea”, una giustificazione del male attraverso la kenosis, con un totale oblio del suo significato escatologico». Ma si veda anche M. Cacciari, il potere che frena, cit., part. cap. IV in relazione alla bipartizione interna alla Chiesa sulla quale si concentra anche Agamben nella sua lettura del gesto epocale di Benedetto Xvi.

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fessionale mettendoli in relazione con la dimensione governamentale nella sua relazione con la sfera teologica. Al di là del tono assertorio e definitivo, quanto qui interessa è la connessione tra filosofia della storia e pratica di governo e di amministrazione del potere, che le parole del Divo Giulio tematizzano in modo estremamente raffinato, ben oltre il semplice svelamento di una verità alternativa sulle vicende italiane. Ma allora, in consonanza con tale impostazione catecontica, perché dire la verità se rappresenta la fine del mondo? Perché rivelare un segreto, se per essere sicuri che rimanga tale non bisogna confidarlo nemmeno a se stessi? Perché il compito del confessore è quello di rimettere i peccati; perdonare e guardare avanti, affidarsi alla bontà e alla misericordia di Dio: questi i rispettivi doveri del confessore e del confessato. Ma come detto, in questa scena il confessore è colui che manca: chi allora assolve o commina l’eventuale penitenza? La risposta la fornisce il film stesso, poche sequenze dopo. Con l’evolversi dei processi e delle inchieste, andreotti torna dal parroco, il terzo momento confessionale già accennato in precedenza, in una breve scena in continuità che si sviluppa con un movimento di macchina a svelare il dispositivo confessionale classico, seppur con un’ortogonalità invertita degli sguardi dei due soggetti coinvolti: il confessore non prende mai la parola, guarda il confessato, che distoglie invece lo sguardo, in una completa asimmetria dello scambio [fig. 3]. Ma questo non costituisce più problema, dato che Andreotti assomma ora entrambi i ruoli: «ventisei volte sono stato portato davanti alla commissione inquirente. Mi hanno fatto parlare per ore, per giorni 277

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e hanno sempre dovuto archiviare tutto: archiviato, archiviato, archiviato...». Le modificazioni subite dal soggetto nell’atto confessionale, la sua piena soggettivazione, hanno come esito primo lo sgravarsi delle proprie colpe; nell’elisione dell’istanza che incentiva e sancisce, è l’assoggettamento che conseguentemente viene meno, invertendo così la direzionalità efficace di tale pratica: la confessione rimane dunque sì uno strumento di controllo e di gestione del potere, ma tale esercizio muta di direzione, portando il confessato ad acquisire pieni poteri su un discorso che lo vede al contempo imputato e giudice. il Potere si è già autoassolto, nonostante i processi che si succederanno30: la legge di Dio è superiore a quella degli uomini. «siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità»31: l’icasticità delle formulazioni foucaultiane richiamate all’inizio del libro chiude il cerchio attorno alla centralità della confessione e al contempo alla necessità di un dispositivo in grado di regolare la produzione di verità che non danneggi, ma anzi avvantaggi, l’esercizio del potere.

Su questa dinamica si vedano anche N. Marini-Maio, non confesso, dunque sono. il Divo di Paolo Sorrentino, in Strane storie. il cinema e i misteri d’italia, cit., in particolare pp. 145148, e M. coviello, le forme del discorso politico nel cinema italiano contemporaneo: il Divo di Paolo Sorrentino (2008), in “E|C”, 29 marzo 2010, http://www.ec-aiss.it/pdf_contributi/ coviello_29_3_10.pdf (ultimo accesso 10 febbraio 2020). 30

31

M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 29.

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Fig. 3

L’auspicio pasoliniano di un processo ai “gerarchi” della DC prende forma tangibile nei primi anni ’90: assassinato Moro, i principali esponenti del partito finiranno travolti dalle inchieste giudiziarie soltanto dopo la caduta del Muro e la fine della Guerra Fredda e della contrapposizione tra blocchi. la parabola discendente del partito contagerà solo in parte Andreotti, come i cartelli che narrano degli esiti processuali alla fine del film testimoniano. Un grande interrogativo, al di là della verità fattuale, pesa però sulla sua testa: le parole del «caro aldo», che ricorrono diffusamente nel film e lo chiudono, sostituendosi di fatto al giudizio della corte di Palermo che apre il dibattimento. «Conquistare il Potere per fare il Male», scrive Moro nelle sue lettere dalla prigionia; certamente, ma per garantire il Bene, aggiunge il Divo: todo modo para buscar la voluntad divina32. Nel cortocircuito tra fatti e interpretazioni,

32

secondo questa visione, radicata nella prima teologia cristiana, il male è propriamente un effetto collaterale del bene e un suo elemento strutturale, non accidentale. la centralità del

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la verità si disperde in mille rivoli. Fiat veritas et pereat mundus: la natura antipolitica della verità, come rilevato da Hannah Arendt33, è esattamente il punto su cui poggia il movimento autoassolutorio di andreotti. a tale esito si oppone però una linea di sviluppo contraria, quella dell’inchiesta giudiziaria, attorno alla quale ruota la seconda parte del film, coincidente con la direttrice discendente della carriera dell’uomo politico. Questa cornice giudiziaria finale, che termina con un nulla di fatto riportando la paradossale sentenza emessa dalla corte di cassazione nel 200434, istituisce evidentemente

concetto di male minore nell’odierna gestione della politica in relazione alle guerre globali e nella lotta contro il terrorismo è stata analizzata da E. Weizman, il minore dei mali possibili, cit.: «È attraverso elementi collaterali – come le inondazioni o il sangue versato – che un governo, divino o umano, può dimostrare e, di fatto, esercitare il proprio potere. [...] in casi come questi [il governo umanitario delle emergenze mondiali], l’economia del male minore è sempre utilizzata come giustificazione per la trasgressione di regole rigide e solidi dogmi; spesso è usata da chi è al potere come giustificazione primaria della nozione stessa di “eccezione”». 33

si veda h. arendt, verità e politica, seguito da la conquista dello spazio, tr. it. , Bollati Boringhieri, Torino 1995.

La Corte di Cassazione ha infatti confermato la colpevolezza di Andreotti per reati di mafia commessi sino alla primavera del 1980, reati tuttavia prescritti, assolvendo invece l’imputato per la sua condotta dopo quella data. secondo la Giustizia italiana, andreotti è dunque colpevole e innocente: colpevole ma perdonato (in quanto prescritto), innocente ma non specchiato (per formula dubitativa). Questo pronunciamento paradossale eppure perfettamente adeguato al regime di verità dell’intera vicenda di Giulio andreotti è un punto fondamentale e scomodamente 34

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una tensione produttiva con la scena confessionale. Quel ruolo di giudice-confessore che in Petri era ancora disgiunto viene qui invece portato a sovrapposizione: nel piano-sequenza finale, la successione di punti di vista assegnati allo spettatore si conclude infatti nella posizione della corte dopo essere transitati da quella di testimone dell’evento prima e di imputato poi. Il movimento di macchina in avanti che si arresta sul volto di pietra di Servillo chiude così il perimetro ermeneutico che circonda il film, in una rima esplicita con l’analogo movimento nella prima inquadratura: se il desiderio di conoscenza del nucleo segreto del potere è frustrato sul piano fattuale, questo non impedisce tuttavia che un giudizio possa essere espresso35. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il coraggio necessario, ma, insieme, non è compromesso nella pratica del

paradigmatico, che appare ancora di impossibile collocazione entro schemi interpretativi consolidati. Si veda ad esempio la difficoltà di inquadramento in un testo recente scritto da uno dei protagonisti del processo (e che il divo raffigura in termini assai poco lusinghieri), G.C. Caselli e G. Lo Forte, la verità sul processo andreotti, Laterza, Roma-Bari 2018 che, nonostante il titolo roboante, evita accuratamente di considerare questo aspetto. 35

su questa sequenza si vedano M. Marcus, the ironist and the auteur: Post-realism in Paolo Sorrentino’s Il divo, “The Italianist”, 30/2 (2010), pp. 245-257 e P. Antonello, Il divo: Paolo Sorrentino’s Spectacle of Politics, in italian Political Cinema. Public life, imaginary, and identity in Contemporary italian Film, a cura di G. lombardi e c. uva, Peter lang, Berna 206, pp. 291-304.

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potere, e, inoltre, non ha per definizione niente da perdere: cioè un intellettuale. un intellettuale potrebbe dunque benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. [...] il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in italia36.

Le parole di Pasolini, in quello che forse è il suo articolo più celebre, abbracciano senza riserve il fiat veritas nella consapevolezza del rischio che il mondo (politico) finisca. La necessità di giungere a una verità fattuale si scontra con l’assenza delle garanzie di tale veridicità, le prove e gli indizi, ma ciò non toglie che questa possa essere ricostruita girando attorno al punto centrale grazie a una tensione morale ed intellettuale: è il principio della parresia. Foucault dedicherà a questo concetto gli ultimi due anni di vita, trovando in questa forma di veridizione l’antenato della confessione, seppur fondata su presupposti completamente differenti37. Ma come può configurarsi in termini visivi un discorso parresiastico, al di là della semplice espressione di una verità da parte di un soggetto che volontariamente si espone a un rischio?

36

P.P. Pasolini, il romanzo delle stragi, in id., Scritti sulla politica e la società, cit., p. 364.

37

sul passaggio dalla confessione alla parresia si rinvia alla densa ricognizione finale di F. Brion e B.E. Harcourt in M. Foucault, mal fare, dire vero, cit., pp. 259-316.

