Estetica e scienza generale dell'arte. I "concetti fondamentali" 8860015057, 9788849129137

Contro il monopolio del bello a favore di una pluralità delle categorie che descrivono le molteplici qualità dell'e

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Estetica e scienza generale dell'arte. I "concetti fondamentali"
 8860015057, 9788849129137

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Max Dessoir nacque a Berlino nel 1867. Ebbe tra i suoi maemi Dilthey, sotto la cui guida si laureò in estetica all'università della sua città natale. Nell'ateneo berlinese insegnò per lunghi anni, fino a che fu ridotto al silenzio dal nazismo. Mori nel 1947. l suoi interessi non investirono solo l'ambito artistico e filosofico, ma anche la psico:ogia: dedicò importanti ricerche ai problemi dell'inconscio, dell'ipnotismo e soprattutto della parapsicologia. Svolse un'intensa attività orga­ nizzativa nell'ambito della cultura: fondò nel 1906 1 a Zeitschrift fU: Asthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, rivista che an­ cora oggi esce regolarmente. Dello stesso anno è la pubblica­ zione dell'opera che qui diamo in traduzione nelle sue parti principali. Si tralta di un lavoro la cui rilevanza non è meramen­ te storica: in esso non solo si traccia un denso bilancio delle imponenti indagini svolte nella grande stagione dell'estetica tedesca tra la fine del secolo scorso e gli albori del nostro, ma anche si gettano i germi di futuri sviluppi.l'antisoggettivismo, la separazione metodica tra estetico e artistico (e quindi tra esteti­ ca e scienza dell'arte), l'apertura verso i problemi dell'arte con­ temporanea, il rifiuto di qualsiasi teorizzazione velleitariamen­ te omnicomprensiva, un modo di procedere mai astrattamente aprioristico, ma pronto ad accogliere e a confrontare i risultati di ambiti diversi di ricerca e aderente alla concretezza della realtà restano tra i frutti più attuali del suo pensiero.

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Estetica e scienza dell'arte

MAX DESSOIR, EMIL UTITZ, EDGAR WIND, ERWIN PANOFSKY

ESTETICA E SCIENZA GENERALE DELL’ARTE I “concetti fondamentali”

a cura di

Andrea Pinotti

Proprietà letteraria riservata © 2007 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Fonti: Max Dessoir: Skeptizismus in der Aesthetik, «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 2, 1907; Objektivismus in der Aesthetik, «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 5, 1910; Allgemeine Kunstwissenschaft, «Deutsche Literaturzeitung», 44/45 e 46/47, 1914 Emil Utitz: Das Problem einer allgemeinen Kunstwissenschaft, «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 16, 1922; Über Grundbegriffe der Kunstwissenschaft, «Kant-Studien», 34, 1929 Edgar Wind: Theory of Art versus Aesthetics, «The Philosophical Review», 34/4, 1925; Zur Systematik der künstlerischen Probleme, «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 18, 1925 Erwin Panofsky: Probleme der Kunstgeschichte, «Deutsche allgemeine Zeitung», 327-328, 1927

traduzioni di Pietro Conte, Nicol Mocchi e Andrea Pinotti

Progetto grafico: Oriano Sportelli

Dessoir, Max Estetica e scienza generale dell’arte. I “concetti fondamentali”/ Max Dessoir, Emil Utitz, Edgar Wind, Erwin Panofsky ; a cura di Andrea Pinotti. – Bologna : CLUEB, 2007 223 p. ; 22 cm. (Relazioni e significati : collana di Testi e Studi fondata da Lino Rossi e diretta da Giovanni Matteucci ; Testi, 7) ISBN 978-88-491-2913-7

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 Finito di stampare nel mese di settembre 2007 da Legoprint - Lavis (TN)

INDICE

7 Introduzione, di Andrea Pinotti PARTE I ESTETICA E SCIENZA GENERALE DELL ARTE ’

27 Max Dessoir, Lo scetticismo in estetica (1907) 45 Max Dessoir, L’oggettivismo in estetica (1910) 59 Max Dessoir, Scienza generale dell’arte (1914) 77 Emil Utitz, Il problema di una scienza generale dell’arte (1922) 95 Edgar Wind, Teoria dell’arte versus estetica (1925) PARTE II I “CONCETTI FONDAMENTALI” DELLA SCIENZA DELL’ARTE

105 Edgar Wind, Sistematica dei problemi artistici (1925) 149 Erwin Panofsky, Problemi della storia dell’arte (1927) 155 Emil Utitz, Concetti fondamentali della scienza dell’arte (1929)

217 Indice dei nomi

Introduzione di Andrea Pinotti

1. Estetica e scienza generale dell’arte: un divorzio produttivo La premessa generale dei testi che qui presentiamo1 è costituita da un divorzio – quello fra l’estetica e la teoria dell’arte – che, maturatosi all’interno della cultura estetologica tedesca nel corso della seconda metà dell’Ottocento, viene celebrato ufficialmente nell’anno 1906 con un duplice rito officiato da Max Dessoir: la pubblicazione del volume Estetica e scienza generale dell’arte2 e la fondazione della rivista omonima «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft»3, attiva a tutt’oggi (paradossalmente, fu la prima rivista specialistica di estetica, e venne intitolata a una radicale delimitazione dell’estetica stessa). Quell’“e” nella formula “estetica e scienza generale dell’arte” è inteso da Dessoir innanzitutto e per lo più come “o”, cioè come disgiunzione piuttosto che come congiunzione: si tratta infatti di separare rigorosamente i rispettivi ambiti di indagine e le corrispondenti competenze delle due discipline, avvertendo come un’indebita ed esiziale confusione quell’equazione che il primo Ottocento aveva consegnato alla contemporaneità: l’estetica – così suonava la paradigmatica definizione hegeliana – è filosofia dell’arte bella4. Ora, non solo l’estetica secondo Dessoir non va affatto identificata con la riflessione filosofica sull’arte (a tale compito si attrezzava appunto la scienza generale dell’arte), ma altresì l’arte non può essere tout court ricondotta alla categoria del bello, esistendo manifestazioni artistiche che con 1 Per un profilo bio-bibliografico degli autori dei saggi qui presentati, e per le notizie sulle relative fonti, si rinvia alle schede in calce a questa introduzione.. 2 M. Dessoir, Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Stuttgart 1906 (II ed. modificata 1923); trad. it. parz. di F. Farina della II ed., Estetica e scienza dell’arte, a cura di L. Perucchi e G. Scaramuzza, Unicopli, Milano 1986 (si veda anche la trad. ingl. Aesthetics and Theory of Art, transl. by S.A. Emery, foreword by Th. Munro, Wayne State University Press, Detroit 1970). 3 D’ora in poi indicata come «ZÄK». Dessoir la diresse fino al 1937, per poi passare il testimone a Richard Müller-Freienfels, che la resse fino al 1943. Sulla rivista si veda Ästhetik in metaphysikkritischen Zeiten: 100 Jahre «Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft», hrsg. von J. Früchtl und M. Moog-Grünewald, Meiner, Hamburg 2007. 4 Cfr. G.W.Fr. Hegel, Estetica, ed. it. a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1963, p. 5.

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l’esperienza della bellezza nulla hanno a che fare. Contro la duplice riduzione della teoria dell’arte all’estetica e dell’arte alla bellezza si muove dunque il pensiero di Dessoir: estetico, artistico e bello non sono termini sinonimici e interscambiabili. Ciò va affermato con decisione per combattere quella diffusa imprecisione nell’uso dei più basilari termini dell’estetica, che proprio per la loro ovvietà e apparente semplicità ci conducono ad equivoci, fraintendimenti, errori, falsi problemi. Non quindi tanto un “e”, quanto piuttosto un “o” (o magari esplicitamente un “versus”, come più tardi avrebbe preferito Edgar Wind nel saggio Teoria dell’arte vs estetica, incluso nella presente raccolta). Possiamo tuttavia fin d’ora anticipare che, una volta consumato quel divorzio, vi saranno buoni motivi per ricondurre a una fruttuosa relazione reciproca i due ambiti: fruttuosa, però, solo perché nel frattempo sarà stata assicurata una chiarificazione concettuale, terminologica, metodologica, euristica delle rispettive sfere di indagine. Il terreno per la maturazione di quella disgiunzione era già stato dissodato nel corso della seconda metà dell’Ottocento5. La prima occorrenza della formula allgemeine Kunstwissenschaft sembra essere scaturita dalla penna dell’estetologo formalista di scuola herbartiana Robert Zimmermann nel 18626. Ma già nel 1811 Carl Fr. Bachmann aveva pubblicato Die Kunstwissenschaft in ihrem allgemeinen Umrisse dargestellt. E nel 1845 Hermann Hettner, in un saggio rivolto contro l’estetica speculativa di orientamento metafisico7, aveva fondato su basi antropologico-fisiologiche la distinzione fra un’estetica come dottrina della fantasia e una dottrina formale dell’arte come esplorazione delle oggettivazioni concrete di quella fantasia, condizionate dai materiali e dalle tecniche: una distinzione che non sfuggì all’attenzione di Hugo Spitzer, che vi avrebbe dedicato nel 1903 un voluminoso studio critico impegnato nell’individuare motivi di separazione e punti di connessione fra estetica e teoria dell’arte8. Tuttavia, il vero e proprio atto di nascita della scienza dell’arte può essere rintracciato negli scritti del teorico Konrad Fiedler: Utitz (nel secondo suo testo che qui presentiamo) lo definirà «il padre della nostra moderna scienza formale dell’arte». Fiedler – che insieme al pittore Hans von Marées e allo scultore Adolf von Hildebrand viene abitualmente riconosciuto come 5 Per la genesi del concetto di scienza generale dell’arte cfr. W. Henckmann, Probleme der allgemeinen Kunstwissenschaft, in Kategorien und Methoden der deutschen Kunstgeschichte, hrsg. von L. Dittmann, Steiner, Stuttgart 1985, pp. 273-334, qui pp. 282-291. 6 Cfr. R. Zimmermann, Zur Reform der Ästhetik als exakter Wissenschaft (1862), in Id., Studien und Kritiken zur Philosophie und Ästhetik, Braumüller, Wien 1870, Bd. I, p. 227. 7 Il testo di Bachmann uscì a Jena per i tipi di Cröker. Di Hettner cfr. Gegen die spekulative Ästhetik (1845), in Id., Schriften zur Literatur, hrsg. von J. Jahn, Aufbau, Berlin 1959, pp. 1749, qui p. 43. 8 H. Spitzer, Hermann Hettners kunstphilosophische Anfänge und Literaturästhetik. Untersuchungen zur Theorie und Geschichte der Ästhetik, Leuschner & Lubensky, Graz 1903.

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uno dei principali rappresentanti del cosiddetto purovisibilismo – aveva esposto incisivamente in alcuni aforismi delle considerazioni su bello, arte, ed estetica che sintetizzano i prodromi per lo sviluppo novecentesco della questione9. La sua posizione può riassumersi in tre vigorosi “no”: 1) no all’identificazione dell’artistico con il bello («Il proton pseudos nel campo dell’estetica e della teoria dell’arte consiste nell’identificazione dell’arte con la bellezza; come se l’uomo avesse bisogno dell’arte per farsi creare un mondo del bello; è da questo primo errore che derivano tutti gli altri equivoci»); 2) no all’identificazione di estetica e filosofia dell’arte («Il problema fondamentale dell’estetica è affatto differente da quello della filosofia dell’arte»; «le opere d’arte non devono venir giudicate sui precetti dell’estetica»); 3) no alla tirannia del bello («Tradizionalmente bello ed arte sono avvinti l’un l’altro, i loro effetti vengono confusi, si ascrivono all’arte effetti che derivano unicamente dal bello, al bello effetti che possono essere causati solamente dall’arte»). Ma se gli aforismi fiedleriani erano stati pubblicati postumi solo nel 1914 (nel secondo volume delle Schriften zur Kunst10 curate da Hermann Konnerth, e quindi ben dopo il 1906, anno fatale della separazione tra estetica e scienza dell’arte), già nel primo importante saggio teorico di Fiedler, dedicato al problema della Valutazione delle opere d’arte figurativa e uscito nel 1876, si sollevava esplicitamente «la questione se la supposizione secondo cui tutta l’arte appartiene al campo di indagine dell’estetica sia giustificata, se essa non abbia nessun altro significato essenziale né altro scopo di quello che l’estetica potrebbe assegnarle». «A ciò – continuava Fiedler – andrebbe aggiunta anche l’ulteriore questione se l’estetica, dovendo la sua esistenza a un’esigenza di carattere spirituale del tutto diversa da quella dell’arte, possa spiegare le opere d’arte solo esteticamente, ma debba lasciarle oscure dal punto di vista dell’arte; se inoltre le regole che l’estetica potrebbe enunciare non siano solo di natura estetica, non però di natura artistica; e se, infine, pretendere che la produzione artistica si debba indirizzare secondo le regole dell’estetica non significhi pretendere che l’arte cessi di essere se stessa e si debba accontentare di fornire all’estetica esempi illustrativi»11. In queste domande è possibile ravvisare, in nuce, la complessa costellazione di problemi che trent’anni dopo avrebbe innervato la decisione dessoiriana di disgiungere l’estetica dalla scienza dell’arte. Certo, a prima vista l’esigenza posta da Fiedler è quella di difendere l’autonomia della teoria dell’arte (che per lui è innanzitutto arte figurativa, e questo imprinting condizionerà come si vedrà lo sviluppo successivo della questione) dalle indebite ingerenze dell’estetica: occorre cioè problematizzare quell’ovvietà che 9 Cfr. K. Fiedler, Aforismi sull’arte, trad. it. di R. Rossanda, introd. di V. Segre Rutz, Tea, Milano 1994. Le citazioni che seguono sono tratte dagli aforismi 2, 6, 9, 29. 10 Dessoir recensisce l’edizione fiedleriana nella «ZÄK», 9, 1914, p. 568. 11 K. Fiedler, Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa (1876), in Id., Scritti sull’arte figurativa, a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 36-37.

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vorrebbe il significato dell’arte come significato estetico, i suoi scopi come scopi estetici, i suoi contenuti come contenuti estetici, in una parola occorre mettere in radicale discussione l’idea di un’arte eterodiretta, diretta appunto da una disciplina, l’estetica, che arte non è e che scaturisce da bisogni affatto differenti da quelli artistici. Ma a ben vedere la distinzione dei piani non apporta vantaggi solo per l’arte e per una teoria che sappia darne conto senza sottomettersi a principi ad essa estranei, quali appunto quelli estetici; anche l’estetica non potrà a sua volta che beneficiare dell’eliminazione di inopportune commistioni con l’ambito dell’arte; e infine proprio la chiarificazione dei rispettivi domini potrà consentire di ricercare positivi punti di contatto fra di essi. Ma è evidente che un’adeguata comprensione dell’esigenza maturata da Fiedler di separare l’ambito estetico da quello artistico dipende preliminarmente dall’accezione in cui tali concetti, in sé quanto mai polivoci, vengono qui assunti: se da un lato estetica è per Fiedler il campo in cui si esercita il giudizio di gusto, che giudica della bellezza di un oggetto in relazione al sentimento di piacere che esso suscita nel soggetto che contemplandolo ne gode, dall’altro l’arte (che per Fiedler, ripetiamolo, è essenzialmente arte figurativa) è innanzitutto configurazione di forme visive, che non sono ripetizioni riproduttive di enti già esistenti, ma vengono per la prima volta al mondo grazie al gesto dell’artista, che tramite le immagini che produce chiarifica e approfondisce la sua conoscenza del mondo visibile. Quanto di questo quadro concettuale trapassa nei teorici della scienza generale dell’arte? Già nel 1891, in un articolo dedicato a Richard Wagner estetologo, Dessoir aveva avuto modo di affermare esplicitamente quanto perentoriamente: «Noi distinguiamo nettamente fra estetica e teoria dell’arte»12, senza tuttavia approfondire in quella sede il senso di tale distinzione. L’approfondimento sarebbe venuto con il lavoro del 1906, poi riedito nel 1923 con ampie modifiche: il saggio Scienza generale dell’arte del 1914, che qui presentiamo, si colloca dunque in una posizione intermedia, e costituisce un’efficace sintesi della prospettiva kunstwissenschaftlich dessoiriana. Molte delle posizioni fiedleriane vengono condivise, a partire dall’esigenza di operare delle preliminari precisazioni di campo (precisazioni che – è opportuno sottolinearlo con forza –, se oggi ci appaiono ovvie e consolidate e pressoché universalmente accettate, all’epoca in cui Dessoir scriveva venivano formulate con tale perspicuità per la prima volta): 1) il bello non coincide con l’estetico; l’estetico è campo più ampio del bello, nel quale possiamo individuare almeno queste coppie di «categorie» estetiche, di concetti cioè che esprimono delle valutazioni estetiche (Dessoir le definisce ästhetische Grundgestalten, «forme estetiche fondamentali»,

12 M. Dessoir, Richard Wagner als Ästhetiker, in «Bayreuther Blätter», 14, 1891, p. 100.

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e vi dedica il capitolo IV della sua Estetica e scienza generale dell’arte13): bello/brutto; carino/sublime; comico/tragico. L’estetico si profila dunque per Dessoir come quell’insieme oggettivo di tratti che sono disponibili ad un apprezzamento estetico: è necessità (è così e così configurato, e non potrebbe essere altrimenti) intuitiva (si offre all’apprensione dei sensi), nell’ambito della quale il bello non è che una possibilità (anche se Dessoir, nonostante la sua polemica contro la «dittatura del bello» e la «callicrazia», ammette che forse è quella par excellence, meno compromessa con elementi extra-estetici). 2) Il bello artistico non esaurisce il bello in generale. Il bello non coincide con l’artistico, poiché il bello dell’arte non esclude altre modalità della bellezza: il bello naturale, le belle maniere, i corpi belli, le belle dimostrazioni matematiche… 3) Non tutto l’artistico è bello. Non tutte le arti, non tutti gli stili, possono essere compresi tramite la categoria di bellezza. Anzi, alcune manifestazioni artistiche (ad es. il Gotico, che esplorerà Wilhelm Worringer muovendo dalle premesse teoretiche della scienza generale dell’arte14), non hanno proprio nulla a che vedere con il bello. Resta vero, per Dessoir (e per Worringer) che alcune opere d’arte, come quelle classiche, sembrano avere con il bello un rapporto preferenziale: l’arte classica è l’arte bella per antonomasia. 4) L’estetico non esaurisce l’artistico, come vorrebbe certo panestetismo. L’arte non si limita a offrire occasioni di esperienza estetica, cioè di fruizione sensibile, di godimento di situazioni che possono ingenerare sentimenti di piacere o dispiacere; la funzione estetica è solo una delle funzioni che caratterizzano l’arte: la funzione spirituale (nelle sue relazioni con la sfera complessiva della cultura e delle visioni del mondo, con il mito, la religione, la filosofia), quella sociale (la società condiziona tanto la creazione quanto la fruizione dell’arte, che a sua volta può efficacemente agire sui meccanismi sociali per le sue potenzialità pedagogiche, politiche, economiche), quella etica (il puro homo aestheticus è una chimera: le istanze etiche condizionano il fruire e il fare arte, così come reciprocamente la dimensione dell’artisticità si riverbera sulla sfera morale). Dessoir risolve dunque la questione dell’essenza dell’arte in quella delle sue molteplici funzioni15, cui 13 Non potendo in questa sede entrare nel merito delle differenze fra la I e la II edizione, ci riferiremo direttamente a quest’ultima nella trad. it. cit. (i curatori accennano alle principali difformità fra le due versioni alle pp. 17-18 della loro introduzione). 14 «Il Gotico non ha nulla a che fare con la bellezza» (W. Worringer, Problemi formali del Gotico (1911), ed. it. a cura di G. Frank e G. Gurisatti, Cluva, Venezia 1985, p. 14). 15 Negli stessi anni Cassirer andava risolvendo il concetto di sostanza in quello di funzione: Sostanza e funzione: ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza (1910), trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1999. Più tardi J. MukaĜovský avrebbe tenuto conto dell’approccio funzionalistico dessoiriano nel suo La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali (1936), nell’omonima raccolta di saggi, ed. it. a cura di S. Corduas, Einaudi, Torino1971, pp. 35-131 (Dessoir è citato alle pp. 38 e 75, Utitz a p. 42). Si veda anche il saggio

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vanno aggiunte ulteriori problematiche relative alla volontà di dar forma, al fare tecnico e alle corrispondenti esigenze pratiche, ai bisogni comunicativi ed espressivi cui l’arte cerca di corrispondere. Ma proprio dall’esame delle funzioni dell’arte si delinea la possibilità di un riavvicinamento della scienza dell’arte all’estetica, certo su basi nuove, certo dopo che la chiarificazione dei rispettivi ambiti sia stata ottemperata. Essendo infatti quella estetica una delle funzioni dell’arte, l’opera d’arte, in quanto oggetto anche estetico, pone delle rivendicazioni al soggetto, chiede di essere anche valutata esteticamente: «Le opere d’arte reclamano una valutazione estetica. Perciò l’estetica e la scienza dell’arte non si possono distinguere completamente»16. Sicché, dopo la pars destruens e il divorzio, si dischiude ora un orizzonte di cooperazione, una pars construens che riassegna un valore congiuntivo all’“e” della formula “estetica e scienza generale dell’arte” sulla base di una serie di assunti condivisi. In primo luogo l’oggettivismo: estetica e scienza dell’arte – bene lo mostrano gli esempi addotti da Dessoir nel saggio appunto dedicato alla questione dell’Objektivismus e le riflessioni condotte da Utitz nell’articolo dedicato al Problema di una scienza generale dell’arte, che qui presentiamo – stanno entrambe dalla parte della cosa, e si rifiutano di risolvere il senso dell’esperienza estetica e di quella artistica nei vissuti e negli atteggiamenti del soggetto, o nei suoi sentimenti e nelle sue proiezioni, come spesso e volentieri inclina a fare certo psicologismo. In linea con il motto «Alle cose stesse» (Zu den Sachen selbst), che fu il grido di battaglia di una generale svolta verso l’oggetto propria di molta filosofia all’inizio del secolo (si pensi innanzitutto allo Husserl delle Ricerche logiche e all’estetica fenomenologica di Geiger e Conrad17, ma anche alla teoria degli oggetti di Meinong, o al Simmel della Filosofia del denaro), anche Dessoir si pone nell’ottica di uno schietto riconoscimento dei diritti dell’oggetto: il fatto estetico in generale (come l’oggetto artistico in particolare) è un fatto oggettivo; viene percepito sensibilmente; è compreso come oggetto esterno al soggetto; non può essere altrimenti da com’è (il solo fatto di metterlo in relazione con un altro oggetto estetico – nota Wind – istituisce una nuova oggettività estetica di ordine diverso; e lo stesso vale per l’oggettività artistica). Ma psicologismo non significa tout court psicologia (disciplina in cui Dessoir ha fornito contributi ragguardevoli, e che ha sempre considerato importante come scienza ausiliaria dell’estetica), come del resto oggettividel 1942 sulla funzione estetica in Il significato dell’estetica, ed. it a cura di S. Corduas, Einaudi, Torino 1977. 16 M. Dessoir, Estetica e scienza dell’arte, cit., p. 160. A p. 53 si legge: «Già adesso estetica e scienza dell’arte collaborano spesso fra loro come gli operai di una galleria che a partire da punti opposti penetrano in una montagna per incontrarsi al centro di essa». 17 Si vedano, in questa stessa collana dell’ed. Clueb, i saggi di M. Geiger raccolti in Vie all’estetica, curato da chi scrive, e lo scritto di W. Conrad, L’oggetto estetico (1908-09), curato da M. Gardini, usciti rispettivamente nel 2005 e nel 2007.

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smo non significa negazione del soggetto. Similmente alla tendenza oggettivistica propugnata dalla fenomenologia, si potrebbe piuttosto parlare di una correlazione trascendentale di soggetto e oggetto: le forme fondamentali dell’estetico e dell’artistico congiungono sempre e costitutivamente una configurazione oggettiva ad una disposizione soggettiva. L’oggetto è strutturato in un certo modo, e in quel modo provoca il soggetto, pretendendo da esso una risposta. Questa risposta si esplicita in una valutazione: «Scienza dell’arte ed estetica non sono elenchi di tutti gli oggetti belli, bensì scienze delle condizioni estrinseche ed intrinseche di certi processi valutativi»18. Scienza delle condizioni delle valutazioni non significa, evidentemente, scienza che operi valutazioni: la scienza generale dell’arte non ha il compito di prescrivere le norme da seguire per produrre una buona opera, né quello di stabilire se quest’opera è migliore di quella, bensì piuttosto quello di descrivere come una poetica possa prescrivere all’artista una certa norma, come un discorso critico possa istituire un confronto fra due opere basato sul più e sul meno. Non dunque la costruzione di una scala di valori è lo scopo della scienza dell’arte, bensì l’analisi dei concetti che la rendono possibile. Abbiamo così toccato i punti in cui la scienza generale dell’arte si relaziona all’estetica, alla psicologia, alle poetiche e alla critica d’arte, senza confondersi con tali ambiti, anzi rendendoli tanto più fecondi quanto più se ne circoscrivono chiaramente i limiti. Resta da vedere il suo rapporto con la dimensione della storia (dell’arte e della cultura). 2. I “concetti fondamentali”: il circolo di teoria e storia Se lo Hegel estetologo come filosofo dell’arte bella poteva essere assunto come paradigmatico obiettivo polemico laddove per Dessoir e il movimento della allgemeine Kunstwissenschaft ne andava di distinguere l’estetica dalla scienza generale dell’arte, così ora possiamo prendere a termine di paragone lo Hegel sistematico, così come è stato accolto e sviluppato nel secondo Ottocento (ad esempio da Weisse, Kahlert, Vischer; ma l’aspirazione al sistema contagerà ancora un Volkelt ai primi del Novecento19), per comprendere due punti cruciali: da un lato, il profondo sospetto nutrito dagli scienziati dell’arte nei confronti di ogni metafisica sistematica che irrigidisca dogmaticamente il grande fatto dell’arte nella sua vivace e dinamica poliedricità in una dottrina calcificata di categorie dedotte da una non meglio giustificata “essenza” o “idea” dell’Arte indebitamente universalizzata, e 18 M. Dessoir, Estetica e scienza dell’arte, cit., p. 107. 19 Cfr. Ch.H. Weisse, System der Ästhetik als Wissenschaft von der Idee der Schönheit, Hart-

mann, Leipzig 1830; A. Kahlert, System der Aesthetik, Breitkopf u. Härtel, Leipzig 1846; Fr. Th. Vischer, Ästhetik oder Wissenschaft des Schönen, Mäcken, Reutlingen-Leipzig 1846-1857; J. Volkelt, System der Ästhetik, Beck, München 1905-1912.

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imposte forzosamente dall’esterno ai fenomeni artistici particolari; dall’altro, l’esigenza di non rinunciare tout court a una sistematica dei concetti fondamentali, nella convinzione, già kantiana, che solo l’unità sistematica faccia della conoscenza una scienza. Una tale sistematica, proprio perché non calata dall’alto e dall’esterno, ma generata in modo immanente dalle cose stesse, deve essere in grado al contempo di rispettare i fenomeni nella loro irriducibile singolarità e di garantire il rigore epistemologico e metodologico del discorso sull’arte, e quindi di assicurare la possibilità stessa di una teoria dell’arte e di una sua scienza: Kunst-Wissenschaft. Dunque, né dogmatismo metafisico e deduttivo (incapace di vedere i fenomeni concreti, le opere, perché totalmente immerso nell’atmosfera rarefatta del pensiero), né empirismo radicale (capace soltanto di vedere questo fenomeno concreto, la singola opera, senza essere in grado di cogliere gli strati ideali di senso della fenomenicità, ciò che ad esempio fa di questa tragedia una tragedia, di questo ritratto un ritratto, di questa sinfonia una sinfonia). Come Dessoir auspica un’«estetica dall’interno (von innen)», equidistante dall’«estetica dal basso (von unten)», empiristica e sperimentale, e dall’«estetica dall’alto (von oben)», metafisica e deduttiva20, così potremmo analogamente parlare di una «scienza dell’arte dall’interno», che si sviluppi cioè come immanente al campo stesso dell’arte, e che scommetta sulla possibilità di rispettare le istanze storiche, psicologiche, tecniche che fanno di un’opera d’arte quest’opera, senza per questo rinunciare al rigore del concetto e alla sua costitutiva universalità (che è appunto ciò che rende quella scienza dell’arte allgemeine, scienza generale, rivolta alle costanti strutturali e non all’interpretazione del singolo fenomeno artistico). In modo simile, e parafrasando Goethe, Utitz dirà che non vi è nulla da cercare dietro, prima o sopra l’opera d’arte: occorre piuttosto cercare in essa. Quanto al sospetto nei confronti di ogni dogmatismo sistematico, nel primo saggio che qui presentiamo Dessoir parla esplicitamente di “scetticismo”, intendendo con ciò la viva attualità di quell’antica tradizione filosofica che insegna il rifiuto di ogni riduzionismo, di ogni surrettizia riconduzione di una realtà complessa a un unico principio esplicativo e a un unico procedimento di indagine: contro la pericolosa inclinazione a sopravvalutare le questioni metodologiche, anteponendole alla descrizione dei fenomeni, Dessoir invita a farsi dettare di volta in volta il metodo dall’oggetto considerato, e a operare in modo comparativo (oggi diremmo, con termine abusato, interdisciplinare) avvalendosi per la scienza dell’arte dell’apporto di competenze diverse, per mantenere il sistema – «un sistema come noi lo vorremmo» – aperto e duttile. Siamo nel 1907, all’indomani della pubblicazione della sua opera principale, che inequivocabilmente si apriva all’insegna di un arioso pluralismo: «Sistema e metodo per noi significano: essere liberi da un sistema e da un metodo»21. Nel discorso di apertura al I Congresso di 20 Cfr. M. Dessoir, Estetica e scienza dell’arte, cit., p. 72. 21 Ivi, p. 54 (nella I ed. 1906, p. 6).

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Estetica del 1913 Dessoir preciserà che: «si potrà far fruttare una dottrina correttamente impostata dei concetti della scienza dell’arte solo se la si manterrà in relazione costante con la prospettiva storica, e viceversa quest’ultima potrà essere resa feconda solo con l’aiuto della sistematica». E nell’intervento (significativamente intitolato Kunstgeschichte und Kunstsystematik) al III Congresso, del 1927, affermerà icasticamente: «In una parola: in tutta la sistematica dell’arte non si trova un’unica proposizione che non sia anche storica»22. Proprio come il rifiuto dello psicologismo non implicava il rifiuto della psicologia, così il rifiuto dello storicismo in quanto pretesa di ridurre il senso del fenomeno ai suoi condizionamenti storici non significa, come è evidente, rifiuto della storia tout court. I saggi di Edgar Wind, Erwin Panofsky ed Emil Utitz, che presentiamo nella seconda parte di questo volume, tentano appunto di corrispondere a questa serie di richieste, relative al rapporto fra metodo e oggetto e fra sistematica e storia, che avevano trovato in Dessoir più una formulazione che non una effettiva risposta (il suo personale commercio con la questione della sistematicità si riduce infatti sostanzialmente al capitolo VI della sua opera estetica principale, dedicato appunto al sistema delle arti, forse la parte più discutibile del volume). Si tratta di studi – usciti tra il 1925 e il 1929 – che si inseriscono, seppur criticamente, in quella tradizione di ricerche che, specialmente nell’ambito della storia dell’arte di lingua tedesca, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si era impegnata a superare gli ingenui presupposti empiristici di una storiografia totalmente appiattita sull’accumulazione progressiva di “dati” e “fatti” (e tanto più condizionata da taciti e inindagati presupposti teorici quanto più convinta di essere scevra di teoria) in direzione dell’enucleazione di Grundbegriffe, di concetti fondamentali del discorso storico-artistico: Alois Riegl, August Schmarsow, Heinrich Wölfflin sono solo i nomi più noti fra i molti studiosi – soprattutto di inclinazione formalista – che si dedicarono a questa impresa, di cui gli scritti raccolti nella seconda parte (e in modo particolare l’ultimo, di Utitz) offrono una esaustiva ricognizione che riesce al tempo stesso come mappa dettagliata della Kunstwissenschaft e ricostruzione di un capitolo molto complesso della storia delle idee del Novecento23. 22 M. Dessoir, Beiträge zur allgemeinen Kunstwissenschaft, Enke, Stuttgart 1929, rispettivamente alle pp. 38 e 64. 23 Fra i titoli dedicati ai “concetti fondamentali” ricordiamo innanzitutto i Grundbegriffe der Kunstwissenschaft di Schmarsow, usciti nel 1905; quindi i Kunstgeschichtliche Grundbegriffe di Wölfflin, pubblicati nel 1915. Ma si veda anche Impressionismus und Expressionismus: Grundbegriffe der allgemeinen Kunstwissenschaft, di A. Werner (Kellering, Leipzig 1917) e Grundbegriffe des Städtebaues, di K.A. Hoepfner (Springer, Berlin 1921-1928). Anche Warburg negli anni Venti aveva steso degli appunti riguardanti Allgemeine Ideen (1927) e Grundbegriffe (1928-1929): cfr. Warburg Institute Archive, Londra, III.102.1 e III.102.3/4. Su questi temi si veda H. Locher, Wissenschaftsgeschichte als Problemgeschichte. Die “kunstwissenschaftlichen Grundbegriffe” und die Bemühungen um eine “strenge Kunstwissenschaft”, in Disziplinen im Kontext, hrsg. von V. Peckhaus e Ch. Thiel, Fink, München 1999, pp. 130-161.

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Ma il valore di tali scritti non si esaurisce nella pur utilissima disamina storico-critica della complessa costellazione di autori che si sono misurati con la spinosa questione dei “concetti fondamentali”. Il confronto con le posizioni dei grandi “storici teoretici” dell’arte e delle loro scuole24 permette a questi autori di pervenire a una proposta personale e originale, la cui valenza euristica è a tutt’oggi ben lungi dall’essere esaurita. Ci riferiamo in particolare alla teoria dei problemi artistici, elaborata nella scia di Riegl da Wind e Panofsky25 in riferimento all’ambito delle arti figurative (il settore più sviluppato fra le Kunstwissenschaften speciali: ricordiamoci qui l’imprinting sul visivo dato originariamente da Fiedler). Nel suo distinguersi da un “compito” – che designa la situazione pre-artistica empiricamente data: all’artista è assegnato ad esempio il compito di dipingere una certa parete, con una scena di battaglia ecc. –, il “problema” non riguarda un dato di fatto, ma la sua possibilità. Tale possibilità è descritta da un’antitesi di principi (non però logico-concettuali, bensì intuitivi), di cui il concreto “prodotto” artistico, l’opera d’arte, deve essere considerato come una soluzione; si tratta cioè di una polarità conflittuale, di cui l’opera costituisce di volta in volta una conciliazione. Nella proposta avanzata in particolare da Wind26, la sfera del visivo viene articolata in tre livelli, ciascuno dei quali è a sua volta suddiviso in tre regioni, a comporre una “tavola” di nove problemi che possiamo graficamente tradurre così: FENOMENO QUALITATIVO

COSA CHE APPARE

VITA CHE SI MANIFESTA

aptico vs ottico

schema vs singolo

superficie vs profondità scomposizione vs fusione

idealità vs realtà separazione vs collegamento

statuificazione vs animazione oggettivo vs soggettivo isolamento vs scorrimento

24 Per una presentazione complessiva si veda A. Hauser, Le teorie dell’arte. Tendenze e me-

todi della critica moderna (1958), trad. it. di G. Simone, Einaudi, Torino 1988; M. Podro, The Critical Historians of Art, Yale University Press, New Haven and London 1982; G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995. 25 Si vedano a tal riguardo i densi saggi dedicati alle concezioni di Wind e Panofsky da S. Tedesco e raccolti in Il metodo e la storia, Aesthetica Preprint, Supplementa 16, Palermo 2004, alle pp. 13-33 e 75-114. 26 Si veda l’analoga proposta di Panofsky in Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte. Contributo alla discussione sulla possibilità di “concetti fondamentali” nella scienza dell’arte (1925; in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, trad. it. di E. Filippini, intr. di G.D. Neri, con una nota di M. Dalai, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 178-214; per la tavola dei problemi in part. p. 181). È a questo ampio saggio che vanno intimamente connessi tanto il conciso scritto panofskyano sui problemi della storia dell’arte quanto il testo di Wind sulla sistematica inclusi nella presente raccolta.

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Rimandando al testo per la chiarificazione di ogni singola antitesi e dei concetti che vi confliggono – e prescindendo dalla questione della completezza ed esaustività di questa tavola –, vorremmo qui sottolineare come Wind ricorra a casi esemplari per illustrare soluzioni storiche paradigmatiche di quell’antitetica, e come anche tali casi esemplari siano a loro volta posti in antitesi, questa volta però storica (relativa appunto alla soluzione del problema) e non teorica (concernente i problemi in quanto tali). Sottolineando infatti l’interdipendenza fra le singole antitesi e la coappartenenza rispettivamente di tutti i primi e di tutti i secondi elementi di ciascuna antitesi (una soluzione aptica, relativa cioè a una modalità tattile propria della visione ravvicinata, inclinerà al privilegiamento della superficie, della scomposizione, dello schema, dell’idealità, della separazione, della statuificazione, dell’oggettivo, dell’isolamento; una soluzione ottica analogamente opterà per la profondità, la fusione, il singolo, la realtà, il collegamento, l’animazione, il soggettivo e lo scorrimento), Wind individua nell’arte egizia e in quella impressionista i poli estremi che radicalizzano storicamente le soluzioni di quei problemi (a favore, rispettivamente, dei primi e dei secondi termini delle antitesi) e che fissano i margini di una gamma potenzialmente infinita di sfumature che declinano la conciliazione fra quei contrasti ideali calandola di volta in volta in questo o in quello stile determinato. Di tale gamma la grecità classica costituisce la altrettanto classica medietas27. È tuttavia opportuno ribadire ancora una volta che l’antitesi storica stile egizio vs stile impressionista non va assolutamente confusa con l’antitesi teorica fra valori aptici e valori ottici o fra superficie e profondità: pur nel loro rappresentare casi paradigmatici radicali, gli stili egizio e impressionista sono pur sempre soluzioni di problemi, quindi ciascuno di essi offre già una conciliazione storica dell’antitesi teorica: nessuno stile, in altre parole, può essere puramente aptico, superficiale, scompositivo, schematico, ideale, ecc. In ogni stile storicamente dato, per quanto estremamente orientato all’aptico e alla superficie, c’è un seppur minimo fattore di otticità e profondità, e viceversa. La distanza che separa la purezza dei problemi dalla concretezza delle soluzioni dà la misura dell’ascendente kantiano di questa sistematica della scienza dell’arte, e ne fa un capitolo peculiare della vicenda del neokantismo contemporaneo: un capitolo interessato alla ricerca di veri e propri a priori visivi, e impegnato a fondare una logica dell’intuitività o della figuratività, trascendentale (e quindi relativa alle condizioni di possibilità della figurazione, e non alle sue effettualità) e insieme immanente (e quindi non calata 27 La tripartizione egizio-greco-impressionista è mutuata da quella analoga proposta da Riegl in Industria artistica tardoromana. Il terzo elemento era qui rappresentato appunto dall’arte tardoromana, che veniva caratterizzata come “impressionistica” per il privilegio accordato al gioco chiaroscurale e alla dialettica di luci e ombre. Wind preferisce invece riferirsi direttamente all’impressionismo moderno (che però sembra talora far iniziare con Rembrandt).

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dall’alto e dall’esterno, bensì generata all’interno della stessa sfera figurativa). Ma il modo in cui viene articolato il rapporto fra purezza e concretezza dà al contempo la misura di quanto questi autori si siano ormai allontanati da Kant: essi infatti garantiscono ampio spazio di gioco alla dimensione dell’empiricità nel momento in cui pensano il rapporto fra problemi e soluzioni, fra piano ideale e piano reale, fra concetti fondamentali e stili artistici, fra sistematica e storia nei termini di reciprocità e di mutua codeterminazione. Questo modello fondato sulla reciprocità interessa, su un piano diverso, anche l’annosa questione della relazione fra forma e contenuto nell’opera d’arte, e quindi più in generale il rapporto fra la sfera dell’arte e la più generale sfera della cultura, oggetto delle cosiddette scienze dello spirito. Se il privilegiamento dell’istanza della forma (anzi, meglio, dei processi di formazione e di configurazione così come erano stati descritti da Fiedler) si era reso necessario per guadagnare al campo dell’arte una sua autonomia, ora – afferma Panofsky, e siamo ormai nei secondi anni Venti (con buona pace di chi, a tutt’oggi, insiste nell’irrigidire la contrapposizione fra formalismo e iconologia) – la tendenza fondamentale va in direzione di una ricomposizione della frattura dell’opera d’arte in “forma” e “contenuto”: al posto di questi due tronconi, che motivavano il contrapporsi di iconografia e analisi formale, va considerata, unitariamente, la figura. Analogamente – è in particolare Utitz a rilevarlo – sarebbe da un lato ingenuo pensare l’artistico come una sfera assolutamente autonoma (magari proprio in virtù delle sue componenti formali, o della sua “esteticità”) rispetto alla cultura nel suo complesso, dall’altro inaccettabile ridurlo a un epifenomeno dell’ambiente sociale, economico, spirituale ecc., di cui le arti si limiterebbero a fornire un’illustrazione. Piuttosto, ancora una volta, v’è mutua codeterminazione, per cui l’artistico condiziona il culturale, che a sua volta condiziona l’artistico, venendovi però a espressione solo e unicamente nella forma in cui l’artistico lo configura. Siamo, come è evidente, in presenza di un paradigma fondato sulla circolarità e articolato su piani differenti della riflessione: viene dunque messa qui a frutto quell’idea di connessione (Zusammenhang) come interdipendenza fra le diverse istanze di una costellazione problematica che, a cavallo fra Otto e Novecento, Dilthey e Simmel avevano già indicato come cifra costitutiva del metodo delle scienze dello spirito, e che poi Heidegger e Gadamer avrebbero declinato come circolo ermeneutico. Ma la consapevolezza dell’inaggirabile circolarità (fra osservatore ed osservato, metodo e oggetto, empiria e metafisica) è nondimeno propria degli sviluppi novecenteschi delle scienze della natura, come lo stesso Wind illustra nel suo scritto di abilitazione con riferimento particolare alla fisica e ai suoi “concetti

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damentali”28, mostrando in ultima analisi l’insostenibilità di una separazione netta fra Natur- e Geisteswissenschaften. Proprio riferendosi a tali indagini epistemologiche windiane, Panofsky potrà sostenere con forza l’inevitabilità del circulus, che non è affatto vitiosus, bensì methodicus: è infatti proprio di ogni scienza, e non solo della storia dell’arte, che lo strumento della conoscenza e l’oggetto della conoscenza si condizionino e si verifichino reciprocamente. Accade dunque al ricercatore come al funambolo di una famosa storiella: «Papà, perché l’equilibrista non cade? – Perché si tiene all’asta! – Ah, e perché non cade l’asta? – Ma stupidone, perché l’equilibrista la tiene ben stretta!»29. Nota bio-bibliografica Sulla allgemeine Kunstwissenschaft e i suoi protagonisti, oltre agli studi già citati nelle note dell’Introduzione e a quelli che qui di seguito indichiamo per ciascun autore, ricordiamo una serie di contributi offerti dalla Scuola di Milano, che in Italia ha riservato a questo ambito di ricerca un’attenzione particolare, a partire da Antonio Banfi, che poté frequentare personalmente Dessoir a Berlino e seguirne le lezioni alla Friedrich Wilhelms Universität nel secondo semestre (ottobre 1910-marzo 1911). Banfi tuttavia ebbe a esprimere alcune riserve nei confronti degli studi prodotti dalla allgemeine Kunstwissenschaft: «Il loro limite rimane pur sempre nel fatto che essi rimandano come a loro presupposto, che non possono in sé giustificare, proprio all’idea dell’arte, in quanto tale, a ciò che v’è in essa di unitario e di continuativo» (Motivi dell’estetica contemporanea (1938), in Id., Vita dell’arte, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza, Istituto A. Banfi, Reggio Emilia 1988, p. 60). Rielaborando la propria tesi di laurea Studio sul rapporto tra arte e tecnica (discussa nel 1938 con Banfi), nel volume Fenomenologia della tecnica artistica (Nuvoletti, Milano 1953; ried. con prefazione di G. Scaramuzza, Pratiche, Parma-Lucca 1978), Dino Formaggio dedica alla allgemeine Kunstwissenschaft il cap. X, in cui è dato più spazio a Utitz che non a Dessoir, ri28 E. Wind, Experiment und Metaphysik (1934), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001. A p. 109 leggiamo: «Empiria e metafisica sono concetti contrapposti, che nel procedimento conoscitivo di un “ente finito” sono indissolubilmente interconnessi». Se ne veda anche la trad. ingl. Legenda, Oxford 2001 (con introd. di M. Rampley), e la sintesi offerta da Wind in Experiment and Metaphysics, in Proceedings of the Sixth International Congress of Philosophy, ed. by E.S. Brightman, Longmans, New York 1927, pp. 217-224. Sul procedimento circolare comune alle scienze della natura e alle scienze dello spirito cfr. anche Some Points of Contact between History and Natural Science, in Philosophy and History. Essays presented to Ernst Cassirer, ed. by R. Klibansky and H.J. Paton, Clarendon, Oxford 1936, pp. 255-264. 29 E. Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa (1932), in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., pp. 215232, qui p. 232, nota 13.

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levando tuttavia i limiti di «una corrente che, date le premesse oggettivistiche, avrebbe potuto dare corpo – e non lo diede – alla prima impostazione veramente scientifica dell’operare artistico» (p. 199), perché l’oggettivismo rimase allo stadio di esigenza, l’analisi prevalse sulla sintesi e il «vizio d’origine» della psicologia non venne mai davvero superato. Formaggio sarebbe poi ritornato su questi problemi in due saggi: in Giudizio storico e teoria dell’arte nella scuola viennese (in «aut aut», 38, 1957, pp. 151-161) e soprattutto in Max Dessoir e il problema di una “scienza generale dell’arte” (1958, ora in Id., Filosofi dell’arte del Novecento, Guerini, Milano 1996, pp. 77-100), scritto che – pur facendo proprie le riserve banfiane – contestualizza i limiti di Dessoir come caratteristici di «una fase tipica di fondazione, in cui tutto l’estetico e tutto l’artistico veniva messo radicalmente in discussione». Tra le esigenze avanzate dalla allgemeine Kunstwissenschaft, scrive Formaggio, «penso sia oggi da porre in primo piano quella di una distinzione relazionata di campo tra l’estetico e l’artistico, inteso quale primo ed essenziale passo verso la formulazione di una scienza generale dell’arte (che vale la pena di tentare), tale che risulti autonomizzata in proprio campo nei confronti di una sistematica filosofica, eppure a questa metodologicamente legata come alla madre che l’ha generata» (pp. 99-100). Allievo di Formaggio, Guido Davide Neri cura nel 1961 l’ed. it. di una raccolta di saggi teorici del primo Panofsky (La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Feltrinelli, Milano), anteponendovi un’importante introduzione (ora raccolta in Id., Il sensibile, la storia, l’arte: scritti 19572001, Ombre corte, Verona 2003). Due altri allievi di Formaggio, Lucio Perucchi e Gabriele Scaramuzza, curano nel 1986 l’ed. it. parziale della II ed. 1923 della Estetica e scienza generale dell’arte di Dessoir (Unicopli, Milano), corredandola di un’importante presentazione. Scaramuzza, che aveva già fatto ampio riferimento a Dessoir e Utitz nel suo Le origini dell’estetica fenomenologica (Antenore, Padova 1976), avrebbe poi dedicato a Dessoir il cap. VI di Oggetto e conoscenza (Unipress, Padova 1989), in cui si apprezza la sua analisi della pluricategorialità estetica, ma si ribadisce l’insufficienza della definizione dell’artistico (pp. 128-130). Nella scia di queste ricerche è anche da considerare l’antologia curata da Elio Franzini, Estetica, teoria dell’arte e scienze dell’uomo, Signorelli, Milano 1985 (su Fiedler e Dessoir il cap. I). Al di là della ricezione italiana, ricordiamo brevemente i casi francese e americano: in Francia la figura più vicina alle tematiche kunstwissenschaftlich è Victor Basch, che dal 1918 ricopre la cattedra di “Esthétique et science de l’art” alla Sorbona. Si veda in particolare il suo saggio L’estetica e la scienza dell’arte (1919, trad. it. in Id., Due saggi di estetica, a cura di L. Distaso, Aesthetica Preprint, 53, Palermo 1998, pp. 61-81), in cui tuttavia non compare il nome di Dessoir. Negli Stati Uniti ampia attenzione alle posizioni dessoiriane è riservata da Thomas Munro, soprattutto per quanto riguardo l’istanza della scientificità. Si veda Scientific Method in Aesthetics, W.W. Norton & Company, New York 1928, e i numerosi riferimenti a Dessoir in

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Aesthetics as Science: Its Development in America, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 9/3, 1951, pp. 161-207. MAX DESSOIR Nasce l’8 febbraio 1867 a Berlino. Dopo essersi addottorato in Filosofia nella sua città natale, e in Medicina a Würzburg, insegna Psicologia presso la Friedrich-Wilhelms-Universität dal 1892 al 1934, prima come Privatdozent, poi come professore ordinario. Ottenuto il titolo di professore emerito, è vittima della persecuzione nazista a causa delle sue origini ebraiche, e si vede costretto a rinunciare all’insegnamento. Nel 1943 si rifugia a Königstein im Taunus, dove muore il 19 luglio 1947. Fra le sue opere, oltre a quelle psicologiche ed estetologiche più volte già citate, ricordiamo il libro di memorie Buch der Erinnerung, Enke, Stuttgart 1946. Sulla sua teoria estetica si veda, oltre agli scritti di Formaggio e all’introduzione dei curatori alla citata trad. it. Estetica e scienza dell’arte, W. Henckmann, Über ein Wort Dessoirs zum Verhältnis zwischen Kunsterfahrung und Kunstwissenschaft, in Wege zur Kunst und zum Menschen, hrsg. von F.-L. Kroll, Bouvier, Bonn 1987, pp. 171-181; R. Woodfield, Aesthetics at the End of the Century: Dessoir’s Project, in I. Tureli (ed.), Retrospective: Aesthetics and Art in the 20th Century, Sanart and METU Faculty of Architecture, Ankara 2002, pp. 8186. EMIL UTITZ Nasce il 27 marzo 1883 a Praga. Studia filosofia alle università di Praga, Monaco e Lipsia, e prende l’abilitazione nel 1910 all’Università di Rostock. Nel 1925 è chiamato come professore ordinario all’ateneo di Halle. Costretto a ritirarsi nel 1933, emigra a Praga, dove gli viene affidata la cura del lascito di Franz Brentano (del quale era stato allievo) e una cattedra di filosofia alla Deutsche Universität. Imprigionato in seguito all’invasione tedesca, viene deportato nel lager di Theresienstadt. Sopravvissuto al campo di concentramento (un’esperienza su cui pubblica un’analisi etico-psicologica: Psychologie des Lebens im Konzentrationslager Theresienstadt, Seul, Wien 1948), dopo la guerra torna a insegnare a Praga. Muore il 2 novembre 1956 a Jena. Sulla sua teoria estetica si veda K. Svoboda, The Contribution of Emil Utitz to Aesthetics, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 16, 1958, pp. 519-524, e l’introduzione di W. Henckmann alla ristampa della sua opera più importante: Grundlegung der allgemeinen Kunstwissenschaft, Fink, München 1972. Ricordiamo anche: R. Mehring, Das Konzentrationslager als ethische Erfahrung. Zur Charakterologie von Emil Utitz, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie» 51, 2003, pp. 761-775.

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EDGAR WIND Nasce il 14 maggio 1900 a Berlino. Si forma in filosofia e storia dell’arte nelle università di Berlino (con Goldschmidt), di Friburgo (con Husserl e Heidegger) e di Vienna (con DvoĜák, Schlosser e Strzygowski). Nel 1920 si trasferisce all’Università di Amburgo, fondata da poco, e si addottora nel 1922 sotto la guida di Panofsky (del quale fu il primo allievo) e di Cassirer. Trasferitosi negli Stati Uniti, insegna come alla University of North Carolina (1925-27). Rientrato ad Amburgo, lavora come assistente alla Biblioteca di Aby Warburg, preparando al contempo la Habilitation con Cassirer. Durante la Seconda Guerra mondiale insegna in diverse università americane (New York University, University of Chicago, Smith College), per poi assumere dopo il conflitto la prima cattedra di storia dell’arte all’università di Oxford, che tiene dal 1955 fino al 1967, anno del pensionamento. Muore il 12 settembre 1971 a Londra. Fra le sue opere ricordiamo Misteri pagani nel Rinascimento (1958), Adelphi, Milano 1985; Arte e anarchia (1963), Adelphi, Milano 1997; L’eloquenza dei simboli (1983), Adelphi, Milano 2004 Humanitas e ritratto eroico (1986), Adelphi, Milano 2000. Sulla sua opera si vedano i saggi raccolti in Edgar Wind: Kunsthistoriker und Philosoph, hrsg. von H. Bredekamp, B. Buschendorf, F. Hartung, J.M. Krois, Akademie Verlag, Berlin 1998. ERWIN PANOFSKY Nasce a Hannover il 30 marzo 1892. Dopo i primi studi in giurisprudenza, passa alla storia dell’arte, addottorandosi con W. Vöge a Friburgo (1914) sulla teoria dell’arte di Dürer. Privatdozent ad Amburgo, vi acquisisce la Habilitation nel 1920. Gli anni Venti vedono la pubblicazione dei suoi studi teoretici e metodologici più impegnativi (elaborati a stretto contatto con la cerchia degli intellettuali che ruota attorno alla Biblioteca di Aby Warburg, in primis Cassirer e Fritz Saxl), che gli guadagnano nel 1926 l’ordinariato in Storia dell’arte. Nel 1931-32 insegna alla New York University: in seguito alla presa del potere da parte dei nazisti, torna negli USA nel 1934, e l’anno successivo diviene membro permanente dell’Institute for Advanced Study di Princeton, dove lavora fino al 1963. Muore a Princeton il 14 marzo 1968. Fra le sue opere più importanti ricordiamo i lavori teorici raccolti in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1988; Studi di iconologia (1939), Einaudi, Torino 1975; Il significato nelle arti visive (1955), Einaudi, Torino 1996. Sul suo pensiero, oltre alla citata introduzione di G.D. Neri al volume sulla prospettiva, si veda M.A. Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte (1984), Jaca Book, Milano 1991; S. Ferretti, Il demone della memoria. Simbolo e tempo storico in Warburg, Cassirer, Panofsky, Marietti, Casale Monferrato 1984.

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Fonti Parte I – Estetica e scienza generale dell’arte – Max Dessoir, Skeptizismus in der Aesthetik, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 2, 1907, pp. 449-468; poi raccolto in Id., Beiträge zur allgemeinen Kunstwisseschaft, Enke, Stuttgart 1929, pp. 119 (traduzione di Nicol Mocchi). – Max Dessoir, Objektivismus in der Aesthetik, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 5, 1910, pp. 1-15; poi raccolto in Id., Beiträge zur allgemeinen Kunstwisseschaft, Enke, Stuttgart 1929, pp. 20-33 (traduzione di Pietro Conte). – Max Dessoir, Allgemeine Kunstwissenschaft, in «Deutsche Literaturzeitung», 1. Teil: Nr. 44/45, 31. Okt./7. Nov. 1914, pp. 2406-2415; 2. Teil: Nr. 46/47, 14./21. Nov. 1914, pp. 2469-2482 (traduzione di Nicol Mocchi). – Emil Utitz, Das Problem einer allgemeinen Kunstwissenschaft, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 16, 1922, pp. 433451 (traduzione di Nicol Mocchi). – Edgar Wind, Theory of Art versus Aesthetics, in «The Philosophical Review», 34/4, 1925, pp. 350-359 (traduzione di Andrea Pinotti). Parte II – I “concetti fondamentali” della scienza dell’arte – Edgar Wind, Zur Systematik der künstlerischen Probleme, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 18, 1925, pp. 438-486 (traduzione di Pietro Conte). – Erwin Panofsky, Probleme der Kunstgeschichte, in «Deutsche allgemeine Zeitung», 17. Juli 1927, Nr. 327-328, Sonntagsbeilage (“Welt und Werk”), pp. 1-2; ora in E. Panofsky, Korrespondenz 1910 bis 1936, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2001, pp. 957-963 (traduzione di Pietro Conte). – Emil Utitz, Über Grundbegriffe der Kunstwissenschaft, in «Kant-Studien», 34, 1929, pp. 6-69 (traduzione di Nicol Mocchi e Pietro Conte). In ogni testo, le note a piè di pagina sono dell’autore, quelle fra parentesi quadra sono del traduttore. * Il curatore ringrazia Gabriele Scaramuzza, alle cui lezioni ha per la prima volta appreso i fondamenti della scienza generale dell’arte, e Giovanni Matteucci, che ha promosso la pubblicazione di questo volume nella collana “Relazioni e Significati” delle edizioni Clueb. È particolarmente grato ai traduttori, Nicol Mocchi e Pietro Conte, con i quali ha potuto

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mente discutere le complesse implicazioni teoretiche e linguistiche dei testi qui presentati, ricevendone consigli e suggerimenti sempre preziosi, nello spirito di una collaborazione che è andata ben al di là dei confini di una traduzione. Ricorda infine l’intenso scambio sui “concetti fondamentali” avuto con Guido Davide Neri, la cui memoria vive in questo lavoro.

Max Dessoir

Lo scetticismo in estetica (1907)

1. Per “scetticismo” non intendo un gioco frivolo con le cognizioni e i procedimenti scientifici, bensì il serio dubbio in merito alla possibilità di conseguire verità univoche, teorie universalmente valide, ampi sistemi, nella fattispecie nell’ambito dell’estetica e della scienza generale dell’arte. Il fondamento storico di una tale scepsi è una determinata condizione dello spirito scientifico in generale, o almeno di una parte delle scienze. Essa è giustificata in epoche in cui i mezzi intellettuali esistenti (specialmente i principi ispiratori e i procedimenti metodologici) o non sono sufficienti a soddisfare le esigenze, in qualche modo mutate, della conoscenza, oppure – ciò che può essere tanto causa quanto effetto di tale condizione – si rivelano inadeguati a risolvere problemi divenuti sempre più numerosi e complessi. In tali circostanze si adottano però anche altri mezzi conoscitivi. Spesso si viene così a formare un eclettismo che occulta le difficoltà e le contraddizioni esistenti sintetizzando modalità di comprensione precedentemente sviluppate e diversamente connotate. E si lascia magari rattrappire la scienza in una metodologia, credendo di non poter continuare con successo il lavoro, almeno non prima di aver delimitato con sicurezza la sfera di competenza della disciplina e di aver stabilito il giusto modo di procedere. Lo scetticismo è dunque la conseguenza più naturale e feconda della condizione storica indicata. Esso quindi non manca neppure nell’epoca presente, poiché oggi la cultura nel suo complesso si sottrae ai sommi principi e alle certezze assolute. Questo vale per la religione e per la filosofia, per l’arte e per la scienza. In tutte queste sfere d’attività l’uomo moderno si sente incapace di adottare una semplice formula. Mi pare che i filosofi, che pensano e creano nello spirito del presente, debbano lottare con esperienze troppo nuove e in continuo mutamento, scorgano troppe possibilità e siano troppo poco ingenui per poter restar fedeli alla consolidata sicurezza di una qualsiasi formazione teorica e sistematica. Nel libro di Wahle sulla filosofia nel suo complesso, nell’introduzione di Simmel alla scienza morale, nel trattato di Dilthey sulla scienza pedagogica, nello scritto di Paul J. Möbius sulla condizione

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ta della psicologia1 – in queste dottrine, così diverse e scelte qui a titolo d’esempio, ritroviamo la stessa atmosfera. Accanto a questi lavori esiste però un buon numero di opere sicure di sé, i cui autori si credono superiori alle costrizioni di chi pensa vincolandosi all’hic et nunc. Solitamente, però, si tratta di lavori “atemporali”, da intendersi in senso negativo, e cioè senza alcun nesso con la specificità della nostra cultura. E proprio per l’estetica e per la scienza dell’arte ciò rappresenta uno svantaggio notevole, dal momento che uno dei presupposti di tali discipline è la sensibilità per la vita estetica e per l’arte, e questa sensibilità non può svilupparsi senza un diretto contatto con l’ambiente circostante. Si può infatti osservare come gli estetologi, i quali attingono i loro esempi principalmente dal presente, si allontanino nel modo più evidente da ogni forma di dogmatismo. La situazione della coscienza dell’epoca induce in ultima istanza colui che vi prenda realmente parte all’epochè o alla sospensione del giudizio. A ciò si aggiungono i motivi relativi alla condizione attuale della nostra scienza specifica, ma anche della sua condizione permanente. Ad essi è dedicato il corpo principale del mio saggio. Infatti, tali motivi fanno sì che nel caso specifico la teoria del dubbio diventi un orientamento particolarmente degno di nota. Già Protagora aveva reputato necessario motivare la sua tesi secondo cui non esisterebbe alcuna conoscenza razionale intorno agli dèi con considerazioni obiettive quali l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana2. Innumerevoli esperienze condussero gli scettici a quella duplice conclusione che gli Schizzi pirroniani esprimono nel seguente modo: «Per “ugual forza” intendiamo parità rispetto alla credibilità e alla non credibilità, in modo che nessuna delle due ragioni contrastanti sia preferibile all’altra; “sospensione del giudizio” è un atteggiamento della mente, per cui né rifiutiamo, né accettiamo»3. Il celebre Sic et non di Abelardo4 si fonda su una precisa conoscenza delle dottrine ecclesiastiche, opponendosi ad un atteggiamento troppo sbrigativo nelle questioni teologiche. In modo non frivolo, ma anzi fondato su un’ampia visione d’insieme, Bayle ragiona sull’intreccio alla fin fine insolubile dei problemi filosofici. Un punto di vista simile si lascia ricavare per l’estetica dalle osservazioni e dalle considerazioni che proponiamo qui di seguito; a tal proposito, vorrei rinviare al capitolo del mio libro dedicato ai principi, che in un certo senso suona la campana a 1 [R. Wahle, Das Ganze der Philosophie und ihr Ende. Ihre Vermächtnisse an die Theologie, Physiologie, Ästhetik und Staatspädagogik, Braumüller, Wien-Leipzig 1896; G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe, Hertz, Berlin 18921893; W. Dilthey, Über die Möglichkeit einer allgemeingültigen pädagogischen Wissenschaft (1888), in Gesammelte Schriften, Bd. 6/2, Teubner, Leipzig-Berlin 1924; P. J. Möbius, Die Hoffnungslosigkeit aller Psychologie, Marhold, Halle a. d. S. 1907.] 2 [I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1993, p. 894.] 3 [Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 5.] 4 [Cfr. P. Abelardo, Sic et non: a critical edition, ed. by B. B. Boyer e R. McKeon, University of Chicago Press, Chicago 1977.]

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morto per le generalizzazioni precipitose e può trasformare il lettore in un ephektikos. A prescindere dal ritmo generale della vita spirituale che ci scorre intorno, la cosa principale resta che nell’essenza stessa dell’estetica, o almeno nella sua situazione attuale, sussistono cause concrete che determinano un atteggiamento scettico. Se le cose stanno così, allora coloro che si dichiarano più o meno fermamente favorevoli a questo orientamento non dovrebbero essere confusi con gli scettici d’altro tipo. Da una presunzione esattamente opposta al modo di pensare che abbiamo descritto deriva il dubbio fondamentale nei confronti del Nuovo. Chi non ha imparato a conoscerla, questa scepsi causata dall’ignoranza e dalla presunzione? Personalmente mi ci sono imbattuto quando si dibatteva sull’attendibilità dei fenomeni ipnotici. Ad essa si accompagnava l’espressione razionale di una stanchezza e di una saturazione scientifica. Rinunciando ad una spiegazione oggettiva e imputando l’insuccesso degli sforzi soggettivi all’irraggiungibilità dell’ideale conoscitivo, si forma un’indifferenza esanime, che dichiara inutile qualsiasi lavoro. Ma lo scetticismo da noi inteso esorta piuttosto a diligenti ricerche specialistiche. E anche in questo si rivela il suo valore. La dottrina che trae il suo nome da Arcesilao deve la sua grande efficacia non solo alla confutazione delle scuole metafisiche, ma anche al fatto che, grazie al concetto di probabilità, si giustificava la possibilità di una ricerca positiva. I dogmatici annullano tutte queste differenze e dichiarano del tutto imbecille o parassita chiunque eserciti l’epochè, confondendo non di rado il valore pratico della risolutezza con il valore ben minore che la stessa caratteristica possiede per la definizione di una verità scientifica. Nella vita il coraggio risoluto è una delle doti più stimabili, poiché qui la volontà è contrapposta a volontà e l’agire – lo stesso agire motivato e orientato in modo oggettivamente sbagliato – resta pur sempre più vantaggioso di una costante esitazione. La scienza, al contrario, non può “risolvere” un nodo gordiano con un colpo di spada, non può posizionare verticalmente un uovo con la forza; e quindi ci costringe molto più spesso alla rinuncia. Al suo progresso serve anche il tipo spirituale non adatto alla vita, i cui segni distintivi sono: poliedrica sensibilità, udito fine ed una considerevole soggezione per le parole ultime. A dire la verità, la disperazione che attorno a sé vede solo macerie talvolta è più benefica della noncuranza degli specialisti. Così, per lo meno, mi è sempre sembrato che vadano le cose quando ci si trovi a che fare con materie molto complesse. Quando, all’incirca vent’anni fa, difesi nel mio primo libricino5 l’ipotesi di un doppio nesso all’interno della coscienza, aggiunsi: «Sicuramente ai giorni nostri dobbiamo dare la priorità alla precisa descrizione del particolare rispetto ad una discussione dei sommi concetti generali, che viene di solito condotta con sorprendente audacia. Ma quel che ancora manca è proprio una scrupolosa definizione del particolare. Anche l’ipotesi del doppio Io è un’astrazione generalizzata rica5 [M. Dessoir, Das Doppel-Ich, Günther, Leipzig 1890 (II ed. ampliata 1896).]

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vata da innumerevoli osservazioni, ognuna delle quali esigerebbe probabilmente una sua spiegazione specifica». Con simili pensieri mi pongo oggi nei confronti delle principali questioni dell’estetica: laddove altri vogliono ravvisare una soluzione definitiva, io scorgo solo delle possibilità troncate. Ora, si obietta il fatto che «in questo libro il pensiero non è abbastanza rigoroso», si rimprovera il suo autore «di indecisione e di mezze misure»: mi consola che queste parole, che sembrano dedicate a me, siano state in realtà rivolte alla Introduzione alla filosofia di Paulsen6, cioè a un libro che certamente corrisponde nel modo più felice alla sua destinazione, in un certo qual modo affine a quella del mio saggio. Non c’è niente di più facile che bollare ogni non liquet come una spregevole debolezza del suo autore; niente di più comodo che giocare trionfalmente la carta delle “perentorie” esigenze della scienza e dei suoi metodi “riconosciuti”; niente di più efficace che liquidare le concezioni divergenti dalle proprie marchiandole di “superficialità” e “non-scientificità”. Nella «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft» Volkelt ha sinteticamente riportato alcuni campioni di questo modo di procedere7. Anch’io potrei proporre degli esempi simili, come quella critica che dichiara il mio gusto «specificamente moderno», accusandolo implacabilmente di «mancanza di rigore scientifico». Ciononostante, in una prospettiva generale, è più importante considerare il fatto che nel nostro campo i rapporti sono ancora visibilmente confusi e che occorre aver pazienza e indulgenza reciproca. Proprio noi, che abbiamo cura della sensibilità per le opere d’arte e per le personalità degli artisti, dobbiamo imparare ad immedesimarci in una forma di osservazione e di esposizione che risulta di primo acchito insolita, e dobbiamo ben guardarci da quel modo scorretto di fare che liquida chiunque dissenta come se fosse un essere inferiore. 2. Nella condizione attuale dell’estetica vi sono, a mio avviso, buoni motivi per rigettare qualsivoglia dogmatismo: da un lato l’insufficiente sviluppo delle scienze ausiliarie, dall’altro la molteplicità intensiva ed estensiva degli stessi fenomeni estetici. Quanto di tutto questo sia condizionato dalla situazione storica (e quindi autorizzi a sperare in un cambiamento) non è cosa che dobbiamo esaminare in questa sede in modo approfondito. Ci vengono dunque in aiuto due gruppi di scienze. Al primo gruppo appartengono le scienze della letteratura, delle arti figurative e della musica, e anche il materiale accumulato dall’etnologia; al secondo gruppo ascrivo la filosofia e la psicologia. Le scienze del primo gruppo fanno sì che le opere prodotte dalle varie arti vengano conservate o restaurate nella maggiore purezza possibile; stabiliscono nessi tra le opere; ci ragguagliano sulla vita e sull’attività dell’artista; indagano da più punti di vista la struttura dei pro6 [F. Paulsen, Introduzione alla filosofia (1982), trad. it. di L. Gentilini, Bocca, Torino 1911.] 7 «ZÄK», 1, 1906, pp. 161 ss. [J. Volkelt, Persönliches und Sachliches aus meinen ästhetischen

Arbeitserfahrungen, pp. 161-180].

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dotti artistici e chiariscono al contempo i fondamenti oggettivi delle impressioni procurateci dalle opere. Di tutti questi compiti, l’ultimo è purtroppo quello che viene svolto nel modo meno soddisfacente: filologi ed eruditi vi si accostano assumendo un punto di vista storico, e in particolare biografico, invece di approfondire questo aspetto evidenziandone la struttura e le componenti effettuali in un’articolazione oggettiva. Un’eccezione a tal riguardo è costituita dalla metrica, che è piuttosto sviluppata. Si va inoltre intraprendendo da ambo i lati una serie di ricerche analitiche che torneranno molto utili al nostro lavoro; ma per il momento siamo solo agli inizi, e ciò non permette all’estetologo coscienzioso di trarre alcuna conclusione di ampia portata. È la scienza musicale a corrispondere in massimo grado alle nostre esigenze: ci si adopera per pervenire a una «sintesi efficace e stabile fra gli aspetti tecnici e concreti di quest’arte da un lato e i suoi contenuti sensoriali e risvolti più intimi dall’altra», come ha detto una volta Friedrich Th. Vischer. Finché tutto questo lavoro specialistico non sarà ulteriormente sviluppato, le ipotesi della scienza generale dell’arte rimarranno campate in aria. Possiamo ben sperare che in futuro esse possano poggiare su solide basi; non aspettiamoci tuttavia alcuna certezza assoluta. Per il momento il singolo ricercatore si basa sulla propria cognizione dell’arte e su quella sensibilità scientifica che riesce a cogliere l’essenziale anche a partire da modesti lavori preliminari. In questo modo otteniamo però solo un livello medio di probabilità, e rinunciamo a quella certezza che si suole rivendicare tanto più decisamente, quanto più ridotta è la conoscenza dei risultati conseguiti nelle suddette discipline. L’etnologia, unitamente alle ricerche sulla preistoria, ha raccolto molto materiale. Ciononostante, per ciò che concerne le nostre domande principali, non è stata finora in grado di fornire alcuna risposta univoca, e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro. Ad esempio, vogliamo sapere se l’arte scaturisca da una predisposizione del tutto particolare della vita spirituale umana, oppure se la forma non sviluppata rappresenti un compimento spirituale diverso; chiediamo di conoscere la relazione che l’arte primitiva intrattiene con gli altri contenuti della sua sfera culturale, per poter comprendere, studiando questi diversi rapporti, l’intricata situazione che ci si presenta; ci auguriamo che, nel ricondurla alle condizioni dell’umanità primitiva, si possa veder semplificata la varietà dei fenomeni artistici che ci circondano; speriamo che l’analisi scientifica delle attività artistiche primitive ci ragguagli sui sentimenti che le generano e le accompagnano (siamo alla ricerca dell’espressione istintiva di bisogni estetici). Tutto questo, e molto d’altro, è avvolto per ora dall’oscurità, poiché l’etnologia per buoni motivi non è in grado di affrontare tali problematiche. Mi pare tuttavia che vada tenuto fermo un risultato che esorta alla prudenza. Diverse caratteristiche della vita estetica e dell’arte, che ci siamo sforzati di definire come permanenti e oggettivamente necessarie, rappresentano in realtà le vestigia di epoche antiche o anche le reminiscenze del mondo spirituale dei popoli primitivi. Come gli amuleti e i talismani non possono essere compresi a partire

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da noi stessi, ma solo in quanto resti di una cultura inferiore, lo stesso accade, ad esempio, ad alcune “leggi” dell’ornamentazione. Questo pensiero scettico può essere esteso persino alla dottrina dell’empatia. Per ciò che concerne la filosofia, per il momento bisognerebbe rinviare alla storia dell’estetica in essa compresa. Essa ci insegna ad essere ugualmente modesti. I principi che erano stati ricavati in determinate condizioni sono rimasti canonici nonostante quelle condizioni fossero ormai mutate, e sono stati trasformati unicamente nel loro aspetto esteriore: il nocciolo di tali teorie si cela in tradizioni filosofiche ingenuamente tramandate; e questo è increscioso, dal momento che dobbiamo descrivere e spiegare uno stato di cose che nel frattempo è cambiato dal punto di vista qualitativo ed estensivo (e da quello delle scienze ausiliarie). Se ci si vuole avvalere dell’antica teoria dell’unità nella molteplicità per pretendere dalla scultura un’unitarietà qualitativa del materiale, si entrerà allora in conflitto sia con l’arte dei nostri giorni, sia con i rinvenimenti e le testimonianze archeologiche. Non serve né parafrasare le formule rispettabili, né cambiarle di nome. Rivolgiamoci ora alla filosofia sistematica. Come dottrina dei valori universali essa può certamente sviluppare anche delle norme estetiche. Ma riguardo alla fondatezza e alla portata di una simile dottrina dei valori, le opinioni attualmente divergono. Se l’estetologo ravvisa il nodo principale della filosofia nell’epistemologia, allora dovrà fare i conti con il conflitto fra gli orientamenti gnoseologici. Se cerca di elevarsi alle somme questioni intorno alla visione del mondo e alla concezione della vita, allora prenderà coscienza del fatto che ciascun tipo diverso di concezione del mondo ha diritto di esistere. Detto altrimenti: dal momento che non esiste né un concetto incontrovertibile di filosofia e nemmeno un rapporto stabile tra essa e le altre scienze, tutto l’aiuto che l’estetica ne può ricevere non basterà a disarmare lo scettico. E tantomeno ci riuscirà la psicologia, confusa e travagliata com’è. Lo scettico, infatti, dovrebbe basarsi sulla teoria associativa o su quella appercettiva? Dovrebbe riconoscere l’inconscio oppure respingerlo? Dovrebbe ricorrere a motivazioni fisiologiche oppure cercare scampo nella riflessione concettuale? I sostenitori dell’approccio sperimentale si fanno beffe di coloro che credono di conoscere la natura dell’anima, e vengono a loro volta disprezzati perché non sono filosofi e quindi nemmeno psicologi. Con un semplice esempio vorrei mostrare quanto poco l’estetologo venga stimolato dalla psicologia scolastica dei nostri giorni, e precisamente per ciò che concerne le questioni estetico-psicologiche. Ciò mi offre al contempo l’occasione di richiamare una serie di problemi che è stata definita come la questione della molteplicità intensiva dei fenomeni. L’osservatore di un dipinto definisce un certo colore come “innaturale”. Per poter cogliere il significato estetico di questo giudizio, occorre comprendere il processo psichico che vi sta alla base. Apparentemente vengono messi a confronto due costrutti psichici equivalenti, e cioè il colore che sta dinnanzi agli occhi dell’osservatore e l’immagine mnestica delle cose naturali corrispondenti; la mancanza di concordanza fra questi due costrutti si

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esprimerebbe nel giudizio “innaturale”. In verità le cose stanno diversamente. La rappresentazione mnestica intuitiva non è mai determinata in modo così vivo e particolareggiato da poter costituire uno dei due termini di paragone. Mi permetto di poter criticare la naturalezza oppure la non naturalezza di una certa colorazione; potrei anche, con una certa facilità, richiamare alla memoria immagini visive di diverse colorazioni. Ciononostante, solo in casi eccezionalmente rari ho constatato in simili giudizi una rappresentazione ottica corrispondente alla percezione. Molto più spesso l’impressione della somiglianza naturale deriva dal fatto che, mediante la raffigurazione artistica, viene richiamata la stessa associazione verbale evocata dall’oggetto naturale. Di recente ho visto una nave dipinta che solca il mare sollevando ai lati spruzzi di un’acqua bianco-verdognola. Nel dirmi: «com’è fedele alla natura», ho osservato come fosse riaffiorata nella mia coscienza la parola “acqua glaciale”, giustificando così in un certo senso il giudizio estetico affermativo. La stessa parola era stata più volte utilizzata in riferimento alle acque oceaniche che avevamo potuto osservare dal ponte di un transatlantico. Il fatto che essa si ripresentasse ora costituiva la base del giudizio. Non è sempre possibile addurre un nesso simile: la coscienza allora ha solamente l’impressione assoluta della somiglianza o della dissomiglianza rispetto alla natura. Un caso simile è dato dal musicista dotato di orecchio assoluto che, senza saper nulla del suono che percepisce, ne coglie un segno distintivo per cui esso si presenta subito come un do o un re. In questo caso il suono udito non viene prima confrontato con un suono immaginato e quindi definito; allo stesso modo, nel nostro esempio, il colore reale non viene prima confrontato con un colore immaginato e quindi dotato di un predicato di valore. La comparazione, nel senso di un andirivieni fra l’Io che appercepisce e l’Io che determina, deve essere completamente respinta in quanto contrasta con i risultati dell’osservazione interna. Ma la psicologia non è ancora sufficientemente preparata per una spiegazione positiva che sia in grado di abbracciare la totalità dei casi. Essa pianta in asso l’estetologo non appena questo si domanda che cosa significhi “naturalezza” nell’arte, e in che senso tale naturalezza sia il segno distintivo di un’opera ben riuscita. Una volta che ci siamo intesi sul fatto che l’estetologo non può basarsi sulla psicologia volgare e spesso purtroppo nemmeno sulla psicologia scientifica, abbiamo già compreso quanto debbano essere intricati i processi psichici che interessano il godimento e il giudizio. La loro molteplicità intensiva rappresenta un serio impedimento per ogni forma di dogmatismo. Come si vede, i processi psicologici sono molto più ricchi e differenziati di quanto abbia potuto riconoscere qualsiasi teoria finora azzardata. Persino la migliore fra esse è rimasta, in fondo, ad uno stadio ancora infantile, edificata com’è su un ridotto numero di esperienze di carattere personale, spesso puramente casuali; ed è questa la ragione per cui chi è in grado di osservare con attenzione differenti orientamenti dei vissuti o la respinge o non la comprende affatto. A conclusioni simili sono giunte le ricerche di L. Martin e R. Baerwald sul comico, che hanno rilevato come le teorie a noi familiari

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tengano conto esclusivamente di determinati fatti, tralasciandone altri altrettanto frequenti e legittimi. Come esempio ulteriore cito qui l’intuitività della rappresentazione poetica. Per ciò che concerne la segnaletica stradale e le discussioni scientifiche (a condizione che vengano preservate da qualsivoglia elemento di artisticità) si tratta solamente di esprimere nel modo più chiaro possibile il senso o il contenuto di ciò che deve essere detto. Altre forme espressive – ad esempio nella vita comune i segni di ogni tipo, oppure nella scienza le curve, le formule, le tabelle – possono equivalere a parole e a proposizioni. Nella poesia questo non è possibile, dal momento che ciò che essa vuole restituire è per l’appunto un’opera d’arte linguistica; il poeta, e lui solo, sa risolvere tutto, e senza resto, in parole. La peculiarità della poesia è rivolta a coloro che sono in grado di godere consapevolmente delle cose, degli eventi e dell’umano all’interno del linguaggio. Tutto questo è indubbio. È dubbio, per contro, quale sia la specifica natura di un’esperienza vissuta che si compie all’interno delle forme linguistiche. Il fatto che il poeta induca generalmente ad una compartecipazione unitaria dei vissuti ne costituisce solo un presupposto; e quali siano i mezzi tecnici che gli consentono di produrre su di noi una certa impressione, è una domanda che solo indirettamente sfiora il nostro problema. La questione principale è piuttosto la seguente: che cosa vuol dire fare esperienza vissuta immediata per mezzo del linguaggio, godere pienamente pur tramite la realtà parziale delle parole? Ancora non possiamo dirlo, almeno non nel contesto di una dottrina ben strutturata, che soddisfi le osservazioni più esigenti, distinguendo ciò che è decisivo dalla massa degli elementi casuali e offrendoci qualcosa di più di un mero stimolo, per quanto utile. Nella maggior parte dei casi le nostre teorie sulla molteplicità interiore e sulla fragilità delle esperienze estetiche mi sembrano ancora a livello embrionale. 3. Personalmente ho tratto la conclusione che una presentazione utile ad ampie cerchie debba rinunciare a prender partito per una di quelle teorie che tutt’al più sono mode del momento, e possa proporre la propria interpretazione solo se i fatti sono già stati esaminati in modo sufficientemente approfondito oppure se non esistono altre dottrine degne di considerazione. A tal riguardo, per come è strutturato, il mio libro offre una rassegna piuttosto completa della molteplicità estensiva dei problemi estetici e artistici; in tal senso – se così si può dire – esso è espressione di una predisposizione enciclopedica. La suddivisione del materiale molto stratificato, alla quale attribuisco un certo valore, diviene comprensibile a partire da due principi fondamentali: entrambi hanno origine dallo spirito dello scetticismo. Da un lato occorre abolire le unità tradizionali e sostituirle con una pluralità di stati di cose e di concetti. La distinzione risolutiva, che del resto

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sostengo già da vent’anni8, interessa la totalità del campo; essa ha anche procurato il doppio nome alla «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft». Secondo questa concezione l’estetica non è filosofia del bello e la scienza generale dell’arte non è estetica, poiché sull’esistenza e sulla natura di tutte le arti non decide il gusto, bensì una facoltà di rappresentazione determinata dalla peculiarità dei mezzi d’azione9. Il gusto oppure la vita estetica possono sussistere indipendentemente dall’arte; l’artista è quindi più di un uomo dotato di buon gusto, e il mondo delle arti è più di una collezione di stimoli estetici. Resta certo da chiarire se quella cesura fra estetica e scienza dell’arte sia stata operata sempre nei punti più appropriati. Essa si era rivelata necessaria, poiché una considerazione livellante aveva arrecato danni tali che occorreva richiamare risolutamente l’attenzione sull’importanza delle distinzioni. L’estetica in senso stretto deve distinguere in particolar modo tra oggetto e impressione. Il fatto che nella maggior parte delle ricerche la natura dell’oggetto non venisse considerata o fosse trattata come mero dispositivo di innesco, costituiva una semplificazione illecita. Se è vero che i processi oggettivi si svolgono nel tempo, non si deve però senz’altro presupporre che il decorso del nostro godimento coincida completamente con il decorso oggettivo. Il rapporto tra le due parti è molto più finemente articolato e molto più ampiamente sviluppato di quanto siamo soliti pensare. Differenziazioni simili a queste si ritrovano anche sul lato della scienza generale dell’arte. L’ontogenesi e la filogenesi nello sviluppo artistico devono essere distinte; occorre riconoscere che il trattamento plastico non coincide senza resto con la fabbricazione di statue, che il lavoro pittorico non coincide con la produzione di dipinti e l’interesse letterario con l’attività poetica. Le arti figurative devono essere distinte in arte dello spazio e arte dell’immagine; l’arte drammatica è da ricondurre ad una doppia origine, ecc… Ulteriori distinzioni potrebbero rendersi necessarie, non appena volessimo esaminare il regno delle arti in tutte le sue ramificazioni. Forse il genio scopre la verità senza che gli occorra alcuna conoscenza specifica; noialtri però non possiamo discutere sui compiti artistici e sulle tecniche senza aver frequentato le case dei poeti e dei musicisti, gli atelier e le mansarde degli artisti. E se qualcuno si è immerso in questo mare di fatti, allora dovrà rinunciare a quelle teorie generalmente riconosciute, che poterono venire enunciate solo impoverendo il materiale e semplificando comodamente i problemi. D’altra parte, occorre tuttavia superare quei confini che invece non sono sufficientemente motivati da un effettivo stato di cose. Così mi sono sentito personalmente indotto ad abolire completamente il contrasto tra quale e 8 Cfr. «Bayreuther Blätter» 14, 4 [cit.]. 9 Si confronti per contro l’opinione secondo cui la stessa denominazione di «artista» non sa-

rebbe giustificata da un «modo comune di lavoro», bensì da una «affinità nel modo di valutare i prodotti realizzati da differenti modi di lavoro» (J. Cohn, Allg. Ästh.) [Allgemeine Ästhetik, Engelmann, Leipzig 1901].