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Parresiasti il caimano (2006) di Nanni Moretti ha costituito un nuovo punto di inizio per la filmografia italiana del XXi secolo, riportando il cinema a confrontarsi direttamente con la scena del presente e riassegnandoli un ruolo centrale nei discorsi sociali contemporanei. Si tratta di un biografico assolutamente atipico che anticipa quello che da lì a poco sarebbe diventato un vero e proprio filone e che trova in Italia delle condizioni di sviluppo molto particolari38. uscito in concomitanza con le elezioni politiche del 2006, il film di Moretti racconta il tentativo da parte della giovane regista Teresa Mantero (Jasmine Trinca) di realizzare un biopic su Silvio Berlusconi che porti alla luce i punti oscuri della sua storia imprenditoriale. il progetto non riesce a prendere forma, sia per l’ostracismo istituzionale, sia per l’insipienza del produttore Bruno Bonomo (Silvio Orlando), sia infine per l’ostilità latente mostrata dallo stesso mondo del cinema, nella fattispecie dai suoi volti più noti, il divo Marco Pulici (Michele Placido) e lo stesso Moretti, che interpreta un personaggio senza nome né pseudonimo, presumibilmente se stesso. tuttavia, con un guizzo inaspettato, i pochi soldi racimolati basteranno per girare una sola sequenza, la più importante, il processo finale che vede condannato “il caimano”:

38 Sulla specificità del film di Moretti nel contesto nazionale, nonché sulla specificità del cinema biografico-politico italiano, rimando nuovamente a G. tagliani, Biografie della nazione, cit., in particolare pp. 7-8.

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ed è proprio il ricreduto Moretti, in questo film nel film, a dargli un volto luciferino, una maschera nera39 che contrasta con il regista gioviale e canterino che nella scena precedente stava progettando di realizzare una commedia. La complessità problematica dell’ostensione sulla scena del corpo attoriale e registico di Moretti è sottolineata anzitutto dall’andamento del racconto. la sua comparsa coincide infatti con due momenti di svolta narrativa: la prima chiude di fatto la fase ispirata al modello dei film di inchiesta o di ricostruzione, dove l’urgenza dell’attualità appiattisce l’immagine sul rappresentato, la seconda sancisce lo sdoppiamento del film, lasciando tuttavia aperta la cornice metafilmica allo stesso modo di come era stata presentata all’inizio (il caimano comincia dentro “Cataratte” e finisce dentro “Il caimano”40). Se «Berlusconi ha già vinto con le sue televisioni», come sentenzia Moretti nella sua prima apparizione, un film su Berlusconi non può limitarsi a fare “contro-informazione”, ma deve farsi carico di decostruire l’immaginario veicolato dal dispositivo mediatico. L’immagine si costituisce allora come atto testimoniale sul presente, secondo una direttrice tipica di tutto il cinema del regista. la doppia presenza sulla scena di Moretti – quel-

Su questa processione di maschere si veda R. De Gaetano, nanni moretti. lo smarrimento del presente, Pellegrini, cosenza 2015. 39

Un’analisi di questo passaggio si trova in F. Zucconi, la sopravvivenza delle immagini al cinema, cit., pp. 206-209. 40

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la del personaggio nelle vesti presumibilmente di se stesso e quella dell’attore che interpreta “il caimano” [fig. 4 e fig. 5] – ne definisce la figura in forme antitetiche anche in virtù di un drastico cambiamento della scena: l’attore che interpreta se stesso lascia dunque il posto a se stesso come attore proprio perché inserito in una finzione di secondo grado. Analogamente, ma ancora più in profondità, di «My name is Orson Welles» che chiude l’orgoglio degli amberson (1942) di Orson Welles, «in questa interpellazione che si fa appellazione c’è indubbiamente l’affacciarsi sulla scena di un autore conscio delle sue responsabilità, ma c’è anche la consapevolezza delle manovre che comunque attraversano un film e dei risvolti che esse possiedono»41.

Fig. 4

41

F. casetti, dentro lo sguardo, cit., p. 43.

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Fig. 5

La cornice confessionale rinvenibile nell’ultima scena – il caimano-Moretti che frontalmente espone la propria verità sulle vicende politiche recenti – rinvia così a una dimensione dialogica che coinvolge direttamente lo spettatore, portando a emersione contemporaneamente la figurativizzazione completa di un enunciatore e un dovere pragmatico assegnato al destinatario. Moretti appare come se stesso, in quanto inscritto all’interno di una cornice metadiscorsiva che lo configura come l’attore Nanni Moretti, dentro un film il cui titolo coincide con quello del film che lo spettatore sta guardando, recitando tuttavia nei panni dell’altro per antonomasia, il caimano-Berlusconi. il gioco aleturgico si sviluppa attraverso due configurazioni simili – dettate dalla perfetta frontalità del soggetto – in due momenti differenti, sul sedile posteriore di una auto di servizio (dove ogni altro elemento è espulso fuori campo) e in un’aula di tribunale (dove il contesto è invece sempre inquadrato): all’io dell’enunciazione che emerge appena Moretti 286

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entra sulla scena si affianca un egli, nel momento in cui a dire «io» è l’altro, il caimano-Berlusconi, che a sua volta però sostituisce l’io all’egli in tribunale («Questo cittadino è più uguale degli altri, dal momento in cui è stato votato dalla maggioranza degli italiani in libere elezioni democratiche»). io ed egli si rincorrono e si scambiano incessantemente di posto, avendo però come destinatario comune un tu a cui l’interpellazione necessariamente si indirizza all’interno di una esplicita cornice giudiziaria – propriamente luogo di esercizio del giudizio – che trasforma lo spettatore in un “giudicesanzionatore” chiamato a esprimersi su due questioni, la verità dell’enunciato (proposto dall’egli che dice io) e quella dell’enunciatore (l’io travestito da egli). Evidentemente, questa complessa struttura enunciativa contiene le tracce di un «desiderio teorico» che il film mostra nel corso del suo farsi – tematizzato dall’incertezza produttiva nella quale versa il film nel film – fluttuando «indecidibilmente tra soggetto d’enunciazione ed enunciato, tra giudizio e storia, tra discorso e racconto [storico]»42. Due coppie antitetiche circoscrivono il discorso filmico, due coppie che il caimano – e con esso la maggioranza del cinema biografico-politico italiano

42 l. Marin, détruire la peinture, Flammarion, Paris 1997, p. 101, traduzione mia dall’originale: «Le désir théorique flotte indécidablement entre sujet d’énonciation et énoncé, entre jugement et histoire, entre discours et récit» riferito all’analisi dell’iscrizione tombale “et in Arcadia, ego” presente nel quadro les bergers d’arcadie (1637-38) di Nicolas Poussin attraverso le categorie dell’enunciazione proposte da Émile Benveniste.

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sino al recente hammamet (2020) di Gianni amelio – si sforza di tenere insieme. la prima, di matrice benjaminiana, è composta dai termini politicizzazione dell’arte ed estetizzazione della politica. L’arte deve farsi politica per rendere conto pienamente del processo storico di cui è parte integrante, mettendo la tecnica al servizio di una sorta di “pedagogia dello sguardo”, mentre, all’opposto, il risvolto estetizzante della politica tipico del fascismo pone invece la tecnica al servizio della produzione di valori cultuali da imporre alla massa. L’accessibilità all’immagine assicurata dalla riproducibilità tecnica dischiude così una possibilità e un rischio allo stesso tempo, rischio che nel film è incarnato dal produttore Bonomo il quale, leggendo la sceneggiatura di teresa, immagina una figura con le fattezze di Berlusconi senza ancora sapere che “Il caimano” è riferito a lui: la rappresentazione esemplare del processo di colonizzazione dell’immaginario da parte dell’icona berlusconiana. la seconda vede invece la verità (aletheia) opposta alla norma (doxa). Il dispositivo confessionale che è stato velocemente descritto non sembra richiamare direttamente un’origine religiosa, contrariamente agli esempi addotti in precedenza e a quanto avverrà esplicitamente in habemus Papam (2011); piuttosto, l’inserimento di questa sequenza entro una cornice che può essere definita “confessionale” fonda la propria plausibilità su una pratica antecedente il cristianesimo, che pur ne ereditò i caratteri all’interno del grande plesso concettuale del dir-vero43,

43

L’ultima lezione tenuta da Foucault al Collège de France, da-

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la parresia, traducibile – almeno in prima istanza – con «parlar franco»44. Nozione complessa e tuttavia centrale, alla quale Foucault dedicò gli ultimi due corsi sottolineando a più riprese l’indeterminatezza costitutiva45 pur ipotizzando una possibile «storia della filosofia [...] come movimento della parresia, come redistribuzione della parresia, come gioco variegato del dire-il-vero»46, questo parlar franco si

tata 28 marzo 1984, fu dedicata proprio all’apertura di un campo problematica relativo al passaggio del dire-il-vero dall’antichità classica al cristianesimo; si veda M. Foucault, il coraggio della verità, cit. Per una precisa ricognizione delle permute fra la cultura greca e quella cristiana, si rimanda a. G. scarpat, Parrhesia greca, parrhesia cristiana, Paideia, Brescia 2001. 44