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quantum. Ho pensato: l’arte come insieme di determinate opere ha certamente una qualità particolare che la eleva al di sopra della realtà, e già questa sola qualità potrebbe essere concepita sotto questo rispetto anche come un altro stato di aggregazione della realtà oppure come una forma intensiva di un determinato grado. Ho cercato di mostrare come il cosiddetto quantum assoluto, variando, susciti impressioni che sono da definirsi qualitativamente diverse; mi sono avvalso del concetto di “soglia estetica” applicandolo a concetti fondamentali, e di natura così intimamente diversa, come l’umoristico e il tragico. A questo proposito ho potuto riflettere sul fatto che in alcuni rari casi è possibile andar oltre il condizionamento storico che vincola la maggior parte delle produzioni artistiche, dal momento che esiste evidentemente una scala gerarchica che conduce dalle produzioni legate all’occasione del momento fino ad opere autenticamente immortali. In ultima istanza, un simile modo di vedere conferisce naturalmente un valore superiore a tutti gli anelli intermedi, ad esempio alla musica a programma oppure alla grafica in quanto arte visiva dotata di un risvolto poetico. La continua scomposizione da una parte, il superamento dei confini dall’altra, sono operazioni che rivelano, quanto a origini e scopi, un’affinità con lo scetticismo: dal punto di vista delle origini, perché una vivace sensibilità per la molteplicità e per l’indeterminatezza di costrutti altamente complicati tende alla scepsi; dal punto di vista degli scopi, perché in entrambi i casi la verità viene ricercata nelle sfumature. Questa finalità non è in contraddizione con l’esigenza logica (l’ente e l’esperienza vissuta dovrebbero essere definiti in modo completo ed univoco in tutte le loro configurazioni), ma necessita piuttosto di un ulteriore sviluppo nell’ambito delle possibilità delle scienze dello spirito. Certamente anche per lo scettico vale il principio di identità in quanto esigenza ideale posta al pensiero; ma tale esigenza non viene però mai soddisfatta con rigore da quella realtà su cui dovrebbero basarsi le teorie. Vogliamo osservare più da vicino questo stato di cose ed esaminarne le possibilità di applicazione all’ambito estetico. Il principio di identità si mantiene conforme all’esperienza nella misura in cui in ogni contenuto del pensiero sono sì ammesse più possibilità di realizzazione, ma viene escluso un numero incomparabilmente maggiore di rappresentazioni: posso fare esperienza del concreto e dell’astratto in diverse forme, non però a mio piacimento e in innumerevoli modi. L’unitarietà di un fenomeno psichico con se stesso – la sua indipendenza dal tempo e dal contesto nel quale viene vissuto, così come dalla persona che lo esperisce – è da definire in modo più negativo che positivo. Resta pur sempre da chiarire se questa definibilità limitata si addica alle nostre esperienze estetiche. Mi sembra che si possa rispondere affermativamente a questa domanda solo collocandosi in un’unica prospettiva. Presuppongo il fatto che gli oggetti estetici piacciono immediatamente in virtù di determinate proprietà oggettive, e mediatamente in virtù della loro posizione nei confronti della totalità del mondo reale e in rapporto agli oggetti estetici affini (o alle opere d’arte), e infine in virtù delle esperienze personali e degli stati d’animo che

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il fruitore associa a quegli oggetti. Ora, già a partire dall’inserimento di un oggetto in un contesto più ampio, e in modo ancora più evidente nel caso di giudizi e sentimenti che scaturiscono da riproduzioni dell’immaginazione individualmente condizionata, non sussiste alcuna uguaglianza fra i contenuti psichici di epoche diverse e di persone diverse. Ma la qualità oggettiva dell’oggetto impedisce una relazione con un numero elevato di contesti, scopi e simili, rendendo di regola impossibile l’aggregazione di stati d’animo opposti. Ciò che viene vissuto esteticamente nella relazione concreta con l’oggetto, è situato dunque entro determinati limiti e si avvicina all’identità nel suddetto senso. Di conseguenza l’impressione provocata da un oggetto con caratteristiche determinabili si può considerare come una grandezza sufficientemente definita. La contemplazione e la critica d’arte potrebbero anche fermarsi a questo risultato: per i loro scopi esse si accontentano di poter ipotizzare in ciascun caso singolo un effetto sufficientemente uniforme dell’oggetto colto adeguatamente. L’estetica vuole invece esaminare l’effetto in generale, e di conseguenza – stando alla nostra deduzione – il tratto distintivo dell’oggetto estetico tout court. E qui fallisce la teoria. Perché di nessuna proprietà di una cosa si può affermare: questa, e solamente questa, proprietà è la fonte della gioia estetica. Anche chi si dichiara a favore del giudizio scettico in riferimento alle nostre attuali conoscenze potrebbe attenuare la propria posizione richiamandosi all’analoga situazione in cui versano scienze caratterizzate da ben altro grado di esattezza e di fecondità. Le stesse sostanze chimiche possiedono forse una proprietà del tutto adeguata alla loro caratterizzazione? Viene subito in mente il peso molecolare, ma esso in realtà non è affatto caratteristico per la maggior parte delle sostanze, cioè delle molecole, e in fondo non lo è neanche per gli elementi, dal momento che è ben possibile che possano essere individuati due elementi con lo stesso identico peso molecolare (ad esempio il cobalto e il nickel ce l’hanno quasi uguale). Ciononostante, anche sotto questo rispetto esistono differenze particolarmente rilevanti tra fenomeni chimici ed estetici. Il chimico conosce almeno una proprietà delle sue sostanze, che è casuale e secondaria: la massa, il più o il meno. Noi invece possiamo solo supporre che ogni proprietà abbia un significato. Nella chimica ci sono reazioni, in virtù delle quali viene chiarita la natura degli oggetti; nell’estetica c’è l’unica reazione del soggetto, ed è qui che cominciano davvero le difficoltà. Nella chimica l’eliminazione del disturbo provocato dai fenomeni concomitanti permette di conseguire determinazioni molto precise e di individuare una perfetta conformità a leggi; nel nostro caso non ci si più aspettare una cosa simile. Le cose piuttosto stanno così: la parvenza di una conformità a leggi soddisfacente dal punto di vista scientifico deriva soprattutto dal restringimento artificiale dell’ambito che deve essere esaminato dall’estetologo. Richiamare l’attenzione su questo punto era l’intenzione delle nostre ultime osservazioni. Ora devono esserne ponderate le conseguenze.

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4. La molteplicità intensiva ed estensiva dei fenomeni impedisce l’utilizzo di un unico procedimento ed ostacola la formazione di un sistema. Quando i filosofi partecipano con contributi metodologici al lavoro di altre scienze, non sono solitamente ben visti dagli specialisti del settore, che lamentano l’intromissione non richiesta di persone non sufficientemente preparate, e ci definiscono degli incorreggibili dilettanti di professione. Questo giudizio è maligno e unilaterale, eppure può avere un qualche fondamento: prediligendo infatti i problemi metodologici, si tende purtroppo, e fatalmente, a sopravvalutarli. Presso la cerchia dei filosofi è radicata l’opinione secondo cui il destino di ogni scienza dipenderebbe da una soluzione netta di tali problemi; il ricercatore dovrebbe innanzitutto venire in chiaro sui procedimenti, prima di poter compiere le sue ricerche con successo. Devo tuttavia riconoscere che chiunque abbia una qualche familiarità con la storia delle scienze, vi troverà innumerevoli controprove. Se aspettiamo ad intraprendere un lavoro fino a quando siano risolte tutte le controversie intorno al procedimento migliore da adottare, non ci muoveremo di un passo. Quel consiglio metodologico sembra tuttavia evidente: nello stesso spirito si raccomanda allo scolaretto di pensare prima di parlare, oppure si esortano gli artisti a non iniziare l’esecuzione prima di aver definito il progetto nei minimi particolari. Ma così facendo si commette un errore, proprio perché i progressi del metodo, nella misura in cui vanno al di là dei modi di dire comuni, si ottengono in virtù di un’interazione vitale con il lavoro specialistico. Così come il pensiero prende forma e si compie nel linguaggio, anche l’intenzione artistica si sviluppa contemporaneamente all’esecuzione. Anche nell’estetica dobbiamo limitare la sfera d’azione delle dichiarazioni, solitamente piuttosto infruttuose, sulle questioni di metodo e la stesura di programmi a buon mercato. Le ricerche sulle condizioni più generali dell’attività scientifica, e su differenze così profonde come quelle che sussistono tra le scienze della natura e le scienze dello spirito, hanno valore in se stesse. Sul versante opposto, le discussioni su quale sia il procedimento più appropriato alla risoluzione di compiti molto precisi, come ad esempio nelle ricerche sperimentali sull’effetto estetico di semplici forme spaziali, sono utili. Invece le osservazioni che stanno per così dire nel mezzo, che sono cioè rivolte ad una scienza sì specifica, ma considerata nel suo complesso, hanno forse in sé un valore astratto, ma solo in casi eccezionalmente rari possono imporre le proprie finalità al lavoro positivo. Ad esempio, quanto sostenuto da un rappresentante10 dell’estetica dei valori in merito all’intuitività del linguaggio poetico sulla «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», avrebbe potuto essere ripetuto quasi alla lettera anche da un sostenitore dell’estetica psicologica. L’autore sostiene, seppur in una timida nota, che vi sia un nesso tra i suoi concetti di valore e quelle spiegazioni psicologiche, ma né lo svolge né lo chiarisce: ma proprio questo 10 [J. Cohn, Die Anschaulichkeit der dichterischen Sprache, in «ZÄK», 2, 1907, pp. 182-201.]

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dovrebbe essere il compito che ci attende (e che continuerò a credere irrisolvibile almeno fino a quando esso sarà realmente risolto): dedurre da una definizione determinante dell’impresa estetica nel suo complesso le sue singole specificità. Una volta che l’estetologo si sia liberato dalla sopravvalutazione delle controversie metodologiche, non potrà più credere che si possa risolvere tutto mediante un unico procedimento. Piuttosto i metodi cambiano a seconda della natura del compito scientifico. Il piacere per le proporzioni formali deve essere esaminato da un punto di vista psicologico-sperimentale, mentre l’attività dell’artista richiede una trattazione altrettanto psicologica, ma di tutt’altro tipo. L’origine dell’arte va indagata con un metodo comparato, che viene utilizzato in particolar modo anche per la definizione delle caratteristiche fondamentali delle singole arti, ecc. In breve, dai diversi oggetti che si trovano riuniti nella nostra scienza hanno necessariamente origine diversi metodi. Ora, il filosofo non può certo fare a meno di mettere in relazione la presenza della vita estetica e dell’arte con i sommi principi; tuttavia non dovrebbe pretendere che il procedimento in tal caso osservato sia decisivo per l’accertamento scientifico, ad esempio, di certe forme metriche e del loro valore. Osservo inoltre che allo scettico non occorre schivare le questioni sulla concezione del mondo, poiché egli può considerare fecondo un minimo di osservazioni metafisiche, nella misura in cui esse rappresentano un tentativo del tutto personale. Così come, in tempi recenti, non si è riusciti a venire a capo del complessivo materiale dell’estetica e della scienza generale dell’arte adottando un unico procedimento, allo stesso modo non si è stati finora in grado di portare a compimento un sistema che sia degno di questo nome nel senso stretto della parola. L’ultimo sistema era stato abbozzato da Hegel e dai suoi seguaci; oggi ne sopravvivono ormai solo alcuni elementi particolari. Tutte le determinazioni del bello e tutte le manifestazioni dell’arte vi erano state ricondotte a un ordine coerente, che appariva necessario secondo i presupposti del pensiero dialettico. Alle altre imprese sistematiche manca invece o la cornice di una filosofia che abbracci l’essere nel suo complesso, oppure il principio di articolazione di un metodo che sia utilizzabile in qualsivoglia circostanza. Ma di per sé un sistema di estetica vero e proprio non è affatto possibile: ciò che si spaccia come tale oscilla in realtà su presupposti indimostrati, oppure utilizza il termine “sistema” in un senso particolarmente libero, anche se pur sempre lecito. Un sistema, come noi lo vorremmo, si svilupperà soltanto dalla connessione di tutte le ricerche specifiche e nelle sue articolazioni generali dipenderà proprio da due condizioni: in primo luogo dal riconoscimento che esistono molti stati di cose e che le teorie deputate al loro chiarimento hanno raggiunto un certo livello, e in secondo luogo dal fatto che queste cose sono note al ricercatore sistematico. La parvenza di un sistema autosufficiente e chiuso si forma certamente anche in altro modo. Al giorno d’oggi ciò accade in particolare così: o si

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impone come sistematica una determinata tecnica di rappresentazione; o si fa valere come sistematica l’attuazione di un unico principio esplicativo. A mio avviso ingiustamente. Una tecnica di rappresentazione che simuli una connessione sistematica si compiace di subordinazioni e di passaggi: le prime sono però espressioni di una sistematica vera e propria solo quando il rapporto dei concetti viene stabilito con precisione; i secondi solo quando si riesce ad assicurare una deduzione costante e senza salti. Per questo motivo la mera forma non può essere presa per la cosa stessa; l’aspetto esteriore del mestiere scientifico, che si lascia così facilmente apprendere, non garantisce ancora in alcun modo la connessione interiore dei pensieri secondo i due punti di vista essenziali, che sono quelli della costruzione e dello sviluppo. Confondendo lo schema (che tutti gli studiosi utilizzano per determinati compiti e in determinate circostanze) con lo spirito della cosa, si perde il senso per la finezza e per la ricchezza di configurazioni più libere. Non possono forse anche le opere scientifiche possedere una “forma occulta”? Può infatti accadere che un’esposizione venga troncata nel mezzo, che si salti senza un passaggio visibile da un oggetto all’altro e si interponga un episodio; e che, ciononostante, domini il tutto una connessione stabile che permette alla linea dell’argomentazione di progredire. La mancanza di forma e di articolazione di certi libri scientifici non è senz’altro un errore. L’umoralità degli uni, il procedimento circolare degli altri, non possono però degenerare in una diffusa ed esangue verbosità. Se oggi è ormai diventato normale scagliarsi violentemente contro ogni possibilità teoretica – non solo non lasciando nessun margine al lettore, ma sfinendolo al tempo stesso a forza di cose –, si ha l’impressione che si tratti più di uno sproloquio che non di profondità intellettuale. E questa impressione degenera facilmente nel ridicolo, dal momento che gli autori considerano se stessi e le loro opinioni infinitamente importanti; perciò essi impongono al lettore, enfatizzandolo con forza, il loro punto di vista come una conoscenza sommamente significativa e disimparano la preziosa arte dell’allusione. Nella nostra letteratura abbiamo bisogno, prima di ogni cosa, di moderazione, precisione e brevità. Queste caratteristiche conducono alla cura dello stile, altrettanto necessaria. Nelle nostre cerchie il detto «estetica non significa scrivere in bel modo, bensì scrivere sul bello», sembra aver avuto un certo effetto ammonitore, nonostante si tratti solamente di una freddura scolastica. Eppure trascurare la parola significa alla fin fine trascurare le finezze concettuali; una modalità espressiva grezza e mediocre si ripercuote in modo dannoso sulla ricchezza e sulla duttilità della formazione dei pensieri. Inoltre l’applicazione di un unico principio esplicativo non offre in sé ancora alcuna garanzia per una completa risoluzione del compito assegnato. L’infinita quantità e diversità dei fenomeni, per i quali deve valere lo stesso principio, vengono troppo spesso mutilate a favore del principio stesso. Ovviamente è possibile smussare la forma dell’uomo rendendola uniforme: basta strappargli braccia e gambe. Ma questo non gli giova. In fin dei conti

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gli stati di cose non sono lì per essere bistrattati e trasformati in burattini delle nostre elucubrazioni. Dopo aver ampiamente mostrato in passato quanto la scienza sia strettamente affine al potere, devo ora mettermi dalla parte delle cose dominate e rappresentare i loro diritti. Nessuno nega che sia utile sotto il profilo propedeutico, e soprattutto stimolante sotto il profilo dell’impresa scientifica, il tentativo di far valere, nelle questioni riguardanti l’estetica e la teoria dell’arte, esclusivamente un unico punto di vista oppure un’unica interpretazione. Ciononostante, ognuno dovrebbe al contempo provare un profondo rispetto per tutto ciò che è, e riflettere sul fatto che lo scopo del proprio lavoro non consiste nel mettere in mostra la mancanza di riguardo, e nemmeno la sagacia. Per “sistema” si intende un naturale dispiegamento dall’interno verso l’esterno. E ciò contrasta con il procedimento che impone ai fenomeni del nostro ambito di ricerca una teoria confezionata altrove, come ad esempio la teoria sensualistica del sentimento: si può infatti credere che le attività muscolari e le sensazioni organiche che accompagnano il godimento estetico debbano essere decisive nel determinarlo anche perché le si ritiene (troppo sbrigativamente e unilateralmente) responsabili dell’importante processo di unificazione. In verità, a proposito di questa sintesi sappiamo ben poco di certo, e ancor meno riguardo alle sue leggi. Possiamo certo riconoscere che il godimento estetico si dissolve non appena si colgano le componenti dell’oggetto singolarmente, all’incirca come il senso del numero 12.000 si dissolve se si colgono una ad una le cifre che lo compongono. Possiamo osservare ulteriormente questo processo di unificazione nei suoi effetti. Se in un dipinto un elemento capace di catturare immediatamente l’attenzione non è posto al centro, e ciononostante le diverse parti del quadro che vengono istituite da quell’elemento appaiono uguali, ciò dipende dal fatto che noi siamo in grado di (e al tempo stesso inclini a) cogliere sinteticamente quell’elemento, e in modo altrettanto facile e sicuro, tanto insieme all’una quanto insieme all’altra parte del quadro. Tuttavia, a mio avviso, non si sono ancora appurate le ragioni di questo fatto. La teoria secondo cui queste formazioni unitarie, che compaiono già al livello dei più semplici rapporti sensoriali, sarebbero opera del senso muscolare continua a destare dubbi; in ogni caso tale teoria non costituisce un sistema di estetica. Infine si deve considerare il fatto che molte volte quelle stesse relazioni che possono valere come strumento di unità si possono altresì interpretare nel senso di una scomposizione, suddivisione, animazione del tutto. Qui riecheggia una difficoltà fondamentale del pensiero, che proviene in particolar modo dalla teoria kantiana della scienza. L’a priori di Kant è un insieme di sintesi, di principi di successione e di possibilità di connessione; per Kant l’anima non significa sostanza, bensì una forza effettivamente scissa, in grado di istituire un ordine. Ma questa unificazione è al tempo stesso una netta delimitazione e una scomposizione, una separazione delle componenti, in modo tale che alcune di esse vengano riunite in un insieme. Certo, forse l’inclinazione più intima di Kant è stata orientata in questo senso,

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poiché proprio lui, che aveva proclamato la forza sintetica dello spirito, era in fondo un genio analitico. Con ciò si mostra già, e alla radice stessa del problema, come unione e divisione, unità e molteplicità si compenetrino a vicenda, come la stessa disposizione dello spirito possa essere considerata al contempo come un connettere e un disgiungere. I fatti della coscienza sono dunque ancorati, quanto alla loro possibilità, a condizionamenti a priori: ribadendo questo punto, ci sentiamo invitati a riflettere sull’estetica puramente filosofica. Prendiamo nuovamente le mosse dalla psicologia. Secondo una concezione molto diffusa, nella psiche vi sarebbero solo contenuti, in modo tale che tutti i vissuti, anche i più intricati, sarebbero da ricondurre in ultima istanza a semplici contenuti (sensazioni). Secondo un’altra teoria vi sarebbero invece solo attività, che vengono definite solitamente come manifestazioni dell’Io sintetizzate nell’Io stesso. Mi sembra più consigliabile stabilire l’esistenza di un essere psichico unitario e di due classi di proprietà, che definisco come “proprietà degli stati di cose” e “proprietà dei processi”. Con la prima espressione intendo innanzitutto ciò che siamo soliti denominare come contenuti psichici senza ricondurli ad un essere unitario; con la seconda espressione intendo invece gli atti psichici. Ora però domando: con la percezione e l’immaginazione, il sentimento e la volontà e simili si esaurisce la totalità delle proprietà dei processi? Il kantiano risponde negativamente. Egli assume, detto in breve, come prius dell’esperienza certi processi formativi, certe funzioni che spiegano l’ordine generale del mondo sensibile e altri fatti dell’esperienza. Domando inoltre: con i colori e i suoni e tutto ciò vi è di simile viene esaurita la totalità delle proprietà degli stati di cose? Il platonico risponde negativamente, dal momento che riconosce ad esempio nei concetti e nei valori qualcosa di più che non mere rappresentazioni di cose, ma anche qualcosa di più che non mere funzioni sintetizzanti. Ciò che al giorno d’oggi viene definito come oggettivo o costrutto o stato di cose (ivi compresi anche i valori, i mezzi e gli scopi), ciò che nel mio libro ho descritto come spirito oggettivo, ciò che vi è dunque di stabile e di sovraindividuale nello spirito, tutto questo sarebbe la potenza più alta e più nobile fra gli stati psichici possibili. La trattazione filosofica dell’estetica, se avviene in senso idealistico, dovrebbe quindi risolvere più compiti. In quanto idealismo critico dovrebbe individuare le leggi di validità a priori del pensiero estetico. Se alla base dell’arte – come della religione, della scienza e della morale – vi è una necessità razionale, essa si lascia cogliere tanto nella sua peculiarità quanto in rapporto con i restanti orientamenti dell’a priori; il successo di una simile ricerca gnoseologica consisterebbe, da un lato, nel fatto che si perverrebbe ad una concordanza con le teorie critiche sulla formazione di idee religiose (scientifiche, morali), oltre a fornire loro un completamento; dall’altro, nel fatto che la norma così ottenuta potrebbe essere utilizzata come criterio per i fenomeni della vita estetica e artistica. Dal punto di vista dell’idealismo platonizzante l’oggetto del giudizio estetico dovrebbe essere incluso tra i

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costrutti dello spirito oggettivo. Questa concezione comporta alcune conseguenze: in primo luogo, l’oggetto del sentire estetico non sarebbe solo una connessione peculiare di fenomeni, bensì un qualcosa che ricade sotto concetti generali; in secondo luogo, la sua oggettualità non si esaurirebbe mai nello stato di coscienza personale e momentaneo del fruitore; in terzo luogo, proprio per questo l’oggetto estetico sarebbe, dal punto di vista delle intenzioni o degli ideali, lo stesso per tutti gli uomini; in quarto luogo, il suo valore non potrebbe essere dimostrato né mediante alcuna scomposizione psicologica di un vissuto particolare, né mediante alcun fatto storico, né mediante alcuna deduzione genetica, ma sarebbe fondato unicamente su un’immediata certezza di ordine superiore. Se questo fosse un modo corretto di circoscrivere la filosofia idealistica dell’essere estetico e dell’arte, allora apparirebbero evidenti le difficoltà di trovare, muovendo da quella filosofia, un passaggio naturale verso la pienezza e la varietà dei fenomeni. Il consueto utilizzo di punti di vista empirici e psicologici mi sembra inadatto a questo scopo. Ad esempio, distinguendo l’estetico dal gradevole si è voluta comprovare la validità generale dell’estetico (validità che si presenta come esigenza) con il fatto empirico per cui ognuno può venire educato al godimento di opere un tempo disdegnate e si può col tempo immedesimare in creazioni di popoli sconosciuti e di tempi remoti, che invece gli apparivano dapprima bizzarre. Ma non sussiste alcuna relazione fra quella distinzione e questo fatto empirico. È oltretutto sbagliato – sia detto per inciso – interpretare quell’ampliamento come se fosse una possibilità esclusiva dell’estetico, dal momento che quella stessa possibilità sussiste anche nell’ambito di ciò che è meramente gradevole: nel mangiare e nel bere, e in tutti i godimenti grossolani. Il punto decisivo è sempre lo stesso, ovvero se a partire dai filosofemi astratti sia possibile pervenire alla ricchezza dei fenomeni, e se sia possibile eliminare contraddizioni significative senza trascurare i fatti. Se così non fosse, allora si dovrebbe quantomeno rinunciare alla fede nei sistemi estetici filosofici e si dovrebbe considerare la speculazione concettuale (che in parte precede, in parte segue l’estetica empirica) come fine a se stessa. I filosofi platonizzanti del presente, che di numero ormai quasi superano i kantiani ortodossi, dovrebbero essere memori del fatto che lo stesso Platone da vecchio aveva perso la fiducia nelle proprie certezze, accontentandosi di risultati verosimili ottenuti con l’osservazione e l’analisi. Colui che, muovendo dalla vita o dall’arte, perviene alla scienza estetica, spera in una verità pura e piena. Verrà deluso, poiché troverà molti più problemi che non soluzioni. Nei punti più decisivi si imbatterà in cose fra loro logicamente inconciliabili. Possiamo forse ingannarlo con dei dogmi? «Nulla infatti di ciò che ci appare nell’ordine empirico può essere giudicato ed enunciato con validità assoluta, ma comporta sempre una condizione limitante, tanto che noi non dovremmo in realtà chiamare il nero “nero”, e il bianco “bianco”, quando ce li troviamo dinanzi, e anche ogni esperimento, sia quel che sia e dimostri quello che vuole dimostrare, conduce con sé,

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per così dire, un misterioso nemico, una condizione che limita e confonde ciò che l’esperimento esprime a potiori. Questa è la causa per cui insegnando, e pure imparando, non si arriva molto lontano: a decidere è unicamente chi agisce, è l’artista, che si arroga ciò che è giusto e sa metterlo a frutto» (Goethe)11.

11 [J.W. Goethe, La storia dei colori (1810), a cura di R. Troncon, intr. di G. Dorfles, Luni,

Milano-Trento 1998, p. 389.]

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L’oggettivismo in estetica (1910)

1. Gli oggetti della considerazione estetica ci si fanno incontro in tre cerchie. Ci sono innanzitutto quei prodotti ed eventi della natura cui si ricollega il nostro vissuto estetico. Trattandosi in tal caso non solo di bellezza, ma anche di bruttezza, di cose sublimi o graziose e di molto altro di questo genere, la definizione di “bello naturale”, un tempo in voga, non coglie del tutto nel segno: preferirei chiamare l’insieme di questi oggetti la natura estetica. Il nome di cultura estetica, corrispondente alla seconda cerchia, è espressione assolutamente corrente. Nel mio libro Estetica e scienza generale dell’arte ho cercato di mostrare come le nostre forme di vita e di relazione siano definite da punti di vista estetici, e come anzi in tutti gli ambiti spirituali e nelle istituzioni sociali si estrinsechi in forma estetica una parte delle nostre forze creative. E ora, come terza cerchia, quel che più conta: il grande fatto dell’arte. A mio avviso vale anche per l’arte quanto ammesso da tutti riguardo alla natura e alla cultura, e cioè che i suoi fenomeni possono esser giudicati anche da un punto di vista diverso da quello estetico; su questo punto non c’è dunque bisogno d’insistere ulteriormente. A voler essere precisi, dovremmo parlare di arte estetica. È chiaro, in ogni caso, di che cosa si occupi la seguente indagine: di oggetti naturali, culturali ed artistici, nella misura in cui possiedono valore estetico. Ora ci chiediamo: questi oggetti posseggono una loro valenza estetica in se stessi, differenziandosi dalle cose extra-estetiche in virtù di una qualche caratteristica reale, oppure acquisiscono un significato estetico soltanto in virtù del tipo di considerazione cui vengono sottoposti? Il problema, nelle sue linee essenziali, è già stato colto da Schiller, il quale però purtroppo lo confondeva con la distinzione tra bello e brutto. Il 13 marzo 1791 Körner scriveva a Schiller: «Kant parla solo dell’effetto della bellezza sul soggetto, senza esaminare la differenza tra oggetti belli e brutti, che risiede negli oggetti stessi e su cui questa classificazione si basa. Egli afferma, senza fornire prove, che tale indagine sarebbe inutile; resta da vedere se questa pietra

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sofale non sia ancora da trovare»1. In seguito, Schiller si è impegnato a fondo per individuare le proprietà oggettuali del bello, come si evince innanzitutto dai Frammenti tratti dalle lezioni di estetica, e quindi dalle lettere su Kallias. Le formule da lui escogitate – «Bellezza è libertà nel fenomeno», oppure «esistenza in virtù della mera forma»2 –, per quanto fossero concepite per mettere in risalto l’oggettività del bello, rimasero tuttavia, in generale, oscillanti, e dovettero esser riempite in modo più ricco per poter sviluppare tutta la loro efficacia. Ciò che qui ci importa, però, è soltanto osservare la tendenza all’oggettivismo dell’estetica schilleriana. Schiller non nega che la «libertà nel fenomeno» derivi dall’empatizzazione di un’esperienza umana (quella della libertà) nell’oggetto, ma ritiene che così si individui l’essenza della bellezza dell’oggetto nella sua autodeterminazione, nella «necessità interna della forma», in «una regola data e allo stesso tempo seguita dalla cosa»3. Anche i fenomeni sublimi possiedono le loro qualità solo per gli uomini, ma è «negli oggetti stessi che deve stare la ragione per cui proprio e solo questi oggetti, non altri, ci consentono tale utilizzo»4. In realtà non può sussistere alcun dubbio riguardo al fatto che le distinzioni espresse nelle categorie estetiche poggino su differenti caratteristiche degli oggetti estetici. Quali processi siano comici, quali tragici, graziosi o sublimi, è un fatto che non viene determinato solo dalla direzione dell’animo del fruitore: certe cose non potranno mai esser dette graziose o tragiche. Su questo punto concordano i risultati della ricerca sperimentale, che mostrano come alcune forme (ritmi, accostamenti cromatici) risultino più piacevoli di altre; e ciò accade certamente in virtù della loro natura oggettiva, che qui, nell’ambito di rapporti elementari, può esser dimostrata abbastanza agevolmente. Questi risultati, però, non offrono alcuna delucidazione in merito alla qualità estetica in generale, dal momento che anche i rapporti brutti, gli accostamenti cromatici spiacevoli e le dissonanze, che io giudico dal medesimo punto di vista assunto per i processi piacevoli, appartengono all’ambito estetico. Nel migliore dei casi, dunque, per questa via si potrà riuscire a definire il bello elementare, ma non a spiegare l’estetico in 1 Schiller-Körner Briefwechsel, 2 ed., 1, p. 404 [Schillers mit Körner. Von 1784 bis zum Tode

Schillers, zweite vermehrte Auflage, hrsg. von K. Goedeke, von Veit & Comp., Leipzig 1878, p. 404]. 2 Säkularausgabe 12, p. 351 [la prima definizione compare nella lettera dell’8 febbraio 1793 inviata da Schiller a Körner, in F. Schiller, Kallias, o della bellezza. Lettere a Gottfried Körner, in Kallias, o della bellezza e altri scritti di estetica (1793), ed. it. a cura di C. De Marchi, Mursia, Milano 1993, pp. 47-90, qui p. 58; la seconda definizione, espunta nella trad. it. cit., compare invece nella lettera del 18 febbraio 1793 e si può trovare in Friedrich Schillers Werke und Briefe, hrsg. von O. Dann et al., 12 Bde., Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a. M. 1988-2004, Bd. 8 (1992), hrsg. von R.-P- Janz unter Mitarbeit von H. R. Brittnacher et. al., pp. 276-329, qui. p. 287]. 3 [Fr. Schiller, Kallias, o della bellezza, cit., pp. 57 e 74.] 4 [Fr. Schiller, Zerstreute Betrachtungen über verschiedene ästhetische Gegenstände, in Werke und Briefe, cit., Bd. 8, pp. 460-490, qui pp. 484-485.]

L’oggettivismo in estetica

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generale. Invece si presuppone sempre che il soggetto dell’esperimento sappia che cosa sia un atteggiamento estetico, e che solo in una tale disposizione d’animo egli faccia le sue osservazioni e formuli i suoi giudizi, poiché altrimenti non si potrebbero nemmeno confrontare i singoli risultati. Se, ad esempio, un soggetto valuta in base alla comodità dei movimenti oculari e un altro in base ad associazioni immaginative puramente personali, questi criteri sono completamente diversi tanto l’uno dall’altro quanto dal vero e proprio criterio estetico. La cosa peggiore è che, talvolta, il risultato può essere lo stesso, e si finge così che sussista una legalità oggettiva: è un caso raro, in cui però mi sono imbattuto più volte, e di fronte al quale ci si deve proteggere, dando al soggetto precise istruzioni prima dell’esperimento, e interrogandolo ad esperimento concluso. Con “oggettivismo estetico”, dunque, non vogliamo intendere il fatto che le proprietà specificamente estetiche (incluso il bello) si basino sulle qualità degli oggetti, bensì la teoria secondo cui l’ambito complessivo della natura, della cultura e dell’arte esteticamente intese possiede caratteristiche oggettive, cioè proprie dell’oggetto. Va compresa qui la considerazione del fatto che certi fenomeni sono particolarmente atti a suscitare la lode o il biasimo estetici, a differenza di altri che sono meno adatti a occasionare sentimenti e giudizi estetici. A questa concezione si contrappone, come “soggettivismo”, l’insieme di quelle teorie che non si curano delle caratteristiche oggettive dell’essere estetico, e credono di aver esaurito il proprio compito descrivendo ed analizzando l’atteggiamento estetico. Come punto di partenza di un’indagine, il soggettivismo è decisamente vantaggioso. Da un lato, infatti, riconosciamo la realtà estetica innanzitutto sempre e soltanto con riguardo al nostro atteggiamento, e d’altra parte questo atteggiamento, cioè la disposizione estetica, è in genere possibile in circostanze così varie che poté nascere quel punto di vista detto “pan-esteticismo”. Anche chi ammetta che il giudizio differenziante che si dispiega nelle categorie di “bello”, “brutto”, “comico” ecc., dev’essere ogni volta oggettivamente fondato, può spiegare la tendenza generale all’estetico come soltanto soggettiva. Chiediamoci allora, per prima cosa, come debba intendersi questa disposizione. Basteranno poche parole. Notoriamente, vi troviamo associata soprattutto la percezione. Senza una precisa comprensione dei rapporti formali e cromatici, delle armonie e dei ritmi, non può aver luogo quell’apprezzamento dell’oggetto che, per un uso linguistico consolidato, chiamiamo “estetico”. Ora, può sembrare che, anche per quanto riguarda gli oggetti più semplici della valutazione estetica, ciascuno interpreti i fattori citati a propria discrezione: un osservatore può considerare una linea obliqua come linea che scivola verso il basso, un altro come linea tendente verso l’alto, un terzo come un tentativo malriuscito di tracciare un’orizzontale. Queste interpretazioni soggettive, però, raggiungono ben presto i loro limiti. Già per ogni singolo costrutto si danno infatti poche possibilità, che si riducono fino a giungere all’univocità all’interno di un tutto, ed è sempre nel contesto di una totalità che d’altronde ci si presentano sempre nella realtà. Una

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particolare forma spaziale o un particolare plesso di suoni vengono accertati in virtù della connessione con le altre parti dell’oggetto, connessione che li protegge dall’arbitrio. La percezione in sé, dunque, o la componente immediata dell’impressione estetica, non è solo innescata dall’oggetto, ma anche in esso fondata e necessariamente dipendente dalla sua natura. Le rappresentazioni collaterali costituiscono il fattore “associativo” o “relativo”. Ma questi aggettivi sono azzeccati? La prima espressione, di Fechner, implica la dubbia assunzione che il processo psicologico consista sempre in un’associazione; la seconda designazione, proposta da Külpe, fa apparire la componente in questione – contro le intenzioni dell’autore – come qualcosa di assolutamente oscillante. Molte delle rappresentazioni collaterali derivano certo da un’esperienza puramente personale o da uno stato d’animo precedente, e sono dunque relative; altre però denotano effetti che derivano necessariamente da ciò che è dato, e per evitare fraintendimenti dovrebbero quindi essere indicate separatamente, oppure venire ricomprese insieme a quelle associazioni sotto un concetto più generale. Molto più importante, naturalmente, è l’effettiva individuazione di queste relazioni associate. Prima ne dubitavo, ma ora debbo credere che in almeno due casi esse siano incontestabili. Alla percezione di quasi tutte le opere d’arte applicata si collega la rappresentazione del fine cui servono tali opere; questa rappresentazione rientra nel godimento estetico come un suo momento essenziale. In secondo luogo, nelle creazioni dell’arte imitativa gioca un ruolo decisivo il pensiero rivolto alla realtà corrispondente. Ho già mostrato5 come in entrambi i casi non si tratti di chiare immagini rappresentative, e il mio libro prende in considerazione anche altre difficoltà. La cosa principale resta però l’incontrovertibile, concreta, non-soggettiva appartenenza di alcune rappresentazioni – soprattutto quelle relative al fine e alla realtà – all’oggetto estetico. Se queste associazioni non avessero validità generale, tutto ciò che va al di là della percezione e dell’empatia vivificante ricadrebbe nell’ambito privo di regole delle manifestazioni individuali. In realtà, ogni osservatore colto distingue tra il valore che risiede nell’oggetto e la propria reazione; il valore però viene in gran parte condizionato da rappresentazioni suscitate indirettamente (ne abbiamo appena citate le rappresentanti principali). Oltre alla percezione e alla rappresentazione, all’oggetto estetico viene attribuita una volontà. Il decorso formale degli atti volontari – il suo tendere e frenarsi, il suo crescere e diminuire – si ritrova anche nel godimento estetico; non però come processo puramente interiore, che venga semplicemente stimolato dall’oggetto e proceda poi in base ad una propria norma, bensì come processo esperito con l’oggetto e nell’oggetto. È questo aspetto dell’empatia a essere qui in gioco. È l’oggetto estetico, in questo caso, a tendere e a venir frenato, a slanciarsi e a essere ostacolato, e ciò proprio in ra5 «ZÄK», 2, p. 455 [si tratta del saggio del 1907 dedicato da Dessoir allo scetticismo in este-

tica, e tradotto nella presente raccolta].

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gione della sua struttura. Dobbiamo trattare queste determinazioni formali dell’atto volontario interiore come qualcosa di oggettivo, poiché siamo certi che, percependo di nuovo l’oggetto, proveremo il medesimo stato d’animo. Così, l’atteggiamento estetico è collegato all’oggetto da tre lati. Alla nostra scomposizione analitica manca però ancora un momento, e proprio quello che da tempo viene considerato come il più solido baluardo del soggettivismo: il sentimento. Su questo punto difficilmente si raggiungerà un’intesa. Possiamo almeno dar per certo, comunque, che, se anche il sentimento estetico rappresentasse un contenuto psichico elementare, con ciò non se ne sarebbe ancora dimostrato il carattere soggettivo. Come ho già sottolineato più volte, infatti, il piacere e il dispiacere non vengono semplicemente collegati agli oggetti intesi come loro cause, bensì vengono attribuiti proprio agli oggetti (per esempio ai colori e ai suoni) come loro proprietà. Ma allora il sentimento estetico non è un sentimento semplice e ben delimitato. Se lo riconosciamo per ciò che è in realtà, vale a dire un tipo di atteggiamento estremamente complesso, allora non possiamo ridurlo ad un mero stato d’animo. Anche il sentimento estetico ha la sua oggettività. Esso denota in particolare la completa fusione dell’Io con la cosa, suscitata dalla necessità intuitiva che domina nell’oggetto estetico o, detto altrimenti, dalla coappartenenza, che vi si manifesta, di elementi che possono però esser distinti. Nei confronti di una realtà empirica siamo meno esigenti; in una successione d’immagini o in un dramma la nostra tendenza all’oggettività pretende invece il più rigoroso collegamento, e quest’ultimo consiste nel fatto che ogni scena deve suscitare un bisogno, e soddisfarne un altro. È chiaro come questa concatenazione debba stare nel più stretto rapporto col sentimento in generale e col sentimento di realtà in particolare. Più forte è il sentimento, più vivamente esso sollecita una realizzazione concreta, direi quasi per sincerarsi di se stesso. Sembra che a queste considerazioni si opponga la nota teoria secondo cui il godimento estetico, in quanto piacere “disinteressato”6, non avrebbe nulla a che fare con l’esistenza del suo oggetto. Vogliamo intendere questa teoria nel senso che per l’Io della vita quotidiana lo specifico modo di esistere dell’oggetto estetico dovrebbe essere indifferente. Se qualcuno alza la mano per colpirmi e io, senza curarmi delle conseguenze, mi soffermo ad ammirare la bellezza del movimento, allora in un certo senso quel processo per me non esiste. Certo, un altro potrebbe giustamente chiedermi se non ho visto il movimento. Ma io risponderei ancor più giustamente: proprio perché l’ho soltanto visto, non ho evitato il colpo. In modo simile, forse, giudico negativamente un viso che mi guarda pieno d’amore solo perché i suoi tratti e il suo colorito sono brutti. Trascuro dunque proprietà essenziali della realtà. In una parola, sembra come se l’estetico fosse manchevole rispetto alla realtà piena, meno oggettuale o più “illusorio”. 6 [Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio (1790), ed. it. a cura di L. Amoroso, Rizzoli,

Milano 1998, §§ 2-3, pp. 151-155.]

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In verità, però, le cose stanno esattamente all’opposto. Poiché dinnanzi all’estetico recede ogni riguardo per il nostro stile di vita borghese e per i nostri desideri personali, esso viene inteso in senso rigidamente oggettivo, ovviamente di un’oggettività natura particolare. La “contemplazione pura” corrispondente alle tre dimensioni dell’estetico (natura, cultura e arte) ha fondamentalmente lo stesso significato di quella contemplazione pura che Aristotele definisce come il tratto caratteristico dell’atteggiamento scientifico7: è la costruzione di un nesso di relazioni e valutazioni, tramite cui si assicura al dato una completa realtà. Per sviluppare questa conoscenza c’è però bisogno di una trattazione più ampia. 2. Il concetto di “reale” non è semplice né univoco. Da quando, con un gesto gravido di conseguenze, Democrito e Platone hanno scisso questo concetto in ciò che veramente è da un lato, e nel mondo fenomenico dall’altro, la concezione ingenua è andata irrimediabilmente distrutta. La vecchia teoria dei due mondi, propria della filosofia antica, però non soddisfa più: bisogna ampliarla in una teoria di più mondi, che riconosca i molteplici generi e livelli dell’ente8. Se la legittimità di questo pluralismo dev’esser fondata, di nuovo, a partire da una prospettiva psicologica (cosa consigliabile per procedere in modo equilibrato nella nostra riflessione), ma se d’altro canto dev’essere orientata all’estetico, allora bisognerà tener presenti le differenze tra percezione, ricordo e rappresentazione fantastica. Le percezioni generano, nel cooperare dei diversi sensi, quella realtà che, in passato, si soleva chiamare “realtà comune”. Le rappresentazioni mnestiche possiedono un’altra realtà, incompleta e limitata rispetto alla polivocità e alla pienezza del mondo percettivo, ma comunque una realtà oggettiva, poiché vengono inserite in una connessione pensata come esistente di per sé. Certo, la soggettività riguarda la specificità psichica del processo del ricordarsi (così come quella del processo percettivo) ma nient’affatto il suo contenuto. Per qualunque auto-osservazione spontanea quest’ultimo vale come qualcosa di oggettivo: anzi, esso può manifestare la propria indipendenza dall’Io molto chiaramente, ad esempio nel caso del ricordo di una melodia che ci rimane ostinatamente in testa. Da ultimo, le rappresentazioni della fantasia: esse possiedono oggettualità poiché i loro contenuti si fanno incontro all’Io con 7 [Nella Metafisica, A, 2, 982 b, 20-28, si legge che gli uomini «ricercarono il conoscere solo

al fine di sapere, non per conseguire qualche utilità pratica. […] È evidente, dunque, che non ricerchiamo [la filosofia in quanto scienza] per qualche vantaggio che le sia estraneo; anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa»; citiamo qui nella trad. it. in 2 voll. a cura di G. Reale, Luigi Loffredo, Napoli 1968.] 8 Un primo passo in tale direzione è compiuto nella ventesima Lettera estetica di Schiller, in particolare nella nota [F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), ed. it. a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2005, p. 102, n. 68].

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una sorta di valenza autonoma, sviluppando inoltre in modo altrettanto autonomo relazioni che non sono esclusivamente suscitate dall’arbitrio del soggetto. La forza espansiva dell’oggettività si estende invece, in certe circostanze, fin nei recessi più intimi dell’Io, facendo in modo che quest’ultimo, insieme alle sue proprietà e ai suoi processi, si irrigidisca in una realtà indipendente. Il fenomeno in questione appare nel modo più vistoso in quelle situazioni anormali in cui l’Io che percepisce e agisce si dissocia come qualcosa di singolarmente estraneo da un Io soggettivo in qualche modo ancora presente9. Il sentimento di estraneità, noto alla maggior parte degli uomini da esperienze occasionali, culmina nel fatto che il proprio Io che parla e si muove venga sentito come contrapposto o lontano. Non sono solo le componenti ambientali ad apparire oggettive, estranee e lontane, ma anche lo stesso soggetto, con tutte le sue manifestazioni. Il più solido dei legami da noi vissuti si allenta: quel che altrimenti sarebbe reciprocamente collegato – la più intima coscienza dell’Io da un lato, la ricettività e l’attività della personalità dall’altro – si dissocia, si divide, si allontana10. Ad un tale spostamento, per così dire prospettivistico, si collega poi una meccanizzazione del vissuto, poiché la partecipazione vitale dell’Io agli eventi non viene più empatizzata. Al soggetto sembra che tutto, incluse le proprie attività, abbia luogo automaticamente: tutto va come deve, ma senza un’intima partecipazione della persona, risultando quindi inanimato, puramente meccanico. Di simili condizioni psichiche, del resto, ci informano anche gli attori, il cui sentimento dell’Io durante la recita è non di rado talmente privo di partecipazione che tutto sembra svolgersi secondo una legalità estranea. Dobbiamo menzionare un’altra deviazione della coscienza della realtà, poiché rientra altrettanto nel nostro ambito e illustra perfettamente la scomponibilità del reale. Oltre alle cerchie e ai generi di realtà citati, conosciamo anche una forma astratta, difficilmente descrivibile, dell’essere oggettivo. Quando gli artisti sono al lavoro, ecco che spesso, all’inizio, essi prendono coscienza del fatto che qualcosa di estraneo s’insinua nell’anima, qualcosa che non ha ancora ottenuto alcuna forma. Ci sono indizi del fatto che un’idea cerca di incarnarsi, ma per il momento si sottrae ad ogni determinatezza. Il sentimento è simile a quello della presenza, nello stesso spa9 Per ulteriori considerazioni sulla cosiddetta “spersonalizzazione” (o sentimento di estraneità) si veda la mia relazione Das Unterbewuȕtsein, presentata al Congresso degli Psicologi di Ginevra nell’agosto del 1909 [relazione pubblicata in «Zeitschrift für Psychoterapie und medizinische Psychologie», 1, 1909, pp. 193-212 e poi in Rapports et comptes rendu du VI Congrès international de Psychologie, Genève 2-7 août 1909, Kündig, Genève 1910, pp. 37-56]. Un pendant alla spersonalizzazione è costituito dal sentimento che sorge in occasione di vissuti sconvolgenti: quel che accade dev’essere un sogno, non può essere reale. (Il termine “pendant” significa qui, dunque, più “complemento” che “contraltare”). 10 Sotto l’effetto dell’etere si è osservata una dilatazione della coscienza temporale affine a questo fenomeno.

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zio, di un “altro”, e non si può dire se questo “altro” sia un animale, un uomo, oppure solamente un’illusione o un “fantasma”. Un contenuto oggettivo vuole prender forma nell’anima agitata, ma in un primo momento è solo in germe, una mera possibilità. In breve: abbiamo qui un caso singolo di un sentimento di realtà senza alcuna natura concreta. Tutti questi processi psicologici sono stati menzionati per mostrare in primo luogo che i confini dell’oggettività spesso si spostano, e in secondo luogo che si danno differenze qualitative dell’oggettività. Ammessi entrambi i punti, dobbiamo ora domandarci se si possano trovare caratteristiche comuni che contraddistinguano l’efficacia degli oggetti in generale. Certamente sì. Anche tenendo conto delle stranezze che abbiamo menzionato, bastano quelle caratteristiche che solitamente vengono addotte in modo abbastanza unanime nella teoria della conoscenza. Si tratta in fondo del criterio secondo cui ogni oggettività (osservando leggi proprie, che non sono quelle psicologiche) si contrappone come autonoma al soggetto che ne fa esperienza. Se determinati contenuti permangono uniformi mentre altri cambiano, e mostrano un nesso regolare ma non prodotto consapevolmente, allora essi costituiscono una realtà. La completa e peculiare conformità a leggi di una certa connessione ci assicura dell’esistenza autonoma dei suoi membri. Di tali connessioni, però, ce ne sono molte. Qui abbiamo a che fare con l’essere estetico. Bisogna innanzitutto stabilire che la legalità che gli compete non può essere semplicemente quella psicologica, e che la verità artistica non coincide tout court con quella psicologica. La ragione principale è evidente: di fronte ai prodotti estetici sarebbe impossibile provare il sentimento di qualcosa di oggettivo ed autonomo se essi fossero null’altro che “anima”. Che cosa innalza l’oggetto estetico al di sopra di ciò che piace ai sensi? Proprio il fatto che il gradevole limita la propria efficacia all’ambito psicologico (certo non solo a quello individuale, dal momento che riguardo a ciò che stimola i sensi vige un ampio accordo)11. Che cosa separa la verità artistica da quella psicologica? Come minimo il modo in cui quella verità appare. Persino quando godiamo della bella curvatura di una foglia o dell’elemento architettonico che le corrisponde in base ad un atteggiamento spirituale entusiasta, ne godiamo tuttavia, per così dire, metaforicamente. E tutto ruota proprio intorno a questo. All’oggetto estetico non viene “conferita” alcuna vita: esso vive piuttosto la sua propria vita, e ha la sua completa e specifica efficacia. L’oggetto si pone di fronte al soggetto con diritti e pretese. Non vuol esser giudicato soltanto dal punto di vista umano12. Prendiamo ad esempio un quadro di paesaggio. Luce ed

11 [Vengono qui ripresi gli stessi termini utilizzati da Kant nella Critica della capacità di giudizio, cit., § 3, p. 155.] 12 Anche un estetologo come Lipps non può disconoscere questo stato di cose, ma lo offusca tramite l’eccessiva dilatazione del principio dell’empatia. Nella sua Ästhetik [Psychologie des Schönen und der Kunst, 2 Bde., Voss, Hamburg und Leipzig 1903-1906] sono proprio le

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ombra, prospettiva ed armonia cromatica vi sono ordinate secondo una regola che potrebbe valere anche per altri alberi, prati e capanne; ciò significa che nel quadro non viene raffigurato lo spettacolo contingente di un gruppo di cose contingenti, bensì vi si esprime una legalità che travalica il momento singolo. Tra le parti agiscono relazioni di tipo necessario-intuitivo; il valore estetico delle parti è un valore connettivo. Questa legalità, però, la legalità estetica in senso stretto (come ad esempio quella dell’illuminazione) non si può mai e poi mai identificare con quella psicologica; dev’essere invece riconosciuta come una proprietà oggettiva dell’essere estetico. Per chiarire meglio la situazione vogliamo proporre un excursus ed esaminare l’affinità, molto dibattuta, tra arte e gioco. Essa è stata spesso fraintesa13, nel senso che parrebbe contraddire l’oggettivismo; facendo ricorso al gioco si voleva addirittura fondare una teoria della mancanza di vincoli e della soggettività della vita estetica. Qualcosa di vero, in quest’opinione, c’è: in entrambe le sfere perveniamo ad un regno di “serenità”, sottraendoci al fardello della vita “seria”. Gioco e arte liberano davvero gli uomini dalla pressione della realtà. Ma lo fanno trasponendoli in una nuova legalità. Consideriamo innanzitutto il gioco. Già i più semplici giochi infantili mostrano la tendenza a sviluppare al proprio interno delle regole. Nei giochi di movimento, ad esempio, bisogna concedere un vantaggio ad un bambino rispetto ad un altro, oppure un certo luogo vale come luogo neutro, o si deve saltellare su un piede solo, e altre cose di questo genere. I libri che raccolgono i vari tipi di giochi contengono innumerevoli esempi di tali regole. Lo stesso vale per i giochi degli adulti. Per i lottatori c’è un sistema molto elaborato di colpi ammessi e proibiti, mentre ovviamente, nel caso serio, è concesso quasi tutto, o almeno il limite stabilito da considerazioni di carattere etico si muove in tutt’altra direzione. Nei giochi di carte o in quelli da tavolo si assegnano arbitrariamente certi valori alle carte o alle pedine, e si determinano i rapporti tra queste ultime secondo regole ferree: se uno tenta di sottrarvisi, significa che con lui non si può “giocare”. Qui, dunque, vige un ordine oggettivo. Accanto a questo, certo, opera una condizione che non è definibile meccanicamente: il concorrente. L’opposizione, più o meno forte a seconda della sua abilità, costituisce la componente variabile del gioco. Per quanto riguarda il contrasto delle forze non c’è nessuna regola specifica, se non, al limite, quella per cui esso non deve durare all’infinito, ma ad un certo momento (stabilito preceprospettive marginali quelle più corrette e feconde; i termini ausiliari della teoria di Lipps dovevano diventare le parole d’ordine di una scienza scevra di pregiudizi. 13 Non però da Schiller: «Poiché tuttavia, sviati da un falso gusto e ancor più fortemente confermati da un falso ragionamento, si include il concetto di “arbitrio” nel concetto di “estetico”, osservo qui ad abundantiam (sebbene queste Lettere sull’educazione estetica non si occupino quasi d’altro che di confutare tale errore) che l’animo nello stato estetico opera bensì libero da ogni costrizione, ma niente affatto libero da leggi»; nota alla ventesima Lettera [Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit., p. 102].

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dentemente) deve terminare. Il punto finale, però, non viene raggiunto per la via più breve, o per una a piacere: vi si perviene, piuttosto, in ragione delle prestazioni sviluppate da entrambi i lati e sulla scorta della regola di gioco prescritta. Se ora rivolgiamo lo stesso genere di considerazioni alle arti figurative e a quelle della parola, possiamo definire il modello naturale della rappresentazione come la controparte dell’artista. Il poeta combatte giocando col racconto che sta alla base della sua opera, il pittore col suo modello. Come buoni giocatori essi devono sapere se sono all’altezza dell’avversario, e come lo devono affrontare. E la materia offre (certamente come grandezze variabili) vantaggi e svantaggi, grazie ai quali e nonostante i quali si perviene infine alla conclusione; certe materie (così come, nel gioco, certi avversari) esigono un trattamento breve, altre uno lungo. Per quanto concerne, poi, la regola del gioco, essa è data all’artista nei principi formativi del genere di arte prescelto. La regola del gioco del dipingere, ad esempio con acquarelli su carta, è molto più oggettiva di quella degli scacchi o del tennis su prato, poiché si fonda totalmente sulla natura di questo mezzo pittorico. Possiamo quindi considerare vero e dimostrabile il fatto che gioco ed arte non costituiscono ambiti di soggettività sfrenata, bensì sfere dotate di una specifica legalità, e come tali distinte dalla legalità dell’esistenza reale. 3. Se l’essere estetico reca in sé una specifica legalità, allora possiede una realtà oggettiva. Questa realtà è di un’oggettività tale che le regole del gioco o i principi formali appena citati non possono assolutamente venir trasgrediti; il genio artistico si mostra sempre e soltanto nell’arricchimento e nell’approfondimento delle regole, non nel loro vile aggiramento. A questo punto però intervengono altri due momenti. Riguardo al primo bastano poche parole. Si tratta del fatto che in riferimento al contenuto ogni opera d’arte conduce la sua propria vita (talvolta scontrandosi nella maniera più accesa con le intenzioni dell’artista): a partire da determinati presupposti la materia deve o può esser sviluppata solo in certe direzioni. Riguardo al secondo punto, una creazione artistica ottiene realtà nella misura in cui, in riferimento al contenuto, essa rinvia in virtù di una significatività generale oltre se stessa. Come il platonismo possiede un’esistenza indipendente da Platone, così si può estrapolare da ogni grande opera d’arte (soprattutto poetica) un giudizio sulla vita o una concezione del mondo, che viene a costituire un valore permanente ed oggettivo. Le poesie di Goethe, spesso nate come annotazioni del momento, s’innalzano al di sopra di qualsiasi poesia d’occasione, poiché colgono l’elemento umano nei suoi tratti più immutabili. Il valore dell’opera d’arte cresce con l’aumentare di una tale oggettività. La singola opera d’arte diviene così una componente della cultura spirituale, mentre tutto ciò che è meramente soggettivo resta escluso da questa grande connessione. Del tutto ovvia risulta, infine, l’appartenenza del singolo oggetto estetico al complesso dell’essere estetico. Non affronterei nemmeno questo

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to, se non fosse che talvolta la teoria dell’isolamento viene presentata in un modo che sembra contraddire il collegamento puramente estetico degli oggetti. La teoria, però, afferma soltanto che il prodotto estetico particolare è separato dal resto del mondo e, in questo senso, in sé compiuto. La cornice del quadro, lo zoccolo della colonna, il sipario del palcoscenico, la quiete da cui, come dal nulla, sorge l’universo musicale – tutti questi mezzi isolanti proteggono l’oggetto artistico dai contatti col mondo circostante e vengono interiormente riprodotti, anche al di là dell’arte, dal fruitore per intensificare il valore estetico di oggetti naturali e forme culturali. Essi significano però soltanto provvedimenti presi per evitare una mescolanza con la realtà empirica: il paesaggio sulla tela non dev’essere proseguito nei dintorni del quadro, la statua non deve toccare il pavimento, il regno del palcoscenico non dev’esser confuso con quello della nostra vita, la musica non dev’essere accostata al rumore di tutti i giorni. Solo nella misura in cui ciò che è confinante prende parte alla forma estetica dell’essere esso si collega all’oggetto estetico. Talvolta dunque il suo confine interessa una vasta zona, e da qui sorgono specifici problemi. Comunque si delimiti l’oggetto estetico nei casi particolari, all’interno del suo confine domina sempre un’oggettività che si discosta da quella del mondo circostante. La validità di questo principio è molto ampia, come si è spesso ammesso: anche le determinazioni più generali dell’essere spazio-temporale sono diverse nell’uno e nell’altro caso. I rapporti spaziali che vigono all’interno del quadro hanno la loro specifica natura. Notoriamente, non ci turba il fatto che un pittore permetta alla cornice di tagliare nel mezzo una cosa raffigurata nel quadro. Il motivo può soltanto essere che il senso di completezza nella sfera estetica dipende da condizioni particolari. In ogni caso, tale senso e l’unità spaziale che esso esige non hanno bisogno della compiutezza nel senso della cosalità naturale. In una parola: già nelle sue proprietà fondamentali la realtà estetica si differenzia da quella semplicemente data. Ogni oggetto estetico è separato rispetto al mondo degli oggetti reali. Non sussiste invece alcun isolamento in rapporto ai restanti oggetti estetici. Specialmente quelli del medesimo ordine, ad esempio le opere della stessa specie e dello stesso genere artistico, vengono piuttosto accostati l’uno all’altro in virtù della legalità loro comune. In ultima istanza, essi appartengono tutti ad una realtà complessiva, quella appunto estetica; e ciò non in senso metaforico, ma in senso assolutamente letterale. L’insieme degli oggetti estetici è uno dei gruppi o dei livelli della realtà, una classe con caratteristiche oggettive e regole specifiche, dunque né un mondo di parvenza né una creazione dell’arbitrio soggettivo. Lungi da me il voler illustrare di nuovo la struttura e le leggi di questo genere di essere; desidero però gettare uno sguardo su alcuni aspetti meno studiati del problema. Consideriamo innanzitutto la specifica difficoltà racchiusa nella natura intuitiva dell’estetico. Mentre i campi in cui si formano i concetti della metafisica e della scienza della natura sono chiaramente separati, in virtù del loro carattere non-intuitivo, dalla realtà esperienziale, il

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mondo della coscienza estetica corre il rischio, in virtù del suo carattere intuitivo, di venir confuso con l’essere concreto. È perciò importante dimostrare che, di solito, l’oggetto estetico non si realizza completamente nella cosa o nell’accadimento effettivamente presente, e che la sua esistenza non si esaurisce nel fenomeno esteriore del dato. Chiariamo subito quel che intendiamo dire facendo alcuni semplici esempi: le numerose variazioni possibili di tonalità di una composizione musicale, i vari formati di un’immagine, le variazioni nell’esecuzione di un brano o lo stato variabile di conservazione di una scultura. Si potrebbe in effetti recuperare l’antico paragone tra estetica e logica e dire, secondo l’esempio kantiano dei cento talleri14, che al costrutto estetico ideale deve aggiungersi qualcosa che estetico non è, per realizzare in tal modo la datità estetica; esattamente come al concetto logico deve accostarsi qualcosa perché dal pensato nasca un dato reale. Oppure, sulla scia di Spinoza e del suo principio «Omnis determinatio est negatio»15, si potrebbe far derivare l’oggetto del nostro godimento estetico concretamente esistente per riduzione dal costrutto estetico ideale (concezione certo molto più fondata dell’altra). In ogni caso, resta il fatto che l’oggettività estetica – benché di genere intuitivo – non coincide mai completamente con la realtà concreta dei fenomeni estetici. Anche dal punto di vista appena sviluppato, dunque, vale il principio stabilito prima: il singolo oggetto, nella sua forma vigente, rinvia al di là di sé. Ora, considerato nella sua compiutezza astratta, il regno estetico appare come un fenomeno intensivo. Presupposti dell’attività e del godimento estetici sono la dedizione alla forza e alla pienezza del mondo visibile, una vivace sensibilità per l’irripetibile fatto della vita e per quel grido di giubilo che incessantemente esplode intorno a noi: «Io sono!». Ma su questi presupposti s’innalzano le più mirabili intensificazioni dell’essere naturale. Ciò che è meramente reale s’irrigidisce nell’incondizionata necessità che incatena l’una all’altra le parti di ogni costrutto estetico, e si dischiude a tutte 14 [Si tratta del noto esempio portato da Kant contro la prova ontologica dell’esistenza di

Dio; cfr. Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, intr. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1979, 2 voll., vol. II, pp. 467-474. Alle pp. 472-473, in particolare, si legge: «Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. Perché, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l’oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l’oggetto, e però anch’esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c’è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l’oggetto, per la realtà, non è contenuto senz’altro, analiticamente nel mio concetto, ma s’aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere menomamente accresciuti».] 15 [La formula «determinatio negatio est» («la determinazione è negazione») si trova in una lettera del 2 giugno 1674 indirizzata a Jarig Jelles: cfr. B. Spinoza, Epistolario, ed. it. a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974, p. 226. La versione «omnis determinatio est negatio» è di Hegel.]

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quelle possibilità che non trovano spazio nel mondo empirico, in cui gli elementi vengono collegati sempre e soltanto secondo un’unica regola. Le due cose sono talmente unite che la necessità oggettiva domina sulla pienezza del possibile. Che cosa significhi tutto ciò, lo si capisce confrontando il mondo estetico con quello, altrettanto ricco di possibilità, del sogno: qui abbiamo una libertà soggettiva priva di confini, là una cogenza oggettiva. Le immagini che compaiono in sogno vengono spesso giudicate in maniera diversa rispetto allo stato di veglia, per esempio non ce ne meravigliamo affatto, sebbene ci sarebbe eccome di che stupirsi; non c’è però nessuna legge che regoli questo cambiamento dell’appercezione, per lo meno non nel senso dell’appercezione estetica, la quale risulta totalmente trasposta su un altro piano. Sappiamo che in sogno giudichiamo diversamente che da svegli, ma non possiamo rinvenire alcuno specifico punto di vista che informi tale giudizio. Già questa sola, profonda differenza dovrebbe impedire che si definisca la fantasia dell’artista una fantasia onirica, come accade di continuo. Sussistono anche differenze più sottili tra le sostituzioni magiche tipiche del sogno e le relazioni simboliche dell’arte. Se, in sogno, una persona rimane quella stessa che è in realtà, e ciononostante, contemporaneamente, può essere un’altra, all’interno della realtà estetica questa stupefacente soppressione del principio d’identità trascolora in un “simbolo”. Oppure, se nell’opera d’arte, come abbiamo visto, dominano rapporti spazio-temporali specifici, questi hanno però una natura regolare, in contrasto con la sconnessa arbitrarietà con cui il sogno manipola quelle relazioni. L’unico elemento importante che i due mondi hanno in comune non riguarda la loro struttura o i principi di collegamento, bensì il loro contenuto. La materia dell’attività creativa artistica deriva in gran parte dalla primissima infanzia dell’artista; ciò che distingue l’artista dagli altri uomini è soprattutto il fatto che egli si conosce fin nelle radici della sua esistenza. Sognando, tutti raggiungiamo questa profondità. La teoria freudiana, discutibile per quanto concerne gli altri punti, ha perlomeno reso inoppugnabile il fatto che i vissuti onirici non derivano solamente da stimoli corporei o esperienze appena vissute: molto più spesso, li si può ricondurre ad impressioni dell’anima infantile poi dimenticate. Il frammento d’infanzia che – altrimenti celato nei meandri più reconditi della personalità – viene alla luce nel sogno, vive nell’immaginazione dell’artista. Sussiste dunque un’affinità materiale tra la fantasia onirica e quella artistica. Per la problematica dell’oggettivismo estetico, però, si tratta di una questione solo marginale.

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Scienza generale dell’arte (1914)

1. Quando, in un’epoca di difficoltà che è allo stesso tempo un’epoca di rinnovamento, mi dispongo a parlare dei bisogni e delle prospettive future di una giovane scienza, lo faccio nella speranza che quell’interesse per i problemi di questa scienza, che si è recentemente destato e che è stato in più occasioni manifestato1, non vada del tutto perduto. Vorrei essere breve e limitarmi ai principi fondamentali, nonostante le discussioni meramente metodologiche risentano di un’inevitabile carenza2. Ma credo che in questo modo la sfera di competenza di una scienza generale dell’arte possa essere circoscritta nel modo più breve e chiaro possibile, poiché ogni discussione di questo genere si fonda su caratteristiche che sono attribuite alla struttura propria dell’oggetto stesso. Le riflessioni metodologiche sono di natura oggettiva e quindi risultano stimolanti da un punto di vista oggettivo, nella 1 Il problema nell’insieme viene trattato da E. Utitz, Grundlegung der allgemeinen Kunstwissenschaft, Bd. 1, e nella relazione sul Congresso di Estetica e scienza generale dell’arte (entrambi Stuttgart, Enke, 1914). In questa relazione non si trovano soltanto concezioni, spesso concordanti con le nostre, sulla necessità e sugli obiettivi dei nostri lavori, bensì anche feconde applicazioni nei differenti ambiti. Siccome il Congresso presentava qualcosa di innovativo, i giudizi ad esso relativi sono risultati più ampi e più ricchi di contenuto di quanto si è soliti vedere nei convegni. Dei molti scritti ricordo qui il saggio di R. Hamann apparso nell’«Internationale Monatsschrift» [Zum Kongreȕ für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik», pp. 715-731] nel marzo del 1914 e il contributo di O. Wulff per la «Zeitschrift für Ästhetik» (9/4, 1914): Grundsätzliches über Ästhetik, allgemeine und systematische Kunstwissenschaft [pp. 556-562]. Inoltre rimando alle osservazioni di Schmarsow pubblicate nella «Deutsche Literaturzeitung» (1914, 16-17 [Pro domo eines Kunsthistorikers, pubblicato in due parti nei fascioli 16 e 17 del numero 35, rispettivamente alle pp. 965-975 e 1029-1038]). 2 Come io mi immagini l’applicazione pratica, l’ho mostrato in riferimento all’arte figurativa nella ricerca Das Beschreiben von Bildern apparsa sulla «ZÄK», 8, pp. 440-461, nel pamphlet Das Bismarck-Nationaldenkmal (Diederichs, Jena 1912), pubblicato insieme a H. Muthesius, e in un rapporto inedito sul dibattito sul ponte di Colonia. La maniera da me auspicata di trattare le poesie sotto il profilo della scienza dell’arte emerge dalle introduzioni che ho steso per l’edizione Ullstein del Faust di Goethe, che non è stata ancora pubblicata [successivamente nel vol. 9 dei Goethes sämtliche Werke, Ullstein, Berlin 1923]. Per la musica vorrei analogamente rinviare ad un testo inedito, e cioè ad una conferenza sulla Folge von Musikstücken.

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misura in cui manifestano tratti dell’oggetto; a sua volta è dall’oggetto che dipendono i concetti propri dell’elaborazione scientifica. La scienza generale dell’arte è cresciuta ai margini dell’estetica filosofica e della ricerca storico-artistica. Per questo nelle sue aree di confine essa mantiene ancora la più stretta connessione con entrambi gli ambiti, pur avendo un contenuto essenziale del tutto peculiare, cioè la sistematica delle arti. Quando venne celebrato il battesimo della nuova disciplina, si scelse l’aggettivo “generale” innanzitutto per esprimere che non si trattava meramente di arte figurativa, di arte nel senso stretto della parola, e secondariamente per rifarsi al modello dell’“economia politica generale”, che – secondo la definizione di Schmoller3 – «prende le mosse dall’essenza della società e delle cause generali della vita economica sulle più ampie basi filosofiche» (mentre l’altra parte è storica e pratica). La nostra scienza abbraccia quindi la teoria generale dell’arte fondata filosoficamente. Resta da chiarire il motivo per cui tale teoria non possa essere senz’altro subordinata all’estetica. La ragione principale4 risiede nel fatto che da un lato esistono fenomeni estetici al di fuori dell’arte, e dall’altro che all’interno dell’arte stessa vi sono più di semplici valori estetici. Le bellezze della natura, incluse quelle del corpo umano, non appartengono al sistema culturale dell’arte (nemmeno se fossero catturate da una lastra fotosensibile): molto piace esteticamente, e cioè di un piacere relativo all’impressione pura, ciò che né l’uso linguistico né la dimostrazione scientifica possono attribuire all’arte. Le opere d’arte invece ospitano molti contenuti, ad esempio religiosi e morali, i quali, pur distinguibili da quelli estetici, non possono però essere concepiti a prescindere dall’opera d’arte, dal momento che ne determinano la forma. Nella poesia questo fatto dovrebbe essere universalmente ammesso. In ambito musicale vorrei ricordare che almeno le opere che fanno ricorso alle parole (o al programma) ricevono la loro impronta specifica in virtù dell’atmosfera suscitata da quelle parole. Per quel che concerne infine l’arte figurativa, chiunque può avvertire la stretta appartenenza, ad esempio, del contenuto religioso a un dipinto nel suo complesso; nel determinare «il senso dell’opera d’arte il contenuto non è indifferente, giacché per la configurazione esso è sempre stato di un’importanza decisiva»5. In virtù delle sue componenti extra-estetiche l’arte intrattiene una stretta relazione con tutti gli orientamenti della vita: la sua peculiarità non consiste nell’esclusività di un valore proprio puramente estetico, ma risiede 3 [Si veda G. Schmoller, Grundriß der allgemeinen Volkswirtschaftslehre, Duncker & Humblot, Leipzig 1900-1904, e i saggi recentemente raccolti sotto il titolo Historisch-ethische Nationalökonomie als Kulturwissenschaft: ausgewählte methodologische Schriften, Metropolis, Marburg 1998. Del Grundriß esiste una vecchia trad. it. di L. Eusebio, Lineamenti di economia nazionale generale, Utet, Torino 1905-1913.] 4 Altri motivi sono sviluppati nel mio libro Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft [cit.], e nella suddetta opera di Utitz, al quale mi collego occasionalmente nel testo. 5 [H. Tietze, Die Methode der Kunstgeschichte. Ein Versuch, Seemann, Leipzig 1913, p. 233.]

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piuttosto nel fatto che i diversi strati di valore si siano fusi, mediante una compenetrazione specifica, in una struttura ordinata e viva. L’esame approfondito di questa struttura deve venire assegnato nel modo più opportuno ad una sistematica dell’arte, in modo tale da eliminare fin dal principio ambiguità come quelle menzionate. Vi sono casi in cui chiunque, se dotato di una qualche sensibilità naturale, escluderebbe dalla sfera dell’arte autentica un gioco frivolo che si trastulli con stimoli formali estetici; e d’altra parte vi sono canti liturgici e immagini devozionali che, contro ogni evidenza, vengono menzionati con rispetto nella storia della poesia e dell’arte figurativa. Nella misura in cui la scienza estetica vuole assegnare alla realtà complessiva dell’arte un suo proprio contenuto chiaramente circoscritto, tale realtà non si lascia dunque esplorare con i mezzi limitati dell’estetica. Questo contenuto resta comunque sufficientemente ampio. Si consideri a tal riguardo il Sistema dell’estetica di Volkelt6, e cioè quasi 1300 pagine di discussioni sui fondamenti metodologici, sul valore estetico della percezione, dell’associazione, dell’empatia; sul piacere e sul dispiacere estetici; e ancora sulle quattro norme estetiche fondamentali di tipo psicologico ed oggettuale; inoltre sulle forme estetiche fondamentali (il bello, il caratteristico, il sublime, ecc…); e infine sul valore estetico in quanto valore in sé e sull’a priori estetico. Tutte queste ricerche manterrebbero – in linea di massima – una loro validità, se fossero riferite esclusivamente alla natura e alla cultura estetiche e non prendessero atto dell’esistenza dell’arte. L’identificazione del regno dell’arte con l’ambito dei fenomeni estetici ha prodotto alcune oscurità nei più recenti lavori di una qualche importanza. Hermann Cohen7, nonostante riconosca il nesso indissolubile tra morale e arte, oltre a mostrare interesse per alcuni orientamenti della nuova scienza dell’arte, persiste tuttavia nel definire l’arte (in quanto unità) come il vero e proprio problema di ogni estetica. Wilhelm Worringer8 vuole separare le considerazioni della scienza dell’arte dall’estetica solo perché questa si limita unilateralmente all’interpretazione del concetto classico di bellezza, fraintendendo a partire dai suoi presupposti – ad esempio – il modo gotico di dar forma. In pressoché tutti gli scritti che trattano del disegno (architettonico, meccanico e modellistico, un ambito che naturalmente implica, e senza eccezioni, considerazioni anche di ordine estetico), esso viene annoverato fra le arti, alle quali sicuramente non appartiene; si può agevolmente dimostrare che le istanze della prospettiva e della proiezione, che dominano nel campo del disegno, giocano un ruolo solo marginale all’interno dell’arte figurativa universale. E i manuali di poetica sono forse all’altezza delle grandi opere dell’arte poetica, se analizzano esclusivamente quei problemi formali che all’occorrenza anche un semplice compito scolastico 6 [J. Volkelt, System der Ästhetik, cit.] 7 H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls, 1912, 1, p. 67 [Cassirer, Berlin]. 8 W. Worringer, Formprobleme der Gotik, 1911 [Problemi formali del gotico, ed. it. a cura di

G. Frank e G. Gurisatti, Cluva, Venezia 1986].

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sarebbe in grado di risolvere? L’intera ricchezza di condizionamenti e di relazioni, che appartiene alla poesia, si dischiude tuttavia solo in virtù di una subordinazione a ben altri imperativi della rappresentazione. Anche se la coincidenza, consolidata nei secoli e per lo più acriticamente accettata, tra prodotto artistico e valore estetico fosse inammissibile, la loro strettissima correlazione non può certo essere negata. Le opere d’arte rappresentano un’occasione privilegiata per l’insorgere del comportamento estetico, motivo per il quale di regola ci si accosta ad esse con questo atteggiamento. Siccome le componenti che vi sono fuse sono solite ricevere una configurazione in virtù della forza di rappresentazione dell’artista creatore, che invita a indugiare nella contemplazione e ad abbandonarsi a vissuti fortemente sentimentali, allora l’effetto è davvero anche estetico. Ciononostante non definirei volentieri il godimento meramente estetico come vero e proprio godimento artistico, bensì circoscriverei quest’ultimo solo al caso di un atteggiamento che sia all’altezza dell’opera in tutte le sue relazioni. A questo obiettivo può ambire però solo un’adeguata valutazione dell’attività artistica e delle strutture oggettive. La considerazione dell’attività artistica può essere estesa fino alle più estreme finezze dell’artigianato, ma non può smarrirsi9 nella storia delle origini, perdendo di vista le condizioni presenti; l’individuazione della struttura oggettiva rimane la cosa principale, e va intesa in tutta la sua portata. Le cose perciò stanno nel modo seguente: per buoni motivi la scienza generale dell’arte, e cioè una scienza sistematica che esamini dal punto di vista teoretico l’ambito complessivo delle arti, deve essere separata dall’estetica (vale a dire dalla scienza dei processi psichici, delle norme, delle forme fondamentali, dei valori estetici), pur mantenendo la più stretta relazione con essa. Questa esigenza, generata dall’oggetto stesso, si scontra con il dato di fatto che da secoli le arti – perlomeno come arti particolari – vengono trattate da altre prospettive in modo dottrinale. Storici e filologi hanno dedicato loro una buona parte del loro lavoro. Resta da chiarire come si comporti a questo proposito la scienza generale dell’arte10. 9 Nel suo libretto War Greco astigmatisch? Eine psychologische Studie zur Kunstwissenschaft

([Veit & Comp.], Leipzig 1914, p. 14) David Katz afferma giustamente: anche se la peculiarità dell’arte di El Greco fosse effettivamente da intendere in senso genetico «come un’anomalia del suo organo visivo, la nostra valutazione dovrebbe tuttavia rimanere la stessa». 10 Ciò che segue nel testo costituisce solo un’integrazione, stimolata dalla letteratura più recente, della relazione con cui venne aperto il Congresso berlinese di estetica e scienza generale dell’arte (7 ottobre 1913) [Eröffnungsrede, in Bericht vom I. Kongress für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Enke, Stuttgart 1914, pp. 42-54]. Esigere – come fa Hamann (art. cit.) col senno di poi – che tutto avrebbe dovuto essere raggruppato attorno a quel discorso, è certamente molto lusinghiero per me, ma così si sopravvaluta la possibilità di organizzare un convegno in modo sistematico, specialmente quando si tratta del primo. Quando egli afferma che avrei informato l’insieme dei lavori, e dunque anche le mie stesse considerazioni, tenendo conto più dello spirito di conciliazione che non di quello del contrasto, dice il vero; tuttavia non ravviso in ciò alcun errore da parte mia.

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2. La storia della letteratura, della musica e dell’arte sono scienze storiche. Ai rappresentanti di una scienza generale dell’arte non è mai venuto in mente di violare in qualche modo questo loro carattere essenziale; soltanto uno strano malinteso può aver originato l’opinione secondo cui il nuovo orientamento, nato da un «incrocio di storia e di estetica», avrebbe la pretesa di sostituire il lavoro storico. Ciò non è affatto vero. Tuttavia, è certamente chiaro che il materiale peculiare di quelle scienze storiche debba essere liberato dalla mescolanza con altri materiali storico-culturali, affinché possa formarsi una successione intelligibile di ciò che è effettivamente stato. DvoĜák assegna alla storia dell’arte in quanto suo contenuto certi oggetti «come testimonianze di processi artistici e avvenimenti del passato, la cui individuazione ed interpretazione arricchisce il nostro sapere sullo sviluppo e quindi anche sull’essenza dell’arte», ma respinge all’interno della storia dell’arte «ogni delimitazione o scomposizione sistematica del concetto dell’artistico»11. Come potrà mai distinguere allora, fra tutti i monumenti tramandati, quelli specificamente artistici? DvoĜák afferma inoltre: «La forma artistica, lo stile, lo sforzo artistico» si dispiegano in «serie evolutive genetiche autonome», e sono queste a costituire il nocciolo della storia dell’arte (mentre i processi culturali generali, i rapporti economici e politici sono solo i presupposti esteriori dei processi artistici). Se le cose stanno così, allora è di un’evidenza palmare che debba essere fatta innanzitutto chiarezza sull’essenza dell’arte e sull’origine di un’opera d’arte, sulla forma artistica e sullo stile, prima che si possano istituire quelle «serie evolutive genetiche autonome». E proprio con tali compiti ha a che fare la scienza generale dell’arte. Le stesse esigenze valgono naturalmente anche per le altre arti, e nel modo più manifesto per la poesia. Nelle presentazioni storiche delle diverse letterature si rileva un’oscurità davvero impressionante per ciò che concerne il concetto di letteratura. Lo stesso autore di una teoria metodologica, Hermann Paul, crea la più grande confusione attorno a questo concetto. Assegnando all’arte poetica solo i costrutti puramente estetici, senza quindi identificare lo sviluppo della scrittura di grande valore artistico con la poesia, egli dunque decide di accogliere nella storia della letteratura «tutto ciò che si rivolge all’insieme del popolo o per lo meno agli strati di una certa cultura generale di medio livello»12. Con un’indicazione così duttile è difficile essere d’aiuto alla scienza. Ma nemmeno la definizione più innovativa e meglio motivata mi pare ancora del tutto soddisfacente: O. Schissel von Fleschenberg contempla una scienza della letteratura in senso stretto, e cioè «una sistematica della letteratura unita alla storia evolutiva della letteratura», che ha a che fare con le opere di poesia e di retorica, e una «storia della letteratura», che per lettera11 M. DvoĜák, Die Geisteswissenschaften, 34-35, 1914 [Über die dringendsten methodischen Erfordernisse der Erziehung zur kunstgeschichtlichen Forschung, in Die Geisteswissenschaften, hrsg. von O. Bueck und P. Herre, Leipzig, Bd. I, pp. 932-936 e 958-961]. 12 H. Paul, Grundriss der germanistischen Philologie [Trübner, Strassburg 1891, p. 216].

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tura intende la pubblicistica in generale, vale a dire tutto ciò che viene divulgato per mezzo della scrittura o della stampa, in generale tutto ciò che ricorre a una simile comunicazione13. È evidente che la seconda definizione è troppo ampia, per lo meno per popoli ed epoche dotati di un patrimonio di scrittura più ricco, mentre per la prima definizione «storia evolutiva della letteratura» manca per il momento una netta delimitazione. Sulla base di quanto è stato finora addotto emerge con sufficiente chiarezza il fatto che per la ricerca storica sarebbe auspicabile conoscere esattamente contenuto ed estensione di quell’oggetto di cui deve esser presentata la storia. Questo oggetto non può essere desunto dai contesti storici, poiché essi stessi devono essere selezionati secondo il criterio di un concetto guida. Per la formazione di una catena di fatti, in cui ad esempio si deve rivelare il divenire di uno stile, appartiene al principio della serie proprio il concetto di quello stile nel senso della scienza dell’arte: esso rappresenta il presupposto e non il risultato della serie, dal momento che senza un concetto simile essa non potrebbe nemmeno realizzarsi. Già Hegel ha sostenuto qualcosa di simile, certo in una veste metafisica, ma con convincente chiarezza: «Per poter riconoscere nella formazione e apparizione empirica, in cui la filosofia si produce storicamente, il suo progresso come svolgimento dell’idea, deve già possedersi indubbiamente la cognizione dell’idea stessa, allo stesso modo che il giudizio circa le azioni umane presuppone il concetto di ciò che è giusto e ingiusto. Altrimenti, come si può vedere in tante storie della filosofia, all’occhio privo della luce dell’idea si offre soltanto un cumulo disordinato di opinioni»14. Di recente, in una teoria del concetto di funzione elaborata in modo eccellente e brillantemente condotta, Cassirer ha dimostrato la necessità di una legge o di un principio produttivo per la formazione di qualsivoglia serie15. Pressoché contemporaneamente Franz Eulenburg16 ha illustrato come il patrimonio linguistico della vita quotidiana non sia sufficiente per ordinare i fatti e le serie storiche, e quanto piuttosto la storia del diritto e della religione, dell’economia e dell’arte necessitino di un’interpretazione sistematica delle stesse sfere del diritto e della religione, dell’economia e dell’arte con l’aiuto di concetti tecnici più specifici. Nella distinzione operata da Oppenheimer fra economia sociale in quanto dottrina funzionale e società economica in quanto costrutto storico, la se-

13 «Zeitschrift des Ferdinandeums f. Tirol u. Voralberg», 1913, p. 383 [Dritte Folge, 57.

Heft, pp. 382-387. Si tratta di una recensione del testo di Ch. Schneller, Ein Beitrag zur tirolischen Literatur- und Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts]. 14 G.W.Fr. Hegel, Sämtliche Werke, 13, p. 44 [Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze, vol. 1, p. 41]. 15 [E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit.] 16 «Archiv f. Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 35, 2, pp. 347 ss. [Über Gesetzmäßigkeiten in der Geschichte (“historische Gesetze”). Logische Untersuchungen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 35, 2. Heft, 1912, pp. 299-365].

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parazione tra i due ambiti mi sembra evidenziata nel modo più netto17. Infine si aggiungano le citate teorie di Hamann. Egli biasima con tutta franchezza il fatto che gli storici dell’arte abbiano acriticamente accettato come presupposti o categorie concrete (come quelle del materiale) o psicologiche (come quelle del motivo) o non artistiche (come la separazione di contenuto e forma), oppure concetti vaghi (come pittorico, poetico, drammatico, classico, monumentale, melodico). Egli pretende una sistematica dei concetti relativi ai fatti artistici, dunque una scienza svincolata dai generi e dai rapporti esistenti in campo artistico, affinché possa nascere una storia degli oggetti artistici: «Naturalmente lo storico deve chiarire a se stesso il significato di un concetto quando occorre applicarlo a un fatto storico, ma non è necessario che sia lui ad enunciare tali concetti e a definire le relazioni che vi sono implicate». Ma da dove proviene, dunque, la paura degli storici della letteratura e dell’arte nei confronti della costruzione logica in relazione agli stati di cose artistici e alle modalità espressive? In parte certamente dal fatto che un’attitudine particolare come quella storica è solo di rado associata ad un’inclinazione altrettanto forte per la sistematica; e d’altra parte anche dal fatto che gli storici, una volta definita la sequenza temporale, i dati contenutistici delle opere, le ricostruzioni della storia biografica e del percorso formativo dell’artista, credono di aver fatto tutto il necessario. Contrariamente a ciò, occorre però sempre di nuovo sottolineare la specificità di un oggetto artistico e il modo peculiare in cui è necessario trattarlo. La stessa definizione dei compiti dipende da questo. Che cosa non si è inteso in passato per “storia del teatro”! Solo Max Herrmann ha distinto con sufficiente nettezza la storia delle rappresentazioni teatrali o della cultura teatrale dalla storia del dramma come costrutto poetico, elevando le sue ricerche (che ovviamente non nascevano dal nulla) ad un rango scientifico superiore: «Il fatto che, dal punto di vista estetico, continuiamo a intenderci poco o niente sull’essenza di quest’arte teatrale, concorre […] a mantenere la storia del teatro ancora al di sotto del livello scientifico; ma anche la storia della letteratura, dell’arte figurativa e della musica hanno assunto un carattere scientifico solo da quando i loro rappresentanti hanno dedicato la loro attenzione alle questioni generali della produzione e della fruizione artistiche»18. La questione relativa al diverso carattere dell’arte figurativa nel Medioevo e nei secoli successivi si è potuta risolvere riconoscendo, dal punto di vista della sistematica dell’arte, che l’architettura (che dominava nel Medioevo) poté sottomettere a se stessa le altre arti, mentre la pittura (che sarebbe divenuta in seguito l’arte dominante), in modo altrettanto conforme alla sua natura, poté trasformare tanto la scultura quanto l’architettura. È quanto ha mostrato 17 [Il riferimento è alle teorie del sociologo ed economista Franz Oppenheimer: cfr. ad es. Theorie der reinen und politischen Ökonomie, Reimer, Berlin 1910.] 18 M. Herrmann, Forschungen zur deutschen Theatergeschichte des Mittelalters und der Renaissance, 1914, p. 4 [Weidmann, Berlin].

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Schmarsow, al quale si deve anche la comprensione dell’opposizione tra plastico e pittorico, che ha permesso di definire come pienamente plastico il nuovo stile che prendeva le mosse da Michelangelo19. Ma ancora non è stato chiarito come si comportino reciprocamente gli stili personali, nazionali ed epocali. Con la scomposizione dei concetti vengono al contempo svelate le loro relazioni oggettive. All’incirca come nella dottrina dell’economia politica, grazie a una accurata chiarificazione dei loro significati, l’impresa e i costi, la legge dei prezzi e la produzione agricola in calo rivelano un rapporto conforme a leggi, così nell’analisi delle canzoni di Bertrand de Born la maniera caratteristica del poeta si distingue tanto dallo spirito linguistico provenzale quanto dallo stile culturale cavalleresco e della chiesa cattolica: ma proprio in questo modo questi gruppi si presentano in una connessione descrivibile dal punto di vista scientifico. La loro interazione ricca di senso non è certamente paragonabile alla legalità matematica della natura; quelle scomposizioni concettuali non sono inoltre così importanti quanto i corrispondenti lavori volti all’individuazione e all’applicazione di principi giuridici; ma ciononostante possono rivendicare un valore considerevole. Se diverse forme della stessa poesia oppure due poesie vengono esaminate comparativamente nella loro dipendenza storica reciproca, tale procedimento diviene veramente fecondo solo quando la qualità materiale, il vincolo della forma, la personalità del poeta ecc. verranno considerate come grandezze specifiche. Prima di tutto occorre sapere come nasce un’opera d’arte e che cosa è. Non si può assegnare il compito di «risolvere» un’opera letteraria «negli elementi a partire dai quali era stata composta nell’anima dell’autore», ed osservarli nell’autonomia «che possedevano prima che la composizione venisse compiuta per tramite dell’autore»20. L’essenza di un’opera d’arte verrebbe infatti così fraintesa nella maniera più grave. Ho sempre lamentato il fatto che le ricerche specialistiche che riposano su così facili presupposti si possono trovare a centinaia nei bazar a buon mercato della scienza. Certo, so che giovani studiosi hanno spesso creduto che lo scopo di una dissertazione consistesse nel liquidare la domanda che era stata loro posta pensando il meno possibile con la propria testa, ma spero che questa tendenza venga sempre più arginata. I rappresentanti più autorevoli delle tre materie fondamentali non hanno alcun dubbio sulla necessità di presupposti fondati sistematicamente anche per i primi lavori dei giovani filologi e storici. 3. I sostenitori della scienza generale dell’arte si sono opposti allo storicismo che paralizza la conoscenza dell’arte; e ora si spera che con le loro costruzioni essi non rechino a loro volta violenza alla storia. La storia della letteratura, dell’arte e della musica valgono come scienze storiche certamen19 [Cfr. A. Schmarsow, Beiträge zur Aesthetik der bildenden Künste, Hirzel, Leipzig 18961899.] 20 H. Paul, op. cit. , pp. 219-220.

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te anche nel senso che si inseriscono nella storia generale come sue parti. La connessione tra archeologia artistica e scienza dell’antichità greco-romana mostra esemplarmente come lo spirito di un’epoca venga compreso dalla totalità delle sue manifestazioni. Se la storia ha generalmente a che fare con lo sviluppo politico e culturale dei popoli, nella misura in cui questi popoli siano comprovabilmente legati l’uno all’altro, allora l’arte vi è inclusa come una tra le forze attive in tale campo. Se la sua autonomia viene costruita erroneamente, e cioè in modo unilateralmente estetico, allora essa vedrà in gran parte compromessa la sua capacità di allearsi con il contesto storico nel suo insieme. Al contrario, occorre fare in modo che tutta la pienezza dei fatti artistici ricostruibili storicamente (e non solo appartenenti ad un unico ambito, bensì a tutti gli ambiti tra loro comparati) sia compresa nella fondazione sistematica. La scienza generale dell’arte necessita di una storia comparata dell’arte. Se in un primo momento abbiamo riconosciuto che lo sviluppo dei tentativi di configurazione artistica può essere indagato e presentato solo con l’aiuto di determinate categorie, ora occorre parlare in favore della valorizzazione della materia empirica nella sua completezza. Questo rapporto di reciprocità presenta dal punto di vista puramente logico alcune difficoltà, che tuttavia diminuiscono considerevolmente nel lavoro effettivo delle scienze dello spirito. Per la connessione della storia dell’arte con una storia generale della cultura non saprei citare alcun esempio recente. Walter Niemann si concede una divagazione sull’«ampio fondamento del terreno culturale generale», ma si limita a contrapporre alla «spiritualità astratta della storiografia artistica tedesca» una presentazione del materiale «dal punto di vista della razza, dell’etnia, del clima, della patria, nel contesto del popolo e della natura»21. A cuor leggero egli presuppone che ognuno, così come conosce il dialetto della propria razza e del proprio territorio, debba parlare anche una lingua musicale caratteristica del proprio paese: «Quello renano-assiano, in quanto tale, si esprimerà preferibilmente in un tono patetico talora quasi teatrale e con tinte wagneriane di grande effetto»; un altro sarà non autenticamente tedesco, perché «freddo calcolatore ed estrinsecamente teatrale»; un terzo «tradirà la sua provenienza dalla Germania centrale in virtù del suo spiccato senso per il colore». Vorrei sapere: a che cosa ci servono questi aggettivi, al tempo stesso indeterminati e scambiabili a piacimento, per un’esatta conoscenza storica? All’interno della storia comparata dell’arte, che sta anch’essa muovendo i suoi primi passi, vi sono concetti particolarmente caratteristici e radicati più profondamente: naturalismo, impressionismo, romanticismo e simili. Tuttavia, anch’essi mancano di quella necessaria unitarietà e determinatezza. Le tabelle di storia della musica elaborate da Schering22 definiscono gli 21 W. Niemann, Die Musik seit R. Wagner, 1913 [Schuster & Loeffler, Berlin-Leipzig, p. IX]. 22 [A. Schering, Tabellen zur Musikgeschichte: ein Hilfsbuch beim Studium der Musikge-

schichte, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1914; nell’ed. del 1921 p. 69.]

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anni dal 1790 fino al 1830 come “proto-Romanticismo”, con la nota esplicativa: «Completa formazione dello stile del contrasto, stimolato soggettivamente, all’interno delle forme tradizionali». Dubito che gli storici della letteratura possano essere d’accordo con questa definizione del concetto di “proto-romanticismo”. Non si tratta tuttavia di applicare a piacimento unità di significato come quella del sentimento romantico dell’arte ai diversi ambiti; poiché altrimenti sfugge all’osservazione comparata il grande fenomeno per cui lo spirito romantico si manifesta regolarmente in determinati momenti. La tradizione, tramandata nel tempo, che viene raccolta, esaminata e classificata dallo storico, serve al ricercatore sistematico a desumere semplici orientamenti fondamentali e ad acquisire principi di una determinata validità. In tal modo si forma induttivamente un insieme di conoscenze, mediante le quali i concetti che generano una serie storica vengono animati e perfezionati. Una catena di fatti artistici – com’è stato precedentemente mostrato – può essere composta, anello dopo anello, come storia del romanticismo, solo quando vi sia anzitutto un concetto essenziale relativo ai modi artistici romantici; ma ora comprendiamo come la pienezza dei processi così confluiti da tutti gli ambiti artistici, dai popoli e dalle epoche vada ad arricchire a sua volta quel concetto nel modo più felice, inducendo a revisionarlo, a migliorarlo e a metterlo alla prova. Colui che, nel rapporto complementare tra scienza generale dell’arte e storia comparata dell’arte, considera auspicabile uno sviluppo ulteriore di quest’ultima disciplina, deve difendersi contro gli attacchi che provengono tanto dal campo dei filosofi quanto da quello degli storici. Secondo le teorie di Windelband e di Rickert, sono i singoli eventi nella loro individualità a costituire l’oggetto della storia: «Un accadimento diviene storico per il fatto che, in virtù del suo significato unico, esso sarà riferito in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente, a dei valori»23. Questa affermazione è quantomeno da limitare. A sfavore dell’importanza assoluta di ciò che è unico parlano infatti i concetti di genere, dai quali nessuna osservazione storica comparata può prescindere, come ad esempio quello di un Medioevo (che si ripresenta regolarmente) oppure di uno stato feudale, le cui caratteristiche essenziali sono le stesse in Germania e in Giappone, prima o dopo la nascita di Cristo. Studiosi come Lamprecht e Breysig restano certamente degli storici anche quando analizzano gli oggetti corrispondenti a tali concetti di genere; la scienza storica non può farne a meno, così come qualsiasi scienza della natura che proceda in modo comparato. Per quanto concerne però il riferimento ai valori, è necessario che la scienza storica procuri alle successioni di fatti un obiettivo e un senso, che presenti un criterio di selezione nei confronti dell’infinità degli eventi e che reintroduca, e precisamente sotto forma di valore, quell’universale stigmatizzato come legge naturale. Sembrerebbe più facile presupporre fin dal principio come carattere distintivo della storia uno specifico rapporto del particolare nei confronti 23 W. Windelband, Einleitung in die Philosophie, 1914, p. 333 [Mohr, Tübingen].

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dell’universale. La storia comparata dell’arte cerca in ogni caso di derivare l’insieme dei casi particolari mediante un procedimento simile all’induzione e di cogliere il particolare a partire dall’universale; il suo riferirsi ai valori non ha infatti origine dall’unicità, e quindi dall’incomparabilità di determinati avvenimenti. Se gli storici scendono in campo contro una storia comparata dell’arte, le ragioni non vanno tanto ricercate in una teoria formulata coscientemente, quanto in un’opinione diffusa e comprensibile, secondo cui solamente la ricerca e l’elaborazione di fatti singoli è ammessa. Non ho dubbi sulla necessità e sul valore di tali lavori specifici, dal momento che io stesso mi sono sforzato di dare un minimo contributo in questo senso nei libri che ho dedicato alla storia della psicologia24. Comprendo persino che il riconoscimento accademico venga a dipendere dallo svolgimento di ricerche scrupolose, e questo nonostante il fatto che nella scienza più esatta, la matematica, vengano celebrati come guide spirituali uomini che non hanno mai imparato a contare con ordine. L’avversione della maggior parte degli storici per le grandi visioni d’insieme (e dei filologi per un modo di procedere incline alle congetture) ha però passato in qualche caso il segno. Le sintesi comparate, quando sono accuratamente fondate e motivate da un particolare talento, celano in sé una fecondità da non sottovalutare. La relazione di Oskar Wulff al Congresso di Estetica ha mostrato quanti stimoli possano provenire dal controllo sistematico e dal trattamento comparato del materiale storico-artistico. Se con Wulff distinguiamo nelle arti figurative la funzione dell’immagine interna prodotta dai vissuti visivi e la funzione del senso comparativo, vediamo allora svilupparsi due serie, di cui una si pone come obiettivo la realtà naturale, e la seconda anela alla produzione di sempre più ricchi criteri spaziali e forme spaziali. Attraverso un’ulteriore suddivisione Wulff ricava nel primo caso una distinzione tra una modalità di intuizione sostanziale e una fenomenologica, e nell’altro tra una modalità di intuizione tettonica e una ornamentale; all’interno della modalità di intuizione sostanziale l’attività della fantasia può derivare dalla forma visiva oppure dal concetto visivo: ne risultano da un lato le tecniche del disegno, dall’altro della scultura a tutto tondo e a rilievo. Il volere artistico si sviluppa dunque in moltissime serie e mirando a scopi molto differenziati. Ora, dal momento che le serie, intersecandosi, si riferiscono l’una all’altra, con una legalità comprovabile, e che inoltre il tempo necessario al loro sviluppo non è il medesimo (il che conduce a curiosi spostamenti), esse offrono allo storico i punti di vista più stimolanti e più preziosi per la comparazione dei monumenti artistici. Anche per una semplice presentazione lineare, il divenire e il trapassare di soggetti artistici (quali il Gotico, il Rinascimento, il Barocco, il Rococò) devono essere distinti dal progressivo 24 [M. Dessoir, Geschichte der neueren deutschen Psychologie, I. (Von Leibniz bis Kant), Duncker, Berlin 1894, 18972, 19023, 19194; Abriss einer Geschichte der Psychologie, Winter, Heidelberg 1911.]

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perfezionamento del saper-fare (ad esempio nella colorazione e nella realizzazione di un’illusione spaziale). La confusione prodotta da questi oggetti così diversi è stata piuttosto dannosa; non è stato sempre chiarito in che senso sia possibile la storia di un principio stilistico (ad esempio dell’impressionismo) oppure di un sentimento della vita (ad esempio di quello romantico). Occorre un’approfondita riflessione sistematica che permetta di delimitare in modo netto l’oggetto di una storia dell’impressionismo oppure del romanticismo. Le nostre considerazioni ci conducono immediatamente a domandarci se in generale possediamo, all’interno delle arti, oggetti che possano essere storicamente comprovabili. Non intendo qui la difficoltà, a cui abbiamo già accennato, di determinare con precisione l’estensione, ad esempio, dell’ambito letterario, dal momento che è impossibile stabilire in che misura coincidano la scrittura extra-poetica e lo sviluppo della lingua. Piuttosto penso alle conseguenze che risultano dallo scomponimento dell’essere artistico in molte unità d’azione e dalla molteplicità di serie evolutive ad esse collegate. Il Faust compare nella biografia di Goethe, nella storia della saga faustiana, del dramma, della lingua tedesca, ecc…, parti di esso non possono mancare né nella storia dell’impressionismo né in quella del romanticismo. Ma dove si trova allora l’oggetto artistico vero e proprio? In ogni caso non nei vissuti del poeta, dal momento che è possibile comprendere il Faust come opera d’arte senza tener conto del suo creatore, mentre d’altra parte nessuno ha mai capito finora in che modo i vissuti sarebbero fecondi o infecondi per l’arte, come nessuno ha ancora spiegato la formazione dell’opera da un punto di vista biografico ed eliminato le incongruenze tra il decorso della vita e la serie delle opere. Dunque nel poeta non è sicuramente possibile trovare l’opera. Essa è forse tutta contenuta in una delle altre serie? Riflettendo attentamente su questa domanda si potrebbe da principio credere che esistano stati di cose fortemente differenziati: il Faust di Goethe in riferimento al contesto della saga faustiana è qualcosa di diverso rispetto al Faust riferito al contesto della lingua del nuovo alto-tedesco. Le circostanze che vengono esaminate nell’uno e nell’altro caso non sono più le stesse. Se eravamo soliti credere risolutamente che la poesia fosse in un certo senso un nocciolo duro, la cui interpretazione variava a seconda degli approcci, ora dobbiamo invece ammettere che, in virtù dell’inquadramento dell’oggetto nel contesto dell’una o dell’altra serie, viene interessato e modificato il “che cosa” stesso dell’oggetto. Ciò non significa che l’oggetto venga a scomporsi in più oggetti, estranei l’uno all’altro quanto uno spettacolo di marionette e il dramma di Goethe, oppure quanto il Faust e l’Ifigenia. È evidente che le relazioni tra il Faust di Goethe esaminato dal punto di vista contenutistico e quello trattato dal punto di vista linguistico sono molto più strette. Se anche l’un metodo non può risolversi nell’altro, e se anche ogni metodo elaborasse a partire dall’oggetto un nuovo stato di cose, questi stati di cose restano tuttavia così stabilmente e indissolubilmente legati tra loro, che non si può nemmeno prendere a paragone la relazione tra

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il Faust e l’Ifigenia. Infatti, sia il Faust trattato dal punto di vista linguistico sia quello esaminato dal punto di vista biografico non sono indipendenti; dietro a entrambi si trova il contenuto complessivo dell’opera, e questa unità di senso o di significato del tutto conferisce ai singoli stati di cose una peculiare correlazione, mentre gli oggetti Faust e Ifigenia non si lasciano mai racchiudere in un unico costrutto vitale. 4. La ricerca dell’oggetto vero e proprio dell’indagine artistica conduce a un punto in cui il pensiero sistematico e quello storico vengono a cozzare l’uno contro l’altro. Il ricercatore sistematico ha dinnanzi a sé un costrutto che è libero da ogni vincolo storico. Perciò si sente esposto alla critica secondo cui, in seguito a una tale risoluzione dei legami storici e a un tale isolamento, al posto dell’oggetto vero e proprio venga messo un oggetto artificiale. Egli giudica, ad esempio, le proporzioni di un edificio, senza considerare che l’architetto e la sua epoca possono averle concepite diversamente; critica le musiche di Bach alla luce delle esecuzioni contemporanee e non secondo quei rapporti di suoni per i quali erano state concepite; celebra una meravigliosa espressione di Dante, nonostante essa fosse a quei tempi assolutamente corrente; considera grottesca una figura drammatica che era stata invece concepita come ingenua, assegnandole così una collocazione errata nel dramma. In generale si dovrebbe dunque dire che l’attività spirituale dalla quale si dispiega l’apparizione di un’opera d’arte può essere apprezzata solo a partire dai presupposti a lei propri. Ci occorrerebbe forse una conoscenza storica più affinata per afferrare l’essenza di un oggetto artistico nella sua consequenzialità temporale, ma non dovremmo mai allontanarci dalla sfera di competenza del pensiero storico. Devo tuttavia confessare che un’argomentazione del genere non potrebbe mai convincermi. Se come oggetto della ricerca dovesse essere considerato tutto ciò che in un’opera è stato intenzionalmente voluto dall’artista e percepito dalla sua epoca, allora l’area di quel che possiamo esplorare verrebbe ridotta nel modo più increscioso: infatti del caso specifico conosciamo piuttosto poco, e ci aiutiamo ricorrendo a tentativi di immedesimazione storica, che proprio nel caso delle opere d’arte risultano particolarmente inaffidabili. Oltretutto non è detto che i contemporanei posseggano la disposizione giusta, e rispetto alla propria opera persino lo stesso creatore può non aver riconosciuto la cosa di maggior valore e nemmeno aver voluto la cosa obiettivamente più importante, nonostante l’opera sia stata creata da lui. La polivalenza dei costrutti dà ai posteri il diritto di giudicare da sé, e il progresso della conoscenza artistica (al quale crediamo come ad ogni progresso) alimenta la speranza che l’oggetto artistico vero e proprio possa esser colto con sempre maggiore sicurezza. I difetti come quelli descritti negli esempi sopracitati si possono compensare grazie a nuovi e ulteriori stimoli; è un po’ come quando col tempo i colori di un dipinto si scuriscono, oppure i costumi di una pièce teatrale appaiono antiquati: le opere corrispondenti ci guadagnano in pregio. In breve: il fatto di prescindere dai

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condizionamenti biografici ed epocali non allontana in alcun modo il ricercatore dall’oggetto vero e proprio. Il nostro problema si ripresenta tuttavia su scala maggiore, non appena si osservi lo sviluppo dell’arte secondo il suo significato estetico. Il cambiamento di significato, che l’arte pare aver conosciuto dai tempi più remoti, si mostra infatti soprattutto nella formazione graduale del momento estetico, ed è opportuno domandarsi in che misura l’arte più antica o anche primitiva possa essere afferrata con i concetti correnti. Edward Bullough ha descritto nella sua relazione congressuale intitolata Estetica genetica25 i dubbi metodologici relativi all’impiego di espressioni quali fantasia, empatia, illusione e simili, in riferimento alle opere dei popoli primitivi e delle culture più antiche; l’attività artistica è inizialmente un’attività sociale, dominata da obblighi e scopi pratici, e solo gradualmente perviene «a quel carattere svincolato da relazioni e libero da intenzioni pratiche, a essere cioè scopo a se stessa, a quel valore contemplativo che sono tratti tipici dell’arte come noi la intendiamo». Secondo Bullough il cambiamento si compie essenzialmente nel fatto che mediante la repressione dei valori utilitaristici individuali viene a rafforzarsi il piacere disinteressato (ad esempio, le armi riccamente decorate perdono la loro utilità e divengono oggetti da ammirare), portando poi gradualmente all’attenuarsi di quelle concezioni morali e giuridiche che erano in principio operative, e infine al riconoscimento dello status e della professione dell’artista conseguente allo sviluppo della divisione del lavoro. Se così fosse, allora a mio avviso si chiarirebbero le ragioni per cui il regno dell’arte per noi non può coincidere con il regno dell’essere estetico: se anche stabilissimo che l’orientamento del divenire storico si muove verso una simile identità, l’obiettivo tuttavia sarebbe lungi dall’esser stato raggiunto. Prendiamo come prova il ritratto. Nel bel libro di Curt Glaser L’arte dell’Asia orientale26 (1913) si narra che già 200 anni prima della nascita di Cristo l’arte ritrattistica era diffusa in Cina, ma il riferimento alla persona raffigurata era di tipo «più mistico che visivo, dal momento che si credeva che i dipinti fossero abitati dallo spirito dei defunti». A tale concezione appartiene quella credenza della magia popolare, secondo cui ciò che viene fatto all’immagine verrebbe arrecato anche al modello. A questo proposito si può ricordare che – secondo il decreto del concilio di Nicea – «mediante l’immagine veniamo rinviati all’originale e invitati a partecipare alla sua santità»27. Occorre considerare tali fatti per assumere la giusta posizione nei confronti della diatriba fra chi crede che la somiglianza di un ritratto sia la cosa decisiva dal punto di vista artistico e chi invece pensa che il 25 [E. Bullough, Ein Beitrag zur genetischen Aesthetik, in Bericht vom Kongress für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft, 1913, cit., pp. 55-72.] 26 [C. Glaser, Die Kunst Ostasiens: der Umkreis ihres Denkens und Gestaltens, Im-Insel, Leipzig 1913, p. 24.] 27 Hefele, Konziliengesch., 3, p. 467 [gli atti del concilio sono tradotti in L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo 1997].

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suo valore si debba misurare secondo altri parametri, e precisamente secondo un parametro puramente estetico. Tali fatti sono però altrettanto importanti per la valutazione dell’arte antica dalla prospettiva degli storici, poiché rinviano ad una diversità d’intenti nell’artista creatore e mettono in guardia dalla semplice comparazione basata sulle affinità fra i fenomeni. Sarebbe pur sempre auspicabile individuare una simile legalità in tutti i livelli culturali, altrimenti non si potrebbe stabilire alcuna serie storica. A questo proposito, la legalità estetica offre l’esempio più immediato. Gli studiosi inglesi riferiscono che presso determinati popoli primitivi l’ornamentazione corporea serviva solo di rado a scopi decorativi, venendo piuttosto solitamente adottata come segno totemico o di fratellanza oppure come strumento magico, a scopi commemorativi e curativi. Ma perché per tali contrassegni si scelgono forme ritmiche e combinazioni armoniche di colori? Come mai nella musica primitiva si trovano scale discendenti di intervalli quasi pieni e intervalli consonanti come l’ottava e la quinta? Il senso estetico dunque deve aver da sempre giocato un ruolo determinante. M’immagino che il fattore estetico abbia contribuito in modo del tutto velato a condizionare quei processi, all’incirca come accadeva per l’influsso di forze psicologiche occulte sulla formazione delle rappresentazioni magiche: se il pensiero primitivo e superstizioso crede che la forza misteriosa degli oggetti incantati si propaghi su tutto ciò che entra in contatto con l’oggetto stesso oppure che gli è affine, è una tale associazione per contatto e per affinità che si rivela anche nel caso estetico, solamente in una maniera del tutto insolita. La legalità estetica può essere stata coinvolta in modo altrettanto particolare e occulto nelle prime manifestazioni artistiche, nel naturalismo delle etnie protopaleolitiche di cacciatori così come nel geometrismo dei popoli contadini neolitici. Entrambi i gruppi di arte preistorica presenti sul suolo europeo, dei quali Hoernes28 ci ha descritto specificità e successive interazioni, miravano già allora (e con successo) a una disposizione estetica rivolta alla pura impressione. Nel frattempo altri contenuti avevano incontestabilmente preso il sopravvento, al punto tale, che solamente la teoria che concepisce l’opera d’arte come una struttura composta da diversi strati di valore poteva rendere comprensibile il nesso tra l’arte più antica e quella più recente. Se tuttavia, nell’affrontare simili riflessioni, persistono una certa titubanza e un certo imbarazzo, dobbiamo consolarci del fatto che le cose non vanno meglio con altre elaborazioni concettuali. La storia dell’atomismo inizia con Leucippo, la storia del concetto di elemento con il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra, nonostante dal punto di vista contenutistico le concezioni 28 [M. Hoernes, Die Anfänge der bildenden Kunst, in Bericht vom Kongress für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft, 1913, cit., pp. 213-221]. Nello specifico, riguardo al processo di sviluppo, Lamprecht (insieme, tra gli altri, a K. Busse e a J. Kretzschmar) ha avanzato alcune supposizioni che sono state ricavate dal confronto con i diversi tipi di sviluppo dei disegni dei bambini.

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attuali di atomo e di elemento divergano completamente da quelle antiche. Si tratta sempre della stessa questione e della stessa volontà conoscitiva. Se si è alla ricerca dell’essenza della religione nella sua purezza, allora non si deve temere lo stato di confusione che regna nell’ambito storico e psicologico: in ultima analisi si ha infatti sempre a che fare con intenzioni ed esigenze che, se messe opportunamente in relazione fra loro, producono una configurazione del tutto caratteristica29. Se ci si domanda che cosa vuol dire “diritto”, si rinvia solamente alla struttura generale di questo sistema teleologico. Nella definizione del concetto di arte accade lo stesso. L’inquadramento comune delle manifestazioni artistiche delle origini e di quelle cronologicamente più recenti è giustificato nella misura in cui si mostrano le stesse relazioni peculiari delle forze spirituali. La peculiarità risiede nella fusione dell’elemento estetico con altri contenuti, e l’estetico può essere considerato come sempre presente ovunque si trovino quelle espressioni a noi familiari come ritmo, proporzione, ecc… Finora non è stato possibile ricondurre ad un concetto comune le altre componenti dell’arte e definire univocamente il loro rapporto con l’estetico. Ciononostante, la sfera di competenza della scienza generale dell’arte può essere definita nello stesso modo in cui, all’inizio delle nostre riflessioni, abbiamo stabilito il campo d’attività dell’estetica30. Le considerazioni che abbiamo fin qui esposto rappresentano un preludio metodologicognoseologico: esse riguardano le possibilità della disciplina e i suoi procedimenti. Il suo punto di partenza consisteva nell’esigenza di separare l’estetica e la scienza generale dell’arte, al fine di emancipare questa da quella. Così come Kant era alla ricerca di una dottrina generale della scienza che doveva sovrastare i contrasti fra i vari orientamenti metafisici, oggi si è alla ricerca di una dottrina generale dell’arte, che sovrasti i contrasti fra i sistemi dei valori estetici; e così come Kant non sciolse completamente il vincolo sussistente tra la dottrina generale e la metafisica, ciò non accadrà nemmeno nel nostro caso. Una volta risolta la questione de iure, possono essere sviluppati, nella loro naturale correlazione, i contenuti e i concetti di una dottrina delle arti, soprattutto intraprendendo due compiti in particolare: la suddivisione e la comparazione delle arti. Sulla classificazione delle arti si è vivacemente dibattuto ancora di recente, mentre langue quell’interesse per i problemi inter-artistici che invece il XVIII secolo ben conosceva: sto pensando naturalmente al Laocoonte31, ma anche alle discussioni sull’affinità tra

29 Si veda a questo proposito e in seguito Systemathische Theologie nach religionspsycholo-

gische Methode di G. Wobbermin, [Hinrichs,] Leipzig 1913 e Lebensformen di E. Spranger nello scritto celebrativo dedicato a Alois Riehl, Halle a. S., 1914 [Lebensformen: ein Entwurf, Niemeyer]. 30 Qui vengono elencati solo i punti fondamentali; una descrizione più dettagliata si trova nei nove numeri della rivista e negli atti del Congresso di Estetica e scienza generale dell’arte. 31 [G.E. Lessing, Laocoonte (1766), ed. it. a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 1991.]

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musica e pittura (Avison)32, tra musica e linguaggio, e quindi tra morfologia musicale e retorica, e infine tra la cadenza e l’interpunzione (Marpurg)33. Inoltre si dovrebbe affrontare la complessa problematica delle questioni generali riguardanti tutte le arti, come ad esempio quella relativa alla possibilità di rapportare fra loro in modo legittimo opere create in totale isolamento e indipendenza reciproca. Infine dovranno essere formulate fin nei minimi particolari la descrizione e la spiegazione delle opere d’arte; a questo proposito ricordiamo il lavoro, tanto istruttivo quanto singolare, compiuto da Alfred Heuß34 con la sua scomposizione della Messa in si minore di Bach. Potrei anche attirare l’attenzione sugli studi di prossima pubblicazione di Helene Herrmann35 sulla seconda parte del Faust di Goethe. Restano ancora da menzionare i temi più noti: l’attività dell’artista e la sistematica delle singole arti, per non parlare poi di ambiti meno importanti. Occasionalmente si è manifestato un dubbio che riguarda meno la disciplina in sé che non il modo di praticarla individualmente: si dubita cioè che un solo studioso sia in grado di abbracciare con lo sguardo la molteplicità delle arti e di padroneggiare la diversità dei problemi specifici. Su questo si potrebbe decisamente replicare sostenendo che chiunque sia uno specialista nel proprio campo può imparare a valutare con spirito critico e con ottimi risultati anche gli esiti di ricerche a lui estranee. Però la peculiarità dei compiti dovrebbe corrispondere ad una peculiarità delle predisposizioni. Se esistono forze eccellenti nella scienza linguistica comparata e nella filosofia delle religioni, perché mai dovrebbero mancare ad una scienza generale dell’arte? Circola però il sospetto, profondamente radicato, secondo cui un trattamento sintetico di ambiti che richiederebbero, se presi singolarmente, una vita intera, produrrebbe solamente discorsi superficiali; in verità, dall’osservazione d’insieme condotta da nuovi punti di vista si sviluppano problemi nuovi e fecondi. I rappresentanti delle singole scienze linguistiche si sono ormai rassegnati al fatto che la ricerca linguistica comparata debba comprendere nell’ambito delle sue attività riconosciute lo studio dei dialetti greci come delle lingue germaniche occidentali, dell’indiano antico come dell’italiano antico, del gotico come del latino. E allora perché si nutrono ancora dubbi sulla possibilità di una sistematica dell’arte che attinga da tutte le fonti utili? Anche se per il momento mancano gli uomini giusti, certamente arriveranno in futuro, poiché l’epoca necessita di lavori sintetici: 32 [Ch. Avison, An essay on musical expressions, Davis, London 1752.] 33 [Cfr. F.W. Marpurg, Handbuch bey dem Generalbasse und der Composition, Lange, Berlin

1755; Systematische Einleitung in der musikalische Setzkunst, Breitkopf, Leipzig 1757; Kritische Einleitung in die Geschichte und Lehrsatze der alten und neuen Musik, Lange, Berlin 1759; Kritische Briefe über die Tonkunst, Birnstiel, Berlin 1760-1764.] 34 Nei commenti relativi al terzo Bachfest di Lipsia (giugno 1914). 35 [H. Herrmann, Faust, der Tragödie zweiter Teil: Studien zur inneren Form des Werkes I; Faust, der Tragödie zweiter Teil: Studien zur inneren Form des Werkes (Fortsetzung, in «ZÄK», 12, 1917, pp. 86-137 e 161-178.]

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…je mehr, je länger Nötig ein Zusammendränger…36 Anche sotto un altro aspetto la scienza generale dell’arte appare di grande attualità. Volgendo lo sguardo retrospettivamente alla controversia metodologica delle discipline storiche e alle approfondite ricerche di Windelband, di Rickert e di Münsterberg, ci si accorge che si è sostanzialmente parlato solo di due forme fondamentali del pensiero scientifico: delle scienze della natura e delle scienze della storia. Certamente devono esistere, secondo Rickert, alcune scienze generalizzanti della cultura, che però limitano notevolmente quella fondamentale bipartizione. Di recente invece ci si è resi conto del fatto che per tutti gli oggetti culturali oltre alla presentazione storica è assolutamente indispensabile un’osservazione sistematica (lo ammette anche quella scuola di pensiero in riferimento alla propria teoria dei valori). Pur senza disconoscere che l’arte (come la religione, il linguaggio, il diritto, l’economia) in quanto manifestazione vitale dei popoli si sviluppa trasformandosi incessantemente, e senza negare che il dogmatismo più antico era rigido e superficiale, insistiamo sulla legittimità dello spirito sistematico e ci opponiamo fermamente al fatto che il trattamento storico dell’arte valga come l’unico trattamento scientificamente possibile. Crediamo con ciò di non perderci in aderenza alla realtà e di guadagnarci in esattezza. Il futuro della scienza generale dell’arte dipende però non tanto da simili considerazioni, quanto da lavori specifici di buona qualità. Gli ultimi anni hanno portato qualcosa di buono, e dai prossimi ci aspettiamo un ricco raccolto. Le importanti esigenze della scienza – e ciò deve essere sottolineato in conclusione come lo era stato all’inizio – possono certamente passare in secondo piano in tempi di guerra, ma non scompaiono del tutto. Quando stendevo le prime righe di questo saggio, Metz non era stata ancora assediata, e adesso, nel momento in cui depongo la penna, si diffonde la notizia della conquista di Anversa37. La fiducia mi porta a pensare che tutto si risolverà a favore della Germania e, in ultima analisi, anche del restante mondo della cultura. Quando questo spaventoso e grandioso tempo di guerra finirà, allora si compirà, se Dio vuole, la profezia: «Verso sera risplenderà la luce»38.

36 [F. Rückert, Die Geschichte, in Friedrich Rückerts Werke, a cura di C. Beyer, 6 Bde., Hesse, Leipzig 1910, qui Bd. 3, p. 226: «Wie die Welt läuft immer weiter / wird stets die Geschichte breiter; Und uns wird je mehr je länger / Nötig ein Zusammendränger».] 37 [Dessoir si riferisce qui all’offensiva tedesca nelle prime fasi della Prima guerra mondiale; la presa di Anversa avvenne il 9 ottobre 1914.] 38 [Zaccaria 14, 7.]

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Il problema di una scienza generale dell’arte (1922)

La concezione estetica kantiana va generalmente incontro a due obiezioni: la si accusa di formalismo, e si critica il fatto che il concetto kantiano della pura esteticità non possa essere esteso alla totalità dell’arte. Quanto al formalismo estetico, esso è divenuto oggetto di malintesi così numerosi che già un semplice chiarimento del suo senso, che lo liberi da ogni ambiguità, richiederebbe un’analisi molto approfondita, nella quale noi non possiamo qui addentrarci. Molto più peso ha – in questo contesto – la seconda obiezione. Kant stesso, però, non vuole affatto ricondurre l’arte in quanto tale alla bellezza «pura», bensì conia l’insolito concetto di bellezza «aderente». E alla contemplazione «quieta» egli contrappone, là dove parla del sublime, una contemplazione in «movimento»1. Il sublime stesso appare, in un certo qual modo, come un cittadino di due mondi: prende parte all’estetico, ma anche all’etico. In questa peculiare problematica ci si fa incontro, in realtà, l’arte intera, nella misura in cui oltrepassa i confini della bellezza pura. L’extra-estetico confluisce in essa, condizionando la sua configurazione, e precisamente non in modo casuale, bensì conforme alla sua essenza. È davvero bizzarro che tale questione decisiva – da me qui formulata in modo più netto di quanto non abbia fatto Kant, sebbene nella sua riflessione la si possa riconoscere in modo sufficientemente chiaro – abbia avuto la sorte di venire così a lungo trascurata. Non la si voleva né la si poteva vedere, poiché era occultata da un altro problema, che suscitava un interesse addirittura passionale: si pensava che, con l’autonomia dell’estetico e del suo ideale – il bello –, venisse assicurata l’autonomia dell’arte. Per quanto anche Schiller, distinguendo tra arte ingenua e sentimentale, sfiori ed incroci la nostra questione, per quanto anche il suo pensiero e la sua poesia siano dominati da forze extra-estetiche, egli non dà all’artista nessun altro consiglio se non quello di seguire unicamente la legge della bellezza. Non è passato

1 [Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., vol. 1, rispettivamente al § 16, pp. 217223 per la distinzione fra bellezza pura e aderente; al § 24, p. 265 per la distinzione fra «quieta contemplazione» del bello e «movimento» connesso al sentimento del sublime.]

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molto tempo da quando A.G. Baumgarten2 – proprio qui a Halle – tenne a battesimo l’estetica, profondendosi ansiosamente in scuse per aver osato fondare una simile scienza particolare. Egli le assegnò un modesto posticino non accanto alla logica, ma al di sotto di essa. La conoscenza concettuale troneggia su quella sensibile, da cui certo l’estetica, com’è noto, ricevette il suo nome. Ricordiamoci, inoltre, che ancora Hegel in conclusione ha lasciato che l’apparenza sensibile dell’idea nell’arte venisse sopravanzata dallo schietto coglimento adeguato dell’idea nella scienza, in modo tale che l’arte, vedendosi accordata una validità per così dire solo provvisoria, cessava – per dirlo con le sue parole – di essere una delle più alte manifestazioni dello spirito3. Pensiamo, inoltre, quanto spesso l’arte sia stata addirittura terrorizzata dall’etica oppure dalla metafisica. Se teniamo conto di tutti questi aspetti, comprenderemo allora certamente come l’autonomia dell’arte ottenuta in virtù del fattore estetico sia divenuta quello stendardo quasi sacrosanto al quale si doveva tener fede, e la cui difesa sembrava essere la necessità più impellente. Ogni attacco condotto in questa direzione si temeva minacciasse la libertà artistica e ne minasse la sua sovranità. Questa convinzione si è progressivamente irrigidita in senso dogmatico; e ancora oggi appare ai più così ovvia da sentirsi in diritto di ignorare completamente l’originaria problematica kantiana, oppure di cancellarla. Le conseguenze negative, anzi catastrofiche di un tale irrigidito dogmatismo si sono puntualmente riverberate, non tanto però sulla realtà dell’arte, quanto piuttosto sui concetti che le furono applicati. Ciò suona quasi paradossale: l’autonomia dell’arte, che tanto preoccupava, venne sacrificata nel senso più profondo della parola. Solo così si può comprendere come l’estetica si sia allontanata sempre più dalla vita artistica e dalle discipline storico-artistiche, fino a rinchiudersi in un isolamento rarefatto. Se il bello diventava il cuore vero e proprio dell’arte, la sua legittimazione, allora lo sguardo poteva indugiare con particolare entusiasmo su quei 2 [Cfr. A.G. Baumgarten, Riflessioni sulla Poesia (1735), a cura di P. Pimpinella e S. Tedesco,

Aesthetica, Palermo 1999, § 116, p. 71: «Poiché esiste la definizione, si può facilmente escogitare il termine così definito; già i filosofi greci e i padri della chiesa hanno sempre distinto accuratamente tra gli aisthetà e i noetà e pare abbastanza chiaro che gli aisthetà per essi non equivalgono alle sole cose sensibili, giacché anche le cose percepite come assenti (dunque le immagini) meritano questo nome. Siano dunque i noetà da conoscere con la facoltà superiore, oggetto della logica; siano gli aisthetà oggetto della episteme aisthetikè ossia dell’Estetica». Nell’introdurre il proprio scritto aveva confessato di aver «scelto una materia che molti certamente giudicheranno tenue e del tutto estranea all’intelligenza dei filosofi, ma che a me sembra sufficientemente impegnativa per l’esiguità delle mie forze e sufficientemente adatta, data l’importanza dell’argomento, ad impegnare le menti che si occupano d’investigare le ragioni di ogni cosa» (ivi, p. 38). In trad. it. si veda anche L’Estetica (1750), a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000.] 3 [Utitz si riferisce qui alla questione della cosiddetta “morte dell’arte” in Hegel: cfr. Estetica, ed. it. a cura di N. Merker, intr. di S. Givone, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, Parte I, Introduzione, al § Il posto dell’arte in rapporto alla religione e alla filosofia.]

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periodi artistici che si erano consacrati proprio a quell’ideale. L’intero sviluppo dell’arte veniva concepito mediante l’immagine di un movimento ondulatorio che innalza alle vette per poi sprofondare negli abissi. Il tentativo di riabilitare le cosiddette epoche di decadenza doveva sfociare in una lotta contro l’estetica, perché era proprio tale disciplina, con le sue formule rigide e severe, a risultare d’intralcio. Poi si comprese però che non tutta l’arte sta sotto il segno della bellezza, che essa vuole e aspira anche ad altro: sono questi altri obiettivi a dettarle (o perlomeno a contribuire a determinare) la legge della sua configurazione. L’estetica poteva o perseverare in una resistenza negativa e bollare quelle estensioni come degenerazioni, oppure adeguarsi alle circostanze e adattare il concetto del bello o meglio dell’esteticità pura alla nuova condizione, vale a dire ampliarlo sempre più. La corrente artistica naturalistica spingeva nella stessa direzione. Sia che l’estetica la riconoscesse oppure la respingesse, sicuramente non le si poteva confacere il concetto di bello. Si rese allora necessario imprimere con un trucco da prestigiatore una svolta al concetto di bello, che ne negasse il significato originario. Tutte le ricerche sull’origine dell’arte e sull’arte primitiva mostravano inoltre con chiarezza incontrovertibile che i prodotti artistici in questione erano stati codeterminati da fattori extra-estetici: a tal riguardo l’estetica corrente si rivelò totalmente incapace di contribuire a quei lavori in senso metodologico ed euristico. Se questa evidente incapacità non emerse in modo ancora più netto e – si sarebbe tentati di dire – più grottesco, lo si deve solamente alla circostanza che l’estetica orientata prevalentemente alla psicologia si occupò poco di tali questioni. Il campo principale della sua attività – per certi versi molto meritevole e feconda – era un’analisi del godimento estetico ed artistico. Che cosa si direbbe, però, di una teoria scientifica che, al posto di esaminare la struttura logica della conoscenza e dei suoi presupposti, si occupasse meramente di ciò che esperisco dentro di me quando mi atteggio in senso conoscitivo? Certamente pervengo in tal modo a interessanti considerazioni sulle differenze psichiche individuali e tipiche, ne ricavo sorprendenti informazioni sulle sottigliezze psichiche, ma non posso determinare come il vissuto debba essere conformato per corrispondere veramente agli stati di cose in questione. L’eccessiva accentuazione della parte soggettiva e soggettivistica oscurava quella oggettività. Ma proprio di questa si occupano innanzitutto le discipline storico-artistiche, per le quali in primo piano non stanno i vissuti artistici, bensì proprio le opere d’arte e l’arte. Piantate in asso dall’estetica, tali discipline erano perciò spesso costrette a costruirsi alla meno peggio una propria dottrina artistica, certo ricca di esperienza, tuttavia nella maggior parte dei casi unilaterale e filosoficamente insoddisfacente. Non voglio discutere oltre di come ciò avvenne e perché: un abbozzo così superficiale delle circostanze storiche non sarebbe mai in grado di render giustizia al considerevole lavoro che venne concretamente svolto nonostante la mancanza di chiarezza sotto il profilo del metodo e dei principi. Con ferma risolutezza devo invece sottolineare che d’ora in avanti non

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trà più trattarsi di una nuova parola usata per nascondere la vecchia bandiera sbiadita e logora, bensì di una nuova problematica, e cioè quella che Kant aveva dischiuso con la distinzione, aspramente criticata, tra bellezza pura e bellezza aderente, tra contemplazione quieta e in movimento. E dobbiamo ben guardarci dai bisticci linguistici che in questo momento stanno avvelenando e al contempo trivializzando la lotta per una scienza generale dell’arte. In questa sede ci interessa poco come verranno infine soddisfatte le questioni terminologiche. Non mi verrebbe affatto in mente di separare, in qualche modo forzosamente e soprattutto preliminarmente, il bello e l’arte; sostengo, però, che sarebbe acritico dogmatismo se si accettasse come presupposto non indagato una relazione vincolante per l’arte. Secondo una dottrina così consueta da essere ormai divenuta quasi popolare, vi è un bello che si deve manifestare da un lato nei prodotti della natura, dall’altro in quelli dell’arte. L’arte diviene perciò una produzione deliberata del bello. Se però si vuole comprendere il bello in modo ancora più ampio, senza scontrarsi con il termine psicologisticamente ambiguo di “deliberata”, restano delle difficoltà insormontabili. Pensiamo ad un bel volto umano con tratti regolari e netti, e immaginiamoci ora lo stesso volto dipinto. Il bello di natura verrebbe così semplicemente preso in consegna, o forse depurato da tratti perturbanti. Abbiamo qui, approssimativamente, quella concezione rozzamente materialistica e al contempo metafisica, che ravvisa anche nella scienza un mero rispecchiamento del mondo. È una concezione totalmente primitiva e insostenibile, che si è tuttavia conservata – anche se in modo occulto – nell’estetica e riaffiora continuamente in superficie, provocando confusione. Spesso ci si è visti indotti, però, ad operare un aggiustamento: l’arte non dovrebbe essere la raffigurazione di stati di cose belli, bensì la bella raffigurazione di stati di cose. Certamente questo aggiustamento significa un considerevole progresso; tuttavia, in questo modo, il concetto di bellezza viene investito di un pericoloso doppio senso, la cui legittimazione necessiterebbe innanzitutto di uno scrupoloso esame, e che comunque non può essere accettato a cuor leggero. Il bello di natura non sarebbe infatti più vincolante per l’arte, e viceversa il bello dell’arte non lo sarebbe per la natura. La teoria della doppia verità sembrerebbe radicata nell’estetica. Inoltre: incontestabilmente si accompagnano al bello il sublime, il tragico, il comico e forse anche una serie considerevole di altre categorie. Sono tutte nello stesso senso puramente estetiche come il bello, che è completamente libero da ogni condizionamento extra-estetico? A questa domanda si deve senza dubbio rispondere negativamente. Non riusciamo a penetrare nell’essenza del sublime, del tragico, del comico e così via, se restiamo irretiti nella sfera della pura esteticità e se non prestiamo attenzione alle forze extra-estetiche che costituiscono gli indispensabili presupposti per la formazione di quelle configurazioni. A partire da Kant ciò doveva risultare indiscutibile; ogni lavoro storico specialistico conferma questa situazione di fatto; ogni estetica che si è impegnata in questo senso ha dovuto ampiamente accogliere la sfera extra-estetica nelle proprie osservazioni.

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Se poi questo fattore extra-estetico assorba oppure distrugga oppure semplicemente modifichi il carattere estetico, resta ancora da chiarire. Il problema, su cui richiamo qui l’attenzione, è unicamente il seguente: se il concetto centrale dell’arte è quello dell’esteticità pura che si compie nella forma del bello, ogni intromissione extra-estetica deve essere percepita in quanto perturbante. Il tragico, il sublime, il comico dovrebbero perciò perdere ogni caratterizzazione artistica nella misura in cui si distanziano dal bello vero e proprio. L’arte autentica dovrebbe allora condurre da ultimo solamente al bello, per evitare qualsivoglia pericolo, scoglio e deragliamento. Non ci si può sottrarre a questa severa pretesa elaborando una tabella empirica di categorie dell’estetica e ponendo le altre figure fondamentali a fianco del bello come sue sorelle equivalenti. L’equivalenza asserita non è certo da intendersi nel senso della pura esteticità; se e come essa debba essere presa in considerazione è un punto che a sua volta necessita di un esame critico approfondito. Evitarlo è impossibile: vi veniamo rinviati da ogni parte. Pensiamo a come opera una teoria della scienza! Prendendo le mosse dal “sapere” della vita comune, si può interpretare quest’ultimo nella sua struttura per poi subordinarvi la scienza. Oppure si deve piuttosto – senza sottovalutare il significato e il valore del sapere pre-scientifico ed extrascientifico – subordinare i fatti e la realtà alla scienza e aspirare alla ricerca dei suoi presupposti e delle sue costitutive condizioni per illuminarne l’essenza? Evidentemente solo la seconda strada è percorribile; ed è stato percorrendola che sono emersi i risultati più rilevanti. A partire da questi solidi fondamenti si può anche chiarire come si comportano reciprocamente il concetto scientifico e quello pre-scientifico o extra-scientifico di conoscenza. Ora questi concetti non vengono più contrapposti o giocati l’uno contro l’altro, né dedotti l’uno dall’altro (operazioni in cui si introducono sempre surrettiziamente scambi e confusioni); se ne mettono piuttosto in evidenza le reciproche relazioni. Lo stesso procedimento metodologico deve essere infine energicamente praticato anche nel nostro ambito. Solo allora verranno meno quei tentativi, destinati necessariamente al fallimento, di costruire un concetto dell’estetico (per poi, una volta costretti dalle difficoltà empiriche, piegarlo e ripiegarlo al fine di adattarvi l’arte nella sua totalità), oppure di definire l’arte in modo tale che tutto l’estetico vi venga finalmente racchiuso. Possiamo facilmente rinunciare a questi e a simili cavillosi brani di virtuosismo, se prima veniamo in chiaro sull’essenza dell’esteticità pura, senza alcuna concessione a questo o a quel partito e senza preoccuparci dell’applicazione pratica. Fin dove si estenda la validità dell’esteticità pura, è un’altra questione. Falseremmo l’intero problema se supponessimo fin dall’inizio che l’esteticità pura debba essere concepita in modo tale che ne scaturisca senza resti l’autonomia dell’arte. Forse l’autonomia dell’arte si basa su un altro stato di cose. Comunque sia, dobbiamo guardarci attentamente dal paralizzare la libertà della ricerca adottando presupposti acritici. Per questo, in completa indipendenza, ci domandiamo: qual è l’essenza dell’arte? Ed è proprio questa domanda a generare la scienza generale

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dell’arte. Questa “essenza” dell’arte non la costringiamo immediatamente al di sotto dell’estetico, oppure al suo interno; non potremmo nemmeno farlo senza prima aver reso proprio l’essenza dell’arte oggetto di una specifica ricerca analitica. Qui sta il punto di partenza: il grande fatto e la realtà dell’arte. Non esiste, e non può affatto esistere, altro punto di partenza. Una volta interpretata l’essenza e chiarito il senso, è tempo di accertarsi dei rapporti intercorrenti fra l’artisticità e l’esteticità pura, senza appiattire l’una sull’altra. Se ci accostiamo all’arte guidati da quelle questioni fondamentali, non serve allora richiamarsi al bello e riferirsi al fare artistico e al vissuto artistico; dinnanzi a noi sta il mondo delle opere d’arte, non semplicemente il bello, non semplicemente lo psichico; è piuttosto un’immensa oggettività tutta particolare che deve essere innanzitutto compresa in sé, prima di porla in relazione con altro. Ecco la parola decisiva e risolutiva: configurazione, formazione. Ogni arte è configurazione, formazione, tuttavia di un genere del tutto specifico; giacché per il fatto che qualcosa è configurato, esso non diviene perciò ancora arte. Lo scienziato, allo stesso modo del tecnico, configura, e anche l’uomo d’azione quando persegue uno scopo; il suo intero agire ne viene plasmato e configurato. Qual è però, se così posso esprimermi, la forma della formazione artistica? Prima però di approfondire tale questione, va introdotta una considerazione che vale a integrazione di quanto già detto e a preparazione di quel che diremo: il pensiero che l’arte sia configurazione e formazione non può avanzare alcuna pretesa in termini di novità e originalità. Sarebbe più che strano se questo fatto evidente non fosse stato già da tempo preso in considerazione. Già la derivazione della parola “arte” [Kunst] dal saper-fare [Können] richiama l’attenzione su quell’implicazione. Essa, però, indica al contempo entrambe le direzioni che in fin dei conti si limitarono a sfiorare il problema vero e proprio: l’eccessiva accentuazione del momento tecnico e di quello psicologico. Così si è sostanzialmente pervenuti ad una tecnologia e ad una disciplina dei processi creativi psichici. Sarebbe da ingrati non commemorare a questo punto Konrad Fiedler, il quale – procedendo nel solco tracciato da Kant – colse chiaramente quel problema centrale della scienza generale dell’arte e guardò fermamente all’arte innanzitutto dal punto di vista della formazione e della configurazione. Già un decennio fa ho cercato di celebrare il significato di questo fatto, e da allora ho ripetutamente richiamato l’attenzione sui grandi meriti di Fiedler, che senza dubbio si può annoverare fra i teorici della storia dell’arte più eminenti del XIX secolo. Ma che cosa, oltre al suo talento individuale, rese possibile la sua posizione d’eccezione? Egli era nutrito da una problematica squisitamente filosofica e da un’arte dallo stile rigoroso, radicate rispettivamente nella frequentazione delle dottrine kantiane e nell’amicizia con Hans von Marées. Eppure anche Fiedler, per quanto lo combatta e vi si scontri così appassionatamente, paga un sensibile tributo al naturalismo del suo tempo. Alla base di tali accanite ostilità vi sono spesso legami di sangue. Come il naturalismo pretese verità dall’arte ponendola per questo su un piano

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mente vicino a quello della scienza, così fece anche Fiedler: l’arte deve produrre conoscenza, ma non una conoscenza scientifico-concettuale; formazione e configurazione servono soltanto a generare intuizioni chiare. Infatti, non è che tali intuizioni esistano prima dell’arte e vengano da essa semplicemente assunte, no: esse sono create solo per suo tramite. Ciò che offre la realtà è solamente un caos di impressioni sensibili; l’eterno – e unico – compito dell’arte diventa quello di illuminarle in un cosmo di intuizioni chiare. Dobbiamo rinunciare a tutto ciò che l’arte rivela quanto a bellezza, contenuto spirituale, felicità, e così via. Con rigorosa severità Fiedler opera una netta distinzione: sul carattere artistico decide solamente la conoscenza puramente intuitiva. Ma proprio questo processo deduttivo dà da pensare: se dobbiamo astrarre da questo e quest’altro e denudare progressivamente l’opera d’arte, quel che resta infine è uno scarno scheletro. Spero di non essere frainteso quando dico che una tale distillazione del puro spirito dell’arte mi rammenta in ultima analisi l’antiquato metodo scolastico, che va alla ricerca di idee dietro all’opera d’arte e la riduce nel suo complesso a un unico senso che deve trovarsi al di sopra o prima di essa. Sia detto, però, in modo chiaro e distinto che “dietro” all’opera d’arte, “prima” o “sopra” di essa, non v’è nulla da cercare: si deve cercare esclusivamente “in” essa. Dinnanzi a noi sta l’opera d’arte, e noi dobbiamo comprenderla – proprio in questo suo modo di darsi – secondo la legalità della sua formazione, senza intervenire. Un simile intervento chirurgico sarebbe infatti una mutilazione. Scegliamo, nella sua semplicità, un piccolo esempio, i due versi iniziali di una poesia di Rainer Maria Rilke: Reitet der Ritter in schwarzem Stahl, Hinaus in die rauschende Welt…4 Che cosa è essenziale qui? Non certo il fatto che io abbia in mente un’immagine ottica che forse associo all’incisione di Dürer Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, bensì il fatto che io colga sentimentalmente l’atmosfera nel suo contenuto di senso a partire dal ritmo ferreo che vibra sempre più diffusamente in modo melodico; che io esperisca le metalliche “r”, il chiaro “ei”, l’“i” in “Ritter” – seguito dalle due “tt” – che conserva un qualcosa di tremendo, poi smorzato in toni più cupi, non solo perché viene menzionato il colore nero, bensì perché ora riecheggiano le “a”; dapprima brevi, e ancora accompagnate da una “r” tremolante (“schwarzem”), subito dopo però allungate e morbide. Ancora scintillano fuggevoli le “i”, come un chiarore diffuso; già però la “a” si trasforma in “au”, dapprima breve e poi pienamente fragorosa. Vorrei fermarmi qui: non penetriamo nell’organismo della poesia mediante una dissezione che sveli muscoli e articolazioni (non possiamo nemmeno pensare ai cadaveri e all’odore delle sale di anatomia); seguiamo la necessità oggettiva della configurazione, senza manipolarla. E se 4 [R.M. Rilke, Cavaliere, in Il libro delle immagini (1902), trad. it. di P. De Nicola, Cenobio,

Milano 1947, p. 11: «Cavalca il cavaliere in nero acciaio / fuor nel rumore del mondo».]

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ci abbandoniamo alla melanconia singhiozzante di un paesaggio dipinto, questa atmosfera si costruisce in una configurazione di linee e di colori, indissolubilmente da essi. Allontaniamo questi modi di darsi, separiamoli dall’opera d’arte; togliendo o aggiungendo loro qualcosa, falseremmo l’opera d’arte; e allora non sarebbe più la stessa. Se ci disponiamo ad accogliere completamente questa idea così semplice – e per questo così raramente osservata –, ci immunizziamo persino nei confronti di quei tentativi e di quelle tentazioni che rinveniamo in Fiedler. In fondo anch’egli intendeva una determinata corrente artistica, e per render lode a quella faceva violenza alle altre, individuando per l’arte quell’unica possibilità come la possibilità artistica per eccellenza. Tuttavia è stato un progresso decisivo il fatto che la storia dell’arte più recente si sia ricollegata a lui, ciò che le ha permesso (invece di proporre aneddoti verbosi e di crogiolarsi nei vissuti) di condurre analisi rigorosamente formali e di aprire gli occhi sui problemi formali, accostandosi così innanzitutto da una prospettiva metodologica all’opera d’arte. Al tempo stesso, però, fu proprio quella unilateralità di Fiedler – e sicuramente anche la sua scarsa notorietà, persino presso le cerchie scientifiche – a impedire ai padri della scienza generale dell’arte – Hugo Spitzer e in particolare Max Dessoir – di procedere sulla sua scia, vuoi sviluppando consapevolmente le sue dottrine, vuoi seguendole inconsapevolmente. Essi erano infatti, se così si può dire, irretiti dal problema opposto: ovvero dalla inesauribile ricchezza delle relazioni proprie dell’opera d’arte. Se Fiedler aveva reciso tutti questi rapporti, ora li si riprendeva scrupolosamente. L’opera d’arte non appare allora più come mero vettore dell’estetico: l’elemento sociologico, quello etico, quello intellettuale, quello metafisico si compenetrano a vicenda. In breve, l’opera d’arte si rivela come un prodotto culturale molto complesso, il quale in tutti i suoi rapporti diviene oggetto degno di esplorazione per la scienza generale dell’arte, che anche per questo motivo non può certo accontentarsi dell’aspetto estetico. Così preparati ed armati ritorniamo alla nostra domanda: di che genere è la configurazione dell’arte? Che cos’è che la eleva al suo proprio status e la distingue da tutte le altre configurazioni? Il fatto che l’arte sia formazione e configurazione dovrebbe essere un’acquisizione imprescindibile a partire da Fiedler. In questo senso il formalismo estetico di Kant, oggetto di tante critiche, celebra in essa la propria resurrezione. D’altra parte, però, non si può nemmeno rinunciare alla concezione, introdotta da Spitzer e soprattutto da Dessoir, secondo la quale in realtà l’arte è indissolubilmente legata a tutte le forze spirituali, nella buona e nella cattiva sorte. Entrambe le correnti richiedono un alveo comune in cui i loro flussi possano ricongiungersi. Così, ad uno sguardo retrospettivo, mi si presenta oggi lo sviluppo della questione, e da questo angolo visuale posso oggi assegnare alla mia opera

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zione della scienza generale dell’arte5 (uscita in due volumi nel 1914 e nel 1920) il posto che le compete con maggiore chiarezza di quanto non potessi fare all’epoca della sua stesura. In quella sede, come risultato di approfondite ricerche sulle questioni essenziali, ero giunto alla seguente conclusione: l’arte è configurazione di un vissuto sentimentale tale per cui il senso della configurazione si dischiude nel vissuto sentimentale. Non intendevo certo un arbitrario crogiolarsi nel sentimento, ponevo anzi quel vissuto in una necessaria correlazione con la configurazione: e questo punto è stato generalmente compreso. Ma questo stesso “vissuto” fu esposto a fraintendimenti psicologistici, che divennero motivo di lode e di biasimo senza che io li avessi meritati o ne fossi responsabile. Tuttavia dipendeva da me se diversi punti non emergevano con la chiarezza auspicata e non fossero delineati in modo sufficientemente netto. Quel vissuto sentimentale, che la configurazione esige come suo significato, non è in nessun modo un processo psichico reale che accade in me o in chiunque altro, o che possa anche solo accadere. Esso è il correlato ideale della configurazione, condizionato dalla sua propria legalità. Ogni vissuto reale viene invece colorato anche dalla mia personalità. Per quanto l’accentuazione possa essere posta talora sul lato oggettivo, talaltra su quello soggettivo, ogni volta si tratta di una relazione soggetto-oggetto, in cui il mio Io non è mai indifferente. In tal modo ogni godimento artistico accoglie una nota individuale inestinguibile. Sarebbe folle – esangue accademismo oppure cieco asservimento ad una teoria – voler sradicare questa affezione dell’Io. A prescindere dal fatto che un simile principio sarebbe infruttuoso e inutile, si priverebbe il godimento artistico di tutto il suo calore vitale; esso verrebbe appiattito, scolorito. Dunque: il godimento artistico reale non è mai quel vissuto sentimentale ideale, non può esserlo e non deve esserlo. Ma quando è veramente godimento per l’opera d’arte, allora esso partecipa di quel vissuto, rappresenta per così dire una variazione individuale sul tema. Il tema deve trasparire; ciò appartiene all’essenza della variazione, così come il fatto che la variazione non lasci risuonare il tema nella sua nudità. Per ogni uomo esiste infine un godimento artistico diverso, adeguato solamente a lui, che istituisce la relazione migliore, quella più produttiva e più profonda, tra il proprio Io e l’oggettività dell’opera d’arte. Questa adeguatezza è però ovviamente qualcosa di completamente diverso da quell’ideale correlato del vissuto della configurazione. Eppure ogni godimento artistico adeguato si riferisce a questo “ideale”; per dirla brevemente, mira in quella direzione, ma in modi sempre diversi; si tratta sempre di una partecipazione, mai di una coincidenza. Molto spesso si è ribadito che l’antico muore in ogni generazione per poi ridischiudersi meravigliosamente in quella successiva. Ogni epoca storica ha una posizione diversa, ad esempio, nei confronti di uno Shakespeare. E il giovane che 5 [E. Utitz, Grundlegung der allgemeinen Kunstwissenschaft, 2 Bde., Enke, Stuttgart 1914 e

1920.]