M. Foucault, discorso e verità nella grecia antica, tr. it., Donzelli, Roma 1997; da notare come si sia preferito mantenere l’ortografia del termine presente in Foucault rispetto a quella adottata da scarpat, lasciando ovviamente intatte le versioni originali nelle citazioni rispettive. Anche la prima parte del lavoro di Scarpat, Parrhesia greca, cit., è dedicata agli spostamenti semantici del termine e alle sue relazioni con altri plessi concettuali, sottolineando come sia possibile scorgere un movimento che estende il valore della parresia dalla sfera tecnico-politica, dove indica «la libertà del privato cittadino di dire quanto crede, come crede, contro chi crede [...] ed è all’inizio sinonimo di cittadinanza piena» (p. 35), anche a quella privata, dove invece si carica di un valore morale passando a significare «dire con franchezza, con coraggio, apertamente, pubblicamente» (p. 67). in questo caso, sfera privata va intesa nel senso più lato di “qualità personale”, ricongiungendosi alle problematiche relative alle dinamiche di soggettivazione sulle quali si sofferma a lungo Foucault. 45

M. Foucault, il governo di sé e degli altri, cit., p. 333. Anche G. scarpat, Parrhesia greca, cit., p. 126, propone di accostare in un

46

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stabilisce «al crocevia tra l’obbligo di dire il vero, tra le procedure e le tecniche di governamentalità e la costituzione del rapporto con se stessi47». Nella lettura foucaultiana è proprio la parresia il luogo dove per la prima volta vengono portati alla luce nella loro specificità e nella loro relazione complessa i problemi della governamentalità in quanto esercizio del potere tramite il discorso vero48, dato che questa condensa due ordini di questioni: una filosofico-politica legata al dir-vero all’interno di qualsiasi forma di governo e una filosofico-morale connessa alle tecniche di governo di sé in qualità di governanti sugli altri49. È utile ripercorrere il corso delle analisi di Foucault per meglio circoscrivere i principi necessari alla costituzione del dir-vero, in modo da sviluppare una riflessione più ampia sui rapporti tra la verità e le immagini all’interno del discorso politico. Nelle conferenze tenute a Berkeley nel 1982 compare una definizione molto precisa seppur al tempo stesso altrettanto generica e che viene spesso presa a modello esauriente per illustrare il concetto: la parresia è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una propria relazione con

passo di Clemente d’Alessandria la parresia alla sophia, privando cioè la prima delle sue connotazioni di franchezza in favore di una «possibilità di parlare» intesa come potenza di verità. 47

M. Foucault, il governo di sé e degli altri, cit., p. 51.

48

ivi, p. 157.

49

ivi, p. 290.

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la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere50.

Come si vede, dunque, si tratta di una definizione precisa perché individua con chiarezza i quattro punti sui quali la parresia si fonda, ma anche generica, dato che tratteggia questi punti dotandoli di una validità onnicomprensiva che abbraccia tutte le tipologie discorsive. Restringendo il campo al discorso politico, bisogna allora distinguere tra una pratica di certificazione del valore di verità degli enunciati (il confronto tra mondo diegetico ed extra-diegetico come fine proprio del film d’inchiesta che si propone di fare contro-informazione) e l’analisi delle condizioni di produzione della verità nei discorsi come orizzonte di quel cinema politico che pone una domanda di politica piuttosto che fornire risposte51. in termini foucaultiani, si tratta insomma di considerare contemporaneamente le strutture epistemologiche e le forme aleturgiche, prendendo in esame tanto l’organizzazione dei dispositivi discorsivi quanto la natura dei soggetti implicati. allo stesso tempo, è lecito domandarsi se dimensione pubblica e politica e dimensione privata e religiosa dell’atto di veridizione possano essere

50

M. Foucault, discorso e verità nella grecia antica, cit., p. 9.

51

su questa funzione del cinema politico si veda M. Grande, Eros e politica, cit.

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sovrapponibili. una prima conferma è fornita dal lavoro di scarpat, dove si traccia un sintetico ma efficace quadro della presenza della parresia in ambito religioso che, seppur depurata di ogni connotazione politica, viene legata esplicitamente a una particolare forma di confessione come intercessione dell’asceta presso Dio grazie alle proprie virtù personali e alla forza della sua preghiera: «questo tipo di confessione “laica” [...] è basata sulla parrhesia dell’asceta stesso: cioè sulla sua possibilità di parlare a Dio, di comunicare con lui, di intercedere presso di lui»52. In questo passaggio, ecco profilarsi nuovamente quella contiguità tra religione e politica posta però sotto un segno inverso rispetto alla tesi di Schmitt, in un certo senso inverando la formulazione di Jan assmann secondo la quale «tutti i concetti pregnanti – ma forse è il caso di parlare più modestamente di alcuni concetti centrali – della teologia sono concetti politici teologizzati»53. a partire da questa premessa, è possibile riprendere la definizione precedente di Foucault per estenderla e inserirla all’interno di un rettangolo che permette di contestualizzare meglio l’ambito di applicazione di tale nozione: condizione formale: la democrazia. condizione di fatto: l’ascendente o la superiorità di alcuni. condizione di verità: la necessità di un logos ra-

52

G. scarpat, Parrhesia greca, cit., p. 119.

J. Assmann, Potere e salvezza. teologia politica nell’antico Egitto, in israele e in Europa, tr. it., Einaudi, torino 2002, p. 20. 53

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gionevole. Infine condizione morale: il coraggio, il coraggio nella lotta. la parresia, credo, è costituita da questo rettangolo, con il vertice costituzionale, il vertice del gioco politico, il vertice della verità, il vertice del coraggio54.

così facendo, abbiamo ora delle condizioni individuali inserite dentro una situazione determinata che sanciscono il profilo del parresiasta come colui che esercita una libertà di parola a sprezzo del pericolo per il bene comune, separandosi dalla massa indistinta dei cittadini aventi in linea teorica il suo stesso diritto. come si vede, il campo individuato si rivela estremamente complesso, accorpando numerose varianti tutte necessarie ma non sufficienti, e al contempo instaura il paradosso di cui si rendeva conto prima, segnando cioè un discrimine tra esseri umani che si pongono in principio sullo stesso piano: «parlar vero per dirigere la città, in una posizione di superiorità in cui si è in gara perpetua con gli altri: a tutto questo, credo, si associa il gioco della parresia»55. la peculiarità agonistica per ottenere una posizione di preminenza non tarda a generare deformazioni: il grande risvolto della parresia è allora costituito dalla retorica sul piano tecnico e dall’adulazione su quello morale56. Pur senza addentrarsi nelle lunghe

54

M. Foucault, il governo di sé e degli altri, cit., p. 169.

55

ivi, p. 155.

56

id., l’ermeneutica del soggetto, cit., e in particolare la lezione del 10 marzo.

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analisi avanzate da Foucault a supporto di questa contrapposizione, si può proporre come principio generale il fatto che retorica e adulazione esercitano, anche in forme distinte, una volontà persuasiva che le obbliga comunque in un determinato momento ad adeguarsi alle aspettative dell’interlocutore, incanalandosi dunque dentro il sentiero tracciato dalla doxa e venendo meno a quel rapporto profondo e fondativo tra verità e sé proprio, invece, della parresia. attività che distingue gli uomini liberi entro la dimensione politica dell’esistenza, questo dir-vero libero e disinteressato entra in crisi nel momento in cui la libertà diventa appannaggio di individui che la pervertono recando danno alla stessa comunità: Dal momento che la parresia è concessa anche ai cittadini peggiori, la crescente influenza di oratori cattivi, immorali o ignoranti, può condurre la cittadinanza alla tirannide, o a mettere in qualche altro modo in pericolo la città. Perciò la parresia può essere pericolosa per la stessa democrazia. [...] L’individuazione di una necessaria antinomia tra parresia – libertà di parola – e democrazia, inaugurò un lungo e appassionato dibattito relativo specificamente alla natura dei rapporti pericolosi che sembravano intercorrere tra democrazia, logos, libertà e verità57.

Questo il quadro delle questioni sollevate dal dirvero nell’ambito del discorso politico. Nella presente

57

id., discorso e verità nella grecia antica, cit., p. 51.

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prospettiva, a questo primo ordine di questioni è però necessario affiancare un’altra problematica, relativa alla possibilità dell’arte di essere ancora uno “strumento di verità”. si deve a Pietro Montani la riproposizione di tale accostamento, posto significativamente all’interno di una ricognizione sul ruolo dell’arte e delle sue modalità di fruizione dall’antichità classica sino al presente58: in sostanza, l’arte è ancora uno strumento per interrogare le nostre prestazioni sensibili, fornendo pertanto gli strumenti in grado di comprendere la realtà? Questa domanda – alla quale Montani fornisce evidentemente una risposta affermativa – permette di tornare a guardare a il caimano come momento esemplare nelle tattiche di decostruzione delle forme della veridizione e di analisi critica dei dispositivi che definiscono le caratteristiche salienti del discorso vero nell’orizzonte politico e mediale contemporaneo. A tal proposito, è utile distinguere tra una pragmatica e una drammatica del discorso vero, ovvero tra l’efficacia dell’enunciato performativo veicolato da una situazione e la modificazione del modo d’essere del soggetto in relazione a un proprio atto enunciativo. «Esiste una drammatica politica del discorso vero?» si chiede improvvisamente Foucault introducendo il tema della parresia59. Esiste, certamente, e il dispo-

P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, cit.; si veda anche Id., Bioestetica, cit., in particolare il capitolo 1. 58

59

M. Foucault, il governo di sé e degli altri, cit., p. 74. su questa drammatica del discorso vero nel campo delle arti sceniche si

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sitivo confessionale ne è un esempio particolarmente efficace. Ma il discorso dell’esponente politico non esaurisce questa drammatica politica, rinvenibile – ed è il punto che a Foucault sta più a cuore – anche in altre tipologie discorsive, quelle dell’indovino, del profeta e soprattutto del filosofo. Sembra infatti che sia quest’ultimo, e forse non potrebbe essere altrimenti, il detentore di una specifica facoltà di opposizione al potere tramite un discorso specifico: A me sembra [...] che vi sia tutta un’altra maniera di caratterizzare, di definire ciò che può essere il reale della filosofia, il reale della veridizione filosofica, a prescindere, ancora una volta, del fatto che questa veridizione dica il vero o il falso. Ecco il marchio distintivo di questo reale: il fatto che la filosofia sia l’attività che consiste nel parlar vero, nel praticare la veridizione in rapporto al potere, e mi sembra che almeno in duemilacinquecento anni sia stato, senza fallo, uno dei principi permanenti della sua realtà60.