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corre febbrilmente incontro alla vita si comporta in modo diverso rispetto all’uomo maturo, e quest’ultimo in modo ancora diverso rispetto all’anziano esperto, ormai rassegnato. Ciononostante, la configurazione formale dell’opera d’arte non viene naturalmente sfiorata dalla continua e necessaria mutevolezza di quelle relazioni, dal momento che questa legalità persiste immutata nel susseguirsi dei destini empirici, e con quella legalità anche la correlazione ideale del vissuto. Questo rapporto si rivela in modo particolarmente evidente quando, attraverso nuove messe in scena di antiche pièces teatrali, viene istituita una relazione con il pubblico adeguata ai nostri tempi, poiché in questo si dischiude manifestamente, per così dire, quel processo che altrimenti rimarrebbe racchiuso nell’interiorità psichica. E si tratta sempre dello stesso problema: ossia, che questa relazione non va tanto a scapito dell’opera d’arte, la quale perciò non ne viene alterata o falsificata; ma è sempre e solo un compromesso, talora buono e talaltra meno. Se ci dirigessimo però senza scrupoli verso quella correlazione ideale, irrigidiremmo allora la vita: ombre esangui e gelide scivolerebbero dalle nostre mani, il godimento artistico sarebbe già da tempo fuggito, vaporizzato, soffocato in un’aria glaciale. Credo dunque che qualsiasi dubbio riguardo al carattere non psicologicistico di quell’ideale vissuto sentimentale del piacere sia ingiustificato. A questo problema, però, si riallacciano le interessantissime domande sui modi in cui il godimento artistico vero e proprio – in particolar modo quello adeguato – si comporta nei confronti di quella correlazione di principio. Qui potrebbe tra l’altro intervenire, e con le più grandi probabilità di successo, la psicologia differenziale; essa coglie da un lato le sfumature individuali più sottili, dall’altro rileva nuovamente tipi evidenti. Non si tratta dunque di psicologia selvaggia, che si occupa un po’ di tutto; al contrario, a quella psicologia sono assegnati compiti molto precisi, e i suoi limiti sono saldamente fissati. Al contempo si garantisce però la libertà propria di infinite differenze individuali, da non ritenersi qui quali fonti d’errore, ma piuttosto quali elementi indispensabili. Naturalmente tali differenze non possono essere derivate dalla teoria, bensì devono essere empiricamente accertate e comprese nella loro realtà effettiva. È evidente che in questa sede non possiamo indugiare oltre su questo ambito, seducente e pressoché immenso. Teniamo fermo il fatto che l’arte è una configurazione del vissuto sentimentale, per cui il suo senso si schiude in tale vissuto. Con ciò crediamo dunque che l’autonomia dell’arte sia al sicuro da ogni attacco: e cioè per mezzo della sua configurazione e formazione, che seguono leggi proprie. Quel vissuto sentimentale è ovviamente indissolubile dalla configurazione, dal momento che viene inizialmente originato e creato per suo tramite. E possiamo riscontrarlo fuori dall’ambito artistico solo là dove cogliamo artisticamente la natura, formandola e configurandola in modo tale che essa riceva una caratterizzazione artistica. In quel caso però ci muoviamo di nuovo all’interno della sfera artistica. Proprio tale sfera mi sembra saldamente circoscritta dalla nostra definizione, eppure in nessun modo limitata nella sua libertà; poiché là dove è presente

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quella configurazione, là si dà arte. Su questo punto non possiamo farci confondere da alcun dogma. Le maschere demoniache dei primitivi sono opere d’arte nella misura in cui mirano, attraverso la loro configurazione, a un vissuto sentimentale che viene infatti condizionato dalla configurazione stessa; allo stesso modo dobbiamo osservare gli ornamenti nella loro sequenza ritmica e nelle loro tonalità spesso accese. È inoltre chiaro che il fattore nazionale, quello sessuale, quello etico, quello intellettuale, quello religioso ecc… trovino tutti posto nell’arte; ma non di per sé, bensì per il fatto che, grazie alla formazione e alla configurazione, tali fattori acquisiscono quel modo di darsi che solo decide dell’artistico. Non si deve perciò rifiutare la tendenza verso l’uno o l’altro elemento, ma la forma non configurata, che non è divenuta artistica. Non occorre più arrampicarsi in modo ridicolo sugli specchi per garantire che l’arte non abbia niente a che spartire con l’etica o con una visione del mondo. Da spartire ne ha, eccome, da sempre e in tutte le epoche. L’elemento etico o quello relativo alla visione del mondo ecc., sono annoverati tra i problemi più difficili, sublimi e potenti per la configurazione artistica. Condurre questi stati di cose al vissuto sentimentale mediante la loro formazione è il suo imprescindibile compito. Se, in allestimenti ugualmente riusciti, un dramma rivela una concezione di vita banale e superficiale, mentre un altro ne svela una profonda, è proprio il secondo ad avere maggior valore. Sarebbe assurdo sottrarsi a questa conclusione, assolutamente ovvia per qualsiasi persona imparziale. I valori più forti vengono qui condotti al vissuto sentimentale mediante la configurazione. Se però l’arte può generare valori nazionali, etici, religiosi, non si dissolve proprio per ciò, perdendo la propria autonomia? Non ritorniamo in ultima istanza a uno stadio pre-kantiano in cui si lascia agire e lavorare l’arte al servizio di quelle forze extra-estetiche? Queste perplessità non ci possono spaventare; e nemmeno la formula di scongiuro kantiana funziona qui, poiché noi crediamo di seguire il percorso indicatoci, con una geniale intuizione, proprio dalla kantiana bellezza “aderente”. No, rispondiamo: non è l’arte a creare i valori etici, intellettuali, religiosi in sé; essa piuttosto conferisce loro, in virtù della sua formazione, un nuovo modo di darsi e quindi una nuova condizione di valore. Così essi diventano anche in altro modo – fecondamente e a volte pericolosamente – efficaci. Tuttavia non vogliamo parlare in questa sede di tali conseguenze (un altro campo di ricerca promettente, che si dischiude qui in modo sistematico). Così anche all’arte è consegnato il mondo intero; niente si può sottrarre ad essa di ciò che ammette una configurazione, una formazione in vissuto sentimentale. Essa non è limitata ad alcun ambito materiale, nessun contenuto le è negato; anzi, l’arte cresce e s’innalza tanto più, quanto più ampia e sublime è la configurazione dell’elemento spirituale nel vissuto sentimentale. A questo punto alcuni si vedranno probabilmente rinviati alle teorie del cosiddetto espressionismo e vi riconosceranno un’intima affinità con tali dottrine, facendone dipendere al tempo stesso la longevità da quelle

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sioniste. Io sostengo da lungo tempo questa prossimità, e ho altresì rilevato come anche l’estetica idealistica tedesca sia giunta a considerazioni simili partendo da tutt’altre basi; ma non voglio ripetermi qui. Certo, se oggi è possibile porre in primo piano, e in modo così deciso, il problema della configurazione e della formazione, ciò dipende dal fatto che abbiamo avuto Kant da un lato, e l’arte rigorosa delle cerchie di Hans von Marées e di George dall’altro. E per aver avvicinato così tanto l’arte a tutte le grandi forze spirituali, ai giorni nostri bisogna aver avvertito la fragorosa onda dell’espressionismo. Credo di aver dato conto di ciò nella mia Cultura del presente6. Ma se certi punti di vista possono essere concepiti e sviluppati solo in rapporto ad una determinata situazione culturale, ciò non deve affatto significare che essi siano solo fiori nutriti da quella cultura destinati ad appassire rapidamente. Le oggettive connessioni sistematiche in cui si articola un problema si muovono su un piano del tutto diverso rispetto agli avvenimenti empirici che hanno portato alla sua scoperta, formulazione e definizione. Perciò questi ultimi non decidono nemmeno del suo contenuto scientifico di verità. Ciononostante, tali elementi invitano a un severo esame critico per cercare di prevenire qualsivoglia confusione tra psicologia culturale e necessità logiche, confusione di cui è rimasta vittima certa estetica. È sufficiente essere ben consapevoli di questa possibile fonte d’errore per riuscire, almeno fino a un certo punto, a evitarla; e sempre di nuovo vale il fatto che occorre rivolgere lo sguardo all’intera realtà dell’arte, senza restringerla in alcun modo soggettivo. Proprio in questo ci sostiene il materiale straordinariamente poliedrico accumulato dalle discipline storico-artistiche, dall’etnologia e dalla scienza della preistoria. Come l’epistemologo non può rinchiudersi solo nella matematica e nella fisica e dimenticarsi ad esempio della storia, così nemmeno al filosofo dell’arte è permesso di scegliere un ramo artistico qualsiasi oppure un’epoca artistica qualsiasi, e considerare così solo una o alcune possibilità artistiche, perdendo tuttavia di vista la loro completezza sistematica. Ad esempio, anche una filosofia critica della storia può sì nascere solo in riferimento ad una determinata epoca, ma deve poi rivelarsi come patrimonio consolidato e problema della scienza in generale. Non mi viene certo in mente di destinare questo ruolo eterno proprio alla mia filosofia dell’arte, ma piuttosto alla questione della scienza generale dell’arte. Una volta fissato, con la definizione dell’arte come formazione e configurazione specifica, l’ambito del suo dominio (dai suoi timidi inizi primitivi alle sue creazioni supreme), che ne è del suo valore? Questa domanda ha provocato i peggiori disorientamenti, poiché da sempre si è confuso l’essere dell’arte con il valore dell’arte. Il fatto che qualcosa rappresenti una configurazione del vissuto sentimentale, suggella sì il suo carattere artistico, ma nulla è ancora detto su questo stesso carattere. Esso può essere molto pove6 [E. Utitz, Kultur der Gegenwart, Enke, Stuttgart 1921.]

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ro oppure molto ricco. Ogni opera d’arte forma ad esempio – com’è noto da tempo – un’unità nella molteplicità; ma questa qualità viene accordata a qualsiasi opera d’arte, e per il suo valore individuale risulta decisivo solo il risultato ottenuto in questo caso specifico grazie all’unità nella molteplicità; il che riconduce in ultima istanza ad un’analisi del problema della forma e della configurazione come a un problema dotato di leggi proprie. Vorrei ricorrere ad un semplice esempio per chiarire questo punto: le diverse espressioni di valore dell’umanità si possono dispiegare solo all’interno del genere umano; l’essere umano è la base su cui vengono costituite. Sarebbe insensato voler insultare un cane perché non è uomo. Il valore comune a tutti gli uomini è naturalmente qualcosa di completamente diverso dal valore di una singola personalità. Il primo circoscrive solo la cornice all’interno della quale si attualizzano le più diverse possibilità di valore. Certamente il fatto che noi definiamo qualcosa come opera d’arte significa appunto già un apprezzamento, e quindi il riconoscimento di un valore. In tal modo registriamo l’essere artistico. I veri e propri valori artistici si rivelano, però, solo all’interno dell’essere artistico e sono condizionati dal modo in cui viene compiuta la configurazione in quel caso particolare; e questo “come” dipende di nuovo dal “cosa” spirituale. Ma se ci avviciniamo all’arte con un canone di valore prestabilito, allora eliminiamo nuovamente e fin dal principio ciò che non si piega a questi valori, e non abbiamo garanzie riguardo alla loro adeguatezza. Interroghiamo invece sempre e solo l’opera d’arte stessa; e la risposta la darà la legge della sua configurazione. Devo rinunciare ad approfondire qui le questioni relative al significato storico dell’opera d’arte o agli effetti di valore dell’arte. Dal momento che affidiamo all’arte in quanto configurazione specifica tutto ciò che inerisce al suo modo di darsi, possiamo approfondire senza distorsioni o addirittura rotture tutte le sue irradiazioni (erotica, intellettuale, etica, religiosa) fino dentro alle loro ramificazioni più sottili; in questo la forma coniata fornisce il punto di partenza metodologico e il punto di riferimento permanente. Senza addentrarci qui nel contenuto della scienza generale dell’arte – l’ho descritto altrove in modo sufficientemente ampio –, va richiamata l’attenzione unicamente sul modo in cui tutti i suoi compiti si raccolgono sistematicamente attorno alla questione della configurazione, venendo da questa addirittura generati. Con ciò superiamo da una parte la casualità delle estetiche e delle teorie empiriche dell’arte (che in effetti offrono solo combinazioni prive di coesione, prodotte in modo grossolano), e dall’altra l’improduttività euristica delle ricerche speculative, che restano per lo più irretite nell’intenzione programmatica, in annunci e proclami, mentre il nesso con le singole questioni va completamente perduto. A tal proposito non sottovaluto l’eccellente lavoro delle grandi opere di Jonas Cohn, Theodor Lipps e Johannes Volkelt: sono le tappe principali del percorso qui auspicato. Essi non hanno tuttavia potuto imboccare la strada di una scienza sistematica dell’arte. Abbiamo già avuto modo di accennare al fatto che alcune delle

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ro domande sono ancorate al problema centrale della formazione specifica, e non vogliamo ripeterci in questa sede. Se ogni arte è un determinato genere di configurazione, allora dobbiamo necessariamente esaminare le condizioni indispensabili, costitutive, i presupposti della sua oggettualità. Faccio solo un esempio molto breve e per questo abbastanza grossolano: nessuna configurazione si può compiere nel nulla; essa necessita di un materiale. Quali materiali però esistano e quali proprietà posseggano, è qualcosa che solo l’esperienza ci può insegnare. Quali possibilità artistiche offre un materiale? Lo posso stabilire unicamente mettendo l’essenza del materiale in questione in relazione all’essenza dell’arte in quanto configurazione del vissuto sentimentale. Credo dunque – unitamente al materiale – di dover riconoscere una molteplicità di condizioni, e precisamente cinque. Nessuna di queste condizioni è in sé artistica – come per esempio non lo è il legno in sé –; esse ricevono piuttosto la loro caratterizzazione artistica in quanto si connettono con la configurazione unitaria. Ogni cosa deve quindi essere afferrata e compresa in considerazione di questa unità poiché, se isolata, essa perde il suo senso. Proprio la dottrina dell’oggettualità dell’opera d’arte – che ho presentato per la prima volta cinque anni fa nella sezione berlinese della Kantgesellschaft – conduce da una parte alle più sottili questioni particolari, e dall’altra le vincola in modo essenziale all’oggettiva legalità della configurazione. Una volta compresa l’opera d’arte nella sua struttura, dobbiamo interrogarci sulla sua genesi. Questa domanda non mira ad una pur interessante psicologia dell’attività artistica; noi vogliamo piuttosto sapere ciò che occorre per portare a compimento quella configurazione. Sono queste necessarie ed indispensabili condizioni e presupposti di ogni artisticità ciò che si deve esplorare. All’interno di quello spettro la psicologia differenziale torna poi a modellare i singoli profili individuali e tipici come possibilità che vengono stabilite grazie a quella fondazione. Non occorre probabilmente che io prosegua nella caratterizzazione di questo procedimento di lavoro sistematico-metodologico che porta alla luce il contesto necessario e oggettivo della scienza generale dell’arte, sottraendo così le questioni particolari al loro isolamento, assicurando loro un posto preciso e definendone la validità. Tutti i problemi della scienza generale dell’arte ruotano attorno al problema formale; esso è il sole da cui si dipartono tutti i raggi. Eppure la scienza generale dell’arte è tutto tranne che formalistica: il fattore sessuale, intellettuale, etico, religioso ecc. rientrano nella configurazione artistica e rinascono in essa in un nuovo modo di darsi. Proprio la forma è ciò che salva il contenuto, e il contenuto esiste solo per mezzo della forma, e in essa. Gli enigmi e i misteri del rapporto fra forma e contenuto costituiscono il compito della scienza generale dell’arte. Come stanno invece le cose riguardo alla pura esteticità? Questa domanda, dalla quale siamo pur partiti e che abbiamo però così a lungo tenuto da parte, necessita ancora di venire chiarita, ora che ci avviamo alla conclusione. L’arte intesa come configurazione di un vissuto sentimentale

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frange ampiamente i limiti della sfera del bello. L’etico non deve essere – per fare qualche esempio – abbellito, bensì deve essere attribuito ad un vissuto sentimentale mediante il modo di darsi artistico. Allo stesso modo il terribile o sublime, ciò che commuove tragicamente ed il sorriso gentile, la serenità benevola e la malinconia lacrimosa, il pathos fragoroso della passione e il senso di opaca lacerazione proprio della disperazione, il giubilo argentino della felicità e la cupa tristezza del dolore, la fantasticheria vibrante e gli incandescenti flussi dell’amore sfrenato: tutto ciò permane nella legalità autonoma della configurazione artistica, ma si sottrae al tribunale del bello. Eppure sarebbe sbagliato se perciò si volesse semplicemente eliminare tale nesso, come ha tentato di fare Fiedler. Su questo punto è stato più profondo lo sguardo di Kant, con la sua teoria della bellezza “aderente” che risuona come un leitmotiv nelle nostre osservazioni. La disposizione contemplativa, l’indugiare nella contemplazione, la dedizione nella contemplazione: questo atteggiamento collega l’esteticità pura con la totalità dell’arte. Ogni stimolo che se ne diparte si inquadra in quella contemplazione e in quell’atteggiamento distanziato (per rielaborare qui con parole il più possibile neutrali uno stato di cose universalmente noto e riconosciuto, la cui determinazione concettuale potrebbe però immediatamente riaprire questioni controverse). In tal misura l’elemento estetico prende parte a tutta l’arte, e l’arte all’estetico; e in tal misura essi mostrano la stessa forma, o meglio: gli stessi momenti nella loro configurazione, proprio come i momenti strutturali della conoscenza quotidiana (pre-scientifica ed extrascientifica) vengono assunti nelle forme più alte della scienza. Lungi naturalmente da me il considerare il pensiero pre-scientifico o extra-scientifico come uno stadio iniziale, incompleto o insufficiente del pensiero autenticamente scientifico. Questo è quel che si crede solo dal punto di vista della scienza; ma in sé quel pensiero è già sottoposto ai suoi propri compiti e scopi specifici. Il punto focale dell’estetico sarebbe il bello; in esso si soddisfa la contemplazione – così spesso decantata – beata e felice, liberata e redenta da ogni residuo terreno materiale, non oppressa da forze extraestetiche. Giacché prima abbiamo portato a paragone la scienza, vogliamo farlo ora nuovamente: da sempre la matematica è apparsa a molti come ideale assoluto della scienza; nella rigorosa logicità della sua struttura, nella chiarezza cristallina delle sue determinazioni, nell’incontestabile certezza dei suoi risultati. Essa risplendeva come la creazione più pura della scienza, non appesantita dall’opprimente zavorra dell’empiria. Sempre di nuovo si affermava quindi l’aspirazione a conformare tutte le scienze secondo il suo modello seducente, eliminando dalla scienza tutto ciò che non vi si adeguava. E passò molto tempo prima che questi altri aspetti conquistassero il loro diritto di esistenza; questo processo – che in parte rivoluziona il concetto stesso di scienza – non si è ancora concluso. Il bello è andato incontro esattamente allo stesso destino. Con massima prudenza e discrezione, si intende qui un’affinità ancor più profonda con la matematica. Senofonte, nelle sue memorie socratiche, narra di un colloquio tra Socrate e il celebre

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re Clitone7 che, come ci assicurano gli archeologi, non era diverso da Policleto né a lui inferiore. L’artista e il filosofo conversarono sul problema della bellezza. Mentre l’artista voleva ricondurre la bellezza a determinati rapporti canonici di numeri e proporzioni, il filosofo osservò che compito dello scultore è piuttosto quello di rivelare nella sua opera i moti dell’anima. Forma e contenuto, bellezza pura e bellezza aderente, si vengono qui reciprocamente incontro come gli accordi fondamentali di una ouverture. Tutto il Rinascimento italiano, ma anche un pittore come Dürer con la sua arte della misurazione8, hanno dato la caccia a quell’enigma della bellezza, convinti che si dovesse risolvere in numeri, ordine e armonia. L’armonia mistica delle sfere, così spesso asserita, era espressione da un lato di una determinatezza matematica del mondo, dall’altro della suprema bellezza metafisica. Anche gli stessi esperimenti, talvolta quasi infantili e ludici, volti a scoprire una linea della bellezza oppure un’altra forma di bellezza matematica, scaturivano dalla concezione secondo cui doveva esserci una legge originaria alla base di tutte le espressioni del bello. E si era sempre alla ricerca della misura, dell’ordine, dell’armonia; in direzione di una matematica intuitiva o affettiva, oppure anche di una matematica “incoscia”, come si usa dire talvolta. Però, così come la matematica è regina del suo regno, mentre in quello delle altre scienze gioca un ruolo sempre diverso a seconda della loro natura (talora escludendosi totalmente, talaltra arrogandosi con presunzione diritti a lei estranei quando vuole assolutamente matematizzare tutto), così accade anche alla bellezza. Certamente esiste un’arte del bello, e le sue lodi sono state spesso cantate in modo sufficientemente entusiastico, ma tra tutte le configurazioni del vissuto sentimentale essa è solo una delle possibilità con cui il senso si dischiude in un vissuto. E le altre possibilità sono, in virtù della definizione da noi appena illustrata, non meno giustificate di quella che io chiamo arte squisitamente estetica. Al bello si addice però nell’arte anche un altro senso: ad esempio un bel modo di rappresentare è in grado di far risplendere con dolcezza e delicatezza anche ciò che è orribile e spaventoso; talora, come un singhiozzo trattenuto, una nostalgia per la bellezza sembra levarsi dalle cose e avvolgerle come un dolce alito. Infine esiste un’arte che non intrattiene più alcuna relazione con il bello, ad eccezione di quella del tutto generica, della quale abbiamo già parlato. Affiancare a quest’arte una qualsiasi altra relazione vorrebbe dire fraintenderla e farle violenza. Deve essere lasciato ai posteri il compito di creare norme terminologiche, quando il quadro sarà sufficientemente chiaro. Allora finalmente verrà meno quell’estenuante, ingegnosa ma anche tediosa dialettica concettuale, che si trastulla con termini quali arte, bellezza, estetica. Certamente essa è ormai arrivata al suo termine. Non si può più continuare a trascurare o a 7 [Cfr. Senofonte, Memorabili, 3, 10, 1-5, ed. it. a cura di A. Santoni, Rizzoli, Milano 1989.] 8 [Cfr. A. Dürer, Unterweisung der Messung (1525), hrsg. von A. Pelzer, mit einem Vorwort

von H. Thoma, Sandig, Vaduz 1996.]

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negare il problema di una scienza generale dell’arte critico-sistematica, di una vera filosofia dell’arte, che ponga in primo piano il fatto complessivo dell’arte. Inoltre, solo considerando esplicitamente tale problema si potrà ottenere il tanto auspicato collegamento alla vita dell’arte e alle discipline storico-artistiche, che in alcuni casi è già divenuto realtà come risultato di quei primi sforzi in tale direzione. Nell’autonomia della formazione artistica si ritrovano, tutti riuniti, l’artista, lo scrittore d’arte, lo storico dell’arte, il filosofo dell’arte. Per questo il lavoro dell’uno arricchirà e ispirerà anche quello dell’altro; viene così meno il triste isolamento della precedente estetica, e anche un altro isolamento è in procinto di dissolversi lentamente. La filosofia dell’arte, una delle figlie più giovani della filosofia, si è dovuta accontentare il più delle volte del modesto ruolo di figliastra. Ciò non era un bene né per la filosofia dell’arte, ma alla fine nemmeno per la filosofia: quella era trascurata, e questa nelle sue costruzioni sistematiche prestava attenzione in ultima istanza solo all’arte. La filosofia dell’arte faceva talora solo da tappabuchi; in ogni caso doveva solo accontentarsi umilmente. Se la scienza generale dell’arte deve la sua intera esistenza alla filosofia, essa la ripaga rendendo utile la problematica della filosofia dell’arte per la filosofia stessa. A lungo andare, specialmente la filosofia della cultura, oggi così fiorente, non potrà più fare a meno del prezioso aiuto della filosofia dell’arte, a cui oggi ricorre ancora così poco. Alcune importanti questioni potrebbero ricevere qui, a mio avviso, uno stimolo e un incitamento decisivi. Con questa visuale molto ampia – che depone a favore dell’unità della filosofia – vorrei concludere la mia relazione. Non abbiamo fornito alcuna risposta, ma abbiamo piuttosto sollevato un problema. Questo problema, però, genera la scienza generale dell’arte, che lo trascende.

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Teoria dell’arte versus estetica (1925)1

La mia intenzione di mostrare che estetica e teoria dell’arte sono due materie totalmente differenti risulterebbe essere un’impresa sospetta se io prendessi le mosse da una definizione del termine “estetica”. Dovrei infatti necessariamente definirlo in modo tale da non includervi la teoria dell’arte. E se, dopo aver fatto ciò, io sostenessi che la teoria dell’arte fosse qualcosa di diverso dall’estetica, sembrerei voler giocare a quel gioco molto infantile che consiste nel girare intorno in cerchio. Assumerò pertanto il termine nel suo significato più generale, e senza alcuna restrizione. Non tenterò di trascurare alcun fenomeno di quelli che siamo soliti chiamare estetici: i fatti psicologici del sentimento e del piacere estetici, e le condizioni in cui essi si verificano; la struttura dell’oggetto estetico, e l’atteggiamento contemplativo in cui lo si apprende; i principi del valore estetico, e la forma del giudizio con cui si afferma tale valore. Considerando tutti questi differenti significati, affermo che la teoria dell’arte deve emanciparsi dall’estetica; al fine di giustificare tale affermazione, non mostrerò solo perché ciò sia necessario, ma anche come sia possibile. 1. Inizio dall’analisi dell’oggetto estetico. – Nella contemplazione estetica qualsiasi oggetto perde le proprie connessioni con tutti gli altri oggetti. È isolato; non solo dalle cose teoretiche o pratiche, ma anche da ogni altro oggetto estetico. È quindi impossibile stabilire una relazione fra due fenomeni estetici senza modificare le caratteristiche di entrambi trasformandoli in un nuovo oggetto estetico con caratteristiche totalmente nuove. Per esempio, quando guardiamo dapprima un dipinto a distanza ravvicinata e poi lo contempliamo in relazione alla stanza in cui è appeso, il dipinto non rimane lo stesso. Contribuendo all’effetto complessivo della stanza, esso rivela nuove qualità, che svaniscono nel momento in cui ritorniamo al nostro precedente punto di vista. Ciò mostra che non è solo connettendo due oggetti estetici che noi li trasformiamo in un fenomeno estetico nuovo, ma anche che selezionando parti di un oggetto estetico noi modifichiamo le sue 1 Comunicazione letta al 24 Congresso annuale della «American Philosophical Association»,

Eastern Division, Swarthmore, Pa., 30 dicembre 1924.

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caratteristiche. Ciò che rimane non è una parte dell’oggetto precedente, ma un fenomeno totalmente nuovo. Quando si guarda un ampio paesaggio con vallate e montagne, e poi ci si concentra improvvisamente su un piccolo gruppo di case che vi si staglia, tale gruppo che ora si vede non forma una parte del paesaggio che si vedeva prima; è un oggetto estetico nuovo con qualità totalmente differenti. Da questi fatti possiamo trarre la conclusione che riguardo alla struttura dell’oggetto estetico non abbiamo il diritto di parlare di relazioni. Questa affermazione potrebbe causare qualche fraintendimento. Certamente non sto cercando di negare che, mentre ci troviamo nell’atto della contemplazione, sussistano migliaia di relazioni fisiche; che, al fine di contemplare, noi stessi dobbiamo stabilire relazioni psicologiche. Ciò che sostengo è semplicemente quanto segue: e cioè che non importa quante relazioni possano essere necessarie per render possibile il dischiudersi della sfera estetica; in tale sfera in se stessa non ve n’è alcuna. Non v’è coordinamento tra due oggetti differenti, né subordinazione di una parte a un tutto, e nemmeno rappresentazione di una cosa da parte di un’altra. Poiché il fenomeno estetico non ha altro significato oltre al suo proprio. È isolato, indivisibile e autosufficiente. 2. Analizzando il valore estetico, rinveniamo caratteristiche simili. È di per sé evidente che esso non si relaziona a valori pratici o teoretici. Ma persino nella sfera estetica in quanto tale, un valore non è connesso all’altro. Non posso inferire un valore estetico. Posso verificarlo solo guardando l’oggetto in cui esso appare. In altre parole, l’atto grazie al quale colgo l’oggetto è identico all’atto grazie al quale comprendo il suo valore. Questo è un caso straordinario. Nell’etica, per esempio, la valutazione di un oggetto è un atto complesso, e preceduto dalla conoscenza dell’oggetto in quanto tale. Devo sapere che cosa è accaduto prima di poter dire che quell’evento è un crimine. Nella scienza la valutazione nemmeno si relaziona all’oggetto che viene giudicato, quanto piuttosto alla validità del giudizio stesso. Se pronuncio una dichiarazione vera riguardo a questo tavolo, il valore di verità appartiene alla mia dichiarazione, non al tavolo. Solo in estetica il valore è dato come una qualità immediata dell’oggetto che appare. Il paesaggio è, semplicemente, bello. Né apprendo il paesaggio in quanto tale prima di apprenderne la bellezza, né ciò che chiamo bello è il mio sentimento del paesaggio; è il paesaggio stesso. L’idea di un valore che appaia come una qualità immediata contiene un paradosso per le menti filosofiche. Platone lo ha formulato dicendo che l’idea di bellezza era l’unica che apparisse nel mondo della percezione. Ha affermato questo nel Fedro, ma così facendo sembrava abbattere quella barriera che egli stesso aveva posto tra il mondo delle idee eterne e il mondo fluttuante della percezione. Per formulare lo stesso argomento nei termini di Kant, dovremmo dire che le categorie della possibilità formale e della realtà materiale risultano essere identiche se applicate all’estetica.

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Ora, se il valore estetico è un valore che appare, deve necessariamente essere un valore individuale: se non possedesse qualità individuali, non potrebbe apparire. Infatti, cogliendo la bellezza di questo paesaggio, apprendo una bellezza di genere individuale, e viceversa; apprendendo le sue caratteristiche individuali, le apprendo in quanto belle. Può essere provato (anche se non posso farlo in questa sede) che solo questi due tipi di giudizio estetico sono possibili: il giudizio che afferma il valore estetico e quello che afferma l’individualità estetica; e si può provare altresì che l’uno si riferisce implicitamente all’altro e non è possibile senza di esso. 3. Parlando del giudizio estetico ho raggiunto il punto in cui si pone il problema vero e proprio. Chiunque tenti di esprimere in un’affermazione ciò che egli ha scoperto in virtù della contemplazione estetica, rinuncia all’atteggiamento estetico e trascende la sfera estetica. Egli trasforma in giudizio ciò che è in realtà il risultato di un sentimento, e così facendo deve decidere quale delle due alternative preferisce: o negare che il giudizio origini dal sentimento e cercare di difenderlo con il ragionamento; oppure confessare che esso non ha alcuna base razionale e non riconoscere la sua pretesa di essere vero. L’affermazione che egli pronuncia non può essere provata, dal momento che il valore estetico, come abbiamo mostrato, non si relaziona a nessun’altra cosa. È irrazionale nel senso più esatto del termine. D’altro canto, il fatto che un’affermazione sia pronunciata suscita il desiderio della prova. Come si può risolvere tale dilemma? Non possiamo insistere sulla validità del nostro giudizio estetico a meno che non trascendiamo la sfera della sua origine. Nel momento in cui iniziamo a discutere se abbiamo ragione o torto nell’affermare che questo è un buon dipinto oppure no, rinunciamo all’atteggiamento contemplativo. Iniziamo ad analizzare il dipinto. Cerchiamo di dimostrare come questo tipo di trattazione dello spazio si adatti – bene o male – a questo tipo di composizione. E distinguendo tra composizione e spazio mostriamo (che lo ammettiamo o meno) che il nostro oggetto non è più indivisibile. Lo dividiamo secondo determinate categorie; e, dato che è possibile applicare queste stesse categorie ad altri oggetti, è evidente che il nostro oggetto non è più isolato. In più, dal momento che abbiamo l’ambizione di provare quanto i diversi elementi che esponiamo nell’analisi corrispondano gli uni agli altri, dobbiamo ammettere che la struttura dell’oggetto non mostra più quella mancanza di relazioni che era caratteristica del fenomeno estetico. Queste poche dichiarazioni saranno sufficienti a sfidare tutti coloro che hanno una concezione romantica dell’arte. Essi non mancano di obiettare che l’arte è fatta per essere sentita e non analizzata; e se fossero inclini al sarcasmo citerebbero Rembrandt, il quale osservò che i dipinti sono fatti per essere guardati e non per essere annusati. Cionondimeno, è facile respingere tali obiezioni. Persino se esse fossero nel giusto, in ogni caso singolo necessiteremmo di un criterio per decidere se il nostro sentimento sia il solo che corrisponde al significato dell’opera d’arte alla quale lo riferiamo;

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e questo criterio non potrebbe essere trovato nel sentimento estetico stesso. L’atteggiamento estetico non è limitato all’arte; esso può essere assunto nei confronti di molte altre cose. Contempliamo non solo dipinti, ma anche abiti e fiori, una stazione ferroviaria, o forse persino un obitorio. Il mero fatto che possiamo riferire l’estetica alla natura è sufficiente per indurci a dubitare del suo rapporto con l’arte. Ciò dovrebbe farci capire che se contempliamo un’opera d’arte nell’atteggiamento estetico, questo atteggiamento ha una funzione totalmente differente rispetto a quella che avrebbe se lo applicassimo semplicemente alla natura. Se due persone che stanno contemplando il fiume Hudson ne ricevono impressioni molto diverse, possono litigare su questo fatto, ma non possono discuterlo. Sarebbe nient’altro che presuntuoso se l’uno sostenesse che l’altro fraintende “il significato del fiume Hudson”. Ma se le stesse due persone stanno contemplando un dipinto di Rembrandt, la domanda se esse comprendano il suo significato è non solo ragionevole, ma persino necessaria. Il problema è se la loro impressione del dipinto sia quella che era stata intesa dall’artista. Il fatto che le discussioni siano possibili mostra che anche gli errori lo sono. E tali errori non possono essere dovuti a un giudizio estetico che esprime solo ciò che esso stesso non ha colto; essi sono dovuti a una contemplazione estetica mal diretta. Ma come si possono applicare i concetti di giusto e sbagliato all’estetica? Non ho affermato io stesso che la sfera estetica non contiene alcuna relazione e alcuna rappresentazione di una cosa da parte di un’altra? Infatti! Fintantoché io parlo del fenomeno estetico in quanto tale, esso non può essere né giusto né sbagliato. È semplicemente lì. Ma non appena affermo che nell’apprendere questo fenomeno io comprendo l’opera dell’artista, che il risultato della mia contemplazione estetica coincide con i risultati della sua intenzione artistica, io presuppongo un comprendere, e questo va oltre la dimensione estetica. Mentre sto godendo di un dipinto esteticamente, posso misconoscere il suo significato artistico; ma questo misconoscimento non può essere provato nel campo estetico. Dobbiamo trascenderlo in direzione della teoria dell’arte. Per dirla in breve: la contemplazione dell’arte trova la propria espressione in un’affermazione. Quest’affermazione provoca un’argomentazione. Non appena tale argomentazione viene discussa, la contemplazione dell’arte si trasforma in critica d’arte. La critica d’arte impiega concetti che devono essere fondati nella teoria dell’arte. Si può mostrare una simile necessità di una teoria indipendente dell’arte dal punto di vista della storia dell’arte.

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4. Alois Riegl, il grande storico viennese dell’arte, una volta ha affermato che il migliore storico dell’arte è quello privo di gusto2. Nonostante la sua forma umoristica, questa affermazione era intesa alquanto seriamente. E fintantoché non si identifica l’espressione “privo di gusto” con il “cattivo gusto” non è nemmeno un’affermazione paradossale. Essa postula semplicemente che lo storico dell’arte non dovrebbe permettere che il proprio piacere estetico interferisca con il proprio giudizio. Questo è un conflitto che ogni storico dell’arte deve affrontare e risolvere se intende essere uno studioso scrupoloso: il conflitto tra contemplazione e analisi, tra sentimento estetico e giudizio scientifico. Se la storia dell’arte, nel momento in cui cessa di essere meramente biografica, dovesse prendere a essere solo emotiva, presenterebbe una spiacevole commistione di poesia e indagine. Le affermazioni degli storici dell’arte sarebbero degne di considerazione solo nella misura in cui gli storici stessi fossero interessanti come personalità, non però come scienziati di successo. Ma fortunatamente abbiamo una storia dell’arte che è una scienza; che guarda ai dipinti non dal punto di vista dell’impressione che essi producono sulle anime, bensì dei problemi artistici che essi tentano di risolvere e del modo in cui lo fanno. Lo storico dell’arte, per esempio, analizza la forma dello spazio che inerisce a un certo quadro domandando: in che modo questa forma dello spazio riconcilia l’antagonismo fra le dimensioni della superficie e della profondità? Esiste infatti un conflitto naturale fra le qualità visive di queste due dimensioni, un conflitto e al contempo una relazione necessaria. Non posso enfatizzare le qualità della profondità senza ridurre l’importanza della superficie, e viceversa. Ma d’altro canto debbo mettere in relazione le qualità della profondità con quelle della superficie, al fine di renderle visibili; e debbo mettere in relazione le qualità della superficie con quelle della profondità, al fine di distinguerle. Questo è ciò che io chiamo un problema artistico, per il quale l’artista deve prendere una decisione. E non è l’unico. Potrei anche chiedere: qual è la differenza tra il dipingere una linea e il dipingere una macchia? E rispondere: la linea presenta un certo valore di forma e di limitazione, mentre la macchia presenta un certo valore di tono. Ora, non posso tirare una linea senza conferirle un certo tono, perché altrimenti essa non sarebbe visibile; sarebbe solo un concetto geometrico. D’altra parte, non posso fare una macchia senza conferirle una certa forma, altrimenti essa non sarebbe nulla. Ma utilizzando il tono solamente per rendere una linea visibile, squalifico i suoi valori intrinseci, lo impiego soltanto come un mezzo. E usando la forma per modellare una macchia, riduco analogamente il suo valore autonomo. Questo è il conflitto tra qualità intensive ed estensive. 2 [Lo riporta l’allievo di Riegl Max DvoĜák: Alois Riegl (1905), in Id., Gesammelte Aufsätze

zur Kunstgeschichte, Piper, München 1929, p. 285.]

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Un terzo esempio di problema artistico è la relazione dell’opera come un tutto nei confronti dei suoi elementi individuali, dei suoi dettagli. Non posso parlare di tali elementi individuali senza considerare la loro connessione con il tutto; e non ha senso parlare di un tutto senza presupporre la presenza di elementi individuali. Ma più un artista enfatizza l’importanza dei dettagli, più il valore del tutto si riduce a una mera forma di connessione. Il tutto si rivela essere una composizione. D’altro canto, più l’artista enfatizza l’importanza del tutto, più i dettagli perdono le loro qualità indipendenti. I dettagli si rivelano essere delle differenziazioni. Per esemplificare il contrasto di decisioni possibili possiamo riferirci, da un lato, all’arte egizia, in cui l’enfasi è tutta posta sulle figure singole, laddove la loro connessione è ridotta a una mera regola di sequenza; dall’altro lato, al moderno impressionismo, nel quale il dipinto è concepito come un’unità i cui dettagli non hanno significati indipendenti da essa. Un sistema complessivo di tali problemi artistici esiste, ed è facile da sviluppare, una volta che si conosca il metodo. Mi limiterò qui a esporre tale metodo. 5. Chiedo: quali sono le condizioni ontologiche che rendono possibili i fatti del lavoro artistico e la comprensione artistica? Non chiedo quale processo psicologico abbia luogo nell’artista mentre sta operando. Né chiedo quali condizioni ambientali o quali esperienze personali influenzino la sua ispirazione. E nemmeno chiedo che cosa mai sia questa ispirazione, di cui tutti dicono che “è l’origine della creazione artistica”. La mia domanda è semplicemente la seguente: che cosa presuppone un artista nel dare per scontato che la sua opera abbia un certo significato che può essere compreso da altre persone? Qual è la base di tale aspettativa? Potrei anche similmente chiedere: che cosa presuppone un pensatore nel formulare idee che egli si aspetta vengano comprese e giudicate? Nel caso del pensatore è facile rispondere a tale domanda, poiché la logica è più avanzata della teoria dell’arte. Il pensatore che esprime le proprie idee per mezzo del discorso produce suoni. Articolando tali suoni secondo determinate regole della fonetica, ci permette di distinguere le parole. Formando e connettendo tali parole secondo determinate regole della grammatica, ci permette di afferrare i loro significati come concetti. Formando tali concetti e connettendo i loro significati secondo le regole della logica, ci sfida ad accordare verità o falsità alle sue affermazioni. Ciò mostra che la comprensione è basata su regole sistematiche di coerenza. Quali sono tali regole di coerenza nell’arte? L’artista presenta anche prima di tutto un certo materiale percettivo, suoni o colori: un conglomerato che è nulla fintantoché non viene articolato. Per quanto concerne le arti visive, il problema dell’articolazione è identico al problema che abbiamo precedentemente formulato; la riconciliazione dei valori intensivi ed estensivi, di forma e di tono, di linea e macchia. Determinando il proprio punto di vista relativamente a tali principi, l’artista crea una regola di articolazione. Tale regola implica necessariamente una

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decisione analoga riguardo al problema dello spazio. Più un artista decide a favore della linea, più deve decidere a favore della superficie. Ecco perché l’arte egizia, che è l’arte più linere che si conosca, è anche la più piatta nello spazio. Al fine di sviluppare le sue meravigliose relazioni sul piano, deve trascurare la terza dimensione. D’altra parte, più un artista decide a favore della macchia, più deve decidere a favore della profondità. Ecco perché l’impressionismo eccelle in quei paesaggi aperti e ariosi in cui lo spazio sembra infinitamente profondo. Essendo l’articolazione e lo spazio reciprocamente correlati l’una all’altro, essi implicano un certo tipo di raggruppamento: un artista che, lavorando per macchie, crea una profondità spaziale, non può formare i dettagli se non in virtù della differenziazione. Un artista che, lavorando per linee, sviluppa le sue figure nel piano, non può formare un’unità se non in virtù della composizione. La decisione riguardo a tutti questi problemi determina la decisione relativa a un problema nuovo: la rappresentazione delle cose. Oggetti visibili appaiono in quelle macchie o in quelle linee, in questa forma dello spazio e in questa disposizione. Per essere visibili, tali oggetti devono possedere qualità individuali; ma per appartenere a un oggetto, tali qualità devono essere vincolate a uno schema generale. Lo schema e le qualità individuali sono necessariamente correlate; ma entrambi sono necessariamente in conflitto reciproco. La decisione dell’artista – se far prevalere l’aspetto schematico o quello individuale dei suoi oggetti – dipende dalla decisione che prende riguardo agli altri problemi. Anche qui possiamo mostrare che il carattere lineare dell’arte egizia implica una presentazione schematica degli oggetti, mentre il “luminismo” dell’arte impressionista enfatizza le loro qualità individuali. Il problema della presentazione è intimamente connesso con il problema dell’espressione. Il modo proprio dell’artista di presentare le sue figure determina il modo proprio della figura di esprimere la sua vita. La vita, per essere espressa, deve venire formulata. Non si dà espressione della vita senza una formula. Ma la formula, per essere espressiva, deve essere animata. Non si dà formula espressiva senza vita. In ogni caso, più importanza diamo alla vita come tale, più dobbiamo ridurre il valore della formula; e più enfatizziamo l’importanza della formula, più dobbiamo trascurare il valore della vita. Anche in questo caso abbiamo una relazione e al contempo un’antitesi. L’arte egizia decise di reprimere la vita delle sue figure a tal punto che le loro azioni erano ridotte a una mera posa. L’arte impressionistica decise di ridurre le formule a tal punto che il sentimento espresso nei suoi paesaggi venne dissolto in un mero stato d’animo. Fra questi due estremi si collocano migliaia di altre possibilità. Sono possibili migliaia di decisioni. Ma ciascuna di esse ha le proprie conseguenze a seconda del sistema dei problemi artistici.

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Non è possibile, nei limiti di un articolo di questa misura, esporre i fondamenti logici di tale sistema, o dimostrare le sue implicazioni pratiche, che mostrerebbero come esso possa essere applicato a tutti i diversi fenomeni della storia dell’arte. Devo altresì rinunciare a tentare di provare che il metodo che ho or ora applicato alle arti visive può essere analogamente impiegato per la musica e la poesia. Desidero solo aggiungere quanto segue. Questi lineamenti di teoria dell’arte mostrano che la regola dell’arte non implica una norma, bensì soltanto una condizione; e che l’impertivo artistico non ha forma categorica, bensì ipotetica. La teoria dell’arte non pretende che l’artista debba fare questo e quello. Afferma soltanto che, se l’artista decide di risolvere un problema in un certo modo, allora egli deve necessariamente decidere di risolvere gli altri problemi in modo corrispondente. La teoria dell’arte non fa che dimostrare le conclusioni della libera decisione dell’artista, ed è in grado di dimostrarle poiché analizza i problemi che rendono necessaria quella decisione. La storia dell’arte e la critica d’arte sono entrambe basate sulla teoria dell’arte. Lo storico dell’arte è principalmente interessato a scoprire la decisione artistica in quanto tale; egli desidera infatti interpretarla come un evento storico. Il critico d’arte è principalmente interessato a esaminare se si sia tenuto fede fino in fondo alle implicazioni di tale decisione; infatti egli desidera giudicare la coerenza e la validità dell’opera. Due altri campi sono più indirettamente interessati dalla teoria dell’arte. Il primo campo è la filosofia pura. La contemplazione estetica e l’analisi scientifica, nonostante siano antagoniste al massimo livello, tentano comunque di accostare il medesimo oggetto, l’oggetto dell’arte. La domanda intorno a come ciò sia possibile presenta un nuovo problema per lo studio generale delle relazioni. Il secondo campo è la pedagogia. Qui la conclusione è chiara. Il fine dell’educazione artistica potrebbe essere quello di sviluppare nello studente una sensibilità per l’arte; ma il suo metodo non può consistere nel prendere le mosse dalla discussione di tale sensibilità. Iniziare l’insegnamento dell’arte (come si fa spesso) domandando all’allievo quale dipinto gli piaccia di più è come chiedere a uno studente se gli piace una lingua quando ancora non è in grado di comprenderla. La questione del piacere dovrebbe essere eliminata alla radice. Prima dobbiamo insegnare la grammatica. Dobbiamo mostrare perché in questo dipinto questo genere particolare di linea o macchia implica questo particolare genere di spazio e di raggruppamento, e come tutto ciò corrisponda complessivamente alla rappresentazione delle cose e all’espressione della vita. Con questi mezzi, e solo con questi, possiamo sviluppare una sensibilità per l’arte che sia basata su una solida conoscenza e su una ragionevole comprensione, e non sulla mera chiacchiera e su emozioni incontrollate.

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Sistematica dei problemi artistici (1925)1

A. Il concetto di “problema artistico” e il suo impiego nella storia dell’arte I. Nell’ambito della scienza dell’arte poche espressioni sono state più frequentemente abusate di quella di “problema artistico”, e nessuna è stata avvolta da maggiori oscurità. Ci si è abituati a dare a quel genere d’indagine storico-artistica per cui Wölfflin aveva coniato la definizione di “storia dell’arte senza nomi” il più concreto, e allo stesso tempo ambizioso titolo di “storia dei problemi”. Gran parte delle esigenze poste da Wölfflin non ha, però, nulla a che fare con una ricerca dedicata ai “problemi” (nel senso specifico del termine). Colui che segue le modificazioni «nel trattamento della luce e delle ombre, della prospettiva e della raffigurazione spaziale», e mostra il mutamento «nel disegno delle figure, delle vesti e degli alberi», si occupa solo delle proprietà formali dell’opera d’arte, delle sue caratteristiche fenomeniche esteriori. Egli procede descrivendo e comparando morfologicamente, come il botanico, anche se, a differenza di quest’ultimo, ordina gli oggetti non in classi, secondo generi e specie, bensì in serie, secondo una successione temporale. Per quanto un simile tipo di considerazione sia necessario ed indispensabile per il progressivo formarsi del giudizio della scienza dell’arte (ogni indagine sui problemi deve da esso cominciare e ad esso potersi infine richiamare), tuttavia non sta ancora in contatto immediato coi problemi stessi. Di per sé, infatti, i fenomeni non sono ancora “problemi”; questi ultimi, piuttosto, cominciano solo laddove, al posto della mera “illustrazione”, intervenga l’“interpretazione”. Quell’uso equivoco del termine “problema”, comunque, ha perlomeno il vantaggio di essere innocuo: non si radica in un concetto ben definito di “problemi artistici”, bensì solo in un’insufficiente precisione terminologica. Molto più pericoloso è il caso in cui, dietro una nebulosità meramente lin-

1 Il saggio è tratto da un lavoro più esteso (Ästhetischer und kunstwissenschaftlicher Gegenstand) che, terminato nel luglio 1922, per ragioni contingenti non ha ancora potuto esser pubblicato [si tratta della dissertazione di dottorato sottotitolata Ein Beitrag zur Methodologie der Kunstgeschichte, Universität Hamburg, Hamburg 1922, mai pubblicata].

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guistica, si celi una confusione reale: la confusione tra “problema artistico” e “compito pre-artistico”. Tanto i “problemi artistici” quanto i “compiti pre-artistici” vanno cercati al di là dei fenomeni stessi; essi si muovono però in direzioni completamente diverse. I “compiti” si ricavano quando si ricostruisce l’effettiva situazione preartistica, che consta di momenti materiali ed ideali: bisogna dipingere una parete di una certa grandezza, in un certo spazio, con una certa composizione cromatica! Il soggetto della rappresentazione dev’essere una battaglia! Così intesi, tanto il momento materiale quanto quello ideale sono ancora del tutto informi e astratti, ma proprio perciò adatti a fungere da termini di paragone per raffigurazioni diverse. La peculiarità intuitiva si esprime nella presa di posizione rispetto alle premesse comuni. Come si ricostruisce, però, la situazione pre-artistica? Nel caso non emerga dai documenti riguardanti un incarico o un concorso, essa dev’essere svelata a partire dalle opere d’arte stesse. Ciò avviene tramite astrazione: si prescinde dalla specifica apparenza sensibile dell’opera d’arte compiuta e si definiscono solamente la tecnica in quanto tale (a fresco), la scelta del motivo (rappresentazione di una battaglia) e altri momenti generali di tal fatta. Si possono poi riferire le varie raffigurazioni concrete a queste astrazioni. Sarebbe un errore assumere, a questo punto, che anche i “problemi artistici” si definiscano per via di astrazione2. Essi in realtà non si ottengono tramite “ricostruzione”, dal momento che non rappresentano affatto situazioni empiriche. Al contrario dei “compiti”, che servono come termini di paragone esteriori, a loro spetta la funzione di render possibile un’interpretazione, e devono perciò avere un’origine artistica immanente. Allo stesso tempo, però, la loro struttura dev’essere essenzialmente diversa da quella dei compiti pre-artistici: mentre i “compiti”, proprio perché servono da termini di paragone, hanno necessariamente carattere univoco e fisso (anche se spesso schematico), i “problemi” mostrano un’intima scissione. Per concepire qualcosa come “prodotto artistico” devo vederlo come soluzione di un problema precedente rimasto irrisolto: ciò significa che devo stabilire un conflitto che si mostri “conciliato” nel fenomeno artistico. Poiché però questo conflitto dev’essere di natura artistica immanente, e d’altra parte ogni elemento artistico appartiene alla regione intuitivoconcreta, l’antitetica deve riguardare proprio questa sfera intuitiva. I principi che si trovano in contrasto non possono dunque essere di natura logicoconcettuale. Il contrasto stesso, tuttavia, non può esser concepito altrimenti che logicamente, così come anche la sua scoperta deriva da motivi puramente logici. È nel pensiero, dunque, che bisogna porre il problema – ma è solo nella sfera dell’intuitivo che se ne può rinvenire la soluzione. 2 Questa confusione emerge anche in Die Methode der Kunstgeschichte [cit.] di Tietze, ad es.

alle pp. 17 e sgg. e a p. 393.

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Con ciò si è determinata la peculiarità dei “problemi artistici”: essi racchiudono in sé un’antitetica posta dal pensiero che, tuttavia, non è un’antitetica per il pensiero. L’antitetica appartiene al concetto “del” problema in quanto tale come suo momento necessario; allo stesso tempo, ci sono “problemi” solo per la coscienza pensante. Un “problema artistico” esiste dunque – come problema – sempre e soltanto per il pensiero della scienza dell’arte, e ciononostante esso è un problema artistico, non un problema del pensiero. La differenza tra le due cose emerge con chiarezza dall’esempio seguente. Ogni problema matematico è posto dal pensiero matematico per il pensiero matematico, nel senso che il “problema” è la tesi iniziale, cui il successivo pensiero si ricollega. Un “problema artistico”, al contrario, è stabilito dal pensiero della scienza dell’arte per l’attività artistica, ma non nel senso che il problema precede la soluzione, bensì semplicemente ch’esso viene cercato solo nel momento in cui occorra interpretarne la soluzione. Si dà dunque il caso paradossale per cui la soluzione è data, e il reperimento del problema affidato – affidato perché la soluzione venga compresa come “soluzione” [di un problema]. Ma se si “risale” dalle soluzioni ai problemi, non si dovrà perciò stesso parlare di una “ricostruzione”? Il termine “ricostruzione” (nel senso sopra utilizzato) indica il riottenimento di una situazione empirica. I “problemi”, però, non sono “realtà”, bensì costrutti ideali. Ora, la direzione del pensiero che “risale” dai dati compiuti ai problemi si chiama riflessione. Potremmo dire che è nella riflessione che si colgono i problemi artistici. Se si vuol definire più precisamente questo modo di procedere secondo il metodo, lo si deve definire “speculativo” – col che s’intende ch’esso, per interpretare i fenomeni, cerca di risalire al di là di questi, e non di “astrarre” da essi. Noi opponiamo quindi alla ricostruzione la riflessione, all’astrazione la speculazione. Se la “ricostruzione astrattiva” era il metodo per giungere ai “compiti pre-artistici”, la “riflessione speculativa” è quello per giungere ai “problemi artistici”. Ora, quali sono però i principi di questa “riflessione speculativa”? E come ci si deve rappresentare i problemi artistici in dettaglio? II. Ci ricollegheremo qui ai lavori di Riegl. Alcuni esempi tratti da Industria artistica tardoromana3 possono mostrare quale acuta formulazione ha trovato, presso quell’autore, l’antitesi dei problemi artistici. Gli sforzi di Riegl tesi a stabilire una coppia antinomica per l’architettura antica, a partir da cui poter interpretare i vari prodotti architettonici (dai templi classici fino agli edifici di culto tardoromani) lo conduce al seguente risultato: alla tendenza dell’antichità a comporre individui materiali in un’unità compatta doveva corrispondere come supremo ideale la forma dell’edificio a pianta centrale. Ciononostante, il «vero e proprio elemento pro3 [A. Riegl, Industra artistica tardoromana (1901), trad. it. di B. Forlati Tamaro e M.T. Ron-

ga Leoni, intr. di S. Bettini, Sansoni, Firenze 1981.]

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pulsore» fu l’edificio a pianta longitudinale, tipo che, «creato nel suo interno per il movimento degli uomini», invita all’«abbandono della superficie piana» e alla «considerazione della profondità». La compattezza dell’edificio a pianta centrale e il movimento di quello a pianta longitudinale, i valori “oggettivistici” che si incarnano nel primo e quelli “soggettivistici” che si incarnano nel secondo: è questa la tensione che, secondo Riegl, sta alla base dell’architettura antica («L’arte antica fu continuamente tesa al superamento o almeno al mascheramento di quest’opposizione latente, ma proprio in tali sforzi risiedeva un problema e, quindi, un motivo cogente per un ulteriore sviluppo»). All’interno dell’arte classica, il compromesso venne raggiunto grazie alla «scomposizione della parete esterna tattile in portici», e si compì – come Riegl dice espressamente – non in un edificio a pianta centrale, ma in una costruzione a pianta longitudinale: il tempio. Nell’età imperiale media la soluzione poggiò sulla «individualizzazione dello spazio longitudinale» tramite la «formazione di masse spaziali cubiche ugualmente delimitate», rinvenibile nelle sale chiuse del III secolo, in particolare nella navata centrale delle terme di Caracalla: «La soluzione della tensione è ottenuta mediante una divisione dello spazio oblungo in tre spazi centrali. Questi ultimi, essendo assolutamente uguali fra loro, grazie alla simmetria dell’ordinamento formano un’unità, come i portici nella casa greca a colonne». Riegl rintraccia lo sforzo di amalgamare l’edificio a pianta centrale con quello a pianta longitudinale anche nelle più antiche costruzioni greco-cristiane a pianta centrale, in cui l’altare non è mai posizionato al centro, bensì di fronte all’ingresso: ne risulta un conferimento di direzione che rivaleggia con la stasi [della pianta] centrale. «Il problema stava nella necessità di conciliare questa contraddizione latente, e fin quando lo si ebbe dinnanzi, l’architettura greca di carattere sacro fu feconda e passibile di sviluppo». Le soluzioni realmente originali hanno luogo, secondo Riegl, sempre in età imperiale media, con la disposizione di ambienti laterali seminascosti e l’avvicinamento alla sala suddivisa in tre quadrati (Santa Sofia!)4. Come nelle analisi dedicate all’architettura, l’antitesi dei “problemi artistici” viene mantenuta anche riguardo alle opere dell’arte figurativa. Riegl, ad esempio, riconduce la composizione del rilievo egizio alla legge dell’«allineamento simmetrico»: le figure sono legate al piano, livellate, ed isolate l’una rispetto all’altra, «ma anche la più piccola necessità di porre due figure in una relazione più stretta e visibile doveva condurre alla violazione del principio dell’allineamento. Qui sorgeva un contrasto e, perciò, un problema […]. Risulta inoltre altrettanto chiaro che non è possibile eliminare completamente le relazioni spaziali (scorci, sovrapposizioni, ombre), quand’anche vengano ammesse solo le relazioni di piano. […] L’abolizione della spa4 [Questa e le citazioni che precedono sono tratte dal capitolo di Industria artistica tardoromana dedicato all’architettura, che citiamo (con lievi modifiche) nella trad. it. cit., pp. 2176.]

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zialità all’interno dell’arte egizia rivelava dunque un secondo contrasto latente, in cui era contenuto un problema da conciliare e, quindi, il germe per un ulteriore sviluppo”5. III. È evidente come lo sforzo di Riegl sia costantemente volto all’individuazione di “contrasti latenti”, “problemi da conciliare”; ma i problemi sono per lui solamente un mezzo dell’interpretazione sistematica? Non vi vede forse, piuttosto, fattori storici, determinazioni che non servono tanto all’interpretazione dei fenomeni come tali, quanto piuttosto all’interpretazione del loro sviluppo? Le frasi con cui chiude le considerazioni sul rilievo egizio suonano quasi come una prova: «Il compito di conciliare i contrasti latenti di cui si parlava prima è stato intrapreso, dopo i Semiti, dai Greci, e certamente non senza provocare nuovi contrasti, il cui appianamento essi hanno lasciato in eredità ai popoli romano-germanici quale problema della nuova arte»6. Nel succedersi dei “problemi” si schiude qui l’immagine di uno sviluppo artistico immanente, in forma molto più approfondita e pura rispetto a quanto tentato in seguito da Wölfflin. In questo caso, infatti, lo sviluppo non viene inteso, come accade in Wölfflin, a partire da una regolarità psicologica che, come tale, è necessariamente extra-artistica (ogni elemento psicologico sta infatti al di qua dello specifico ambito oggettuale); piuttosto, è la logica della successione dei “problemi artistici” stessi a conferire al decorso il suo significato: ogni nuova “soluzione” genera necessariamente nuovi “problemi”, di modo che la forma individuale di quel decorso viene intesa proprio a partire dalla logica, mentre per l’interpretazione psicologica il processo contiene qualcosa di “illuminante” solo quando è possibile esprimerlo con una formula generale. Contro la concezione riegliana si sono sollevate varie obiezioni, in parte in linea di fatto (facendo riferimento a fenomeni che non si inseriscono nella logica dello sviluppo da lui propugnata), in parte in linea di principio (opponendosi innanzitutto ad una “logica” dello sviluppo che domini l’esistenza storica). Questo rifiuto in linea di principio ha però senso solo qualora s’intenda lo sviluppo come un processo psicologico-reale – il che non è giustificato. Dal momento che, infatti, i “problemi” sono per loro natura costrutti ideali, la loro successione non dev’essere equiparata ad un accadere reale. Quando si parla della “logica” del loro processo non bisogna intendere la conformità a leggi di uno sviluppo reale, bensì soltanto la consequenzialità ideale per cui ogni soluzione di un problema provoca la formazione di un nuovo problema. Il modo di esprimersi di Riegl, legato alle concezioni psicologiche del suo tempo, può talora velare questo stato di cose: che però per lui i problemi artistici non valgano come forze realmente operanti, egli lo mostra chiaramente quando non li attribuisce, bensì li contrappone al 5 [Questa e le citazioni che precedono sono tratte dal capitolo di Industria artistica tardoromana dedicato alla scultura, che citiamo (con lievi modifiche) nella trad. it. cit., pp. 77-219.] 6 [Ivi, p. 91.]

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“Kunstwollen”7. Nel “Kunstwollen” egli vede infatti una forza reale; ne sottolinea però espressamente l’efficacia autonoma. Appartiene alla sua essenza il fatto di non esser definito da alcuna condizione esterna – quindi nemmeno da problemi artistici. Potremmo dunque concludere che i problemi non incidono sul Kunstwollen e costituiscono solo sustruzioni ideali, edificate per intendere, a partire da esse, il Kunstwollen del momento. Riegl istituisce la “posizione del problema” per misurare su di essa il Kunstwollen, non per derivarlo da essa. Posizione del problema e Kunstwollen appartengono dunque a sfere del tutto diverse: la regione dei problemi è quella della significatività teoretica, la regione del Kunstwollen quella dell’efficacia psicologica. Ora, dal momento che questa efficacia è da considerare come indeterminata, non si può parlare a riguardo di una logica dello sviluppo. Qui si rivela una peculiare duplicità della concezione riegliana dello sviluppo artistico: quando si sofferma sui “problemi artistici” e sulle loro “soluzioni” (quando cioè coglie i fenomeni artistici come contenuti ideali, interpretabili a partire da una determinata antitetica), allora egli, considerandoli nella loro successione, ottiene l’immagine di uno sviluppo logico-immanente; quando invece s’interroga sulla forza che produce, caso per caso, le soluzioni (quando cioè intende lo sviluppo come processo psicologico-dinamico), allora non si può più parlare di un “logos”, ma soltanto di un “telos”. Il Kunstwollen ha le sue finalità, i suoi obiettivi; se nella sfera oggettivo-ideale lo sviluppo consiste nel fatto che ogni nuova soluzione “provoca” nuovi problemi, in quella psicologicodinamica si può soltanto domandare verso quale direzione “tenda” il Kunstwollen di un’epoca8. L’errore dei critici di Riegl fu non aver riconosciuto questa peculiare scissione. Si scagliarono in linea di principio contro una logica dello sviluppo, senza vedere il dualismo di “contenuti ideali” e “forze agenti” e riferendo precipitosamente a queste ultime il pensiero della “logica”. Gli studiosi che possono essere considerati seguaci di Riegl hanno rimosso (in parte consapevolmente, in parte inconsapevolmente) questo dualismo e, a seconda del lato cui diedero la loro preferenza, hanno spiegato la 7 [È il concetto più celebre di Riegl, tuttavia da lui più concretamente impiegato (soprattutto in Industria artistica tardoromana) che non precisamente definito. Traducibile solo imperfettamente con “volere artistico” o “volontà d’arte”, si contrappone al Können (potere come saper-fare) di Semper: nelle diverse epoche i popoli non hanno realizzato nell’arte solo quel che hanno potuto (condizionati dai materiali e dalle tecniche a loro disposizione), ma sempre quello che hanno voluto.] 8 Così, ad esempio, Riegl presuppone al fondo dello sviluppo di Rembrandt il suo particolare telos: Rembrandt avrebbe mirato alla «coordinazione interna ed esterna» (scopo generale del Kunstwollen olandese) col sussidio romanico della subordinazione e dell’unità interiore. «Ma in realtà» l’unità esteriore col soggetto osservante «era sempre rimasta il postulato ultimo (!), e solo per sviluppare al massimo questa istanza egli si era messo in cerca dell’unità interiore dell’Antichità e dei Romani» (Das holländische Gruppenporträt, p. 222) [(1902), WUVUniversitätsverlag, Wien 1997, pp. 279-280].

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teoria riegliana logicamente, sviluppandola in senso idealistico, oppure l’hanno piegata completamente in direzione psicologica, considerandone essenziale l’impronta realistica. Lo sviluppo logico ebbe luogo quando si trasferì, in modo pienamente consapevole, il Kunstwollen dalla sfera della “efficacia” psicologica alla regione del “significato” teoretico. Per “Kunstwollen” non si doveva intendere la forza reale che produce la soluzione, bensì il “senso” ideale della soluzione stessa9. In questo modo, però, il “Kunstwollen” e i “problemi artistici” finivano per ritrovarsi nella medesima sfera ideale; per la scoperta di entrambi dovevano essere decisive le medesime condizioni; e infatti troviamo in Panofsky, seguito e sviluppato per la prima volta, quel metodo che avevamo definito “riflessione speculativa”. Per quanto riguarda invece la concezione psicologica della teoria riegliana, essa poggia su un occultamento inconsapevole del dualismo. I problemi artistici, che per loro natura hanno il significato di posizioni ideali, vengono interpretati psicologisticamente come fattori agenti. D’un tratto si cerca di svalutare «l’importanza, per quanto significativa, ch’essi possono assumere all’interno dell’attività artistica», ci si domanda «quanto possano essere stabiliti oggettivamente» – mere speculazioni, che han senso solo se s’intendano i problemi come realtà psicologiche, la cui ricostruzione sia ciò che conta. “Ricostruzione”: questo era però il metodo che avevamo espressamente contrapposto alla “riflessione”. Avevamo detto che la ricostruzione si riferisce ad una situazione reale che, nel caso non emerga da documenti, dev’essere ottenuta mediante astrazione. È dunque logico che quegli studiosi che considerano i problemi come delle realtà tengano in gran conto proprio l’astrazione. Si legge ad esempio in Tietze: «Non c’è alcuna rete di questioni strutturata sistematicamente, […] ma solo problemi concreti, che in parte sono preparati, cioè coscientemente esistenti (!), in parte sono l’astrazione (!) di una connessione che sussiste concretamente»10. Abbiamo già chiarito a sufficienza come questo metodo possa sì condurre ai compiti pre-artistici, ma mai ai problemi artistici. Se si è compreso che i problemi artistici hanno carattere ideale, e se si ammette che sono essi gli oggetti della riflessione speculativa, allora non c’è bisogno di svolgere ulteriori considerazioni riguardo al significato squisitamente storico ch’essi hanno nelle considerazioni di Riegl. Si può far astra9 Si veda Panofsky, Der Begriff des Kunstwollens, in «ZÄK», [14,] 1920 [Il concetto del “Kun-

stwollen”, in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., pp. 157-177]. 10 Qui è espresso chiaramente il duplice metodo di ogni ricostruzione: o documenti o astrazione! Solo dai documenti si può ricavare che un problema sia «stato presente alla coscienza». Per la critica di questi «atti ufficiali» si veda Panofsky, Il concetto del “Kunstwollen” [cit., p. 157 e p. 166], dove si mostra come tutte le dichiarazioni degli artisti, in quanto «oggetti», non siano da considerare «mezzi per un’interpretazione che sia volta a stabilire il senso della loro storia». [Sia Panofsky che Wind fanno riferimento all’opera più nota di H. Tietze, Die Methode der Kunstgeschichte, cit.].

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zione dalla successione temporale dei problemi, si può anche non prestare attenzione a quale soluzione precedente abbia “provocato” il problema attuale – resta il fatto che alla base di ogni fenomeno artistico c’è sempre un “problema”, e che questo problema risiede in un “contrasto latente”. Escludendo il punto di vista storico, ci rimane pur sempre il fatto sistematico fondamentale, e solo il suo status formale c’interessa. Nel frattempo, contro questa semplice esclusione di ogni elemento storico si solleva una critica molto appropriata: anche qualora se ne combatta la concezione psicologica e si prescinda dal loro vincolo storico, non grava forse sui “problemi artistici”, così come si trovano formulati in Riegl, un’altra preoccupante particolarità? Se dal punto di vista storico ogni nuova soluzione “provoca” nuovi problemi, ciò dal punto di vista sistematico significa: ci sono innumerevoli problemi differenti, ai quali possono sempre unirsene di nuovi – esattamente come i fenomeni artistici stessi si presentano in una serie sterminata. Ma allora questi problemi hanno una radice nell’a priori? Esistono principi che stanno ugualmente alla base di tutti loro? Se anche critichiamo la frase di Tietze citata poc’anzi a causa del suo realismo psicologico, forse che le sue prime parole («Non c’è alcuna rete di questioni strutturata sistematicamente, […] ma solo problemi concreti») colgano ciononostante nel segno? B. La radice sistematica dei problemi artistici Se i “problemi” fossero solo una somma sconnessa di singoli dati concreti, null’altro che il materiale artistico stesso, allora li si dovrebbe poter rintracciare – esattamente come quest’ultimo – empiricamente. Nel fenomeno intuitivo di un’opera d’arte si possono però scoprire sempre e soltanto semplici fatti morfologici, mai qualcosa di “problematico”. Certo, se si compara Santa Sofia con gli edifici a pianta centrale pura o con le basiliche pure, si caratterizzerà il suo fenomeno morfologico come “forma mista”. Con ciò, tuttavia, non si è ancor posta alcuna antitesi, non si parla ancora di una rivalità tra due principi opposti. La “forma mista” è un fatto morfologico univoco come qualsiasi altro: se ritengo che al suo interno si celi un contrasto specifico, allora devo prima cercarlo – esso è “latente”. Devo tener presenti, nella loro polarità fondamentale, i valori intuitivi che il principio centrale reca in sé e quelli racchiusi nel principio longitudinale; ma con ciò oltrepasso necessariamente la concretezza del caso singolo, nel cui fenomeno non si trova nessuno di questi poli in quanto tale. La polarità è meramente pensata, è ideale – un oggetto della “riflessione speculativa”. Essa poggia sull’opposizione di due ordini intuitivi. I. È significativo che proprio Riegl, nella cui opera troviamo una moltitudine di differenti problemi singoli che si susseguono l’un l’altro, si sia sforzato si elaborare antitesi fondamentali tra ordini intuitivi. Penso innanzitutto

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alla sua contrapposizione tra valori “ottici” e “aptici”11. A causa dell’intonazione psicologica delle espressioni “ottico” e “aptico”, può apparire dubbio che si tratti di principi di ordine intuitivo, quindi di determinazioni oggettuali; ma già il fatto che questi concetti abbiano conservato il loro significato nonostante che la deduzione psicologica escogitata per loro da Riegl sia difficilmente sostenibile, dovrebbe dar da pensare12. Considerata psicologicamente, la coscienza delle qualità che Riegl definisce “aptiche” non rinvia tanto alla sensazione tattile quanto agli elementi motori, che possono collegarsi tanto alle percezioni sensoriali tattili quanto a quelle ottiche. Tasto una forma con lo sguardo, cioè: processi motori si collegano a sensazioni ottiche. Allo stesso modo, se tasto una forma con le dita essi si collegano a percezioni sensoriali tattili. Ora, se si escludono dal vissuto ottico gli elementi motori, rimane il mero stimolo fornito dai colori o dalla luce. Nel vissuto tattile rimane, nel caso corrispondente, un mero stimolo tattile. Se dunque si volesse sviluppare da un punto di vista genetico-psicologico la specifica opposizione che Riegl caratterizza tramite l’antitesi “aptico-ottico”, allora si dovrebbe dire che la coscienza delle qualità del primo genere risale essenzialmente alle sensazioni motorie, la coscienza delle qualità del secondo genere a percezioni sensorie “pure”, cioè scevre da elementi motori. Con tale differenziazione, però, non si sarebbe ottenuto nulla per l’interpretazione dei fatti morfologici. Si potrebbe sempre e soltanto assegnare alla singola qualità intuitiva il suo “luogo” psicologico, collegando così le differenze morfologiche degli oggetti con differenze che sarebbero localizzate nell’apparato percettivo umano. Si otterrebbe così un parallelismo tra due serie di fenomeni, senza però poter dire che una di esse sta dietro all’altra. Alle morfologiche “forme miste” corrisponderebbero, sul versante psicologico, processi di carattere complesso: determinati collegamenti di sensazioni motorie e percezioni sensorie “pure”, in cui alcune in certa misura predominerebbero, le altre in certa misura arretrerebbero. Nella sfera psicologica, tuttavia, questo miscuglio significherebbe qualcosa di “problematico” tanto poco quanto in quella morfologica. Col che si è detta la cosa decisiva: l’antitesi di “ottico” e “aptico” è intesa da Riegl in senso “problematico”: essa racchiude in sé un’“opposizione” o un “contrasto”, e perciò non può essere di natura psicologica! Parlare di un’antitetica di sensazioni motorie e percezioni sensorie pure sarebbe assurdo – già per il fatto che antitetica ed opposizione sono espressioni che denotano inconciliabilità ideale. I processi psicologici stanno però tra loro in un rapporto reale: possono certo ostacolarsi o scalzarsi, ma mai opporsi l’uno all’altro13. 11 [Con “aptico” (haptisch, dal greco hapto) Riegl indica la modalità tattile dello sguardo, quando l’occhio che guarda un oggetto vicino si comporta come una mano che tasta.] 12 Per il significato non-psicologico dei concetti riegliani cfr. Panofsky, Il concetto del “Kunstwollen”, cit. 13 Quando si parla di “contrasto” in riferimento a nessi psicologici è già sempre presente una relazione con la sfera oggettuale-ideale. Così, ad esempio, quando percepisco un corpo tramite

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La vera origine della differenziazione tra ottico e aptico emerge se si riflette sul concetto fondamentale di tutte le teorie dell’arte, quello che per primo schiude al pensiero la regione dell’artistico: il concetto di “intuitivoconcreto”. Ciò che differenzia l’“intuitivo-concreto” dall’“intuitivo-puro” è la pienezza sensibile. Condizione di ogni intuitivo è però la figura, la forma. “Pienezza” e “forma” devono dunque congiungersi, per costituire la regione dell’artistico14. Il genere di questo collegamento resta però sempre un problema, che muta a seconda delle condizioni materiali delle singole arti. Per caratterizzarlo in particolare per l’arte figurativa c’è bisogno di due ordini intuitivi che, richiamandosi l’un l’altro e allo stesso tempo opponendosi l’uno all’altro, esprimano i presupposti elementari-sensibili di quest’arte. Mi pare stia qui il significato dell’antitesi riegliana. In ogni caso, per evitare il fraintendimento psicologico si dovrebbe cercare una formulazione più oggettuali. Ma – anche non considerando come sia difficile (e per lo più anche inutile) mettersi a combattere contro una formula divenuta tradizionale, a maggior ragione qualora poi se ne mantenga il senso – potrebbe risultare ardua impresa trovare un’antitesi più pregnante e comoda; inoltre, si cozzerebbe continuamente contro difficoltà concrete. Si potrebbe sostituire, ad esempio, “valori aptici” con “valori corporei” e “valori ottici” con “valori di luce”: il corporeo è però solo un caso speciale dell’aptico, e nemmeno del tutto puro. Qualora, d’altro canto, si optasse per la formulazione più ampia ed appropriata di “valori formali”, si otterrebbe un’espressione troppo pallida e logora, forse persino equivoca. Ci atterremo perciò al modo di esprimersi di Riegl. I valori di ordine aptico e quelli che si sviluppano nella regione ottica rivaleggiano tra loro in linea di principio. L’incondizionato dominio degli uni implica la soppressione degli altri: laddove dominano i valori visuali, quelli tattili si dissolvono; laddove invece i valori tattili raggiungono validità assoluta, quelli visuali vengono sottomessi – proprio perché fa parte della loro tendenza disgregare i valori tattili. Questo radicalismo, comunque, è solo pensato. Nel fenomeno non si dà alcun valore assoluto, né tattile né visuale; infatti, per ottenere un significato costitutivo, ciascun ordine deve rinviare all’altro, perché solo la loro connessione genera una figura intuitivo-concreta. L’ottico puro, privo di ogni elemento aptico, cioè di limiti formali, è la vista ed il tatto e i due sensi mi forniscono rappresentazioni “contraddittorie” della sua forma. L’“inconciliabilità” che si palesa in questo caso non è certo di natura psicologica, dal momento che, proprio perché oscillo tra una rappresentazione e l’altra, mostro ch’esse possono benissimo incontrarsi all’interno di una coscienza psicologica. Lo stesso vale anche per l’oscillazione di fronte ad una decisione volontaria. Le azioni o le esigenze tra cui la decisione deve scegliere sono inconciliabili dal punto di vista oggettuale; le rappresentazioni corrispondenti, però, si trovano insieme psicologicamente secondo il modo dell’oscillazione. 14 Su questo punto e quanto segue si veda il saggio di Panofsky Über das Verhältnis der Kunsttheorie zur Kunstgeschichte, che già si richiama in parte alle mie riflessioni ed è stato pubblicato su questa rivista in questo stesso numero [Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte, cit.].

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del tutto amorfo, come la mera luce – qualcosa di concreto, ma non di intuitivo. L’aptico puro, il formale, privo di ogni elemento ottico, è assolutamente astratto, una figura geometrica – qualcosa di intuitivo, ma non di concreto. Solo il reciproco rapporto conferisce a ciascuno di essi l’impronta di un ordine intuitivo. Allo stesso tempo, però, questo rapporto è espressione di una tensione. Compito del pensiero è definire la tensione, considerandola come presupposto ideale di ogni raffigurazione. La raffigurazione stessa però si manifesta nel confronto tra i due poli. Si può cercare il “significato” dei vari caratteri morfologici nel fatto che essi – ciascuno a suo modo – rappresentano un compromesso tra ordine ottico e aptico. Ad esempio, ciò che nella singola descrizione morfologica si definisce “contorno vago” ottiene ora il suo preciso senso. Lo “sfumato” leonardesco viene interpretato come una particolare forma di «compromesso». Vengono chiamate in causa anche caratteristiche tecniche: nei “fori da trapano” di un rilievo marmoreo si riconosce un segno della «svalorizzazione della linea a favore della macchia». Persino un’arte come quella egizia, così univocamente rivolta ai valori aptici, non può rinunciare del tutto ai momenti ottici: per contrassegnare ed isolare da un punto di vista intuitivo-concreto i valori aptici, essa ha bisogno di margini ombreggiati e colori, anche se non riconosce loro alcun valore proprio. L’arte greca produce un compromesso mediano tra i due ordini, una soluzione che Riegl definisce «aptico-ottica» o (secondo il suo modo di esprimersi psicologico) «a visione normale», ponendola così in contrasto con la concezione egizia della «visione ravvicinata», che fa valere esclusivamente i valori aptici, e con quella tardoromana della «visione a distanza», in cui sono i valori ottici a dominare15. Come però, anche nella storia dell’arte moderna, il compromesso varii particolarmente, può illustrarlo il diverso utilizzo di un unico mezzo ottico: l’uso dell’ombra. Mentre l’“ombra propria” adempie ad una funzione meramente cubica (serve a modellare la singola forma), all’“ombra spaziale” spetta la materializzazione dello spazio aperto; l’“ombra portata” sta a metà di entrambe16. Ora, a seconda che un’arte utilizzi esclusivamente l’“ombra corporea”, oppure la colleghi all’“ombra portata”, oppure le sottometta all’“ombra spaziale”, risultano varie graduazioni – dalla sottomissione dei valori visuali ai valori tattili fino all’occultamento dei valori tattili tramite quelli visuali. Lo stesso si può dire riguardo ai colori: talvolta vengono utilizzati “in modo policromo”, contribuendo a far risaltare i valori ottici rispetto agli altri, talaltra sfiorano le forme “coloristicamente”, dissolvendole a proprio piacimento17. 15 [A. Riegl, Industria artistica tardoromana, cit., pp. 30-31.] 16 Si veda Riegl, Das holländische Gruppenporträt [cit.]. 17 Questo contrasto tra valori ottici e aptici ha il suo preciso pendant nella musica. Si può di-

stinguere il valore sonoro sensibile dei toni dal valore formale-melodico. La rivalità tra questi due ordini viene decisa talvolta a favore dell’uno, talvolta a favore dell’altro. Il complesso strumentale può dunque essere il mezzo per differenziare una successione melodica da un’altra, per farla risaltare come successione melodica (variando lo stimolo sonoro). Se però si

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II. Se la polarità di aptico ed ottico riguardava i presupposti elementarisensibili della raffigurazione, allora si può assegnare a ciascuno di questi elementi sensibili il proprio specifico “luogo”, la dimensione in cui sviluppa pienamente i propri valori. Otteniamo così una seconda antitesi, questa volta di natura spaziale: la contrapposizione tra “superficie” e “profondità”, o meglio, dal momento che si tratta di un contrasto tra ordini intuitivi: la polarità tra valori di superficie e valori di profondità. Si può presentare la maniera in cui si riferiscono reciprocamente l’uno all’altro come il rapporto tra “figura” e “sfondo”. Figura e sfondo sono ordini opposti, ma uno sfondo senza figura perde il suo specifico senso, proprio come la figura, a sua volta, ha bisogno dello sfondo come contraltare. Un valore di profondità, allora, non può palesarsi che posizionandosi sulla superficie; l’ordinamento degli elementi uno dietro l’altro (“sovrapposizione”) continua ad esser rinviato a quello degli elementi uno di fianco all’altro (“giustapposizione”). Una posizione in profondità che non si mostri sulla superficie equivarrebbe ad una completa “coincidenza” e sarebbe sottratta alla visione concreta. Viceversa, una figura può mantenere il proprio carattere superficiale solo “stagliandosi” sullo sfondo, col che, di nuovo, essa inevitabilmente gli si riferisce. Come accadeva per i valori aptici ed ottici, anche qui la polarità racchiude in sé una tensione e, allo stesso tempo, un riferimento reciproco. Inoltre, come accadeva lì, anche qui si può interpretare la singola figura come “compromesso” tra i due poli. Per illustrare la variabilità dei “compromessi” possibili, si cominci dalla soluzione estremamente unilaterale dell’arte egizia. In questo caso, la radicale decisione, come s’incontra qui, a favore della superficie, impone un’estrema svalutazione dello “sfondo”. Lo “sfondo”, come tale, c’è, ma costituisce per così dire solo il “negativo” dei valori di superficie, e non entra in gioco come fattore autonomamente significativo; esattamente come anche alcuni momenti ottici (colori, ombreggiature) s’inseriscono sì nella raffigurazione egizia, ma al solo scopo di definire e delimitare le unità aptiche. Le figure sono separate dallo sfondo: si può dunque parlare di un confronto tra “figura” e “sfondo”. Le figure, però, si sviluppano senza entrare in rapporto positivo con lo sfondo; a quest’ultimo è dunque sottratto qualsiasi valore autonomo. Lo stesso vale anche per la “frontalità” delle sculture a tutto tondo egizie, e per l’architettura, in particolare per l’impostazione del tempio: all’esterno la massa muraria chiusa che, con la sua mostruosa estensione, non dev’essere abbracciata come un tutto, e si sviluppa perciò in superficie solo per successione. All’interno l’ammassamento di colossali colonne, il cui assiepamento esclude l’effetto intuitivo della profondità. Certo: la singola colonna, intesa come “individuo concreto”, è separata dallo sfondo, sottrae al stimolo sonoro questo ruolo strumentale, di modo ch’esso ottenga valore proprio, si fa avanti il caso opposto: i valori sonori sopravanzano gli elementi formali-melodici, fino a quando le melodie stesse non agiscono che come stimoli. Cfr. Franz Schreker, Malipiero ed altri compositori moderni.

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e solo così diventa effettivamente una colonna. Ad avere valore artistico è però solamente la massa di colonne, mentre lo spazio tra queste ultime non ha voce in capitolo. L’emancipazione dello sfondo può essere ricondotta all’arte classica greca. Qui i valori di profondità iniziano a permeare quelli di superficie, e il loro contrasto viene conciliato grazie a un compromesso mediano, analogo a quello che ha luogo tra valori aptici ed ottici. La composizione del rilievo e dei gruppi che ornano il frontone congiunge una differenziazione degli strati profondi con un legame all’interno della superficie: nel posizionarsi delle figure una verso l’altra si sviluppano relazioni di superficie (corrispondenza simmetrica) e contemporaneamente relazioni di profondità (sovrapposizioni). Nel rilievo ellenistico lo sfondo diventa l’ordine dominante. L’architettura produce la “posizione peripterale”. Gli intervalli tra le colonne acquisiscono il significato di valori di profondità, nonostante siano superficialmente vincolate tramite rigide limitazioni. La stessa colonna singola costituisce un “compromesso mediano” tra superficie e profondità: è un prodotto “corporeo”. Il corporeo, il plastico – così si evince qui – non è affatto una categoria elementare, come spesso si è assunto, bensì una specifica forma del compromesso di un’antitesi fondamentale. Quando si addita nello sviluppo armonioso del corporeo uno dei tratti essenziali dell’antichità classica, si può intendere il “significato” di questa caratteristica solo riconducendola ad una polarità di ordini intuitivi. Con le “soluzioni” dell’arte moderna le cose vanno in modo del tutto corrispondente. L’impianto piramidale delle composizioni del Rinascimento dev’essere inteso come compromesso tra valori di superficie e valori di profondità; altrettanto dicasi della costruzione a prospettiva centrale, che coniuga lo sviluppo ortogonale in profondità con la frontalità. Ed è ancora il contrasto tra superficie e profondità ciò che, nella pittura di paesaggio, viene conciliato per mezzo delle “quinte” – un tipo di soluzione in cui il predominio dei valori di profondità si esprime già chiaramente. Se qui ai valori di superficie spetta ancora un ruolo positivo all’interno del complesso figurativo, essi devono però – con la progressiva intensificazione dei valori di profondità –venir risospinti sempre più indietro. L’esito ultimo è l’esatto opposto dello stile egizio: una radicale decisione a favore dello “sfondo”, una completa svalutazione del piano, della “figura” (esempio: i paesaggi marini olandesi). Tuttavia, come all’interno dell’arte egizia lo sfondo, pur svalutato, continuava comunque a sussistere (anche se come mero “negativo” dei valori di superficie), così qui, nel caso opposto, l’ordine della “figura” è rappresentato da un ultimo residuo: la cornice, il “ritaglio” in quanto tale18. 18 Lo spazio significa per l’arte figurativa ciò che il tempo significa per la musica. Come lì l’ordine dell’uno accanto all’altro sta all’ordine dell’uno dietro l’altro, così qui l’ordine della successione sta a quello della simultaneità. Alle relazioni di piano (da “leggere” singolarmente)

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III. Dopo aver assegnato a ciascuno degli opposti elementi, l’aptico e l’ottico, il suo “luogo” specifico, ed aver così ottenuto una polarità di “valori spaziali”, dobbiamo ora domandarci: che tipo di “associazione” corrisponde all’ordine aptico, e quale all’ordine ottico? La risposta risiede nella polarità dei “valori di disposizione”, che si dividono in distinti ed amorfi, cioè in valori di singolarità e in valori di unità. Se si pensa ad un autonomo sviluppo degli elementi aptici – con esclusione di ogni elemento ottico – si otterrebbero solo delimitazioni formali, senza una sostanza cui esse si riferiscano. Ma ciò significa: la delimitazione non sarebbe ostacolata nel suo compimento, e ne risulterebbe una scomposizione sempre più spinta – una “distinctio ad infinitum”. D’altro canto, una pura associazione di elementi ottici sarebbe pensabile solo come fusione. Poiché con l’esclusione radicale dei momenti aptici tutti i confini fissati si liquefanno, ne può risultare soltanto una sostanza amorfa. “Fusione” e “scomposizione” sono quindi le due direzioni opposte dello sviluppo. Separate l’una dall’altra, entrambe conducono a mere negazioni: da un lato ne scaturisce un “qualcosa di amorfo”, dall’altro un “nulla distinto”. Come nei casi precedenti, anche qui la polarità rivela il suo significato positivo in un rapporto reciproco: solo confrontandosi con i distinti valori di singolarità la fusione si manifesta come unificazione, e solo compenetrando gli amorfi valori di unità la scomposizione si afferma come distinzione. Di nuovo, si possono interpretare i singoli fenomeni morfologici come altrettanti “compromessi” tra i due ordini. Nell’arte egizia la “scomposizione” trionfa sulla “fusione”. Emergono distinti valori di singolarità, sottomessi al principio della disposizione in serie uniformi. Le figure dei rilievi sono isolate l’una dall’altra, e producono l’effetto di una successione sconnessa di singoli elementi. Tuttavia, il fatto che abbiano principalmente “valore di singolarità” significa che è stata operata una distinzione a partire da un’unità amorfa. Questo momento amorfo è presente anche, come “sfondo”, nel fenomeno; solo che non interviene nella sua disposizione. In quanto momento che genera unità, esso è svalutato. Il fatto che anche nella disposizione architettonica i valori d’unità vengano del tutto ignorati lo testimonia, tra le altre cose, la mancanza di ogni soluzione angolare. I valori di singolarità parlano solo per sé. Riegl rileva (nella frasi citate prima, a proposito del rilievo egizio) come ogni tentativo «di porre due figure in una relazione più stretta e visibile» doveva «condurre alla violazione del principio dell’allineamento»; ogni ordinamento in gruppi, infatti, minaccia la neutralità dell’amorfo. La connessione in gruppi significa un’unificazione: essa elimina dunque l’isolamento radicale. Poiché inoltre i rapporti all’interno dei gruppi sono più stretti che fuori dai confini dei gruppi, allo spazio in mezzo alle figure spetta una funrisponde la successione temporale, in cui si rivela il rapporto melodico dei toni; allo sviluppo in profondità (da abbracciare con un unico sguardo) corrisponde la coincidenza temporale, che dischiude la consonanza armonica.

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zione collegante e separante. Vengono alla luce amorfi valori di disposizione. L’arte egizia ha saputo evitare una tale “unificazione” in gruppi in parte articolando “parallelamente” le figure rivolte una all’altra, di modo che si producesse una configurazione cui mancava qualsiasi forza coesiva, in parte concependo fin da principio le figure correlate come una “massa continua”, chiusa in se stessa, che non esige alcuno spazio mediano connettente. L’arte greca reca invece, insieme all’emancipazione dello “sfondo”, anche quella dei valori d’unità. Essa libera gli elementi distinti dal loro isolamento e, fondendoli con valori amorfi (gli intervalli vengono inseriti all’interno della disposizione), produce un compromesso mediano tra “unità” e “singolarità”. Le singolarità diventano “parti” dell’unità, e l’unità poggia sul rapporto tra singolarità. Come l’antitesi dei valori spaziali fu risolta dall’arte greca classica in senso “plastico”, così l’antitesi dei valori di disposizione trova il suo compromesso classico nella configurazione “tettonica”. Ne consegue che “tettonico” è un concetto elementare tanto poco quanto quello di “corporeo-plastico”. Secondo il suo significato (cioè come prodotto artistico) esso diventa comprensibile solo quando lo si faccia derivare dal confronto tra distinti valori di singolarità e amorfi valori d’unità. Con ciò si afferma però che la mera negazione di questo concetto non può affatto pretendere di valere anche come determinazione univoca. Sotto il concetto di “atettonico”, qualora lo si assuma letteralmente19, ricadono in toto tutte le manifestazioni artistiche che non conciliano il contrasto tra i valori di disposizione secondo un compromesso “mediano” – quindi tanto l’arte egizia quanto, ad esempio, quella olandese del 1600. Se dunque si volesse impiegare il concetto di “tettonico” come punto di riferimento fisso e, procedendo in modo rigorosamente concettuale, si volesse cercar di costruire il suo polo opposto, si otterrebbe una moltitudine di poli diversi, a seconda di quale direzione si prenda. Sarebbero tutti negazioni del “tettonico”, ma in questo modo non verrebbero affatto definiti20. I punti di riferimento davvero sicuri vanno cercati ad un livello più profondo – nell’antitesi fondamentale degli ordini: stabilendo che l’arte olandese dissolve i distinti valori di singolarità a favore degli amorfi valori di unità, la si distingue rigorosamente ed oggettivamente tanto dalla soluzione classica quanto dalle raffigurazioni dell’arte egizia21. 19 Le osservazioni seguenti perseguono una chiarificazione di carattere puramente termi-

nologico. Esse mettono in questione, dal punto di vista metodologico, il termine wölffliniano “atettonico”, senza voler con ciò dare un giudizio storico-artistico sullo specifico modo del suo utilizzo. Per la critica al metodo di Wölfflin si veda, infra, l’excursus (D III). 20 A. Von Salis, ad esempio, nel suo libro Die Kunst der Griechen [Hirzig, Leipzig 1919], definisce «atettonico» lo stile miceneo-cretese. 21 Si può trasferire l’antitesi dei valori di articolazione alla musica immediatamente, senza bisogno di cercare, come nei casi precedenti, un parallelismo. Poiché, infatti, categorie come quelle di “unità” e “singolarità”, “tutto” e “parte”, essendo concetti di relazione puri, stanno al

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IV. Le tre antitesi sviluppate finora non pretendono in alcun modo di essere esaustive. Non si può dimostrare la loro completezza estensiva, anzi: più avanti affiancheremo loro altre antitesi. Per quanto riguarda invece la completezza intensiva, ciascuna di esse può già venir considerata come qualcosa di definitivo. In quanto poli di ordini intuitivi, esse sono allo stesso tempo le istanze ultime, a partire da cui si possono interpretare i fenomeni ed intenderli come “prodotti artistici”. Se però sono “istanze ultime”, allora devono essere applicabili a tutti i fenomeni. Come si rapportano dunque alla molteplicità dei diversi problemi che si susseguono l’un l’altro nel corso dello sviluppo storico? E soprattutto, com’è possibile tale molteplicità di singoli problemi storici? I problemi singoli sono solo specificazioni di quelle antitesi fondamentali? I problemi particolari si presentano per lo più perché si utilizzano al posto dei valori intuitivi, che rivaleggiano l’uno con l’altro in linea di principio, determinati rappresentanti di valori. Si parla allora di “contrasto tra figura e spazio” – un modo di esprimersi che ha senso solo se si considerino tanto la figura quanto lo spazio “vettori” di determinati valori (ad esempio, la figura come vettore di valori aptici, lo spazio di valori ottici). Se dunque si dice che lo spazio “inghiotte” le figure, ciò non significa altro che: i valori ottici dissolvono quelli aptici, i valori d’unità dominano su quelli di singolarità. L’unica differenza è che l’antitesi generale compare in una formulazione del tutto particolare. Ma proprio qui sta l’elemento decisivo: l’introduzione dei “vettori” limita l’ambito del problema artistico. Collegando i valori a determinati oggetti empirici va perduta l’ampia applicabilità dell’antitesi: i “vettori” in questione sono infatti adeguati solo ad una ristretta serie di opere d’arte. La specificazione emerge ancor più chiaramente nel caso in cui si colleghi il problema artistico ad una condizione oggettiva, com’è offerta ad esempio da un determinato tema. Un “compito preartistico” diventa allora fondamento del problema artistico, di modo che il “compito” prefigura l’antitetica del problema. Riegl così, nel suo Ritratto di gruppo olandese, fa derivare il problema della concezione e della composizione dalle particolarità dell’incarico: si devono raffigurare più persone senza che siano impegnate in alcuna azione, e allo stesso tempo si richiede che i ritratti siano esteriormente somiglianti. Deve risultarne una rivalità tra “libera” concezione e “immagine prodotta”: per la caratterizzazione psicologica delle figure ciò significa un conflitto tra “attenzione” ed “esternazione di volontà”, per la composizione un contrasto tra libera disposizione in verticale (cioè eliminazione delle relazioni di piano) e collegamento tramite uno schema normale (cioè affermazione del piano). Quasi non c’è bisogno di sottolineare

di sopra dei singoli ambiti di senso, possono venir applicate indifferentemente a tutti i generi di contenuto; invece, tra le antitesi di cui ci siamo occupati prima, quella di ottico e aptico era connessa all’ambito visivo, e quella di superficie e profondità all’ambito spaziale.

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come questo contrasto sia solo la specifica configurazione di un’antitesi fondamentale. Gli esempi mostrano chiaramente che la fondazione extra-estetica dei problemi limita solo la loro applicabilità, ma non il loro vero e proprio significato. Qui si dovrebbe dunque parlare non tanto di problemi “specifici”, quanto di problemi “applicati nello specifico”, dal momento che le antitesi in quanto tali vengono prese in considerazione nel loro significato fondamentale – proprio come abbiamo approfondito prima. Ma dove si possono trovare i problemi davvero specifici? Si vede spesso che, al posto di una premessa oggettuale o tematica, viene scelta una concreta figura morfologica come “rappresentante di valori”. In Frankl ad esempio si legge: «Pilastri e parete sono elementi contrapposti»22. Per lo storico dell’arte questo modo di esprimersi è del tutto normale, comprensibile di per sé. Il logico però deve rimanere sorpreso: com’è possibile porre l’un contro l’altro due prodotti concreti? Solo considerandoli come rappresentanti di ordini fondamentali. Sono i valori incarnati nei prodotti ad esser messi in contrasto, non i prodotti stessi. A questo punto, però, le cose si complicano: una figura concreta (ad esempio una colonna) non è semplicemente la rappresentante pura di un unico valore, bensì racchiude già in sé il compromesso di un’antitetica di valori. Se la si pone in contrasto con un’altra figura concreta (ad esempio la massa muraria configurata in un certo modo), allora si riferiscono una all’altra due soluzioni opposte, e sorge così un nuovo problema – un problema che richiede a sua volta la conciliazione, la “soluzione”. Questo nuovo problema non è più, però, fondamentale, bensì del tutto specifico. Lo si può considerare solo come premessa particolare di una determinata configurazione, non come premessa generale della “configurazione in generale”. Ciononostante lo si può ricondurre alle antitesi generali: ciascuno dei suoi poli può infatti a sua volta venir sciolto in una polarità elementare: “colonna” e “parete”, che abbiamo contrapposto antiteticamente, racchiudono ciascuna in se stessa un determinato compromesso tra valori ottici e aptici. Allo stesso modo, ad esempio, lo schema compositivo del triangolo, che in certe fasi della pittura nordica “rivaleggia” con i valori spaziali, è derivato a sua volta da un confronto tra superficie e profondità. Risulta dunque che i problemi realmente specifici hanno carattere complesso, e bisogna scomporli nelle loro parti elementari. In questo senso è possibile ricondurre ogni problema storicamente determinato ad un problema sovrastorico, ogni polarità di storia dello sviluppo ad una polarità sistematica. Concludiamo quindi che è proprio in rapporto ai problemi specifici che le antitesi fondamentali si dimostrano “istanze ultime”. I “problemi concreti” rinviano di per sé ad una “rete di questioni strutturata sistematicamente”. 22 [P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst (1914), mit einem Nachwort

zur Neuausgabe von J. Cepl, Mann, Berlin 1999, p. 101.]

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Ci resta però ancora da dimostrare una tale “rete sistematica”. Abbiamo esposto in libera successione tre problemi fondamentali, osservando la “riflessione speculativa” nel suo farsi. Ma la domanda è: è possibile fornire una deduzione a priori dei problemi? C. Fondamenti di una deduzione sistematica Per trovare un appiglio per la deduzione dobbiamo tornare alla nostra prima domanda: qual è l’essenza dei problemi artistici? Come sono costruiti? Ciascuno di essi contiene un’antitesi tra due ordini intuitivi; perché però i due ordini possano entrare in contrasto, devono trovarsi sullo stesso piano, allo stesso livello. Oltre alla forma antitetica ogni problema ha quindi anche il suo specifico luogo. In virtù di questo luogo, cioè in virtù del posto in cui si svolge l’antitetica, esso si distingue dagli altri problemi. La forma della tensione è però comune a tutti i problemi: essa per prima conferisce loro l’impronta determinata, e può dunque esser detta “categoriale”. La deduzione sistematica deve dunque affrontare due compiti: definire l’“antitesi categoriale” in quanto tale e indicare le “regioni” in cui questa agisce. I. Ancora una volta prendiamo come punto di partenza i lavori di Riegl. La coppia oppositiva di “soggettivistico” ed “oggettivistico”, ch’egli ha introdotto nella teoria dell’arte, sembra a prima vista adatta alla formulazione dell’antitesi categoriale, poiché trascende tutte le singole regioni, pur restando applicabile a ciascuna di esse. I valori ottici, ad esempio, sono “qualità secondarie”, quelli aptici (come valori formali) “qualità primarie”; i primi si possono quindi definire “soggettivistici”, i secondi “oggettivistici”. Allo stesso modo, i valori visivi di profondità sono solo fenomeni di una coscienza soggettiva, mentre le relazioni di superficie si possono determinare matematicamente. Infine, le singolarità distinte possono esser considerate determinazioni definite e, di conseguenza, oggettive; al contrario, un’amorfa unità può esser definita fenomeno meramente soggettivo23. Dov’è che ha però origine l’antitesi soggetto-oggetto, così come Riegl la presenta? Essa può venir attestata come polarità specificamente artistica solo mediante una deduzione sistematica. Qui tuttavia insorgono difficoltà fondamentali. Ci si scandalizzerà in primo luogo dell’ampio significato dell’antitesi. L’opposizione di soggettivo ed oggettivo gioca un ruolo (a prescindere dal23 Riegl si è interessato in modo particolare proprio al caso dell’“unità amorfa”. Qui ha anche dimostrato, nella maniera più riuscita, il suo concetto di soggettivismo. Si veda il suo saggio Das holländische Gruppenporträt [cit.], in cui Riegl non si stanca di indicare come nella forma compositiva specificamente olandese l’«elemento connettivo» stia nel «soggetto osservante» [si vedano ad es. le pp. 280-285; a p. 282 si parla specificamente di «superamento dell’oggettivismo per mezzo del soggettivismo»].

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le diverse interpretazioni cui è andata incontro nella storia della filosofia) nei più diversi ambiti spirituali, interessa le questioni della conoscenza come le teorie etiche, e certamente è applicabile anche alle configurazioni artistiche. Ma perché dovrebbe esser qualcosa di specificamente artistico? La sua multiforme applicabilità non testimonia forse che in questo caso abbiamo a che fare con un modo di considerare del tutto generale, per il quale l’arte non è che un oggetto tra gli altri24? Si aggiunge che il rapporto soggetto-oggetto, così come lo concepisce Riegl, da un punto di vista gnoseologico è sospetto. Solo del soggetto psicofisico si può dire che – in quanto portatore di specifiche proprietà – “stia” spazialmente “di fronte” agli oggetti. Ma il soggetto psicofisico è un fatto del mondo reale. Chi dunque assuma a fondamento il contrasto di soggetto e oggetto in questa forma reale parte da presupposti empirici, non a priori. Qualora poi si contrappongano le determinazioni in modo da localizzare le une nel soggetto, le altre nell’oggetto, questa differenziazione diventerà problematica non appena si ritorni alle premesse trascendentali. Certo, una differenza delle determinazioni continuerà a sussistere, poiché il modo di considerare trascendentale non può far sparire nulla. Ma non si inquadrerà l’opposizione in una completa immagine psicofisica del mondo, bensì si cercherà di dedurla dalle – per parlare in termini kantiani – “facoltà del nostro animo”. La contrapposizione tra soggetto contemplante ed oggetto contemplato deve dunque trasformarsi in una differenza interna al modo di considerare, di modo che le proprietà “oggettivistiche” e “soggettivistiche” riconducano infine a due diverse funzioni della coscienza. Queste le si può indicare come “sensazione” e “intuizione”: in ogni caso alla prima corrisponde la “pienezza sensibile” dell’oggetto, all’altra la sua “determinatezza formale”. Da ultimo ci imbattiamo quindi, non appena togliamo ai concetti di Riegl il loro significato psicofisico, nell’antitesi di forma e pienezza – e per questa si può facilmente dimostrare il necessario collegamento con l’artistico. Non appena infatti la si concepisca come polarità, non appena cioè si pongano forma e pienezza in rapporto reciproco, si ottiene il problema della configurazione intuitivo-concreta, schiudendo così la regione dell’artistico25. Si obietterà che quest’antitesi di forma e pienezza vale anche per altri ambiti spirituali. Replichiamo: mai come correlazione categoriale fondamentale. La conoscenza della natura, ad esempio, è lungi dall’intendere questi concetti come avversari di pari dignità; essa ha piuttosto lo scopo di risolvere la pienezza nella forma. Per essa è nella forma, nelle relazioni quantitative, che si trova la vera legalità, e la molteplicità qualitativa, la pienezza, 24 Lascio in sospeso la questione se Riegl non abbia visto proprio nell’ampiezza dell’antitesi il suo vantaggio. Collegata con certi tipi fondamentali del comportamento psichico (volontà, sentimento, attenzione), tale ampiezza gli ha permesso di stabilire un parallelo tra fenomeni artistici, religiosi ed etici. 25 V. supra, § B.I.

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è per lei data solo a livello prescientifico. Forma e pienezza sono qui dunque assegnate a sfere separate, e il problema sta, invece che nella loro compenetrazione reciproca, precisamente all’opposto, nel loro reciproco svincolamento, nella liberazione della forma dalla pienezza. Questo compito presuppone comunque l’unificazione di entrambi i lati, se non come scopo dell’indagine, almeno come suo punto di partenza. La scienza della natura sembra dunque toccare, almeno nel suo punto di partenza, l’ambito dell’artistico. L’aspetto comune sta comunque precisamente in quel che in ogni scienza della natura è prescientifico, e in ogni opera d’arte è preartistico: in quel mero “aggregato” che resta se, in forza di un’astrazione intellettuale, si esclude dal sensibile ogni interpretazione sintetica. Questo aggregato sensibile non mostra infatti alcuna legalità, né intuitivo-concreta, né scientifico-naturale. Non ha alcun “senso”, è piuttosto quell’elemento semplicemente privo di leggi, “privo di senso” che sta al di qua di qualunque posizione di problemi. Solo quando il pensiero scientifico lo sottomette alle proprie categorie per risolvere la pienezza nella forma, esso viene compenetrato dalla legge naturale. D’altro lato, anche ogni opera d’arte è un tale “mero aggregato” finché non si consideri il collegamento di forma e pienezza come problema. Solo ponendo questo problema si sottomette l’oggetto alla categoria fondamentale del pensiero della scienza dell’arte26. È chiaro che l’antitesi originaria, per come l’abbiamo definita in precedenza, non permette ancora un’applicazione concreta, e di per sé non basta a spiegare una data opera d’arte a partire dalla sua produzione artistica. Non si può interrogare un’immagine immediatamente in base a come si pone rispetto alla polarità di “forma” e “pienezza”. Per trovare risonanza nell’intuitivo, si deve scendere nella regione dell’intuitivo stesso. C’è bisogno di

26 Per quanto riguarda la formulazione dell’antitesi categoriale originaria, Panofsky (Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte, cit.) ha proposto la coppia oppositiva di spazio e tempo, contrapponendo allo spazio in quanto forma dell’intuizione esterna (e quindi principio dell’oggettivazione, della divisione e della differenziazione) la forma dell’intuizione interna, il tempo in quanto principio dello scorrimento e del collegamento. Questa teoria orientata metafisicamente (metafisicamente perché tratta del rapporto tra mondo coscienziale immanente e mondo oggettivo trascendente), che, rifacendosi a Kant, nella sua realizzazione si avvicina alla concezione moderna della “coscienza temporale immanente”, offre un ben accetto e necessario complemento a quanto da noi enunciato in merito al rapporto di pienezza e forma. Mentre infatti pienezza e forma, separate da un abisso, sottolineano rigidamente l’esistenza del problema che sta alla base di ogni configurazione intuitivo-concreta, tempo e spazio sono concepiti nella costruzione del mondo intuitivo-concreto in una compenetrazione reciproca, grazie a cui possono presentare la soluzione di quel problema nella sua completezza. I concetti di spazio e tempo sono dunque molto adatti a formulare, tramite lo specifico modo del loro collegamento, la corrispettiva soluzione di un problema, ma devono presupporre come noto il problema in quanto tale. L’antitesi di pienezza e forma, viceversa, è efficace per la posizione del problema in quanto tale, ma non può che esigere la sua soluzione. Sono entrambe destinate, dunque, a completarsi a vicenda.

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un medium specifico per trasferire l’antitetica nel concreto, rendendola così adatta ad essere applicata all’oggetto. II. La deduzione a priori, dunque, non basta. Abbiamo ancora bisogno, accanto all’antitesi categoriale, di uno schema regionale, che ci indichi nell’intuitivo-concreto i luoghi in cui la categoria deve affermarsi. Ma da dove veniamo a sapere di questi “luoghi”? Essi non possono essere qualcosa di specificamente artistico, poiché, in quanto mere “regioni” dell’antitetica categoriale, offrono solo, per così dire, il terreno per l’artistico. Ciononostante, devono essere altrettanto indispensabili per l’esistenza dell’opera d’arte quanto l’antitetica categoriale stessa: racchiudono infatti le condizioni sotto cui quest’ultima deve venir specificata per poter essere applicabile ai fenomeni. Qui sta dunque il punto decisivo: abbiamo a che fare con le condizioni del fenomeno artistico. Se l’antitetica categoriale conteneva il presupposto per l’interpretazione di un fenomeno come produzione artistica, ora ci imbattiamo nei presupposti in base a cui le produzioni artistiche diventano oggettuali. Le condizioni dell’oggettualità dell’artistico non possono però essere che le condizioni generali dell’oggettualità nella sfera sensibile in generale27. Per assolvere al nostro compito ci vediamo dunque rinviati alla fenomenologia degli ambiti sensoriali in cui si presentano le opere d’arte. Quali sono i momenti di un oggetto dell’intuizione visiva, quali quelli di un oggetto dell’intuizione acustica? E che cosa appartiene ad un costrutto linguistico? La questione dev’essere posta separatamente per l’arte figurativa, la musica e la poesia: ora infatti ha inizio la divisione nelle varie arti, cosa di cui non si parlava ancora nella presentazione dell’antitesi categoriale originaria. Collegandoci ai nostri precedenti esempi, che erano tratti esclusivamente dall’ambito dell’arte figurativa, anche in ciò che segue ci limiteremo all’esame dell’ambito visivo, riguardo al quale alcuni aspetti di ciò che era stato precedentemente trattato solo a mo’ d’introduzione troveranno ora, nella connessione sistematica, la loro più precisa fondazione. 1. La sfera del “fenomeno qualitativo” 1.a) Valori aptici e ottici Tra sensazione visiva ed intuizione visiva c’è questa differenza: la sensazione si limita alla semplice “esistenza” dei contenuti sensibili in quanto tali, l’intuizione va oltre e giunge a ciò che i contenuti oggettualmente “significano”. Se, però, l’intuizione è rivolta ad un che di oggettuale che si “raffigura” sensibilmente, senza però essere assorbito nel sensibile, comporta un’arti27 In quest’occasione possiamo tralasciare di occuparci delle condizioni particolari che all’interno della sfera sensibile fondano la differenza tra l’oggettualità artistica e quella empirica, tra l’intuizione orientata in direzione ideale e l’osservazione orientata in direzione reale, poiché non influiscono sull’essenza dei problemi artistici.

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colazione all’interno del sensibile stesso, poiché solo così si rende possibile un’attribuzione all’oggettuale. Come in campo linguistico i suoni sensibili si dimostrano adatti ad esprimere parole solo perché li si può associare a determinati oggetti (i simboli concettuali), ma questa associazione a sua volta presuppone che i suoni stiano tra loro in un rapporto regolato, esattamente così in ambito visivo la comprensione regolata degli oggetti sta in relazione con una regolazione del sensibile in quanto tale. Tuttavia, questo ordine puramente sensibile, per indicare il quale prendiamo in prestito dalla fonetica il termine “articolazione”, poggia all’interno dell’ambito visivo sull’attuazione di un certo compromesso tra valori ottici ed aptici. La differenza tra una linea ed una macchia – o più precisamente: la differenza nella conduzione di due linee, nella esecuzione di due macchie – tutte queste determinazioni ed altre simili trovano la loro forma specifica nel compromesso ch’esse generano tra il polo ottico e quello aptico. Se prima abbiamo indicato l’antitesi tra ottico e aptico come il principio dei “valori elementari-sensibili”, ora quest’espressione trova la propria giustificazione: il termine “elemento” tutela dal presupporre erroneamente che avremmo a che fare con “mere sensazioni”, dal momento che gli elementi appartengono sempre ad una connessione sistematica. L’aggettivo “sensibile” indica però che questa stessa connessione sistemica sta ancora al di qua di ogni elemento mentale o cosale. Per sua essenza, infatti, l’articolazione si dispiega esclusivamente nel sensibile, anche se, proprio così, essa genera prodotti che, in virtù della loro determinatezza conforme a leggi, si possono riferire ad oggetti. 1.b) Superficie e profondità Tutti i contenuti visivi si sviluppano nello spazio; ogni fenomeno cromatico è connesso ad un’estensione. Ora, se non consideriamo il contenuto visivo come “mera sensazione”, e vi vediamo invece un costrutto articolato, allora dobbiamo necessariamente considerare articolato anche il relativo complesso spaziale. La valutazione dei valori spaziali in base alla loro posizione tra superficie e profondità va dunque di pari passo con quella delle qualità sensibili secondo il loro rapporto con i valori ottici e aptici. Lo spazio intuitivo-concreto, che in tal modo si schiude, si differenza da quello geometrico in virtù della sua bidimensionalità. Infatti, ciò che per la maniera discorsiva di rappresentare tipica della geometria significa l’estensione nella prima dimensione, non trova alcun corrispettivo nell’intuizione spaziale visiva. In questo caso la coscienza dell’estensione inizia solo con la superficie, e la vera e propria figura spaziale si sviluppa nel riferimento di questa primissima dimensione intuitivo-concreta a quella immediatamente successiva, cioè nel rapporto tra valori di superficie e valori di profondità. Caratteristico è il fatto che entrambe queste dimensioni non debbono assolutamente essere considerate omogenee, come le coordinate dello spazio geometrico, tra loro del tutto equivalenti. Piuttosto, esse stanno tra loro in

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un rapporto di tensione antitetica, in una correlazione polare. Non si potrebbe dunque propriamente parlare di una dimensione “inferiore” e di una “superiore”, poiché superficie e profondità sono eterogenee e, dunque, assolutamente incomparabili. All’interno della correlazione nessuna di esse può pretendere per sé uno “sviluppo” dell’altra, dal momento che ognuna agisce sull’altra limitandola, e a sua volta viene dall’altra limitata. Il collegamento delle due dimensioni, da cui scaturisce la figura spaziale intuitiva, non si presenta quindi come progresso da un livello inferiore ad uno superiore (come in geometria lo sviluppo dalla linea alla superficie, e dalla superficie al corpo); esso fornisce piuttosto un compromesso tra due ordini opposti. 1.c) Distinti valori di singolarità e amorfi valori di unità; scomposizione e fusione Ai valori elementari-sensibili e a quelli spaziali si accompagnano quelli della disposizione – concetto che costituisce il necessario complemento agli altri due, nella misura in cui questi ultimi non riguardavano affatto il rapporto tra “intero” e “parte”. L’articolazione attraversa il sensibile come un intreccio, la cui struttura è riconoscibile tanto in una singola maglia quanto in un complesso maggiore di maglie. Anche il rapporto tra superficie e profondità può venir studiato esattamente così, concentrandosi tanto sul singolo dettaglio quanto sull’opera nella sua interezza. La questione riguardante la “conclusione” di una figura oltrepassa il compromesso tra valori ottici e aptici, valori di superficie e di profondità. Essa contiene, per quanto la disposizione si manifesti anche in elementi sensibili e spaziali, un problema specifico, che deve venir espressamente formulato. Ovviamente, ciò non impedisce che la scelta riguardante i valori della disposizione sia immediatamente correlata alla particolare forma dell’accordo tra ottico e aptico o tra superficie e profondità. 2. La sfera della “cosa che appare” Le regioni discusse fin qui (quelle dell’articolazione, della spazialità e della disposizione) non hanno ancora alcun significato cosale. Appartengono a quel primissimo stadio del visibile che, sebbene sia in esso che gli oggetti si “presentano”, tuttavia di per sé non “contiene” nulla di oggettuale. Solo la “relazione presentativa”, inducendoci a considerare il costrutto formato sensibilmente e spazialmente e disposto secondo unità e singolarità come il fenomeno visivo di una “cosa”, oltrepassa la configurazione qualitativa in quanto tale. Esso ci schiude, parallelamente al fenomeno sensibile qualitativo, il regno della “cosa che appare”. Questo però appartiene necessariamente, proprio nella misura in cui appare, all’oggettualità visiva. Dobbiamo quindi includerlo nella nostra analisi e andare al di là dei nostri precedenti

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esempi28 che, corrispondendo ad uno scopo meramente introduttivo, avevano toccato solamente il livello della configurazione puramente sensibile. 2.a) Schema e qualità singolare La “cosa che appare” è sempre una cosa singolare. Solo nella misura in cui possiede proprietà visive, che sono necessariamente singolari, essa è infatti visibile. Viceversa, però, per mostrare la loro appartenenza alla cosa, queste proprietà devono esser collegate da uno schema. Come accadeva in precedenza per i valori aptici ed ottici, ora si contrappongono dunque due diversi aspetti del fenomeno cosale: la rappresentazione schematica formale e il suo riempimento singolare. Solamente l’unione dei due lati genera il concetto della “cosa”: infatti, un prodotto puramente schematico, senza qualità singolari, equivarrebbe al concetto di un mero segno, mentre qualità singolari senza una connessione schematica formerebbero un mero aggregato, privo di qualsiasi significato “cosale”. Ora, come ogni stile decide tra aptico ed ottico, superficie e profondità, distinti valori di singolarità e amorfi valori d’unità, così esso produce anche uno specifico compromesso tra le componenti schematiche e quelle singolari della “cosa”. L’arte egizia, ad esempio, generando rigidi schemi per gli oggetti da raffigurare, sopprime le differenze singolari in favore di un’astratta omogeneità; l’impressionista, per il quale solo il singolare è degno di venir raffigurato, cerca di liberarsi da tutti i vincoli convenzionali, poiché questi ultimi offuscherebbero concettualmente il puro “vedere”, su cui egli fonda la propria concezione delle cose. Il periodo classico concilia il generale col particolare in un “compromesso mediano”, da cui scaturisce la forma cosale del “tipo”29. 28 Cfr. supra, §§ B.II-III. 29 Dal genere di “concezione cosale” dipende la possibilità di una raffigurazione simbolica. I

simboli sono segni, e i segni appaiono come schemi. Il grado in cui la concezione cosale schematica ha la meglio su quella singolare è dunque decisiva per poter collegare significati simbolici alle cose raffigurate. In Egitto non avviene solo che lo schematismo comporti un avvicinamento del mondo delle cose raffigurate al mondo dei meri segni, ma anche, viceversa, che questo avvicinamento venga favorito dalla scrittura pittografica, ai cui segni corrispondono in vario modo costrutti cosali schematici. L’abisso che separa fenomeno cosale e segno, immagine e scrittura, sembra qui dunque quasi completamente colmato. All’interno di un’immagine si possono trattare i segni scritturali come “cose” raffigurate, sensa ch’essi perciò perdano il significato di “segni”; viceversa, anche cose raffigurate per immagini possono ottenere il significato di “segni”, senza perciò smettere di esser configurate come cose. È noto ad es. quel rilievo del Medio Impero in cui le divinità della terra intrecciano le piante dell’Alto e Basso Egitto intorno al segno scritturale che significa “unire” (cfr. H. Schäfer, Von ägyptischer Kunst, Leipzig 1919, tavola 24 [Von ägyptischer Kunst besonders der Zeichenkunst. Eine Einführung in die Betrachtung ägyptischer Kunstwerke, Hinrichs’sche Buchhandlung]. Qui il geroglifico appare come “cosa”, non solo formalmente incorporato all’interno della composizione complessiva, ma anche oggettualmente associato alle divinità e alle piante raffigurate. In ogni caso, il suo significato come segno va

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2.b) Idealità e realtà Il principio della singolarità e il principio della schematicità appartengono a luoghi diversi, proprio come ottico e aptico si riferiscono a dimensioni differenti. Mentre però per quanto riguarda i valori elementari-sensibili la questione del luogo si riferiva alla posizione spaziale, qui, in relazione ai fattori della “cosa che appare”, essa è intesa in senso ontologico: alla proprietà singolare e allo schema generale spetta un diverso modo-di-essere. Il momento singolare è un dato di fatto reale, lo schema un costrutto ideale. Solo il singolo, che per essenza c’è una volta soltanto e non ritorna mai identico, è però – nel momento in cui c’è – realmente esistente; il generale invece, l’astratto sottratto al cambiamento caratteristico dei dati singoli, propriamente non esiste nemmeno. In questo senso, ogni schema si trova al di là di ciò che esiste realmente, ed ogni momento singolare al di qua di ciò che sussiste idealmente. La “cosa”, che scaturisce da un’unione di schema e modo singolare di apparire, si trova però in una zona a metà tra i due mondi. Configurata da un lato in modo relativamente schematico, dall’altro in modo relativamente singolare, essa congiunge stabilità ideale ed esistenza reale. Per quanto riguarda la proporzione in cui avviene questo collegamento, si danno infinite possibilità. La soluzione della classicità poggia, di nuovo, sulla conciliazione del momento ideale e di quello reale in un compromesso mediano. Al di qua e al di là di questa soluzione si parla di “idealismo” e “realismo”, a seconda che la scelta cada a favore dell’uno o dell’altro lato. Entrambe le espressioni, tuttavia, risultano vaghe, poiché – all’interno della correlazione di ideale e reale – una raffigurazione puramente idealistica ed una puramente realistica sono parimenti impossibili30. Ciascun fattore non domina mai in maniera esclusiva: né nell’arte egizia, dove lo schema ideale, proprio perché al di là dell’intuizione concreta, e si deve presupporre che fosse concettualmente noto: nello stadio cosale, infatti, il simbolo non viene inteso nel suo significato sostitutivo, bensì semplicemente come “cosa” intuitiva, che scaturisce da un compromesso tra schematizzazione ed individualizzazione. Tuttavia, proprio in virtù del fatto che questo compromesso è qui realizzato a favore della schematizzazione, si rende a sua volta possibile la funzione sostitutiva, la relazione simbolica. Ogni simbolismo presuppone infatti una tendenza relativamente schematica della concezione cosale. Come minimo, lo schema dev’essere ammesso finché la raffigurazione di oggetti “tipici” rimane possibile. Anche qui si tratta certo solo della raffigurazione di oggetti simbolici, della raffigurazione di cose, cui si collega insirettamente (in virtù della loro “tipicità”) un significato simbolico – non, come avveniva nell’esempio egizio, dell’immediata raffigurazione di simboli puri, che appaiono di per sé come cose. I problemi del simbolismo sono stati illustrati solo nella misura in cui entrano in rapporto con quelli della concezione cosale; per ulteriori osservazioni si veda infra, § C.II.2.a, all’ultima nota. 30 In particolare per certe forme del cosiddetto “realismo” risulta decisivo ch’esse sviluppino una rigida tipologia per caratterizzare l’individuale, ed utilizzino quindi in larga misura momenti shematico-ideali. Solo l’impressionismo spinge così in là il dissolvimento degli schemi da lasciar sussistere la stabilità ideale solo come valore limite.

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caratterizza con decisione la forma cosale, non può far a meno di esistere realmente in un gran numero di esemplari; né nell’impressionismo, dove certamente l’artista, nel suo procedere tecnico, rinuncia espressamente ad un collegamento schematico del singolare, e tuttavia, per quanto riguarda lo specifico effetto dell’immagine, fa affidamento sulla capacità dell’osservatore di rintracciare uno schema in grado di integrare le qualità singolari. 2.c) “Separazione” e “collegamento” Se ora ci domandiamo in che modo i momenti singolari dispieghino la propria esistenza, e come all’opposto i costrutti schematici diano prova della loro stabilità, troviamo da un lato un incessante scorrimento (i contenuti singolari trapassano infatti continuamente l’uno nell’altro), dall’altro una rigida separazione (infatti gli schemi collegano e dividono le qualità date a seconda della loro appartenenza cosale31. Se dunque la scelta artistica è a favore del momento singolare e reale, la connessione qualitativo-uniforme prevale, velando le differenze delle forme cosali (caso estremo: l’impressionismo). Se invece la concezione inclina verso il momento ideale-schematico, le cose appaiono profondamente separate l’una dall’altra, e le qualità singolari si assoggettano a questo raggruppamento (caso estremo: l’arte egizia). Nella soluzione della classicità, “collegamento” e “separazione” si equilibrano: la parte schematica della concezione cosale conduce certo ad una distinzione fra le singole parti, ma poiché il fattore connettivo concorre in ugual misura, i costrutti separati sono divisi solo in quanto parti, vale a dire che si associano, malgrado o proprio grazie alla loro separazione, in un intero che li abbraccia. Questa pari dignità all’interno della correlazione tra intero e parte costituisce un tratto peculiare decisivo della cosiddetta configurazione “organica”. In ogni caso, ciò riguarda solo il suo lato esteriore, dal momento che l’essenza dell’organico non si esaurisce nelle determinazioni della “cosa che appare”, ma soprattutto nella forma della “vita che si manifesta”. 3. La sfera della “vita che si manifesta” Il primo livello del visivo, quello della configurazione puramente sensibile, era collegato col successivo – il livello della “cosa che appare” – tramite la “relazione presentativa”. La “cosa che appare” può a sua volta rinviare al mondo del “sentimento” o della “vita” tramite la “relazione espressiva”. Nella relazione presentativa si trattava del rapporto del fenomeno visivo con ciò che vi si manifesta visivamente, e si utilizzava la forma puramente sensibile come medium tramite cui cogliere le cose che si presentano; nella 31 È facile vedere nella polarità qui sviluppata una mera ripetizione della precedente coppia concettuale “scomposizione e fusione”. Si tratta in realtà dell’utilizzo della medesima forma di relazione ad un diverso ambito contenutistico. I risultati di entrambi i casi sono certamente analoghi, ma non identici. Cfr. supra, § B.4.

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relazione espressiva, partendo dal lato esteriore offertoci dalla cosa in quanto fenomeno, dobbiamo giungere al suo interno, nella misura in cui questo vi si esprime. Così facendo ci allontaniamo ulteriormente dal momento puramente visivo che ci era offerto dal primo livello. Mentre la “cosa che appare” si presentava ancora visibilmente, per quanto di per sé (come cosa) non si risolvesse nel visibile, il “sentimento” non ha più alcuna relazione diretta col visibile: lo si può infatti percepire solo indirettamente, nella misura in cui la “cosa” in cui esso si esprime, a sua volta, “appare”. Ma proprio in questo modo mediato esso appartiene necessariamente all’ambito fenomenologico del visivo. 3.a) “Statuificazione” e “animazione” Il concetto di “sentimento che si esterna” contiene un’antitesi simile a quella della “cosa che appare”. Se lì la cosa, per potersi presentare visibilmente, doveva avere proprietà visive singolari, qui viceversa il sentimento, per poter essere espresso mimicamente, deve solidificarsi in una certa formula. Un sentimento che non si “statuifichi” in nessuna maniera e non venga così, in certo modo, fissato, rimarrà sempre un sentimento “inesprimibile”; d’altro canto, uno stato in cui non si solidifichi alcun sentimento resterà sempre un gesto “inespressivo”. Nel primo caso il sentimento vivo, cui manca la formulazione, non entra nemmeno in una relazione espressiva; nel secondo caso, ove alla formula manchi l’animazione, la relazione espressiva rimane vuota e senza funzione. Solo dal collegamento di entrambi gli aspetti, dall’interazione di animazione e statuificazione, deriva una forma del sentimento che può “esprimersi”. La connessione richiesta può però assumere molteplici forme. Alla soluzione classica corrisponde la semplice esecuzione di un movimento corporeo (si pensi ad esempio al Discobolo); in questo caso, vitalità e stato si equivalgono nel semplice compimento dell’azione prescritta. Questa totale conciliazione viene tuttavia meno non appena la vitalità non raggiunga, oppure superi, la misura propria della semplice esecuzione dell’azione. Se non la raggiunge, come nel caso dell’arte egizia, la formula guadagna un peso eccessivo; l’azione non viene più “eseguita” con vitalità, e viene invece indicata da una mera “postura”. L’immagine non trasmette più, in senso stretto, l’azione stessa, ma solo, per così dire, il suo concetto. Con questa “soppressione” di ogni elemento di vitalità nella formula, tuttavia, la relazione espressiva giunge a quei confini dove inizia a trapassare nella relazione simbolica. Questo passo, comunque, non è ancora compiuto: nonostante il loro carattere formulistico, infatti, le “posture” egizie, racchiudono pur sempre un minimo di animazione, necessaria perché vengano riconosciute immediatamente come posture di un lottatore, di una persona che si siede ecc. All’essenza del simbolo puro pertiene al contrario il fatto che il

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nesso tra segno e designato non sia dato univocamente, bensì stabilito arbitrariamente32. Sull’altro versante, a partire dall’“atto” semplicemente eseguito dell’arte classica (atto che per una “riduzione” progressiva dell’elemento vitale s’irrigidiva pian piano fino a giungere alla “postura” egizia) si sviluppa, non appena il sentimento vitale inizi a prendere il sopravvento, il “gesto” sentimentalmente connotato33. Una figura, ad esempio, incrocia le mani o leva le braccia al cielo: per la concezione classica la vitalità si esaurirebbe in questo caso nel semplice compimento dell’incrociare le mani o levare le braccia. Ora, invece, le dita sono contratte per la disperazione, e le braccia sono levate “in modo supplice”. La relazione espressiva, qui, non trasmette solo l’atto che si compie in quanto tale, ma allo stesso tempo il modo del suo compiersi: conferendo all’azione una sfumatura psicologica, l’animazione inizia a prevalere sulla statuificazione. Certo, questa eccedenza di sentimento si manifesta ancora solo nella modificazione della formula (come anche per quanto riguarda il lato fenomenico della cosa lo schema, a questo livello, semplicemente varia nei casi singoli, ma non viene soppresso nella singolarità): un nucleo formulistico continua dunque pur sempre a sussistere. Presto, tuttavia, esso diventa un mero sostrato e perde il suo proprio significato, come accade ad esempio nell’opera tarda di Rembrandt, in cui i gesti non “dicono” più nulla di specifico, e tutta l’espressione sta invece nella modalità del gesto, nel modo della sua esecuzione. Il livello estremo è però raggiunto quando la “modalità” del sentimento dissolve in sé ogni formula, e con essa ogni modalità di un linguaggio gestuale, di modo che l’espressione si tramuta in mero “stato d’animo”. Ci imbattiamo qui nuovamente in un caso limite della configurazione espressiva, e cioè nel caso opposto rispetto a quello rappresentato dalla concezione egizia descritta in precedenza. Le qualità degli stati d’animo, proprio come prima i significati simbolici, non vengono infatti propriamente 32 Cfr. Husserl, Ricerche logiche [1900-1901, ed. it. a cura di G. Piana, 2 voll., Il Saggiatore,

Milano 1968]; si vedano inoltre le Lezioni di estetica di Hegel [cit.]. 33 La differenza generale tra “atto” e “gesto” è questa: l’“atto” si risolve completamente nel suo compimento; il “gesto” trasmette, compiendosi, anche un contenuto spirituale. Il genere di questa trasmissione può essere simbolico o mimico, a seconda che si riferisca ad un significato concettuale oppure sentimentale. Se è simbolico, va al di là della sfera visiva e si sottrae, insieme al suo contenuto, alla configurazione artistica. Un gesto simbolico, dunque, per quanto concerne la sua forma sentimentale, non ha affatto bisogno di distinguersi dall’esecuzione di un “atto”, di una semplice “azione”. Se invece il gesto ha significato mimico, ciò che s’innalza al di là del semplice atto sta all’interno della relazione espressiva stessa, ed è quindi immanente alla forma sentimentale dell’opera d’arte. Resta da osservare che la possibilità di collegare un significato segnico ad un’azione, rendendola in questo modo un gesto simbolico, ha come precondizione una certa “statuarietà”: la relazione simbolica, dunque, pur non rientrando di per sé nella vera e propria “espressione”, presuppone tuttavia un certo genere di configurazione espressiva (si veda la corrispondente esigenza nella sfera cosale: supra, § C.II.2.a, nota).

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“espresse” dai costrutti cosali: sembra invece che vi siano “attaccate”. Questo “attaccamento”, di natura concettuale nel caso del simbolismo, sentimentale in quello dello stato d’animo, ricade però innanzitutto al di fuori dall’ambito della configurazione artistica, e appare quindi, rispetto ad essa, come casuale. L’egizio sfugge a questa caduta nell’arbitrio infondendo un minimo d’animazione alla formula simbolica, di modo che la relazione simbolica trapassi in una (per quanto ancor debole) relazione espressiva. In maniera corrispondente, anche l’impressionista deve attribuire ai sentimenti degli stati d’animo, se vuole conferir loro uno status artistico, un minimo di carattere formulistico, di modo che essi (per quanto debolmente) vengano “statuificati”34. 3.b) Oggetto e soggetto La coppia costituita dai concetti di “soggettivo” ed “oggettivo”, che si era rivelata inadatta a definire l’antitesi categoriale originaria poiché non la si poteva dedurre formalmente, ha la sua giusta collocazione all’interno della regione materiale (e dunque specifica) della “vita che si manifesta”. Nella misura in cui, infatti, si intende con “soggetto” la fonte della manifestazione di vita (e non l’“Io” della gnoseologia) e con “oggetto [Objekt]” il prodotto della manifestazione di vita (e non l’“oggetto [Gegenstand]” della gnoseologia), soggetto ed oggetto costituiscono per così dire i “luoghi” opposti cui pertengono entrambi i poli della configurazione espressiva (“sentimento” e “stato”). Ad ogni collegamento tra statuificazione e animazione corrisponde quindi un compromesso tra lo stabile mondo degli oggetti e quello in perenne divenire del soggetto. Non è necessario illustrare precisamente questo rapporto, anche perché le questioni in gioco sono state ampiamente 34 In uno studio molto stimolante intitolato Kunst und Gefühl [in «Logos. Internationale

Zeitschrift für Philosophie und Kultur» 12, 1923/1924, pp. 1-28], Otto Baensch ha trattato gli «stati d’animo» come «sentimenti oggettivi». Non possiamo esser del tutto d’accordo col suo punto di vista, poichè riteniamo che, fin tanto che si parla di opere d’arte, la distinzione tra gli stati d’animo raffigurati nell’opera d’arte e quelli che semplicemente vi «aderiscono» sia da mantenere. A partire da questa distinzione bisogna criticare due tesi fondamentali: 1) gli «stati d’animo» come «sentimenti oggettivi» sono nettamente separati dai sentimenti (psichici) «espressi». A nostro modo di vedere, essi costituiscono invece, nelle misura in cui sono raffigurati, un caso limite dei «sentimenti espressi», e si può (tramite una continua variazione della proporzione tra “animazione” e “statuificazione”) trasporre senza balzi una forma sentimentale nell’altra. La forma sentimentale del tardo Rembrandt (che non si adatta all’alternativa proposta da Baensch) occupa il luogo del passaggio (v. supra, § C.II.3.a, all’ultima nota). 2) il senso di ogni arte è fissare “sentimenti oggettivi” (cioè in particolare “stati d’animo”), rendendoli accessibili alla coscienza in maniera universalmente valida. A ciò bisogna replicare che “raffigurare” stati d’animo è solo lo scopo di un numero limitato di epoche artistiche, e non può quindi esser considerato compito di ogni arte. I valori di stato d’animo “aderenti” (in misura maggiore o minore) a tutte le opere d’arte stanno però, di nuovo, al di fuori del “senso” artistico, e quindi non sono (per usare l’espressione di Baensch) “universalmente validi”.

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affrontate dai rappresentanti della moderna “filosofia della vita” (in particolare da Simmel)35. 3.c) Rigido isolamento e vivo scorrimento Il mondo soggettivo dei sentimenti si sviluppa in un flusso perenne e necessita della statuificazione in formule, cioè della separazione oggettivante. Il mondo oggettivo delle formule, a sua volta, poggia sul rigido isolamento dei suoi costrutti, e ha dunque bisogno di essere animato tramite il sentimento, che vi si “riversa” unificando. Dal confronto tra questi due “ordini” – quello che isola rigidamente e quello che fonde vivamente – scaturiscono le diverse forme del nesso espressivo; ne discuteremo ora, ricollegandoci ai nostri precedenti esempi, i casi più significativi. La “postura” di una figura egizia, che dev’esser considerata come isolata, si fonda sulle “posture” delle sue membra, che devono a loro volta venir considerate come isolate. Una certa postura della mano si accompagna ad una certa postura del braccio, cui si collega a sua volta una certa postura del busto, delle gambe ecc. C’è dunque una regola della disposizione che collega le posizioni delle singole parti a quella della figura complessiva; allo stesso modo, più figure si uniscono per generare la “postura” di un’azione comune (ad esempio una “processione”). Il “rigido isolamento”, dunque, predomina, e il principio del “vivo scorrimento” è giunto a quella “regola della disposizione” situata al confine tra simbolismo e configurazione espressiva. L’arte classica greca genera invece una viva connessione di azioni. Nelle sue raffigurazioni di lotte ogni figura o gruppo ha un “ruolo” specifico all’interno dell’insieme; ogni singola figura però, proprio col compiere l’azione che le spetta, è a sua volta concepibile isolatamente – anzi, al suo interno è possibile distinguere l’azione di ogni singolo arto (l’afferrare di una mano, l’appoggiare di un piede) e trattarla isolatamente. Si tratta dunque di azioni parziali relativamente autonome, che s’inseriscono nell’azione complessiva completandosi l’un l’altra; il principio del “vivo scorrimento” si afferma rispetto alla “configurazione isolante” nella correlazione funzionale che collega ogni costrutto singolo. Ora, non appena l’azione pura e semplice venga sostituita dal gesto e il nesso tra le azioni ottenga un centro spirituale, la relativa autonomia delle parti in rapporto al tutto vien meno. Le singole azioni corporee continuano a giocare il loro ruolo solo in virtù del significato mimico (contrazione delle dita, sguardo rivolto verso l’alto). Mere manifestazioni dell’elemento psichico, esse rinviano ad una superiore unità sentimentale, cui devono il loro specifico senso.

35 Non abbiamo quindi bisogno di ammettere lo specifico dogma dei “filosofi della vita”: l’innalzamento di un ambito sistematico parziale come quello della “vita che si manifesta” al significato di ambito metafisico originario.

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Mentre però in questo caso la connessione delle azioni, in quanto mezzo dell’espressione vitale (anche se non più come suo fine), trova ancora attenzione, essa scompare quasi completamente in quel peculiare “fluido” che, nell’opera tarda di Rembrandt, lega una all’altra le figure. Certo, anche in questo caso si dà un’azione connettiva, poiché il “fluido” gioca tra le persone che agiscono, che sono tra loro separate; questa separazione però è posta soltanto per venir nuovamente cancellata nell’unità dello scorrimento. Il “fluido” di Rembrandt costituisce quindi il passaggio al puro “stato d’animo” impressionista, che non tollera alcuna divisione all’interno del vivo scorrimento. Anche il “chiaroscuro” rembrandtiano, del resto, si situa a metà strada tra la configurazione spaziale “cubica” e il “plein air”36. I risultati della nostra analisi possono esser così riassunti: abbiamo suddiviso la sfera del visivo in tre diversi livelli, ciascuno dei quali, a sua volta, comprende tre differenti regioni. Ne è scaturito uno schema composto in totale da nove parti: utilizzandole si può trasformare la forma dell’antitesi categoriale in una molteplicità di problemi concreti. La “tavola” di questi nove problemi mostra una duplice limitazione: una di carattere arbitrario ed una di carattere necessario. Arbitrario è il fatto che, nella presentazione dello schema regionale, abbiamo preso in considerazione soltanto la sfera fenomenica visiva; come già emerso da alcune osservazioni occasionali, però, parallelamente alle determinazioni valide per l’arte figurativa si possono analizzare anche le sfere fenomeniche delle altre arti. Necessario è invece il fatto che all’interno della sfera visiva abbiamo trascurato le differenze tra architettura, pittura e scultura: propriamente parlando, infatti, esse non hanno nulla a che fare con i problemi artistici. Le nostre nove coppie concettuali si basano soltanto sul principio formale che rende possibile la “produzione artistica” e sulle condizioni fenomenologiche in base alle quali questa produzione si manifesta, non sulle condizioni empiriche sotto cui questo fenomeno si realizza. Le differenze tra architettura, pittura e scultura emergono però sotto quest’ultimo punto di vista, vale a dire quando si sollevi la questione: che rapporto sussiste tra gli elementi ideali, su cui si basa il fenomeno artistico dell’opera, e gli elementi reali, che fondano la sua esistenza empirica? Che rapporto sussiste, ad esempio, tra lo spazio configurato nell’opera d’arte e lo spazio reale, cui appartiene la stessa opera in quanto oggetto empirico?37 Il fatto che, a tal riguardo, la decisione si situi al di qua dei problemi artistici, risulta già dal fatto che le nostre nove coppie concettuali possono essere utilizzate indifferentemente per tutti e tre i tipi di arte. Che, malgrado ciò, la “tavola” delle nostre nove coppie concettuali – se raffrontata con la ricchezza dei fenomeni artistici, di cui deve render conto – faccia un’impressione davvero misera, dipende solo in 36 Cfr. Riegl, Das holländische Gruppenporträt [cit.]. 37 Spero si dia presto occasione per rispondere estesamente alle questioni qui sollevate.

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parte dall’incompletezza della nostra deduzione. Certo, la nostra divisione delle singole regioni contiene solo i lineamenti di un’analisi del visivo, e ciò che qui è stato rozzamente schizzato è passibile di approfondimento ed affinamento. Bisogna però tenere a mente che le nove antitesi devono solamente presentare i problemi fondamentali, a partire dai quali i singoli problemi possono venir infinitamente sviluppati. Abbiamo già mostrato come ogni “soluzione” di un problema fondamentale possa esser contrapposta ad un’altra “soluzione”, e come dall’antitetica di entrambe sorga un nuovo problema, ormai di natura specifica38. Si deve tener conto di questa possibilità di un’interminabile differenziazione quando si vuol stabilire se le nostre determinazioni siano in grado di render giustizia alla pienezza dei fenomeni storici. III. In rapporto alla nostra deduzione, prima di tutte le obiezioni particolari si farà valere un dubbio di natura assolutamente generale: se essa cioè abbia in fin dei conti uno scopo. Nessuno, dotato di buon senso, pretenderà o anche solo spererà che lo scienziato dell’arte, nel suo lavoro concreto, si “vincoli” a concetti dedotti. A che scopo, allora, una tavola dei problemi artistici fondamentali? Essa ci consente di gettare uno sguardo a quelle regolarità generali che sono degne di venir indagate a prescindere dalla loro utilità metodologica. Ci permette di riconoscere, ad esempio, che all’interno della configurazione qualitativo-sensibile qualunque decisione a favore dei valori aptici reca con sé una corrispondente preferenza della superficie rispetto alla profondità e della “scomposizione” rispetto alla “fusione”; che, inoltre, il modo di concepire le cose è necessariamente correlato alla configurazione generale del qualitativo, e che entrambi gli aspetti sono a loro volta inscindibilmente connessi con la configurazione espressiva. Nella stessa misura in cui, ad esempio, i valori aptici predominano su quelli ottici, anche la concezione schematica delle cose deve prevalere su quella singolare, l’espressione “statuificata” su quella “animata”. A sua volta però, all’interno della sfera cosale stessa, ad ogni preferenza della “schematicità” deve seguire una concezione incline all’“idealità”, non diversamente da quanto accadeva all’interno della configurazione espressiva, dove ogni intensificazione della “statuificazione” determina una crescente “oggettivazione” e così via. Ovviamente, osservare queste regolarità non è del tutto privo di utilità dal punto di vista metodologico: vi si può ricorrere per mettere alla prova i giudizi della scienza dell’arte. Se per esempio, analizzando un’opera d’arte, se ne è definito il tipo di configurazione innanzitutto in termini elementarisensibili, ciò implica conseguenze necessarie per quanto concerne la maniera di conformare lo spazio e l’articolazione, la concezione delle cose e la configurazione espressiva. La conoscenza delle relazioni regolari consente dunque, partendo da quest’unica determinazione, di giungere in anticipo ad 38 V. supra, § B.IV.

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una conclusione su tutte le altre. Se il risultato di questa conclusione non concorda coi fatti, allora proprio per questo la prima determinazione, l’analisi del momento elementare-sensibile, si dimostra insufficiente; la conoscenza delle regolarità a priori guadagna così il significato di principio regolativo39 metodologico. La costante connessione tra i diversi problemi si radica in ultima istanza nel fatto che sono tutti, in fondo, mere formulazioni dell’originario problema “della pienezza e della forma”. Oltre che nei “luoghi” analizzati finora, il problema originario si mostra però in un altro “posto” che, a causa del suo carattere particolare, dev’esser ora preso in considerazione separatamente. Apparenza della cosa e contenuto espressivo. La sfera dell’“apparenza sensibile” era connessa a quella della “cosa che appare” tramite la relazione presentativa, la sfera della “cosa che appare” con quella della “vita che si manifesta” tramite la relazione espressiva. Ora, tanto la concezione della forma cosale quanto quella del contenuto espressivo tendono ad uno scopo unilaterale, e di conseguenza entrambe, la relazione presentativa e quella espressiva, procedono in una direzione unilaterale. Quella tende, partendo dalle qualità singolari, allo schema generale: poiché infatti “presenta”, ha a che fare con lo “status” della cosa, che “appare” in maniera singolare. Questa tende invece dallo stato formulistico al vivo sentimento: poiché infatti “esprime”, vuol comunicare la specifica “vita”, che si mostra nell’“esternazione”. Se si considerano entrambe le direzioni secondo l’antitesi categoriale originaria di pienezza e forma, si comprende che lo scopo della relazione presentativa (lo schema generale) sta dalla parte della “forma”, quello della relazione espressiva invece (il vivo sentimento) dalla parte della “pienezza”. Così, alle varie polarità che sviluppano la loro tensione all’interno delle singole regioni si accompagna una specifica rivalità tra la regione dell’apparenza della cosa e quella del contenuto espressivo in quanto tali. Qualora la decisione artistica, dunque, cada a favore della “forma” (e quindi a favore dell’aptico e della superficie, dello schematico e dell’ideale, della statuificazione e dell’oggettivo), e di conseguenza la “pienezza”, con tutte le sue specificazioni, retroceda, anche la cosalità come un tutto avrà necessariamente il sopravvento sull’espressione. Come esempi si possono citare lo stile del primo Rinascimento italiano e l’arte greca arcaica (gli Egineti e l’Auriga di Delfi). Nella misura in cui, invece, l’ago si sposti verso la “pienezza” (e quindi verso l’ottico e la profondità, il singolare ed il reale, il sentimento e la soggettivizzazione), 39 [Wind fa qui verosimilmente riferimento a Kant, che aveva parlato a più riprese di «principi regolativi dell’esperienza», intendendo con quest’espressione quelle idee della ragione che, pur non potendo dar luogo ad alcun giudizio costitutivo, possiedono tuttavia «un uso regolativo eccellente e impreteribilmente necessario: quello d’indirizzare l’intelletto a un certo scopo» (Critica della ragion pura, cit., vol. 2, p. 504). Di principi regolativi si occupa, in part., anche il § 76 della Critica della capacità di giudizio, cit., vol. 2, pp. 665-675.]

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anche il contenuto espressivo richiamerà l’attenzione su di sé, riducendo il significato della cosalità. Questa svalorizzazione della relazione presentativa viene promossa, naturalmente, soprattutto dall’impressionismo, che priva l’oggettualità schematica delle cose di ogni significato artistico. Con la sua totale svalorizzazione della relazione espressiva L’arte egizia vale anche qui come esatto contraltare. L’arte classica invece non si decide né a favore della cosalità, né a favore del contenuto espressivo: siccome non dà esplicita preferenza ad alcuna delle due sfere, genera invece quel particolare compromesso che oscilla tra relazione presentativa e relazione espressiva. In conclusione, riassumiamo nuovamente i principi che hanno guidato la nostra deduzione. Osserviamo che ogni pensiero della scienza dell’arte, e in particolare ogni riflessione sui problemi artistici, si basa su un duplice postulato metodologico: sull’esigenza di un’antitetica fondamentale (una tensione a partire dalla quale i fenomeni artistici possano venir interpretati come “produzioni”); e su quella di uno schema regionale che renda possibile l’applicazione dell’antitetica ai fenomeni. Chiarire come questo duplice motivo (l’interesse per le “regioni” e per l’“antitetica”) sia attivo all’interno del pensiero della scienza dell’arte, può esser lasciato agli sforzi metodologici dei ricercatori più recenti. Nel frattempo noi, mostrando come presso di loro emergano (chiaramente o confusamente, in modo puro o frammischiati con teorie precostituite) i due postulati che abbiamo messo in rilievo, troviamo occasione per confermare criticamente i nostri principi. D. Excursus critico40 I. Strzygowski ha edificato un «sistema» per una «trattazione pianificata dell’arte», ch’egli consiglia come «principio euristico per una conoscenza universale»41. Vuole quindi fornire uno schema regionale che enumeri i momenti essenziali per l’oggetto artistico e che prevenga così il ricercatore dal pericolo di tralasciare un qualunque aspetto essenziale dell’oggetto. E40 Si noti bene che la critica, da noi esercitata nelle pagine seguenti nei confronti di alcuni storici dell’arte, è rivolta unicamente al programma metodologico da loro proposto, non al loro lavoro. Dominare perfettamente un metodo e riflettere sui suoi presupposti sono due cose diverse. Nella riflessione che segue al lavoro possono insinuarsi errori senza che ciò nuocia al significato stesso del lavoro. Ciò vale in particolare per Wölfflin e Frankl. Nel caso di Strzygowski, però, le riflessioni metodologiche sono concepite per condurre il vero e proprio lavoro: alla confusione della dottrina metodologica corrisponderà quindi necessariamente un’imprecisione nel modo di lavorare. 41 «Ostasiatische Zeitschrift» 2, 1913. Si veda inoltre il primo (ed unico) volume de Die Geisteswissenschaften [Die Krisis der Geisteswissenschaften vorgeführt am Beispiele der Forschung über bildende Kunst. Ein grundsätzlicher Rahmenversuch, Schroll, Wien 1923], e gli altri lavori di Strzygowski pubblicati da allora.

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saminando la tavola che Strzygowski ci propone, tuttavia, ci si accorge di come questa vada ben al di là delle funzioni di una mera guida utile a richiamare l’attenzione sulle diverse classi di fenomeni. Essa vuol fornire, allo stesso tempo, linee direttive per l’interpretazione dei fenomeni: Mondo

1. Materiale e tecnica Significato

Vincolo oggettivo Uomo

Fenomeno

2. Oggetto (scopo)

3. Figura

5. Contenuto

4. Forma

Libertà soggettiva

Non può non stupire che, in uno schema che deve servire a scopi euristici, vengano impiegati concetti quali “vincolo oggettivo” e “libertà soggettiva” come punti di vista direttivi. Se si subordina una parte dei fenomeni cui si deve prestar attenzione al “vincolo oggettivo”, un’altra parte alla “libertà soggettiva”, allora c’è una tensione all’interno del sistema stesso. Strzygowski, infatti, indica con “oggetto” e “figura” quei momenti che sono dati all’artista dall’esterno, con “forma” e “contenuto” ciò che l’artista, creando dal suo proprio intimo, vi inserisce. L’“oggetto” in quanto tale viene condizionato dalla cultura in cui l’artista è inserito; la “figura” la trova nella natura circostante, che si tratti di forme del corpo umano oppure di elementi vegetali; eventualmente, si assumono anche motivi figurativi di un’arte già esistente (ad es. quella antica). Lo spirito che concepisce e si esterna in “forma” e “contenuto” si contrappone a tutti questi dati esterni. Con ciò diventa chiaro che l’intero sistema è pervaso da una teoria psicologica predeterminata. È facile capire il motivo di questo miscuglio: si vuol mettere in luce la produzione artistica in quanto tale. Strzygowski introduce la tensione, che dev’essere a tal fine presupposta, in relazione ad un fatto preartistico. Ma così egli trasferisce il “confronto” dalla sfera artisticoimmanente a quella genetico-psicologica42. In tal modo s’insinua nello schema un errore di ragionamento: o “oggetto” e “figura” sono momenti preartistici (fatti culturali o naturali di cui veniamo a sapere dalla storia della cultura o dalla scienza naturale), e allora essi non han nulla da cercare in un “sistema delle qualità artistiche”; oppure bisogna trovarli nell’opera d’arte 42 Deve sorprendere il fatto che uno studioso che, nella sua suddivisione dei compiti della storia dell’arte, separa nettamente l’“indagine sull’essenza” dallo “studio dei monumenti”, non riesca a mantenere puri i principi della prima evitando che entrino in contatto con i momenti genetico-empirici.

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stessa, e allora non possono stare in contrasto con “contenuto” e “forma”, e la contrapposizione di “vincolo oggettivo” e “libertà soggettiva” non ha più senso. Strzygowski camuffa quest’oscurità grazie ad una vecchia frase fatta: i due aspetti fondamentali, che s’incrociano nel suo sistema, devono essere espressi dai termini “uomo” e “mondo”. S’intende con ciò che ogni attività artistica è un confronto tra uomo e mondo? Ma questo confronto è già espresso da quell’opposizione di “libertà soggettiva” e “vincolo oggettivo” che, all’interno del “sistema”, cade totalmente dalla parte dell’“uomo”. Ora, come al concetto di “uomo”, che racchiude già in sé quest’opposizione, possa venir di nuovo opposto un concetto distinto di “mondo”, resta incomprensibile; ed incomprensibile rimane poi come i termini “materiale e tecnica” giungano ad occupare l’angolo superiore sinistro del sistema. Queste debolezze, però, ci interessano meno del fatto che dalla confusione del “sistema” si possa estrapolare il duplice motivo: la pretesa di uno schema che registri i fenomeni da cercare nell’opera d’arte, e quella di un’antitesi che, di per sé, renda intelligibile la produzione artistica. Il fatto che entrambi questi postulati del pensiero della scienza dell’arte conducano, nel caso di Strzygowski, a principi metodologici assai discutibili, dipende dalla confusione e dalla deformazione ch’essi si trovano a sperimentare. La confusione poggia sulla mescolanza con teorie psicologiche, la deformazione sul fatto che l’antitesi, invece che all’interno di ciascuna regione, viene cercata tra le regioni. II. Frankl, nel suo libro dedicato alle «fasi di sviluppo dell’architettura moderna»43, caratterizza esplicitamente il suo metodo in base a due momenti: la «metodica ricerca della polarità» e la scomposizione di ogni opera architettonica nei quattro elementi «spazio, corpo, luce e scopo»44. Questi elementi devono essere le regioni in cui va cercata la polarità. Ma come giunge, Frankl, alle sue classificazioni regionali? E da dove trae l’esigenza della polarità? Lo schema regionale – lo abbiamo detto prima – deve contenere le condizioni dell’oggettualità dell’artistico. Anche in Frankl troviamo una concezione simile, solo che egli la trasferisce sul terreno specifico dell’architettura, declinandola poi, in questo contesto, in un senso del tutto particolare: spazio, luce, corpo e scopo sono, secondo lui, le proprietà che costituiscono il prodotto architettonico in quanto tale – le condizioni della concretizzazione di ogni edificio, ove però l’edificio è inteso ancora come oggetto preartistico. Frankl afferma espressamente: «Ogni granaio possiede i quattro elementi»45. Egli dunque prende le mosse semplicemente dal fatto empirico dell’edificio architettonico. Analizzando il “vettore” delle proprie43 [P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst, cit.] 44 [Questa citazione e quella precedente sono tratte dal Vorwort.] 45 Ivi, p. 15.

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tà artistiche e differenziandovi diverse regioni, ottiene una molteplicità di “posti” che devono ora essere anche “posti” dell’artistico. Contro questo genere di deduzione si può obiettare ben poco; per giudicare ciò che segue, però, resta da notare che i concetti “luce”, “corpo” e “spazio”, come compaiono qui, non indicano alcuna proprietà artistica specifica, ma solo i fondamenti empirici dell’artistico. Anche per quanto riguarda la deduzione della «polarità» Frankl procede empiricamente, rinunciando ad una fondazione sistematica e preferendo rinviare al corso storico dello sviluppo artistico. Quest’ultimo non appare come un procedere incessante: si danno invece «forti svolte»: «Solo a tratti la direzione dello sviluppo resta la stessa, poi, d’improvviso, svolta nella direzione opposta, oppure ne imbocca una completamente nuova». Frankl distingue perciò «opposizioni polari tra singole fasi» e «complete differenze di intere successioni di fasi»46. Ma donde si viene a sapere di questi «punti di svolta»? Frankl risponde: vengono stabiliti dalla critica stilistica. Che cosa s’intende, però, per «critica stilistica»? L’ordinamento sulla base di analisi morfologiche, il raggruppamento secondo tratti distintivi? Allora non si può più parlare di «forti svolte» date, poiché l’ampiezza di ciascun gruppo è relativa, e dipende dalla scelta dei tratti distintivi da comparare e dal grado della sua precisione. Ogni unione di più opere d’arte in un gruppo, e la sua separazione rispetto a un altro gruppo, sono stabilite spontaneamente dal pensiero – sono atti arbitrari, se si prende le mosse dalla continuità all’interno dei fenomeni. Dal punto di vista del pensiero, comunque, qui non c’è alcun arbitrio. In ogni caso singolo, infatti, ci sono determinati motivi per stabilire i confini dei gruppi così, e non altrimenti: le caratteristiche prescelte, che vengono riunite nel rappresentante dei gruppi, hanno il loro specifico “senso” artistico. È quindi l’essenzialità artistica che, una volta riconosciuta, serve da punto di riferimento e intorno a cui ruota l’intera formazione dei gruppi. La conoscenza di tale “essenzialità”, però, presuppone a sua volta la polarità dei fenomeni artistici: la si può infatti concepire solo come compromesso di un’antitesi artistica. Ne deduciamo che la polarità, che in Frankl si dà come astrazione a partire dalla esperienza storico-artistica, in realtà è uno dei principi che rendono possibile l’esperienza storico-artistica. Sarebbe anzi contraddittorio voler fondare il postulato metodico che impone di cercare all’interno dei fenomeni in base alle polarità sul fatto che all’interno dei fenomeni si sono rinvenute polarità. La mancanza di chiarezza in cui si trova Frankl a proposito della vera origine dell’antitesi lo conduce ad una particolare concezione: egli considera le polarità fenomeni storico-artistici. Ciò implica due cose:

46 [Ivi, pp. 9 e 13.]

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1) Intendendo fin dall’inizio le polarità in senso storico47, egli deve immediatamente specializzarle. Tutte le polarità che si succedono l’un l’altra all’interno del corso storico sono infatti di carattere complesso, non elementare48; non hanno alcun significato fondamentale, universale, anzi l’ampiezza della loro utilizzabilità è ben circoscritta. Così, Frankl parla solo dell’opposizione polare «di singole fasi», raccoglie queste ultime in «successioni di fasi», in «epoche», e le oppone ad altre epoche, che a loro volta possiedono le loro specifiche polarità. Con la «totale diversità» delle successioni di fasi resta però aperta la questione se le singole opposizioni polari non possiedano, al di là delle diversità delle epoche, la medesima forma, definibile a priori. 2) Dal momento che Frankl tratta la polarità come un fenomeno storicoartistico, essa perde per lui il carattere di problema artistico. Invece d’intendere i fenomeni visivi come “soluzioni” di antitesi concepite in precedenza, egli configura le antitesi a partire dalle determinazioni visive stesse. La polarità, dunque, non risale dietro la sfera fenomenica, ma vi rimane irretita; non può quindi fungere da mezzo per l’interpretazione, bensì solo da espressione di una caratteristica visiva. Ma come si giunge a presentare la caratteristica visiva come antitesi? Qui si rivela il fatto che i “problemi artistici” sono comunque contenuti, seppur in modo latente, nelle spiegazioni di Frankl. Nella loro specifica polarità, essi costituiscono il presupposto implicito di tutte le sue indagini – un presupposto di cui egli stesso, comunque, non è conscio. Egli infatti considera immediatamente le soluzioni stesse, senza risalire ai problemi. Contrappone, ad esempio, la soluzione del Barocco a quella del Rinascimento. Ma in che modo esse sono comparabili? Ci vediamo rinviati al fatto che tra Rinascimento e Barocco non c’è alcuna «frattura stilistica», che il Barocco è una «prosecuzione su una base data». Ma qual è questa base? Un determinato problema artistico, che nella sua specifica formulazione, storicamente condizionata, è comune a Barocco e Rinascimento? Frankl dice solo che i due stili possiedono il medesimo «patrimonio di forme»49. Un tratto caratteristico del suo modo di procedere: rinviato necessariamente ai problemi artistici, egli continua invece a restar fermo ai fenomeni in quanto tali. Questo tener fermo al fenomeno ha significative conseguenze: dal momento che le “soluzioni” non vengono riferite ai problemi, non si può nemmeno formularle a partire dai problemi. Al posto di categorie che rinviano al di là della sfera fenomenica (o meglio: risalgono dietro essa), si devono cercare punti di riferimento da rinvenire nel fenomeno stesso. Accade così 47 [A p. 15 si legge: «Quest’indagine è di natura storica, non estetica: riguarda il decorso oggettivo, non il valore soggettivo delle singole fasi di sviluppo. Le proprietà specificamente estetiche non entrano in gioco».] 48 V. supra, § B.IV. 49 [P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst, cit., p. 13.]