E ancora, più avanti: E allora, che cos’è la filosofia moderna, se proprio la si vuole leggere, lo ripeto, come una storia della

veda a. sforzini, dramatiques de la vérité: la parrêsia à travers la tragédie attique, in michel Foucault: éthique et vérité (19801984), a cura di D. lorenzini, a. Revel e a. sforzini, vrin, Paris 2013, pp. 139-160. 60

M. Foucault, il governo di sé e degli altri, cit., pp. 221-222.

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veridizione nella sua forma parresiastica? È una pratica che affronta la propria prova di realtà nel suo rapporto con la politica. È una pratica che trova nella critica dell’illusione, dell’inganno, dell’imbroglio e della lusinga la sua prova di verità. È infine una pratica che trova l’oggetto del proprio esercizio nella trasformazione del soggetto da parte di se stesso e del soggetto da parte dell’altro61.

Si profila a questo punto una duplice direzione intrapresa dal concetto di parresia intesa come direil-vero: da un lato una strettamente interna al discorso politico, di cui sono state evidenziate le perversioni specifiche legate alla contemporaneità, dall’altro la possibilità che delle tipologie discorsive si costituiscano come tali attraverso un rapporto conflittuale con il potere e i suoi discorsi62. il rilancio è quindi obbligato: la filosofia detiene una prerogativa esclusiva su questa forma di parresia, oppure è possibile estenderla anche ad altre tipologie discorsive, ad esempio il cinema? una prima indicazione per rispondere a tale quesito si trova in un’intervista che Foucault concede nel 1978, apparsa poi con il titolo La scena della filosofia, dove compare già un’analogia tra una messa in scena

61

ivi, p. 336.

Da tutt’altra prospettiva, Scarpat in Parrhesia greca, cit., p. 59, annota qualcosa di molto simile quando sottolinea come «nulla al popolo ateniese stette più a cuore che la parrhesia della commedia: la parrhesia fu considerata strumento efficacissimo per ammaestrare i politici e i capi partito». 62

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artistica e una “reale” nei termini di un rapporto critico che possa portare a emersione i meccanismi di funzionamento delle strategie discorsive, benché qui l’interesse per il teatro sia funzionale alla descrizione di una realtà – specificatamente medica – che non separa il vero dal falso e si dà sotto forma di rappresentazione e di sguardo attraverso l’allestimento di scene per la decifrazione dei sintomi63. È però solo nel corso del 1984 – seppur ai margini della trattazione – che emerge la possibilità che certe questioni affiorate negli ultimi anni di vita trovino un correlato all’interno di un regime estetico: l’arte moderna [...] ha una funzione che potremmo chiamare essenzialmente anticulturale. Bisogna contrapporre, al consenso della cultura, il coraggio dell’arte nella sua barbara verità. L’arte moderna è il cinismo [in senso filosofico] nella cultura, è il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. È soprattutto nell’arte, anche se non solo in essa, che si concentrano, nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire-il-vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire64.

63 M. Foucault, La scena della filosofia, in il discorso, la storia, la verità, cit.

id., il coraggio della verità, cit., p. 185, incisi miei; si veda anche la nota del curatore del corso Mario Galzigna che riporta un brano del manoscritto che Foucault decise di tralasciare in sede di lezione, contenente appunto dei possibili percorsi a partire dal rapporto fra cinismo e arte moderna.

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Per quanto intesa come pittura, letteratura o musica, questa arte moderna a cui Foucault fa riferimento «deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento»65: poche opere hanno preso alla lettera questo programma d’intenti quanto il caimano, che – quasi didascalicamente – ha tolto a una a una tutte le possibili maschere all’icona berlusconiana, per lasciarla affiorare nella nudità dell’io in quanto egli. Piuttosto che identificare la parresia solo nella prassi enunciativa di un soggetto che esibisce il coraggio della verità incurante del pericolo, come appunto nel caso esemplare di Pasolini, il percorso sviluppato attorno a questa nozione cardine ha cercato di ripensare questo particolare dir-vero in un’ottica più ampia di dispositivo discorsivo che attraversa i linguaggi e che non si esaurisce esclusivamente in un’attività verbale. Se la doxa (il senso comune dell’opinione pubblica) è modellata dai processi di messa in immagine della politica in termini di conformazione e consenso, l’aletheia (la verità caratterizzata da un processo di smascheramento, quella che Nietzsche opponeva alla veritas latina in quanto statica e precostituita) è all’opposto il principio primo della parresia nel suo senso migliore, il fondamento della politica degli uomini liberi. A sua volta, il rischio personale – una delle condizioni necessarie per la presenza di un discorso parresiastico – deve essere commisurato alle contingenze

65

ivi, p. 184, corsivi miei.

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storiche e culturali, come del resto Foucault stesso propone, rinvenendo nei testi la possibilità anche per i soggetti che detengono il potere di accedere al dir-vero. Nel campo cinematografico, allora, se il filone biografico – al quale il caimano è pienamente ascrivibile – può ambire a contrapporsi «al consenso della cultura» mettendo a nudo i meccanismi che presiedono all’efficacia delle icone del potere, questo è possibile solo frustrando l’orizzonte delle attese dello spettatore. E non è un caso che alcuni dei più recenti e significativi esempi di film biograficopolitici abbiamo incontrato una diffusa diffidenza tra critica e pubblico, scambiati ora per corposi trattati di storiografia, ora per caustici pamphlet che mettono alla berlina il biografato, ora al contrario per apologie degli eroi che siedono nel pantheon nazionale: in tutti i casi, peccando per difetto delle finalità a loro preliminarmente assegnate. se il caimano non mostra «quello che il pubblico di sinistra vuole sentirsi dire», come ironizza Moretti nella sua prima apparizione, è perché la parresia si definisce come contrario speculare della dossologia, ovvero il canto di lode alla Gloria tanto del sovrano quanto del senso comune: un film politico, piuttosto che ideologico, che dischiude lo spazio di un’interrogazione sulla possibilità di produrre un’immagine aperta e altra rispetto a quella cristallizzata e ridotta a cliché – un’immagine cioè che sollecita solo automatismi come unica modalità di fruizione66 – propria

Sulla differenza tra immagine e cliché si veda G. Deleuze, l’immagine-tempo, cit., pp. 31-33. 66

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v. il cinema italiano: un laboratorio analitico

di ogni figura pubblica trasformata in icona, positiva o negativa indifferentemente. È questo, evidentemente, un paradossale gesto iconoclasta da parte di un iconofilo, che mette in luce i rapporti conflittuali e complessi che intercorrono tra l’immagine e l’icona e che si interroga sulla «natura di ogni immagine e l’impossibilità di pensare e di governare senza di essa»67. Pensare e governare insieme a e attraverso di essa: il percorso dell’immaginazione sembra sostare di fronte a un bivio, credere all’efficacia conformatrice dell’icona, simbolo totale di un visibile dispotico, oppure credere all’enigma dell’immagine, quella resistenza a ogni chiusura che definisce una pratica di libertà. Ecco la funzione fondamentale delle riprese d’archivio di Berlusconi, che il film propone nel dispositivo che le incornicia – cioè la relazione medium-spettatori – in una posizione molto particolare dentro il racconto, tra la prima e la seconda maschera, tra il sosia sognato da Bonomo e l’attore che vuole presentarne “il lato umano” conservandone i tratti fondamentali di efficacia: il piacere dello spettacolo si divide allora tra la credenza dello spettatore e l’onnipotenza del presentatore. Dunque si tratta proprio del rapporto che collega la credenza al potere. Se n’è vista l’elaborazione secolare. Il dispositivo è ecclesiastico, anche

M.-J. Mondzain, immagine, icona, economia. le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, tr. it., Jaca Book, Milano 2006, p. 23, corsivi originali.

67

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se, ormai, la Chiesa non ne ha più il monopolio. Essa ne ha fornito il modello68.

si tratta di un problema centrale per il destino della comunità a venire, e che, nella scena presente segnata dalla proliferazione di schermi e dalla battaglia per il monopolio della visibilità (e chi lo detiene «s’impadronisce del pensiero e determina la figura della libertà»69), presenta una volta di più la sua natura teologico-politica, che una rinnovata verità dell’immagine contrapposta a un’immagine della verità può provare a incrinare.

68

ivi, p. 269.

69

ivi, p. 270.

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iconologia e teorica critica

cONclusiONi iconologia e teoria critica

svolgendo la trama di un dialogo immaginario che si è poi espanso al di fuori della stretta relazione tra Foucault, Pasolini e Petri, il percorso sin qui svolto ha cercato di mostrare la densa circolazione di concetti che intercorre tra l’ambito dell’audiovisivo e quello della riflessione filosofica. Il punto di convergenza delle diverse linee centrifughe è stato individuato nella nozione di potere pastorale, termine ampio e insieme molto angusto, che trova la sua efficacia in una serie di pratiche ben definite – tra le quali la confessione è solo la punta più visibile di un complesso sistema di direzione spirituale – e la sua ragion d’essere all’interno di un paradigma teologico-politico che sembra costituire tuttora un nodo enigmatico per comprendere la relazione complessa tra individuo, potere e comunità1. il potere pastorale,

1

in questa accezione il teologico-politico sembra sovrapporsi alla teologia politica, intesa come «relazione tra sfera teologica e sfera giuridico-politica posta o in forma di analogia strutturale – e dunque in chiave esclusivamente ermeneutica – oppure, più strumentalmente, in chiave di legittimazione religiosa del potere», R. Esposito, immunitas, cit., p. 79.