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che Frankl, che pensa di astrarre la forma dell’antitesi dall’esperienza storico-artistica, assegni alle determinazioni regionali il significato di categorie. Ciascuno dei quattro elementi (spazio, corpo, luce, scopo) è a suo avviso un principio categoriale – questione risolvibile solo tramite polarità e che, in quanto questione, determina in anticipo il carattere specifico della polarità. Allo spazio, ad esempio, può corrispondere solamente una polarità geometrica, al corpo solo una dinamico-psicologica, ecc. Diventa chiaro, così, che le regioni non sono solo “luoghi” in cui bisogna cercare le antitesi, ma che in esse poggia parimenti il contenuto, il “senso” del messaggio. Frankl significativamente asserisce che ogni elemento (spazio, corpo ecc.) si rapporta alla rispettiva polarità come il soggetto al predicato. Le polarità affermano dunque qualcosa sugli elementi, questi sono l’oggetto da ricercare, la questione fondamentale, che determina la direzione dell’indagine. Con ciò tocchiamo però un punto critico della teoria di Frankl: spazio, corpo, luce erano solo i “portatori” delle proprietà artistiche, senza esser di per sé qualcosa di specificamente artistico. Ora essi diventano, all’improvviso, principi che conferiscono senso. In questo caso essi devono intersecarsi con gli “ordini intuitivi”, che nella loro antitesi costituiscono le vere condizioni dell’artistico. Frankl associa alla “forma corporea” la sua specifica polarità corporea, alla “forma ottica” la sua specifica polarità ottica. Parla inoltre dell’«errore in base a cui […] corpo e luce» sarebbero “opposti polari”: «Essi sono semplicemente cose diverse, non opposti; ho qui bisogno di una specifica coppia di concetti per i corpi, e di un’altra coppia concettuale – diversa dalla prima e che non la interseca – per la luce»50. A ciò bisogna replicare: se si intendono “luce” e “corpo” come determinazioni regionali, allora esse certo non stanno in opposizione; bisogna bensì cercare l’opposto all’interno di ciascuno di essi separatamente. Se però li si considera come ordini visivi, allora essi rivaleggiano tra loro in linea di principio, e formano un’antitesi che deve venir conciliata all’interno del fenomeno artistico. Nel primo caso essi caratterizzano i luoghi nel fenomeno, che bisogna interpretare tramite la polarità; nel secondo caso significano la polarità stessa, che non è affatto rinvenibile nel fenomeno. Se Frankl, laddove si oppone all’antitesi “corpo-luce”, utilizzasse i suoi termini originari – per il concetto di “luce” quello di “immagine”, per il concetto di “corpo” quello di “rivestimento tettonico” – si potrebbe facilmente mostrare che la necessità di separare “rivestimento tettonico” e “fenomeno d’immagine” in quanto regioni non ha alcuna attinenza con l’altra necessità di concepire antiteticamente “corpo” e “luce” in quanto valori. In ogni caso mi pare che il fondamento della presa di posizione di Frankl stia più in profondità che un mero equivoco: chi innalza le determinazioni regionali a categorie non ha più alcuno spazio per l’antitesi degli ordini visivi.

50 Ivi, p. 142.

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III. Come lui stesso afferma, Frankl ha modellato i suoi principi riallacciandosi a Wölfflin. Egli cerca di conferire una sicurezza “sistematica” a quelle osservazioni che Wölfflin espone, per dirla con Kant, solo «rapsodisticamente»51. Il tentativo di palesare le ragioni ultime del metodo di Frankl conduce dunque di per sé alla questione concernente l’essenza dei “concetti fondamentali” di Wölfflin52. Si può dare per assodato che essi, in realtà, non siano “concetti fondamentali”, cioè categorie basilari dell’interpretazione della scienza dell’arte53. Ma sono perciò «solo una classificazione ottenuta grazie al metodo delle scienze naturali»54? Mi pare che, così dicendo, ci si sia spinti un po’ troppo in là; come si giungerebbe, infatti, alle polarità? Nella semplice classificazione morfologica si riconducono le forme uguali o affini sotto un determinato concetto. Questo concetto – il caratteristico – può certo presupporre una comparazione e una differenziazione ma, secondo il suo significato, non viene rapportato ad un concetto opposto. È proprio qui, però, che si cela l’essenza dei concetti fondamentali di Wölfflin: essi sono strutturati antiteticamente. E poiché ciò si spiega unicamente col fatto che essi presuppongono implicitamente i problemi artistici, li si può definire “determinazioni morfologiche d’ordine superiore”. È sufficiente, ad esempio, contrapporre alla coppia oppositiva “linearepittorico” un termine quale “liscio” per comprendere che si tratta di due diversi livelli di caratterizzazione morfologica. Il “liscio” è qualcosa di singolare, che dev’esser prima rapportato a dei problemi artistici per poter poi apparire come qualità specificamente artistica. “Lineare” e “pittorico” sono invece determinazioni tipiche, che sono già per così dire passati per l’antitetica dei problemi artistici. Ora, il singolare può risolversi nel tipico, e il “liscio” può apparire “pittorico”. Sarebbe però un errore concludere da ciò che esso si rapporti al pittorico come il concetto di genere a quello di specie. Anche se il concetto di “pittorico” è anche più ampio della determinazione “liscio”, esso non è affatto più astratto. Esso deve la proprio superiorità di principio e la propria maggiore estensione non alla sua posizione più elevata nel senso della classificazione delle scienze naturali, bensì solo e soltanto al fatto che – lo si voglia ammettere o meno – esso è già espressio51 [Il termine rhapsodistisch, frequente in Kant, indica asistematicità e mancanza di principi; cfr. ad es. Critica della ragion pura, cit., p. 115, a proposito della tavola delle categorie, che «non deriva, rapsodisticamente, da una ricerca dei concetti puri fatta affidandosi alla buona ventura».] 52 [Cfr. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte (1915), trad. it. di R. Paoli, pres. di G. Nicco Fasola, Neri Pozza, Vicenza 1999.] 53 Cfr. E. Panofsky, Das Problem des Stils in der bildenden Kunst, nel vol. 10 di questa rivista [in «ZÄK», 1915, pp. 460-467; trad. it., Il problema dello stile nelle arti figurative, in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., pp. 145-156]. 54 B. Schweitzer, Der Begriff des Plastischen und Malerischen als Grundformen der Anschauung, nel vol. 13 di questa rivista [in «ZÄK», 1919, pp. 259-269].

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ne di un’interpretazione della scienza dell’arte. “Pittorico” indica il fenomeno già interpretato, “liscio” o simili il fenomeno ancora da interpretare. Wölfflin dunque, configurando “determinazioni morfologiche d’ordine superiore”, presuppone necessariamente la sistematica del pensiero della scienza dell’arte nel suo complesso. E così come per qualunque osservazione “rapsodica”, anche per le coppie dei suoi “concetti fondamentali” si può dire (ancora con Kant) ch’esse siano «tutt’altro che sistematiche, sebbene siano state in certo modo messe insieme metodicamente»55. Il “certo metodo” si manifesta nel fatto che è una ed una medesima forma della tensione quella che percorre le cinque coppie concettuali56. A causa della mancanza di sistematicità, però, non vengono discussi i presupposti di questo metodo – presupposti che sono collegati alle due questioni seguenti: 1. Da dove trae origine la tensione che percorre in ugual modo le cinque coppie concettuali? E come si può definirla puramente formale, cioè indipendente dalle cinque specie in cui si manifesta? 2. Quali sono le cinque regioni in cui la tensione si concretizza? E in quale schema le si può conciliare, indipendentemente dalla tensione in quanto tale? Wölfflin si sbarazza della prima questione non riconoscendo alla polarità alcun significato sistematico. Ai suoi occhi, essa è solo un fenomeno storico artistico, che può essere ottenuto per via induttiva e che si può certamente sottoporre ad una riflessione psicologica, non però ad una deduzione sistematica. Ci imbattiamo dunque in una concezione simile a quella di Frankl, e ci basta rinviare alla critica formulata prima. Per quanto riguarda invece la seconda questione (quella concernente lo schema), anche Wölfflin deve ammettere che l’antitesi fondamentale gli si presenta sotto cinque diverse configurazioni solo perché la indaga in cinque diversi “luoghi”. Se però si cerca di definire meglio questi “luoghi”, si incontrano difficoltà: ad esempio, quale titolo regionale si deve dare all’antitesi “chiarezza-confusione”? La questione dell’evidenza visiva, così come viene formulata qui, difficilmente si lascia derivare dalle condizioni dell’oggetto artistico. Ci si deve quindi riferire ad un oggetto preartistico, pensato in totale “chiarezza”, introducendo così un criterio estrinseco nell’analisi dell’artistico? Non c’è bisogno di porre in risalto la problematicità di tale ipotesi, da cui, per altro, lo stesso Wölfflin si tiene lontano. Per lui quel che conta è la contrapposizione di “amorfo” e “distinto” – dunque proprio quella distinzione che abbiamo incontrato all’interno dei “valori di disposizione”. Ora, la difficoltà sta però nel fatto che non si può identificare tout court la coppia di concetti “chiarezza-confusione” con la polarità dei valori 55 [I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 105.] 56 [Le coppie wölffliniane sono: lineare/pittorico; superficie/profondità; forma chiusa/for-

ma aperta (tettonico/atettonico); molteplicità/unità (unità molteplice/unità unitaria); chiarezza/non-chiarezza (chiarezza assoluta/chiarezza relativa), corrispondenti ai cinque capitoli dei Concetti fondamentali della storia dell’arte, cit.]

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di disposizione. Se, nel dispiegamento sistematico dei valori di disposizione57, “scomposizione” e “fusione” si presentavano come i due principi opposti dello sviluppo, ciò implicava che tutti i valori distinti fossero anche valori di singolarità, e che tutti i valori amorfi fossero anche valori di unità. In Wölfflin, però, troviamo l’antitesi “molteplicità-unità” accanto alla polarità “chiarezza-confusione” – segno che egli disconosce la loro origine comune, la loro reciproca compenetrazione. Divide due determinazioni che in realtà sono indissolubilmente collegate. Ottiene così, per un unico e medesimo fenomeno, due diverse coppie concettuali, ciascuna delle quali – separata dall’altra – resta unilaterale ed incompleta. L’antitesi “unità-molteplicità” è, di per sé, schematica, e ha bisogno, per essere utilizzabile, di una maggior determinazione. Lo stesso vale poi, come mostrato sopra, per i concetti “chiaro” e “confuso”. Wölfflin ci propone inoltre una terza antitesi per i “valori di disposizione”: la polarità “tettonico-atettonico”58. Questa coppia di concetti è interessante nella misura in cui, grazie ad essa, si può mostrare come le polarità di Wölfflin non si riferiscano ai veri e propri problemi, bensì già alle soluzioni stesse. Il termine “tettonico” indica il compromesso mediano nell’antitesi tra i valori di disposizione. Wölfflin mette in contrasto questa forma di soluzione – la soluzione del Rinascimento – con quella del Barocco, da lui caratterizzata (con espressione discutibile)59 come “atettonica”. Opponendo soluzione a soluzione, deve presupporre – senza ammetterlo – un problema artistico comune. Ciò significa che ogni polarità morfologica, così come la si trova caratterizzata in Wölfflin, si fonda sull’antitesi tra ordini intuitivi: alla base della coppia di concetti “lineare-pittorico” sta l’antitesi “apticoottico”60, alla base della polarità “superficiale-profondo” l’antitesi tra valori spaziali, e alle tre antitesi restanti – come già detto – la polarità tra i valori di disposizione. Ciò che distingue le antitesi fondanti da quelle morfologiche è il radicalismo e l’esattezza. L’aptico, ad esempio, esprime la radicale opposizione all’ottico, l’antitesi è intesa in senso assoluto e rigido; altrettanto dicasi per gli altri problemi artistici. Ma nel momento in cui non si cerca più la polarità dietro, bensì nei fenomeni, e non si presta più attenzione ai “problemi” stabiliti concettualmente, bensì alle forme della soluzione, così come si possono reperire nel fenomeno – in questo momento la nettezza dell’opposizione sfuma. Le «determinazioni morfologiche d’ordine superiore» sono predicazioni intuitive e, dal momento che appartiene alla loro essenza il fatto di essere inesatte, non si potrà più parlare, in questo caso, di una netta determinazione. Ora, poiché l’indeterminatezza dei concetti cagiona allo 57 V. supra, § B.III. 58 [Si tratta della coppia altrimenti definita da Wölfflin come «forma chiusa e forma aper-

ta».]

59 V. supra, § B.III. 60 Cfr. Panofsky, Il concetto del “Kunstwollen” [cit.].

Sistematica dei problemi artistici

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stesso tempo l’indeterminatezza della loro antitesi, le polarità morfologiche possono essere intese solo in senso relativo. Nel fenomeno si può trovare solo un “più o meno” (un più o meno pittorico, un più o meno profondo), ma mai opposizioni rigide e in linea di principio, come quelle rilevate dai problemi artistici. I due fatti che stabiliamo qui: 1. L’inesattezza delle «determinazioni morfologiche d’ordine superiore»; 2. Il carattere indeterminato, relativo, della loro antitetica, hanno dato da pensare anche a Frankl. Egli ritiene di poter replicare all’accusa di relatività da un punto di vista teoretico, e cerca di porre rimedio al difetto dell’inesattezza da un punto di vista pratico. Le considerazioni teoretiche suonano così: «Facilmente si tende a rimproverare che tutte le opposizioni polari riguardano differenze solo relative, ma in tali scale c’è un punto neutro. Da un lato della scala sono possibili le distinzioni basate sul “più o meno pittorico”, dall’altro però sta ciò che “non è affatto pittorico”»61. Ma si potrebbe domandare: questo “nient’affatto pittorico” non è però, a sua volta, relativo, cioè “più o meno lineare”? L’arte egizia, ad esempio, non è “più lineare” di quella greca classica? Assumendo un “punto neutro” la relatività delle determinazioni antiteticomorfologiche non è eliminata. Il punto neutro infatti non può esser altro che il luogo del “compromesso mediano” tra due ordini intuitivi, e questo luogo, all’interno della continuità dei passaggi, non è “marchiato” in alcun modo. Se l’aptico predomina sull’ottico, il fenomeno è “lineare”; se l’ottico sopravanza l’aptico, lo definiamo “pittorico”. Non è però possibile determinare con sicurezza, nel fenomeno, il grado del superamento, cioè la particolare forma del compromesso; per far ciò è necessario risalire ai problemi, vale a dire alla sfera del puramente concettuale. All’interno della sfera fenomenica, dunque, nemmeno il “punto neutro”, in quanto luogo del compromesso mediano, può esser determinato con precisione. Nel suo tentativo pratico Frankl si riallaccia ai suoi «quattro elementi», cui ascrive il significato di “categorie”. Il riferimento a queste “categorie” deve conferire esattezza alle determinazioni. E infatti: poiché la “forma spaziale” impone una polarità geometrica, poiché la polarità della “forma corporea” deve riferirsi alle “forze meccaniche”, in apparenza ad ogni concetto viene assegnato il suo preciso significato logico. Tuttavia, basta dare un’occhiata alle coppie di concetti stabilite da Frankl per confutare queste idee. La polarità dettata dalla categoria dello spazio suona: «addizione spaziale e divisione spaziale». Ora, se si volesse intendere questi due concetti nel senso rigoroso della terminologia matematica, allora li si dovrebbe cogliere non come definizioni “geometriche”, bensì soltanto “aritmetiche”. Allora però non solo andrebbe perduto il preteso riferimento alla forma spaziale, ma oltre a ciò la contrapposizione si rivelerebbe illogica: in linea di principio, 61 P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst, cit, p. 141.

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infatti, per ottenere un’opposizione si dovrebbe adoperare al posto di “addizione” “moltiplicazione”, o al posto di “divisione” “sottrazione”. Se, d’altra parte, si volesse conservare il contenuto geometrico e la validità logica dell’antitesi, intendendo le due espressioni latine non in senso matematico bensì in quello, semplicemente letterale, di “accostamento” e “separazione”, allora certo, l’antitesi applicata allo spazio non sarebbe logicamente contraddittoria, ma perderebbe qualunque significato geometrico. Proprio per quanto riguarda le proprietà geometriche di un oggetto articolato in più parti, infatti, è indifferente che la sua articolazione derivi dall’accostamento di parti originariamente distinte o dalla separazione di un intero originariamente indiviso. Che io, tracciando l’altezza in un triangolo acuto, lo “separi” in due triangoli retti, oppure che, partendo da questi due triangoli retti, li “accosti” generando il triangolo acuto, la configurazione rimane sempre la stessa. È proprio in questo aspetto che si manifesta l’omogeneità dello spazio geometrico – una proprietà che lo distingue essenzialmente dallo spazio dell’intuizione artistica. Il tentativo di Frankl di conferire esattezza alle proprie determinazioni deve quindi considerarsi naufragato. Ciononostante, la sua antitesi, se rinuncia alla pretesa di esattezza, si rivela scelta estremamente felice. Si conserva come determinazione intuitiva, come metafora. Addizione e divisione non hanno il significato di termini matematici, bensì caratterizzano due forme opposte dell’articolazione intuitiva. E se, in matematica, tra addizione e divisione dal punto di vista aritmetico non si dava alcun tertium, da quello geometrico nessuna differenza, entrambe le cose sono facilmente rinvenibili riferendosi ad un’antitesi di ordini intuitivi. L’opposizione tra “amorfi valori d’unità” e “distinti valori di singolarità” sta alla base di entrambe le forme in egual misura. Nel caso della “divisione”, l’“amorfa unità” è il momento dominante: viene semplicemente differenziata dalla “distinzione”, e solo in tal modo diventa valida. Nel caso dell’“addizione”, i “distinti valori di singolarità” in quanto tali vengono collegati l’uno all’altro; in questo collegamento, a sua volta, l’ordine dell’“unità” si conserva. Se dunque Frankl volesse fissare esattamente le determinazioni in questione, dovrebbe stabilire il loro posto tra i due ordini intuitivi, cogliendole come una particolare forma di “compromesso”62. Così, comunque, si abbandonerebbe la sfera dell’intuitivo, e si otterrebbe una formula astratta, non una determinazione morfologica. Avremmo interpretato il fenomeno come “soluzione” di un problema artistico. A questo, però, deve condurre ogni tentativo che sia davvero interessato a pervenire a determinazioni precise. Per ottenere un fondamento esatto si deve risalire alle spalle dei presupposti di Wölfflin. 62 “Addizione” e “divisione”, allora, non sarebbero più contrapposti come estreme opposizioni: mentre la “divisione” tenderebbe radicalmente all’“informe unità”, l’“addizione” costituirebbe il compromesso mediano.

Erwin Panofsky

Problemi della storia dell’arte (1927)

Il primo compito della storia dell’arte dev’essere, ovviamente, la progressiva chiarificazione del materiale, laddove il concetto di “chiarificazione” non indica solo un maggiore ampliamento dei dati, ma anche un loro più chiaro ordinamento, mirante, sulla scia della differenziazione platonica tra temnein e synagein, tanto a svelare nuove connessioni quanto a formulare nuove distinzioni. Appartiene però all’essenza della scienza il fatto che ogni progresso nella chiarificazione del materiale stia necessariamente in reciproco rapporto con un mutamento metodologico. La chiarificazione delle fonti figurative astrologiche e cosmologiche e la considerazione di questioni relative alla storia della prospettiva o alla teoria delle proporzioni, l’inclusione delle cerchie artistiche nordiche ed orientali nel contesto della storia dell’arte europea, l’analisi più approfondita di periodi artistici (il manierismo) e di regioni (la Spagna e la Scandinavia) finora trascurate: tutti questi ampliamenti, non ancora conclusi, furono accompagnati passo passo da mutamenti metodologici – per esempio da un fondamentale cambiamento riguardo a ciò che si era soliti intendere per “iconografia” o “sviluppo”; e quando ai giorni nostri ci sforziamo di isolare le opere dei grandi maestri da quelle degli allievi e degli imitatori, in modo che anche gli spiriti minori vengano intesi come individui che hanno in se stessi il proprio centro, anche di questo faticoso, piccolo lavoro si può dire tanto che abbia avuto conseguenze metodologiche, quanto che abbia risposto ad esigenze metodologiche. L’esigenza della chiarificazione del materiale è dunque allo stesso tempo esigenza di perfezionamento metodologico. La problematica racchiusa in questo secondo postulato si manifesta in tutta evidenza, per quanto concerne la storia dell’arte, già nel suo stesso nome: la storia dell’arte ha a che fare con opere d’arte, e tuttavia vuol essere storia. Dico “tuttavia” perché, di fatto, ciò che l’opera d’arte pretende dal suo studioso sembra diametralmente opposto a ciò che l’oggetto di una scienza storica pretende dal suo compilatore: l’opera d’arte è per sua natura oggetto dell’intuizione estetica, che presuppone un completo isolamento, o meglio l’autarchia, dei propri contenuti; la storia invece, per sua natura, vuol porre i propri oggetti in una certa connessione, realizzabile solo tramite la scomposizione dei complessi

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fenomenici maggiori e il collegamento di quelli minori. L’oggetto estetico – fin tanto che è, appunto, oggetto estetico – è altrettanto poco collegabile con qualsivoglia contenuto esterno al proprio, quanto internamente divisibile. Fin quando mi riferisco esteticamente ad un determinato contenuto, sono in certo qual modo solo al mondo con esso: non posso metterlo concettualmente in rapporto con una qualunque rappresentazione extraestetica (sia essa di natura pratica o teoretica), né collegarlo intuitivamente con altri contenuti simili (contemplando una moltitudine di oggetti estetici contemporaneamente oppure “comparandoli” uno con l’altro), senza con ciò distruggere la forma genuina della considerazione estetica. Osservando la Cappella Sistina posso certo contemplare esteticamente tanto una singola immagine quanto una pluralità di singole immagini, e osservando un altare a portelli posso abbandonarmi tanto all’impressione suscitata da una singola tavola quanto a quella dell’intera composizione – ma questo “tanto… quanto” è, in fondo, un “aut aut”: passando dalla considerazione della singola immagine all’impressione generale non ho “collegato” due o cinque oggetti estetici separati, bensì ho scambiato un primo oggetto, semplice, con un secondo, articolato in modo più ricco e complesso, ma sempre assolutamente unitario in se stesso. E viceversa: quando, dopo aver osservato un certo insieme, mi concentro su un suo “particolare”, in realtà non ho diviso l’oggetto della mia osservazione, ma l’ho cambiato (ed è per questo che, giustamente, giudichiamo belli o brutti singoli “particolari” di dipinti o sculture più grandi, valutandoli dunque come oggetti estetici autonomi). La storia dell’arte si trova dunque di fronte al peculiare problema per cui la pretesa di autarchia dei suoi oggetti contraddice per forza di cose il bisogno di suddivisione e collegamento del suo modo di considerarli. Questo problema, inoltre, non si lascia affatto risolvere con una semplice “divisione del lavoro”, in base a cui si affiderebbe l’“apprezzamento estetico” ai conoscitori (o anche ai profeti) dell’arte, che procedono intuitivamente, l’“elaborazione scientifica” degli oggetti artistici invece ad una ricerca che procede discorsivamente. Da un lato, infatti, il vissuto estetico è muto, e quando il giudizio del conoscitore gli dà voce, ecco che subito si riveste con una pretesa di validità oggettiva che, dal punto di vista della considerazione “scientifica”, lo pone nello stesso rapporto in cui in medicina stanno diagnosi e analisi: il giudizio del conoscitore attribuisce all’opera d’arte un carattere, un valore e una posizione storica determinati, cosa che può accadere solo sulla base di conoscenze affatto positive e in considerazione di un’altrettanto positiva dimostrabilità. D’altro canto, la trattazione scientifica delle opere d’arte non può prescindere da una spiccata sensibilità la qualità specifica e per la particolarità del tratto. Lo scienziato dell’arte e il critico non sono assolutamente fratelli in guerra, come loro stessi talora si considerano: piuttosto, l’uno dice esplicitamente quel che l’altro afferma implicitamente (infatti anche la più accurata analisi di un’immagine non può dir nulla di più di quanto già contenuto implicitamente nel semplice giudizio del conoscitore – ad esempio: “opera giovanile di Roger van der Weyden” –,

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ammesso che sia corretto). La cosa più importante, poi, è che entrambi lavorano per comparazione. Che sia orientata nella prospettiva del “conoscitore” oppure in quella “scientifica”, la considerazione storico-artistica si vede comunque costretta ad erigere un mondo oggettuale per il quale la primaria esigenza autarchica dell’opera d’arte non vale più: ciò è possibile solamente quando essa – per quanto suoni paradossale – non si rapporti più immediatamente alle opere d’arte stesse, ma trasformi la somma delle opere d’arte realmente esistenti in un mondo ideale, intimamente razionale, i cui contenuti siano cioè suscettibili di scomposizione e collegamento. Ora, ciò che definisce la struttura di questo mondo oggettuale ideale, noi lo chiamiamo “stile” – concetto che ha per la scienza dell’arte lo stesso significato di quello di “legge naturale” per la fisica: quest’ultima reinterpreta, in modo relativamente simile, una somma di contenuti percettivi in una serie di “eventi” definiti secondo categorie spazio-temporali e causali. Certo, con una differenza davvero essenziale: il mondo dei “contenuti percettivi” naturali è, per così dire, ancora un adiaforo. “La” tempesta, in sé e per sé, è qualcosa di totalmente neutro, che lo scienziato considera in modo completamente diverso dal contadino, dal cacciatore o dall’osservatore esteticamente predisposto, e con lo stesso diritto di questi; quando il meteorologo la considera nella prospettiva della legge naturale, realizza una nuova formazione, che conferisce un determinato senso ad un sostrato che rispetto al senso è in sé e per sé indifferente. Il mondo delle opere d’arte (come mondo di oggetti che compaiono già configurati e portatori di loro valori estetici individuali) ci viene invece incontro con esigenze già ben definite. Quando lo scienziato dell’arte considera tali opere secondo la categoria dello “stile”, realizza una mera ri-creazione, che dev’essere “adeguata” all’opera d’arte in quanto tale; egli, cioè, non conferisce un nuovo senso, ma trasferisce soltanto un senso già disponibile da una sfera irrazionale ad una razionale (dal che appare nuovamente chiaro quanto poco la “scienza” sia separabile in linea di principio dalla “competenza del conoscitore”). Lo “stile” è dunque una forma in cui il contenuto di senso estetico dell’opera d’arte deve confluire senza venir annichilito. Da questo punto di vista si chiarisce come possa senz’altro esserci una storia dell’arte scevra di nonvalori [unwertfreie], ma non di valori [wertfreie]: poiché infatti il contenuto di senso dell’opera d’arte consiste in un valore estetico individuale, la storia dell’arte, in ogni analisi stilistica, non può non essere al contempo anche un’esibizione di valori, ma non ha alcun diritto di negare all’opera i suoi valori. Se infatti l’opera non avesse realmente alcun valore, non potrebbe essere oggetto della scienza dell’arte; se invece valori ci sono, allora essa viene compresa dalla scienza dell’arte solo quando sono questi valori, e non quelli che le mancano, a venir osservati ed esibiti (le frasi con “non ancora” o “non più”, utilizzate così di frequente nell’analisi comparativa, caratterizzano dunque in realtà solo l’altra opera, non quella cui sono immediatamente riferite). Non è questo il luogo per discutere del modo in cui tale trasformazione dell’esperienza estetica in conoscenza stilistica si compia

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Erwin Panofsky

mente, se tramite una “intuizione d’essenza” o, come saremmo portati a credere, tramite una riconduzione (anche se spesso inconscia) delle datità intuitive a determinati “concetti fondamentali”, espressione astratta che indica determinati “problemi artistici”1. In qualunque maniera si giunga ad una conoscenza stilistica, una volta che la si possieda – e solamente quando la si possieda – si ottiene la possibilità di concepire il mondo delle opere d’arte storicamente: non appena la reinterpretazione delle opere d’arte fruibili esteticamente in “fenomeni stilistici” sia compiuta, la storia dell’arte rientra nel novero delle “scienze dello spirito”, il che significa che può creare scomposizioni e collegamenti, indicare linee di sviluppo e differenze essenziali, in breve: può tentare di comprendere i propri oggetti tramite le categorie di tempo, spazio e causalità – sempre tenendo bene a mente che qui si tratta di una forma specificamente storica di tempo, spazio e causalità. Quanto poco il concetto storico-artistico di “Toscana” può venir definito mediante mere coordinate geografiche e quello di “Trecento” coincide con un periodo definito astronomicamente (basti pensare, a tal riguardo, alla differenza di “significato” che può assumere il medesimo anno a Firenze, a Norimberga o a Bisanzio, nell’attività di un giovane o di un anziano), altrettanto poco lo storico può illudersi di poter concepire un fenomeno come “necessario”, cioè inevitabile risultato di certe condizioni. Possiamo dire che un dato fenomeno x non sarebbe stato possibile senza le condizioni (contemporanee o precedenti) a e b; possiamo anche dire che un ipotetico fenomeno y presupporrebbe come dati i fenomeni c e d; non possiamo però sostenere l’inverso, cioè che a e b dovettero necessariamente causare il fenomeno x. I fenomeni storici sono, per così dire, i risultati possibili di condizioni necessarie (formulazione intuitiva per dire che la creazione spirituale si produce nel flusso del divenire storico, ma si eleva al di sopra del regno della generatio e della corruptio in quello dell’“aver valore”); la storia dell’arte in particolare deve ben guardarsi dalla tentazione di voler chiarire le cose in base ad una teoria meccanicistica della causalità (sia essa biologica, psicologica o sociologica) o ad una teleologia dogmatica (avvicinamento ad un presunto “fine” posto come assoluto), secondo una cogenza quasi naturale. Dobbiamo accontentarci di quella specifica forma del “comprendere” che concepisce il divenuto come sensato e trasforma la domanda (già più volte sentita e a cui vano è tentar di rispondere con una “teoria delle fasi”, per quanto elaborata): “perché è dovuta andare così?”, in quella più appropriata: “in che misura ciò che è accaduto è per noi colmo di un senso che si può esibire?”. Ora, la reinterpretazione, realizzata con sempre maggior consapevolezza, di una questione di cause o di fini in una questione di senso – reinterpre1 Ci sia consentito far riferimento (tralasciando alcuni nostri scritti) soprattutto a due saggi dell’amico Edgar Wind usciti sulla «ZÄK», [18] 1925, e sulla «Philosophical Review», 34, 4, [1925] [si tratta di Sistematica dei problemi artistici e di Teoria dell’arte versus estetica, entrambi tradotti nel presente volume].

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tazione che dal punto di vista di un concetto assoluto di “necessità” equivale ad un’autolimitazione – ha d’altro canto concretamente spinto le scienze dello spirito, e in particolar modo la storia dell’arte, al di là del loro ambito originario. Nel momento in cui le “teorie evolutive” meccanicistiche e dogmatiche parvero perder forza ed importanza all’interno dei singoli campi d’indagine, si cercò sempre più di correlare tra loro i diversi ambiti come la storia della religione, della letteratura, dell’arte e della filosofia, secondo un’unità di senso; si può anzi sostenere che sia stata proprio questa tendenza in direzione di una complessiva visione del mondo a conferire alla moderna storiografia artistica il suo carattere peculiare. Potremmo allora dire che il problema principale dell’attuale ricerca consista nel mantenere in accordo la chiarificazione concettuale di questi leitmotiv metodologici con l’approfondimento concreto del materiale, o anche, se necessario, nel metterli d’accordo, trasformando ciò che fino ad oggi era ancora storia degli artisti e delle opere d’arte in una storia degli stili in grado di fornire caratterizzazioni morfologiche e interpretazioni adeguate al senso. Lungi da noi, come risulta chiaramente da quanto detto fin qui, avvicinarci troppo, in qualsivoglia maniera, ad un’indagine specialistica dei fatti, o anche adoperarci a favore di una “generosa” considerazione a volo d’uccello. Anche in questo caso non è dato realizzare una sorta di divisione del lavoro, per cui metà dei ricercatori lavorerebbe sugli aspetti particolari e l’altra metà elaborerebbe “sintesi” grandiose. Infatti, dal momento che ogni nuova osservazione particolare si ripercuote sul quadro generale nella stessa misura in cui a sua volta (sebbene spesso in maniera inconsapevole) lo presuppone, e poiché, come abbiamo visto, i progressi metodologici non possono mai realizzarsi indipendentemente dall’attività di chiarificazione del materiale, anche la storia stilistica, anzi soprattutto la storia stilistica, può progredire non rincorrendo una comoda sintesi di dati analizzati da altri, bensì solamente procedendo in indissolubile connessione con il duro lavoro dell’indagine specialistica. La storia degli stili richiede tanta filologia, tanto esame delle fonti (che sta a tutto il resto come le fondamenta stanno all’edificio) e tanto lavoro “critico” in senso stretto. Il futuro prossimo (perché proprio le febbrili esigenze poste alla nostra attività da una storia stilistica metodicamente condotta ci tolgono innanzitutto il coraggio, e forse anche la possibilità, di lavorare ancora secondo lo stile monumentale del secolo scorso) dovrebbe quindi appartenere alle indagini che si dedicano ad un tema alquanto circoscritto, affrontandolo però con un metodo il più possibile universale – un metodo che cerchi di affrontare un determinato fenomeno particolare cogliendolo dal maggior numero possibile di punti di vista e tentando di svelarne quanto più possibile i “presupposti” (non solo in senso temporale). Sembra che, a riguardo, si stia soprattutto imponendo una nuova e più alta considerazione dei momenti “contenutistici”, che per lungo tempo e del tutto erroneamente sono stati tenuti separati da quelli “formali”: quelli in realtà – già per il fatto che l’opera d’arte costituisce un’unità intuitiva – appartengono tanto quanto questi al

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Erwin Panofsky

reperto stilistico. Crediamo di non sbagliare individuando come tendenza fondamentale della ricerca moderna la ricomposizione della frattura, puramente dialettica, dell’opera d’arte in “forma” e “contenuto”, e il conseguente raggiungimento di un modo di considerare che non vede né “forme” né “contenuti”, bensì figure in cui entrambi gli aspetti sono congiunti, e che mira perciò al superamento della vecchia contrapposizione di iconografia e analisi formale tramite il ricorso ad una specie di “teoria dei tipi”. Da Ruhmor in avanti la peculiarità della ricerca storico-artistica tedesca è sempre consistita nella tendenza a dedicare alla formazione concettuale un’attenzione tanto intensa quanto quella rivolta alla ricerca concreta (anche un grande conoscitore come M.J. Friedländer può esser definito – per usare, cambiandola di segno e applicandola a lui stesso, una sua espressione – un «metodologo controvoglia»), e proprio questo “sguardo bifronte” le ha garantito (sia detto senza superbia) un certo primato. Si spera che – senza timore per l’apparente epigonismo – si mantenga fedele a questa sua tradizione, senza perciò chiudersi di fronte a quanto può apprendere dall’acuto e fine pragmatismo dei paleografi francesi, dei bizantinisti e degli “archeologi”, o dalla baldanzosa audacia degli americani; si spera inoltre che non si lasci rovinare il proprio “lavoro minuzioso” da una malintesa volontà di “forza e bellezza”. Il rischio che corre non sta tanto nella sopravvalutazione quanto nella sottovalutazione dello “specialismo”: come infatti nella storia ci sono certamente carrettieri che non diventeranno mai re, altrettanto certamente non ci sono re che non siano allo stesso tempo anche carrettieri2.

2 [L’espressione, divenuta proverbiale, è tratta da una delle Xenien composte tra il 1795 e il 1796 da Schiller e Goethe ispirandosi al Libro 13 (Xenia, cioè “doni per gli ospiti”) degli Epigrammi di Marziale. Si tratta della composizione n. 53, intitolata Kant und seine Ausleger: «Wie doch ein einziger Reicher so viele Bettler in Nahrung / Setzt! Wenn die Könige baun, haben die Kärrner zu tun».]

Emil Utitz

Concetti fondamentali della scienza dell’arte (1929)1

1. Non si può negare che l’estetica e la teoria generale dell’arte si siano sviluppate separatamente. Lo studioso d’arte è interessato innanzitutto all’arte, e solo in seconda istanza all’estetico in sé. Egli vuole evitare di consegnare tout court l’arte a categorie estetiche, senza esaminare criticamente se l’utilizzo di quelle categorie sia affidabile e, nel caso migliore, anche esauriente. Ma come può dimostrare la legittimità di quelle categorie se non interrogando l’arte sulla sua essenza? L’oggettività delle opere d’arte diventa così punto di partenza imprescindibile e vero e proprio punto focale. Speculazioni a briglia sciolta sull’arte – per quanto possano risultar gradite – sono fuorvianti solo qualora si smarrisca la retta via verso le vere e proprie fonti. In ogni caso, chi dà importanza solo alla fisiognomica apprezza in quelle speculazioni ciò che è riconoscibile, l’espressione convincente di determinati atteggiamenti in rapporto alla vita e al mondo. Ma in questo modo si può – al massimo – incentivare una autentica disciplina scientifica solo indirettamente. Se vogliamo sincerarci del fatto che le dimostrazioni in questione colgano davvero il senso dell’opera d’arte, non possiamo affatto accontentarci di esaminarne l’intelligibilità, bensì dobbiamo verificarne il necessario fondarsi sul modo di darsi dell’opera d’arte. La scienza dell’arte è, in ultima istanza, sempre scienza delle opere d’arte, mai qualcos’altro, nemmeno quando indaghi la produzione e l’atteggiamento artistici. Ciò vale anche a rischio di dover espungere ampie porzioni della presunta scienza dell’arte in quanto contrastanti con questo concetto. Lungi da noi, così facendo, il volerla degradare a scienza dell’arte “di secondo grado” o bollare come una “cattiva” scienza dell’arte. Ciò che non è scienza dell’arte non rappresenta né una scienza dell’arte di primo o di secondo grado, né una scienza dell’arte buona o cattiva. Può tuttavia essere un eccellente contributo alla storia della cultura o dello spirito, o all’estetica generale, ecc. Ad esempio, la questione, al giorno d’oggi così importante, se si possa ricavare, e in che misura, la storia generale a partire dalle opere d’arte, e con quale 1 Questo contributo nasce su amichevole richiesta del curatore, che devo ringraziare per la sua grande pazienza [i curatori del vol. 34 delle «Kant-Studien» (1929) sono P. Menzer e A. Liebert].

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grado di sicurezza, è senza dubbio un problema (finora troppo trascurato e sorprendentemente fecondo) della storia, ma non della scienza dell’arte. Eppure un’applicazione discreta e moderata di questo problema presuppone la scienza dell’arte. Quando poniamo così risolutamente l’accento sull’autonomia dell’arte e della scienza dell’arte, la vecchia estetica ribatte: chi spregia quell’autonomia minacciata più di colui che vuol sottrarre questo regno all’estetica? Nel suo segno e sotto il suo vessillo l’arte ha conquistato la piena indipendenza. Chi assegna all’arte altri compiti, amplia certamente la sua sfera di competenza, ma solo riducendola a serva in casa d’altri, mentre dovrebbe essere signora nel proprio territorio. I confini contro cui va ad urtare sono i garanti della sua libertà. Per evitare che la contesa riguardante una scienza generale dell’arte finisca per perdersi in cavilli terminologici, la cosa più semplice è fare questa banale considerazione: come ci si può convincere del fatto che, prendendo le mosse dall’estetico, abbracciamo la totalità dell’arte, non una o alcune delle sue possibilità, bensì tutta la pienezza delle sue configurazioni? Certo non fermandoci all’estetico e cercando di bloccare ogni elemento extra-estetico in quanto presunta fonte d’errore. Solo una chiara visione della peculiare natura dell’arte rende sensato il problema critico di come l’arte si rapporti all’estetico. Le risposte ultime possono anche essere diverse; il punto di partenza metodologico sembra però sottratto ad ogni dubbio. Solo così iniziamo a formarci il concetto dell’autentica scienza dell’arte, che non viene promossa tentando di estendere l’estetico a mo’ di elastico. Ogni allentamento dei concetti ostacola la scienza generale dell’arte, per quanto non disconosciamo che spesso, in uno stadio poco avanzato della ricerca, concetti imprecisi si rivelano euristici. Come già detto, il fatto che questa chiara problematica nell’ambito dell’arte cozzi di continuo contro i più gravi ostacoli, è colpa innanzitutto – oltre che di fraintendimenti psicologistici – della preoccupazione per l’autonomia dell’arte. Essa, proprio in considerazione degli sbagli e della confusione di tempi passati, pare un’acquisizione tale da poter esser messa a rischio solo nei casi più estremi. Tuttavia, se si costruisce il sistema su questi binari, non si può decidere se quella delimitazione dei confini condizionata sistematicamente corrisponda all’essenza dell’arte o le faccia violenza, o addirittura la falsifichi. In questo caso ci si lascia sedurre in particolare dal pensiero che valutazioni pre-scientifiche e speranze o timori scientifici risultino decisivi nel definire la struttura della teoria. Poi, naturalmente, si raccolgono i frutti di quanto seminato. E tutto sembra perfettamente in ordine. È però imbarazzante rilevare come questi frutti non risultino graditi alle discipline storico-artistiche. Ci si può consolare ed inorgoglire per il fatto che anche le singole branche della scienza manchino di profondità filosofica. Giungerà il giorno in cui assicureranno ai loro concetti-guida provvisori il collegamento con l’estetica generale. Si condivida o meno questa speranza, è difficile contestare il fatto che, negli ultimi tempi, sono gli specialisti

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d’arte a condurre i dibattiti teoretico-artistici. Lagnarsi della vistosa indifferenza nei confronti delle sorti dell’estetica filosofica è umanamente comprensibile, ma senz’altro infruttuoso. Doveva dar da pensare, piuttosto, il fatto che persino le opere di Gustav Th. Fechner o Theodor Lipps siano rimaste, in fondo, faccenda puramente filosofica o psicologica, lasciando scarse tracce in ambito storico-artistico (nel senso più ampio del termine), mentre ad esempio gli scritti sull’arte di Konrad Fiedler s’impongono con forza sempre maggiore perché sono – per quanto criticamente li si possa considerare – orientati all’arte. Guardiamo, per fare un paragone, alla più recente filosofia della natura: vediamo un collegamento oltremodo vivace tra fisica, chimica, matematica e filosofia. Se si obietta che ciò non deve sorprendere, dal momento che la filosofia spesso non fa che seguire l’altrui scia, decantando entusiasticamente i percorsi delle altre discipline, non si coglie il punto decisivo: l’immersione nei problemi, che possono esser ottenuti solo dallo studio dedicato alle cose stesse. Da qui in avanti si parlerà solo di queste “cose”. Se le si pone in primo piano, anche la storia dell’estetica muta di aspetto. Ma noi non possediamo questa storia, bensì solo inizi promettenti e accenni quali i recenti lavori di Baeumler, Kreis e Panofsky. Come spesso si è ingiustamente considerata l’estetica un’appendice della filosofia o anche una parte della psicologia, così si è trascurato lo sviluppo delle questioni artistiche autonome. Se se ne seguono le tracce, ciò accade non tanto nel senso che la filosofia semplicemente si estende, quanto nel senso che divengono visibili nuovi aspetti delle sue problematiche centrali, ed essa stessa viene trasformata. Ciò non è possibile “applicando” la filosofia all’arte, ma solo accostandosi alla filosofia a partire dall’arte. Per fare un esempio, suddividendo i fenomeni psichici in pensiero, sentimento e volontà, e assegnando a ciascuna di queste classi un ideale – il vero, il bello, il buono – si era certo ottenuto un punto di vista, ma con esso, al tempo stesso, si era anche deciso l’intero destino dell’estetica. E l’arte dovette ubbidire. Tuttavia, non si può mai svelare l’essenza della scienza a partire solamente dal vero, men che meno dal solo pensiero. Quel che il pensiero scientifico, differenziandosi da tutte le altre forme di pensiero, rappresenta, posso comprenderlo solo sapendo che cos’è “scienza”. Posso accumulare quotidianamente “verità” a piacere, senza perciò esser utile alla scienza, o essendolo solo indirettamente. Sicuramente c’è un rapporto necessario ed ineliminabile della scienza con la verità e con il pensiero, ma il genere di questo rapporto emerge solo quando si coglie, insieme al fatto della scienza, la sua essenza. In questa sede non vogliamo parlare di quanto le varie direzioni del neokantismo, e in particolare anche della fenomenologia, abbiano contribuito a far luce su questi rapporti. Decisivo è che ci si orienti nettamente alla filosofia della cultura. Ora infatti non partiamo più dai dati psicologici (ad esempio il godimento o l’attività estetici), in cui rimane sempre enigmatico

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che cosa ci autorizzi a considerarli quelli decisivi in questa direzione; ma nemmeno da certe astratte fissazioni di valore, che non garantiscono di abbracciare adeguatamente la totalità dell’arte: emerge in primo piano la grande realtà di un contesto culturale, l’arte nella totale pienezza delle sue estrinsecazioni reali. E “verso l’alto” – se posso esprimermi così – conducono le questioni fondamentali: come si rapporta questo contesto culturale nei confronti di tutti gli altri, e del sistema della cultura in generale? Non ci è concesso divagare oltre. Notiamo semplicemente: questa posizione protegge la scienza dell’arte solo da una tirannia dogmatica da parte dell’estetica e, allo stesso tempo, è adatta a mettere in risalto l’autonomia dell’arte in modo davvero adeguato (cioè senza forzare il concetto di autonomia). L’arte non viene dissolta nella “cultura”; il problema suona però: come si sviluppa nell’arte una forma specifica di cultura? Con ciò, a mio avviso, è dato il punto di partenza metodologico per le due questioni principali, che animano nel modo più vivace e profondo l’attuale ricerca: salvaguardia della completa autonomia della scienza dell’arte nel suo collocarsi positivamente rispetto alla scienza della cultura e dello spirito, dal cui abbraccio materno l’arte non può esser svincolata; e il necessario collegamento dell’elemento sistematico con quello storico. Si definisca la cultura come si vuole – essa resta sempre qualcosa di temporalmente sovratemporale o di sovratemporalmente temporale. Mi sembra questa la cornice generale, il motivo generativo intorno al quale si giocano gli scontri del giorno d’oggi in merito ai concetti fondamentali della scienza dell’arte. Inoltre, tali scontri acquistano peso, poiché (per lo più senza che i contendenti ne siano consapevoli) in essi e grazie ad essi i problemi centrali della filosofia della cultura vengono se non risolti, chiariti, o perlomeno scoperti. 2. Accingendomi a descrivere brevemente questi movimenti, non aspiro nemmeno ad avvicinarmi alla completezza. Solo di recente, nel terzo volume degli «Jahrbücher der Philosophie» (1927), ho cercato di definire estetica e filosofia dell’arte nelle loro ultime linee di sviluppo. Anche prescindendo completamente da ciò, comunque, non è difficile aggiornarsi sui più recenti fenomeni e sulle correnti in questo campo. Gli atti dei tre congressi di estetica e scienza generale dell’arte tenuti finora (1913, 1924, 1927) rispecchiano chiaramente lo stato odierno della scienza. La «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», edita da Max Dessoir, fornisce regolarmente una bibliografia molto completa. Penso dunque sia meglio evidenziare soltanto le tendenze dominanti, illustrandole con esempi. Se si colgono i temi fondamentali, le numerose variazioni divengono comprensibili, mentre altrimenti si genera l’impressione di arbitrarietà e casualità. Al primo posto mettiamo il grande nome di Kant. Le sue concezioni estetiche vanno generalmente incontro a due obiezioni2: le si accusa di for2 Si vedano a riguardo la mia Grundlegung der allgemeinen Kunstwissenschaft [cit.], e Der

Künstler. Vier Vorträge [Enke, Stuttgart 1925].

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malismo, e si critica il fatto che il concetto kantiano dell’“estetico puro” non possa essere esteso alla totalità dell’arte. Là dove si vedono solo errori – frutto di un atteggiamento spirituale in definitiva distante dall’arte – si celano in realtà problemi di enorme rilevanza. Anche se la soluzione kantiana del problema della forma può aver fallito, la sua straordinaria portata si è affermata con sempre maggior chiarezza. Le più profonde parole sull’arte devono tutte basarsi sulla considerazione della sua forma, della sua figura. Kant stesso non vuole affatto ricondurre l’arte in quanto tale alla bellezza «pura», bensì conia l’insolito concetto di bellezza «aderente». Alla contemplazione «calma», inoltre, egli contrappone, laddove parla del sublime, la contemplazione «dinamica»3. Il sublime diventa cittadino di due mondi: prende parte all’estetico ma rinvia al di là di esso. Esso trascende l’estetico, non perché sia un estetico cattivo, ma perché rappresenta qualcosa di totalmente diverso dall’estetico puro. In questa appassionante problematica ci si fa incontro davvero l’arte intera, nella misura in cui oltrepassa i confini della bellezza pura – ed essa li oltrepassa non per superbia, non per caso, no: per la sua stessa essenza. È qui che sta la vera origine della scienza generale dell’arte. Kant lo ha visto chiaramente. In questo contesto non possiamo illustrare il motivo per cui questi problemi, entrambi decisivi, non siano stati immediatamente afferrati in tutta la loro portata. Certo, il classicismo tedesco combatte all’insegna della forma, ma l’elemento relativo per così dire alle scienze dello spirito trionfa rapidamente. Se l’arte deve diventare, per quanto possibile, spirito, la forma del suo modo di darsi finisce per esserle d’intralcio. Allorché Baumgarten tenne a battesimo l’estetica, scusandosi ansiosamente ed profusamente per aver osato introdurre una tale scienza all’interno della filosofia, le assegnò un posticino non accanto alla logica, ma al di sotto di essa. La conoscenza concettuale troneggia su quella sensibile, da cui l’estetica, com’è noto, ricevette il nome. E se anche Alfred Baeumler4 ha mostrato molto efficacemente come in tale dottrina acquisisca un proprio valore la sensibilità, in definitiva è proprio per colpa della sensibilità che l’arte è sottomessa alla scienza. Ricordiamoci inoltre che ancora Hegel, alla fin fine, ha fatto sì che l’apparenza sensibile dell’idea nell’arte fosse superata dal nudo e crudo coglimento adeguato dell’idea nella scienza, di modo che l’arte cessi – per dirla con le sue parole – di essere una delle più alte manifestazioni dello spirito, vedendosi quindi accordata una validità per così dire solo provvisoria. È significativo che alcuni psicoanalisti del giorno d’oggi non siano troppo distanti da queste concezioni. Otto Rank insegna che la «rimozione» progressiva nel corso della storia esige sempre più imperiosamente il dominio dell’inconscio e il suo divenir cosciente. L’arte però non può raggiungere questa meta, dal 3 [Si veda I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., § 24, p. 265 e § 27, p. 293.] 4 Kants Kritik der Urteilskraft, ihre Geschichte und Systematik, 1, 1923 [il primo (ed unico)

volume apparso è Das Irrationalitätsproblem in der Aesthetik und Logik des 18. Jahrhunderts bis zur Kritik der Urteilskraft, Niemeyer, Halle-Saale].

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momento ch’essa nasce e agisce «inconsciamente», e può perciò consentire solo indirettamente i progressi della coscienza. Ora, una volta riuscito il totale sovvertimento dello psichico e divenuto cosciente l’inconscio rimosso, «allora il superuomo non artista, leggero e forte come un “dio”, si collocherà nel mezzo del gioco della vita, guiderà e dominerà con mano sicura le sue pulsioni»5. Questo razionalismo può ravvisare nell’arte solo qualcosa di temporaneo, una tappa da oltrepassare. Manca in fondo la comprensione dell’insostituibile valore specifico dell’arte. Così deve accadere a tutti coloro che trascurano il problema centrale dell’arte, quello della forma. Eppure, anche seguendo questa linea si è ricavata una questione fondamentale decisiva: la consapevolezza che l’arte ha a che fare in qualche modo con la “conoscenza”. Questa conoscenza è però considerata di livello inferiore rispetto a quella scientifica. Non solo perché mancavano analisi sufficientemente chiarificatrici, no: perché determinate valutazioni la rendevano impossibile. Alfred Baeumler ravvisa a ragione nell’estetica di HalleFrancoforte di Baumgarten e della sua cerchia un fattore culturale di alto livello. «Ciò fu possibile perché il loro era un problema generale. In breve suonava così: quanto vale la sensibilità (la facoltà conoscitiva inferiore)? Con questa domanda inizia una nuova epoca della filosofia tedesca»6. In ultima istanza, però, non è possibile rispondere a questa domanda subordinando semplicemente la sensibilità allo spirito. Nel sistema di riferimento dello spirito essa è qualcosa di inferiore. Ma che valore ha in sé? O in un determinato collegamento con lo spirito? Che cosa conferisce allo spirito? Kant e Schiller videro in questa svolta il problema, che doveva venir ripreso anche successivamente; noi abbiamo già vissuto il contraccolpo radicale, il capovolgimento del sistema di riferimento, l’alienazione, addirittura l’ostilità nei confronti dello spirito7. Finché si rimane su questa linea, ricompare sempre di nuovo l’antico problema fondamentale di Platone in tutte le sue variazioni: se compito dell’arte deve essere rivelare la verità nel senso delle idee, «entrando quindi in concorrenza con la conoscenza razionale, allora essa deve necessariamente ricondurre il mondo visibile a forme immutabili, generali ed eterne, rinunciando così a quella individualità e originalità in cui siamo soliti vedere il peculiare carattere delle sue creazioni»8. Nonostante l’elemento sensibile, questo è entro certi limiti possibile. Così, però, non sorge alcun ambito culturale che affianchi la scienza con pari diritti. A questo perveniamo soltanto ponendo accanto a quello della scienza un tipo di conoscenza del tutto diverso: la conoscenza artistica, che non può mai venir 5 Der Künstler, 4 ed., 1922 [O. Rank, L’artista: approccio a una psicologia sessuale (1907),

trad. it. di A. Montanari e F. Marchioro, intr. di F. Marchioro, SugarCo, Milano 1994, p. 96]. 6 A. Baeumler, op. cit., p. 25. 7 Si veda a riguardo il mio libro Die Überwindung des Expressionismus, 1927 [Enke, Stuttgart]. 8 E. Panofsky, Idea, 1924 [Idea. Contributo alla storia dell’estetica, trad. it. di E. Cione, intr. di M. Ghelardi, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 2 (con modifiche)].

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conoscenza del tutto diverso: la conoscenza artistica, che non può mai venir sostituita da quella e costituisce un’autonoma forma di coglimento o di formazione del mondo. Altrimenti ci allontaniamo decisamente dal pensiero conoscitivo per sottrarci a tutti quei pericoli. Sacrifichiamo allora questo problema, salvando così l’autonomia dell’arte. La separiamo completamente dalla scienza. È proprio quel che ha cercato di fare, così spesso, l’estetica più recente: in ciò essa ha potuto richiamarsi al piacere disinteressato kantiano, alla sua fondazione nel sentimento e tramite il sentimento. Poi però essa non poteva più collegarsi proficuamente ad una scienza generale dell’arte: avvertiva l’“extra-estetico” nell’arte come qualcosa di estraneo e di ostile, qualcosa da eliminare. Detto altrimenti: la corrente delle scienze dello spirito corre il rischio di sacrificare l’autonomia e la dignità dell’arte; la corrente dell’estetica pura quello di restringere il campo dell’arte. Anzi: di tradire la sua autonomia e indipendenza, facendola dipendere da un elemento estetico che eventualmente potrebbe esistere anche senza di essa. La matematica la trovo solo all’interno della matematica. Il bello invece lo trovo anche nella “natura”. Si doveva dimostrare che il bello dell’arte fosse più bello del bello di natura. E invece non lo si poteva dimostrare, proprio come non si può dimostrare che la psicologia scientifica abbia più valore della saggezza di vivere antropologicamente intesa. Si può solo mostrare che quest’ultima è qualcosa di totalmente diverso. Ma così si dà inizio ad una vera e propria teoria della scienza o dell’arte. Questa era (ed è ancor oggi) la problematica che la nascente estetica sperimentale di un G.Th. Fechner e dei suoi immediati successori semplicemente aveva tralasciato. Problematica che doveva ulteriormente acuirsi, allorché un’arte realistica andava contraddicendo sempre più nella pratica le categorie del “bello”, ma anche quelle dello “spirito”. Si cercava di scongiurare questo pericolo in due modi: innanzitutto ampliando elasticamente l’estetico, che talvolta giungeva al punto di abbracciare amorevolmente persino il brutto. In secondo luogo distanziandosi dall’estetico: l’arte diventava scienza applicata, cessando in fondo di essere arte. Zola scrive il suo piccolo saggio teoretico: Il romanzo sperimentale9. Come fine si stabiliscono la ricerca del vero e la conoscenza della verità; si tratta di psicologia scientifica. I giudizi di Zola sull’arte figurativa sono animati dallo stesso spirito, quando attribuisce a gloria di Manet il fatto che lo si considererà nel novero dei «grands ouvriers de ce siècle, qui ont donné leur vie au triomphe du vrai»10. Zola non vuole il godimento estetico, vuole “capire”. Dobbiamo imparare, mossi da compassione, ad entusiasmarci! Non gli basta la verità naturale 9 [É. Zola, Il romanzo sperimentale (1880), intr. di E. Scolari, Pratiche, Parma 1992.] 10 [«Il tempo porterà a compimento il suo ingresso tra i protagonisti di questo secolo, che

hanno dato la vita per il trionfo del vero»; É. Zola, L’esposizione Manet del 1884, in Id., Manet e altri scritti sul naturalismo, trad. it. di G. De Paola, intr. di F. Abbate, Donzelli, Roma 1993, pp. 55-64, qui p. 64.]

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(ottenuta grazie all’ineffabile diligenza dell’osservazione più fedele), esige una “logica della natura”. Era questo il risultato dell’apparire sensibile dell’idea. Da parte sua, la teoria dell’empatia, che andava affermandosi con forza sempre maggiore, tentava di salvare l’estetico, che andava svanendo. Derivata dallo spirito del romanticismo, allorché ci si doveva empatizzare in tutto, sentendosi tutt’uno con l’universo, quella dottrina era chiamata in un certo senso a “sostituire” l’estetico. Non si è mai riusciti, però, a separare l’empatia estetica da quella extra-estetica, senza aver già preliminarmente presupposto il concetto di “estetico” stesso. Lungi da me il voler ridimensionare le grandi opere di Lipps o di Johannes Volkelt, che, accanto alle più sottili analisi psicologiche, dispiegavano l’intero problema della fisiognomica, dell’espressione e della comprensione. L’indole profondamente indagatrice di Lipps e l’ammirevole apertura mentale di Volkelt hanno per prime preparato il terreno alla ricerca più recente, che commemora riconoscente questi maestri anche quando percorre altre strade. Dobbiamo però ritornare ancora una volta al passato, all’epoca in cui estetica e filosofia dell’arte erano sul punto di capitolare e di dissolversi nella psicologia o nella sociologia. Ci venne allora in aiuto Konrad Fiedler. 3. Il suo nome è rimasto a lungo quasi sconosciuto. Oggi, persino un suo così accanito avversario come Benedetto Croce definisce la sua opera quanto di più significativo la Germania abbia prodotto nella seconda metà del secolo passato nel campo dell’estetica11. Penso si possa dire di più: con Fiedler (e non, come si è spesso sostenuto, con G.Th. Fechner, suo contemporaneo) ha inizio proprio una nuova epoca della filosofia dell’arte. Quando, nel 1913, Hermann Konnerth allestì l’eccellente edizione in due volumi degli Scritti sull’arte12 di Fiedler, ebbi l’occasione di celebrare tutto il significato di quest’opera in un’ampia recensione13. L’anno scorso, poi, Günther Jachmann ha curato l’epistolario tra Adolf von Hildebrand e Konrad Fiedler. Peccato che Jachmann attribuisca la parte del leone a Hildebrand, riservando perciò a Fiedler meno spazio. Sarebbe ormai ora di pubblicare tutto quel che abbiamo di Fiedler, dal momento che il suo lascito è pubblicato solo in parte. La scienza tedesca non può più sottrarsi a questo compito. Nel mio abbozzo, mi attengo al punto di vista che sostengo da quindici anni14. Che cosa rese possibile la posizione d’eccezione di Fiedler, oltre al suo talento individuale? Questo venne infatti nutrito da una problematica 11 Zur Theorie und Kritik der Geschichte der bildenden Kunst, in «Wiener Jahrbuch für

Kunstgeschichte», 1926 [B. Croce, La teoria dell’arte come pura visibilità (1911), in Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, Bibliopolis, Napoli 1991, pp. 215-236, qui p. 230]. 12 [K. Fiedler, Scritti sull’arte figurativa, cit.] 13 «ZÄK», 8 [1913, pp. 501-505]. 14 Si vedano in part. i miei lavori: Der Künstler, 1925 [cit.], e Die Kultur der Gegenwart, 1921 [cit.].

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squisitamente filosofica (radicata nell’esperienza, per lui decisiva, della lettura di Kant) e da un’arte dallo stile rigoroso (radicata nella frequentazione di Hans von Marées e Adolf von Hildebrand). Anche Fiedler, tuttavia, paga un sensibile tributo al naturalismo del suo tempo, per quanto appassionatamente vi si scontri e lo combatta. Alla base di tali accanite ostilità stanno spesso legami di sangue. Come il naturalismo pretendeva verità dall’arte, ponendola nelle immediate vicinanze della scienza, così faceva anche Fiedler. L’arte deve produrre conoscenza, ma non una conoscenza scientificoconcettuale: formazione e configurazione servono soltanto a generare intuizioni chiare. Infatti, non è che queste esistano prima dell’arte e vengano da essa semplicemente assunte, no: sono create solo per suo tramite. La realtà offre solamente un caos di impressioni sensibili; l’eterno compito dell’arte diventa quello di illuminarle portandole ad un cosmo di intuizioni chiare. Non ne ha altri. Dobbiamo rinunciare a tutto quel che l’arte rivela quanto a bellezza, contenuto spirituale, felicità ecc. Con rigorosa severità Fiedler opera una netta distizione. Sul carattere artistico decide soltanto la conoscenza puramente intuitiva, che per gli uomini ha un significato autonomo, indipendente da qualsiasi astrazione. La facoltà dell’intuizione ha diritto tanto quanto quella del pensiero astratto a venir educata ad un utilizzo regolato e consapevole: l’uomo è infatti in grado di pervenire ad un dominio spirituale sul mondo non solo nel concetto, ma anche nell’intuizione. Origine ed esistenza dell’arte poggiano dunque sul coglimento immediato del mondo tramite una capacità dello spirito umano ben specifica: l’intuizione. Il suo significato non è altro che quello di essere una forma particolare in cui l’uomo non solo cerca di, ma è proprio costretto dalla sua natura a prender coscienza del mondo. La posizione dell’artista rispetto al mondo, quindi, non è affatto scelta arbitrariamente, bensì è data naturalmente. Il risultato cui egli perviene non è secondario e facoltativo, bensì supremo e assolutamente insostituibile per lo spirito umano, se esso non vuol automutilarsi. Quel che l’arte crea non è un secondo mondo accanto ad un altro che esiste anche senza di essa: piuttosto, per prima produce il mondo tramite e per la coscienza artistica. L’arte innalza da ciò che non ha forma né figura alla forma e alla figura, e in questo percorso consiste tutto il suo significato spirituale. Se la natura umana non fosse stata dotata di talento artistico, una grande, infinita parte del mondo andrebbe e rimarrebbe perduta per l’uomo. L’arte quindi è ricerca tanto quanto la scienza, e la scienza è configurazione tanto quanto l’arte: solo che i loro ambiti di configurazione sono diversi. Entrambe rappresentano i primissimi mezzi tramite cui l’uomo acquisisce la realtà: quello del concetto nella scienza e quello dell’intuizione nell’arte. In quest’ultima si realizza la visibilità configurata in puri costrutti formali. L’artista può testimoniare l’autenticità e la forza del suo talento solo contenendo le considerazioni su ogni sorta di sujet [Gehalt] e di contenuto [Inhalt] che potrebbero influenzare la sua attività formativa, e lasciandosi determinare unicamente dallo sforzo in direzione dello sviluppo

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ne visiva. Se invece, all’interno dell’opera d’arte, ci si cura di assegnare a ciò che esclusivamente si presenta alla vista un ruolo subordinato rispetto al sujet della sensazione e del pensiero, il cui vettore viene considerato il costrutto visibile, allora dobbiamo capovolgere questo rapporto e trasferire tutta l’importanza che può esser conferita ad un’opera d’arte in quanto tale alla sua visibilità. Se si tratta di arte nel senso più alto, in merito alla sua esistenza non si deve aver alcun interesse per le componenti della vita spirituale, morale, estetica, cui si considera collegato il progresso, la nobilitazione, il perfezionamento della natura umana. Solo quando siamo pervenuti a questa imparzialità dell’arte possiamo doverle qualcosa che è certo del tutto diverso dall’esigenza della nostra natura che sa, vuole e sente esteticamente: la chiarezza della coscienza di realtà, in cui non vive più nient’altro che la certezza (non legata ad alcun tempo, non sottomessa ad alcun contesto evenemenziale) dell’essere intuitivo, visibile. Ogni pratica artistica genuina, qualsiasi sia il contenuto cui essa torni utile, perseguirà sempre e soltanto questo suo specifico scopo. In questo modo si chiarisce la prospettiva di Fiedler secondo cui, nei loro punti di partenza e nei loro obiettivi, estetica e considerazione artistica devono mantenere un’indipendenza reciproca, e possono cercare un collegamento solo laddove ciò possa risultare vantaggioso per entrambe. «E a ciò andrebbe aggiunta anche l’ulteriore questione se l’estetica, dovendo la sua esistenza a un’esigenza di carattere spirituale del tutto diversa da quella dell’arte, possa spiegare le opere d’arte solo esteticamente, ma debba lasciarle oscure dal punto di vista dell’arte; se inoltre le regole che l’estetica potrebbe enunciare non siano solo di natura estetica, non però di natura artistica; e se, infine, pretendere che la produzione artistica si debba indirizzare secondo le regole dell’estetica non significhi pretendere che l’arte cessi di essere se stessa e si debba accontentare di fornire all’estetica esempi illustrativi»15. Nel già citato epistolario con Hildebrand, Fiedler, esprimendosi più liberamente e disinvoltamente che all’interno delle sue opere, accenna un’importante modifica della sua teoria della conoscenza intuitiva. Gli sembra, infatti, come se l’impulso alla conoscenza non fosse l’impulso spirituale originario. Prima di tutto si risveglia nell’uomo il bisogno di superare l’isolamento in cui, in quanto componente individualizzata della natura, si trova. «Propriamente, non è un bisogno di conoscenza ciò che suscita l’attività artistica, poiché la conoscenza scientifica può spiegare il mondo solo in un certo senso; piuttosto, è lo stesso impulso di eliminare la distanza, in cui ci si trova, dalla natura, di portarsi la natura vicino, sempre più vicino, fino ad abbracciarla e possederla, ad essere alla base di ogni vera e propria attività artistica. L’arte dunque non è semplicemente un genere di conoscenza, bensì uno dei mezzi tramite cui l’uomo cerca di redimersi dalla sua posizione isolata e di riconquistare la relazione con la natura». L’artista mira ad affer15 [K. Fiedler, Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa, cit., p. 37.]

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rare la natura in modo molto più concreto rispetto al pensatore astratto. Il suo obiettivo non consiste nella fissazione dei fenomeni: anzi egli, per ottenere il suo scopo, li lascia scorrere. Nel caso dell’artista si dovrebbe quindi parlare più propriamente di “raffigurazione” che di conoscenza, in quanto attività tramite cui egli cerca di impossessarsi completamente della natura. «Non bisogna definire l’arte un genere di conoscenza, ma si dovrebbe riconoscere nell’arte e nella conoscenza due mezzi di cui l’uomo si serve per soddisfare il suo più alto ed impellente bisogno: reimpadronirsi nel particolare di quella natura a cui egli si sa estraneo in generale»16. Con ciò, Fiedler ha abbozzato i contorni di una teoria dell’arte che fondamentalmente non coincide con l’ambito estetico. Le “intuizioni” delle opere d’arte sono qualcosa di totalmente diverso dall’intuitivo della natura: esse vengono generate soltanto nella e tramite la configurazione, la formazione dell’arte. Configurazione e formazione diventano concetti fondamentali della scienza dell’arte. Devono affermarsi nella chiarezza dell’essere visibile. Grazie a questa chiarezza ci impadroniamo della natura. Non si tratta dell’“effetto” dell’arte, bensì dell’opera d’arte stessa. Non decidiamo in merito ad un’opera scientifica a seconda che i suoi risultati ci rallegrino o ci rattristino, ma solo esaminando la sua correttezza. Questo esame può riguardare soltanto l’opera scientifica stessa. Per la prima volta in base a questi principi fu possibile una scienza dell’arte come rigorosa ed esatta scienza della forma. I suoi concetti non possono venir presi a prestito dalla storia generale, ma sono concetti artistici autonomi. Con ciò, al tempo stesso, si supera quel naturalismo a buon mercato di una teoria dell’imitazione riproduttiva, esattamente come quelle indicazioni sulla bellezza sfuggenti e retoriche. Il compito è chiaramente stabilito, ed esige esattezza: occorre render conto, fino a che punto in virtù della formazione si ottenga una conformità a leggi dell’essere intuitivo, visibile. L’orientamento all’oggetto ha vinto, e la scienza dell’arte diviene scienza di oggetti che opera con metodi oggettivi. Non bisogna comunque dimenticare quanto Fiedler abbia dovuto qui sacrificare per raggiungere la purezza della sua prospettiva. Del resto, il fatto che in seguito egli sia stato interpretato in direzioni diverse, non può sminuire il significato del suo lavoro; solo grazie al celebre scritto di Adolf von Hildebrand17 e a Wölfflin, la cui concezione dell’arte rese utilizzabile l’eredità fiedleriana, esso ha mostrato la sua sorprendente fecondità. Ma nessuno può vantare lo sguardo acuto e radicale di Fiedler. Perciò alcune lacune si manifestano in lui nel modo più evidente. Se infatti si domanda che cosa resti infine dell’opera d’arte in Fiedler, si dovrà rispondere: solamente il problema della configurazione in vista della chiara visibilità. Tutto il resto, 16 [Adolf con Hildebrands Briefwechsel mit Conrad Fiedler, hrsg. von G. Jachmann, Jess, Dersden 1927, pp. 90-91.] 17 [A. von Hildebrand, Il problema della Forma nell’arte figurativa (1893), ed. it. a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo 2001.]

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compreso ogni elemento “spirituale”, esula dal vero e proprio ambito artistico. Certo, egli non tralascia il momento “contenutistico”, ma questo momento è per lui significativo solo nella misura in cui suscita la necessaria formazione. Hildebrand concorda completamente con lui quando afferma che la forma è il contenuto configurato in modo artisticamente coerente. Fiedler riconosce anche che una nuova produzione della forma derivante dal contenuto si comporta in maniera rivoluzionaria, e all’inizio deve scontare il fatto di apparire informe. Lungi da lui ravvisare nella forma un qualsivoglia schema esteriore, in cui le cose vengano costrette. Al contrario, ogni cosa specifica deve crearsi la sua specifica forma artistica. Questo è precisamente il compito dell’artista. Ciononostante, però, nel risultato finale ogni momento contenutistico dev’essere eliminato nuovamente: non si tratta infatti del momento contenutistico, bensì della legalità intuitiva della sua visibilità. Se però l’arte ha da sempre lottato per grandi contenuti spirituali, questo è avvenuto senza dubbio per “raffigurarli”, non per annullarli nella raffigurazione, bensì solo per assicurarsi la loro espressione mediante il modo di darsi di quella raffigurazione stessa. Il modo di procedere di Fiedler assomiglia ad un pan-metodismo scientifico, cui importa solo la pulizia e la compiutezza del metodo scientifico. Ma quest’ultimo, in fondo, gira a vuoto: tutte le questioni materiali si trasformano solo in mezzi in virtù dei quali il metodo può attivarsi. Certo, chiarezza e sicurezza sistematiche dei concetti costituiscono lo scopo della scienza, ma solo per il fatto che, per loro tramite, vengono dispiegati e risolti problemi. Fiedler vede sempre e soltanto il problema del metodo. È per questo che, per lui, in ultima istanza vale solo la forma in sé, non la forma riempita di senso. Senso della forma è per lui solo la sua visibilità, non il riempimento di senso possibile solo in essa. Rifiutando l’elemento extra-artistico, egli ha svuotato l’arte. Detto altrimenti: Fiedler è teoreticamente interessato solo allo strato d’essere dell’arte. Ma all’interno di questo strato d’essere ci sono innanzitutto le opere d’arte. E non basta se le riconosco meramente come opere d’arte. Soddisfano l’imperativo: offrire visibilità intuitiva. Non voglio dire che Fiedler non presti attenzione all’elemento individuale dell’opera d’arte, per lo meno laddove esige per ogni contenuto una forma individuale, ma da ultimo non lo interessa affatto questo elemento individuale, bensì solo la sua attitudine a penetrare in quella legalità dell’essere visibile. Egli è troppo vicino alla scienza, per non falsificare l’essenza dell’arte in direzione della scienza, ed oltre a ciò egli ha un’immagine della scienza che non è comunque dipinta con i colori delle discipline storiche, delle scienze dello spirito e della cultura. E proprio per questo l’elemento specificamente storico risulta vistosamente troppo limitato. Si potrebbe tentare di introdurre l’elemento storico in due direzioni. Entrambe le vie vengono battute spesso senza riconoscere che sono due vie differenti. Se questo chiarimento verso la visibilità è – diciamo – un processo di logica intuitiva, allora si potrebbe pensare che l’immanenza di questa logica offra il filo rosso per lo sviluppo dell’arte. Un pensiero seducente

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che, a partire dal grande esempio di Hegel, riaffiora sempre di nuovo! L’autonomia della scienza dell’arte sarebbe chiaramente del tutto al sicuro solo se lo sviluppo dell’arte fosse una faccenda esclusiva di logica artistica. La storia dell’arte sarebbe una presa di coscienza della successione sistematica di passaggi logici. Questa storia sarebbe – presupposto il genio necessario – costruibile. E sotto lo stesso presupposto si potrebbero definire temporalmente le opere d’arte in rapporto ad altre opere d’arte. Il rango di grandi personalità sarebbe del tutto modesto, se esse diventassero solo degli esecutori di quelle necessità. Si potrebbe scrivere una storia dell’arte senza di loro. La seconda via passa dalla psicologia: la conquista del mondo visibile è un processo psicologico. I processi psicologici procedono secondo leggi: ad esempio dal primitivo al sempre più complesso, per poi giungere possibilmente ad una semplicità di ordine superiore. Qui non importa come ci siamo rappresentati nei particolari tali processi, conta solo il principio. Anche la via che conduce dai movimenti incerti del poppante a quelli sicuri di chi cammina spedito non è arbitraria, bensì attraversa diversi stadi, che non possono esser variati e nemmeno scambiati a piacere. Così, anche il nostro “vedere” – non solo nel senso fisiologico del termine – deve condurre attraverso una serie di passaggi, e questo percorso è proprio il percorso dell’arte. La necessità logica diventa qui necessità psicologica. Se si cerca in qualche modo di dedurre la prima dall’essenza oggettiva dell’arte, l’elemento psicofisico diventa determinante nella sua relazione con il compito artistico. L’empiria è certamente più vicina, ma le costruzioni non sono mai escluse, e soprattutto le conformità a leggi che collegano i singoli fenomeni. Di modo che, alla fine, gira e rigira ne risulta la stessa cosa: la linea logica e quella psicologica coincidono. Va da sé che l’elemento logico, se vuole affermarsi, non può contenere alcuna impossibilità psicologica; ma in sé non è altrettanto ovvio capire in anticipo perché lo sviluppo psicologico debba orientarsi su quello logico. Con l’indirizzo psicologico, naturalmente, sarebbe altrettanto conservata l’autonomia della scienza dell’arte, anche se non con la stessa ampiezza tipica della possibilità logica. Se anche non si avesse bisogno di alcun prestito dalla storia generale, si dovrebbe in ogni caso andare continuamente in prestito dalla psicologia. L’ideale sarebbe la coincidenza dello sviluppo logico con quello psicologico: essa sarebbe adatta a verificare entrambi. Schiller scrisse a Goethe nel 1797: «Osasse qualcuno togliere dalla circolazione il concetto e persino il termine di “bellezza”, cui sono indissolubilmente collegati tutti quei falsi concetti, e mettere al suo posto, per quanto di poco conto, la verità nel suo senso più completo!»18. Fiedler ha osato fare ciò, riunendo le due grandi correnti della tradizione: la linea Baumgarten18 Cfr. W. Böhm, Über die Möglichkeit systematischer Kulturphilosophie, 1927 [Niemeyer, Halle-Saale. La lettera è del 7 luglio 1797: cfr. Friedrich Schillers Werke und Briefe, cit., Bd. 12 (2002), p. 293].

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Hegel e quella di Kant. Ponendo risolutamente al centro il problema della forma, egli è diventato il padre della nostra moderna scienza formale dell’arte, e a lui per la prima volta è apparso chiaramente il problema di una scienza dell’arte nel senso più rigoroso del termine. È lo spirito dell’arte classica quello che ci si fa incontro qui. Dove esso si ridesta, splende il problema della forma. Senofonte, nelle sue memorie19 su Socrate, narra di aver avuto una volta un colloquio con il celebre scultore Clitone: gli archeologi assicurano che quel Clitone non era diverso da Policleto né a lui inferiore. Mentre l’artista vuole ricondurre la bellezza a determinati rapporti numerici e di proporzione, il filosofo si preoccupa anche di vedere se non sia altresì compito figurativo quello di dar forma all’espressione dell’anima. L’artista classico combatte sempre all’insegna della forma. E il teoretico dovrà sempre muovere la stessa obiezione di Socrate. Egli dovrà esigere la elaborazione di una teoria che dia il suo pieno diritto alla forma, ma alla forma riempita di senso, che genera lo spirituale, formando così un insostituibile modo di darsi dello spirituale stesso. Se infatti l’elemento spirituale esistesse già senza forma e fosse semplicemente “rivestito” da quest’ultima, la forma sarebbe in ultima istanza superflua, e potremmo pretendere l’elemento spirituale senza rivestimenti né travestimenti. Quell’elemento specificamente spirituale deve dunque, nel bene e nel male, esser collegato a questa forma specifica, e deve realizzarsi solo in essa o per suo tramite. Con ciò si è però posto un riferimento all’elemento storico del tutto diverso rispetto a quelli discussi in precedenza. In ogni caso, prima di dedicarci a tali questioni, nella cui elaborazione risiede a mio avviso la corretta soluzione del problema, dobbiamo occuparci delle ulteriori sorti della teoria di Fiedler. 4. Dal lascito di Gustav Britsch, morto prematuramente, è stata recentemente pubblicata una Teoria dell’arte figurativa20. L’orientamento di Britsch era comunque noto, a cerchie ristrette, ben prima della guerra: esso porta avanti la filosofia dell’arte di Fiedler in una ben determinata direzione. La produzione caratteristica dell’arte figurativa si radica in un’elaborazione spirituale dei vissuti visivi. Tanto nella scienza quanto nell’arte si giudica un certo materiale secondo forme universalmente valide: nel pensiero concettuale con la costruzione di una teoria, nel pensiero artistico invece con l’opera d’arte, essendo la conoscenza artistica configurata «come in un simbolo valido, a partire da cui può venir letta ed esaminata». L’opera d’arte dunque, esattamente come la scienza, non imita: non si tratta di «rendere nuovamente possibili le occasioni di vissuti visivi», bensì di elaborarle spiritualmente. La pura scienza dell’arte diventa quindi gnoseologia del conoscere artistico: essa deve mostrare la legalità interna a queste condizioni menta19 [Senofonte, Memorabili, 3, 10, 1-5, ed. it. cit.] 20 1926, a cura di E. Kornmann [Theorie der bildenden Kunst, Bruckmann, München. Le ci-

tazioni che seguono sono tratte dalle pp. 12, 13, 28, 36, 51, 54, 126].

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li, «la successione logica che si sviluppa a vari livelli, poiché certe condizioni mentali ne presuppongono logicamente altre». Nello scarabocchio del bambino la prima condizione mentale nell’elaborazione immediata dei vissuti visivi viene presentata come il giudizio: una macchia di colore tematizzata che si staglia su un ambiente non tematizzato. Ogni pensiero artistico deve erigersi a partire da questa condizione mentale fondamentale. Il livello successivo introduce la distinzione primaria fra le direzioni, realizzata nel modo più scrupoloso assicurando di differenziare il più possibile fra le direzioni. È sempre l’unità spirituale di una connessione rappresentativa generale, non la maggiore «correttezza» o «verità naturale», a fornire il criterio per giudicare il prodotto artistico. Presso tutti i popoli – come presso tutti i bambini – compaiono «occhi egizi», «alberi capovolti», «false prospettive», o come si possono erroneamente definire questi documenti della logica artistica. Il loro comparire là dove lo spirito umano iniziava ad elaborare i vissuti visivi, dimostra che essi sono manifestazioni di necessità del pensiero universalmente valide. Il grado di unità raggiunto da un certo livello può quindi venir superato solo se si producono nuove condizioni mentali; con ciò, però, il fatto dell’unità del livello precedente non viene toccato, non diventa perciò illogico o falso, ma per chi vi aderisce continua a restare lo scopo più desiderabile del suo pensiero. «Sotto gli stessi presupposti, anche noi penseremmo come gli Egizi; allora non avremmo nessun motivo di trovare qualcosa di bizzarramente stilizzato o di innaturale nelle loro opere, così come il bambino non ancora educato – cioè autonomamente pensante – non trova nulla d’innaturale nelle sue opere o nei prodotti artistici prossimi al suo livello». Si tratta sempre di applicare alla natura nessi rappresentativi universalmente vincolanti. Parallelamente alla progressiva distinzione di quelle unità si distingue anche il contenuto oggettuale della configurazione. L’«immagine della natura» deve dunque necessariamente mutare a seconda delle diverse possibilità di giudicarla. La “realtà” artistica può essere solo l’unità del prodotto artistico, «e questo è immensamente superiore nell’arte egizia che non nel disegno scolastico. La correttezza scientifica dell’esercizio scolastico è, per il problema della configurazione artistica, irrilevante: appartiene a tutt’altro ambito di pensiero. Giusto, nel senso dell’arte figurativa, è solo ciò che è unitariamente configurato. Questo fatto deve restare il presupposto di qualsivoglia studio della natura». Le serie dello sviluppo logico e psicologico appena separate vengono qui sempre più rimescolate. Emergono anche problemi che erano stati profilati già da tutt’altro lato: ad esempio, la questione dello specifico Kunstwollen. Il fatto che degli inesperti siano sempre pervenuti ad una determinata cerchia di formazioni, ce lo hanno mostrato tra le altre cose anche le fantasticherie dei malati di mente. Ricordo qui il noto libro di Prinzhorn21. Se a 21 [H. Prinzhorn, L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati di mente (1922), ed. it. a cura

di C. Di Carlo, Mimesis, Milano 1991.]

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Britsch diamo ragione in tutto, dobbiamo ciononostante dire: la sua teoria artistica non è una teoria dell’arte (cosa che ha già mostrato chiaramente Hans Rose nella sua recensione22). Poniamo il caso che io abbia compreso le condizioni mentali degli scarabocchi infantili e, così, l’«unità del nesso rappresentativo»23 (espressione che mi pare mal scelta): con ciò, gli scarabocchi diventano opere d’arte? O non sarà piuttosto che io capisco il linguaggio infantile dei segni, ma in ogni linguaggio si possono esprimere cose molto folli e cose molto significative? Come posso riuscire a distinguere le une dalle altre? E poi: i livelli, che Britsch pone in serie ascendente a mo’ di scala, sono allora livelli di valore della distinzione progressiva delle «condizioni mentali». Mi pare che, contro tutto ciò, non ci sia nulla da obiettare, fin tanto che restiamo nell’ambito dei primitivi, sebbene anche qui, ovviamente, siano possibili opere perfette, che nel loro genere non potranno mai venir superate. Già con gli Egizi, però, si presenta la questione scottante del perché essi siano rimasti fermi a certe «condizioni mentali». Non si potrà rispondere senza prendere in considerazione l’intero essere degli Egizi, in tutte le sue direzioni. Ma andiamo avanti, chiedendoci ad esempio, per trarre le conseguenze più radicali: ogni epoca futura deve di volta in volta introdurre una formazione delle condizioni mentali superiore? Magari interrotta soltanto da regressi occasionali o dalla circostanza che la maggior parte di essi rimane ferma a livelli primitivi o perde l’unità di un livello e in tal modo cade in confusione? Chiunque esamini la differenza tra Rinascimento e Barocco, classicismo e romanticismo ecc., può tuttavia (se il suo lavoro non è sbagliato sin dalle fondamenta) indagare il cambiamento delle «condizioni mentali», mai il loro «progresso ascendente». Quelle «condizioni mentali» non diventano più ricche, ma semplicemente diverse. Non dipende solo da loro se maturano grandi opere d’arte, ma anche dal talento degli artisti del momento. Il discorso si fa più chiaro se ci accostiamo alla sfera linguistica: l’attitudine artistica del linguaggio non coincide con le opere d’arte linguistiche. Certo, si compie in esse. E linguaggi differenti, a livelli di sviluppo differenti, offrono di volta in volta possibilità artistiche differenti. Vogliamo ora rinunciare ad indagare se lo sviluppo linguistico debba essere inteso come puramente immanente oppure solo in connessione con la totalità della vita e dello spirito – di sicuro però la nascita di certe opere d’arte non è una mera funzione del linguaggio. Io stesso ho sovente rifiutato con fermezza la vecchia stupidaggine di cercare, “dietro” o “al di là” dell’opera d’arte, la sua idea: lo spirituale sta tutto nella sua formazione linguistica. Se si cancella questo spirituale la formazione stessa diventa incomprensibile. Britsch aspira ad una gnoseologia dell’arte, e la identifica con la scienza dell’arte. Anche la più perfetta gnoseologia delle scienze naturali, però, non è ancora la scienza naturale stessa; allo stesso modo, la storia non può risol22 «Blätter für deutsche Philosophie», 2 [1928]. 23 [G. Britsch, op. cit., p. 46.]

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versi in una gnoseologia della storia. La gnoseologia di Britsch, tuttavia, non si rivolge alla singola opera d’arte, bensì alla logicità degli stili artistici, e prevalentemente di quelli primitivi. Sarebbe forse possibile costruire un sistema logico di quelle «condizioni mentali»: si tratta di uno scopo che aleggia sempre e sempre di nuovo davanti agli occhi dei rappresentanti della teoria dell’arte. Allora però bisognerebbe esaminare in quale successione psicologica si sviluppino quelle condizioni mentali, e da quali fattori questo sviluppo sia condizionato. In ultima istanza, però, anche la storia della matematica è qualcosa di diverso dal sistema della matematica. In che misura il pensiero sistematico della matematica influisca sullo sviluppo storico della matematica non è un problema risolvibile a priori: esso lascia già aperte – dal punto di vista puramente teoretico – diverse possibilità. Oltre a ciò, è sempre pericoloso avvicinare troppo l’arte alla matematica. Certo, così facendo il problema della forma tipico dell’arte risplende nella sua luce abbagliante, ma cade vittima di una razionalizzazione che si rivela fatale soprattutto per la singola opera d’arte. 5. Heinrich Wölfflin ha accolto con favore l’uscita del libro di Britsch; ciò non deve meravigliare, visto che esso persegue il medesimo orientamento rappresentato, ad un’altezza incomparabilmente superiore, da Wölfflin stesso24. Egli si lamenta del fatto che, nella scienza dell’arte, la ricerca sui concetti non abbia tenuto il passo della ricerca sui fatti. Esige una storia dell’arte che segua via via il sorgere del vedere moderno: dunque non una storia degli artisti, bensì una vera e propria storia dell’arte, anzi quasi una “storia dell’arte senza nomi”. Certo, potrebbe essere che nello studio dello sviluppo particolare ci si imbatta nelle medesime legalità dello sviluppo generale, che deve offrire una sorta di “storia naturale” dell’arte. Già qui devo richiamare l’attenzione sulla difficoltà di un omaggio equilibrato: chi considera soltanto la teoria di Wölfflin perviene a giudizi sbagliati, come uno che volesse comprendere e valutare un poeta solamente in base alle sue conoscenze teoretiche. La letteratura critica su Wölfflin è variamente incappata in questo errore. Ad esempio, se egli desidera pianificare una storia dell’arte senza nomi, d’altro canto è in grado come nessun altro di avvicinarsi per quanto possibile, tramite una ricchissima capacità retorica, al segreto dell’individuale. Oppure: se pare che in lui predomini, terminologicamente parlando, una teoria scientifico-naturale, si tratta di un’eredità del tutto libresca, sfruttata però per fini totalmente diversi. Nonostante il buon libro di Franz Landsberger25 uscito nel 1924, manca una presentazione che elegga a punto di partenza la totalità del fenomeno-Wölfflin, e solo inizian24 Si veda il mio resoconto all’interno del terzo volume degli «Jahrbücher der Philosophie», 1927 [cit. La recensione di Wölfflin a Britsch è apparsa in «Repertorium für Kunstwissenschaft», 49, 1928]. 25 [F. Landsberger, Heinrich Wölfflin, Gottschalk, Berlin 1924.]

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do da qui spieghi il senso peculiare della sua formazione concettuale storico-artistica. Nella rapida presentazione delle sue concezioni seguo il mio già citato resoconto: analisi concernenti qualità ed espressione non bastano. Bisogna aggiungervi un terzo elemento: il modo rappresentativo in quanto tale. Ogni artista si trova davanti a «possibilità» ottiche cui è vincolato: infatti, «non tutto è possibile in ogni tempo». Wölfflin crede che il vedere in sé abbia una sua storia, e che lo svelamento di questi «livelli ottici» dovrebbe esser considerato il compito primario della storia dell’arte. Egli parla di forme di rappresentazione o di visione: «in queste forme si vede la natura, e in queste forme la natura porta a raffigurazione i suoi contenuti». Ma Wölfflin va oltre questo aspetto, che definisce «condizioni dell’occhio», quando stabilisce che ogni concezione artistica sia già organizzata in base a specifici punti di vista determinati dal gusto. «La visione lineare è congiunta indissolubilmente a una sua particolare rappresentazione della bellezza come, del resto, la visione pittorica». Se un’arte abbandona la linea e le sostituisce la massa in movimento, ciò avviene non solo in ossequio ad una nuova verità naturale, ma anche per il sorgere di un nuovo ideale di bellezza. Così, però, lo stile non si configura come espressione immediata del temperamento? Wölfflin rifiuta quest’interpretazione fisiognomica richiamandosi con forza all’intima necessità di questi cambiamenti, alla razionalità di simili processi psicologici, alla loro «logica naturale». Egli individua la conoscenza della loro legalità come «il problema essenziale di una storia dell’arte condotta su basi scientifiche»26. Da questo punto di vista pare un confronto sbagliato quello che definisce l’arte «specchio della vita». La visione non è un morto specchio, è la potenza viva, che ha la sua propria storia immanente, passata attraverso varie fasi. Le sue categorie sono, in sé, forme inespressive. «Nella sua inespressività, ciò di cui parliamo è stato per gli uomini di un certo tempo la cosa più ovvia». Ma come si giunge allo svolgimento di quelle forme? «Qui si incappa nella grossa questione se il mutamento delle forme della visibilità sia la conseguenza di un’evoluzione interiore, cioè di un’evoluzione che si compie, per così dire, automaticamente nell’apparato percettivo o se piuttosto non sia invece un impulso esterno (il mutato interesse, il mutato atteggiamento di fronte alla realtà) a determinare questo cambiamento. Ambedue i modi di vedere sono plausibili: ciascuno, da solo, è unilaterale». Nessun artista si pone di fronte alla natura senza presupposti. “Osservazione della natura” è un concetto vuoto, fin tanto che non si sa sotto quali forme, sotto quali categorie l’osservazione si compia. Quando, ad esempio, Leonardo pretende che le ombre debbano esser dipinte solo mischiando il nero ai colori puri27, 26 [Questa citazione e quelle precedenti sono tratte dall’Introduzione di H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, cit., pp. 27-45.] 27 [Probabile riferimento al § 691 del Trattato della pittura (Tea, Milano 1995), in cui si legge che «l’ombra de’ corpi non deve partecipare di altro colore, che quel del corpo dove si applica;

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ciò appare tanto più singolare se si pensa che egli conosceva già precisamente il fenomeno dei colori complementari nelle ombre. Lungi da lui, però, far uso artistico di questa idea teoretica. Esattamente allo stesso modo, L.B. Alberti aveva già osservato che il viso di una persona che cammina su un prato verde assume un colorito verde28: anche a lui, però, questo fatto non sembra vincolante per la pittura. «Qui si vede quanto poco lo stile sia determinato soltanto da osservazioni della natura, e come l’ultima parola spetti sempre a principi decorativi, a convinzioni del gusto». Il saper fare, qui, non gioca il ruolo principale. «Se è incontestabile il diritto di pronunciare giudizi qualitativi sulle epoche del passato, è pur giusto dire che l’arte ha sempre saputo fare ciò che ha voluto e che non ha mai indietreggiato davanti ad alcun tema perché non riusciva a svolgerlo, che, anzi, si è sempre lasciato da parte ciò che non era sentito attraente dal punto di vista figurativo»29. Mostriamo con tre brevi esempi come i problemi del conferimento di forma in Wölfflin non siano qualcosa di formalistico. In un omaggio ad Adolf von Hildebrand, Wölfflin afferma che il godimento artistico si fonda «sulla splendida, silenziosa impressione di un conferimento di forma, ove tutto è trasposto in pura visibilità»30. «Ciò che suona così modesto: ordinare e acquietare la percezione, vedere la forma nell’insieme, mettere gli uomini in quanto contemplanti in un rapporto sicuro con la natura […], sono tutti valori spirituali di somma potenza». Nel suo eccellente saggio Il viaggio in Italia di Goethe e il concetto di arte classica31, Wölfflin rinvia al fatto che parole come «com’è vero, come esiste!», costituiscono espressioni convincenti per il sentimento classico della forma. «Goethe le ha utilizzate in riferimento tanto al granchio osservato al Lido di Venezia32, quanto adunque, non essendo il nero connumerato nel numero de’ colori da esso si tolgono le ombre di tutti i colori de’ corpi con piú o meno oscurità, che piú o men si richiede nel suo luogo, non perdendo mai integralmente il colore di detto corpo, se non nelle tenebre incluse dentro ai termini del corpo opaco».] 28 [L.B. Alberti, De pictura (1435), 1, 11: «Hoc ita videmus fieri cum facies perambulantium in pratis subvirides apparent» («Vedilo che chi passeggia su pe’ prati al sole pare nel viso verzoso»).] 29 [Questa citazione e quelle precedenti sono tratte dalla Conclusione di H. Wölfflin, op. cit., pp. 287-299.] 30 [H. Wölfflin, Adolf von Hildebrand zu seinem siebzigsten Geburtstag (1918), in Id., Kleine Schriften (1886-1933), hrsg. von J. Gantner, Schwabe, Basel 1946, pp. 89-99, qui p. 92.] 31 [H. Wölfflin, Goethes Italienische Reise. Festvortrag, gehalten am 29. Mai 1926, in Id., Gedanken zur Kunstgeschichte. Gedrucktes und ungedrucktes, Schwabe, Basel 1940, 19474, pp. 4957.] 32 [Il riferimento è a J.W. Goethe, Viaggio in Italia (1816-1829), trad. it. di E. Castellani, pref. di R. Fertonani, Mondadori, Milano 2002, p. 100. Il 9 ottobre 1786, passeggiando in riva al Lido, Goethe scrive: «Che cosa deliziosa, magnifica, è mai un oggetto vivente! Com’è adeguato alla sua condizione, com’è vero, come esiste!». Nell’originale tedesco, l’espressione suona: «wie wahr, wie seiend!».]

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all’antico tempio di Assisi33. Qui la forma coincide pienamente con il contenuto vitale». Oppure: «Sono a dieta e sto tranquillo, di modo che gli oggetti non trovino un’anima elevata, bensì che elevino l’anima»34. «È l’arte classica quel che noi guardiamo in faccia». A proposito delle figure di Apostoli di Dürer a Monaco, Wölfflin afferma che chiunque sia stato soggiogato dalla forza dei loro sguardi sa che in questo caso non è comparso solo un nuovo concetto di “santità”, bensì «un nuovo concetto della grandezza umana in generale». E in generale egli loda l’arte di Dürer così: «Il Medioevo non aveva ammesso che la natura possedesse una bellezza. Tutte le conformazioni naturali erano prive di senso o imperfette. Solo il Rinascimento introdusse l’idea della ratio naturae e la volse subito in idea estetica, vedendo ogni bellezza preformata nella natura. Bisogna fornare così come la natura forma se si vuol raggiungere l’armonia. La naturale perfezione delle creature fu il pensiero più profondo di quest’epoca. E mentre si imparava a sentire la connessione delle parti come un qualcosa di necessario, si giunse a quell’idea di armonia nella quale L.B. Alberti venerava l’ultimo stadio della bellezza e della quale non si poteva più mutare neanche un particolare senza distruggere il tutto. Oggi parleremmo della necessità della disposizione organica. Su questo terreno l’Italia sviluppò la sua splendida arte, ed è lo stesso pensiero che prese vita nello spirito di Dürer». Egli ha così donato all’arte tedesca «nuovi occhi e un nuovo cuore»35. 6. Si tratta della stessa interpretazione del Rinascimento presentata da Ernst Cassirer nella sua ultima opera, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927). Nel parallelismo complessivo tra teoria dell’arte e teoria della scienza, si schiude ai suoi occhi uno dei motivi più profondi del movimento spirituale del Rinascimento nel suo complesso. «Si può dire che quasi tutte le grandi scoperte rinascimentali si assommino qui come nel loro fuoco, che quasi tutte si radichino in una nuova attitudine di fronte al problema della forma ed in una nuova sensibilità per questa». Per Leonardo la forza creatrice dell’artista è altrettanto certa della forza creatrice del pensiero teoretico-scientifico. La scienza è una seconda creazione realizzata tramite l’intelletto; la pittura è una seconda creazione realizzata tramite la fantasia. Entrambe le creazioni ottengono il proprio valore in virtù del fatto che non si allontanano dalla natura, dalla verità empirica delle cose, bensì afferrano e svelano proprio questa verità. «La forza dello spirito, dell’ingegno artistico 33 [Goethe visita il tempio di Minerva il 26 ottobre 1786. Wölfflin si riferisce probabilmente all’ammirazione goethiana per questo edificio, definito «così perfetto, così ben ideato (so vollkommen, so schön gedacht)»; ivi, p. 127.] 34 [J.W. Goethe, Tagebucheintrag 24. September 1786, in Id., Goethes Werke. Weimarer Ausgabe, im Auftrage der Groȕherzogin Sophie von Sachsen, 143 Bde., Böhlaus, Weimar 1887-1919, qui 3, 1, p. 227.] 35 [[H. Wölfflin, Albrecht Dürer (1905), trad. it. di L. Crescenzi, Salerno ed., Roma 1987, pp. 300 e 325.]

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come di quello scientifico, non consiste nel fatto che entrambi procedono in modo completamente arbitrario, bensì nel fatto che essi ci insegnano a vedere l’oggetto nella sua verità, nella sua massima determinatezza. Nell’artista e nel pensatore il genio scopre la necessità della natura»36. Wölfflin sostenne questa tradizione, e lo fece in un’epoca che stava sotto il segno dell’impressionismo e dell’espressionismo. Il suo spirito si radica nel classico, ed è da questo punto che bisogna intendere la sua teoria. Le sue contraddizioni si chiariscono facilmente con le concessioni alla scienza naturalistica della sua giovinezza. Anche laddove egli sbaglia dal punto di vista teoretico e confonde questioni diverse, ha visto quali erano i problemi. Johannes Jahn37 ha recentemente rimarcato la dipendenza di Wölfflin da Wickhoff e Riegl, ipotizzando che l’architettura – essendo la più matematica delle arti ed avendo presentato la massima costanza nello sviluppo – ammetta in massimo grado un tale rigoroso sistema concettuale. Erich Rothacker ripropone la questione se non sia la scelta dell’epoca storica a consentire a Wölfflin di dare ai motivi artistici una dinamica che non pertiene loro in altri tempi. Ma i rappresentanti del punto di vista opposto hanno imparato le cose migliori studiando l’arte medievale. Si potrebbe richiamare l’attenzione sul fortissimo influsso esercitato da Fiedler, Hildebrand ecc. Il riferimento all’architettura e la scelta di una determinata epoca storica rimangono però in superficie. L’orientamento all’architettura (molto più marcato, ad esempio, in Paul Frankl che in Wölfflin) dovrebbe comunque essere compreso solo a partire dall’atteggiamento interiore di Wölfflin, che lo fa decidere così e non altrimenti. Questo è il punto di vista che gli fa inoltre cercare determinate epoche e scartarne altre. Una diversa affermazione di Rothacker scava più in profondità: «Ogni criterio metodologico, ogni giudizio di valore, ogni terminus di un’opera di scienza specialistica è determinato da una prospettiva in ultima istanza condizionata dalla visione del mondo»38. In Wölfflin ciò viene ripreso alla lettera, solo che nella teoria (e non là dove egli, con nobile maestria, descrive immagini) la sua Weltanschauung viene continuamente percorsa da tendenze di cui egli crede di esser debitore alle esigenze scientifiche dell’epoca. La primitività di alcune di tali interpretazioni non può distogliere lo sguardo dall’autentica problematica qui in gioco. Tra queste primitività annovero, ad esempio, quanto detto a proposito delle condizioni dell’occhio, dello sviluppo del processo visivo ecc. Si tratta ovviamente di funzioni psicologiche molto rilevanti. Wölfflin, la cui terminologia trapassa così di frequente nella sfera psicologica, intende in sostan36 [E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), trad. it. di F. Federici, La Nuova Italia, Firenze 2001, pp. 251 e 259 (con modifiche).] 37 Methoden und Probleme der neueren Kunstwissenschaft, in «Archiv für Kulturgeschichte», 18, 1928 [pp. 130-147]. 38 Logik und Systematik der Geisteswissenschaften, 1926 [2 Bde., Oldenbourg, MünchenBerlin 1926; nell’ed. Bouvier, Bonn 1948, p. 33.]

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za qualcosa che, pur riconoscendo l’importanza di tale sfera, sta comunque al di là di essa: la pura logica dell’intuitivo. Sono infatti le oggettive legalità formali ciò cui egli mira. In ultima istanza egli non vuol offrire una psicologia delle intuizioni artistiche, bensì una logica dell’intuitività artistica. I suoi concetti-guida poggiano su questa intuitività. Le categorie polari sembrano a tal riguardo “appiccicate”: Wölfflin accetta tranquillamente questa critica, che non lo tocca. Le coppie concettuali vengono ottenute a partire dall’intuitività oggettiva delle opere d’arte, ed è in rapporto a questa che devono affermarsi e legittimarsi. Ogni altro criterio viene scartato in quanto secondario: resta dimostrato che solo l’utilizzo di quei concetti rende possibile la chiarificazione dei mondi formali in questione. Nulla si può dire in anticipo in merito al numero dei concetti richiesti a questo proposito. Esso risulta inutilmente grande qualora quella possibilità di chiarificazione possa essere portata a compimento con pochi concetti-guida, mentre risulta lacunoso qualora tramite essa non si possano cogliere le peculiarità essenziali del fenomeno. In ogni caso, è l’atteggiamento fondamentale di Wölfflin in rapporto a quest’arte a decidere che cosa in questo caso sia essenziale. Certamente Wölfflin sa che non si può render giustizia a quei concetti dell’individualità della singola opera d’arte; ed egli, con questa teoria, non mira nemmeno a queste individualità, bensì alla storia dell’arte anonima, alla sua universale legalità formale. Resta da chiarire se l’universalità cui si tende – stile e cambiamento dello stile – possa esser in tal modo realmente compresa. Rimane poi un’altra questione: come si compia questo cambiamento stilistico secondo il punto di vista di Wölfflin. Egli infatti non ha fornito a riguardo una risposta precisa. Scorge la pienezza di possibili fattori decisivi, ma gioca anche – e per lui è molto più di un gioco – con l’unica possibilità di una logica artistica immanente. Possiamo dire anche così: se, in condizioni favorevoli, gli stili possono dispiegarsi in totale purezza, allora essi seguono l’immanenza della logica artistica. Hanno così origine, allo stesso tempo, tipi ideali, prefigurazioni ideali. Laddove la realtà diverge, si tratta di cercare i fattori perturbanti sotto forma dell’irruzione di forze che piegano i tratti ideali. Non è affatto questione di negare in linea di principio questo potere a quelle forze. A tal proposito, bisogna mettere in guardia da una pericolosa polivocità del concetto di “logica artistica”. Va da sé che un’opera scientifica debba essere costruita logicamente, che non si possa contestare la logica con cui essa sviluppa i suoi pensieri, se escludiamo il caso in cui l’opera sia soffocata da una logica falsa o angusta. Quel che non è affatto ovvio è che la successione delle opere scientifiche debba sottostare a sua volta a leggi logicamente univoche, sebbene solo una scienza che proceda logicamente possa convincerci della necessità proprio di questa successione, e di nessun’altra. Ma spesso all’interno della teoria dell’arte si sorvola sul semplice stato di cose: entusiasti nei confronti della logica artistica, di cui nessuna opera d’arte può fare a meno, si strapazza questa stessa logica. A ciò si unisce il timore di lavorare con concetti che non sono stati ricavati dalla logica artistica.

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doneità teoretico-artistica dei concetti non decide la loro provenienza dall’arsenale della logica artistica, bensì la loro provenienza dal sistema logicamente costruito della filosofia dell’arte. Ed essa non è nelle condizioni di fare a meno neanche di un solo concetto che costituisca necessario presupposto dell’oggettualità artistica. In questo caso voler rinunciare significa sacrificare ad una logica dogmatica, il cui fondamento sia del tutto incomprensibile. Dopo queste considerazioni generali, entriamo più nello specifico. Ci imbattiamo subito in una mancanza di chiarezza relativa al concetto di “bellezza”. Da un lato pare come se lo sviluppo fosse dominato dalla logica naturale del processo graduale, che l’intuizione percorre. Dall’altro, però, si dice che ogni concezione artistica sia organizzata da determinati punti di vista sulla bellezza. Sarebbe chiaramente falso voler interpretare questa teoria nel senso che regni sempre la stessa bellezza, lo stesso ideale. Wölfflin ritiene infatti che il vedere lineare generi una bellezza diversa rispetto a quella generata dal vedere pittorico. Ma qual è, allora, la forza organizzatrice del punto di vista sulla bellezza? Non può che essere la considerazione secondo cui tutte le arti sono configurazioni di valori espressivi; sia essa lineare o pittorica, tale forza configura sempre in questo modo, finché essa rappresenta arte. Pare del tutto escluso ch’essa possa procedere diversamente, senza con ciò andar perduta, senza semplicemente venir meno in quanto arte. Qui non abbiamo dunque bisogno né del concetto di “piacere” né di quello di “bellezza” – è sufficiente quello di “arte”. Il bello rimane il concetto centrale dell’estetica; ma il fatto che ogni arte debba essere commisurata al concetto di bello, contraddice la sua essenza ed è frutto di un pregiudizio classico, in questo caso della Weltanschauung di Wölfflin. I suoi stessi esempi testimoniano contro di lui: la pretesa leonardesca di cui parla non è certo spiegabile sulla base di preoccupazioni nei confronti della bellezza. Perché poi una cosa dovrebbe essere, in sé, più bella dell’altra? Ma la verità del fenomeno nel senso di Leonardo viene del tutto falsificata, se non ci si cura del suo consiglio. L’attenzione ai colori complementari coglierebbe solo l’elemento casuale, momentaneo del fenomeno, e così mancherebbe il suo specifico “essere”. Ma è proprio di questo specifico essere che si tratta. Altrettanto dicasi quando L.B. Alberti disapprova che il volto di una persona che cammina su un prato verde venga colorato di verde. Le guance non “sono” verdi, e quando, in una certa situazione, sembrano verdi, ad un esame più approfondito ciò risulta essere un errore in cui la pittura non deve in alcun modo incappare. Sappiamo bene che l’impressionismo tracciò la strada esattamente opposta: si reputava una distorsione razionale della realtà il fatto di non conferire all’istante il suo pieno diritto. L’impressionismo non riconosceva alcun altro diritto, dal momento che nell’istante si concentrava l’intero essere, e tutto il resto era astrazione e finzione. Qui ci imbattiamo nel problema, assai complesso, degli “strati d’essere”, teoria che cerco di sviluppare ed ampliare da più di dieci anni. Devo dunque

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ripetermi: se costruisco a mo’ di mosaico l’essere di un uomo da un’infinità di piccoli tratti, oppure se lo riferisco ad un’unica caratteristica generale, sono queste le differenze che entrano qui in gioco. Oppure: se attribuisco il vero e proprio essere al fatto singolo, o alla legalità immutabile, oppure all’istanza del valore. In nessun modo queste devono essere determinazioni gnoseologiche del concetto di “reale”, di “esistenza” o di “non esistenza”. Di conseguenza non ci occupiamo qui di decidere gnoseologicamente o metafisicamente se esistano diverse stratificazioni dell’essere oppure soltanto diverse forme di coglimento dell’essere, e in che misura queste siano condizionate dagli oggetti. Quali che siano i risultati cui queste indagini possono portare, non si può dubitare del fatto che esistano diverse possibilità in linea di principio per costruire la “realtà”. Chi trova la realtà in una rete di concetti stabiliti, poiché essi costituiscono ciò che è in quiete e che persiste, mentre tutto il resto scorre e sfugge, allora focalizza la propria coscienza di realtà e il proprio contesto di realtà in un punto del tutto diverso rispetto a chi insegue l’istante poiché gli sembra che in esso sia racchiuso tutto ciò che esiste di reale. Analogamente, si può cogliere una differenza se si cerca l’autentica essenza delle cose nella forma oppure nel colore. Nel primo caso, il colore è un elemento secondario, tutt’al più necessario per chiarire la forma; nel secondo, la forma, a condizione che vi si presti una qualche attenzione, si costruisce solo a partire dai colori in quanto elementi veri e propri. Ma il livello d’essere costituisce davvero un principio necessario? Esso corrisponderebbe completamente all’essenza dell’arte se si trovasse ovunque lo stesso livello di essere. Ma si noti un’importante differenza: il fatto che una cosa sia un’opera d’arte le conferisce già un essere specifico, cioè l’essere artistico. Noi, però, qui non stiamo parlando di questo essere comune a tutte le opere d’arte, bensì dei livelli di essere che si trovano in certo senso all’interno dell’arte, senza però avere di per sé nulla a che fare con essa. L’essere artistico è legato all’arte, e posso trovarlo al di fuori dell’arte solo quando colgo oggetti come oggetti artistici, come ad esempio avviene con il cosiddetto godimento artistico della natura. Che io individui, tuttavia, il punto nodale dell’essere talora nel concetto, talaltra nel fenomeno momentaneo, non ha nulla a che fare con l’arte, così come non vi hanno nulla a che fare lo status di valore etico o religioso, o il fatto che siano stati utilizzati il marmo o il legno. Come l’opera d’arte, se priva di ogni valore, rimarrebbe vuota (non ci sarebbe nulla su cui configurare il materiale, di cui l’atteggiamento artistico si nutre, in cui può attivarsi un modo di rappresentare), l’opera d’arte senza un determinato livello di essere resterebbe campata in aria; non potrebbe condensarsi in alcuna realtà, poiché la realtà dev’essere costruita e deve poggiare su determinati presupposti. Per questa ragione, ogni cambiamento – diciamo involontario – del livello di essere fa irrimediabilmente a pezzi l’opera d’arte; essa si scompone infatti in diverse realtà che non hanno più una connessione interiore.

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Quanto Wölfflin si avvicini (se non teoreticamente, per lo meno nei fatti) alla teoria del livello d’essere, lo mostra ad esempio la sua citazione dello splendido detto goethiano: «Com’è vero, come esiste!». Qui Goethe saluta con entusiasmo il totale, vero e proprio, immacolato essere. Nel suo svelamento egli coglie il valore39. Ma che cosa impedì a Wölfflin di giungere alla teoria del livello d’essere, costringendolo a fermarsi per così dire a metà strada? Ancora una volta, non il suo praticare la scienza dell’arte, bensì gli interessi della sua teoria: il rifiuto dell’elemento, per così dire, della scienza dello spirito, l’irrigidirsi sulla forma inespressiva. Sempre di nuovo ho sottolineato come tutti i problemi artistici siano problemi formali, ma, come già detto, problemi della forma ricolma di senso, non di quella svuotata di senso. Il concetto stesso di forma artistica viene dissolto se gli si sottrae il senso. La forma non è altro che il modo di darsi del senso. Su questo punto concordo (anche se non nell’uso dei termini) con Benedetto Croce, quando dice contro Wölfflin: «Il punto difficile è intendere che la forma è sempre espressiva, e insieme che l’espressione è sempre pura forma e pura bellezza, perché l’atto artistico converte la passione in contemplazione, e, a questo modo, ne fa cosa di bellezza. Forme inespressive, forme belle per se stesse, forme meramente plastiche o pittoriche sono cose di cui si può ben parlare, ma che non esistono se non come flatus vocis»40. Anche in questo caso, tuttavia, tutelando l’eredità di Fiedler, Wölfflin ha prestato un servizio imperituro alla scienza dell’arte, impedendo che sprofondasse nell’ambito meramente materiale o in quello meramente psicologico e fondandola anzi sullo studio oggettivo ed esatto dei suoi mondi formali. Resta il fatto che il problema del chiarimento concettuale e della sistematica concettuale sia stato posto con tale determinazione in primo piano. Il significato di questo fatto non viene sminuito nemmeno se si pensa ch’esso ha sollevato più problemi di quanti ne abbia risolti. Al contrario: tale capacità di generare domande dimostra proprio la sua fecondità. Abbozziamo brevemente le questioni focali che convergono qui, su questo centro massimamente vitale del movimento della scienza dell’arte degli ultimi tempi: una storia dell’arte anonima, come storia dell’arte, è possibile? È sufficiente una scienza dell’arte come pura scienza formale? Le categorie stabilite da Wölfflin sono davvero decisive? Sono valide solo per l’arco temporale da lui considerato oppure assolutamente? Si possono trasferire anche ad altre arti? Qual è il ruolo dell’individuo all’interno dello sviluppo dell’arte? Tutte queste domande sono diventate oggetto di un acceso dibattito. Tutta una grande letteratura ha avuto origine dal confronto con Wölfflin. 7. Dalla cerchia degli studenti diretti di Wölfflin, richiamiamo l’attenzione solo su Paul Frankl, che di certo mette in luce il problema formale nella ma39 Si veda quanto affermo nel mio libro Die Überwindung des Expressionismus, 1927 [Charakterologische Studien zur Kultur der Gegenwart, F. Enke, Stuttgart]. 40 La teoria dell’arte come pura visibilità [cit., pp. 233-234].

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niera più radicale41. A suo avviso lo storico dell’arte ha tutto il diritto di dire che la storia dell’arte in quanto scienza autonoma non sia una scienza dello spirito. Lo storico dello spirito, a sua volta, deve sostenere che la semplice compilazione delle discipline specifiche non è ancora scienza dello spirito. Lo storico dell’arte non ottiene nulla per la propria ricerca se costruisce lo sfondo storico-culturale in vista di una storia dello stile; non gli occorre questa scenografia. È bello, ad esempio, quando dalla storia dei dogmi, dalla scolastica, dagli ordini religiosi ecc. si attesta ciò che era stato ricavato dai crocifissi; se anche queste altre fonti affermassero qualcosa di diverso, ciò non sarebbe un motivo valido per titubare. Lo sviluppo della scultura non sarebbe dunque parallelo a quello della devozione, ciò che è ben possibile, dal momento che il ritmo dello sviluppo nei singoli ambiti dello spirito può essere diverso. Lo sviluppo immanente del modo di pensare può essere quindi dedotto dallo sviluppo di ogni singolo ambito dello spirito, in modo tale che, anche in questo senso, allo storico dell’arte non occorra oltrepassare i limiti del suo oggetto. Tuttavia, così, egli ottiene solo il riflesso della storia dello spirito, non la storia dello spirito in sé. Le singole parti tendono verso soluzioni complete. Secondo l’opinione di Frankl questa armonia è una costruzione storica, un semplice punto di riferimento, a partire dal quale divengono visibili le vere disarmonie dell’avvenimento. Gli “stati conclusivi”, finali, sono realizzazioni dell’armonia in ambiti specifici, mentre gli stati intermedi di transizione, ma anche quelli degli stili immaturi, sono disarmonie. Emerge un principio che viene fissato, e tutte le altre componenti stilistiche vengono ad esso assimilate, e precisamente in una successione che possiede una sua logica interna. Molti di questi normali sviluppi immanenti si sostengono a vicenda in rapporto alla trascendenza. Ciò che però per l’ambito estraneo è trascendente, nel proprio ambito è immanente, e così viene infine meno nell’insieme degli ambiti cosali specifici ogni trascendenza. È un’immagine seducente quella abbozzata da questo pensatore, e rincresce il fatto che il suo sistema della scienza dell’arte, a lungo meditato, non sia ancora disponibile42. Per il momento dobbiamo attenerci ad accenni che non sembrano completamente scevri da malintesi. Evidente è l’influsso di Wölfflin, evidente è lo sforzo di elevare l’arte dalla sfera del materiale, così come tenta di farlo Rudolf Odebrecht nella sua Fondazione di una teoria del valore estetico43 (1927), di recente pubblicazione; è evidente inoltre l’intenzione di difendere il diritto della logica interna. Il sostenitore della generazione più giovane rispetto a Wölfflin si rivela nella posizione assunta nei 41 Si veda Die Rolle der Ästhetik in der Methode der Geisteswissenschaft, in Dritter Kongreß für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Halle 1927 (Enke, Stuttgart). 42 [P. Frankl, System der Kunstwissenschaft, Rohrer Verlag, Brünn-Leipzig 1938; ora riedito: Gebr. Mann, Berlin 1998.] 43 [R. Odebrecht, Grundlegung einer ästhetischen Werttheorie, Reuther & Reichard, Berlin 1927.]

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confronti della scienza dello spirito. Wölfflin non nega la considerazione della storia dello spirito, ma le pone accanto la considerazione formale in quanto più urgente per la scienza dell’arte e propriamente fondante. Negli ultimi tempi esse sono rimaste tuttavia separate; forse collegate esteriormente con ponti di fortuna, tuttavia non riconosciute nel loro rapporto sistematico. Frankl ravvisa questo problema. Con ciò respinge ogni tentativo di risolvere la scienza dell’arte nella scienza dello spirito, restando fedele alla linea tracciata da Wölfflin: a cosa servirebbe la conoscenza della scienza dello spirito per comprendere lo “spirito” dell’opera d’arte? A confermarlo; altrimenti i conti non tornano. Ma in questo caso la colpa non deve essere imputata allo storico dell’arte, ammesso che egli abbia colto quello spirito effettivamente dal e nel modo di darsi dell’opera d’arte. È infatti un dogma accettare il fatto che tutti gli ambiti culturali debbano presentare un parallelismo pienamente contemporaneo. Forse un ramo artistico perviene al gotico puro prima di un altro; forse lo spirito della devozione artistica è confrontabile con uno spirito che comparirà nella religione solo successivamente44. Sul proprio senso spirituale decide quindi solo l’opera d’arte. Ci occorrono prestiti da altri ambiti solo laddove emergono perturbazioni nella logica interna. Tuttavia questi momenti trascendenti sono a loro volta da interpretare come immanenti ai propri ambiti. Posso ben concordare con questi acuti ragionamenti, senza star qui a preoccuparmi del rischio che una troppo rigorosa messa in pratica dovrebbe avere un effetto opprimente, dal momento che il sistema concettuale a maglie larghe rimarrebbe troppo distante dalla singola opera d’arte, ricavando con ciò troppo poco da essa. Tuttavia questi metodi d’applicazione non sono in discussione in questa sede. Altro ci da dà pensare. Vorrei provare a dimostrare questo punto mediante un esempio: un’opera d’arte rivela o una disciplina zelante, oppure un’enorme audacia. Studio dunque la personalità dell’artista, che probabilmente è o zelantemente disciplinato oppure enormemente audace. Probabilmente, però, al di fuori della sua attività è estremamente pigro e pauroso. Ma con ciò quelle qualità artistiche vengono contraddette, oppure il loro aspetto è degradato? Certamente no. Allora Frankl sembra aver pienamente ragione. Se però voglio accertare perché in questo preciso momento storico fu possibile proprio quest’opera, allora quello stato di cose non è più indifferente. A tale scopo non ho certamente bisogno di tracciare degli sfondi storico-culturali, no, devo però sapere, come mai l’artista pervenne a queste qualità. È possibile che esse rientrino nel percorso della logica puramente artistica, ma allo stesso modo che esse siano state ottenute in virtù di uno strato di essere completamente diverso. Potrei forse rinunciare a queste indagini, però molti aspetti rimarrebbero oscuri. E sarebbe solo una magra consolazione credere che queste oscurità non riguardino affatto lo storico dell’arte. 44 Si veda l’interessantissimo scritto di W. Worringer, Griechentum und Gothik. Vom Welt-

reich des Hellenismus, 1928 [Piper, München].

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Faccio nuovamente un esempio semplice, triviale: colui che scrive la storia delle ferrovie può anche seguire in tutto e per tutto il percorso di una logica naturale. Crescono le misure di sicurezza degli impianti, la velocità, i comforts, ecc. Poi sopraggiunge un contraccolpo: esso si lascia spiegare ad esempio a causa di una guerra che costringa per molti anni alla parsimonia più estrema; oppure, in virtù di un cambiamento dell’utenza in seguito all’introduzione di altri mezzi di trasporto (automobile, aereo), la ferrovia viene costretta a particolari servizi ecc. Questi sarebbero i fattori perturbanti (o anche stimolanti) che non potrebbero essere calcolati in anticipo e che per così dire condizionerebbero le intromissioni dell’elemento culturale. Ma in fondo questo elemento è sempre presente, solo che può essere ignorato o eliminato in quanto fattore – entro determinati limiti – costante. Se l’aspirazione alla civilizzazione non fosse relativamente simile in determinate epoche, allora in quest’ambito specifico sarebbe escluso uno sviluppo immanente. In tal modo però esso non viene né ostacolato, ma nemmeno stimolato. La ferrovia può tuttavia precedere nella corsa lo “sviluppo”, nel caso in cui ad esempio in regioni deserte si provveda alla costruzione di linee ferroviarie per creare prima di tutto il traffico. Qui dunque non ci sarebbe alcun parallelismo, ma sarebbero innanzitutto le condizioni sociali a doversi adeguare alla ferrovia. Quest’ultima sarebbe espressione di uno sforzo, che si estenderebbe solo gradualmente agli altri ambiti. Tale sforzo potrebbe anche essere rifiutato dagli altri ambiti, di modo che la ferrovia verrebbe infine abbandonata. Si può ipotizzare anche il caso opposto: la ferrovia è rimasta ad un gradino di sviluppo inferiore e non soddisfa più le esigenze che le erano state poste. Non possiamo sfruttare troppo questo esempio, ma una cosa ne può essere dedotta con certezza: da tecnico, posso comprendere – per così dire – la ferrovia dal punto di vista immanente, ma non posso comprendere lo sviluppo fattuale della ferrovia. Ora, per quel che riguarda la scienza dell’arte, il suo rapporto con la scienza dello spirito – è sufficiente che io rinvii semplicemente a ciò che è già stato detto – è ancora più intimo: dobbiamo solo ricordarci il problema della forma ricolma di senso nello strato d’essere, per spingerci oltre i confini di una logica meramente artistica. Ciò diverrà ancora più chiaro con le osservazioni successive, poiché la grande questione suona infatti: conservare l’autonomia della scienza dell’arte mantenendo un atteggiamento positivo nei confronti della scienza dello spirito. Oppure, come dice Max Dessoir45: «Afferrare l’arte nel suo contenuto permanente e fondarla nell’ambito della sistematica della scienza dello spirito, è ancora un compito irrisolto». 8. Wölfflin, Frankl ecc. e la storia dello spirito hanno in comune il fatto che nel decidere fra persona e cosa stanno dalla stessa parte, ovvero dalla parte 45 Kunstgeschichte und Kunstsystematik, Congresso di Halle 1927 [in Beiträge, cit., p. 58].

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della cosa46. Walter Strich47 definisce a ragione la scienza dello spirito degli ultimi decenni come una fisiognomica ampliata, il cui presupposto fondamentale era l’atteggiamento nei confronti dell’espressione. E in modo esageratamente radicale Spengler afferma: «Tutto quanto è divenuto, tutto quanto è fenomenico, è simbolo, è espressione di un’anima. […] Ogni epoca, ogni grande figura, ogni divinità, ogni città, ogni nazione, ogni arte, […], costituisce un tratto fisionomico di alto valore simbolico». Quanto più un uomo è impostato in senso storico, quanto più tutto ciò che egli concepisce e comunica assumerà un carattere fisiognomico. «Fra cento anni tutte le scienze ancora possibili sul nostro suolo saranno tanti capitoli di un’unica, immensa fisiognomica abbracciante tutto quanto è umano»48. Divinizzare la vita, celebrare l’irrazionalità in modo assoluto, trasformare l’elemento oggettivo in mera espressività – era espressionismo. In questo modo, della filosofia – come sono solito dire – rimase una caratterologia fisiognomica, in un certo senso come ultima obiettività dopo il crollo di tutte le altre. Ciò che, così, la filosofia perse, lo guadagnò la caratterologia; sebbene, in quanto autonoma disciplina specifica, potesse essere difficilmente scoperta, rappresentava tuttavia un sostituto generale della filosofia49. Quando Dilthey nel suo L’origine dell’ermeneutica50 (1900) definisce il “comprendere” come un processo in cui noi riconosciamo, a partire da segni che sono dati esteriormente in modo sensibile, un elemento interiore, ciò era inteso in senso fisiognomico, in quanto vita che comprende vita51. Quando oggi Spranger52 parla di “comprendere”, intende «ampie connessioni di senso», «senso sovraindividuale, oggettivo», «spirito oggettivo», ecc. La svolta verso l’oggettivo diventa chiara. Con questa svolta diviene possibile il rapporto con la rigorosa scienza formale, che sta interamente sotto il segno dell’oggettivo. L’orientamento – diciamo – fisiognomico si ancorava invece specialmente ai concetti di espressione e di vissuto. L’opera d’arte deve essere compresa a partire dal “vissuto” decisivo. Già nel celebre saggio di Dilthey L’immaginazione del poeta si trova formulato il pensiero, secondo cui «l’arte creativa e il gusto 46 Si veda E. Everth, Individualität und Geistesgeschichte, in «Jahrbuch der Charakterologie»,

4, 1927. 47 W. Strich, Wesen und Bedeutung der Geistesgeschichte, «Dioskuren», 1922. [«Die Dioskuren. Jahrbuch für Geisteswissenschaften», 1]. 48 [O. Spengler, Il tramonto dell'Occidente: lineamenti di una morfologia della storia mondiale (1918-22), ed. it. a cura di R. Calabrese Conte et al., introd. di S. Zecchi, Guanda, Parma 1991; Utitz fonde insieme più citazioni diverse, tratte dalle pp. 166, 248, 164.] 49 Si veda il mio libro Die Überwindung des Expressionismus, 1927 [cit.]. 50 [W. Dilthey, L’origine dell’ermeneutica (1900), trad. it. in «Rivista di Estetica», 18/1, 1973, pp. 5-33; ristampato in M. Ravera (a cura di), Il pensiero ermeneutico. Testi e materiali, Marietti, Genova 1986, pp. 172-198.] 51 Si veda A. Stein, Der Begriff des Verstehens bei Dilthey, 2. Aufl., 1926 [Mohr, Tübingen]. 52 [E. Spranger, Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Niemeyer, Halle 1921.]

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capace di un corrispondente sentire» si corrispondono a vicenda e sono dominati dalle stesse leggi. «Il processo primario è il creare. La poesia ebbe origine dall’impulso ad esprimere un vissuto, non dal bisogno di occasionare l’impressione poetica. Ora, ciò che è plasmato in base all’emotività eccita di nuovo l’emotività, e più precisamente nello stesso modo sebbene con minor intensità. Quindi il processo interno al poeta è affine a quello interno al suo ascoltatore o lettore. Il collegamento di certi processi psichici in cui è nata una poesia è simile per componenti e struttura a quello che esso suscita poi all’ascoltatore o al lettore»53. Ma è chiaro che il concetto di vissuto, così come dice Willi Drost54, conduce dall’opera d’arte al soggetto fruitore, spostando il punto focale dalla morfologia alla psicologia. Il concetto di vissuto conosce in realtà solo l’artista e il fruitore – dunque la “vita” artistica. L’opera d’arte non è che l’elemento mediatore tra il vissuto dell’artista e il fruitore. Ma a prescindere da ogni critica approfondita, che presentai nel mio secondo volume Fondazione della scienza generale dell’arte55, veniamo a conoscenza di ciò che riguarda l’artista solo tramite l’opera d’arte. La sua oggettività sta dinnanzi a noi. L’opera d’arte ci parla. E i più profondi e sublimi vissuti dell’artista non ci servirebbero a nulla, se non fossero penetrati nella forma dell’opera d’arte. Questa è dunque la cosa decisiva, che prescrive anche il «godimento artistico adeguato», senza far ipotesi su ciò che può aver esperito l’artista. I rapporti del suo vissuto con l’opera d’arte sono in ogni caso tanto più complicati di quanto si poteva credere ancora poco tempo fa. Con il “vissuto”, dunque, veniamo rinviati soltanto all’opera d’arte stessa in quanto punto focale vero e proprio. In questo concetto di “vissuto” – sulla cui origine naturalistica si è spesso richiamata l’attenzione – è già racchiuso il concetto di espressione: l’opera d’arte esprime il vissuto; in questa prestazione fisiognomica sta il suo valore. Così come i grandi sistemi filosofici, anche l’arte deve infine essere espressione di una determinata spiritualità. Simmel una volta lo ha espresso così in filosofia: non è la coincidenza (come che la si voglia intendere) con un “oggetto” ad essere messa in discussione nelle considerazioni filosofiche, bensì il fatto che queste rappresentavano l’espressione adeguata per l’essere del filosofo stesso, per il tipo umano che viveva in lui – sia che circoscriva una determinata categoria di individui, sia che costituisca in una qualsiasi misura l’elemento esistente in ogni individuo56: «Il principio infatti con cui ogni singolo pensatore unifica il mondo, dipende evidentemente

53 [W. Dilthey, L’immaginazione del poeta (1887), in Id., Estetica e poetica. Materiali editi e

inediti (1886-1909), a cura di G. Matteucci, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 77-224, qui pp. 171 e 173-174.] 54 Form als Symbol, relazione al Congresso di Halle, 1927 [W. Drost, Form als Symbol. Strukturen des Kunstwerks und ihre Deutung, Bde. 1 u. 2, Univ.-Verlag, Siegen 2003]. 55 [Cit.] 56 Si veda il necrologio che ho dedicato a Simmel nella «ZÄK», 16, 1919.

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dal suo carattere, dal suo essere, dal suo pensiero»57. La stessa cosa vale per l’artista. In questo Simmel prende le distanze dal concetto di “vissuto” di Dilthey. Gli rimprovera che con tale concetto la genesi dal milieu e del modello non sia in linea di principio superata, bensì solamente affinata dal punto di vista soggettivo. Anche dal vissuto non nasce infatti direttamente alcun collegamento alla spontaneità artistica. In rapporto a quest’ultima anche il vissuto è qualcosa di esteriore, anche se entrambi giocano all’interno dell’ambito dell’Io. La possibilità di collegamento consiste nel fatto che il processo vitale con il suo carattere perseverante, la sua intenzione e il suo ritmo, agisce in quanto presupposto comune e in quanto conferimento di forma sia per il vissuto che per l’attività (artistica). «Esiste forse una generalissima formula dell’essenza, diversa per ogni individuo, non afferrabile tramite concetti, secondo cui vengono determinanti i processi psichici individuali: l’assunzione del mondo nell’Io nel vissuto e a sua volta il fuoriuscire dell’Io nel mondo nella creatività»58. Qualsiasi forma di naturalismo artistico era del tutto inconciliabile con queste teorie, giacché l’arte non imita niente. E nulla sarebbe più errato di una proiezione su un sistema di riferimento del genere. L’arte ottiene la sua oggettività in quanto pura espressione di concezioni ultime sulla vita e sul mondo. Se l’anatomia e la prospettiva vengono abbandonate al servizio di tale espressione, è cosa che può decidere solo l’espressione stessa. Muovendo da quest’ultima bisogna esaminare la necessità della configurazione formale. Tale configurazione diviene comprensibile a partire dalle concezioni sulla vita e sul mondo. In stretta relazione con Dilthey, Hermann Nohl59 predica una concezione degli opposti stilistici in quanto confronti, diversamente possibili, dell’uomo con il mondo sul terreno dell’intuizione. Dinnanzi ad un unico mondo visibile vediamo gli artisti – non solo i pittori – assumere tre diversi punti di osservazione, che affondano le loro radici da ultimo in un triplice sentimento metafisico della realtà e che conducono a tre configurazioni dell’immagine del tutto diverse, di cui ognuna, organizzata diversamente fin nei particolari, possiede una propria estetica. Ogni cambiamento stilistico diviene dunque un segno che i nuovi momenti della vita, che finora nella formazione non erano giunti all’attività e all’espressione, si attivano. Il significato dell’opera di Dilthey può difficilmente essere sopravvalutato; la sua fecondità è dimostrata, in modo simile a quella dei concetti fondamentali di Wölfflin, da una letteratura che ormai non si può più dominare. Dilthey è il fondatore della psicologia della moderna scienza dello spirito; egli ha conferito alla ricerca della scienza dello spirito in generale lo sti57 [G. Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici (1918), a cura di F. Sternheim, intr. di A. Banfi, Bompiani, Milano 1938, p. 41.] 58 [G. Simmel, Das Verhältnis von Leben und Schaffen bei Goethe, in «Der Tag. Moderne illustrierte Zeitung», 150, 22. März 1912, pp. 1-3, e 152, 23. März 1912, pp. 1-2.] 59 H. Nohl, Stil und Weltanschauung, 1920 [Diederichs, Jena].

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molo più importante. La sua incomparabile maestria nella comprensione storica, la sua sensibilità scientifica e l’eccellente arte del suo linguaggio lo preservarono anche dai deragliamenti, cui le sue intuizioni puramente teoretiche si prestano. Egli appare affine a Wölfflin anche per il fatto che, nella pratica della ricerca, era in un certo qual modo più progredito che non nella teoria. Se le singole culture sono state trasformate per così dire in isole chiuse in sé stesse; se la suddivisione tipologica è diventata alla fine un piacevole passatempo, che si sottrae alle responsabilità ultime, perché procede sempre con un “tanto quanto”: così facendo non si è certo operato nel senso di Dilthey. Si è dimenticato troppo spesso – come ad esempio proprio Dilthey stesso e Nohl abbiano tentato con grande serietà – di svelare i principi fondamentali della suddivisione tipologica, rendendo in tal modo comprensibile la loro necessità. Entusiasmati all’idea di illuminare la peculiarità delle singole culture, si è inoltre dimenticato spesso che il fattore sovratemporale appartiene sempre all’essenza della cultura, e l’unità della cultura alla molteplicità delle sue espressioni. L’accentuazione eccessiva delle differenze si è mostrata proprio in tutti gli ambiti. Se un tempo, ad esempio, si considerava erroneamente il bambino come un adulto in miniatura, ora si accentuava la differenza a tal punto che diventava incomprensibile come mai il bambino potesse divenire un adulto. Se un tempo si immaginava che il primitivo avesse la nostra propria mentalità, ora gli si attribuivano un pensiero e un sentimento per noi inaccessibili. Gli specialisti della psicologia dei popoli si stanno attualmente sforzando di limitare nella giusta misura queste accentuazioni eccessive. Non si può però praticare la storia dell’umanità senza presupporre l’unità dell’umanità stessa, così come non si può praticare la scienza dell’arte e della cultura senza presupporre l’unità dell’arte o della cultura. Unità che certamente non rappresentano semplicità, bensì non solo ammettono, ma anche esigono incessantemente infinite variazioni nelle loro realizzazioni effettive. Continua a sorprendere come proprio gli eloquenti sostenitori di quelle differenze totali si attribuiscano la capacità di comprendere le culture e gli stili artistici più diversi, mentre spesso – pur riconoscendo pienamente un’affinità fondamentale – si incontrano proprio le difficoltà più grandi nel comprendere a fondo il comportamento del nostro prossimo: da un lato dunque una limitazione teoretica, dall’altro però, nella pratica, una minimizzazione di quelle riflessioni teoretiche. Entrambe in realtà per lo stesso motivo: per via di una filosofia della vita che ha cancellato ogni pura oggettività, ma che ha creduto la sua intuizione ed empatia capaci di ogni miracolo. Ora è importante stabilire come proprio nelle concezioni della teoria dell’arte di Simmel oppure di Nohl diventi chiara la svolta verso l’oggettività. Quando Simmel si rivolge contro il mero “vissuto” e pretende il vissuto artistico, intende un vissuto che stia però sotto la legalità dell’arte. Su questa strada viene introdotto il problema formale dell’arte. E per Nohl si tratta sempre di legalità delle intuizioni. Con ciò la pura teoria dell’espressione viene abbandonata. Qui viene già imboccata la strada, dalla cui

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cuzione Oskar Walzel60 si augura di raggiungere l’obiettivo di mettere a frutto, collegandole reciprocamente, le conoscenze di Dilthey e Wölfflin. «Dilthey resta più vicino al contenuto espressivo, Wölfflin alla forma espressiva. […] Si tratta di considerare l’elemento spirituale in quanto presupposto della forma dell’opera poetica, la forma dell’opera poetica in quanto espressione del suo contenuto spirituale». Lo stesso Walzel tende ancora ad un eclettismo raffinato incline a collegare diversi orientamenti. L’ultima decisione deve però cadere in uno strato che stia al di là della scissioni fra questi orientamenti. 9. Abbiamo già avuto modo di conoscere i dubbi fondamentali riguardanti un atteggiamento della teoria dell’arte orientata alla scienza dello spirito. Essi sono relativi al timore che la scienza dell’arte venga annullata in quanto scienza dell’arte. Anzi, dirò di più: come Frankl, Friedrich Kreis61 sostiene che la Weltanschauung di una certa epoca, anche se è precipitata nell’arte della stessa epoca, non permette di trarre alcuna conclusione diretta sulla configurazione dell’espressione stilistica. Come esempio concreto rimanda al libro di Werner Weisbach, Il Barocco come arte della Controriforma (1921)62, che tenta di risolvere i problemi formali dello stile barocco con l’aiuto di una prospettiva orientata alla scienza dello spirito. «Deve però ammettere che la struttura formale di un determinato stile possa ricollegarsi ai più diversi complessi ideali. Dal punto di vista stilistico, dunque, all’interno del Barocco non c’è, in linea di principio, alcuna differenza essenziale tra arte protestante e cattolica». Da questa osservazione Kreis trae dunque la conclusione, di ampia portata, che «non ci si dovrebbe veramente più attenere»63 all’univoca correlazione tra stile e contenuto della visione del mondo. Lungi da me mettere alla prova le concezioni di Weisbach. Ma anche il più entusiasta rappresentante di una metodica della scienza dello spirito non può certo aspettarsi quel risultato univoco solo prendendo le mosse da “complessi ideali”. Egli includerà nella concezione della vita e del mondo anche tutti i momenti nazionali, culturali, geografici, scoprendovi certamente differenze tra il Barocco meridionale e quello nordico. Ma anche ammesso che la differenza tra arte protestante e arte cattolica non si manifesti in un fenomeno stilistico, che cosa prova tutto ciò? Si pretende forse che tutte le differenze di questo genere debbano diventare problemi formali artistici? No, come non si pretende che ogni elemento psichico debba esprimersi fisiognomicamente. Resta dunque soltanto da chiedersi, 60 Gehalt und Gestalt im Kunstwerk des Dichters, 1923 [Athenaion, Berlin-Neubabelsberg, p.

15].

61 Der kunstgeschichtliche Gegenstand, 1928 [sottotitolo: Ein Beitrag zur Deutung des Stilbegriffes, Enke, Stuttgart]; si veda anche il suo Die Autonomie des Ästhetischen in der neueren Philosophie, 1922 [Mohr, Tübingen]. 62 [Der Barock als Kunst der Gegenreformation, Cassirer, Berlin, 1921.] 63 [Fr. Kreis, Der kunstgeschichtliche Gegenstand, cit., p. 35.]

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perché alcuni elementi psichici si manifestino fisiognomicamente e altri no. È probabile che quello stile sia radicato in una profondità della storia dello spirito che è ancorata nello specifico elemento cristiano relativo al modo di darsi dell’epoca, al di là della differenza confessionale che, probabilmente, determina solo leggere sfumature. Non voglio certo sostenere questo, ma ritengo che la conclusione di Kreis sia comunque precipitosa. Tutti sappiamo già (e lo sa bene anche Kreis) che le relazioni non sono affatto così semplici – da un lato la concezione del mondo, dall’altro la formazione dell’arte, e tra le due un rapporto univoco. Dobbiamo però venire in chiaro sul fatto che la concezione del mondo non si esprime di certo solo nell’arte, bensì che l’arte stessa è concezione della vita e del mondo, e che dunque l’arte contribuisce a determinare tale concezione della vita e del mondo. Già per questo motivo non ci si può aspettare un parallelismo alla lettera tra i diversi orientamenti delle concezioni della vita e del mondo. Volerlo estorcere significa far violenza alla storia. Dobbiamo ipotizzare fiduciosi che questi orientamenti di un’epoca non procedano semplicemente in parallelo. Per questa ragione sono ben possibili una reciproca chiarificazione e delucidazione. Del resto, interpretare un’opera d’arte dal punto di vista della scienza dello spirito non significa – e questo mi pare il punto più importante – andare fondamentalmente oltre l’opera d’arte: non possiamo infatti cogliere lo spirito dell’opera d’arte altrimenti che nella sua forma. Ma il motivo per cui questo elemento spirituale in questo momento è dominante, non ce lo può più insegnare l’opera d’arte, e nemmeno una mera analisi dei cambiamenti formali; bensì il fatto che tra tutti i cambiamenti formali sistematicamente possibili nella realtà si realizzino proprio questi, e non altri, dipende da momenti che solo una considerazione della scienza dello spirito consente di determinare univocamente. Pensiamo a una partita a scacchi. Ipotizziamo che in una certa situazione siano oggettivamente possibili tre o quattro mosse. Può però darsi una mossa, anche “non oggettiva”, non contemplata in quelle possibilità: essa sembra dettata dalla paura o da un’audacia temeraria. Tra le possibilità oggettivamente date viene forse scelta quella che corrisponde maggiormente alla convenzione dell’epoca. La logica pura degli scacchi è solo un caso ideale, intersecato sempre di nuovo da altri momenti. Non per questo la partita a scacchi deve diventare illogica; il suo sviluppo storico effettivo potrebbe però anche svolgersi diversamente, in ragione di motivi puramente immanenti. Non si capisce quindi perché si dovrebbero sollevare obiezioni in linea di principio su lavori meritevoli quali, ad esempio, quello di Rudolf Unger64. Secondo Unger sono soprattutto i problemi basilari della vita umana, le grandi, eterne questioni enigmatiche e vitali dell’esistenza, la cui interpretazione formativa costituisce il nucleo centrale di ogni poesia, e la cui raffi64 Si veda ad esempio Literaturgeschichte als Problemgeschichte, 1924 [sottotitolo: Zur Frage geisteshistorischer Synthese mit besonderer Beziehung auf Wilhlem Dilthey, Deutsche Verlagsges. f. Politik und Geschichte, Berlin].

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gurazione e sviluppo sono da studiare sistematicamente nella belletristica, in conformità alla ricerca dei problemi letterali. La storia della letteratura diventa così storia dello spirito. L’estrapolazione del contenuto di senso delle poesie diventa il compito specifico del modo di osservare della storia dello spirito applicato alla storia della poesia, con particolare riferimento al livello di coscienza del momento dello spirito generale e al suo riflesso nelle limitrofe regioni ideali della religione e della filosofia. «I livelli di coscienza dello spirito generale si determinano secondo la posizione, storicamente mutevole, degli stessi in relazione ai problemi fondamentali dell’intera vita spirituale, quelli dell’intuizione del mondo e della vita oppure quelli metafisici». I problemi metafisici originari riguardano l’uomo nella sua interezza, la vita interiore nella sua globalità. A riguardo, è necessario celebrare le possibilità dei vissuti e delle configurazioni poetiche «non solo in base al loro contenuto ideale, ma anche alla loro configurazione formale artistica, aspetti indissolubilmente correlati, e che anzi sono in fondo una cosa sola». È qui il collegamento con la direzione dell’indagine di Wölfflin e dei suoi allievi. Oggi Unger non è più solo: una nutrita schiera di storici della letteratura segue il suo esempio65. Questo metodo, che ha origine nel campo della filosofia, influisce a sua volta su quest’ultima66. Non c’è dubbio che solo così diventi infine possibile una storia generale dello spirito. Certo, tutte le sue difficoltà metodologiche non sono ancora risolte (il motivo euristico dell’unitarietà degenera facilmente in un opprimente impoverimento della pienezza storica, e osserva troppo poco le diverse possibilità delle polivoche legalità, di cui abbiamo già parlato e di cui parleremo ancora), ma la ricerca procede spedita, e può già vantare risultati significativi. Questa forma di storia generale dello spirito non è però scienza dell’arte; le varie discipline storico-artistiche vengono al contrario asservite a quel compito che di per sé trascende l’arte. La posizione del problema storico-artistico inizia, come rileva giustamente Unger, soltanto laddove «i livelli di coscienza dello spirito generale» intervengano in maniera decisiva nella configurazione formale dell’opera d’arte, e sembrino dunque chiamati a chiarire il linguaggio formale dell’arte. Il fatto che questi lavori possano già mostrare considerevoli successi è indiscutibile. In ogni caso: si vede facilmente che non si tratta di cogliere l’intero problema formale dell’arte a partire da questo aspetto. Quel metodo potrà dimostrarsi tanto più fecondo, quanto più chiaramente diventi consapevole dei propri limiti. Pensiamo alla nostra lingua: essa, in quanto è questa determinata lingua, rimane sempre legata alla sua specifica legalità. Se abbandoniamo quest’ultima, rinunciamo alla lingua. Perché un qualunque livello di coscienza possa diventare efficace dal punto di vista artistico, deve 65 Si veda O. Benda, Der gegenwärtige Stand der deutschen Literaturwissenschaft, 1928 [Hölder-Pichler-Tempsky, Wien]. 66 Si veda Fr. Kainz, Strukturen und Typen der Kunsteinstellungen, in «Reichls Philosophischer Almanach», 4, 1927.

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penetrare nella legalità dell’arte. Per fare un esempio di tutt’altro tipo: stabiliamo che il marmo sia un materiale artistico. Non siamo interessati, però, al marmo in sé, bensì alla sua caratterizzazione artistica. E questa la riconosciamo solo a partire dall’essenza dell’arte. Di certo non siamo in grado di render comprensibile, a partire dall’essenza dell’arte, il fatto stesso che esista il marmo e quali caratteristiche esso abbia. Ora, queste sue qualità diventano determinanti per l’arte del marmo, ma solo quelle artisticamente possibili. Questo stato di cose si complica ulteriormente nel caso dei problemi relativi alla storia dello spirito. Qui infatti non si tratta solo della possibile valenza artistica di certi contenuti spirituali di senso, bensì della realtà storica di un dato stato dell’arte. Ci imbattiamo quindi nella stessa questione dell’unificazione sistematica di senso e forma. Una storia dello spirito artistico e una storia della forma artistica, che si completino a vicenda affiancandosi serenamente l’un l’altra e che possano essere aggiustate da un “tanto… quanto”, sono impossibili. La storia della forma artistica perde la sua necessità concreta senza storia dello spirito, e la storia dello spirito perde l’elemento artistico senza scienza della forma. Non solleva, dunque, la circostanza che in indagini diverse debbano aver luogo i più diversi spostamenti d’accento, cosa che rappresenta il problema sistematico della posizione in cui ci si colloca. 10. DvoĜák cerca di conciliare queste istanze, portando a compimento la svolta in direzione della «storia dell’arte come storia dello spirito»67. Friedrich Kreis definisce questa svolta «qualcosa di totalmente nuovo, poiché non contiene una rinuncia alle conquiste metodologiche dell’analisi formale in favore di un generale modo storico-culturale di considerare l’arte, ma non costituisce nemmeno una ricaduta nella concezione stilistica costruttiva di provenienza metafisica o psicologica»68. Già nel 1920 DvoĜák spiega: «L’arte non consiste solo nella soluzione e nello sviluppo di compiti e problemi formali; essa è anche, sempre e in primo luogo, espressione delle idee che dominano l’umanità, e la sua storia – così come la storia della religione, della filosofia o della poesia – è parte della storia generale dello spirito»69. Otto Benesch70 pone in evidenza l’influsso decisivo esercitato su DvoĜák, a riguardo, da Dilthey e Rickert. Dagobert Frey, in un eccellente studio

67 Studien zur abendländischen Kunstgeschichte, 1924 [M. DvoĜák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte. Studien zur abendländischen Kunstentwicklung, Piper, München; ora riedito, Gebr. Mann, Berlin 1995]. 68 [Fr. Kreis, Der kunstgeschichtliche Gegenstand, cit., p. 38.] 69 [M. DvoĜák, Über Kunstbetrachtung, Vortrag gehalten am Denkmalpflegetag, Bregenz 1920.] 70 «Repertorium für Kunstwissenschaft» 44, 1924 [Max DvoĜák: Ein Versuch der historischen Geisteswissenschaften, pp. 159-197].

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intitolato La posizione di Max DvoĜáks all’interno della storia dell’arte71, delinea il contesto: ricollegandosi a Max Dessoir, mostra come, per quanto concerne il concetto di “stile”, non possa più trattarsi di definire un determinato genere artistico formale, bensì di stabilire determinate tendenze e linee guida delle «forme in serie» artistiche, di cui si deve svelare il principio formativo. La via all’opera d’arte, però, la si può trovare soltanto, riallacciandosi in special modo alla conquista di Riegl, se, «in opposizione ad una spiegazione positivistica della storia dello sviluppo artistico a partire da circostanze esterne, come accade nella teoria del milieu di Taine o nella spiegazione tecnologica di Semper, fosse data nel concetto di “Kunstwollen” una spiegazione basata su principi configurativi interni». Non possiamo ricadere nella formulazione scientifico naturale-psicologica, che per sua stessa essenza si occupa di un’interpretazione teleologica del senso. In riferimento a quei rapporti DvoĜák poté stupirsi di «quanto poco si sia detto, nella sterminata letteratura del secolo scorso, sulle opere d’arte ivi trattate. Si parlò di tutto tranne che della cosa più importante, vale a dire dei cambiamenti dei presupposti e dei fini artistici, di ciò che rende l’arte arte, della lotta incessante per venire a capo dei problemi artistici, dell’evoluzione, molteplice e tuttavia unitaria, dell’arte». Solo in seguito oggetto dell’indagine divenne per lui, al posto delle forme artistiche, la spiritualità che in esse e tramite esse si manifesta. La storia dell’arte diventa così storia dello spirito, senza comunque abbandonare l’analisi formale, dal momento che quella spiritualità si dischiude solo nelle forme. «Questo inquadramento è però fondamentalmente diversa da quello della storia della cultura nell’epoca di Burckhardt, a partire dalla quale Wickhoff e Riegl, con la loro attività pionieristica, avevano elaborato la scienza dell’arte. La sintesi non consiste nel comporre, a mo’ di mosaico partendo da diverse forme fenomeniche sintomatiche, l’immagine di un’epoca, e neanche nel collegare i fenomeni contemporanei […] di ambiti espressivi differenti secondo meri rapporti analogici […], bensì nel ricondurre tutti i fenomeni ad una causa efficace comune, e ad una comune categoria superiore che abbracci le diverse categorie. Ma con ciò anche tutti gli ambiti parziali mantengono, nell’oggettualità della loro indagine, nella loro metodica, nel significato assoluto dei loro risultati, una completa autonomia. Essi si saldano in un sistema universale soltanto nelle tendenze dell’indagine orientate nella stessa direzione, nello stesso atteggiamento rispetto al concetto, logicamente e causalmente sovraordinato, di una potenza spirituale agente, vettore di tutte le attività umane». In questo modo, l’immanenza viene trasferita dal cambiamento formale dell’arte a quella totalità spirituale. Anzi, «l’immanenza diventa una componente essenziale della definizione di questo principio spirituale e finisce per coincidere con esso. Con questo principio si è ottenuta la massi71 «Jahrbuch für Kunstgeschichte des kunsthistorischen Instituts des Bundesdenkmalam-

tes», 1.

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ma unità dell’oggetto dell’analisi di cui sia capace la scienza storica, senza invadere il campo della metafisica». Anche in questo caso continuano a mescolarsi punti di vista logici e psicologici, che non sempre vengono ben distinti. Quel principio originario viene inteso talora come legalità, talaltra, allo stesso tempo, ancora come sostanza agente. Quest’ultimo punto di vista è certamente da respingere, poiché esigerebbe (impiegato ad esempio nel campo della caratterologia) che, né più né meno che dietro o oltre la necessità logica, ci fosse ancora un carattere originario inteso come causa determinante. Ora però, come stanno le cose riguardo all’asserita immanenza? Che tutte le estrinsecazioni caratterologiche debbano essere immanenti al carattere, non c’è bisogno di dimostrarlo. Ma anche tutte le estrinsecazioni artistiche sono immanenti all’arte. Non di questo, dunque, si sta qui parlando. Piuttosto, si intende che tutti gli sforzi personali vanno compresi solo a partire dalla totalità del carattere, o, spingendosi ancora più in là: come stadi necessari del suo dispiegamento. Ora, per quanto riguarda il primo punto, io stesso ho già fatto ampiamente riferimento alla polivocità di ogni singolarità caratterologica come presupposto fondamentale di tutte le indagini caratterologiche72. Altrettanto però ho fatto riferimento al fatto che il singolo “comportamento” possa esser definito solo in virtù di quella dipendenza dalla personalità e del condizionamento esercitato dall’“ambiente” (nel senso più ampio del termine). A riguardo, gli accenti possono variare infinitamente, dischiudendo così le più diverse possibilità, da un comportamento quasi esclusivamente endogeno ad uno pressoché esogeno. Ma se introduciamo il fattore “ambiente”, dal punto di vista della personalità lo svolgimento del suo sviluppo effettivo è visibile solo entro certi limiti (e i limiti si spostano a seconda delle diverse personalità). Con ciò si restringe la validità del principio di immanenza. Ad uno sguardo retrospettivo, ovviamente, tutto diventa necessario. In questo ambiente, destino ecc., siffatta personalità non poteva dispiegarsi altrimenti. Ma questa necessità non può essere intesa come un’immanenza semplicemente da calcolare in anticipo: l’attenta considerazione di tale necessità, al contrario, diventa un mezzo importante e molto utile dell’indagine caratterologica. Riferiamo ora brevemente quanto detto alla teoria dell’arte: l’opera d’arte non può venir intesa soltanto (e sottolineo “soltanto”) come espressione del carattere generale di un’epoca. In questo caso la legalità dell’arte è, per così dire, l’“ambiente”, che ci viene incontro con le sue esigenze. Se non le si soddisfa, vengon meno i presupposti di qualsiasi oggettualità artistica. È certamente questo che intendono DvoĜák, Frey e i loro successori parlando dell’autonomia relativa dei singoli ambiti culturali. Il dislocamento dell’immanenza, però, non è la panacea. A prescindere dal fatto che la già discussa – diciamo – immanenza relativa dell’arte non viene in questo caso sufficientemente apprezzata, non si ottiene nemmeno una completa immanenza ge72 Si veda la mia Charakterologie, 1925 [Pan-Verlag Rolf Heise, Charlottenburg].

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nerale nel senso suddetto. Se anche essa fosse disponibile a tratti o addirittura sempre, tuttavia il ricercatore non metafisico non potrebbe affatto abbandonarvisi: dovrebbe invece esaminare sempre tutto l’intreccio delle legalità vigenti, per non correre il rischio di far violenza alla vitalità storica. 11. Ora, partendo da qui si finisce presto per interpretare tutte le forme artistiche come simboli. L’importanza di questo problema ha indotto l’ultimo Congresso di Estetica e scienza generale dell’arte a porre il concetto di “simbolo” al centro della discussione. Il lavoro presentato da Willi Drost s’intitolava direttamente: La forma come simbolo73, e non si propone di giungere ad una storia del vedere, bensì ad una storia dell’umanità nella sua interezza. Drost tenta di formulare in maniera puntuale questa posizione nel seguente modo: «Che cosa m’importerebbe che un’opera d’arte fosse lineare o pittorica, se non sapessi che l’uomo di una certa epoca ha simboleggiato se stesso nel lineare, e quello di un’altra epoca nel pittorico?». Tuttavia, qualsiasi cosa possa esser definita lo “spirituale”, esso dev’essere immanente alla forma. La forma dell’opera d’arte resta il punto di partenza di ogni indagine. Per un metodo che intenda il contenuto e la forma di un’opera d’arte come simbolo del confronto tra uomo e mondo, il mondo delle opere d’arte intuibile sensibilmente sta sempre in primo piano. «Solo penetrando con la massima precisione in tal mondo si può, sulla base dell’analogia tra sensibile e spirituale, penetrare nello spirito del creatore dell’opera e nella sua epoca». Porre come meta principale la comprensione approfondita dello spirito del creatore dell’opera e della sua epoca, però, è qualcosa che oltrepassa la pura scienza dell’arte; Drost addita perciò scopi ultimi che stanno al di fuori della sua storia dell’arte. Io concordo con lui e, a partire dalla mia Fondazione della scienza generale dell’arte, vado predicando che tutti i problemi artistici sono in ultima istanza problemi formali; altrettanto insisto però sul fatto che per illuminare queste forme si debba prendere in considerazione quell’elemento “spirituale”, perché altrimenti la forma appare priva di senso e, in ogni caso, il cambiamento formale generale non abbastanza comprensibile. Ora, è Ernst Cassirer ad elaborare un simbolismo generale74. A suo avviso, una filosofia rigorosamente critica non deve mirare alla semplificazione schematica della ricchezza e della pienezza che si presentano nelle varie direzioni principali della coscienza culturale, cercando di concentrarle in una forma generale; piuttosto, dobbiamo cogliere in concreto il modo particolare in cui all’interno di ciascun ambito il sensibile diventa vettore del senso, cercando di far vedere, nella loro determinatezza, le leggi fondamentali sotto cui tutti questi diversi processi della formazione stanno. Così facendo, 73 [Form als Symbol, cit.] 74 [Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (1923-29), trad. it. di E. Arnaud, La

Nuova Italia, Firenze 1987.]