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si è visto, si configura come anello intermedio tra la sovranità e il biopotere; la sua specifica natura consente di mettere in luce la dimensione secolarizzata della moderna gestione dello stato, divisa a sua volta in conformità con le due vocazioni di regno e di governo desumibili soprattutto dal pensiero dei Padri della Chiesa: lo stato moderno eredita, infatti, entrambi gli aspetti della macchina teologica del governo del mondo, e si presenta tanto come stato-provvidenza che come Stato-destino. Attraverso la distinzione fra potere legislativo o sovrano e potere esecutivo o di governo, lo stato moderno assume su di sé la doppia struttura della macchina governamentale. [...] il paradigma economico-provvidenziale è, in questo senso, il paradigma del governo democratico, così come quello teologico-politico è il paradigma dell’assolutismo. [...] La vocazione economico-governamentale delle moderne democrazie non è un incidente di percorso, ma è parte integrante dell’eredità teologica di cui sono depositarie2.

al di là della sin troppo netta distinzione operata da agamben e delle implicazioni più attinenti alla teoria politica, che comunque sono affiorate ampiamente nel corso delle analisi, la «consacrazione del corpo politico da parte della sfera religiosa, in breve

2

G. agamben, il regno e la gloria, cit., pp. 159-160.

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l’unità del corpo teologico-politico»3 è un problema che ha sempre interessato la teoria della rappresentazione4. Ed è proprio qui che quanto emerso nelle pagine precedenti può allora trovare provvisorio compimento: si tratta della possibilità che il cinema sia in qualche modo in grado di incrinare il brusio della macchina teologico-politica in quanto soggetto di pensiero caratterizzato – come sostenuto da Esposito sulla base dei lavori di Deleuze – da una specifica declinazione impersonale5. anzi, si potrebbe dire che il cinema è uno dei luoghi più produttivi per un pensiero che «anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia l’autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria. A differenza della filosofia e della teoria, il pensiero è in quanto tale sempre “in atto”, attivo e attuale, così come ogni atto porta dentro di sé una traccia di pensiero»6. il cinema, insomma, non si limita a rappresentare in termini critici le forme esteriori di questo plesso tra teologia e politica, ma può essere in grado di cristallizzare dentro un’immagine le coordinate strutturali

3 l. Marin, Philippe de Champaigne ou la présence cachée, hazan, Paris 1995, p. 180, traduzione mia. 4

un esempio recente di questo perdurante interesse si trova in c. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, cit. 5 R. Esposito, due. la macchina della teologia politica e il posto del pensiero, torino, Einaudi 2013, pp. 213-214. sul concetto di brusio come rumore di fondo del perfetto funzionamento di una macchina il riferimento è a R. Barthes, il brusio della lingua, Saggi critici iv, tr. it., Einaudi, torino 1988.

R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, torino 2016, pp. 158-159. 6

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di questa relazione archetipica per disarticolarle, sovvertirle, decostruirle. le pagine precedenti possono dunque essere considerate come un piccolo tentativo di definizione e aggiornamento di un’iconologia del presente, intendendo con questa espressione un discorso specifico sulle immagini che affronti la configurazione visiva delle problematiche teoriche che emergono dalle pratiche quotidiane7. Non si tratta dunque di una teoria critica applicata alle immagini, ma propriamente di una teoria critica delle immagini, dei loro effetti e del loro uso sociale. E se tutte queste immagini che affollano lo spazio del visibile contemporaneo sono di principio confrontabili le une con le altre, non tutte occupano lo stesso posto o esibiscono la stessa profondità configurativa. Da sempre la sfera dell’arte si è fatta carico di dare forma alla relazione tra l’essere umano e il mondo, inventando di volta in volta i modi più opportuni; ma dal momento della sua affermazione – all’incirca negli anni ‘20 del Novecento – è stato il cinema a sviluppare nei termini forse più esemplari quella capacità di negoziazione tra le diverse istanze che circolano all’interno del corpo sociale: «il cinema negozia per mettere in forma, e mettendo in forma negozia; lo fa per cercare dei compromessi, ma facendolo provoca anche una

7 Per una riflessione sul ruolo dell’iconologia nell’ambito della cultura visuale si rimanda ai lavori di W.J.T. Mitchell, in particolare id., iconology. image, text, ideology, University of Chicago Press, Chicago 1986, e Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. cometa, :due punti edizioni, Palermo 2008.

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ri-articolazione dei concetti preesistenti»8. Se il cinema è un luogo specifico di produzione di pensiero, è per questo che gli studi sul cinema sono diventati un luogo cruciale dove rinvenire delle elaborazioni teoriche complesse che, mettendo in relazione ambiti disciplinari eterogenei, sono in grado di riformulare i plessi concettuali della contemporaneità dentro una cornice empirica. Perché il cinema continua a essere, tra le tante altre cose, sempre e comunque anche una finestra sul mondo. Se c’è dunque un aspetto che la filmologia (come sottocategoria dell’iconologia evidentemente) può offrire alle altre discipline è la sua costitutiva impurità, dovuta al suo essere sempre «alle prese con la singolarità delle opere, la determinatezza dei problemi, la dispersività dei discorsi, la concretezza delle situazioni, la forza delle idee, la rete dei valori»9, ma anche per essersi formata attraverso la sedimentazione di impulsi disparati, a partire dagli studi psicologici e teatrali, poi letterari, sociologici, storico-artistici, semiotici, filosofici, critici e oggi neuroscientifici: una materia nata e cresciuta sotto il segno della manchevolezza, di «una sua inalienabile “fragilità” epistemologica»10, e forse di un complesso di inferiorità, ma che proprio per questo vive la sua maturità in libertà. in un momento nel quale il cinema sembra un oggetto del passato, almeno in italia si riscoprono la

8

F. casetti, l’occhio del novecento, cit., p. 278.

R. De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia, Rubbettino, soveria Mannelli (cZ) 2017, p. 14.

9

10

ivi, p. 10.

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capacità dei film nell’orientare il dibattito pubblico (e Checco Zalone è solo la voce più chiassosa di questa ritrovata loquela), l’unicità della sala cinematografica come esperienza della visione – arrivando addirittura a invertire il processo di appropriazione di contenuti da parte del suo storico “nemico”, la televisione (gli ultimi due episodi di il commissario montalbano proiettato sul grande schermo) – e la dimensione sociale dei festival cinematografici. Non basterà certo tutto ciò a riportare il cinema al centro del sistema culturale, anche perché nel frattempo altri media si sono affacciati all’orizzonte e il cinema è appunto fragile, esposto ai marosi dell’economia, della politica, finanche – oggi – della salute, ma innegabilmente la settima arte ha ritrovato un prestigio e un’autorevolezza che sembravano destinati a tramontare inesorabilmente. Se questo è anche merito dei discorsi sul cinema – e a quelli che attorno a esso gravitano – sviluppati in questi ultimi anni, non è forse possibile dirlo con certezza; ad ogni modo, è arrivato il momento che questi comincino a ritagliarsi un rinnovato spazio di visibilità all’interno della sfera pubblica. In un’epoca da più parti descritta – non senza valide argomentazioni – tanto come post-teorica quanto come post-cinematografica, la teoria del cinema sembra paradossalmente un bagaglio indispensabile per affrontare sia lo scenario delle immagini contemporanee sia – più in generale – alcuni dei nodi più spinosi ed enigmatici del contemporaneo. O meglio, non così paradossalmente: forse è proprio perché siamo oltre la Grande Teoria e il Grande Cinema che la teoria del cinema può mostrare oggi questa sua efficacia ermeneutica, se non propriamente epistemologica. 308

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al di là della Grande teoria non si trova infatti un’altra Teoria, ma tante teorie e l’atto stesso del teorizzare. Una teoria del film definisce un problema all’interno del campo del cinema (definito non dogmaticamente) e si dispone per risolverlo attraverso il ragionamento logico, la ricerca empirica, o una combinazione dei due. L’atto teoretico è un impegno a usare i migliori canoni di inferenza ed evidenza per rispondere alla domanda posta. Gli standard devono essere quelli della speculazione filosofica più stringente, dell’argomentazione storica, dell’analisi sociologica, economica e critica disponibili, tanto negli studi sul cinema quanto altrove (anche nel campo scientifico)11.

È passato quasi un quarto di secolo da queste parole di David Bordwell e Noël carrol: è forse arrivato il momento di estendere quella che per loro era una presa di posizione polemica rinchiusa dentro il campo

11

Post-theory. reconstructing Film Studies, a cura di D. Bordwell e N. Carrol, The University of Wisconsin Press, Madison 1996, p. XIV, traduzione mia dall’originale inglese: «What is coming after Theory is not another Theory but theories and the activity of theorizing. A theory of film defines a problem within the domain of cinema (defined nondogmatically) and sets out to solve it through logical reflection, empirical research, or a combination of both. Theorizing is a commitment to using the best canons of inference and evidence available to answer the question posed. The standards ought to be those of the most stringent philosophical reasoning, historical argument, and sociological, economic, and critical analysis we can find, in film studies or elsewhere (even in science)».