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egli perviene ad una grandiosa filosofia delle forme simboliche. Per quanto riguarda lo specifico ambito dell’arte, egli può anche richiamarsi al fatto che il concetto di “simbolo” abbia guadagnato vistosamente in estensione. Solo che anche altri concetti sono andati incontro a tale dilatazione, come ad esempio il concetto di “stile”. Tutto divenne infine stilistica, e non si fece più distinzione tra il concetto storico di “stile” e le sue possibilità puramente sistematiche, a-storiche. Sono lieto che il restringimento, da me perseguito, del concetto di “stile” a effettivi rapporti storici, trovi ormai un suo seguito, e venga così eliminata una causa di abituali qui pro quo e fraintendimenti. Per la stessa ragione, non posso approvare quella dilatazione del concetto di “simbolo”. Il fatto che essa si stia ormai imponendo non significa nulla. Ogni concetto maneggevole tende a conquistare nuovi territori, perché è più facile ampliare quel concetto che porre in evidenza, tramite analisi scrupolose, le differenze di contro a tutte le affinità apparenti. Cassirer stesso non si sottrae certo a quelle analisi scrupolose che preservano il diritto specifico del particolare, e in realtà so di essere ampiamente d’accordo con lui. Tuttavia, in primo luogo non posso considerare come un vantaggio l’eliminazione della distinzione tra una vera e propria arte simbolica ed una non simbolica. I lavori di Richard Wagner, strutturati intorno a leitmotiv, sono da questo punto di vista simbolici, mentre non lo è una melodia di Haydn, Mozart o Busoni. In secondo luogo, con un pansimbolismo si favorisce un malinteso che ostacola ogni concezione autentica dell’arte. Dato che già il linguaggio comune è simbolico, si disconoscerà la peculiarità del linguaggio artistico se lo si intenderà come simbolico. Nel concetto di “simbolo” si annida, quasi inestirpabile, la rappresentazione della trascendenza, del rimando75. Si possono distinguere diversi generi di questa trascendenza, separando l’allegoria dal simbolo e dispiegando tutte le possibilità del simbolismo; tuttavia, non esiste concetto meno adatto a cogliere l’essenza dell’arte di quello di “trascendenza”. Il simbolismo penetra nell’arte come, certamente per aspetti del tutto diversi, l’elemento religioso o quello etico, ma nemmeno dal punto di vista religioso o etico è possibile giungere ad una comprensione dell’arte. In ogni caso, si è pericolosamente inclini a considerare l’opera d’arte come se fosse trasparente: essa simboleggia un’idea, è un simbolo della spiritualità dell’artista, dell’epoca, della cultura e così via. Tutti questi rimandi, però, vanno al di là dell’opera d’arte. Ne abbiamo già parlato diffusamente. L’allegria di una melodia non è affatto ciò a cui la configurazione dei suoni rimanda: piuttosto, “essa è” questa configurazione dei suoni. Non si tratta, infatti, di una qualche allegria non-musicale, bensì di quella musicale, che è data solo nei suoni e tramite i suoni. In un quadro di paesaggio il “bianco” non rinvia alla neve “reale” ch’esso simboleggia, bensì “è” la neve nel contesto di senso del dipinto. Questo, certamente, lo sa molto bene anche Cassi75 Si vedano le interessanti considerazioni di H. Freyer, Theorie des objektiven Geistes, 1923

[Teubner, Leipzig].

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rer, e proprio a lui, in quanto kantiano, si è schiuso tutto il significato del problema della forma come a pochi altri. Tuttavia, non si guadagna nulla mettendo insieme questo problema con quello del simbolo, manipolando il primo in modo tale che possa includere il secondo. Si deve invece tentar di sviluppare il problema della forma nel suo ambito di senso, e solo allora chiedersi come l’elemento simbolico si rapporti all’elemento propriamente artistico. Com’è che quella trascendenza, che apparentemente contraddice l’arte, ha diritto di cittadinanza ed è possibile all’interno di quest’ultima? Ciò non significa che l’opera d’arte nel suo complesso venga intesa come simbolo della spiritualità di un artista o di una cultura (in tal caso infatti non c’è più alcuna difficoltà in linea di principio); significa piuttosto che la forma sensibile dell’opera d’arte stessa diviene simbolica, senza perciò cessare di essere artistica. Questo simbolismo dell’arte non è ancora stato scritto (al massimo ci sono delle introduzioni ad esso), proprio perché il problema di quel pan-simbolismo minaccia di celare questo problema specifico assai avvincente e complesso. Ma per quale ragione Cassirer, uno dei nostri più acuti e chiari pensatori, nonché uno dei più aperti nei confronti dell’arte e dell’artista, giunge a quel pan-simbolismo? Forse a causa delle concessioni a quella pan-fisiognomica cui si è già accennato? Dobbiamo rispondere negativamente: Cassirer è spirito troppo logico per pagare pegno proprio a tali psicologismi relativizzanti. In questo caso è però decisivo lo sforzo – certo del tutto giustificato, da noi stessi non solo difeso, ma anche condiviso – di lavorare con concetti guida generali, validi per tutta la filosofia della cultura. Solo così la teoria dell’arte può venir liberata dal suo astratto isolamento, e la sua posizione rispetto alla filosofia della cultura in generale o anche rispetto alla caratterologia diventa in tal modo comprensibile. Ma proprio il concetto di “simbolo” – nonostante la matematica simbolica ecc. – mi sembra inadatto per portare a termine all’interno della teoria dell’arte il compito assegnatogli. Certo: ogni opera d’arte “esprime”, “raffigura” e “significa”. Ciò però non la qualifica come opera d’arte. Essa, ripetiamolo ancora, non esprime semplicemente tristezza, bensì “è” la tristezza nel modo di darsi della sua formazione; l’opera d’arte, in quanto tale, non conosce nessun’altra tristezza. E neppure raffigura soltanto, per mezzo del colore, un paesaggio triste; piuttosto, essa “è” il paesaggio triste al livello d’essere della sua configurazione. Essa quindi non significa nulla che non sia racchiuso nella sua formazione. Proprio quella relazione che appare essenziale per il concetto di “simbolo”, non lo è per l’opera d’arte. Le relazioni che vengono qui in luce si muovono in tutt’altri ambiti. Ed è proprio questa la ragione per cui così avvincente e critica diventa la questione di come possa darsi, ciononostante, un’arte simbolica, la questione cioè della sua possibilità. Per quanto concerne questo fatto, non ci si deve lasciar sviare dal pensiero che, in linea di principio, ogni arte può venir intesa come allegoria, come simbolo. Ad esempio, se ogni cosa “terrena” è una “allegoria”, e viene rapportata ad un essere superiore, vero e proprio: essa in qualche modo ci

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mette di presagirlo, o vi partecipa come la copia al modello. In questa accezione, il concetto di simbolo è soltanto segno, all’interno della teoria dell’arte, o di un atteggiamento naturalistico (dal momento che tutto l’essere dell’arte è solo un rimando al “vero e proprio” essere della natura), oppure di un idealismo che intende l’apparire sensibile dell’idea come sua veste simbolica. Queste interpretazioni metafisiche, però, sembrano adatte soltanto a disconoscere l’essenza dell’arte, a render oscuro il suo specifico essere artistico, che certo in un sistema di riferimento preso dall’esterno può essere presentato come non specifico, ma la cui “specificità” può esser compresa solo a partire dall’arte. Per spiegarci, facciamo ancora una volta un esempio tratto dalla caratterologia: è dogmatismo ingenuo valutare il comune essere della vita quotidiana come la “vera e propria” vita, in contrasto con la quale ogni altro essere rappresenterebbe solo un essere più rarefatto. Allora fuggirebbe dalla “vita” ad esempio chi, come un monaco ascetico, si recasse in un monastero: può certo comportarsi così, ma allora non è davvero un monaco. Quest’ultimo trova il vero e proprio senso della sua vita nell’ascesi monastica, in contrasto con la quale il trambusto del vivace mondo dei fenomeni quotidiani deve sembrare un’esistenza apparente. Allo stesso modo (e qui credo di pensarla proprio come Cassirer) l’essere dell’arte non è, in sé, simbolo di un altro essere, bensì essere artistico genuino. Proprio per questa ragione la filosofia cassireriana delle forme simboliche, a suo modo, pare particolarmente indicata per far emergere la purezza e la specificità, l’ampiezza e i limiti di questo essere, sebbene – come si vede – il concetto di “simbolo” non sia adatto a soddisfare, all’interno della teoria dell’arte, i compiti di cui Cassirer lo sovraccarica. Con ciò viene contemporaneamente oscurato il compito che egli deve risolvere all’interno dell’arte, niente di più e niente di meno che lo studio e il chiarimento dell’arte simbolica nel suo rapporto con l’arte non simbolica. La splendida conferenza tenuta da Arnold Schering nell’ambito del già citato Congresso, ad esempio, ha mostrato chiaramente le difficoltà che qui emergono. 12. Abbiamo citato il detto di Erich Everth secondo cui nel decidere tra persona e cosa la scienza della forma e la scienza dello spirito stanno dalla stessa parte, e cioè dalla parte della cosa. Ora però ravvisiamo un’inclinazione – che aumenta a vista d’occhio – verso l’individualità dell’artista. «La soluzione di ogni enigma è racchiusa nel mistero dell’artista», come afferma Hans Tietze76. Herbert Cysarz formula questo stesso concetto in modo particolarmente bello: «In ciò che è materiale si dà progresso, mentre l’individuo ha storia»77. La situazione è descritta in modo eccellente da 76 Lebendige Kunstwissenschaft, 1925 [Lebendige Kunstwissenschaft zur Krise der Kunst und der Kunstgeschichte, Krystall Ges. M. B. H., Wien, p. 53.] 77 Literaturgeschichte als Geisteswissenschaft, 1926 [Storia della letteratura come scienza dello spirito, trad. it. di O. Overhof, Bompiani, Milano 1945, p. 121].

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Wilhelm Waetzoldt78, al quale pertanto cediamo la parola. La singola opera d’arte viene valutata solo in quanto documento stilistico, l’attività creativa anche del grande artista solamente in quanto stadio di uno sviluppo dell’arte logicamente necessario. In questo «misero mondo delle concettualità», come lo definì Ernst Heidrich79, manca il ricorso ai processi storici generali. Manca prima di ogni altra cosa il fattore della realizzazione geniale che codetermina essenzialmente la vita dell’arte. La costrizione stilistica diviene la vera e propria eroina della storia dell’arte. Essa si spinge oltre gli incommensurabili elementi della personalità e oltre le sue idiosincrasie, assoggettando tutte le forme alle necessità interpretative e formali dell’epoca. Un metodo, che vuole vedere ovunque gli elementi di sviluppo, fallisce là dove si imbatte nell’irrazionalità della grande personalità. «Metodologicamente non si può combinare nulla col genio» (Carl Neumann), oppure lo si può fare solo in misura limitata. «Oggi va formandosi – in un primo momento e nel modo più evidente nell’ambito della storia della letteratura e della filosofia – un nuovo concetto della storia degli eroi. Tale storia fa passare in secondo piano il momento psicologio-individuale, l’elemento vividamente personale rispetto al contenuto simbolico delle esistenze eroiche. Le definizioni essenziali e concettuali della grandezza storica di Burckhardt, la psicologia e la tipologia spiritualizzata e spiritualizzante dei processi creativi artistici di Dilthey, il carattere nietzscheano di veggente e predicatore, avevano preparato il terreno per la ricognizione di ciò che è grande. La sensibilità per la natura incondizionata, essenziale, originaria, ricca di valore dei pensatori, dei poeti, degli scultori e degli autori autenticamente grandi si ridesta a nuova vita: una sensibilità che lo storicismo aveva paralizzato, cogliendo solo ciò che è condizionato, derivato, indiretto, attinente all’ambiente e contingente. In un mondo secolarizzato, in cui l’uomo medio minaccia di diventar misura di tutte le cose, la creazione di simboli eroici delle forze vitali, che configurano il mondo, non ha solo ragione di esistere, ma diviene un dovere»80. Qui non dobbiamo esaminare i presupposti culturali, nazionali ecc., da cui sgorga la nuova venerazione per gli eroi. Dobbiamo ricercare solamente il ruolo dell’artista. Possiamo allora accertare un evidente allontanamento dal pensiero di una storia dell’arte anonima. La storia dell’arte non è solo stilistica. Dirò di più: ogni stilistica deve servire in ultima istanza per interpretare la singola opera d’arte individuale. Il valore di quest’opera d’arte è solo in minima parte funzione dello stile. Uno stile può abbracciare possibi78 Deutsche Kunsthistoriker, 2, 1924 [2 Bde., Seemann, Leipzig 1921-1924]. 79 «ZÄK», 8 [1913; si tratta della recensione a H. Jantzen, Das niederländische Architektur-

bild, pp. 117-131; a p. 119 si legge: «nur mehr eine kimmerische Welt reiner Begrifflichkeiten»]. 80 [W. Waetzold, Deutsche Kunsthistoriker, cit., Bd. 2, pp. 238-239]. A questo proposito si veda anche il magnifico saggio di M. Scheler, Mensch und Geschichte, in «Die neue Rundschau», 37, 1926 [Uomo e storia, in Lo spirito del capitalismo, trad. it. di R. Racinaro, Guida, Napoli 1988].

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lità più ricche ed ampie, così come tutte le ampiezze e le profondità non sono accessibili al carattere di una persona. Un altro stile può invece indicare vie chiare, che preservino dai traviamenti anche le persone meno dotate, ma probabilmente occorrerà una forza ancor più priva di scrupoli per abbattere le sue barriere. Tutte queste sono davvero bagatelle, ed è sorprendente che le diverse relazioni della stilistica nei confronti della creazione individuale di valori siano state così poco chiarite nel loro senso più profondo. Ciò avvenne probabilmente perché, in generale, o ci si sforzava di interpretare ogni cosa alla luce della stilistica, oppure la stilistica stessa veniva trascurata nel considerare l’elemento biografico del caso singolo. Così ci si poteva accontentare di indicazioni vaghe. Se dunque il valore dell’opera d’arte è in prima linea condizionato dal genio dell’artista, due problemi diventano pressanti: in primo luogo, quello di uno studio dell’opera d’arte che deve render giustizia alla sua unicità – e a questo scopo non sono sufficienti i concetti stilistici generali. Anche su questo punto si rivelano chiaramente le relazioni che la filosofia dell’arte intrattiene con la caratterologia, relazioni di cui la generazione più giovane di ricercatori è sempre più consapevole81. Sono infatti difficoltà simili quelle per cui lottano entrambe le discipline. Anche per ciò che concerne il secondo problema, quello relativo all’attività dell’artista, è ovviamente indispensabile il contributo della caratterologia82. Soffermiamoci momentaneamente sul primo problema: a colui che lavora solo con la serie di concetti “stile giovane”, “maturo” e “tardo”, si imputa sempre (nonostante le sue vivaci proteste) il fatto che ai suoi occhi assumono particolare valore quelle opere che illustrano quei concetti stilistici con una purezza esemplare. Non è però affatto detto che proprio queste opere di per sé – o meglio: in sé – siano le più pregiate. Non si può nemmeno sostenere che esse siano quelle più ricche di effetti storici. Fra tutte le possibilità di influssi e forze storiche, infatti, quella espressione stilistica pura è pur sempre solo un’espressione che entra in concorrenza con molte altre. A tutto ciò si potrebbe ora naturalmente obiettare che lo stile è un ideale, come lo sono ad esempio l’ideale del maestro modello oppure dell’uomo di stato. E una creazione, più si avvicina a questo ideale, più assume valore. In sostanza avremmo due diversi concetti di stile. Un primo concetto equipara gli stili alle epoche: nella stessa lingua balbettano gli idioti e si esprime un Goethe. Un secondo concetto si riferisce invece alla lingua ideale di determinate epoche storiche: tale lingua ideale è completamente inaccessibile all’idiota, ma diviene realtà in un Goethe, oppure in un Lutero. Abbiamo però ricavato questo ideale da questa realtà, e non dobbiamo quindi meravigliarci della loro convergenza: Inoltre – cosa che forse ha ancora più peso – si verificano continui slitta81 Si veda ad esempio la dissertazione berlinese di W. Ziegenfuß, Die phänomenologische Ästhetik nach Grundsätzen und bisherigen Ergebnissen kritisch dargestellt, 1928 [Noske, BornaLeipzig 1927]. 82 Si veda il mio libro Der Künstler, 1925 [cit.].

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menti di quelle due serie di concetti che causano oscurità o, perlomeno, confusione. In altre parole: colui che con il termine “gotico” intende la gamma di possibilità che sono assegnate al problema formale dell’arte in virtù dell’immanenza dello stato dell’arte, della cultura, del popolo ecc., non si riferisce minimamente a opere d’arte di gran valore. A tale livello appartiene infatti il grande artista, capace di impossessarsi di queste possibilità. Non è nemmeno certo quali tra queste possibilità si possano soddisfare e quali rimangano invece irrealizzate; tanto meno si può esser certi del modo in cui esse si realizzano. Ma una cosa è certa: che la maniera specifica della realizzazione diviene ora un fattore storico di primissimo rango. Il concreto accadimento artistico non si orienta infatti verso costrutti di senso irreali, che lo storico dell’arte rivela retrospettivamente, bensì verso la realtà degli eventi, nel senso ampio della parola. Gli uomini che agiscono non sono solo vincolati alla gamma di possibilità propria di una data epoca, di una data cultura, di un dato popolo, bensì è vero anche il contrario: essi plasmano dal canto loro il volto dell’epoca, della cultura, del popolo, traducendo le possibilità in realtà, perdendone altre e inaugurando aspirazioni del tutto nuove. Prendendo a prestito, ancora una volta, un paragone tratto dalla caratterologia: colui che mira solo al carattere fondamentale intelligibile non pratica la storia, non vede i caratteri nel loro divenire, crescere e trasformarsi seguendo la ruota del destino83. Certamente posso anche indagare quali possibilità permettano quali espressioni di valore, quali espressioni siano realizzabili e quali no. In seguito, comprendo le singole opere d’arte in quanto conferme di quelli che possiamo chiamare complessi di valore costruiti teoreticamente. Questo è però qualcosa di totalmente diverso della purezza stilistica nel senso dei concetti di stile di prim’ordine. Esiste ad esempio una quantità di dipinti autenticamente impressionisti che non mancano certamente di purezza stilistica; le creazioni classiche dell’impressionismo sono però sempre, in certo qual senso, qualcosa di più che non impressionismo, ed è per questo che possono sopravvivere alla morte di tale corrente stilistica. Al contrario: una volta sbollite le immediate reazioni di odio che un’arte nuova rivolge sempre contro quella in vigore, si scoprono affinità che travalicano i vincoli temporali. Quelle sono le realizzazioni di valore, per le quali tutto ciò che è stilistico rappresenta solamente un presupposto, solo una condizione preliminare; poiché esse si possono compiere solo in determinati momenti storici, e inoltre solo se è presente l’individuo creatore. La scusa in base a cui gli individui creativi sono sempre presenti quando l’epoca li chiama, è davvero solo una scusa; essa definisce coloro che sono attivi in un particolare momento come i più creativi. Non è però che sia sempre disponibile un Goethe, e nemmeno un Michelangelo. Eppure alcune epoche li “chiamerebbero”. Lo stupore riverente, ammirato, dinnanzi all’apparizione del genio sarebbe impossibile, se il genio si presentasse al momento giusto in modo tanto sicuro 83 Si veda al riguardo la mia Charakterologie, 1925 [cit.].

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quanto nella nostra vita borghese il pranzo o la cena. Lo stesso contadino sa che non sempre piove secondo i suoi desideri e le sue necessità più impellenti. Per questo prega Dio affinché piova. Qui bussiamo alle porte della metafisica. Queste porte, però, devono restare chiuse alla teoria dell’arte. Quei valori che si realizzano negli stili in virtù della forza creativa dell’artista sono però, ovviamente, qualcosa di molto diverso rispetto ai valori dell’espressione stilistica pura. E le articolazioni del primo tipo di valori non coincidono affatto con quelle del secondo tipo. Solo un ampliamento del concetto di stile potrebbe ridimensionare questo divario. Questo ampliamento, in ultima analisi, è a sua volta connesso con quella tendenza, che abbiamo già richiamato, a non vedere l’unità nella differenza, la cultura nelle culture, le opere d’arte individuali e gli artisti individuali negli stili artistici. Ci si può – per fare un ulteriore esempio esplicativo mentre ci avviciniamo alla fine della nostra riflessione – adoperare per mettere in risalto nell’“uomo” le caratteristiche particolari che lo distinguono da un animale, ma si può anche intendere con “uomo” l’ideale al quale gli uomini empirici devono adeguarsi quanto più possibile. È dunque ovvio che gli ideali specificamente umani debbano realizzarsi solo all’interno dell’umanità, e che diverse tipologie umane ammettano, non tutte, ma sempre e solo determinate espressioni di valore. Possiamo ora certamente chiederci di che natura debbano essere gli uomini per soddisfare tali espressioni di valore. O, ancora più specificamente: di che natura deve essere l’uomo per compiere, in una determinata situazione storica, qualcosa di realmente valido? Con ciò siamo passati però dalla questione della stilistica a quella riguardante l’essenza dell’artista. Non è semplicemente importante in sé, bensì anche per il fatto che ci occorre l’artista laddove la validità dei concetti stilistici generali è giunta al proprio limite. Dobbiamo sempre tener presente che, come sostiene Paul Frankl84, la conoscenza del programma artistico di ogni fase è indipendente dalla qualità della sua realizzazione. Tali questioni concernenti la qualità ci conducono decisamente all’opera d’arte singola e al singolo artista. 13. La letteratura sull’attività dell’artista è cresciuta enormemente negli ultimi tempi; specialmente gli psichiatri se ne sono occupati intensamente. Credo che, nonostante la grande opera presentata di recente da Wilhelm Lange-Eichbaum85, la sopravvalutazione dell’elemento patologico vada ridimensionandosi. Potrei forse ribadire le concezioni che ho già espresso nel mio libro L’artista86: è certo ovvio che la stragrande maggioranza delle produzioni dei malati di mente non regga all’esame di una critica seria. Noi ci occuperemo però dei casi riusciti, che potrebbero esser rigettati solo da chi sostenga la concezione radicale secondo cui l’arte presuppone una completa 84 Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst [cit.]. 85 Genie, Irrsinn und Ruhm, 1928 [Reinhardt, München]. 86 Der Künstler, 1925 [cit.].

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integrità spirituale. Simile teoria viene confutata dall’esperienza. Ma anche l’estremo opposto, e cioè che per il fare artistico sia essenzialmente necessario un tratto patologico, non sembra esser degno di alcuna discussione approfondita. I sostenitori di questa stravagante concezione scovano sempre sintomi, che poi spacciano trionfalmente come prova. Chiariamo però, una volta per tutte, che cosa significhi il fare artistico: formare, configurare. Con ciò ci imbattiamo in un tratto caratterologico fondamentale dell’artista: nella misura in cui è artista, egli può esprimersi solo in queste formazioni, e in nessun altro modo. Questo tratto fondamentale, di per sé, non ha nulla a che vedere con la malattia mentale; al contrario, presuppone che la psiche funzioni in modo adeguato in tutte le sue componenti. Tale funzionamento può certo venire inibito, o addirittura distrutto, dalla malattia mentale. Può però ricevere, da essa, uno slancio, un incentivo, uno stimolo? Qui si acuisce il problema. La questione corretta non è: il fare artistico è “sano” oppure “patologico”, bensì: che effetto ha la malattia mentale sul fare artistico? E non è l’influsso negativo, ma quello positivo a creare difficoltà. Tutti conoscono l’entusiastica poeticità del periodo della pubertà e del matrimonio. L’amata lontana viene ardentemente desiderata. Ciò che la realtà non concede, lo canta la poesia. Queste tensioni, tuttavia, si placano non appena il sogno diventi realtà. Coloro che han fatto naufragio nella vita si rifugiano spesso nel consolante abbraccio dell’arte. Ma questi poeti occasionali – questi poeti per necessità – si arenano per lo più in un dilettantismo banale, in stravaganze programmatiche oppure in un caotico sentimentalismo, se non in un’arida convenzionalità. L’impulso più favorevole non porta a nulla, se non c’è niente su cui può agire. Lo stesso vale per il malato di mente; altrettanto, però, la malattia mentale può offrire, in determinate circostanze, impulsi molto favorevoli. Senza di essa, il fare sarebbe diverso, o potrebbe persino non aver luogo, dal momento che, in determinate circostanze, esso dipende da quella costellazione favorevole. Ancor più evidente diviene l’influsso quando le inibizioni critiche, che frenano e contengono la persona sana di mente, si allentano oppure vengono meno. Esplodono allora quelle passioni ardite che suscitano il più intenso stupore e che tuttavia, di per sé, non sono diverse da quelle del bambino, di cui quest’ultimo è inconsapevole. Ma è proprio a questo punto che il diavolo ci mette lo zampino, e la critica va in scacco: quel bambino infatti è disinibito poiché non riflette sui pericoli che ne metterebbero a rischio la vita. Laddove vengono meno le inibizioni, fallisce, o viene essenzialmente ridotto, il controllo della critica. Per questo, proprio a fianco delle passioni audaci, che tanto ci impressionano, ci sono momenti d’incomprensibile piattume; accanto alle soluzioni formali grandiose vi sono assurdità assolutamente insopportabili. Una situazione analoga si ha con la pienezza torrenziale dei vissuti del malato: è probabile che egli provi commozioni di intensità tale che la persona sana non conosce; la sua vita sentimentale viene stravolta in una maniera tale da doversi per forza esprimere; le visioni lo tormentano. Certo, ma dal punto di vista artistico il vissuto troppo impetuoso è a sua volta piuttosto

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pericoloso. Esso può ricevere una configurazione, ma solitamente resta caoticamente informe. Colui che è completamente distrutto dal dolore non è adatto a tenere il discorso funebre: piange, singhiozza, gli mancano le parole. Vediamo un uomo sofferente, non un oratore che esprima il suo dolore nel lamento ritmico delle parole. Secondo me, solo così – giungendo infine a raffinatissime ricerche specifiche – è davvero possibile indagare scientificamente gli influssi di una malattia mentale sul fare artistico. Il nocciolo è sempre il processo di configurazione artistica: solo a partire da qui ci si può chiedere a buon diritto come la malattia mentale influisca su di esso, o agisca al suo interno. Solo porre il problema in questa maniera, così limpida metodologicamente, garantisce risultati altrettanto chiari. Sono felice di concordare con le teorie di eminenti psichiatri. Ad esempio, Karl Birnbaum87 sostiene a buon diritto che per valutare la bellezza di una perla non sia decisivo, in ultima istanza, sapere se essa rappresenti una secrezione naturale oppure patologica della conchiglia. «Laddove ci sembri giustificato riconoscere in costrutti culturali prodotti da soggetti patologici dei valori autentici (senza che quel fattore patologico li sminuisca), l’analisi più precisa ci insegna spesso che tali valori non derivano tanto dall’elemento patologico quanto da quello normale, cioè dalla parte rimasta sana dei suoi portatori, e che l’elemento patologico ha solo […] innescato, liberato, messo in movimento, oppure semplicemente lasciato intatte, forze di alto valore, talenti superiori, tendenze creative»88. Nella sua eccellente patografia Strindberg e Van Gogh, Karl Jaspers afferma: «Solo un talento originario potrà mantenere, malgrado la malattia, tutta la sua efficacia, ed esprimere in un’opera le esperienze che altrimenti resterebbero del tutto soggettive»89. Con particolare enfasi posso rinviare a due ricerche specifiche esemplari: il trattato del celebre psichiatra di Tubinga Robert Gaupp, L’attività poetica di un malato di mente90, e quello dello storico della letteratura, educato brillantemente alla psichiatria, G. Gesemann, I fondamenti di una caratterologia di Gogol’91. In un certo senso persino S. Freud conferma queste concezioni, per quanto ne sia distante. Nel suo libro Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910) giunge alla conclusione, insolitamente semplice, che due peculiarità di Leonardo restano «inspiegabili all’esame psicoanalitico: la sua ten87 Grundzüge der Kulturpsychopatologie, 1924 [in «Grenzfragen des Nerven- und Seelenlebens» 116, 1924, p. 60]. 88 Si veda anche K. Schneider, Der Dichter und der Psychopathologe, 1922 [sottotitolo: Ein Vortrag für die Mediziner der Universität Köln. Mit einem Literatur-Nachweis, Rheinland-Verl. Köln]. 89 Strindberg und van Gogh, 2 Aufl. 1926 [trad. it. di B. Baumbusch e M. Gandolfi, Genio e follia: Strindberg e Van Gogh, Cortina, Milano 2001, p. 116]. 90 Vom dichterischen Schaffen eines Geisteskranken, in «Jahrbuch der Charakterologie», 2/3 [pp. 197-225]. 91 Die Grundlagen einer Charakterologie Gogols, in «Jahrbuch der Charakterologie», 1 [1924, pp. 49-88].

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denza assolutamente straordinaria alle rimozioni pulsionali e la sua eccezionale capacità di sublimare le pulsioni primitive»92. Da dove deriva, però, questa «capacità di rimuovere e sublimare», non ulteriormente indagabile in questa sede? Evidentemente dal talento artistico complessivo di Leonardo. Essa resta in Freud l’incognita inspiegabile. E ancor più meritevole è quando ammette nella sua Autobiografia: «L’analisi non può spiegare in alcun modo il talento artistico, né può assumersi il compito di scoprire i mezzi con cui l’artista lavora, e cioè non può risolvere il problema della tecnica artistica»93. 14. È così fallito il tentativo di ottenere, a partire dall’elemento patologico, i concetti guida decisivi per il chiarimento del fare artistico. Vedevamo che questo tentativo era destinato a fallire. La nostalgia per gli aspetti meravigliosi ci ammaliò, spingendoci in quella direzione, e ci fece scorgere nella conformità a leggi un qualche cosa di noioso e pedante. Il genio avvolto dalla follia demoniaca seduceva molto più dell’analisi rigorosa delle strutture e dei caratteri del fare artistico. La predilezione per ciò che è troppo umano, che affascina e al contempo fa rabbrividire, offuscò la visione dell’umano vero e proprio. Così Friedrich Gundolf nel suo libro Heinrich von Kleist (1922) poté a buon diritto affermare: «È permesso a chiunque immaginare alberi con foglie viola se si hanno simili visioni; in tal caso chiederemo con curiosità: come si giunge a simili visioni, e come le si rende credibili? Le nostre guide e i nostri maestri restano tuttavia coloro che ci rivelano in virtù di quali forze e secondo quali leggi crescano gli alberi verdi»94. Una volta individuata l’essenza dell’arte, si solleva la questione relativa all’essenza dell’artista. L’arte determina l’artista, così come la scienza i suoi adepti. A questo riguardo l’artista compare solo in quanto creatore d’arte. Quali predisposizioni o peculiarità necessarie sono però le imprescindibili, indispensabili condizioni di ogni artisticità? Così ci interroghiamo, e siamo costretti a interrogarci, sull’arte. In tal modo, però, non spilucchiamo conoscenze a caso, non arraffiamo avidamente e alla rinfusa un materiale qualsiasi, non accumuliamo speculazioni campate in aria, no: il riferimento all’unità sistematica sembra al sicuro, e la strada tracciata. Se dunque ogni arte è una configurazione specifica, che cosa fa sì che venga realizzata proprio questa e nessun’altra configurazione? In questo caso, la nostra attenzione non può orientarsi primariamente sul dispiegamento di una ricca tipologia, su tenui sfumature concernenti differenze particolari, ma piuttosto su quello che è essenzialmente necessario. Una volta interpretato in maniera ade-

92 [S. Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910), in Id., Opere, ed. it. a cura di C.L. Musatti, 12 voll., Boringhieri, Torino 1966-1979, vol. 6 (1974), pp. 207-284, qui p. 274.] 93 [S. Freud, Autobiografia (1924), in Id., Opere, cit., vol. 10 (1978), pp. 69-141, qui p. 132.] 94 [Bondi, Berlin 1922, p. 88.]

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guata questo nucleo, si chiarisce anche la possibilità delle diramazioni e delle ramificazioni95. Queste indagini ebbero il merito di discernere, dalla disordinata nebulosa dell’umano in generale, il cosiddetto elemento artistico; tuttavia, nel segregarlo in un rigido isolamento, lo si svuotò di ogni elemento umano (talora addirittura inorgogliendosi di questa azione) e si approdò al fattore artistico. Prendendo le mosse dal carattere apparente dell’elemento estetico (di nuovo una parola pericolosa), di cui si è ampiamente discusso, si risalì al carattere apparente dei vissuti che hanno luogo nel fare artistico, e li si mise in contrasto con ciò che siamo soliti definire vissuto serio. Se mai occorrono analisi approfondite, è qui più che altrove che esse sono particolarmente urgenti, per far piazza pulita delle ambiguità e dei fraintendimenti che si sono grottescamente accumulati. La saggezza benevola dell’artista, ad esempio, non è apparenza, e nemmeno una maschera, ma essa si ripercuote proprio sul fare artistico, come in un altro tipo di uomo essa influenza l’agire pratico e quello etico. Certamente non occorre che quell’artista sia sempre saggio, magari indifeso, facile da ingannare, maldestro, ecc. Allo stesso modo colui che è saggio dal punto di vista etico può essere semplicemente stolto laddove si tratti di scienza o di arte. La vanità compiaciuta dell’artista, che fa spesso capolino, distrugge la sua opera. Del canto suo, una timida pavidità genera il tipo particolare del talento introverso. In questo ambito la ricerca rigorosamente caratterologica non ha ancora preso piede. Pochi concetti sono stati così poco studiati ed analizzati come quello del carattere artistico nella sua relazione con il carattere borghese. Le parole consuete nascondono difficoltà che, stranamente, non vengono quasi considerate. Con ciò non si mette affatto in discussione la mostruosità – che però non convince molti – di scindere una personalità, per così dire, in due parti, senza preoccuparsi del nesso che le lega. Dal punto di vista metodologico, ciò può voler dire soltanto: che cosa significa il carattere artistico nella struttura della personalità? O al contrario: cosa significa quest’ultima per il carattere artistico? La gioventù adora l’attore che impersona l’eroe sulla scena. Subito allora la critica domanda se l’impresa eroica e la configurazione artistica dell’eroico debbano coincidere. La configurazione artistica dell’eroico è in ogni caso qualcosa di completamente diverso dalla posa eroica. Atteggiarsi ad eroe significa indossare una maschera più o meno trasparente, che mette in primo piano la vanità e camuffa l’incapacità, la pavidità ecc. Questo specchio per le allodole deve ingannare gli attori, gli spettatori, o anche entrambi. Ma a partire da ciò non perveniamo in alcun modo all’attore che impersona l’eroe. Non si tratta né di imprese eroiche, né di pose eroiche nel senso comune del termine; per questo motivo tali capacità appaiono (per lo meno inizialmente) indifferenti. Il carattere eroico di una melodia, di un gesto 95 Si veda il mio Der Künstler, 1925 [cit.], e il secondo volume della mia Grundlegung der allgemeinen Kunstwissenschaft, 1920 [cit.].

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schietto, di una composizione cromatica, di un linguaggio pregnante e rigoroso: tutto questo è autentico, e autentico al punto che ogni confronto con la posa eroica viene rifiutato con sdegno come un qualcosa di totalmente disdicevole. Cosa indica questa autenticità? Innanzitutto – e ciò deve essere sottolineato con enfasi – se stessa. La melodia eroica è autentica in quanto melodia eroica; un qualsivoglia cambiamento, anche di una sola nota, la rende falsa. Essa viene ridotta a qualcosa di sentimentalistico, viene indebolita, resa rozza e brutale; fiorisce e muore con questa configurazione di note. Il vissuto puro dell’eroico è racchiuso nell’oggettività di questa configurazione. Si può infrangere questa forma, ma non ha senso domandarsi se essa si conservi nella lotta che l’eroe conduce contro i pericoli che lo minacciano. Tutti i pericoli si accumulano infatti solo all’interno dell’opera d’arte, e mai al di fuori di essa. Il simulatore in quanto tale è un problema dell’arte, ma l’arte non è una simulazione. Ciò significherebbe autodistruzione dell’arte. Essa non mima un eroismo che non c’è, bensì possiede un eroismo autentico nel regno della sua configurazione. E altri regni non conosce. Per questo motivo un piccolo eroismo o anche un grande eroismo fruttano poco; quel che è decisivo è il vissuto creativo-artistico dell’eroismo. Esso cresce e matura nei suoni, nelle parole, nelle linee, nei colori ecc., ed è orientato unicamente a questa crescita e a questa maturazione. Gioia e disperazione, eccitazione e pacificazione finale, scaturiscono dalle sorgenti di quella formazione. Così sembra come se ci dirigessimo verso una concezione estremamente artistica. L’apparenza inganna; non possiamo fermarci a questo punto, che è il punto di partenza e non quello di arrivo. È certo che la mera umanità e un vissuto, per quanto fervido, non bastano. È probabile che questo impeto debba prima placarsi, per poter diventare artisticamente fecondo. È come se quel vissuto offrisse il materiale artistico grezzo; in fondo, per poter dipingere paesaggi occorre averli visti. C’è del materiale che può essere ottenuto solo a fatica. Che poi l’artista, in questo sforzo, sprofondi nel gorgo della vita, è la sua maledizione e la sua debolezza. Proprio in quanto artista, egli riaffiora dai vissuti formando e configurando; o meglio: il senso e il significato del vissuto si chiariscono ai suoi occhi in virtù del fare artistico, come per altri in virtù della conoscenza, dell’agire etico, dell’atteggiamento religioso. Solo una chiara comprensione delle situazioni etiche, la peculiare logica del fattore religioso, la stringente dimostrazione dell’esistenza di Dio, possono appagare lo studioso. La persona pia valuta l’arte e la scienza secondo la sua sensibilità, e quando queste urtano la sua sensibilità, allora non gli dicono più nulla, gli risultano estranee o addirittura blasfeme. Anche gli elementi conoscitivi, etici, religiosi, si intrecciano quindi nel fare artistico, anzi: ottengono in virtù di esso un nuovo modo di darsi. Ma questo sembra una falsificazione fuorviante. Lo studioso non ha bisogno di essere devoto, quando analizza la devozione. È necessario però che egli sappia con precisione che cosa significhi devozione, deve averne fatta pura esperienza e averla compresa; altrimenti fraintende

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ogni cosa, rendendola falsa. Il problema, che lo turba profondamente, non è quindi l’essere devoto, ma è piuttosto la conoscenza dell’essere devoto. Questa conoscenza è per lui di una necessità vitale. Per lo studioso, il vissuto religioso non rappresenta affatto qualcosa di ultimo, un sacro fondamento cui ancorarsi, bensì un compito della conoscenza. All’adempimento di tale compito occorre solo una capacità di vivere e conoscere profondamente la religione. Se l’esperienza religiosa dello studioso è superficiale, fragile, ne risentono tutte le sue indagini: magari vengono realizzate con l’apparecchiatura scientifica più precisa, ricavando tutto il possibile, ma appunto solo ciò che è possibile per lui. L’appiattimento e l’insufficienza delle condizioni di partenza non ammettono compromessi. Se anche si cercasse di gonfiarle artatamente, esse diverrebbero false, inautentiche ecc. Questa artisticità scientifica rivela al contempo i limiti del carattere artistico. Se la sua concezione – come al giorno d’oggi molti sostengono ingenuamente – fosse davvero l’ultima parola, allora il carattere puramente artistico dovrebbe significare l’ideale artistico. Tuttavia tale carattere è una caricatura grottesca e triste, e proprio dal punto di vista dell’arte. L’artisticità non corre del tutto parallela alla formazione del carattere puramente artistico. La sua tipologia non può esser qui nemmeno accennata; mi sia concesso rimandare di nuovo tanto al mio libro L’artista quanto alla mia Caratterologia, ai quali mi riallaccio strettamente nel prossimo paragrafo. 15. Le discussioni appena affrontate sollevano il problema della posizione dell’artista rispetto all’opera d’arte. Credo che si debbano riconoscere tre tipi principali, ciascuno dei quali tocca un tema fondamentale che si declina in innumerevoli variazioni. Primo: l’artista dà forma “a” una materia – e l’accento cade su questa parolina, “a”. La materia viene scelta perché promette risultati artistici importanti, non perché interessi l’artista di per sé. La materia è soltanto un mezzo per la produzione artistica, e solo in questa prospettiva la si apprezza, la si rigetta, la si modella. La tecnica più brillante può padroneggiarla, e magari le vengono estorti effetti sorprendenti. La materia è appagante se permette tale elaborazione, ingrata se la nega. In certe circostanze essa può dunque essere un qualcosa di totalmente indifferente, e allora tanto più libera risalta la finzione artistica. Quest’ultima disdegna il meschino aiuto “dall’esterno”, e non vuole dover nulla ad esso. Le cose stanno diversamente se si tratta di sensazioni materiali: esse vengono condensate, intensificate, modulate nella loro tensione in modo assolutamente calcolato, ecc. Accenniamo solo di passaggio all’ambizione, alla sete di gloria, alla fame di potere, al desiderio di successo dell’artista, benché tutti questi tratti caratteriali, massimamente reali, possano influire moltissimo sulla formazione dell’opera d’arte: il mirare troppo in alto, l’andar oltre le proprie possibilità, la smania ansiosa, o magari astuta, di ottenere un effetto più ampio, ecc. Tutti sanno anche, però, che c’è un’umiltà persino nell’elemento tecnico, una profonda, gratuita moralità del lavoro, una rigorosa coscienza della responsabilità, una disciplina ferrea, per citare solo

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cuni aspetti. Già questo dovrebbe metterci in guardia dal considerare il fare rivolto “alla” opera d’arte come un mero abbassamento. Non è estranea ad esso nemmeno la genialità, soprattutto quella tecnica. Quell’ethos lavorativo, però, non dev’essere in alcun modo associato alla condotta morale; un fare vanitoso può andar di pari passo con la più timida modestia in tutte le questioni pratiche. Forse, quella predisposizione può ripercuotersi soltanto in questa direzione del tutto determinata, ed è adeguata soltanto ad essa. Ciò non ha nulla a che fare con la sua autenticità. Inautentica è l’apparente moralità del lavoro, anzi anche l’apparente vanità, cui talvolta l’uomo distaccato dalla realtà si crede obbligato. Il carattere artistico, dunque, non sporge affatto su quello naturale-borghese, non si sovrappone ad esso come un arioso piano superiore. Punti di vista simili sono adatti soltanto a volatilizzarle il carattere artistico, o perlomeno a renderlo esangue; al contrario, in esso vive, per alcuni aspetti decisivi, la personalità, ed è proprio per questo che spesso divampano i più accesi conflitti. E però: in questo primo tipo fondamentale – il fare rivolto “all’”opera d’arte – la personalità sperimenta in modo ancora relativo il vincolo artistico minimo. Tutto il suo essere privato rimane in un certo senso libero. La personalità elabora semplicemente una materia: con dedizione, zelo, garbo, talento, in fluttuante ebbrezza, duro impegno, esibita vanità, silenziosa umiltà, in tenerezza quasi erotica, ecc. Essa si estrinseca qui solo per questi ed altri analoghi aspetti, validi per ogni processo del lavoro artistico. Da esso deriva ogni eccitazione, sconfitta o estasi. Il quadro si complica notevolmente se ci rivolgiamo al secondo tipo fondamentale: il fare “nell’”opera d’arte, con l’accento che cade ancora sulla parolina “nella”. In questo caso non vige più la stessa distanza dalla materia: l’espressione avviene in e tramite essa, e non è rivolta “a” essa. Una notizia mi avvince, mi colpisce. Io mi immedesimo in essa. Non mi molla. Ora io mi impegno per conferirle un senso artistico. Opero allora, per così dire, non rivolto ad essa, ma in essa. È lei a dettare la formazione, ed è conclusa solo quando l’opprimente pressione si risolve realmente nella forma pura e oggettiva dell’opera d’arte. L’espressione avviene nella forma del fare artistico. Certo, l’artista di questo tipo fondamentale è costantemente minacciato dall’impeto dirompente della vita, ma fuggendolo non si sottrae al pericolo. Paga dazio con la vuota maniera. L’eterna esigenza del confronto con la natura non implica – se correttamente intesa – alcun naturalismo, ma esprime solo la primordiale saggezza di quanto velocemente ogni arte che eviti questa lotta feconda s’intirizzisca e si appiattisca in modo estetizzante. Che io mi esprima creativamente immergendomi nella natura, nell’uomo ecc. – questo è il mistero. La configurazione dell’arte è la forma di questa espressione, ciò che, sola, la rende possibile; una forma, però, che produce da sé l’espressione, e non viene imposta ad essa dall’esterno. Qui emerge un nuovo vincolo, che il primo tipo non conosce: quello relativo al vissuto della cosa che fa emergere la forma. Questi vissuti richiedono una natura umana del tutto definita, non una natura umana apparente; altrimenti diventano

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inautentici, retorici, ampollosi, sentimentalistici, ordinari – a seconda dei casi. Anche qui non si può dire che il carattere artistico di questa natura umana poggi sul fatto che essa influisce liberamente solo sull’arte, altrimenti fallisce. La madre che si sacrifica per il suo bambino può rivelarsi l’essere più duro e freddo se si tratta di altri bambini. Quel sacrificio diventa perciò meno reale, meno legato al nucleo del suo essere? Non scorre in esso tutta la sua dedizione, la sua dolcezza, il suo eroismo? La maternità innesca queste predisposizioni, che senza di essa, forse, rimarrebbero improduttive, deperirebbero o degenererebbero. Allo stesso modo opera anche l’artisticità. Ma le migliori condizioni di innesco sono poco fruttifere se non c’è nulla da innescare. Con ciò c’imbattiamo nell’ampiezza, nella profondità e nei confini della personalità nel suo rapporto con l’arte. La relazione si fa ancor più tesa se ci rivolgiamo al terzo tipo fondamentale: al fare “tramite” l’opera d’arte. È diverso se un attore si cala “in” diversi ruoli, esprimendo “nella” loro formazione differenti possibilità del suo essere, oppure se egli interpreta sempre soltanto se stesso. Ha bisogno dei ruoli per rivelare se stesso, sempre di nuovo la sua personalità, davvero immodificata e “struccata” nel senso più profondo del termine. Il pittore può immedesimarsi nei più diversi paesaggi, ma tutti i suoi paesaggi dipinti possono anche esser nient’altro che la manifestazione più profonda della sua essenza. Il poeta non scrive romanzi per arricchirsi delle varietà di un mondo variopinto, bensì perché, tramite essa, esprime innanzitutto il suo sé primordiale. Egli sottomette a sé le cose, e parla tramite esse. Noi però accettiamo questo linguaggio solo se quell’uomo è degno di parlarci. Con ciò non s’intende qui il saper fare della rappresentazione, ma l’umanità stessa: la sua benevola saggezza, che ammicca in modo ora furbesco ora dolente, la sua aspra e rude virilità, il fervore religioso della sua passione, l’infuocato pathos del suo amore per il mondo o la tremenda accusa di atroce colpa. Tramite la formazione dell’arte sperimentiamo quell’umanità nella più genuina autenticità, come nel ballo sperimentiamo la bellezza di una ballerina. Lei danza sempre – nella misura in cui si tratta di questo tipo – la sua bellezza. Non per metterla vanitosamente in mostra, no, ma perché solo tramite questa configurazione si manifesta la sua essenza; sempre tanto più pura, più completa, quanto più riesce la configurazione. Qui l’umanità sperimenta, all’interno dell’arte, la sua più dura prova di resistenza. Essa non ci si presenta come calata “in” diversi ruoli, e nemmeno solo nel lavoro rivolto “alla” opera d’arte, ma deve affermarsi in virtù di se stessa. Ad esempio, quella delicata moralità che si manifesta nell’opera d’arte deve effettivamente esser rispettata anche nella vita, oppure nell’esistenza privata è possibile concedersi una grossolana mancanza di scrupoli? Rispettarla nella vita significa rispettarla anche nel fare artistico, dal momento che questo è vita, e non un suo misero sostituto. Certo, sostituto per il ragazzo, che canta l’amata lontana ed è felice quando non ha più bisogno del canto perché la stringe tra le sue braccia; ma per il poeta – nella misura in cui è poeta – nemmeno l’amata sostituisce la propria opera. Qui iniziano i conflitti e

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che le mancanze di scrupolo reali o presunte, al tempo stesso patite e inflitte da ogni creatore. Qui occorre conciliare la moralità del fare con la moralità di altre esigenze. Proprio questi conflitti non distinguono tra carattere artistico e borghese, bensì ne svelano i condizionamenti reciproci. È in questione l’intera personalità nella sua umanità, vista in ogni caso sotto il segno dell’arte e a partire da essa. Tale personalità è il punto centrale di ogni scienza dell’arte. 16. Queste ricerche sono orientate verso l’aderenza alla vita, la pienezza e il colore, senza però rinunciare al rigore metodologico, per lo meno in linea di massima. In un certo senso tali ricerche coincidono con i lavori che si occupano delle età degli artisti (e anche dell’arte). Due dei nostri eminenti storici dell’arte colsero questo problema: A.E. Brinckmann96 e Wilhelm Pinder97. L’espressionismo era in un certo qual modo un “movimento giovanile”98. Ora ci si interroga, tuttavia, sul diritto creativo della maturità, e certo anche di quello della vecchiaia. A.E. Brinckmann sostiene che gli anni appena trascorsi rechino chiaramente l’impronta di uomini che vanno dai 25 ai 35 anni, mentre attualmente passa nuovamente in primo piano il tipo che va dai 40 ai 50 anni; Wilhelm Pinder condivide lo stesso punto di vista. In tal modo una questione posta dal presente si trasforma in una questione sistematica universale. Inoltre appare caratteristico il fatto che entrambi – al di là di ogni venerazione per Wölfflin – aspirino in ultima istanza a qualcosa di diametralmente opposto; all’elemento individuale, all’elemento non-anonimo; e dunque anche a quello sensibile-spirituale. Entrambi provano anche una certa soggezione nei confronti della teoria, sebbene si lascino trasportare da essa verso speculazioni piuttosto audaci, in particolar modo Pinder. Tuttavia Brinckmann vuole quanto più possibile indugiare sull’elemento specifico dello storico dell’arte, cioè sull’osservazione e sulla conoscenza per mezzo dell’«intuizione». Pinder non prende le mosse dall’«esplicabilità», bensì analogamente a Brinckmann, dall’«intuizione». Devono parlare i «fatti»; la costruzione di interpretazioni audaci deve scaturire dal loro rassicurante suolo. Se si abbandona tali costruzioni, non ne patisce la struttura dei fatti. Si può facilmente obiettare che già la scelta e la fissazione dei fatti vengono codeterminate dall’interpretazione, ma si deve altresì ammettere senza problemi che entrambi respingono una programmatica contenutisticamente vuota, verificando le loro dottrine mediante una serie considerevole di esempi, e precisamente esempi che non vengono certo attinti da ambiti ristretti. Dovessimo imbatterci in numerose eccezioni (e sarà sicuramente così), non la prenderei come una controprova decisiva. Esse configurereb96 Spätwerke großer Meister, 1925 [Frankfurter Verlagsanstalt, Frankfurt a.M.]. 97 Das Problem der Generation in der Kunstgeschichte Europas, 1926 [Frankfurter Verlagsan-

stalt, Berlin]. 98 Si veda il mio Die Überwindung des Expressionismus, 1927 [cit.].

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bero solamente il concerto polifonico in modo ancora più ricco, conferendo alla ricerca nuovi stimoli, dal momento che (e in ciò concordiamo completamente con Pinder), non si può aver come obiettivo un ordine che comprima brutalmente e semplicisticamente le cose. La tutela dei pieni diritti delle “cose” non diviene solo la parola d’ordine dell’arte più innovativa, bensì anche della scienza dell’arte. Brinckmann ritiene necessario stabilire dopo una fase giovanile di “Sturm und Drang”, una seconda fase caratterizzata da un netto consolidamento dei giudizi. Al posto dell’esitazione e della pienezza delle visioni, domina una stabilità spirituale, la comprensione e la conoscenza dei rapporti, la consapevolezza di determinate e determinanti relazioni. Segue in età senile un raccoglimento in sé stessi, una fusione. La contrapposizione di questa coppia di concetti – relazione e fusione – deve essere connessa al fenomeno individuale e trovarsi, di conseguenza, in tutte le epoche; si tratta pur sempre di trasformazioni personali di natura psico-fisiologica all’interno della forma vitale dell’uomo estetico. Mi par fuor di dubbio, che la gioventù, la maturità e la vecchiaia vengano distinte in virtù di peculiarità caratterologiche, fatta salva la costanza dei tratti essenziali di una personalità. E ciò non impedisce il fatto che certi giovani sembrino vecchi e certi vecchi giovani. Brinckmann ha senza dubbio colto un problema autentico e importante, generalmente poco considerato all’interno della teoria dell’arte. Anche nell’approfondimento specialistico egli colpisce spesso nel segno, nonostante in alcuni punti – ad esempio nell’interpretazione del ruolo dell’elemento sessuale – la mia opinione diverga dalla sua. A mio avviso si dovrebbe inoltre indagare la valenza di quelle trasformazioni personali nell’ambito di determinate individualità artistiche. Qui emergono possibilità significative che dischiudono nuove problematiche. Si dovrebbe quindi esaminare in modo più preciso e approfondito come si comporta quella successione di fasi nei confronti degli “stili”. Concordo pienamente con Brinckmann sul fatto che epoche diverse «favoriscano il dialogo fra età diverse»99, ed ostacolino al contempo quello fra altre. A tal proposito si possono ora supporre le più svariate possibilità: quella del rafforzamento e quella dell’indebolimento, dell’eccessivo compromesso, dell’ostinata opposizione, ecc. Tenendo conto dei tre momenti brinckmanniani – la cui più precisa analisi è riservata ai posteri – viene resa possibile una delineazione più fine e più ricca di sfumature dei profili stilistici. Possiamo senz’altro considerarli utili per le nostre prospettive: essi ci permettono di rendere comprensibili circostanze altrimenti inspiegabili. In tal senso questa moltiplicazione dei concetti non è da considerarsi una zavorra, anche se il loro inquadramento nel sistema concettuale finora elaborato non sia ancora riuscito senza intoppi. Questo è un lavoro riservato ai posteri, già solo per il fatto che è legittimo domandarsi se e come sia possibile l’applicazione di quei concetti ad ambiti di ordine superiore 99 [A.E. Brinckmann, Spätwerke groȕer Meister, cit., p. 57; nel testo si legge, al posto di «Aus-

sprache verschiedener Lebensalter», «Aussprache der verschiedenen Lebensphasen».]

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(cultura, epoca, ecc.), oppure se essa debba rimanere circoscritta all’elemento rigorosamente individuale dell’opera d’arte e dell’artista. Pinder si spinge ben oltre la direzione imboccata da Brinckmann. Al vertice delle sue osservazioni egli pone il principio indubbio che in ogni momento convivano diverse generazioni (nonni, figli, nipoti). Sussiste dunque una contemporaneità di persone di età diversa. È assolutamente lecito ravvisare in questo semplice leitmotiv una pura e semplice ovvietà. Scorgo in ciò un considerevole vantaggio, poiché le conseguenze complessive – che sono da ricondurre a verità così semplici, umili, che vengono troppo facilmente dimenticate – non sono certamente irrilevanti. Basta far sul serio. Ed è quel che fa Pinder. Su tali basi viene interamente esclusa la «fila indiana degli stili» che Pinder a ragione attribuisce al livello più basso del dilettantismo, poiché «per ciascuno il medesimo tempo è in realtà un tempo differente, diverso in relazione a quell’età, che egli condivide solo con i suoi coetanei». La generazione si trasforma quindi in un valore stilistico, e precisamente in un valore stilistico sottratto all’interpretazione arbitraria. Si tratta pur sempre di dati biologici. Il tempo storico si stratifica; la sua struttura si articola secondo le generazioni e gli intervalli di nascita: «mentre sappiamo che esistono buoni quadri impressionisti, che sono più avanzati di buoni quadri contemporanei, ci prendiamo la libertà di leggere il Medioevo secondo una successione completamente monostrato: 1350, 1360, 1370 rappresentano una successione monostrato di condizioni storico-formali, ciascuna delle quali viene colta non solo priva di profondità, ma addirittura fugace. Come se dietro a quelle opere non ci fossero uomini, bensì degli esseri qualsiasi senza età, che si fossero lasciati per così dire cavalcare dai tempi». Fin qui tutti potrebbero concordare con Pinder e pretendere, insieme a lui, che questa ricerca generazionale venga sviluppata sotto il profilo pratico. In questa direzione lo stesso Pinder fa un tentativo di ampio respiro e stimolante, sebbene egli non resista completamente alla seduzione dell’avventurosa mistica dei numeri. Anche la statistica è in sé una scienza massimamente esatta; eppure, com’è noto, la maggior parte delle statistiche risentono di gravi fonti d’errore, che talvolta sembrano oltremodo impossibili da evitare del tutto. Ma queste alla fin fine sono dettagli. Laddove Pinder, nel raggruppamento e nell’interpretazione, trascinato dall’entusiasmo del pioniere, ha osato eccessivamente, la ricerca futura opererà le opportune correzioni. Per noi è più importante l’idea fondamentale secondo cui la legge della generazione sarebbe una legge specificamente europea, poiché rappresenta una legge della trasformazione, dell’impulso attivo al cambiamento, e il fattore della trasformazione sarebbe una costante europea. Sono troppo poco ferrato su ciò che concerne l’arte extra-europea per poter verificare questa affermazione. Ma essa ne ha senz’altro bisogno. Già all’interno della storia dell’arte europea la valenza del concetto di “generazione” è soggetta ai più molteplici cambiamenti, che forse in parte corrispondono ai percorsi dell’arte extra-europea.

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Inoltre, il problema generazionale non deve interessare solo gli artisti, bensì estendersi anche alle arti. «Soltanto chi non comprende ciò che ha rappresentato una cattedrale può credere che al giorno d’oggi sia mai possibile qualcosa di simile, e cioè un’architettura come linguaggio naturale e sacro». Certamente oggi si costruisce ancora; e nell’alto Medioevo si faceva musica. Ma il linguaggio architettonico odierno ha perso in valore e potenza, mentre «la musica di allora era innanzitutto solo arte applicata, ornamento udibile al servizio della cattedrale». L’architettura antica era un’opera della comunità. «Ciò appartiene ad una fase precedente dell’umanità. La sinfonia può essere solamente l’opera di un singolo che parli in nome di tutti, accogliendo in sé stesso tutti gli altri. Ciò appartiene a una fase successiva dell’umanità»100. Così emerge una successione di architettura, scultura, pittura e musica, come arti che dominano l’una dopo l’altra (esistendo però contemporaneamente), una strada che conduce dall’inorganico all’organico, dallo spaziale al temporale. Tra l’architettura che nasceva un tempo pura e la musica che lo sarebbe diventata solo successivamente si danno tutte le possibilità di ordinamento del mondo fenomenico. Non si può negare, che in determinate epoche storiche dominino determinate arti. Ed è certamente a partire dal carattere di queste epoche storiche che si deve comprendere perché esse curino determinati ambiti culturali in modo eccellente e ne trascurino altri. Ora, per ciò che concerne il rapporto tra i singoli ambiti culturali, certamente entrano in gioco fattori di sviluppo immanente troppo poco studiati. Già solo per questo le indicazioni di Pinder sono preziose. E il ritmo da lui ipotizzato è in una certa misura illuminante per l’innovativo decorso occidentale dell’arte. Deve però avere validità assoluta? In tutti i casi? Oppure siamo forse pervenuti con la musica a una triste fase conclusiva, che conosce solo un passato e nessun futuro? Oppure il decorso periodico inizia daccapo? Ci troviamo quindi dinnanzi ad una nuova fase dell’architettura? Con ciò il problema della periodicità diventa scottante; e quindi sarà l’ultimo di cui ci occuperemo nel contesto di questa trattazione. 17. Il problema dell’ineliminabile periodicità ha per molti ricercatori qualcosa di tremendamente affascinante. In questo contesto, l’obiezione secondo cui, in virtù di questa periodicità, la storia verrebbe semplicemente meno, non spaventa; in cambio delle vacillanti insicurezze si darebbe infatti l’orgogliosa esattezza dell’astronomia, con le sue previsioni, e la perfetta conformità a leggi delle scienze naturali. Logicizzazione e naturalizzazione s’incontrano in questo punto, e ci si spinge fino a sperare che si possa non solo prevedere i decorsi stilistici generali, ma anche i livelli di valore delle opere d’arte delle singole epoche. Per alcuni periodi, infatti, una grande arte è impossibile, per altri necessaria. Solo pochi, però, hanno chiaro il significato autentico del concetto di “periodicità”. Se si tratta, a riguardo, di una costruzione metafisica (ad esempio quella nietzscheana dell’eterno ritorno), 100 [Citazioni tratte da W. Pinder, op. cit., pp. 25, 21, 14, 111, 112.]

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la ricerca specialistica deve tenersene lontana. La periodicità deve poter esser documentata da “serie di fatti”. Posso assumere, però, che tutte le serie di fatti le ubbidiscano? Credere ciecamente a tale ipotesi non sembra affatto lecito. Se prendiamo congedo da un tale dogmatismo, rimane il problema delle periodicità nella forma di concetti-guida euristici, in base al cui intreccio si deve cogliere ogni momento storico. Nessun ricercatore serio pensa che il Rococò antico e quello moderno siano la stessa cosa; appellandosi al ritorno di tendenze simili e spiegando perché queste tendenze ritornino in questa determinata maniera, egli cerca soltanto di interpretare l’affinità che qui domina al di là di tutte le differenze. In ogni caso, non si deve cercar di dissolvere l’elemento individuale in quello generale, bensì, al contrario, si deve penetrare opportunamente l’elemento individuale con l’aiuto di quello generale. Se però domandiamo come si possa giungere, in linea di principio, a quella misteriosa ritmazione, non c’è che una risposta, quasi triviale: ciò si radica nella natura dell’uomo e dell’arte. Situazioni artistiche simili sollevano problemi artistici simili, e uomini simili, posti di fronte a situazioni simili, prendono decisioni simili. Nel caso compaia una decisione del tutto anomala (ed è un’evenienza di cui bisogna sempre tener conto), ci si può tranquillizzare pensando o che le situazioni erano simili solo in apparenza, oppure che nella scelta della decisione furono preponderanti altri fattori. Ed è proprio perché le nostre aspettative relative alla periodicità vengono deluse che noi siamo indotti a ricercare le cause di quella deviazione. Ora, condizioni quasi uguali operano nello stesso senso, di modo che si viene a creare la tendenza a istituire cerchie sempre più ampie di regolarità. Si continua così fin tanto che l’analogia tra rapporti non venga interrotta da influssi perturbanti. La perturbazione stessa, però, può a sua volta avere carattere tipico. Possiamo forse giustamente parlare di una periodicità molteplice, in corrispondenza da un lato alla molteplicità dei fattori di sviluppo, dall’altro alla loro interazione. Proprio per il fatto che può trattarsi di periodicità molteplici, si dovrà rinunciare fin dal principio al tentativo di voler avvolgere tutto in un’unica periodicità. Dal momento che è questa molteplicità ad essere qui in gioco, è da escludere anche il ritorno dell’identico. Poniamo che due opere appartengano al medesimo livello di una certa periodicità – supponiamo quella culturale: la loro posizione all’interno delle altre periodicità non sarà certo matematicamente la stessa. Grazie a questi sforzi, tuttavia, riusciamo a coniare concetti-guida della scienza dell’arte: essi «devono esser definiti in quanto dotati di un determinato contenuto qualitativo e al contempo in quanto elementi perturbatori del decorso storico dello sviluppo artistico. Introducendo delle variabili indicate da un punto posto sulla serie dello sviluppo qualitativo, la storia assegna a quel decorso una specifica determinazione spazio-temporale»101. 101 R. Hamann, Die Methode der Kunstgeschichte und die allgemeine Kunstwissenschaft, in

«Monatshefte für Kunstwissenschaft» 9 [1916, pp. 64-78, 103-114, 141-154].

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In tutte queste indagini (che non sono progredite un granché nonostante il lavoro compiuto, dal momento che si è continuato a sottovalutare la loro complessità a causa di un metodo precipitoso e semplicistico), si deve tener presente che, nella scienza dell’arte, la teoria stilistica non può mai essere fine a se stessa. L’arte non consiste in stili, ma in opere d’arte; e queste ultime costituiscono il primo e l’ultimo oggetto di ogni indagine artistica genuina. Sono del tutto d’accordo con Friedrich Kreis quando afferma che la storia dello stile ha come proprio oggetto più l’irreale costrutto di senso dello stile che la reale opera d’arte: «Questo metodo è davvero storico solo se mette in relazione il costrutto di senso irreale dello stile con la realtà culturale storica delle opere d’arte»102. Tuttavia, anche una teoria sistematica dell’arte (che certamente è scienza della legalità dell’arte) non dev’esser colta come teoria stilistica, come legalità stilistica, bensì come legalità concernente le opere d’arte, e come legalità stilistica solo nella misura in cui quest’ultima è necessaria alla prima. Tutti i concetti stilistici ricevono dunque la loro legittimazione, giustificazione e dimostrazione dalle opere d’arte, e devono dunque esser resi comprensibili a partire dalla configurazione delle opere d’arte stesse. È dunque preoccupante che la fondamentale teoria (che io ritengo centrale per la scienza generale dell’arte) dell’oggettualità dell’opera d’arte riceva un’attenzione relativamente modesta. Se consideriamo l’opera d’arte come una unitas multiplex, la cui legalità può esser compresa solo tramite l’inaggirabile collegamento di diversi presupposti (categorie) assolutamente indispensabili, la relazione con la teoria stilistica diventa senz’altro evidente, e con essa la relazione con l’elemento storico, che non può essere introdotto un po’ a caso nella sistematica. Desidero soltanto fornire, brevemente, tre esempi, rimandando per il resto ai miei lavori. Un necessario presupposto di qualsivoglia oggettualità artistica è il materiale. Nessuna configurazione può realizzarsi in un nulla. L’arte però non può decidere quali materiali si diano, ma solo se essi siano artisticamente idonei. Il rinvenimento di materiali (ad esempio l’estrazione del marmo, o l’invenzione della porcellana o del calcestruzzo) come materiali artistici è un avvenimento storico, possibile soltanto in determinate condizioni. Questo punto di vista sistematico, così, rinvia già all’elemento storico, e quindi a quello stilistico. Presupposto ulteriore e necessario dell’oggettualità artistica è lo strato d’essere, di cui abbiamo già parlato. Senza un qualche strato d’essere, un’opera d’arte non potrebbe mai condensarsi in una realtà, e nemmeno raggiungere una sua propria unità. Ma l’effettiva comparsa di determinati strati d’essere diventa comprensibile solo tramite lo stato dell’arte, tramite il complessivo rapportarsi di una cultura alla vita e al mondo. Così si determina, a sua volta, il punto di partenza sistematico dei concetti stilistici storici. Ed ora l’ultimo esempio: i problemi formali sistematici dell’arte possono comunque realizzarsi solo in un determinato decorso storico. In che misura questa effettività storica corri102 [Fr. Kreis, Der Kunstgeschichtliche Gegenstand, cit., p. 44.]

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sponde alla costruzione sistematica delle serie? E come si può capire se questa corrispondenza sussista o meno? Sostenere, semplicemente, che lo sviluppo si svolge da ciò che è più primitivo a ciò che è più complesso, non vuol dir nulla. Infatti, dal punto di vista sistematico è certamente più semplice una singola sensazione che una figura; dal punto di vista dell’effettività, però, è più semplice il fare esperienza di strutture semplici che non osservare singole sensazioni. Colui che, per timore dello psicologismo, indietreggia dinnanzi alla psicologia, o piuttosto dinnanzi al fattore psicologico, non è adatto a fare lo storico, e nemmeno lo storico dell’arte. Non deve affatto temere il dissolvimento nell’elemento psicologico chi è conscio del fatto che il punto centrale è sempre l’indiscutibile oggettività dell’opera d’arte, la concreta oggettività della sua configurazione formale. In questo caso, non si tratta certamente più di psicologia. Se ci si è lamentati del fatto che nel XIX secolo le discipline storicoartistiche si siano in fondo occupate così poco di arte, dobbiamo altresì dire che nel XX secolo si è verificato – in un’esagerazione paradossale che, tuttavia, ha un fondo di verità – pressappoco il contrario: si è parlato talmente tanto di “arte”, che si è persa di vista l’unica realtà, quella dell’opera d’arte e dell’artista. Detto altrimenti: spesso la teoria indirizzava verso quel grado di generalità che il ricercatore puntualmente confutava in virtù dell’hic et nunc, e cioè ogni qual volta egli penetrava nei recessi più intimi della singola opera d’arte e del singolo artista. Oggi assistiamo invece ad un’ampia svolta in direzione dell’ontologia, della realtà piena103. E questa svolta s’impossessa a vista d’occhio anche della scienza dell’arte. L’“essere” dell’opera d’arte diventa ora un sistema stabile di riferimento: esso solo garantisce un universo di concetti che salvaguarda tanto i diritti della teoria oggettiva quanto quelli del fattore storico. Non voglio spingermi fino a quanto sostenuto da Max Dessoir, che afferma: «In tutta la sistematica dell’arte non si trova un’unica proposizione che non sia anche storica»104. Credo invece che, purtroppo, all’interno della sistematica gli elementi scevri di fattori storici abbiano finora giocato un ruolo troppo grande, e che nella maggior parte dei casi l’elemento storico abbia mandato in frantumi quello sistematico, o viceversa. Ma anche nel senso di un’esigenza ideale, quel principio non può avere validità generale. Ad esempio, chi spiega lo strato d’essere come un presupposto ineludibile dell’oggettualità artistica, certo non intende con ciò nulla di storico. In ogni caso, però, si indicano così (come abbiamo visto) compiti della formazione dei concetti storici. Sotto questo punto di vista, concordiamo con quella concezione. La fondazione sistematica deve allo stesso tempo dischiudere e, con ciò, giustificare, tutte le possibilità della costruzione di serie tipica della storia. Solo così essa si legittima da sé, dal momento che solo così si dimostra idonea a render conto della realtà dell’arte e dell’artista. Quanto questo movimento, al giorno d’oggi, sia pro103 Si veda il mio Die Überwindung des Expressionismus, 1927 [cit.]. 104 [M. Dessoir, Kunstgeschichte und Kunstsystematik, in Id., Beiträge, cit., p. 64.]

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gredito, quali ostacoli lo abbiano minacciato e continuino a minacciarlo, quali difficoltà patisca e in che maniera si appresti a superarle: la nostra relazione ha cercato di delineare tutto questo. Si tratta, in fondo, dell’emergenza dell’elemento storico, che non implica una ricaduta nello storicismo nonostante la salvaguardia della teoria sistematica (o proprio grazie ad essa), che non strozzi l’elemento storico, bensì lo esige in tutta la sua libertà essenziale, legittimando così in senso pieno una storia dell’arte che pone l’accento su entrambi i termini: arte e storia.

Indice dei nomi

Abbate, F., 161 Abelardo, P., 28 Alberti, L.B., 173-174, 177 Alighieri, D., 71 Amoroso, L., 49 Arcesilao di Pitane, 29 Aristotele, 50 Arnaud, E., 11, 193 Avison, Ch., 75 Bach, J.S., 71, 75 Bachmann, C.Fr., 8 Baensch, O., 133 Baerwald, R., 33 Baeumler, A., 157, 159-160 Banfi, A., 19, 185 Basch, V., 20 Baumbusch, B., 202 Baumgarten, A.G., 78, 159-160, 167 Bayle, P., 28 Benda, O., 189 Benesch, O., 190 Bettini, S., 107 Beyer, C., 76 Birnbaum, K., 202 Böhm, W., 167 Born, B. de, 66 Boyer, B.B., 28 Bredekamp, H., 22 Brentano, Fr., 21 Breysig, K., 68 Brigthman, E.S., 19

Brinckmann, A.E., 209-211 Britsch, G., 168, 170-171 Brittnacher, H.R., 46 Bueck, O., 63 Bullough, E., 72 Buonarroti, M., 66, 199 Burckhardt, J., 191, 197 Buschendorf, B., 22 Busoni, F., 194 Busse, K., 73 Calabrese Conte, R., 183 Caracalla, 108 Cassirer, E., 11, 22, 64,174-175, 193-196 Castellani, E., 173 Cepl, J., 121 Cione, E., 160 Clitone, 92, 168 Codignola, E., 64 Cohen, H., 61 Cohn, J., 35, 38, 89 Cometa, M., 74 Conrad, W., 12 Conte, P., 23 Corduas, S., 11 Crescenzi, L., 174 Croce, B., 162, 179 Cysarz, H., 196 Dalai, M., 16 Dann, O., 46 De Marchi, C., 46

218 De Nicola, P., 83 De Paola, G., 161 Democrito, 50 Dessoir, M., 7, 10-15, 19-21, 23, 27, 45, 48, 59, 84, 158, 182, 191, 215 Di Carlo, C., 170 Dilthey, W., 18, 27-28, 183-187, 190, 197 Distaso, L., 20 Dittmann, L., 8 Dorfles, G., 44 Droetto, A., 56 Drost, W.,184, 193 Dürer, A., 22, 83, 92, 174 DvoĜák, M., 22, 63, 99, 190-192 El Greco, 62 Emery, S.A., 7 Eulenburg, Fr., 64 Eusebio, L., 60 Everth, E., 183, 196 Farina, F., 7 Fechner, G. Th., 48, 157, 161-162 Federici, F., 175 Ferretti, S., 22 Fertonani, R., 173 Fiedler, K., 8-10, 16, 18, 20, 8284, 91, 157, 162-168, 175, 179 Filippini, E., 16 Forlati Tamaro, B., 107 Formaggio, D., 19-20 Frank, G., 11, 61 Frankl, P., 121, 138, 140-145, 147-148, 175, 179-182, 187, 200 Franzini, E., 20 Freud, S., 202-203 Frey, D., 190, 192 Freyer, H., 194 Friedländer, M.J., 154

Indice dei nomi

Früchtl, J., 7 Gadamer, H.G., 18 Gandolfi, M., 202 Gantner, J., 173 Gardini, M., 12 Gaupp, R., 202 Geiger, M., 12 Gentile, G., 56 Gentilini, L., 30 George, S., 88 Gesemann, G., 202 Ghelardi, M., 160 Giannantoni, G., 28 Givone, S., 78 Glaser, C., 72 Goedecke, K., 46 Goethe, J.W., 14, 44, 54, 59, 70, 75, 154, 167, 173-174, 179, 185, 198-199 Gogol’, N.V., 202 Goldschmidt, A., 22 Gundolf, Fr., 203 Gurisatti, G., 11, 61 Hamann, R., 59, 62, 65, 213 Hartung, F., 22 Hauser, A., 16 Haydn, F.J., 194 Hegel, G.W.Fr., 7, 13, 39, 56, 64, 78, 132, 159, 167-168 Heidegger, M., 18, 22 Heidrich, E., 197 Henckmann, W., 8, 21 Herre, P., 63 Herrmann, H., 75 Herrmann, M., 65 Hettner, H., 8 Heuß, A., 75 Hildebrand, A. von, 8, 162-166, 173, 175

219

Indice dei nomi

Hoepfner, K.A., 15 Hoernes, M., 73 Holly, M.A., 22 Husserl, E., 12, 22, 132 Jachmann, G., 162, 165 Jahn, J., 8, 175 Jantzen, H., 197 Janz, R.-P., 46 Jaspers, K., 202 Jelles, J., 56 Kahlert, A., 13 Kainz, Fr., 189 Kant, I., 18, 41, 45, 49, 52, 56, 74, 77, 80, 82, 84, 88, 91, 96, 124, 137, 144-145, 154-155, 158160, 163, 168 Katz, D., 62 Kleist, H., 203 Klibansky, R., 19 Konnerth, H., 9, 162 Körner, C.G., 45 Kornmann, E., 168 Kreis, Fr., 157, 187-188, 190, 214 Kretzschmar, J., 73 Krois, J.M., 22 Kroll, Fr.-L., 21 Külpe, O., 48 Lamprecht, K.,68, 73 Landsberger, F., 171 Lange-Eichbaum, W., 200 Leonardo da Vinci,172, 174, 177, 202-203 Lessing, G.E., 74 Leucippo, 73 Liebert, A., 155 Lipps, Th., 52, 53, 89,157, 162 Locher, H., 15 Lombardo-Radice, G., 56 Lutero, M., 198

Malipiero, G.F., 116 Manet, É., 161 Marchioro, F., 160 Marées, H. von , 8, 82, 88, 163 Marpurg, Fr.W., 75 Martin, L., 33 Marziale, 154 Mathieu, V., 56 Matteucci, G., 23, 184 Mattioli, E., 19 McKeon, R., 28 Mehring, R., 21 Meinong, A., 12 Menzer, P., 155 Merker, N., 7, 78 Möbius, J., 27-28 Mocchi, N., 23 Montanari, A., 160 Moog-Grünewald, M., 7 Mozart, W.A., 194 MukaĜovský, J., 11 Müller-Freienfels, R., 7 Munro, Th., 7, 20 Münsterberg, H. von, 76 Musatti, C.L., 203 Muthesius, H., 59 Neri, G.D, 16, 20, 24 Neumann, C., 197 Nicco Fasola, G., 144 Niemann, W., 67 Nohl, H., 185-186 Odebrecht, R., 180 Oppenheimer, Fr., 64-65 Overhof, O., 196 Panofsky, E., 15-16, 18-20, 2223, 111, 113-114, 124, 144, 146, 149, 157, 160 Paoli, R., 144 Paton, H.J., 19

220 Paul, H., 63, 66 Paulsen, Fr., 30 Peckhaus, V., 15, Pelzer, A., 92 Perucchi, L., 7, 20 Piana, G., 132 Pimpinella, P., 78 Pinder, W., 209-212 Pinna, G., 50 Pinotti, A., 9, 23, 165 Platone, 43, 50, 96, 160 Podro, M., 16 Policleto, 92, 168 Prinzhorn, H., 170 Protagora, 28 Racinaro, R., 197 Rampley, M., 19 Rank, O., 159-160 Ravera, M., 183 Reale, G., 50 Rembrandt, H. van Rijn, 17, 97, 98, 110, 132-133, 135 Rickert, H., 68, 76, 190 Riegl, A., 15-17, 99, 107-115, 118, 120, 122-123, 135, 175, 191 Riehl, A., 74 Rilke, R.M., 83 Ronga Leoni, M. T., 107 Rose, H., 170 Rossanda, R., 9 Rothacker, E., 175 Rückert, F., 76 Ruhmor, K.Fr., 154 Russo, A., 28 Russo, L., 72 Salis, A., 119 Sanna, G., 64 Santoni, A., 92

Indice dei nomi

Saxl, Fr., 22 Scaramuzza, G., 7, 19-20, 23 Schäfer, H., 128 Scheler, M., 197 Schering, A., 67, 196 Schiller, Fr., 45-46, 50, 53, 77, 154, 160, 167 Schissel von Fleschenberg, O., 63 Schlosser, J. von, 22 Schmarsow, A., 15, 59, 66 Schmoller, G., 60 Schneider, K., 202 Schneller, Ch., 64 Schreker, F., 116 Schweitzer, B., 144 Sciolla, G.C., 16 Scolari, E., 161 Scotti, M., 162 Scrivano, F., 9, 165 Segre Rutz, V., 9 Semper, G., 110, 191 Senofonte, 91-92, 168 Sesto Empirico, 28 Shakespeare, W., 85 Simmel, G. , 12, 18, 27-28, 134, 184-186 Simone, G., 16 Socrate, 91, 168 Spengler, O., 183 Spinoza, B., 56 Spitzer, H. , 8, 84 Spranger, E., 74, 183 Stein, A., 183 Sternheim, Fr., 185 Strich, W., 183 Strindberg, A., 202 Strzygowski, J., 22, 138-140 Svoboda, K., 21 Taine, H., 191 Tedesco, S., 16, 78

Indice dei nomi

Thiel, Ch., 15 Thoma, H., 92 Tietze, H., 60, 106, 111-112, 196 Troncon, R., 44 Tureli, I., 21 Unger, R., 188-189 Utitz, E., 8, 11, 14-15, 18-19, 21, 23, 59-60, 77, 155, 183 Van der Weyden, R., 150 Van Gogh, V., 202 Vischer, Fr. Th., 13, 31 Vöge, W., 2 Volkelt, J., 13, 30, 61, 89, 162 Waetzoldt, W., 197 Wagner, R., 10, 67, 194 Wahle, R., 28 Walzel, O., 187 Warburg, A., 15, 22 Weisbach, W., 187 Weisse, Ch.H., 13 Werner, A., 15 Wickhoff, Fr., 175, 191 Wind, E., 8, 12, 15-19, 22-23, 105, 137, 152 Windelband, W., 68, 76 Wobbermin, G., 74 Wölfflin, H., 15, 105, 109, 119, 138, 144-146, 148, 165, 171177, 179-182, 185-187, 189, 209 Woodfield, R., 21 Worringer, W., 11, 61, 181 Wulff, O., 59, 69 Zaccaria, 76 Zecchi, S., 183 Ziegenfuȕ, W., 198 Zimmermann, R., 8 Zola, É., 161

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