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disciplinare (“ricostruire gli studi filmici” è infatti il presupposto esplicito del volume) alla più ampia sfera culturale del presente. la teoria del cinema alla quale si sta facendo riferimento è appunto questa speculazione che nasce dalla prassi e che in essa ritorna, una teoria che sorge da quelle opere teoriche che, come puntualizzava Damisch, ci obbligano a fare teoria. Oggetti cioè che producono un pensiero che starà all’analista, allo studioso, raccogliere e sistematizzare in una teoria che tuttavia sarà sempre spuria e sempre aperta, puntellata da pilastri solidi e imprescindibili ma insieme cangianti e in divenire, felicemente esposta al mutare delle coordinate storiche e culturali. Un pensiero che produce (nei casi più fecondi, evidentemente) altro pensiero12. Ma questo vale tanto di più per la teoria del cinema perché il cinema – in quanto insieme delle immagini in movimento – non è più quel “Grande Cinema” definito esclusivamente dal canone degli autori e delle opere, ma è diventato un «fornitore di mondi d’immagine e di mondi virtuali di pressoché illimitata ampiezza. Non è più una forma d’arte celebrata solo in proiezioni pubbliche ma un medium di espressione culturale facilmente accessibile attraverso sistemi di comunicazione informali»13. il Sull’«infrastrutturalismo» della teoria del cinema «come condizione attiva […] che rende comunque possibili e fruttuosi la riflessione, il discorso, il confronto con altre discipline» si veda l’Introduzione di A. D’Aloia e R. Eugeni a teorie del cinema. il dibattito contemporaneo, a cura di iid., Raffaello cortina, Milano 2017, pp. 11-12. 12

M. Hagener, V. Hediger e A. Strohmaier, Introduction: Like Water: On the Re-Configurations of the Cinema in the Age of 13

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cinema è dunque sia la forma artistica sia il medium che più è uscito fuori da sé stesso, che è stato cioè capace di pensarsi al di fuori del suo tradizionale ambito di pertinenza: oggi è il cinema stesso che si sta rilocando su nuovi dispositivi e in nuovi ambienti sociali, e che dunque cerca di uscire da una propria strettoia. È lui che è messo in discussione, e che deve cercare un terreno su cui far valere la propria lezione. […] Potremmo infatti pensare, un po’ alla Ejzenštejn, che il cinema faccia oggi quello che ha fatto ieri con le altre arti; esso cercherebbe un nuovo terreno per potersi guardare dentro, e trovare così nuove inespresse ragioni. […] in questo senso, il suo spostamento metterebbe in gioco un vero rinnovamento, non solo la voglia di sopravvivere14.

Ecco che dunque il cinema pensa il mondo pensando sé stesso, proprio perché non esiste più una netta separazione tra cinema e mondo, tra cinema come immanenza di una trascendenza mondana che

Digital Networks, in the State of Post-Cinema. tracing the moving image in the age of digital dissemination, a cura di iid., Palgrave Mcmillan, london 2016, p. 9, traduzione mia dall’originale: «Film has become a purveyor of image worlds and virtual worlds of seemingly unlimited scope. it is no longer an art form celebrated only at public screenings, but a medium of cultural expression easily attainable through informal communication». 14

F. casetti, la galassia lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015, pp. 327-328.

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lo informa e lo definisce: quella finestra è sempre e comunque anche uno specchio, rivolto però in entrambe le direzioni. E se il pensiero cinematografico può appunto incrinare quel brusio della macchina teologico-politica è perché, più che altrove, «pensa solo ciò che non è riuscito ancora a pensare. Esso non è situato soltanto fuori del soggetto […] ma anche fuori di sé stesso»15, cioè fuori dal cinema e dentro il mondo, che però sono l’uno l’involucro dell’altro, l’uno l’orizzonte di intelligibilità dell’altro: «l’unico varco, non per uscire dall’orizzonte della macchina ma per rovesciarlo in senso affermativo, è la definizione di un piano di immanenza non opposto alla trascendenza ma coincidente con essa»16. Più che deprecare «la deriva dell’immaginario» che sembrava farsi trasportare dalle correnti inesorabili della trasformazione della realtà in simulacro17, conviene invece accettare l’espansione del filmico nella realtà, che paradossalmente ha avuto come effetto quello di ripristinare il realismo come tonalità fondamentale delle immagini in movimento. Nel momento in cui la nostra quotidianità sociale è sorretta e scandita dalle immagini, le immagini diventano il terreno critico elettivo sul quale misurare le linee di tensione che attraversano il presente, proprio perché i confini tra i due sono pressoché svaniti: e dove tro-

15 R. Esposito, due. la macchina della teologia politica e il posto del pensiero, cit., p 218. 16

ivi, p. 219.

17

si veda M. Grande, la deriva dell’immaginario, in id., il cinema in profondità di campo, Bulzoni, Roma 2003, pp. 71-73.

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vare le basi più solide per una tale interrogazione se non nella teoria del cinema che, da oltre cento anni, forse non sognava che questo istante, l’istante in cui cinema e vita sarebbero davvero coincisi non solo per i cinefili più incalliti, ma per tutta la popolazione mondiale? *** Mentre finisco di scrivere queste pagine, il SARScoV-2 – o più amichevolmente Coronavirus – si sta diffondendo nel mondo, costringendo i governi e i cittadini a fare i conti con la politica dell’emergenza su una scala impensabile in tempo di pace, la cui portata e le cui conseguenze non sono nemmeno prevedibili. come preconizzato da todo modo, i notiziari sono scanditi dalla conta dei morti e dei contagiati, ai quali si cerca di far fronte con pratiche immunizzanti finalizzate a isolare il corpo sociale in segmenti piccoli e facilmente controllabili. L’eccezione preme sui contorni della quotidianità, sospendendo il normale fluire delle azioni e dell’universalità della legge per stabilire l’arbitrarietà della decisione sovrana ora in mano ai singoli governi, senza l’ombra di una politica comune capace di ridefinire l’orizzonte globale di fronte all’interrogativo, prima ancora che alla minaccia, avanzato dall’epidemia. Tuttavia, non voglio ricorrere qui a facili e meccaniche applicazioni della terminologia biopolitica, che pure a prima vista parrebbe descrivere perfettamente la situazione in corso, forse perché l’oggetto stesso del discorso attiene realmente al piano immunologico, con il ri313

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schio di generare degli effetti grottescamente (auto) parodici. Credo sia invece più interessante riflettere velocemente su due questioni che sintetizzano quanto detto sinora. La prima riguarda l’efficacia del concetto di potere pastorale per inquadrare le politiche messe in atto in questo frangente. Quanto sembra infatti essere stato chiamato radicalmente in causa è l’idea di “vita assicurata”18, sia perché le procedure profilattiche lavorano nella direzione di immunizzare il corpo sociale dall’espansione del contagio, sia, al contrario, perché queste stesse politiche sono state accolte sufficientemente di buon grado da parte dei singoli cittadini, molti dei quali sperimentano per la prima volta in prima persona la fragilità della propria vita qualificata, del proprio bios. Ma non è forse questo lo scenario ideale del potere pastorale? Una specifica forma governamentale che agisce nella cornice del male minore e si fa carico della salvezza di tutti pur nella dirimente componente individualizzante: prendersi cura della popolazione come soggetto collettivo senza tralasciare alcun individuo, alcuna pecora del gregge. Chi ha sottovalutato questa doppia attenzione necessariamente compresente è stato costretto a tornare sui propri passi, come il Premier inglese Boris Johnson che aveva inizialmente parlato proprio di «immunità di gregge» senza tuttavia considerare l’immunizzazione preventiva dei singoli componenti:

18

sulla vita assicurata come problema estetico si rimanda a P. Montani, Bioestetica, cit., in particolare pp. 9-15.

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è bastata poco più di una settimana (e la concomitante contrazione del virus da parte dello stesso Johnson) perché la società britannica si adeguasse alle disposizioni assunte dagli altri Paesi. E dato che il potere pastorale è indissociabile da una volontà di sapere, sono già apparsi all’orizzonte dispositivi che monitorano tanto la popolazione (droni, controllo delle celle telefoniche) quanto gli individui (app da scaricare sul proprio telefono che registrano la temperatura corporea ed entrano in relazione con altri telefoni sui quali è installata la stessa app per ricostruire, in caso di malattia, la storia e la geografia del singolo contagio). la seconda questione concerne la capacità di premediazione delle immagini, quella lungimiranza immaginativa che mette in forma gli eventi prima ancora del loro accadere e che in qualche modo fornisce loro una cornice di senso in grado di opacizzare un minimo quella trasparenza estrema dettata dall’irruzione subitanea e dirompente del Reale catastrofico e traumatico19. Date queste premesse, è chiaro che questo approccio estetico è spesso integrato agli interessi economici e politici: «La premediazione ha fornito all’amministrazione Bush la logica mediale della dottrina della guerra preventiva: in un regime politico di guerra preventiva, la premediazione è

19 il concetto di premediazione è stato sviluppato da R. Grusin, Premediation, in id., radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di a. Maiello, cosenza, Pellegrini 2017, pp. 91-136.

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diventata il regime mediatico dominante»20. Eppure, ci sono casi in cui la tonalità apocalittica della premediazione agisce evidentemente con una funzione critica, andando a sollecitare in anticipo una specie di benjaminiano “inconscio ottico collettivo” e chiedendo agli spettatori di prolungare attivamente – di immaginare nel senso più pieno del termine – quelle rappresentazioni, così da farsi trovare preparati di fronte all’irruzione emergenziale21. Il cinema italiano, anche in questo caso, costituisce un terreno particolarmente interessante da indagare: diversamente da buona parte del filone fantascientifico e catastrofista hollywoodiano, infatti, le distopie create non trovano risoluzione, non mostrano cioè la possibilità di superare l’eccezione normalizzandola in termini consensuali, ma rimangono in una situazione di sospensione indefinita (quale quella di questo frangente storico, propriamente), se non addirittura si concludono con la morte. todo modo ne fornisce la versione forse più cruenta e irreversibile, ma, ad esempio, tutto il cinema di Marco Ferreri concorre a questo orizzonte – basti pensare a il seme dell’uomo del 1969, giocato anch’esso sulla dialettica tra epidemia e isolamento.

20

ivi, p. 116.

21

si veda in proposito P. amato e a. cervini, apocalisse e normalità, in “Fata Morgana Web”, 30 marzo 2020, https://www. fatamorganaweb.unical.it/index.php/2020/03/30/coronavirusapocalisse-e-normalita/ (ultima consultazione 15 aprile 2020). Per una prospettiva più generale si rimanda inoltre a M. Dinoi, lo sguardo e l’evento, cit.

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iconologia e teorica critica

Seguendo questa traccia, mi piacerebbe però che fosse il versante emancipativo di questa produzione filmica a essere enfatizzato e considerato come punto iniziale di una riflessione futura. Se c’è un aspetto che sembra legare assieme queste opere – penso ancora ad habemus Papam o a Bella addormentata, il film del 2011 di Marco Bellocchio dedicato alla vicenda di Eluana Englaro – è la possibilità di leggervi in filigrana quella crisi della governamentalità già percepibile a partire dalla fine degli anni sessanta; una crisi che sinora era in qualche modo riuscita a celarsi dietro la capacità di catturare e contenere le spinte radicalmente riformatrici – se non propriamente rivoluzionarie – dentro le maglie della sua forza seduttrice. Ma questa governamentalità in crisi, che prova a dare disperati segni di vita con una pervasività asfitticamente capillare, può essere affrontata attraverso le fratture che questi film hanno immaginato – o forse più propriamente premediato – per inventare un’arte di non essere troppo governati, come recita un recente libro di Jean-Claude Monod22, provando a riappropriarsi della disponibilità del consumo del tempo individuale, a svincolarsi dalla necessità della produzione e della crescita, a ripensare in profondità il concetto di beni comuni. Un’arte tutt’altro che riduttiva o rinunciataria, piuttosto consapevole che uscire dalla macchina è impresa impossibile e che l’unica soluzione sia trasformarla dall’interno in senso affermativo, “profanando” quelle componenti

J.-C. Monod, l’art de ne pas être trop gouverné, seuil, Paris 2019. 22

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a loro volta già oggetto di cattura e risemantizzazione da parte della macchina stessa. Ma questo solo se saremo in grado di leggere davvero quelle immagini, di comprenderle cioè nella loro estensione più ampia e più profonda, riuscendo a coglierne il senso stratificato attraverso le diverse componenti del suo proprio linguaggio. Sì, la teoria del cinema, oggi, ha davvero molto da dire alla teoria critica, più di quanto la teoria critica stessa sia forse disposta ad ammettere.

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Indice dei nomi e dei film

iNDicE DEi NOMi E DEi FilM

12 dicembre (G. Bonfanti, P.P. Pasolini, 1972), 81 accattone (P.P. Pasolini, 1961), 79 addis, Maria cristina, 32n agamben, Giorgio, 32n, 47n, 48, 49n, 50 e n, 97n, 98n, 100n, 152n, 193n, 215, 237n, 242 e n, 243n, 249n, 276 e n, 304 e n agosti, silvano, 248 Agostino d’Ippona, 250 alberti, leon Battista, 136n Alighieri, Dante, 168 amarcord (F. Fellini, 1973), 249 amato, Pierandrea, 316n amelio, Gianni, 288 andreotti, Giulio, 182, 269, 280n anna (A. Grifi, 1975), 264 antonelli, alessandro, 263

antonello, Pierpaolo, 281n Antonioni, Michelangelo, 94 arancia meccanica (a Clockwork Orange, s. Kubrick, 1971), 62, 66 arasse, Daniel, 103n arena, aniello, 259 Arendt, Hannah, 48 e n, 240, 241 e n, 280 e n assassino, l’ (E. Petri, 1961), 81 Assmann, Jan, 292 e n Bacon, Francis, 49n Barenghi, Mario, 171n Barthes, Roland, 74 e n, 92, 93 e n, 94, 95, 141 e n, 174 e n, 175, 177n, 184, 186, 218n, 237, 305n Bazzocchi, Marco Antonio, 20n, 84n Bella addormentata (M.

Non figurano nell’indice le voci: Michel Foucault; Pier Paolo Pasolini; Elio Petri.

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Indice dei nomi e dei film

Bellocchio, 2011), 317 Bellocchio, Marco, 249, 317 Benedetti, carla, 84n, 120n Benjamin, Walter, 72n Bentham, Jeremy, 56 Benveniste, Émile, 287n Bergson, henri-louis, 213n Berlusconi, silvio, 283, 284, 301 Bernardo di Chiaravalle, 206, 210 Bernini, Gian lorenzo, 210 Bertetto, Paolo, 260n Bifolco, Davide, 263 Bisoni, claudio, 87n Bois, Yves-alain, 52n Bolkan, Florinda, 85 Bonacelli, Paolo, 117 Bordwell, David, 309 e n Borgna, Gianni, 120n Bracken, Bertram, 252 Brindisi, Gianvito, 37n Brion, Fabienne, 282n Bruno, Marcello Walter, 78n Bucci, Flavio, 86, 270 Burch, Noël, 167n Butler, Judith, 11n, 79n cacciari, Massimo, 196n, 276n Cadaveri eccellenti (F.

Rosi, 1976), 193, 194 Caimano, il (N. Moretti, 2006), 283, 284, 287, 295, 299, 300 calabrese, Omar, 52n, 65, 98n, 137n, 140 e n caldiron, Orio, p. 17 calvino, italo, 146n, 171n canadè, alessandro, 72n, 78n, 100n, 129n canova, Gianni, 132n, 220n careri, Giovanni, 59n, 198n, 212n, 214n carrol, Noël, 309 e n casanova, Giacomo, 184 caselli, Giancarlo, 281n casetti, Francesco, 57 e n, 64n, 65 e n, 240, 285n, 307n, 311n cataldi, Giorgio, 117 catucci, stefano, 13n cervini, alessia, 264n, 316n Chantelou, Paul Fréart de, 199n Chateau, Dominque, 67n Che cosa sono le nuvole? (P.P. Pasolini, 1968, episodio di Capriccio all’italiana, autori vari), 75 Chessari, Umberto, 124 Chiaretti, Tommaso, 80 Chion, Michel, 164n citti, Franco, 150

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Indice dei nomi e dei film

citti, sergio, 87 Classe operaia va in Paradiso, la (E. Petri, 1972), 70, 85 Clemente d’Alessandria, 290 clooney, George, 252 Club, il (El Club, P. larraín, 2015), 254 codeluppi, vanni, 10n Coderch, Anna Maria, 203n Cometa, Michele, 16n, 306n Comizi d’amore (P.P. Pasolini, 1963), 76, 78 Commissario montalbano, il (a. camilleri, a. sironi, 1999-in produzione), 308 Confession (s. Franklin, 1918), 252 Confessione per telefono, la (G. velle, 1908), 252 Confessioni di una mente pericolosa (Confessions of a dangerous mind, G. clooney, 2002), 252 Conseguenze dell’amore, le (P. sorrentino, 2004), 270, 271 corrain, lucia, 133n, 137n, 193n costa, antonio, 139n

coviello, Massimiliano, 254n, 272n, 278n Crary, Jonathan, 32n, 65 cremonesi, laura, 37n Damisch, Hubert, 52n, 134n, 224 e n, 228, 310 Davoli, Ninetto, 75, 171 decameron (P.P. Pasolini, 1971), 14 De Gaetano, Roberto, 17n, 59n, 72n, 179n, 181n, 255n, 284n, 307n De Giorgi, Elsa, 129 De laude, silvia, 74n, 78n, 84n, 103n Deleuze, Gilles, 15 e n, 17, 18n, 51n, 59n, 65n, 116n, 148n, 152n, 158, 159n, 160 e n, 167n, 187n, 190n, 204 e n, 213n, 267n, 300n, 305 de sade, DonatienAlphonse-François, 77, 78, 83, 88, 89, 9395, 96n, 107, 108, 112, 116, 117, 141, 142, 147, 148, 154, 156, 157 e n, 173, 175, 185, 186, 193n, D’Agostini, Franca, 26n D’Agostino, Gianna, 76n D’Aloia, Adriano, 310n Dinoi, Marco, 17n, 139 e n, 237 e n, 238n, 239n, 316n Dionigi areopagita, 184 321

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divo. la spettacolare vita di giulio andreotti, il (P. sorrentino, 2008), 269-271, 281n Donghi, Lorenzo, 180n Dottorini, Daniele, 65n Dreyfus, hubert, 13n, 40n Ecco l’impero dei sensi (愛のコリーダ ai no korīda, N. Ōshima, 1976), 106n Eco, umberto, 107n, 158 Elias, Norbert, 35n Englaro, Eluana, 317 Esposito, Roberto, 32n, 48n, 49n, 97 e n, 101n, 117n, 119 e n, 148n, 155n, 197n, 239 e n, 255n, 303n, 305 e n, 312n Eugeni, Ruggero, 310n Fabre, Pierre-antoine, 198n Fellini, Federico, 249 Ferrari, Daniela, 184n Ferrente, agostino, 259, 263, 265 Ferrera, Maurizio, 26n Ferreri, Marco, 99, 101, 249, 316 Ferrero, adelio, 172n, 177n Finestra su cortile, la (rear Window, a.

Hitchcock, 1954), 55 Fonseca, Gabriele, 212n Fontana, alessandro, 25n Fourier, Charles, 95, 99n Franklin, sydney, 252 Frau Dorothy Bekenntniss (M. Kertész, 1921), 252 Freud, sigmund, 55n, 201n Galzigna, Mario, 298n Garrone, Matteo, 259-261 Genette, Gerard, 188n Gentili, Dario, 72n Ghelli, Simone, 179n Gili, Jean Antoine, 69 e n, 83 e n, 91n Ginzburg, carlo, 243n, 305n giorni contati, i (E. Petri, 1962), 81 giuseppe Pinelli (comitato cineasti italiani contro la repressione, 1970), 81 Glaser, Paul Michael, 53 Grande, Maurizio, 17n, 100n, 187n, 189n, 291n, 312n grande abbuffata, la (la grande bouffe, M. Ferreri, 1973), 99 Greene, Ronald Walter, 54n Grifi, Alberto, 264

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Indice dei nomi e dei film

Grusin, Richard, 315n Guerrini, Riccardo, 17n, 271n Gutman, huck, 8 habemus Papam (N. Moretti, 2001), 288, 317 hadot, Pierre, 42n, 44n, 147, 219, 237, 250n hagener, Malte, 311n hammamet (G. amelio, 2020), 288 harcourt, Bernard E., 282n hediger, vinzenz, 311n héry, Emilie, 123n Hitchcock, Alfred, 55, 253 Hobbes, Thomas, 243 hollier, Daniel, 52n hutton, Patrick h., 8 iamurri, laura, 123n ignazio di loyola, 43 e n, 45n, 94, 95, 146n, 179, 180, 197n, 199n, 205n, 213 illuminati, ilvo, 252 implacabile, l’ (the running man, P.M. Glaser, 1987), 53 indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E. Petri, 1970), 15, 70, 85, 234 io confesso (i Confess, a. Hitchcock, 1953), 253

ipotesi sulla morte di Pinelli (comitato cineasti italiani contro la repressione, 1970), 81 ippolita, 10n Johnson, Alexander Boris de Pfeffel, 314 Jouin, Céline, 255n Kertész, Michael, 252 Kessler, alice, 126 Kessler, Ellen, 126 Kirchmayr, Raoul, 20n, 78n Krauss, Rosalind, 52n Kubrick, stanley, 62 larraín, Pablo, 254 Lacan, Jacques, 55n, 148n leibniz, Gottfried Wilhelm von, 160 lo Forte, Guido, 281n lombardi, Giancarlo, 281n lorenzini, Daniele, 296n lorusso, anna Maria, 28n maestro di vigevano, il (E. Petri, 1963), 82 Maiello, angela, 315n Mandel’štam, Osip Ėmil’evič, 83 Maniglier, Patrice, 18 Manni, Ezio, 128 Marcus, Millicent, 281n 323

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Marin, louis, 133n, 136n, 137n, 158n, 163n, 174n, 199n, 250n, 265n, 287n, 305n Marini.Maio, Nicoletta, 278n Marrone, Gianfranco, 63n, 190n Martin, Luther H., 8 Marwick, alice, 257n Mastroianni, Marcello, 12 Mastronardi, lucio, 82 Mauri, Fabio, 122 Mazzoni, Guido, 250n McDowell, Malcolm, 62 Melato, Mariangela, 12, 86 Merleau-Ponty, Maurice, 55n, 75n, 132, 133n, 219 e n, 238, 239 e n Metz, Christian, 55n, 192n, 226 e n Micciché, Lino, 103n Michon, Philippe, 264n Migliore, tiziana, 272n Mirman Brad, 252 Mirzoeff, Nicholas, 264n Mitchell, William John Thomas, 98n, 306n Moar, Renata, 129 Mondzain, Marie-Josè, 301n Monod, Jean-Claude, 317 en Montani, Pietro, 11n, 48n, 60n, 133n, 164n, 219n,

239n, 241, 242n, 258n, 267n, 295 e n, 314n Moravia, alberto 84 Moretti, Nanni, 283 e n, 284, 286, 300 Moro, aldo, 89, 90, 182, 186, 218n, 279 Moroncini, Bruno, 84n Mozzati, tommaso, 80n Mughini, Giampiero, 90n Murillo, Bartolomé Esteban, 208 Murri, Serafino, 165n Natoli, salvatore, 27 e n nel nome del padre (M. Bellocchio, 1971), 249 Nicolodi, Daria, 86 Nietzsche, Friedrich, 299 notti dei teddy Boys, le (l. savona, 1959), 80 n.P. – il segreto (s. agosti, 1971), 248 Offenbach, Jacques, 126 Orff, carl, 168, 169 Orgoglio degli amberson, l’ (The Magnificent ambersons, O. Welles, 1942), 285 Orlando, Orazio, 71 Orlando, Pietro, 263 Orlando, silvio, 283 Orwell, George, 60, 61, 62n, 242 Ōshima, Nagisa, 106n

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Palombi, Fabrizio, 92n, 157n Pane, caroline, 123n Paolo di tarso, 175, 198 Papa Francesco i [Bergoglio, Jorge Mario], 9 Papa Gregorio Xv [ludovisi, alessandro], 205n Papa Pio Xii [Pacelli, Eugenio Maria Giuseppe Giovanni], 249 Pasquino, Pasquale, 25n Passananti, Erminia, 149n, 165n Perugini, Nicola, 11n, 36n Piccoli, Michel, 182 Pinocchio (M. Garrone, 2019), 261 Pinotti, andrea, 184n Pirisino, claudio, 123n Pitassio, Francesco, 82n Placido, Michele, 283 Ponzi, Mauro, 72n Pound, Ezra, 168 Poussin, Nicholas, 199n, 287n Proprietà non è più un furto, la (E. Petri, 1973), 70, 81, 86, 270 Prosperi, adriano, 35n Quintavalle, uberto Paolo, 124 Rabinow, Paul, 13n, 40n racconto dei racconti, il

(tale of tales, M. Garrone, 2015), 261 Randone, salvo, 82 Ravesi, Giacomo, 263n reality (M. Garrone, 2013), 259, 260, 264, 267 Revel, Judith, 296n Rigola, Gabriele, 69n, 72n, 82n Risi, Nelo, 81 Rosi, Francesco, 193, 194 Rossi, umberto, 82 Salò o le 120 giornate di Sodoma (P.P. Pasolini, 1975), 11 e n, 12, 21, 32, 77, 83, 87, 91-96, 98, 100, 102, 105-178, 180, 183-186, 193 e n, 195, 221, 225, 229, 245, 247 salvatori, Renato, 230 sanguineti, Edoardo, 74 savona, leopoldo, 80 scarlato, alessio, 181n scarpat, Giuseppe, 289n, 292 e n, 297n Schlegel, Karl Wilhelm Friedrich von, 251 e n Schmitt, Carl, 49 e n, 100n, 119 e n, 255, 292 Schwarzenegger, Arnold, 53 sciascia, leonardo, 88-91, 94, 95, 180 e n, 181, 325

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184-187, 193-195, 201, 202, 214, 221, 222, 235 e n, 240 Selfie (a. Ferrente, 2019), 259, 263-265 Seme dell’uomo, il (M. Ferreri, 1969), 316 Sennelart, Michel, 256n servillo, toni, 269, 270, 281 sforzini, arianna, 296n Shearman, John, 136n siti, Walter, 74n, 78n, 103n, 110n sontag, susan, 132n, 139 en sorrentino, Paolo, 269, 270 stabile, alberto, 91n stimilli, Elettra, 21n, 72n, 191n, 255n Stoichita, Victor Ieronim, 137n, 203n, 205 e n, 206 Strohmaier, Alena, 311n subini, tommaso, 128n, 171n surgère, hélène, 143 tazzioli, Martina, 263n Teresa d’Avila, 205 e n, 210, 237 terra vista dalla luna, la (P.P. Pasolini, 1967, episodio di le streghe, autori vari), 75

terrone, Enrico, 139n the Confession (B. Bracken, 1920), 252 the Confession (B. Mirman, 2011), 252 the truman Show (P. Weir, 1998), 53, 54n tognazzi, ugo, 71 todo modo (E. Petri, 1976), 11, 12, 21, 32, 83, 86, 87 e n, 90, 92, 94-96, 98, 100, 102, 103n, 149, 179-243, 246, 247, 271, 273, 313, 316 Tolstòj, Lev Nikolàevič, 250 totò (antonio de curtis), 75, 82 toubiana, serge, 70n tragica confessione (i. illuminati, 1914), 252 Trinca, Jasmine, 283 Udienza, l’ (M. Ferreri, 1972), 249 urbinati, Nadia, 243n Uva, Christian, 193n, 281n vaccaro, salvo, 16n valletti, aldo, 117 vangelo secondo matteo, il (P.P. Pasolini, 1964), 122

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vecellio, valter, 90n velázquez, Diego, 75 velle, Gaston, 252 vespignani, Renzo, 81 volonté, Gian Maria, 12, 82, 85-87, 182 Weir, Peter, 53 Weizman, Eyal, 36n, 280n Welles, Orson, 285 Wu Ming, 77n

Zabunyan, Dork, 18 e n Zagrebelski, Gustavo, 31n Zalone, Checco [Medici, luca Pasquale], 308 Zambrano, María, 251 e n Zinni, Maurizio, 109n Zucconi, Francesco, 17n, 27n, 254n, 271n, 272n, 284n

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EStEtiChE dElla vErità

Stampato da Pellegrini Editore - Cosenza

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